Moonlight

di Miss Demy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chi sei? ***
Capitolo 2: *** Voglio solo vederti felice! ***
Capitolo 3: *** Scelte obbligate ***
Capitolo 4: *** Vieni via con me ***
Capitolo 5: *** Addormentarsi al 'chiaro di luna' ***
Capitolo 6: *** La triste realtà ***
Capitolo 7: *** Emozioni (prima parte) ***
Capitolo 8: *** Emozioni (seconda parte) ***
Capitolo 9: *** Un tesoro chiamato Usa ***
Capitolo 10: *** Non lasciarmi andare... ***
Capitolo 11: *** Promesse da mantenere ***
Capitolo 12: *** Solo noi due ***
Capitolo 13: *** Mezze verità ***
Capitolo 14: *** L'ultima possibilità ***
Capitolo 15: *** Amore, odio e compromesso ***
Capitolo 16: *** Moonlight - La storia nella storia ***
Capitolo 17: *** Saluti finali ***



Capitolo 1
*** Chi sei? ***


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Cap.1: Chi sei?

 

   

 

Questa che sto per raccontarvi è la mia storia. Credo che abbia dell’incredibile - e non perché sia la mia, ma - per gli eventi che si sono verificati, travolgendomi, cambiandomi del tutto.
Tutto accadde l’anno scorso…

 


13 Novembre.
New York City, Time Square. Ore 9.00.

New York City, la città che non dorme mai, la città mai stanca del caos e della frenesia anche quella mattina dava il meglio di sé.
 
I marciapiedi dell’East Side erano come al solito super affollati da una moltitudine di persone:
Manager intenti a parlare al telefono cellulare senza perdere il ritmo spedito, azionisti che nei loro abiti firmati si dirigevano verso Wall Street in ansia di sapere le ultime sul  Dow Jones, donne che si avviavano verso la Fifth Avenue per una colazione da Tiffany. E poi c’ero io.
 
Io che, sebbene i rumori dei clacson e degli elicotteri che sorvolavano il cielo limpido e sereno provassero a tenermi sveglio, sentivo ancora gli occhi pesanti e le palpebre che a stento riuscivano a rimanere alzate. Ero stanco. Quella mattina la sveglia non era suonata e, appena aperti gli occhi, notando che le lancette segnassero le 07.40, ero dovuto saltare giù dal letto cercando di prepararmi e uscire di casa in meno di dieci minuti.
Nonostante il sole fosse alto nel cielo, nonostante io riuscissi a sentirlo pizzicare e riscaldare piacevolmente il mio viso dal leggero vento che soffiava e spettinava i miei capelli neri, mi sentivo a pezzi.
Sentivo ancora tesi i muscoli delle spalle per il fatto che avevo passato la notte chino sul portatile a scrivere il primo capitolo del mio nuovo libro intitolato ‘Le donne, l’Amore e New York’, andando a dormire soltanto alle 4.00 con gli occhi che ormai quasi lacrimavano.
Quella notte era stata micidiale per me: una delle peggiori in assoluto.
Avevo provato a concentrarmi per trovare l’ispirazione ma proprio non ci ero riuscito.
Il mio problema era che io di donne non ne capivo niente. L’unica donna della mia vita era mia madre, donna di altri tempi, non adatta al genere di domande e risposte che cercavo per la stesura del mio libro: un libro che doveva illustrare la condizione della donna newyorkese, l’emancipazione in persona, in relazione all’amore, sempre se nella City quel sentimento tanto noto esistesse ancora o fosse effettivamente soltanto una leggenda metropolitana.

Non è che io non avessi mai creduto nell’amore, anzi, a volte, in determinate circostanze in cui ero triste, dispiaciuto, sconfortato, mi sarebbe piaciuto avere una donna che mi stesse accanto e che mi capisse, una con cui potermi sfogare e da cui poter trovare conforto.
Così come nei momenti di gioia, quando ero felice, quando volevo condividere quegli attimi di entusiasmo, sarebbe stato bello farlo con una ragazza che mi amasse e gioisse con me. Per me.
Il problema era che quella era NYC, la città dalle mille opzioni e dalle molteplici tentazioni in cui nessuno credeva più all’Amore. Esso non serviva, si poteva benissimo avere tutto ciò che si volesse senza compromessi, senza rinunce, senza litigi e nervosismi che ne sarebbero derivati, senza delusioni in caso di rotture; insomma, senza complicazioni.
 
Sarà stato perché inizialmente, provenendo da un Paese molto differente dal Nuovo Mondo come Tokyo, avevo problemi ad inserirmi, sarà stato che trovare l’Amore a NYC era peggio di trovare un ago in un pagliaio; sta di fatto che, adattatomi ai ritmi della City, a ben venticinque anni mi ero ritrovato a non aver mai avuto una ragazza ma semplicemente molte avventurette;storie di una notte e basta.
 Il fatto che tutte le ragazze mi considerassero di ottima presenza, attratte dai miei occhi blu e arrendevoli ai miei addominali scolpiti, di certo, aveva influito moltissimo sulla mia autostima dando di me persino l’immagine di latin lover, cosa che in realtà non condividevo.
Avevo sempre creduto nei valori e nei buoni sentimenti ma le persone con cui avevo sempre avuto a che fare fino a quel momento, evidentemente, no, tanto da indurmi a non fidarmi del prossimo; meno che meno delle donne.
 
Quando avevo dieci anni, fui costretto a lasciare Tokyo a causa del lavoro di mio padre che, noto chirurgo di fama internazionale, aveva trovato un’opportunità unica nella Grande Mela.
New York, una Città, La Città che non era mai stata mia fino in fondo, che non lo sarebbe mai stata probabilmente, ma a cui sentivo di appartenere da sempre.
 


Avevo da poco lasciato la RoseEdition, una se non la più famosa casa editrice newyorkese per cui lavoravo da ormai un anno, situata all’interno di un maestoso grattacielo dell’Upper East Side, e le parole del mio editore risuonavano ancora nella mia mente:
“Voglio il libro pronto il prima possibile, Marzio Chiba, siamo intesi? Non farmi pentire di averti concesso un grosso anticipo! E ricorda, sull’argomento non si discute!”

Un periodo indefinito ma che si preannunciava infernale, un arco di tempo in fin dei conti non troppo lungo per trovare e mettere nero su bianco informazioni, notizie, risposte; per scrivere un libro che conteneva quello che per me era un argomento enigmatico: l’Amore.
Non potevo oppormi, dato che il lavoro era coperto dall’opzione sul secondo libro. Mister Taiki mi considerava un bravo autore già da parecchio tempo; quando presentai tempo addietro il mio manoscritto ‘Odore di ciliegi in fiore’, ne era rimasto così colpito e così entusiasta, non solo da pubblicarlo ma da concedermi l’opzione per la scrittura di un secondo libro.

E così, pensando e ripensando al mio – appena concluso - incontro col boss, mi avviavo a passo svelto con la valigetta di cuoio contenente il mio notebook Apple,  al Crown, la caffetteria del mio amico Moran, dove mi fermavo spesso per scrivere, dove riuscivo a trovare sempre l’ispirazione.
Il Crown non era un semplice locale in cui bere caffè americano o mangiare ciambelle glassate; il Crown era il luogo in cui molti letterati, scrittori e giornalisti si fermavano per trovare la concentrazione per il proprio lavoro.
Un luogo molto accogliente, dall’arredamento moderno, confortevole e rilassante.
 
A Moran mi lega un’amicizia che dura ormai da quattordici anni. Fu il mio primo vicino di casa quando arrivai negli USA; ai tempi non conoscevo nessuno e lui mi è sempre stato accanto. Quando ero triste e mi sentivo escluso, solo, senza rapporti sociali, fu lui che mi presentò le sue amiche e amici, facendomi sentire parte del gruppo.
Quando per non gravare sui miei genitori, compiuti diciotto anni, decisi di prendere un appartamentino tutto mio, fu lui che, proprietario del Crown, mi diede un impiego per far quadrare i conti fino a quando i sacrifici della mia laurea in giornalismo non diedero i loro frutti. Solo qualche anno dopo si trasferì al piano superiore del locale. Non dista molto dal mio appartamento ma il nostro tempo libero, per gli impegni lavorativi, si è ridotto e così ne approfitto per scrivere nel suo locale; è un modo per trovare concentrazione e rivedere anche un caro amico.

Svoltato l’angolo, mi ero ritrovato davanti al suo locale, sotto l’insegna ovale arancione sulla quale in blu era impresso il nome della caffetteria. Scorgendo alla mia destra, dalla vetrata, lo intravidi mentre si affrettava a servire un vassoio con dei muffin a due signori in giacca e cravatta seduti su uno dei tanti divanetti in pelle beige. Quando alzò gli occhi, dal tavolo su cui aveva appena posato i due piattini, mi notò e distese la fronte in segno di gioia. Un sorriso si palesò sul suo viso. Gli feci cenno con la mano e ricambiò il mio saluto con un occhiolino.

Ero ancora distratto dal mio amico biondo quando improvvisamente sentii un peso al busto, una pressione così intensa che mi costrinse a voltarmi fino a farmi accorgere che qualcuno mi era venuto addosso, urtandomi.
Abbassai lo sguardo e lì, sul marciapiede di Time Square, notai una ragazza dai lunghi capelli color dell’oro raccolti in due lunghissimi codini, tanto da sfiorare persino il pavimento su cui era caduta.
Continuava a tenere la testa bassa; alcuni oggetti erano fuoriusciti dalla sua borsa di pelle grigia ma non se ne curava, continuava a strofinare le mani diafane sulle ginocchia coperte da un paio di jeans.
Per un attimo temetti che si fosse fatta male, mi sentii in colpa.
“Scusami, ero sovrappensiero, spero non ti sia fatta nulla.”
Con fare gentile mi chinai per porgerle una mano. Le ginocchia dovevano farle male e quindi posai a terra la mia valigetta e mi piegai ancora di più per sorreggerle la schiena con la mano libera.
“ Non importa, sto bene, ero distratta anch’io” rispose con un sussurro talmente dolce da sembrare simile ad una melodia che per pochi istanti mi rapì, mentre i suoi occhi azzurri si specchiavano nei miei.
Solo in quel momento, potendola guardare in viso, mi accorsi di quanto fosse incredibilmente particolare la sua bellezza…
I suoi lunghi codini, morbidi e lucenti sotto i raggi di sole, erano simili a due onde d’oro colato che le incorniciavano il viso quasi etereo e le scendevano sul cappotto rosa.
Non avevo mai visto una ragazza che riuscisse a ipnotizzarmi con un semplice sguardo: uno sguardo tenero ma allo stesso tempo triste; i suoi occhi dello stesso colore del cielo di una giornata di primavera erano malinconici, persi nel vuoto, sebbene mi stesse ancora guardando.
La strinsi a me sollevandola da terra e aiutandola a rialzarsi senza fare sforzi sulle ginocchia.
Quel contatto durò pochi secondi. Attimi abbastanza lunghi e intensi per poterla tenere vicina a me, sentire il contatto del suo corpo col mio, percepire il suo caldo respiro a tratti irregolare sul mio collo e inebriarmi del profumo di petali di rosa impregnato nei suoi soffici capelli.

Cos'era quel piacevole calore che provavo nel cuore?
Non l’avevo mai provato prima. Ero stato con alcune ragazze, amiche di Moran che sbavavano per me, ne avevo approfittato, in fondo erano molto belle e seducenti, ma non avevo mai provato una sensazione del genere soltanto guardando una ragazza negli occhi e tenendola stretta a me per così poco tempo.
 In realtà non credevo potesse esistere qualche sensazione così forte da far riscaldare il cuore, eppure, in quel momento, qualcosa dentro di me era nato.
Non l’avevo mai vista prima eppure mi sembrava di conoscerla da sempre, di averla già tenuta fra le mie braccia, di aver incontrato quegli occhi così luminosi e infelici; chissà, magari in un’altra vita, in un universo parallelo, i nostri destini si erano già incrociati.
Rimanemmo uniti qualche secondo. Lei tra le mie braccia, le nostre mani unite, i nostri sguardi attratti e desiderosi di non lasciarsi più; solo dopo, lei prese un respiro profondo e, in imbarazzo per quella situazione in cui il tempo sembrava essersi fermato proprio nella Piazza del Tempo, abbassò lo sguardo.
“Grazie, sei gentile, scusami.”
La sua voce, il tono con cui aveva pronunciato quelle poche parole, confermava le mie impressioni: quella ragazza era davvero triste, forse persino preoccupata.
Lentamente fece scivolare la sua mano calda dalla mia e si allontanò dalla mia stretta. Piano, come se in fondo non lo volesse veramente. Vidi le sue guance colorarsi di rosso mentre aumentava la distanza fra noi.
Si chinò per raccogliere la sua borsa e mettervi dentro il suo cellulare, un’agendina e un mazzo di chiavi, che erano ancora sparsi sul marciapiede.
Fece tutto in fretta, poi si rialzò tenendo la borsa tra le mani e dicendo con un leggero dispiacere:
“Adesso è meglio che vada, scusami ancora.”

Ma perché si scusava ancora? In una città dove le donne sono note come mangia uomini, dove ogni pretesto è buono per attaccare bottone, chi era quella ragazza timida e triste dallo sguardo angelico?
E io, sempre pronto ad approfittare delle ragazze disponibili e carine ma mai a fare il primo passo, perché ero curioso di conoscerla? Di sapere chi fosse? Qual era il motivo della sua tristezza? Io che ero abituato ad avere tutte quelle che volevo, anzi, ad approfittare di tutte quelle che volevano me, perché in quel momento volevo solo continuare a perdermi nel suo sguardo profondo? Perché volevo ancora sentire quella sensazione piacevole di calore al cuore che si diffondeva in tutto il corpo e che soltanto Lei era riuscita in venticinque anni a farmi provare?

“Buona giornata!” disse, con voce quasi da ragazzina timida, mentre si voltava accompagnata dal fluire dei suoi lunghi capelli e lasciando una scia di profumo di rose fresche, proprio come lo era Lei.
Quelle parole, tanto garbate, mi riportarono alla realtà. Una realtà in cui la ragazza dai lunghi codini biondi, dagli occhi azzurri, dal viso dolce e triste, dal corpo snello e tonico, stava andando via da me.
Non mi diede il tempo di risponderle; ancora ipnotizzato da quell’immagine, la vidi allontanarsi sempre di più fino a quando si confuse con la molteplicità di persone che affollavano il marciapiede di Time Square.
Chi era? Non sapevo nulla di lei. Il suo nome qual era?
In una città così grande, sapevo che non l’avrei più rivista. Tale consapevolezza mi strinse il cuore. Era assurdo. Io non ero un quattordicenne, né avevo bisogno di corteggiare le ragazze.
Non ero mai stato un tipo presuntuoso, erano le ragazze a darmi quella sicurezza in me stesso, eppure continuavo ad avvertire un vuoto dentro, come se mi mancasse qualcosa.

Abbassai lo sguardo, rassegnato, e mi diressi all’entrata del Crown.
“Una nuova fiamma?” Moran mi salutò con quella domanda, mantenendo in viso quel sorriso malizioso e allo stesso tempo pieno di curiosità non appena mi avvicinai al bancone.
Cercai di sorridere, tutti mi ritenevano un playboy e, sebbene non lo fossi, io glielo facevo credere.
“La conosci?” riuscii a dire, sperando che l’altro playboy, vero però, potesse togliermi quella stretta al cuore che ancora mi possedeva.
Scosse la testa, dispiaciuto, stropicciando le labbra. E così anche la mia ultima speranza andò in fumo.
“Mi dispiace, non l’ho mai vista, però devo ammettere che era davvero fenomenale!” rispose con una mano sotto al mento continuando a fissare fuori dalla vetrata.
Io e Moran usavamo spesso quei termini che si leggono fra le rime, ma anche quelli più espliciti. Non so il perché ma, in quell'occasione, quel commento mi diede fastidio.
Che cosa stava succedendo? Perché sapere che possibilmente nella sua mente aveva avuto certi pensieri su quella ragazza, mi innervosiva?
“ Come fai a dirlo? Aveva un paio di jeans e un cappotto” risposi, non volevo continuare i commenti, non quella volta.
“ Si vedeva che sotto i vestiti era fenomenale.”
Feci finta di niente e, senza dire nulla, andai a sedermi sul mio solito divanetto in fondo al locale, cercando di non pensarci più, dedicandomi al mio libro.

Iniziai a scrivere per più di mezz’ora, fin quando Moran mi si avvicinò e, poggiando le mani sul tavolino ai lati del mio notebook, propose:
“Stasera al Moonlight?”
La sua, più che una domanda, sembrava un’affermazione.
Spostai gli occhi dallo schermo del monitor guardando il mio amico negli occhi color nocciola diventati maliziosi, mentre il suo classico sorrisetto furbo era ancora palese sul suo viso sbarbato.
Come non essere maliziosi se si parlava del Moonlight?

Esso non era un semplice locale ma luogo frequentato da uomini, dove era possibile guardare le ragazze più belle e desiderate della City ballare in costumi adatti solo a quel genere di night club.
Non era un luogo volgare; le ballerine provavano tutta la giornata, per loro quelle esibizioni erano una vera e propria arte. Arte del sedurre.
Venivano accuratamente selezionate dalla proprietaria del locale, Lady Amy, e vivevano tutte assieme all’interno del Moonlight.
Vi erano regole ben precise. Le ragazze ad esempio non potevano innamorarsi, dovevano lavorare e lasciare una percentuale dello stipendio per coprire i costi sostenuti per il vitto, alloggio e costumi.
Ero andato alcune volte, insieme a Moran, a guardare lo show del luogo che rappresenta un simbolo di NYC, come il Moulin Rouge lo era per Parigi.
Sebbene quel giorno non ne fossi del tutto entusiasta, annuii, riportando lo sguardo sul monitor per riprendere il mio lavoro in quell’attimo di ispirazione.
Moran si allontanò dicendo con tono ironico:
“Alle 23.45, all’ingresso!” e io non potei fare a meno di lasciare uscire un sorriso divertito per la sua euforia.

Continuando a scrivere non mi resi conto che fosse già ora di pranzo, e così, rimasi al Crown a mangiare un cheeseburger; solo dopo lasciai il locale dirigendomi al mio appartamento per recuperare un po’ del sonno perso la notte precedente.
Una volta chiusa la porta d’ingresso alle mie spalle, il salone era al buio completo, le serrande ben abbassate non lasciavano filtrare nessuno spiraglio di luce. Non accesi la lampada posta accanto all’ingresso; in fondo, il grigiore che rivestiva l’intera casa era rilassante per i miei occhi stanchi.
Mi sedetti sul letto, lasciandomi cadere all’indietro fino a sprofondare la testa sul fresco cuscino in piuma d’oca.
Nel silenzio della mia solitudine, ceraci di chiudere gli occhi e riposare un po’.
Fu, però, proprio la solitudine che si avvertiva che mi fece tornare in mente quello sguardo malinconico incorniciato dai capelli dorati e fluenti.
“Chi sei? Qual è il tuo nome? Dove posso trovarti, angelo mio?”, erano le uniche parole che continuavo a ripetere dentro la mia mente, sempre più cariche di disperazione.
Pensavo al suo sorriso forzato, pronto a celare la tristezza che le leggevo negli occhi grandi, azzurri e cristallini.
Occhi che parlavano al posto della bocca.
Una bocca con delle labbra carnose e rosee tutte da baciare. Non con violenza, però, con dolcezza, come un conforto, per donarle quella serenità di cui ero convinto avesse bisogno.   
“Ma cosa mi sta succedendo?” pensai, notando che era la prima volta che una ragazza riuscisse a entrare inconsciamente nei miei pensieri, e per di più, senza malizia, senza suscitare in me voglia di possederla ma soltanto di starle accanto e sentirmi di nuovo in pace con me stesso.
 
Con quell’immagine di Lei, mi addormentai. Ricordo ancora che non appena arrivato nel mondo dei sogni, la rividi.
Sembrava simile ad un’essenza. La Suprema Essenza. I suoi occhi erano ancora tristi ma luminosi mentre mi guardava; veniva verso di me con fare seducente, indossando soltanto la biancheria intima che valorizzava le sue curve mozzafiato. Mi sorrideva mentre colmava sempre di più la distanza fra noi, sempre più desiderabile, con un dito proprio sulle labbra carnose e morbide.
Mi svegliai dopo un arco di tempo non definito, con un senso di amarezza e delusione per il fatto che il mio fosse stato solo un semplice sogno. Se il caro Sigmund Freud fosse stato lì con me, mi avrebbe detto che era la soddisfazione di un desiderio inaccettabile all’Io, un desiderio che io stesso non accettavo. Aveva forse ragione? Non lo sapevo. Sapevo soltanto che quel sogno aveva appena fatto nascere in me una nuova visione di quella ragazza che probabilmente avrei rivisto soltanto a occhi chiusi. Aveva appena svegliato una parte di me e la voglia di farla mia.
Assecondai me stesso e il mio bisogno di Lei, pensando a quella ragazza che era riuscita, in pochi secondi, a scuotere tutte le mie abitudini e a farmi provare sensazioni nuove, inaspettate.
La pensai mia, immaginando di giocare con Lei a tutto ciò che l’avrebbe potuta rendere soddisfatta, arrendevole al piacere.


Ore 23.50 East Side - Moonlight.

Le luci gialle attorno all’insegna rettangolare blu erano già accese e, al centro, l’immagine della ragazza di profilo al chiaro di luna sembrava risplendere.
Proprio sotto di essa, le persone in fila erano come al solito numerose. Guardai attentamente finché non riuscii a scorgere una mano che si agitava a mezz’aria per attirare l’attenzione. Con le mani nel mio cappotto nero, sorrisi e feci cenno con la testa al mio amico, cercando di fargli  capire che lo avevo notato. Facendomi spazio tra la gente lo raggiunsi, accorgendomi che non era solo.
“Ti presento Seiya, è un cliente del Crown, l’ho invitato ad unirsi a noi.”
 Sorrisi gentilmente al ragazzo dai lunghi capelli corvini raccolti in un codino e gli porsi la mia mano. Moran riprese, col suo fare euforico mentre strofinava le mani per riscaldarsi dal freddo pungente: “Dice che stasera ci sarà una nuova ballerina, troppo bona!”
“Piacere, sono Marzio” mi presentai e, dentro di me, sperai che la nuova ballerina potesse riportarmi a essere me stesso.

Finalmente, quando arrivò il nostro turno, entrammo, venendo riscaldati dal calore del locale. Le luci erano soffuse, nella penombra era comunque facile notare l’enorme palco sulla sinistra ancora coperto da tende rosse; alla nostra destra alcuni rumori attirarono la nostra attenzione: una bargirl dai capelli a caschetto rossi, vestita soltanto da un vestito bianco completamente trasparente, shakerava alcuni cocktail. La musica in sottofondo intratteneva i clienti in attesa dello show.
Venimmo accolti da due hostess; una era bionda coi capelli lunghi fino al fondoschiena raccolti a mezza coda da un nastro rosso, Marta era il suo nome, e una mora coi capelli sempre lunghi ma neri. Erano molto belle e sensuali nei loro corpetti e nelle loro coulotte che risaltavano le loro forme prorompenti. Ci presero sotto braccio e ci fecero accomodare su delle poltrone di pelle beige in prima fila sotto il palco.
Non c’era che dire, chiunque avrebbe desiderato un’accoglienza di quel genere!
Finalmente mi stavo distraendo, ero tornato me stesso.
Quella sensazione di peso nel cuore era scomparsa grazie alle sccollature vertiginose delle due ragazze.
Ci sedemmo. In attesa che lo show iniziasse, Seiya mi raccontò di essere un assiduo frequentatore di quel luogo. Ci disse che anche lui, come noi, alcune volte aveva approfittato dei servizi del locale: le ragazze, oltre a ballare, infatti, intrattenevano i clienti. Non tutte, però, solo le veterane o quelle che, seppure alle prime armi, riscuotevano maggiore successo sui clienti del locale.
Finalmente lo spettacolo iniziò.

Lady Amy, come al solito, salì sul palco e, davanti alle tende rosse ancora chiuse, salutò e diede il benvenuto ai presenti.
Era una bella ragazza di ventisei anni, con gli occhi blu e i capelli tinti di blu.
Aveva ereditato il locale dopo la morte del padre, gestendolo ormai da quattro anni in modo sublime.
“Stasera ho il piacere di presentarvi una new entry.
È bella, sexy e sa fare impazzire gli uomini per il suo modo di ballare” spiegò con un sorriso carico di soddisfazione, consapevole che anche i clienti avrebbero amato la nuova ballerina,  “signori, vi presento Bunny!”
Il palco divenne buio, giusto il tempo per permettere a Lady Amy di scendere.

Quando le tende si aprirono, nella penombra fu possibile scorgere una sagoma e, quando la musica della canzone Cant’t fight the Moonlight di Lee Ann Rimes partì, le luci si accesero, mostrando una ragazza di spalle con le gambe tenute all’altezza delle spalle.
Iniziò a muovere, a ritmo di musica, i fianchi a destra e a sinistra, attirando l’attenzione sui suoi glutei rotondi e sodi velati solo da un gonnellino blu trasparente.
 
Sotto il cielo degli amanti, io starò con te e nessuno ci starà intorno
Si voltò verso il pubblico già euforico, avanzando sensualmente, con una gamba davanti all’altra e allungando un braccio verso di loro per poi portare la mano chiusa a pugno all’altezza del cuore.
 
Il mio cuore mancò un battito per poi riprendere a scalpitare dentro al mio petto; una sensazione di stupore associata ad una di estrema pace nell’anima mi riscaldò dentro. Immobile. Con gli occhi puntati su di Lei.
“Te lo dicevo che era proprio fenomenale!” Moran con una gomitata sul mio braccio cercò di distogliermi da quel sogno ad occhi aperti.
Non era più un sogno. Era la realtà. Sigmund avrebbe potuto avvisarmi dei così detti sogni premunitori.
 

 Se pensi che non ti innamorerai allora aspetta soltanto che il sole vada giù...

Roteò la testa energicamente facendo sì che i suoi lunghi codini fluissero nell’aria sparpagliandosi in mille fili d’oro per poi riunirsi e ricomporsi mentre Lei, lentamente e in maniera provocante, scendeva sempre più giù sulle ginocchia fino quasi a toccare terra.
 
Deglutii a fatica mentre, sensualmente aprì le gambe per poi richiuderle subito dopo, avvertendo di nuovo quell’irrefrenabile voglia di Lei sotto di me. Mia, soltanto mia per un gioco tutto nostro.
 

Sotto la luce delle stelle c'è una sensazione magica e così giusta che ti ruberà il cuore, stanotte...

Pian piano ritornò in piedi accarezzandosi sensualmente i fianchi per poi far risalire le sue mani sul reggiseno bianco su cui era legato - da un fiocco fucsia - un colletto blu alla marinara.
 
E mentre gli uomini erano sempre più pazzi di Lei, mentre la musica si confondeva coi commenti sempre più volgari dei clienti, io riprovai quella strana sensazione di volerla proteggere da tutti quegli occhi bramosi di Lei. La volevo solo per me.
 

Puoi provare a resistere a nasconderti dai miei baci, ma sai, ma sai che non puoi sconfiggere il ‘chiaro di luna’ (Moonlight).

Distese le gambe e poi le riunì per una piroetta su se stessa che finì con una spaccata. Riportò le gambe unite al petto e distese le braccia fino a toccare coi palmi il pavimento di legno mentre la testa rimaneva all’indietro.
 

Perso nel buio, il tuo cuore si arrenderà; non sai, non sai che tu non puoi sconfiggere il chiaro di luna...
Ti colpirà al cuore!

Si alzò di nuovo, portando un braccio disteso verso il pubblico, poi anche l’altro fin quando unì le mani intrecciando le dita fra loro e lasciando distesi soltanto gli indici; come se volesse veramente colpirli tutti al cuore.
 
Era bella. Maledettamente sensuale ma in una maniera diversa da tutte le altre Moonlight dancers: Lei era ingenua.
Il suo sguardo, i suoi occhi continuavano ad essere malinconici e i suoi movimenti mostravano il suo essere incredibilmente brava a mixare erotismo alla sua dolcezza naturale, rendendola irresistibile.
 

Non importa cosa pensi. Non passerà molto tempo prima che tu venga nelle mie braccia.

Avanzando con le gambe che si incrociavano fra loro tra un passo e l’altro, ondeggiava le braccia ai lati delle spalle, per poi stringerle incrociate al petto.
 
Mi misi comodo, poggiando il gomito sul tavolino alla mia destra e portando la mano destra a sostenermi il mento.
Sperai che si voltasse a guardarmi.
Finalmente mi notò. I nostri occhi si incontrarono per la seconda volta quel giorno.
I battiti del mio cuore ripresero ad accelerare mentre mi accorsi che il suo sguardo era stupito; forse neanche Lei si aspettava di rincontrarmi sotto il magico potere del chiaro di Luna. Non credeva mi avrebbe rivisto al Moonlight.
Non credevo neppure io che il Moonlight avesse potuto sortire in me l’effetto magico di colpirmi al cuore. Eppure era appena successo.
Dato che l’avevo conosciuta, dato che l’avevo rivista, non me la sarei fatta sfuggire. Non volevo sconfiggere il chiaro di Luna, volevo arrendermi a Lei. Volevo conoscerla, sapere chi fosse, perché era triste, come avrei potuto rasserenarla.
Sembravo vittima di un incantesimo d’amore eppure sapevo che era stata soltanto la sua espressione piena di mille parole silenziose a farmi battere il cuore per la prima volta.
Se quella mattina avevo considerato quella ragazza senza malizia, in quel momento rivalutai la mia opinione. La volevo. Solo per me, tutta per me.
La desideravo… e più guardavo le sue curve muoversi sensualmente a ritmo di musica, più la mia voglia di Lei cresceva.
Si voltò nella mia direzione, incontrando i miei occhi.
Arrossì, e sapevo che non era l’effetto delle luci.
Non era abituata a ciò, essendo il suo primo giorno al Moonlight, e poi ero convinto che non fosse neanche abituata ad essere guardata negli occhi. Abbassò lo sguardo, facendo finta di niente, mentre io continuavo a tenere per qualche altro secondo il mio sul suo viso dolce e ingenuo.

Rimasi attratto dai suoi movimenti fin quando la musica finì e le luci si abbassarono fino a rendere buio il palco. Le tende si richiusero velocemente e gli applausi ripresero, insieme a qualche fischio e qualche commento.
E in quel momento? Sentivo che il mio cuore riprovava quella stretta, come quella mattina mentre la avevo vista andare via. Avrei voluto guardarla per ore e ore senza mai stancarmi, avrei voluto prenderla e portarla via con me per trascorrere tutta la notte assieme, forse anche tutta la vita.
Non potevo fingere più con me stesso ripetendomi che fosse una ragazza, una ballerina come le altre; Lei no. Era diversa. Ne ero sempre più convinto.
Sorrisi e, con una stretta al cuore sempre più leggera, pensai:
“Non so ancora chi tu sia, ma almeno adesso so dove trovarti.”
 


Il punto dell'autrice

Seconda revisione del 21/09/'11:
Ho sistemato questo primo capitolo per la terza volta, sperando che ora vada meglio. Spero di poter revisonare anche i sucessivi il prima possibile, ne ha estremamente bisogno, e toglierò i colori a fine capitolo che oramai mi sembra stonino col testo.


Demy

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Capitolo 2
*** Voglio solo vederti felice! ***


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Cap. 2: Voglio solo vederti felice!



“Non so ancora chi sei ma, almeno adesso, so dove trovarti.”
Era l’unica cosa che riaccendeva in me la speranza.
Un barlume di luce che mi conduceva a quella ragazza tanto misteriosa.
A detta di molti poteva essere una qualunque ballerina. Non per me. Per me era la dolcezza, la tenerezza in persona.
Bisognosa d’amore, di attenzioni “pure”.
Continuavo a pensarla mentre lo spettacolo proseguiva e con esso i balli sensuali e provocanti di altre ragazze.
Non le ricordo neanche. Non ricordo neanche i commenti dei presenti.
Dopo Bunny, questo era il suo nome, la mia mente e le mie orecchie si erano offuscate lasciando dentro di me solo e soltanto l’immagine di lei che ballava, che mi guardava, che si sentiva desiderata e se ne vergognava.
Mi alzai, ovviamente Moran era troppo concentrato ad ammirare le ballerine per chiedermi dove stessi andando, e mi diressi verso il retro del palco.
Sapevo che dopo lo spettacolo le ballerine tornavano nei loro camerini per cambiarsi.
Alcune si rivestivano, altre si cambiavano con ulteriori costumi per intrattenere i clienti che lo desideravano.
Altre volte mi ero recato all’uscita dei camerini aspettando le ragazze, ogni volta una diversa, che avrebbero allietato le mie serate facendomi dimenticare lo stress accumulato durante la giornata.
Ogni volta, però, non ero mai stato nervoso, anzi, ero sempre stato tranquillo e rilassato.
Perché stavolta non lo ero? Perché ero titubante? Forse era meglio tornare indietro e lasciare stare la ragazza misteriosa.
Cosa le avrei detto? Non lo sapevo, non capivo neanche perché mi stessi rimbecillendo.
Stavo per tornare indietro quando mi accorsi di Seiya.
Stava venendo verso me, anzi verso il camerino, con aria spavalda e sicura di sé.
Se fosse stata un’altra serata, una delle solite, potrei dire che aveva la mia stessa espressione.
Ma quella volta no. Lui era il playboy in attesa della prossima conquista e io il ragazzo rimbecillito e titubante.
“Hai già scelto anche stavolta su chi fare colpo?”
La sua voce era euforica e piena di sicurezza mentre si appoggiava di schiena alla parete, in attesa che la porta del camerino si aprisse.
Feci cenno di no, con la testa bassa e le mani in tasca poggiato anche io di schiena alla parete opposta, senza svelare i motivi per cui mi trovavo lì. Motivi ben diversi dai soliti.
Non ebbe il tempo di domandare nulla che la porta, su cui si trovava appesa una stella gialla con la scritta Moonlight dancers, si aprì.
Alcune ragazze uscirono dalla stanza in abiti succinti, pronte a farsi corteggiare da chi lo volesse.
Ci sorrisero, in maniera audace.
Ricambiai il sorriso, per educazione, mentre Seiya risultò più cordiale di me.
Ma neanche lui si spinse oltre i saluti.
La porta rimase aperta ed ecco che scorgendovi dentro notai Lei. La mia Lei.
Era rimasta nel suo completino da esibizione in versione sexy Sailor.
Come immaginavo, lei non sarebbe stata una delle intrattenitrici e di ciò ne fui sollevato.
Si avvicinò alla porta, timida e con gli occhi, oserei dire, intimoriti.
Era sola nella stanza e forse era per questo che sembrava avesse quasi paura.
Cercò di chiudere la porta del camerino in modo da poter rimanerne dentro, nella sua intimità.
Seiya, però, portò una mano alla porta, bloccandola e facendo sì che lei non potesse più richiuderla.
Lei indietreggiò, inerme, non sapendo come comportarsi.
Adesso i suoi occhi, spalancati, tremavano. Lo percepivo.
Portò una mano, chiusa a pugno, al petto; sapevo che in quel momento il suo cuore batteva all’impazzata. Almeno, il mio sembrava stesse per uscirmi dal petto.
“Bella biondina, che ne dici di bere qualcosa assieme?” Con voce spavalda, prendendola per un polso, Seiya le si era avvicinato tirandola a sé.
La sua forza fece sì che lei non potesse opporre resistenza e, anche se avesse potuto, sapeva che facendolo avrebbe comportato il suo licenziamento.
Stringendo le labbra e abbassando lo sguardo Lei annuì.
So che in realtà non lo voleva, leggevo la sua paura, la strana sensazione di novità non le piaceva e non piaceva neanche a me.
Mi chiedevo, sapendo come si comportavano le ragazze che lavoravano in quel locale, come mai una ragazza timida e spaventata si trovasse lì?
In ogni caso, non era il momento di porsi domande. Sentivo già ribollire il sangue nelle mie vene notando come Seiya la stringesse a sé, cercando di condurla verso un luogo più appartato del locale.
Ciò che mi sconvolse di più era il modo in cui lei, a testa bassa, si facesse condurre da lui.
Arrivati davanti a me alzai un braccio per bloccare al ragazzo spavaldo il passaggio.
Si fermò di colpo non capendo quali fossero le mie intenzioni.
“C’ero prima io, volevo conoscerla prima io” dissi, guardandolo negli occhi azzurri ma gelidi, in tono di sfida.
Sorrise in maniera beffarda: “La prossima volta, Marzio, pensaci prima!”
Mi guardò, mi sfidò, allontanandosi con lei e baciandole la guancia.
Non riuscii a vedere il suo dolce viso, perché ormai di spalle, ma riuscii ad avvertire i suoi sentimenti.
Paura, tensione. In contrasto ai miei. Rabbia, sensazione di impotenza.
Non potevo fare niente. O forse sì.
Seguì Seiya e, con lui, la ragazza.
Mi distrassi un solo attimo a causa di una voce amica:
“Marzio, tutto solo?” Era Moran, in compagnia di due belle ma diverse ragazze.
Una dal caschetto biondo e l’altra dai capelli mossi e scuri.
Aveva un’aria beata. Come dargli torto.
Moran era davvero un bel ragazzo. Biondo, occhi color nocciola e un’aria da bravo ragazzo. Il classico esempio di come l’apparenza a volte inganna. Non nel senso cattivo ma di certo non era il ragazzo da fiaba, piuttosto era il latin lover della situazione. Gli piaceva divertirsi.
Chi a New York City, all’età di venticinque - ventisei anni, non vorrebbe divertirsi?
Fino a ieri avrei potuto rispondere: nessuno.
Ora, invece, non ne ero più sicuro.
Non credo dipendesse dal fatto che potevo avere tutte quelle che volevo e non accettavo il fatto che Lei mi avesse liquidato in un attimo.
Credo piuttosto che Lei avesse fatto nascere in me sensazioni nuove, inaspettate, che non credevo avrei provato mai.
Come, ad esempio, un enorme senso di protezione verso colei che era così innocente e delicata.
La ragazza dai capelli ondulati, che fino a quel momento era abbracciata a Moran, si avvicinò a me, sensualmente. Poggiò le sue braccia sulla mia spalla e mi sussurrò all’orecchio, con tono malizioso: “Vieni con me?”
Fino a quel giorno non me lo sarei fatto ripetere. In fondo essere desiderato da tante belle ragazze accresceva ancora di più la mia autostima e il mio orgoglio maschile.
“Un’altra volta” risposi, educatamente, allontanandomi dalla sua presa e continuando a seguire l’invisibile filo d’Arianna che mi avrebbe condotto da Lei.
Erano scomparsi dalla mia visuale e la luce soffusa all’interno del locale, poi, non mi aiutava di certo.
Salì le scale ritrovandomi al primo piano dove si trovavano le stanze delle ragazze nelle quali invitavano i clienti, avendo così maggior privacy.
E adesso? Dov’era? Non conoscevo di certo tutte le stanze, tantomeno quella della nuova arrivata.
Ero terrorizzato al solo pensiero che Seiya potesse farle qualcosa contro la sua volontà.
Una ragazza dal caschetto corvino, avrà avuto diciotto anni, si avvicinò a me con aria sensuale: “Vuoi le coccole?”
Sorrisi a quell’età era già così disinibita. Ciò mi fece apprezzare di più la dolce Bunny.
Scossi la testa: “Solo sapere dove trovare Bunny”
La giovane ragazza fece una specie di smorfia, come se, anche se da poco, fosse già abituata a sentire domandare di Bunny.
Indicò col capo la stanza in fondo al corridoio.
Non indugiai un solo un attimo. Ero già davanti la porta della sua stanza.
 
Bussai, con irruenza, con forza, con ansia.
Nessuna risposta. Approfittai del fatto che ero solo in quel corridoio e accostai l’orecchio alla porta. Ebbene sì, volevo origliare.
Nessuno parlava ma sentì il suono della cintura che veniva slacciata. Non poteva essere. Seiya voleva…
Non riuscivo neanche a pensarlo, figuriamoci a dirlo.
Non mi importava delle conseguenze, aprii la porta, o meglio, ci provai.
Purtroppo era chiusa a chiave. Disperazione. Ma perché? Non la conoscevo, non sapevo nulla di lei. Eppure il cuore mi batteva forte se ripensavo al suo sguardo e alla sua dolcezza di quella maledetta-santa mattina.
“Seiya, apri questa porta. Subito. Muoviti!” ripetevo, battendo pugni sulla porta, facendo intendere che avrei continuato finché non mi avesse lasciato entrare.
Il mio respiro si faceva sempre più affannato, la mano iniziava a farmi male. Non mi importava però. Io dovevo proteggerla.
Ed ecco che finalmente mi aprì. Aveva ancora la lampo dei pantaloni aperta e un sorriso da ottengo sempre ciò che voglio.
I miei occhi cercarono subito Lei. La vidi, su un sofà accanto al letto, sdraiata, con gli occhi che avevano appena lasciato scendere le lacrime, tremante. Cercava a testa bassa di ricomporsi, di rialzarsi le bretelline del reggiseno.
“Vuoi unirti a noi?” chiese, beffardo e non curante della situazione, il ragazzo.
Mi voltai verso di lui e, pieno di rabbia, gli diedi un pugno dritto in faccia:
“Cosa le hai fatto, schifoso?”
Sentii Bunny rannicchiarsi su se stessa, la udii piangere.
“Ma sei impazzito?” urlò Seiya, tendendosi la guancia con entrambe le mani.
Lo vidi sferrare un pugno verso di me ma lo precedetti stendendolo a terra stavolta.
“Vattene!” dissi.
Capì che non poteva competere con me e con la mia forza e, alzandosi a fatica, se ne andò.
Chiusi la porta a chiave. Mi diressi verso di lei.
Era ancora rannicchiata, con le gambe scoperte al petto e la testa bassa poggiata sulle ginocchia. La sentivo singhiozzare, la vedevo tremare.
Mi tolsi la giacca e la poggiai sulla sua schiena cercando di coprirla il più possibile.
Un respiro le morì in bocca. Non si aspettava un tale gesto.
Mi sedetti accanto a lei e, portando il mio braccio sinistro sulla sua spalla destra, la spinsi verso di me.
Non mi guardava. Non ne aveva il coraggio. Si vergognava, ne ero certo.
Poggiò la sua testa sulla mia spalla, come a trovare un conforto, mantenendo sempre quella posizione iniziale; e io iniziai ad accarezzarle i lunghi codini, ormai sfatti, per tranquillizzarla.
Iniziò a rilassarsi, rallentando i singhiozzi, lasciandosi coccolare. Sapevo che ne aveva bisogno. Lo sapevo dal primo momento che la avevo incontrata.
Poi, fece una cosa che non mi sarei mai aspettato. Strinse le sua braccia attorno alla mia vita. Mi abbracciò forte, mantenendo la sua guancia a contatto col mio cuore.
La strinsi forte anche io, accarezzandole la schiena, coperta dalla mia giacca, e i dorati capelli.
Riprese a piangere e mi spiazzò.
Non volevo violare la sua intimità ma dovevo sapere.
Tenendola sempre stretta a me le misi una mano sotto il mento e le feci alzare il viso per poterla guardare negli occhi.
Adesso che i nostri occhi erano legati fra loro, mi accorsi ancora di più della sua purezza, della sua ingenuità, della sua dolcezza.
Con il suo sguardo, con i suoi occhi pieni di lacrime ma anche di tanto amore, mi sciolse il cuore, mi infuocò l’anima.
“Stai bene, piccola? Ti ha fatto del male? Ti prego, dimmelo”
Continuando a fissarmi negli occhi sorrise dolcemente, nonostante la paura e la tristezza che ancora le leggevo proprio come quella mattina.
“No, non mi ha fatto niente, sto bene” si limitò a dire, scuotendo la testa.
Voleva rassicurarmi. Era assurdo, lei voleva rassicurare me.
Sorrisi, togliendo la mia mano dal suo mento.
La strinsi un’altra volta a me, con tutta l’energia che possedevo, come a trasmetterle un senso di protezione che lei stava cercando, di cui aveva bisogno.
La accarezzai di nuovo. Quando vidi che, finalmente, si era calmata e che asciugava le ultime lacrime mi allontanai, a malincuore, da lei.
Rallentò la presa anche lei guardandomi negli occhi, non capendo.
Una delicata carezza sul suo viso e: “Sei tranquilla adesso?”
Sorridendo con dolcezza e con un senso di gratitudine rispose: “Sì. Grazie, Marzio!”
La guardai aggrottando la fronte, incredulo. Sapeva il mio nome?
“Sai il mio nome?” Stavolta rideva divertita, gli occhi le brillavano.
“Ti ha chiamata così quel tizio, l’ho tenuto in mente!”
Sorrisi anche io.
“È bello vederti sorridere.”
Si alzò in piedi e si tolse la giacca. Adesso era in intimo, maledettamente bella. Non sembrava in imbarazzo. Forse si fidava di me, sapeva che poteva fidarsi.
Poggiò la giacca su una sedia accanto al letto e si avvicinò a me, ancora seduto e curioso.
Prese la mia mano nelle sue, invitandomi ad alzarmi.
Poi, l’incredibile.
Portò la mia mano, anzi le nostre mani, al suo cuore e, cercando di fare la maliziosa, disse:
“Perché lo hai fatto? Cosa vuoi in cambio?”
Mi spiazzò, per la seconda volta in dieci minuti.
Le accarezzai, con la mano che ancora avevo libera, la frangia scostandole i ciuffi dagli occhi.
Con un dolce sorriso, di quelli rassicuranti di cui aveva bisogno, risposi:
“Voglio solo vederti felice.”
Adesso ero io che avevo spiazzato lei.
I suoi occhi si illuminarono di gioia, adesso potevo scorgervi dentro una luce di allegria, di rassicurazione.
Le nostre mani erano ancora incatenate, la mia mano ancora sul suo viso, i nostri occhi... stavano già facendo l’amore.
Chiuse gli occhi, avvicinando ancora di più il suo viso al mio, quasi a sfiorare le mie labbra con le sue.
E adesso? Cosa dovevo fare? Io la volevo, la desideravo, avevo sperato tanto di rivederla, di poterla abbracciare, di baciare le sue labbra.
Sapevo, però, che in quel momento non sarebbe stato giusto. Non potevo approfittare di lei, dei suoi stati d’animo. Era ancora scossa. Forse credeva di dovermi ringraziare così. Forse mi credeva come tutti gli altri.
Ebbene, lo ero stato. Ma adesso non lo ero più. Adesso avevo la consapevolezza che quel piccolo angelo biondo mi aveva cambiato.
Mi erano bastate meno di ventiquattro ore per vedere tutte le mie certezze crollare, per vedere il mio mondo ridursi in cenere.
Ma forse non era crollato, non era stato ridotto in cenere. Si era soltanto migliorato. Lei lo aveva migliorato.
Le baciai le palpebre che ancora teneva chiuse in attesa di un altro tipo di bacio che, in realtà, desideravo anche io con tutto me stesso.
Non appena allontanai le mie labbra dal suo viso aprì gli occhi, perplessa.
Riuscì lo stesso a sorridermi, lasciando la mia mano che teneva ancora fra le sue.
Abbassò lo sguardo. Adesso sì che si vergognava.
Le accarezzai le braccia che ora le scendevano lungo i fianchi, cerando di incontrare i suoi occhi che teneva fissi nel vuoto:
“Non è che io non voglia baciarti, anzi, non sai quanto lo desideri. Ma adesso ho paura di approfittare di te. Sei ancora scossa. Non sarebbe giusto. Ti rispetto troppo, Bunny.”
Si voltò di scatto incontrando i miei occhi. Dopo un istante di incredulità, un suo sorriso illuminò tutta la stanza buia.
Si sentiva rincuorata, tranquilla, protetta. “Ti andrebbe di fare colazione con me domani?” le chiesi, sperando tanto in un suo sì.
Annuì, poi: “Perché lo fai?”
“Perché mi fa piacere fare colazione con te e avere la possibilità di conoscerti meglio.”
Scosse la testa, arrossendo.
“No, intendevo, perché un ragazzo che viene al Moonlight, per di più non per la prima volta, dice che non vuole approfittare di me e di rispettarmi?”
Il suo sguardo curioso mi suscitò una tale tenerezza che non credevo avrei mai provato nei confronti di una sconosciuta. Sì, in fondo lei era ancora una sconosciuta.
Istintivamente le cinsi le spalle con le mie forti e possenti braccia.
Non potevo dirle la verità, aprirle il mio cuore, non era ancora giunto il momento.
Le baciai la fronte e mi limitai a sussurrarle:
“Te l’ho già detto. Voglio solo vederti felice!”
Non rispose, almeno a parole, ma i suoi occhi si intendevano coi miei lasciando trasparire tutte le sue emozioni che le percorrevano l’anima.
Adesso sembrava diversa. Ora il suo sguardo non era più triste, adesso era serena.
E io, adesso, ero in pace con me stesso eliminando del tutto quella strana sensazione di stretta al cuore che mi tormentava da quella mattina.
Notai sul comodino accanto al letto un cellulare rosa.
“È tuo quello?” indicai col capo.
“Sì.”
Lo presi in mano digitando un numero. Sentì subito il mio cellulare squillare, solo allora richiusi lo sportellino del cellulare di Bunny facendo sì che il mio non squillasse più.
Lo riposai sul comodino, mi avvicinai alla mia dolce Bunny e le dissi:
“Ora il mio numero ce l’hai e io ho il tuo, chiamami tutte le volte che vuoi, tutte le volte che hai bisogno di me o vuoi semplicememte parlare.”
Annuì.
“E tu?”
“Ti chiamo appena arrivo a casa per darti la buonanotte, principessina.”
“Aspetterò la tua chiamata allora!”
Un bacio dolce e tenero sulla sua fronte, una carezza sulla sua paffuta e vellutata guancia, poi, aprii la porta, girando la chiave, e uscì dal paradiso.
Adesso il mio cervello era in tilt, il mio corpo sudava freddo, il mio cuore… beh, aveva appena iniziato a battere. Grazie a lei, solo per lei.

Raggiunsi il mio appartamento dopo aver attraversato, in lungo, Manhattan.
Di nuovo sul mio letto a pensare a lei.
Presi in mano il mio cellulare e la chiamai.
“Sei tu, mio eroe?” Le sue parole erano ingenue ma allo stesso tempo ironiche.
“Sì, principessa, stai bene?”
“Adesso sì.” Riuscii a scorgere una risata nelle sue parole.
“Sono contento, passo a prenderti domani alle 9.00, ok?”
“No, vediamoci a Central Park, all’ingresso sulla East.”
“Va bene, principessa, buonanotte!”
“Buonanotte, mio eroe!”
Riagganciai, emettendo un sospiro di sollievo.
Quasi sette ore e l’avrei rivista.
Adesso sapevo il suo nome e che si fidava di me. L’avevo protetta, rassicurata, confortata, resa serena.
Adesso restava un’ultima cosa, la più importante. Renderla felice. Essere felice con lei.


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Capitolo 3
*** Scelte obbligate ***


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Cap. 3: Scelte obbligate

14 Novembre 2010
Ore 8.00 - Upper East Side.

Mi svegliai presto quella mattina, più che altro furono i raggi del sole, che filtravano tiepidi dalla finestra della mia stanza, a riportarmi alla realtà.
Non è che, in realtà, avessi dormito.
Troppi pensieri, troppe emozioni, troppe speranze.
Mi sentii come un ragazzino alla prima cotta; il pensiero che avrei, a breve, rivisto la mia Bunny mi aveva reso smanioso per tutta la notte.
Non era da me, non lo era mai stato.
Di sicuro, il trasferimento a NYC aveva influito parecchio sul mio carattere, forse, addirittura, plasmandolo.
Marzio Chiba, dieci anni, timido e introverso.
Ma poi la svolta, o meglio, l'adattamento al Nuovo Mondo.
Da quando avevo conosciuto Moran, dopo un anno di solitudine passato nei quartieri alti della City, avevo capito che dovevo adattarmi alle occasioni e alle amicizie che mi si presentavano, mettendo da parte, a volte, i miei principi e ideali.
E così, all'età di quindici anni, mi ritrovai nel giro di Moran, pieno di ragazzi intraprendenti, considerabili figli di papà, pieni di soldi, privi di anima.
Sapevano, anzi, credevano di poter comperare tutto con il denaro.
Dagli oggetti alle attenzioni delle donne. I cari dollari donavano loro tanta sicurezza, da renderli belli e dannati.
Le ragazze, amiche di Moran, poi...
Beh, belle senz'anima.
Sembravano uscite da un concorso per Miss America.
Non c'era che dire: Moran sapeva scegliersi le amiche!
I classici esempi che la bellezza dà sicurezza.
Estroverse, disponibili, intelligenti. Apparentemente erano ragazze perfette.
Apparentemente appunto, non considerando le loro anime, i loro sentimenti, i loro valori.
Beh, credo che non sapessero neanche loro il significato di tali parole.
E così, circondato da questi amici e dalla loro presenza e disponibilità, tutti questi anni passarono in fretta, tra università, lavori part-time, progetti per il futuro, fino ad arrivare, nel 2009, alla pubblicazione del mio primo libro: "Odore di ciliegi in fiore".
Era un romanzo ambientato nella mia Tokyo, come a voler ritrovare casa, in cui trattavo il tema della cultura giapponese.
Aveva riscosso molto successo, tanto che Mr. Taiki, editore della RoseEdition, mi aveva offerto un anticipo per l'opzione sul secondo libro. 
Ed ecco che mi ritrovai a cercare di trattare col mio capo che, a tutti costi, voleva ripetere il successo ottenuto puntando, stavolta, sulla cultura e sulla posizione della donna di NYC.
Non riuscii a farlo cedere. Fece cedere me.
L’argomento da trattare era un enigma. L'amore a NYC, quello vero, quello che le donne newyorkesi provavano in una città dai mille divertimenti e dalle molteplici tentazioni, esisteva ancora?
Le donne amavano ancora, o godevano e basta?  
Ero la persona più inadeguata in assoluto a trattare l'argomento. Io, a causa delle mie conoscenze, non credevo nell'amore, nelle amicizie vere; non mi fidavo degli altri e, soprattutto, delle donne.
Moran era l'eccezione alla regola. Mi era sempre stato accanto, confortandomi, consigliandomi, trovando sempre un modo per aiutarmi a superare i miei problemi:
Dalla solitudine, facendomi inserire nel suo gruppo, al problema dei conti che non quadravano, offrendomi il lavoro al Crown.
Se gli amici si vedono nel momento del bisogno, potevo affermare con certezza che Moran fosse davvero un amico.
Fermai la mente, che vagava fra le tante riflessioni sui miei ultimi quindici anni, e mi diressi a fare una doccia rigenerante. Tra meno di un'ora la avrei rivista.
Mentre sentivo scorrere il getto dell'acqua sul mio corpo, a detta di tutte, statuario, non potei fare a meno di pensare a Bunny.
Era ancora troppo vivo nei miei occhi, il ricordo di Lei.
L'espressione triste e spaventata del suo viso mentre cercava di ricomporsi, i suoi occhi pieni di lacrime, l'immagine del suo corpo che tremava per l'agitazione, mi strinse di nuovo il cuore.
Ma poi, il suo sguardo che si illuminava mentre le parlavo, il suo sorriso che si accendeva illuminando la stanza buia, le sue parole dolci, sapere che si fidava di me, vederla mentre si stringeva me, sfiorarla mentre voleva essere baciata da me; mi fece sentire in paradiso. Lei era il mio angelo biondo, la redenzione ai miei peccati, la luce verso una nuova vita.
Ed io... io ero il suo eroe. Un eroe che nel buio della notte lottava contro i nemici, affrontando i pericoli, per proteggere la sua principessa.
Sembrava quasi la trama di un anime! *
Uscì dal bagno e, in meno di mezz'ora, ero già diretto a Central Park.
 
Mi facevo spazio tra la folla, mentre il freddo pungente accarezzava il mio viso perfettamente sbarbato.
Con le mani all'interno delle tasche del mio cappotto nero D&G, mi ritrovai all'ingresso dell’immenso parco, sulla Central Park East.
Attesi all’incirca dieci minuti e la vidi arrivare.
Avvolta in un cappotto rosa pallido che la rendeva ancora più tenera e ingenua, riuscii a notare tra la folla i suoi lunghi codini avvicinarsi sempre più.
Con aria spaesata si guardava intorno, mi cercava.
Mi scostai dalla ferrata su cui mi ero appoggiato, aspettandola, e le andai incontro.
Mantenevo sul viso quel sorriso rassicurante, cercando di celare un po’ del mio enorme entusiasmo.
Mi vide e sorrise, sentendosi non più sola al mondo.
La raggiunsi, potendo specchiarmi in quegli occhi cristallini che iniziavano già a riscaldare quella giornata di metà Novembre.
“Ciao Bunny.”
“Buongiorno Marzio!” Il suo sguardo era vivo, ma riuscivo ad avvertire ugualmente la tristezza che cercava di nascondere.
Rimasi con le mani in tasca, anche se la voglia di prendere il suo soffice e candido viso fra le mie mani, baciandolo dappertutto, era enorme.
“Dormito bene stanotte?” domandai, cercando di toglierle quell’imbarazzo che le leggevo in viso.
Era strano, la notte precedente aveva cercato di baciarmi, e ora sembrava a disagio.
Annuì, abbassando lo sguardo. Forse era proprio la notte precedente che la metteva a disagio.
“Allora, dove preferisci andare?”
Alzò le spalle, poi ripose:
“C’è una caffetteria qui vicino dove fanno delle torte buonissime!”
Il tono usato mi ricordò quello dei bambini entusiasti al pensiero di mangiare un dolce.
Era molto tenera, e quando il suo sorriso mise in risalto le guance paffute, ne fui ancora più convinto.
Un ingenuo sorriso uscì, spontaneo e incontrollabile, dalla mia bocca.
Annuì: “Andiamo allora!”
E così, come due normalissimi conoscenti, senza considerare gli eventi della sera precedente, ci avviammo verso la caffetteria Jupiter, in fondo alla strada, mentre la neve iniziava a scendere lieve, imbiancando tutto ciò che mi circondava.
 
La caffetteria Jupiter era una delle migliori, nota soprattutto per le torte. La proprietaria, nonché pasticciera, Morea, era un’amica di Bunny.
Ci accomodammo ad un tavolo coi divanetti in pelle marrone in fondo al locale.
Si tolse il cappotto, appendendolo all’attaccapanni accanto al tavolo.
Anche con un paio di jeans e un maglione rosa confetto, sagomato sui fianchi, era bellissima.
Si sedette di fronte a me, poggiando i gomiti sul tavolo e facendosi avanti col busto.
Una ragazza dai capelli castani, raccolti in una coda di cavallo, si avvicinò a noi con il notes delle ordinazioni.
“Ciao Bunny, come stai?” chiese con voce allegra e matura.
“Ciao Morea, sto bene grazie!” rispose Bunny, felice di vederla.
“Non mi presenti il tuo amico?”
“Ma certo, scusami, lui è Marzio” Sapevo che la sua dimenticanza, dipendesse dal fatto che non voleva dividermi con nessun’altra, come se temesse che qualcun’altra avesse potuto avere le mie attenzioni.
Ne ebbi la conferma quando continuò a fissarci mentre mi alzai dicendo:
“Piacere, Marzio” stringendole la mano.
“Sono Morea, complimenti, sei davvero molto carino” osò, facendomi l’occhiolino.
Adesso il viso di Bunny era diventato enigmatico. Non sapevo dove iniziasse la paura e dove si unisse alla gelosia.
Non disse nulla, nascondendosi dietro il menu del locale.
Neanche io risposi alla provocazione, non mi interessava. Per me esisteva solo Bunny.
Voltandomi verso il mio angelo biondo, mentre mi risedevo, chiesi:
“Hai già deciso cosa prendere?”
Le sorridevo, la rassicuravo, ma lei non mi guardava, manteneva gli occhi sul menu, facendo l’indifferente.
Cercavo di trattenere un’ingenua risata... se solo avesse saputo i miei sentimenti!
“Mm… una fetta di torta al cioccolato, con tanta panna sopra e una tazza di caffè!”.
Morea mi fissò, lo avvertii mentre continuavo ad ammirare lo sguardo dolce ma allo stesso tempo geloso di Bunny.
Mi voltai verso la ragazza castana: “Anche per me, per favore”.
Di nuovo a guardare Lei, mentre la proprietaria del locale si allontanava.
Bunny mi scrutava, cercava di studiarmi.
“Stai bene?” le domandai, mettendomi in posizione speculare a lei, coi gomiti sul tavolo.
“Sì, sto bene. Io… io non so davvero come ringraziarti.”
“Posso farti una domanda?” fu più forte di me.
Annuii, curiosa.
“Perché?”
Capì a cosa mi stessi riferendo ma cercò la conferma:
“Perché cosa?”
“Perché una ragazza come te, dolce, sensibile, timida, lavora al Moonlight?”
Adesso era titubante, non sapeva cosa dire, da dove iniziare.
Allungai un braccio, posando la mia mano sulla sua.
“Ti prego, fidati di me”
Cercai di essere più dolce possibile, sperando che capisse che le mie parole erano sincere, che poteva davvero fidarsi di me.
Abbassò lo sguardo e io ritrassi la mano.
Brevi momenti di silenzio, mentre Morea, appena tornata, poggiò davanti a noi i due piatti contenenti le nostre fette di torta.
Neanche lei disse nulla, stavolta, si limitò ad osservarci, probabilmente aveva notato la mia mano su quella di Bunny.
Solo quando la ragazza andò via, dopo averci servito il caffè, Bunny, guardando fuori dalla vetrata la neve scendere fitta, iniziò:
“Mi ci abituerò”
Non capivo.
Riprese:
“Sai, a volte mi fermo a pensare, a riflettere. Immagino cosa sarebbe accaduto in un’altra vita, in un mondo parallelo. Chi lo sa… io so solo che spesso la vita ti porta a compiere delle scelte, che in realtà non sono proprio libere, ma sono comunque necessarie. Mi hanno sempre insegnato ad essere altruista, ad avere buoni sentimenti. E questi mi hanno portato al Moonlight.”
Aggrottai la fronte, mentre lei sorseggiava il suo caffè, poi riprese, stavolta guardandomi:
“Provengo dal Queens **, i miei genitori sono morti l’anno scorso a causa di un incidente, il giorno del mio diciottesimo compleanno. È stato come un fulmine a ciel sereno. Avevo tanti sogni da realizzare, ma ho dovuto lasciarli nel cassetto. Inizialmente ho cercato di fronteggiare le spese, ma poi non ce l’ho fatta. Erano troppe e io ero da sola. Ho detto addio all’università, cercando, e trovando soltanto, lavori precari. Poi la mia sorellina si è ammalata. I soldi mi servivano per pagare le spese per la degenza in ospedale e con lo stipendio dei lavori precari non riuscivo a farcela. Morea ha cercato, grazie ad un impiego qui, a darmi una mano, ma i soldi non riuscivano a coprire gran parte delle spese. Ero disperata e grazie a lei conobbi Marta, che è riuscita a farmi assumere al Moonlight. Lady Amy è stata molto comprensiva, mi paga bene e mi offre vitto e alloggio. In questo modo posso destinare tutti i soldi per l’assicurazione ospedaliera e a tutto ciò di cui mia sorella ha bisogno.”
Si fermò, non riuscendo più a trattenere le lacrime che le scesero lente sulle guance, voltandosi verso la vetrata.
Il mio cuore si sciolse a quelle parole, a quella sofferenza.
Adesso, guardandola, l’unico desiderio era andarle vicino e stringerla a me. Non potevo, non sapevo se mi voleva accanto a sé.
“Devo farlo per la piccola Usa, non posso perderla. È tutto per me, viene prima di tutto, anche prima di me stessa. Non riesco a immaginare la mia vita senza di lei.”
Un singhiozzo, un altro. Tentò di asciugarsi le lacrime, che cadevano svelte sul suo bel viso.
“Mi dispiace, non volevo essere indiscreto, costringerti a ricordare.”
 Era tutto ciò che, spiazzato, riuscii a dire.
Scosse la testa. “No, non importa.”
I suoi occhi, ora, erano di nuovo tristi, amareggiati.
Mi alzai e mi sedetti accanto a lei. Come la sera precedente, osai poggiarle un braccio attorno alla spalla, stringendola.
“Non piangere, vedrai, risolveremo tutto. Ci sono io con te.”
Si allontanò dal mio abbraccio, curiosa: “Perché?”
“Perché cosa?” Stavolta ero io a voler capire meglio.
“Perché lo fai? Perché sei gentile con me? Chi sei in realtà?”
Non potevo dirle che da quando l’avevo incontrata il mio cuore aveva iniziato a battere. Non potevo rivelarle che averla vista al Moonlight, piccola e indifesa, aveva fatto crollare il mio mondo, costruendone uno migliore.
Non potevo dichiararle che la amavo. Non avrebbe capito.
Mi limitai quindi a dirle, guardandola negli occhi tanto infelici quanto belli: “Te l’ho già detto, voglio solo vederti felice, voglio guardare i tuoi occhi e non vedere più tristezza, solo allegria.”
Adesso era confusa. Credo che nessuno mai le avesse parlato così, confortandola, donandole quelle rassicurazioni di cui una ragazza a diciannove anni, sola e con tanta sofferenza nel cuore, avesse bisogno.
Sorrise, forzatamente.
“Sì, ma perché vuoi vedermi felice? Non mi conosci.”
“È vero, hai ragione, in fondo non ti conosco, ma ieri mattina quando ci siamo incontrati per caso, ho avuto la sensazione di conoscerti da sempre. Sentivo che eri speciale, lo leggevo nei tuoi occhi e oggi ne ho avuto la conferma. Permettimi di starti accanto, di aiutarti. Fidati di me.”
Percepivo che si fidava già, altrimenti non si sarebbe confidata con uno sconosciuto.
Sorrise di nuovo, stavolta in maniera più spontanea.
Il suo era un .
“Mangia la torta, prima che finisca la mia e mangi la tua!”.
E così facemmo colazione. Le parlai di me, del motivo per cui ero dovuto andare via dal Giappone. Le raccontai del mio lavoro e dei miei progetti. Finimmo parlando delle amicizie. Io di Moran, lei di Morea, che aveva conosciuto da circa un anno, dopo che Usa era stata trasferita in ospedale. Andava spesso al Jupiter e così nacque l’amicizia che la portò a lavorare alla caffetteria e a conoscere Marta e Rea.
Mi ascoltava con curiosità, con ammirazione. Sentivo che mi considerava già un amico.
Non sapevo se esserne felice o meno. Lei aveva bisogno di un amico di cui fidarsi, io avevo, semplicemente, bisogno di lei.
Fuori nevicava ancora quando uscimmo dal locale. Lei tremava per il freddo pungente, stringendosi nel suo cappotto.
Ci avviammo verso il Polmone verde di NYC ***.
Durante il tragitto mi spiegò che tutte le mattine e pomeriggi le Moonlight dancers provavano le esibizioni della sera e che appena finiva correva in ospedale dalla piccola Usa che aveva soltanto cinque anni.
Viveva per la sua sorellina, la mia piccola Bunny. Non aveva mai un momento per se stessa, per la propria vita. Solo la mattina, prima delle prove, andava al Jupiter.
Diceva che una bella fetta di torta aiutava ad affrontare meglio le difficoltà che la giornata avrebbe presentato.
Era davvero tenera. Più la guardavo, più la ascoltavo e più me ne innamoravo.
Una volta giunti davanti l’ingresso, sulla Central Park East, alzò lo sguardo per incontrare i miei occhi:
“Scusami per ieri notte. Non so cosa mi sia preso, io non sono così, non so perché ho cercato di baciarti. Perdonami.”
Non riuscii a controllarmi. La strinsi forte a me, con tutto l’amore che avevo dentro, cercando di trasmetterglielo:
“Lo so. So bene come sei e ti apprezzo per questo.” Lo sussurrai al suo orecchio, mentre la tenevo tutta per me. Le diedi un bacio sulla fronte, non appena mi accorsi che si era stretta a me cingendomi il busto con le braccia.
Cosa avrei dato per fermare il tempo in quel preciso attimo…
“Adesso devo proprio andare o farò tardi alle prove.”
Si sciolse dal mio abbraccio e io, a malincuore, dovetti lasciarla andare:
“Sono stato davvero bene con te, Bunny.”
“Anche io, tanto. Grazie di tutto, Marzio!”
“Bunny, io voglio rivederti. Ti prego, dimmi di sì.”
Abbassò lo sguardo, la sua espressione cambiò di nuovo.
Da serena divenne triste, dispiaciuta. Non capivo.
Trovò la forza per guardarmi un’altra volta negli occhi:
“Credo che sia meglio di no.”
Mi uccise. Deglutii a fatica, sperando che fosse colpa del troppo freddo, ma in realtà avevo capito bene: non voleva più vedermi. Perché?
“Perché?”
 La mia voce era incredula. Io ero incredulo.
“Credimi, è meglio così. Sei un ragazzo speciale, sono felice di averti conosciuto. Addio Marzio.”
Mi diede un bacio vicino l’angolo della bocca e corse via.
Via da me.
La neve aveva ormai smesso di scendere dal cielo di Manhattan, ma nel mio cuore sentivo che la bufera era appena iniziata.
 
Mi diressi lentamente, con un coltello nel cuore che mi lacerava l’anima, verso il mio appartamento.
Ero incredulo, amareggiato, non riuscivo a darmi delle risposte. Mi sorgevano soltanto nuove domande.
Mi aveva quasi baciato la sera prima, si era stretta a me in cerca di conforto, mi aveva raccontato la sua storia sofferta. Si fidava di me, allora perché non voleva più vedermi?
Non capivo, mi sforzavo di capire, di mettermi nei suoi panni. Poi l’illuminazione.
Sidia, un’intrattenitrice del Moonlight, mi aveva raccontato che le ragazze non potevano innamorarsi perché in quel caso non avrebbero adempiuto i loro doveri professionali come invece richiedeva lady Amy.
Sarebbero state distratte, svogliate, e forse sarebbero stati gli stessi fidanzati a non permettere loro quel genere di lavoro.
Una scintilla partì dal mio cuore: Bunny si stava innamorando di me?
Le emozioni combattevano fra loro dentro di me.
Felicità, credendo che anche lei mi amasse.
Timore, pensando alla sua scelta costretta di lavorare al Moonlight.
Lo faceva per Usa, avrebbe fatto di tutto per lei e la sua salute. La bambina veniva prima di tutto e non avrebbe mai lasciato quel posto, quindi, non avrebbe mai ceduto al sentimento che poteva nascere da parte sua verso di me. Lo avrebbe represso. La sua era per la seconda volta una scelta obbligata.
Avrebbe sofferto. Avremmo sofferto. Che fare? Non lo sapevo, non sapevo neanche se il mio ragionamento, sebbene logico, rappresentasse la realtà dei fatti. Una realtà triste che ci voleva separati.
Dovevo parlare con lei, farle capire che la avrei aiutata, le sarei stata accanto in tutti i modi. Non doveva aver paura di innamorarsi. Dovevo dirle che la amavo, ma non potevo farle pressione, in fondo ci conoscevamo da soli due giorni.
Decisi che quella sera sarei tornato al Moonlight.
Sapevo che vederla ballare, con gli occhi infuocati di tutti gli uomini addosso su di lei, mi avrebbe fatto impazzire, ma almeno avrei potuto esserle vicino, avrei potuto proteggerla.
 

Note:
*: ho voluto fare un espresso riferimento a Sailor Moon, o meglio, a Milord e Serenity!
**: il Queens è uno dei cinque quartieri di New York City, anche se in questo caso crea un gioco di parole dato che significa regine e Bunny nell’anime è la regina nel 30esimo secolo.
***: Central Park è considerato dai newyorkesi il Polmone verde.


Il punto dell'autrice

Cari lettori, so che sicuramente vi aspettavate maggiori colpi di scena e più contatto fra Bunny e Marzio, ma credo che fosse fondamentale spiegare bene alcuni punti chiave prima di procedere, come ad esempio cosa costringe la nostra dolce Bunny a lavorare in un locale non adatto a lei. Spero avrete ancora voglia di seguirmi, perchè vi annuncio che già dal prossimo capitolo i colpi di scena e la passione non mancheranno!
A presto!
Demy

Grazie di cuore a
-Angelica82

-china91  
-
cri88
- pianistadellaluna
- serenity82
Per aver inserito Moonlight fra le preferite.

Grazie a:
-
Bulm88
- china91
- micina82
- Serenity 4ever
- star86
- Thaila
- wingedangel
- _Principessa di Cristallo_
Per aver inserito Moonlight fra le seguite.


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Capitolo 4
*** Vieni via con me ***


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Cap. 4: Vieni via con me

Rientrato nel mio appartamento, mi sedetti sul divano del salone.
Le serrande erano ancora abbassate e il buio all’interno della stanza rispecchiava il mio umore.
Non sapevo cosa fare, non poteva finire tutto prima di essere cominciato. Non potevo perderla prima di averle rivelato i miei sentimenti.
Avvertivo che anche lei si sentiva legata a me. I suoi occhi me lo avevano confessato la sera precedente mentre mi stringeva e anche quella stessa mattina mentre mi diceva addio.
Sapevo che non rivedermi più non era ciò che realmente desiderava. Bunny, la mia dolce e tenera Bunny desiderava solo amore e protezione.
Torturavo il mio cellulare, la tentazione di chiamarla era enorme, ma sapevo che avrebbe dovuto provare e anche quel pensiero fece accellerare i battiti del mio cuore. Non volevo che si esibisse sotto gli occhi affamati di lei di tutti i presenti.
Ma in fondo, chi ero io per impedirlo? L’unica cosa che potevo fare era cercare di proteggerla, anche se sapevo non sarebbe stato facile.
Posai il cellulare sul tavolino basso davanti al divano e mi sdraiai.
Avevo ancora un intero libro da scrivere e solo due mesi di tempo.
Non avevo voglia di scrivere, ma dovevo.
E così, tirai fuori il mio Apple e iniziai il secondo capitolo.
 
Dopo quattro  estenuanti ore a scrivere, il suono del mio cellulare mi distrasse. Il mio cuore iniziò a battere all’impazzata.
E se fosse stata Bunny?
Mi alzai di scatto, dirigendomi pieno di speranze verso il tavolino del salotto.
Lessi il display e una sensazione di delusione mi percorse.
“Ciao Moran.”
“Marzio, ma cosa è successo ieri notte? Ho appena parlato con Seiya, ma dico, sei impazzito?”
Il suo tono era alto, sembrava allibito per ciò che aveva saputo.
“Moran, cosa vuoi che ti dica, volevo conoscerla io e lui mi ha sfidato.”
La verità era un’altra ma non volevo che Moran la sapesse. Non perché non mi fidassi di lui, ma perché non volevo parlargli dei miei sentimenti verso Bunny. Lui non avrebbe capito. Era un caro amico ma anche un playboy, sapevo la sua opinione sulle Moonlight dancers.
Mi disse che sarebbero tornati al Moonlight quella sera, Seiya non aveva digerito la storia della sera precedente e ora per lui quella ragazza era diventata una questione di principio.
Il sangue mi gelò nelle vene, il senso di impotenza mi divorò.
Non volevo che la toccasse, che la spaventasse. Lei non lo avrebbe voluto ma lo avrebbe dovuto accettare. Diceva che si sarebbe abituata ma io non volevo che lo facesse. Lei doveva essere felice, la vita era già stata crudele con lei davvero troppo, non doveva ancora pagare per colpe che non aveva.
Riagganciai il telefono dopo aver salutato Moran dicendo che sarei andato al night club da solo. In fondo non era il caso, dopo quello che era successo, di avere Seiya intorno.
Ripresi a scrivere, tutto sommato l’argomento da trattare si era fatto meno enigmatico.
In una città dove si può trovare di tutto, io avevo trovato colei che riusciva ancora ad essere ingenua e piena d’amore. Riuscii a rispondere a una delle tante domande del mio libro. Sì, a NYC l’amore esisteva ancora. Io lo avevo trovato.
 
Quella giornata, dopo essermi separato da Lei, sembrava non finire mai. Contavo le mancanti prima di poterla rivedere, mi sembravano un’eternità.
 
Ore 23.30
Moonlight - East Side.
Ero già all’interno del locale, e sebbene fossi arrivato da solo, una volta dentro la solitudine non si avvertiva più.
Vi erano sempre coppie di hostess pronte ad accompagnare gli arrivati ai tavoli; pronte sempre a fare loro compagnia.
Ma quella sera, sebbene Rea volesse intrattenermi durante lo spettacolo, le dissi cordialmente che stavo bene da solo e che volevo solo guardare lo spettacolo.
In realtà, io volevo solo guardare Lei. Volevo solo lei, Bunny.
Vidi arrivare Moran e Seiya. Senza aspettarmelo, vennero insieme verso di me.
Salutai Moran e, come se nulla fosse accaduto, Seiya mi porse la mano.
Aggrottai la fronte, porsi la mia.
“Ciao Marzio, complimenti per la mira!”
Non capivo, non era in collera con me, anzi, aveva il solito sorriso allegro e divertito.
“Tranquillo, a me quella ragazza non importava più di tanto. Io… beh, le preferisco più esperte!”
Mi fece l’occhiolino come a far intendere che la sera precedente Bunny era stata troppo timida e questo gli aveva fatto perdere l’interesse.
“Non ci riproverai più, quindi?” domandai, ricordando la telefonata di Moran.
Sorrise di nuovo: “No, tranquillo. All’inizio mi ero fatto prendere dall’orgoglio maschile, ma credimi, non ne vale la pena, è tutta tua!”
Non volevo che parlasse così di Bunny, per me era preziosa, ma non potevo dire nulla, non volevo mettere in mostra i miei sentimenti davanti ad uno che non sapeva neanche cosa fossero.
Rimasi in silenzio, sentendo i due ragazzi parlare, fino a quando lo spettacolo iniziò.
Alcune Moonlight dancers aprirono lo show e, tra un balletto e un altro,  io speravo che Lei non si esibisse.
Purtroppo il mio desiderio non fu esaudito.
Accolta da numerosi applausi di presenti in delirio, la mia Bunny salì sul palco. Stasera non in versione Sailor, ma con un gonnellino inguinale, velato, bianco che mostrava un perizoma dello stesso colore e un reggiseno bianco con delle lavorazioni dorate. In testa una corona, la rendeva una regina sexy e desiderata. Era stupenda, non credo ci fossero parole per definire la sua bellezza.
Il suo corpo era così perfetto e provocante che nessun uomo del Pianeta  potesse resisterle.
Io stesso, appena vidi tutte le sue forme, non riuscii a controllarmi. La desiderai ancora di più. Volevo farla mia, salire su quel palco per prenderla e portarla via con me, stringerla, baciare ogni centimetro del suo corpo fatto di velluto, sentire il contatto della sua pelle nuda a contatto con la mia e, infine, farla abbandonare al piacere.
Credo che lo stesso pensiero, mentre lei si muoveva con più spigliatezza rispetto alla sera precedente, fosse nella mente, e non solo, di tutti i presenti.
Con la differenza che loro volevano soltanto soddisfare se stessi, io volevo amarla.
Il pubblico era in delirio alla vista dei suoi sensuali e audaci movimenti. Lo sarei stato anche io se non la avessi conosciuta, se non avessi saputo chi in realtà fosse. Guardai il suo tenero e stupendo viso, era ravvivato dal trucco, ma il suo sguardo e i suoi occhi erano sempre gli stessi. Malinconici, tristi, bisognosi di amore e rassicurazioni sulla salute della piccola Usa.
Incrociò i suoi occhi con i miei. Si stupì, non si aspettava di vedermi lì, o forse si vergognava di farsi vedere in quel modo da me. Fino a quella mattina mi aveva mostrato le sue emozioni, mi aveva confidato la sua storia. Ora sapevo che si imbarazzava a mostrarmi ben altro. Io continuavo a fissarla nell’azzurro limpido dei suoi  occhi, il mio sguardo era serio, volevo mostrarmi arrabbiato, facendole capire che non volevo dirle addio, che non mi rassegnavo all’idea di starle lontano.
Ricambiò per alcuni minuti il mio sguardo, mentre continuava a ballare nella mia direzione. Voleva sedurmi, giocare con me, vedere per quanto tempo la avrei guardata in viso senza cadere in tentazione e guardarla addosso.
Chi lo sa se rimase delusa o fu contenta notando che i miei occhi erano rimasti ad ammirare lo specchio della sua anima, che nessun altro riusciva a vedere.
Sono certo, però, che la sua fosse una tattica per capire se anche io fossi in realtà come tutti gli altri o se potesse davvero fidarsi di me.
Mi sorrise, ma solo in apparenza, in realtà soffriva. Per quella situazione di imbarazzo, per sua sorella, per i suoi genitori, per non potersi lasciare andare ai suoi veri sentimenti. Sì, quella sera fu tutto chiaro, lei provava qualcosa per me.
Pieno di rabbia, mi alzai di scatto mentre continuava a ballare. Non ci riuscivo, era più forte di me. Non ce la facevo a vederla così. Lei non era quella che appariva durante i balletti sensuali. Lei era Bunny, la mia Bunny, la mia dolce e tenera Bunny.
Mentre mi allontanavo dal palco, la vidi con la coda dell’occhio guardarmi con curiosità fin quando non scomparii dalla sua visuale.
Mi diressi all’ingresso dei camerini, sapevo che dopo l’esibizione si sarebbe diretta lì e, stavolta, non avrei permesso a nessuno di portarla via. Io dovevo parlarle.
Quando udii calorosissimi applausi, capii che l’esibizione era finalmente finita.
Il cuore iniziò a battermi forte, tra qualche minuto la avrei rivista, le avrei parlato.
Ed eccola. Adesso, lontano dalle luci dei riflettori, il suo sorriso malizioso e forzato era scomparso, facendo ritornare il suo viso malinconico e dolce.
Mi vide e abbassò lo sguardo. Perché con gli altri non lo faceva? Perché era solo con me che si vergognava di farsi guardare negli occhi? Credeva forse che avrei capito che si stava innamorando di me? Chissà.
Cercò di entrare nel camerino, ma glielo impedì, bloccandole il passaggio.
“Bunny, io…”
“Lasciami passare, Marzio.” La sua voce tremava, il mascara si stava sciogliendo a causa delle lacrime che avevano iniziato a scenderle sul viso che teneva basso.
Con un braccio la spinsi verso me, cingendole la vita, cercando di farmi guardare in viso. Era tesa, voleva andare via da me. Strano, la sera prima si era rifugiata tra le mie braccia e ora voleva evitarmi.
“Ti prego, non andare via, non voglio spaventarti, non voglio farti del male, non te ne farei mai, lo sai.” Anche la mia voce tremava, ma per paura di spaventarla, per paura che andasse via da me.
Mi guardò e notai il suo dolore. Con le lacrime che le appannavano quegli occhi tanto belli e la voce piena di rabbia mi disse:
“Me ne stai facendo, Marzio! Non sai quanto male mi stai facendo!”
Mi uccise. Perché? Per quale assurdo motivo diceva una tale pazzia?
“Che cosa dici? Come puoi dirlo? Io non ti ho mai fatto male, sono sempre stato gentile con te, perché sei ingiusta?”
Nel frattempo la tenevo fra le mie braccia, stretta ma, riuscendo a  guardarla in viso.
Prese un respiro e poi aggiunse:
E’ proprio con la tua dolcezza, è proprio con il tuo modo di essere così adorabile con me che mi stai facendo del male.”
Adesso la mia stretta aumentò. La abbracciai così forte da toglierle il respiro, così intensamente da poter sentire il suo odore. E lei, ora, poteva udire il mio cuore battere forte solo per lei.
Mi amava, non mi ero sbagliato. Lei amava me.
E ora che fare? Come dovevo comportarmi? Se le avessi detto di amarla forse le avrei fatto ancora più male.
“Bunny, non piangere…” dissi mentre cercavo di tranquillizzarla tenendola stretta a me.
Ma lei piangeva e combatteva con se stessa. Da una parte voleva rimanere stretta a me, dall’altra sapeva che ciò avrebbe complicato le cose e voleva andare via.
La lasciai andare e lei, guardandomi per l’ultima volta negli occhi, mi disse: “Perdonami, Marzio, ma devo dirti addio.”
Si voltò verso il camerino, asciugandosi le lacrime, quando una voce la costrinse a voltarsi nuovamente.
“Bunny, c’è qualcuno che stasera apprezzerebbe la tua compagnia.” Era lady Amy con un uomo di circa trent’anni.
La ragazza aveva uno sguardo serio, come se avesse notato tra noi qualcosa che le aveva dato fastidio e cercasse di rimproverare tra le righe Bunny.
 L’uomo invece era il classico esempio di newyorkese che, dopo una giornata di duro lavoro, avesse bisogno di rilassarsi.
Già lo odiavo. Per come la guardava, per come la mangiava con gli occhi. E io in quel momento non potevo fare nulla.
Anzi, qualcosa potevo fare.
“Mi spiace, ma ho appena invitato la signorina a farmi compagnia e ha già accettato.”
Rimasero tutti sorpresi, compresa Bunny. Era stupita, sapevo che adesso si sentiva al sicuro. Anche per quella sera non avrebbe dovuto fare ciò che non voleva.
“È cosi?” domandò la giovane donna, scrutandomi dopo aver visto gli occhi di Bunny sporchi dal trucco rovinato.
“Sì, per stasera ho già compagnia.” La voce di Bunny era dolce e aggraziata e io riuscii a notarvi anche un po’ di gioia.
L’uomo ci rimase male e, insieme a lady Amy, tornò ai tavoli in cerca di qualche altra intrattenitrice.
Io invece mi sentii sollevato.
Guardandomi negli occhi Bunny mi disse:
“Vuoi davvero la mia compagnia?”
Rimanendo serio, dispiaciuto per la nostra precedente conversazione, annuii.
Mi prese sottobraccio e mi condusse verso la sua stanza. Non parlava ma il suo sguardo era strano, confuso, come se fosse delusa.
Una volta dentro la sua stanza, mi lasciò il braccio. Mentre potevo scorgere le lacrime scendere ancora una volta dai suoi occhi tenuti bassi, nonostante la camera fosse buia, iniziò a tirare giù le bretelle del reggiseno.
“In fondo sono contenta che la mia prima volta sia con un ragazzo che mi ha trattata bene, che mi rispetta.” Un singhiozzo, un altro.
Mi avvicinai a lei, fermando le sue mani con le mie, facendo in modo che non si spogliasse.
Le sistemai le bretelline e accarezzai il suo viso per asciugarle le lacrime.
“Cosa dici, piccola? Pensi davvero che farei una cosa del genere? Non potrei mai.”
Era incredula: “Ma hai detto che volevi la mia compagnia, giusto?”
Sorrisi e annuii: “Non capisci che, vorrei proteggerti da chiunque voglia approfittare di te senza considerare la tua ingenuità? Bunny, io non voglio che qualcuno ti tocchi, il solo pensiero mi fa impazzire, ma non potrò proteggerti sempre. Prima o poi capiterà che qualcuno riesca ad entrare qui, anche se tu in realtà non lo vuoi, anche se io ne morirei.”
Ero fuori di me al solo pensiero, poggiai la mia fronte contro la parete. Avrei voluto sbatterla e rendermi conto che era tutto un sogno. Che la realtà era diversa. Nessuna Bunny dolce e tenera, nessun essere perfetto che sconvolgesse la mia vita.
“Chi sei tu che in punta di piedi entri nella mia vita sconvolgendo la mia esistenza?”
Mi voltai dopo averle sentito pronunciare quelle dolci parole.
Mi guardava e i suoi occhi malinconici parlavano.
Col respiro affannato, avvicinandomi a lei, tra sentimenti contrastanti di rabbia, impotenza e amore nei suoi confronti, risposi:
“Tu chi sei che, solo con un tuo sorriso, fai crollare le mie certezze e mi rendi un uomo diverso, un uomo migliore?”
Rimase in silenzio, voltandosi di spalle e avvicinandosi alla portafinestra da cui era possibile ammirare la Luna piena.
La sentivo piangere.
Le andai dietro e cingendola con le mie braccia le chiesi:
“Bunny, ti prego, vieni via con me. Io ho bisogno di te, io…”
Si voltò di scatto verso me, ora eravamo uniti, così vicini da sembrare un tutt’uno.
Mi mise l’indice della mano destra sulle labbra:
“Ti prego non dirlo…”
Baciai il suo dito e lei ansimò, di paura.
“Non capisci che non sono come gli altri? Sì, lo sono stato ma da quando ti ho conosciuta io mi sento diverso, tu mi hai reso diverso.
Grazie a te, ai tuoi dolci occhi e al tuo modo di essere, così ingenuo e tenero, il mio mondo è crollato, tu ne hai costruito uno migliore. Io non voglio perderti, non ora che ti ho trovata.
Io ti amo, Bunny.”
Una lacrima scese dal mio viso, per la prima volta in tutta la mia vita, non me ne vergognai.
Il suo sguardo ora era triste e combattuto, so che avrebbe voluto dire anche lei che mi amava, percepivo che voleva lasciarsi andare a quel dolce sentimento di cui entrambi avevamo bisogno.
Accarezzò il mio viso, con le dita tremanti, per asciugarmi le lacrime.
“Tu mi ami?” incredula, chiese.
Annuii soltanto, sorridendole e guardandola con intensità negli occhi. Stavolta volevo che fossero loro a parlare, a farle capire la verità.
“Marzio, credimi, prima non volevo trattarti male dicendoti che mi stai facendo del male. Perdonami.
Il fatto è che io non sono abituata ad avere qualcuno che mi voglia bene, che mi faccia sentire bene. Tu con la tua dolcezza e il tuo essere protettivo, mi hai spiazzato.
Io so di provare un profondo sentimento per te ma non posso, devo frenarlo prima che mi faccia morire.”
Nel frattempo continuavamo a stare abbracciati. Io con le braccia attorno alla sua schiena nuda e lei con le mani sulle mie braccia.
Nessuno dei due voleva allontanarsi.
“Bunny, vieni via con me, credimi, ti aiuterò, ti proteggerò, mi prenderò cura di te e Usa. Non sei obbligata a stare qui, non più.”
Abbassò lo sguardo, scuotendo la testa.
“E se ti stancassi di me? E se non fossi in grado di affrontare la mia situazione? Io che farei? Non potrei più tornare qui. E poi… ho firmato un contratto annuale con lady Amy e recedere significherebbe dover pagare un risarcimento di una somma a tanti zeri. Io non posso.”
“Sei quindi disposta a concederti al primo schifoso che voglia approfittare di te? Vuoi davvero perdere la tua ingenuità con il primo che capiti? È questo ciò che vuoi? Vedere ogni sera uomini mangiarti con gli occhi e usarti come se fossi una delle tante?”
Mi guardò sconvolta e spaventata.
“Vuoi che la tua prima volta sia solo un dovere professionale? Sei disposta a questo invece di fidarti di me?” continuai, cercando di farla ragionare, stavolta con un tono più dolce.
Scrollò la testa, che teneva bassa, come a dire no, mentre la sentivo tremare e piangere.
“Vieni via con me, amore mio.” Lo sussurrai al suo orecchio e le baciai la guancia. Era bagnata dalle lacrime e morbida.
Mi cinse il collo con le braccia e accarezzò i miei capelli. Era una sensazione divina.
“Voglio che la mia prima volta sia con te.” Mi baciò il mento.
Rimasi di sasso. Lei voleva farlo per la prima volta con me. In che senso?
“Cosa significa?” domandai.
“Se lavorare qui significa concedersi a chi lo desideri, allora voglio che la prima volta sia con te.”
Mi sentii crollare il mondo addosso, quel mondo migliore che lei, con la sua dolcezza, aveva costruito.
Mi allontanai da lei, voltandole le spalle:
“Scordatelo. Non sarò per te il primo di una lunga serie di approfittatori. Io… io ti voglio tutta per me, lontano da questo posto. Perché ti ostini a non capire? Perché non vuoi fidarti di me?”
“Non volevo offenderti. Mi dispiace. So che non approfitteresti mai di me e sappi che non ti considero uno da usare. Anche io ti vorrei tutto per me. Anche io vorrei essere tutta tua, Marzio.”
Mentre parlava mi teneva una mano tra le sue. Non riuscivo a vederla, dato che ero di spalle, ma avvertii il suo sguardo confuso e sempre più triste.
“La proprietaria non mi lascerebbe mai andar via. Mi considera una delle migliori. Sia perchè, essendo nuova, attiro maggiori spettatori e sia perché… insomma…sono ancora…”
Mi voltai di scatto. Il mio cuore ormai aveva cessato di battere. Avrei preferito morire al suono di quelle parole.
“Allora ti concederai, non è vero?”
“Non voglio ma ho un contratto che lo prevede, i soldi mi servono e qui mi pagano bene. Credimi, lo faccio solo per Usa, non me lo permetterei mai se, per colpa mia, lei non potesse essere curata.”
I suoi occhi lucidi tremavano e brillavano allo stesso tempo.
“Mi costringi a prenderti e portarti via se non vuoi capire che non devi preoccuparti. Ci penserò io a voi. Mi prenderò io cura di te, piccola mia.”
“Marzio, non rendere tutto più difficile, io non avrei mai dovuto incontrarti. Adesso è tutto complicato, non doveva esserlo…”
“Potrebbe essere tutto più semplice, potresti essere felice. Potremmo esserlo assieme.”
“Marzio, lady Amy non accetterebbe mai che io andassi via e, se anche riuscissimo a pagare l’enorme risarcimento, lei è molto influente in questa città, hai visto quanti uomini di potere frequentano questo locale, molti sono medici del reparto dove è ricoverata mia sorella. Ho paura che si vendichi su Usa. Non posso permetterlo. Mi dispiace.”
 Adesso non sapevo più cosa dire, come convincerla.
Mi sentivo di nuovo impotente. Avrei tanto voluto svegliarmi da quell’incubo che ci voleva separati.
Portai la mia mano alla testa, tirando indietro i ciuffi che mi scendevano sulla fronte. Ero confuso, in quel tunnel senza uscita.
Lasciò la mia mano e si voltò.
“Ti prego, se è vero che mi vuoi bene, và via, Marzio. Te lo chiedo per favore.” La sua voce tremava, Lei combatteva con le sue emozioni, coi suoi sentimenti e piangeva.
Chiusi gli occhi per un attimo, cercando di rimanere lucido.
Mi avvicinai a lei, le accarezzai i lunghi capelli, che quella sera aveva tenuto sciolti, e baciai dolcemente la sua guancia.
“Non puoi neanche immaginare quanto bene ti voglia. Sappi che ci sarò sempre per te.” Lo sussurrai e poi, facendomi coraggio, nonostante sentissi il mio cuore frantumarsi e lei singhiozzare, uscii dalla stanza, richiudendo la porta dietro di me.
 


Il punto dell'autrice

Eccomi con il nuovo capitolo, spero vi sia piaciuto!
Ovviamente ho ancora tanto da scrivere e tante emozioni da regalarvi, quindi spero continuerete a seguirmi e a farmi sapere cosa ne pensate, per me è davvero molto importante.
Vi ringrazio di cuore per tutto l’affetto che mi dimostrate!
Un bacio e a presto!
Demy

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Capitolo 5
*** Addormentarsi al 'chiaro di luna' ***


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Cap. 5: Addormentarsi al 'chiaro di luna'.


Uscendo da quel luogo infernale, ma in cui avevo trovato la redenzione ai miei peccati, ad una vita fatta di scelte sbagliate e di materialismo, oltre che di opportunismo, la città mi apparve diversa.
New York City, la città che non dorme mai, piena di luci che rendono Manhattan by night, a mio avviso, la città più bella del mondo *.
Un luogo suggestivo dove perdersi tra le mille opzioni, fra le tante tentazioni, senza pensare ai problemi della propria vita.
Eppure, quella notte, camminando accarezzato dal gelido freddo per le vie dell’East Side, riflettei sul fatto che io avevo soltanto trovato nuovi problemi, nuovi insormontabili guai che non presentavano una via d’uscita.
Il mio passo era lento, camminavo come un automa.
Non mi importava più di nulla. Se non potevo avere Lei, se non potevo starle accanto e renderla felice, la mia vita non aveva alcun senso. Non più.
Mi fermai un attimo, le mie gambe erano troppo tese. Io ero troppo teso.
Mi sedetti su una panchina, a Central Park, ripensando al mio incontro con Lei all’ingresso di quel luogo, alla nostra colazione, alla sua tenerezza. Dannazione, ma perché? Perché dovevo rinunciare a Lei, a una vita felice assieme a Lei? Perché non mi permetteva di renderla felice, come meritava? Con le mani a sorreggermi la testa, cercavo una soluzione ma non la trovavo.
L’aria era sempre più gelida, mi costrinse ad alzarmi e ritornare sull’East Side.
Di fronte all’ingresso del Parco, un’insegna luminosa, raffigurante una ragazza dai capelli rosa in groppa a un cavallo alato, attirò la mia attenzione. Sentivo troppo freddo e non volevo tornare a casa. La solitudine mi avrebbe fatto ripensare, ancora di più, a Bunny. Sarei impazzito.
Mi avviai all’interno del locale, avvertendo, lì, calore, udendo musica rock.
Era un luogo frequentato per lo più da uomini, un ritrovo per amici dove poter giocare a biliardo e guardare le patite degli Yankees.
Mi accomodai su uno sgabello al bancone del bar, ora la sensazione di freddo era scomparsa.
Una ragazza, Ursula credo si chiamasse, mi chiese cosa desiderassi bere.
“Scotch liscio, doppio.”
Mi servì il mio liquore. Lo bevvi tutto in un sorso. Ora la gola mi bruciava ma, almeno, stavo già allentando la tensione.
“Un altro, per favore.”
La ragazza mi sorrise, ecco un’altra possibile preda.
Bevvi ancora una volta quella pozione contro la memoria, contro i problemi. Adesso la testa iniziava a girarmi, mi sentivo strano, diverso, più leggero.
Sì, iniziavo a stare meglio.
“Non c’è due senza tre, fammene un altro!” anche la mia voce era diversa, più allegra, più spensierata.
“Non vorrai sentirti male, spero?” Ursula mi guardava curiosa ma anche con un po’ di malizia.
“Non potrei mai stare peggio di così, fammene un altro.”
Stavolta non disse nulla, riempì il bicchiere e me lo servì.
In meno di tre secondi lo svuotai. Adesso la mia gola era in fiamme, il mio stomaco avrebbe voluto uccidermi, ma almeno adesso stavo bene, ero entrato in un mondo tutto mio.
Un mondo spensierato, senza preoccupazioni, senza Lei.
No, impossibile. Non appena portai le mani alla testa, come a volerla sostenere, evitando che tutto il locale mi ruotasse attorno per effetto dell’alcool in circolo, il pensiero di Bunny ritornò alla mia mente.
Lei che ballava sensuale quasi nuda, lei che piangeva, che diceva di provare un forte sentimento per me… tutto ciò mi fece stare ancora peggio.
Adesso non ero, giuridicamente parlando, nel pieno delle mie facoltà di intendere e volere. O meglio. Non ero in grado di  intendere, di ragionare, di essere razionale. Ma sapevo bene cosa volevo, chi volevo. Io volevo Bunny, desideravo più di qualsiasi cosa al Mondo averla tutta per me, fra le mie braccia. Volevo sentire il suo respiro, assaporare la sua pelle liscia e delicata, sentire il suono della sua risata cristallina, vedere la luce nei suoi occhi pieni di gioia e di amore.
E invece non potevo, lei non me lo permetteva. Lei mi voleva lontano da sé, voleva dirmi addio, concedersi al primo venuto solo perché, per lei, questo era l’unico modo poter aiutare sua sorella.
Che situazione!
Pagai i miei drink e mi diressi verso l’uscita con quelle riflessioni che vagavano nella mia mente.
La prima sensazione appena fuori dal Pegasus, questo era il nome del locale, fu quella, a parte avvertire il freddo gelido, di vedere i grattacieli venirmi incontro, l’East Side ruotare, il Polmone verde ondeggiare.
Ero ubriaco fradicio, la mia mente, ancora invasa da mille pensieri, era leggera, il mio cuore invece portava un enorme tormento.
Non volevo andare a casa, io volevo stare con lei, dovevo proteggerla, amarla. Era l’unica cosa di bello, di veramente bello, che mi fosse capitata nella vita.
Se è vero che l’alcool toglie i freni inibitori, i miei adesso erano stati del tutto disattivati. Ciò mi portò a fare qualcosa che in maniera lucida non avrei mai fatto; non perché non volessi, ma perché la amavo…
Ebbene sì, barcollando tra le strade di Manhattan, ero di nuovo diretto al Moonlight.
 
Il Moonlight era situato sulla East Side, la parte destra di Manhattan, divisa da Central Park dalla West Side.
Non distava molto dal Parco e dallo Jupiter; un po’ di più, invece, dall’ospedale in cui era ricoverata Usa, nell’Upper East Side.
Il night club, che faceva ad angolo, era composto da due piani.
Al piano terra vi era il palco per lo show, i salottini con poltroncine e divanetti in pelle bianca, da cui era possibile ammirare i balletti delle ragazze e un bancone bar per i drinks che spesso i clienti offrivano alle intrattenitrici. Dietro il palco, invece, erano situati i camerini, pieni di costumi, in cui le ragazze potevano prepararsi per le varie esibizioni.
Al primo piano, invece, un lungo corridoio portava alle camere da letto delle ragazze, dove, oltre a dormire, intrattenevano anche i clienti del locale.
Si poteva accedere alle camere dal piano terra, come spesso avveniva dopo le esibizioni, oppure dalla scala esterna.
Quest’ultima veniva più che altro usata dai parenti e amici delle ragazze, o dalle stesse quando rientravano o uscivano durante il tempo libero.
Un modo, insomma, per essere indipendenti dato che, dopo lo show e l’uscita dei clienti, l’ingresso principale veniva chiuso e le luci dell’insegna si spegnevano.
 
Con le gambe che non si reggevano più in piedi, barcollando, arrivai finalmente al Moonlight.
Salii, tenendomi al poggia mano d’acciaio, al primo piano.
La porta era aperta e non mi fu quindi difficile accedere al corridoio.
Una volta dentro, la stanza del mio angelo biondo era una delle prime, la settima sulla sinistra per l’esattezza.
Mi avviai, tenendomi alla parete per non perdere l’equilibrio, verso la sua stanza.
Mentre ero ancora vicino alla porta d’ingresso, quella della sua stanza si aprì e un uomo sulla quarantina, uscendo, andò via.
No, non era possibile. Chi era quello? Cosa le aveva fatto? E lei, cosa gli aveva permesso di farle?
Le lacrime uscirono spontanee dai miei occhi blu, il cuore voleva uscire dal mio petto. In quel momento avrei voluto vomitare anche l’anima, svegliarmi dall’incubo e trovare Lei dormire beata al mio fianco.
Barcollando a passo più svelto, arrivai alla porta della sua stanza, ormai richiusa visto che l’uomo era andato via dalla parte opposta approfittando del fatto che il locale fosse ancora aperto.
Bussai con tutte le forze che avevo, anche se l’alcool mi aveva stordito così tanto da non sentire nessuna sensazione di dolore alla mano.
“Bunny, apri! Ti prego, aprimi!”
Lo urlavo, lo imploravo.
Sapendo che non me ne sarei andato e temendo che qualcuno potesse sentirmi, aprì la porta e spalancò gli occhi non appena vide in che condizione io fossi.
“Che cosa ci fai qui, Marzio?!”
Era incredula. I suoi occhi ormai erano gonfi e rossi per le tante lacrime versate, davanti a me e dopo che io andai via.
Appena la ebbi davanti a me, con addosso una vestaglia di raso rosa, persi l’equilibrio finendo su di lei.
Nonostante fosse più bassa di me e molto fragile, cercò di sorreggermi, stringendomi per il busto.
Io invece avevo le braccia attorno alla sua schiena, a contatto coi suoi lunghi e stupendi capelli dorati.
“Marzio, che hai fatto?” mi chiese sconvolta. Non si sarebbe mai aspettata una situazione del genere. Non da me, almeno. Da me che fin a quel momento mi ero sempre dimostrato lucido e protettivo.
“Bunny…” era tutto ciò che riuscii a dire, anche se erano tante le domande che volevo farle.
Come ad esempio sapere chi fosse quell’uomo, o meglio, cosa le avesse fatto.
Dirle poi che la amavo troppo e che la volevo solo per me; che non mi sarei arreso fin quando non fossi riuscito a portarla via con me.
Sapevo che il non riuscire a esprimermi era colpa dell’alcool, mi stordiva, mi toglieva la capacità di parlare e ragionare, ma non di agire.
Anzi, mi spingeva a fare ciò che a mente lucida non avrei mai osato.
Stretto a lei, ripresi l’equilibrio, portandomi dritto sulla schiena, e appoggiandola, con dolcezza ma allo stesso tempo con passione, alla parete beige.
Adesso il suo corpo aderiva perfettamente al mio, i suoi seni erano schiacciati con delicatezza dal mio torace, ma il suo sguardo era confuso, quasi perso nel vuoto.
Mentre continuava a rimanere con le braccia attorno alla mia schiena, presi il suo viso tra le mani:
“Guardami Bunny! Guardami, amore mio!”
La mia voce tremava, piena di disperazione.
“Tu sei ubriaco…” ne era dispiaciuta. So che si sentiva in colpa, sapeva che lo avevo fatto per lei.
Con le mani su quel tenero e soffice viso dissi:
“Cosa ti ha fatto? Dimmelo, Bunny!”
Per un attimo sembrò non capire a cosa mi stessi riferendo, aggrottò la fronte posando le sue mani sulle mie:
“Di cosa stai parlando, non vedi che non ti reggi in piedi?”
Aveva ragione, a contatto col suo corpo ero io che avevo bisogno di un appiglio, avevo bisogno di lei:
“Ti ha toccato? Maledizione, dimmelo! Dimmelo e lo uccido!”
Iniziò a piangere, a tremare, di nuovo.
Lo presi come un . Mi uccise, mi trafisse l’anima passando per il cuore. Un cuore che aveva iniziato a battere e ad amare grazie a lei, solo per lei.
Caddi a terra, in ginocchio davanti a Lei.
E lì, con la testa poggiata sul suo basso ventre e le braccia sui suoi fianchi, iniziai a piangere, a lasciarmi andare. Non lo avevo mai fatto prima. Prima, quando era tutto diverso, quando io ero diverso.
In quel momento non c’era malizia, io ero un fedele devoto e lei la mia Madonna.
Entrambi feriti, sconvolti. Piangevamo e tremavamo.
Mi poggiò le sue mani sui capelli:
“Marzio…” neanche lei riusciva a parlare, singhiozzava.
“Sta’ zitta Bunny, sta’ zitta…” ripetevo, piangendo, in quella posizione.
Si lasciò andare, cadendo per terra in ginocchio di fronte a me.
Mi strinse, portando con le sue mani la mia testa sul suo petto, come suole fare una madre col proprio bambino.
“Volevo che fossi felice, che lo fossimo assieme. Non volevo che qualcuno approfittasse di te… non sono riuscito a proteggerti…”
Sentivo battere il suo cuore, forte. Sapevo che batteva per me, per l’amore che provava per me ma a cui non poteva lasciarsi andare.
Mi baciò la fronte dopo aver accarezzato i ciuffi che vi scendevano:
 “Non è come pensi tu, doveva soltanto parlarmi. Non mi ha sfiorata, sto bene… sta’ tranquillo, amore mio.” Le sue parole erano un sussurro pieno di rassicurazioni e, assieme a quelle dolci carezze ai miei capelli, mi donavano una sensazione divina.
La strinsi ancora più forte, piangendo sempre di più lì dove batteva il suo cuore puro. Stavolta per sfogarmi, per liberarmi dall’enorme tensione accumulata e dall’immensa paura che qualcuno le avesse fatto del male.
Ero felice, stravolto ma felice. Inoltre, mi aveva chiamato amore, si era lasciata andare.
Alzai la testa per incontrare i suoi occhi. Mi sorrise dolcemente, con gli occhi lucidi che si intendevano coi miei.
La guardai senza dire nulla. Non ce ne era bisogno.
“Ti amo, Marzio. Avrei dovuto dirtelo prima. La vita è breve. Dovevi saperlo. Ti amo.”
In quel momento furono così tante le emozioni che provai che cercare di descriverle sarebbe impossibile.
Felicità, gioia, realizzazione di un sogno meraviglioso…
Non so bene, ricordo solo che in quel preciso istante le presi, rimanendo in ginocchio, il dolce viso tra le mani.
Lei mi cinse il collo con le braccia, accarezzandomi i capelli, e chiuse gli occhi.
Li chiusi anche io e, dopo, la baciai.
Teneramente, con dolcezza, rispettando quelle labbra, così morbide e carnose, come se fossero una reliquia.
Ricambiava i miei dolci baci e mi sfiorava con le dita le guance.
Un bacio, un altro, un altro ancora. Non riuscivamo più a separarci, non volevamo.
Le accarezzavo la schiena e i lunghi capelli. Volevo rimanere in quella posizione per l’eternità e, anche, oltre. Avevo paura che se l’avessi lasciata un solo istante, se avessi allontanato le mie labbra dalle sue, la favola sarebbe finita. Non potevo permetterlo, non adesso, non da quel momento in avanti.
Cercai di alzarmi, senza staccarmi da lei e dai suoi favolosi baci.
Si alzò anche lei, tenendomi stretto, baciandomi e accarezzandomi.
Adesso i suoi occhi erano sereni, il suo corpo rilassato. Sembrava felice, almeno, era quello che speravo.
Tenendola per la schiena, le sollevai le gambe e la presi in braccio.
Mi cinse il collo con le braccia e appoggiò la testa sulla mia spalla.
La adagiai, delicatamente, sul suo letto matrimoniale e mi sdraiai accanto a lei.
L’effetto dell’alcool stava svanendo lentamente ma la testa mi girava ancora un po’.
Chiusi un attimo gli occhi portando la mia mano alla fronte, come a voler alleviare quell’enorme mal di testa.
“Perché lo hai fatto, amore mio?” mi domandò dispiaciuta, tra un bacio e un altro.
“Volevo stare meglio, non pensare a ciò che era successo. Non volevo pensare a te che mi dicevi addio.”
Sospirai e ripresi:
“Cosa mi hai fatto, Bunny? Come mi hai fatto diventare? Io non ho mai fatto nulla del genere… tu mi hai cambiato… mi hai fatto diventare diverso.”
La mia voce era confusa, stanca, influenzata dall’alcool. Ma le mie parole, i miei sentimenti erano veri e sinceri.
Appoggiò la sua testa sul mio petto e mi strinse forte:
“Oh, Marzio…mi dispiace tanto…” si sentiva in colpa.
Con le poche forze che avevo, accarezzai la sua testa, scombinandone di proposito i capelli:
“Mi hai reso un uomo migliore, Bunny… ti amo, piccola mia.”
Si strinse ancora di più a me e, anche se lei cercò di non farsi accorgere, la avvertii piangere in silenzio trattenendo i singhiozzi.
Non so se disse qualcos’altro, perché lì, con lei fra le mie braccia, mi addormentai al chiaro di luna.
Felice. Pensando che il mio sogno meraviglioso si fosse appena avverato, che insieme avremmo risolto tutto e avuto una vita splendida, piena d’amore e di felicità.
Ovviamente non avevo considerato che quella non era una favola e neanche un anime e quindi presto, sulla mia felicità, fui costretto a ricredermi…

continua…
 

Note:
*: ovviamente il fatto che NYC sia la città più bella del mondo è solo una mia opinione!
Chiaro di luna è un gioco di parole, dato che significa Moonlight.

 

Grazie mille, di cuore, a:
-china91
-pianistadellaluna
-funny84
-alemagica88
-sun86m
SerenityEndimion
-star86
Per aver segnalato Moonlight per le scelte.

Grazie a:
1- Angelica82
2 - china91
3 - cri88
4 - Ily94
5 - pianistadellaluna
6 - serenity82
7 - SerenityEndimion
8 - sun86m
Per aver messo Moonlight fra le preferite.

Grazie a:
1 - alemagica88
2 - Bulm88
3 - hoshi90
4 - Lisanechan
5 - micina82
6 - Serenity 4ever
7 - star86
8 - Thaila
9 - Usagi95
10 - vanny 3
11 - wingedangel
12 - _Principessa di Cristallo_
13 - _Sofia_
Per aver inserito Moonlight fra le seguite.
 
Il punto dell'autrice

Carissimi lettori, so che questo capitolo è un po’ più breve dei precedenti (e dei successivi), ma ho ritenuto giusto concluderlo così, dato che il cap. 6 sarà molto intenso e lungo e non volevo contrastasse molto con questa parte(che spero tanto abbiate apprezzato).
Mi auguro che il cap. sia piaciuto e non vi abbia deluso.
Alcune piccole cose saranno svelate successivamente (saprete chi era quell’uomo uscito dalla camera di Bunny!).
Spero continuerete a seguirmi, dato che il prossimo capitolo si prospetta molto caldo e pieno di colpi di scena…
Vi anticipo che accadrà qualcosa non molto bello per Bunny…
Quindi vi prego, non odiatemi e non uccidetemi!
Vi abbraccio e vi ringrazio sempre per l’affetto dimostratomi!
Demy

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Capitolo 6
*** La triste realtà ***


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Cap. 6: La triste realtà.

15 Novembre 2010
Moonlight – East Side

Mi svegliai tardi quella mattina, non so se per effetto dell’alcool che mi aveva letteralmente stordito o se per la stanchezza arretrata di quei giorni infernali.
So solo che una volta aperti gli occhi una strana sensazione mi pervase.
Inizialmente non ricordavo bene cosa fosse successo la sera precedente, la mia testa risentiva ancora dei drink bevuti con voracità.
Mi sedetti sul letto.
Adesso tutto mi sembrava diverso, mi appariva sotto una nuova ottica.
La stanza di Bunny era diversa alla luce del giorno rispetto a come la avevo vista io, di notte, al buio.
Adesso una nuova luce illuminava le pareti che apparivano di un beige pallido. I mobili bianchi in stile moderno, con le candele profumate e bastoncini di incenso, donavano alla camera un’aria seria e suggestiva, che contrastava con la semplicità e l’aspetto tenero di Bunny.
Ero certo che fosse stata arredata da lady Amy, pensata per i clienti e non per chi avrebbe dovuto viverci.
Ora ricordavo…
Ma certo!
Io che perso nella disperazione entravo al Pegasus, che bevevo, che trovavo quindi il coraggio per tornare da Lei con l’intenzione di portarla via con me.
Lei che mi diceva ti amo, che baciava le mie labbra, che si stringeva forte a me…
Ora appariva davvero tutto diverso, più bello, quasi irreale.
La realtà però era che finalmente anche lei si era abbandonata ai sentimenti provati per me.
Adesso avremmo superato gli ostacoli, le difficoltà, e costruito insieme la nostra felicità.
Guardai l’orologio a forma di luna sul comò di fronte il letto e mi accorsi che erano già le 9.00.
Ero abituato a svegliarmi alle 7.00 per poter scrivere o arrivare in orario ai miei appuntamenti di lavoro alla RoseEdition.
Quel giorno, però, sapevo che i miei impegni sarebbero passati in secondo piano, ma ciò non mi importava.
Adesso mi sentivo sollevato, come se niente e nessuno avrebbe potuto scalfire la gioia che provavo nel cuore.
Mi guardai attorno ma Bunny non c’era e così, alzandomi dal letto, mi diressi verso il piccolo bagno all’interno della stanza.
La porta era chiusa, bussai chiamando il suo nome ma nessuno rispose.
Aprii la porta e, niente, lei non c’era.
Solo quando tornai a sedermi sul bordo del letto per potermi rimettere le scarpe, notai un biglietto.
Era di Bunny:

Credo che se fosse stato un sogno, sarebbe stato il più bello di tutta la mia vita da cui non avrei mai voluto svegliarmi.
Ma la realtà è diversa e in questa vita è meglio che tu cerchi di dimenticarmi.
Ti amo, ma non posso.
Tu meriti la felicità, e io non posso renderti felice.
Ti prego, dimenticami, e se può aiutarti a farlo, allora odiami.
Chissà, magari in un’altra vita io sarò una principessa e tu il mio principe ed eroe, ma non in questa vita.
In questa vita sono soltanto una ragazza che cerca con tutte le sue forze di non perdere la cosa più preziosa che ha, anche sacrificando se stessa.
Ci ho provato, Marzio, a credere che insieme avremmo superato tutto, ma so che non funzionerebbe.
La vita è diversa dalle favole e questa non lo è, questa è solo la triste realtà.
Ti prego, odiami, dimenticami, ma per favore non cercarmi più.
Mi faresti, ci faremmo, solo del male. Ed io di sofferenza nel cuore, credimi, ne ho davvero troppa.
Spero un giorno tu potrai capire.
Addio, Marzio.
Tua per sempre
Bunny


In quel momento non riuscii a dire, a pensare e a fare niente.
Non ci credevo, in realtà, non volevo crederci.
Speravo fosse solo parte dell’incubo che ci voleva separati e che in realtà non c’era nessuna lettera amara, ma soltanto noi due.
Felici. Come meritavamo, come lei meritava.
E invece no, era la triste realtà, come aveva scritto lei.
Il mio respiro, una volta realizzato cosa significasse realmente il contenuto di quella lettera, divenne affannato, il mio cuore per un attimo sembrò essersi fermato.
Con il foglio di carta ancora in mano, mi lasciai andare indietro, sdraiandomi così, su quel letto in cui, quella notte, avevamo dormito stretti l’uno all’altra, lontano da tutto e da tutti.
Portai entrambe le mani al viso.
Non sapevo se strappare quel foglio che conteneva la triste realtà, che infrangeva la nostra felicità, o se conservarlo, rileggendolo tutte le volte che, già sapevo, Lei mi sarebbe mancata.
C’era scritto ti amo e ciò mi avrebbe fatto sentire meno male, mi avrebbe fatto pensare a Bunny, a noi. A ciò che di bello avrebbe potuto esserci.
Mi avrebbe fatto rivivere il momento in cui me lo aveva detto, e avrei ricordato che lei si considerava mia per sempre.
Avrei voluto urlare, cacciare via il mio dolore. Ci avevo provato, ci avevo sperato, ma non ero riuscito a proteggerla, a salvarla da quel mondo sporco non adatto a lei e alla sua dolcezza e ingenuità.
Realizzai, quindi, che la avevo persa, prima di poterla avere.
Non potevo fare altro che rassegnarmi.
Non volevo, ma le avrei fatto altro male e io volevo soltanto vederla felice.
So che in fondo non lo sarebbe stata ma almeno non sarei stato io la causa dei suoi problemi, dei suoi conflitti interiori. Non sarebbe più stata costretta a combattere tra i sentimenti provati per me e il senso di dovere verso Usa.
Di certo, in ogni modo, io non la avrei mai abbandonata.
Le sarei rimasto accanto, di nascosto, per proteggerla e vegliare su di lei.
Come un angelo, sul mio angelo. Sperando che, prima o poi, avesse capito di potersi fidare tornando da me per rendermi felice.
Io la avrei aspettata per tutta l’eternità.
Sospirai e, piegando il foglio, lo conservai nella tasca dei pantaloni.
Sentivo la musica utilizzata per le esibizioni, probabilmente le ragazze stavano provando. Sicuramente Bunny era lì con loro.
Per un attimo ebbi un tuffo al cuore. Gelosia, rabbia.
Poi mi feci forza.
Non dovevo più pensarci.
La avrei aspettata per tutta la vita, ma non avrei più dovuto pensare a lei. Sempre se ciò fosse stato possibile.
Uscendo dalla stanza che, credevo non avrei più rivisto, mi appoggiai alla porta, credendo che quel contatto avesse potuto farmi sentire più vicino a lei, come se avesse potuto darmi un po’ più di forza e grinta per affrontare la vita senza colei che aveva cambiato il mio Mondo senza poterne fare parte.
Mi diressi verso la porta d’uscita del locale del primo piano, in fondo al corridoio.
Speravo non mi vedesse nessuno.
 
Era severamente vietato al Moonlight dormire insieme alle ragazze.
Le intrattenitrici dovevano mandare via i clienti una volta terminati i loro obblighi professionali.
Erano le regole di lady Amy e se qualcuna avesse disobbedito, sarebbe stata duramente punita.
La logica di tale regola?
Beh, da una parte si voleva evitare che le ragazze si ritrovassero dopo il lavoro con uomini non liberamente voluti, evitando quindi che questi potessero approfittare della situazione.
D’altra parte si cercava di evitare che le ragazze si innamorassero di ragazzi e dormissero assieme a loro.
 
Non volevo mettere nei guai Bunny, le avevo soltanto fatto del male da quando la avevo conosciuta.
E anche se entrambi sapevamo che in fondo non era così, i suoi occhi erano stati sempre pieni di lacrime, il suo cuore agitato da quando ero entrato nella sua vita.
Io non volevo questo ma, se per renderla felice, o meglio, serena, dovevo starle lontano, pur soffrendo disperatamente, lo avrei fatto.
 
Di nuovo sull’East Side, per le vie di Manhattan.
La City, come sempre, era super affollata da migliaia di persone che camminavano a passo svelto.
Io, invece, in contrasto con la frenesia della città, mi dirigevo lentamente lontano da quel posto in cui avevo trovato la vita e, allo stesso tempo, infranto la mia felicità.
Con la mente persa fra mille, confusi pensieri, mi avviai verso casa.
Il suono del mio telefono cellulare mi riportò, però, alla realtà.
Era mister Taiki, chiedeva notizie sul mio libro sperando che fossi già a buon punto.
Se solo avesse saputo!
Il mio libro era l’ultima cosa a cui pensavo, in quelle condizioni, però i tempi di consegna andavano rispettati.
Fu per questo che posticipai l’incontro, voluto da mister Taiki per quel pomeriggio, al giorno successivo.
Cercavo di guadagnare tempo e così, magari, non pensare a Lei a contatto col mio corpo, ai suoi occhi dolci e tristi, alle sue labbra morbide e calde sulle mie, alle sue carezze.
Oddio, lo stavo rifacendo! Stavo di nuovo pensando a lei!
 
Giunto nel mio appartamento, mi spogliai ed andai a fare una doccia.
Ne avevo bisogno. Chissà, magari dopo mi sarei sentito meglio.
E così, sotto il getto della doccia, rigorosamente fredda tanto da tonificare il mio fisico statuario, mi ripulii del suo odore, ma non di Lei.
Non ci riuscivo, non sapevo se ce l’avrei mai fatta, sapevo soltanto che stare da solo era controproducente e così, indossati un maglione grigio e un paio di jeans, rimisi il mio cappotto e, con la valigetta del mio notebook in mano, mi diressi al Crown.
 
Il locale era molto affollato ma, nonostante ciò, riuscii ad accomodarmi al solito divanetto in pelle bianca, dove riuscivo a concentrarmi.
Il Crown non era il classico locale americano dove fermarsi a mangiare qualcosa di sbrigativo in pausa pranzo o a bere il solito caffè.
Era molto fine ed elegante, frequentato da gente di un certo rango sociale, per lo più scrittori e letterati, dove era anche possibile utilizzare la connessione internet del locale per poter svolgere il proprio lavoro anche durante i pasti, quando necessario.
Era sempre molto silenzioso e, in tal modo, io potevo dedicarmi a ciò che nella vita sapevo fare bene: scrivere.
 
Moran era impegnato a servire dei pancakes ad alcuni clienti seduti al bancone.
Mi notò entrare, al suono del campanello sopra la porta d’ingresso, e mi fece l’occhiolino sorridendo.
Ricambiai il sorriso e mi diressi al divanetto.
Iniziai a scrivere il terzo capitolo, parlando del grave problema e comune malattia incurabile in una città come NYC. E cioè l’amore.
Le donne dicevano di non trovare l’uomo giusto, quello che sapesse renderle felici e farle sentire delle principesse in un regno chiamato Manhattan.
Tutte balle.
Non erano gli uomini ad essere sbagliati, ma le donne ad essere troppo emancipate e frivole per la mentalità maschilista di tutti i tempi.
E quando incontravi una donna che in meno di quarant’otto ore riuscisse a sconvolgere la tua esistenza, a far venire meno le tue certezze e renderti un uomo migliore…
Bang! Era la fine.
Si impossessava di te, della tua anima e della tua speranza di essere un uomo migliore per lei, solo grazie a lei.
Chi era a questo punto il problema?
L’uomo della City che illudeva le donne e le rendeva incapaci di amare, o certe donne maledettamente dolci e perfette tanto da cambiarti l’esistenza e poi dirti che non potevano renderti felici per come meritavi?
Ma loro che cosa ne sapevano se erano, o no, in grado di rendere felice un uomo? Un uomo che voleva solo stare con loro? Disposto a cambiare la propria vita per loro?
Mi fermai un attimo, capendo che la fonte della mia ispirazione e riflessione era lei, Bunny.
Ed io? Forse ero troppo cattivo con lei, la stavo considerando da un punto di vista sbagliato.
Lei non era come le altre che liquidano gli uomini con la scusa del non essere in grado di renderli felici.
No. Era lei, la mia Bunny, a non essere felice, a portare un dolore nel cuore che nessuno avrebbe mai potuto toglierle, nemmeno l’amore di un uomo pazzo di lei come me.
Aveva perso i genitori il 30 Giugno del 2009, giorno del suo diciottesimo compleanno.
Dopo qualche tempo, sua sorella Usa di soli quattro anni si era ammalata di leucemia al midollo spinale, costringendola a vivere in un reparto oncologico del Memorial Sloan Kettering Center *, sull’Upper East Side.
Bunny aveva dovuto rinunciare alla propria vita e alla spensieratezza tipica di una teen ager per accudirla, per farle da mamma. Lei che aveva pure bisogno del conforto e dell’amore della mamma.
Chi si prendeva cura di lei? Chi la coccolava di notte quando piangeva ripensando alla morte dei suoi? Quando cercava una soluzione per poter aiutare sua sorella e pagare le grosse spese mediche, temendo che la piccola non riuscisse a sconfiggere quel maledetto male?
Aveva dovuto sacrificare se stessa, i propri sentimenti, lavorando al Moonlight, pur di poter pagare l’assicurazione medica e le spese costose per le varie terapie. Viveva in quel luogo, spaventata, sola, temendo che di notte, prima o poi, l’inevitabile fosse toccato anche a lei.
Ed io, come potevo paragonarla alle altre? Come potevo scaricare la mia rabbia su di lei?
Io che avevo sempre avuto tutto? Io che ero il classico ragazzo viziato? Ero ingiusto.
Feci una pausa, era necessaria o sarei andato in tilt.
Mi diressi al bancone dove Moran mi servì una tazza di caffè amaro.
“Hai una brutta cera, che ti è successo? Hai dormito poco stanotte?”
Ecco di nuovo il suo solito sorrisino malizioso.
Seduto al bancone, dopo aver sorseggiato il mio caffè risposi:
“Stanotte ho dormito come non mai nella mia vita, credo sia proprio questo il problema…”
“Sei rimasto al Moonlight ieri notte? È così?”
Mi guardava curioso e incredulo. Quasi non credesse fosse possibile.
“Marzio, che ti succede? Sei diverso, non sembri il Marzio di sempre. Noi siamo amici, ci confidiamo tutto, perché non mi racconti cosa ti preoccupa?”
Era sincero, un caro amico di cui sapevo potevo fidarmi.
Avevo proprio bisogno di parlare con qualcuno e sfogarmi, altrimenti sarei impazzito.
Finii il mio caffè e, con i gomiti sul bancone, portai le mani a sorreggermi la testa.
“È per Bunny, non è vero?”
Mi stupii, non credevo l’avrebbe mai capito.
“Come lo hai capito?!”
Rise, dandomi una pacca sulla spalla, venendosi a sedere su uno sgabello accanto a me.
“Ti conosco da quindici anni, sei il fratello che non ho mai avuto e ho visto la tua espressione durante le sue esibizioni…
 Per non parlare di come hai colpito Seiya e per come ti sei allontanato ieri notte durante il suo balletto. Non è da te.”
“Non sono più io, Moran, da quando la conosco…”
Aggrottò la fronte: “Che vuoi dire?”
“Mi sento diverso. Da quando l’ho conosciuta non mi importa più di nulla, solo di lei. Lei è diversa, è speciale, ha reso un playboy come me in uno che ha occhi solo per lei. La amo, Moran.”
“E lei? Ti ama?”
Il suo tono era quasi ironico, come se volesse prendersi gioco di me.
“Non credi di essere esagerato? In fondo come fai a dirlo? La conosci da due giorni, e se consideri che non siete stati assieme tutta la giornata, amico mio, la conosci da qualche ora!”
Mi alzai dallo sgabello dirigendomi verso il divanetto dove avevo lasciato il mio Apple: “Lascia perdere, Moran.”
Si sedette di fronte a me:
“Marzio, non volevo prenderti in giro ma, dai, sii obiettivo. Noi con le donne ci giochiamo, le facciamo divertire. Sai cos’è l’amore? Niente di tutto ciò che abbiamo provato con le ragazze. L’amore è tutt’altra cosa. Non so neanche se esista e, sinceramente, non mi pongo nemmeno il problema.”
“Bunny è l’amore. Bunny è il motivo per cui, come dici tu, mi sono spinto a fare cose mai minimamente pensate prima.
 È bastato un suo triste sguardo, la sua dolce voce, il suo stringersi a me in cerca di protezione ad aprirmi gli occhi e a farmi innamorare di lei.”
Sapevo di aver detto quelle parole come un bambino che fantastica sui propri sogni e le proprie speranze.
“Caspita! Ti ha ridotto proprio male! Scusa ma, allora, qual è il problema? Perché non glielo dici?”
“Lo sa già e mi ama anche lei.” La mia voce era piena di sconforto.
Aggrottò la fronte e portandosi una mano sotto il mento: “E questo è tutto il tuo entusiasmo?”
Scossi la testa e spiegai: “No, non sono entusiasta perché non possiamo stare assieme. Stanotte, dormendo assieme a lei mi ero illuso e invece…”
Moran non capiva, la colpa era mia che parlavo senza considerare il fatto che lui non sapesse nulla, in fondo non gli avevo mai accennato nulla in quei  giorni.
E così, iniziai a confidargli tutto, partendo dal mio primo incontro con Bunny davanti al Crown e finendo con la lettera scritta da Lei.
“Che cosa posso fare, Moran?” Speravo che lui potesse aiutarmi a trovare una soluzione.
“Cosa puoi fare, Marzio… non lo so proprio. È una situazione troppo delicata.”
Adesso era serio, diverso dal ragazzo che allegro e spiritoso che conoscevo e di cui sapevo potermi fidare.
Moran era il classico ragazzo bello e dannato ma c’era sempre nel momento del bisogno. Diventava saggio e maturo e io lo apprezzavo e stimavo tanto.
“Si dice che solo quando si rischia di perdere qualcuno si capisce davvero quanto questo sia importante.”
Non capivo: “Che vuoi dire?”
“Falle capire che può realmente perderti, che non la aspetterai per sempre.”
Solo dopo il suono del campanello, che preannunciava l’ingresso di nuovi clienti, Moran continuò facendo cenno con la testa verso la cliente appena arrivata:
“Falla ingelosire con quella lì!”
 Si alzò sorridendo avviandosi al bancone.
Solo allora notai la ragazza appena entrata. La conoscevo già.
Eccome se la conoscevo!
Sidia. Un’intrattenitrice del Moonlight, nonché ballerina.
 
Le prime volte che ero andato in quel locale, era stata molto carina e socievole con me, mettendomi subito a mio agio.
Avevo passato alcune notti insieme a lei.
Era bella, sensuale, insomma, la classica intrattenitrice che piace tanto agli uomini.
Sapeva come rendere soddisfatti i clienti e io approfittavo del fatto che lei era, realmente, attratta da me.
Chi, che mi conoscesse, non lo era!
Poi però, dopo un paio di volte, notando il modo in cui mi guardava, capendo che per lei non era più, al contrario di me, solo ed esclusivamente un gioco di qualche ora notturna, avevo preferito cambiare ragazza. Vedevo, però, che mi guardava, che mi mangiava con gli occhi, invidiando le mie nuove intrattenitrici.
Sì, in parte accresceva la mia autostima, ma poi iniziava a darmi fastidio.
Ce ne erano state altre al Moonlight dopo di lei, fino a quando conobbi Bunny. Da quel momento in poi volevo essere suo, soltanto suo, con il cuore e con il corpo.
Anche se non fossimo stati  mai assieme, io avevo deciso di esserle fedele.
 
Sidia mi notò e, sorridendo, avanzò verso di me.
“Ciao Marzio!” la sua voce era sensuale. Aveva dei lunghi capelli neri con dei riflessi più chiari e gli occhi marroni.
“Ciao Sidia, prego accomodati pure” dissi, non appena mi accorsi che sperava la invitassi a sedersi.
Sorrise e accettò. Ovviamente.
“Ti ho visto stamattina uscire dalla stanza di Bunny.”
Entrai nel panico.
 
Sapevo che all’interno del Moonlight albergava una spietata rivalità fra le ragazze. Non vi era amicizia, nemmeno in apparenza.
Era una sorta di gara fra loro.
A chi si aggiudicava il maggior numero di esibizioni, a chi riusciva ad intrattenere più clienti, insomma, a chi riusciva ad incrementare la clientela del locale.
Lady Amy le premiava, o meglio, le incentivava con un bonus, cioè uno stipendio più alto, molto più alto, nonostante gli stipendi delle dancers fossero già veramente alti.
 
E ora? Sapevo che Bunny non era ben vista dalle colleghe per la sua bellezza, per il suo riuscire, allo stesso tempo, ad essere dolce e molto sensuale. Un mix del tutto spontaneo e ingenuo che faceva letteralmente impazzire gli uomini, compreso me; tanto da farle aggiudicare, nonostante fosse solo una New entry, un’esibizione a sera e gli intrattenimenti notturni, per non considerare il contratto dal quale, recedere significava dover pagare un risarcimento a quattro zeri.
Non volevo che l’invidia e la gelosia di Sidia la mettessero nei guai.
Non risposi, abbassai la testa verso il monitor del mio notebook, come a sperare di trovare lì una risposta.
“Ti è piaciuto con lei? È stata brava o sono meglio io?”
Avrei tanto voluto dirle che rispettavo troppo Bunny e la amavo, e che il paragone non si poneva: lei era una come tante, Bunny era l’Amore.
Cercai di cambiare discorso per evitare di rispondere, sperando che non ci facesse caso:
“Sidia, sei bella senz’anima!”
Scosse la testa e il suo sguardo ironico e provocante sparì, la sua voce divenne seria:
“Tutti credono che le Moonlight dancers siano senz’anima. La verità è un’altra.
 Certe ragazze hanno un’anima, provano dei sentimenti e delle emozioni, ma gli uomini sono troppo concentrati a mangiarle con gli occhi per accorgersene.”
Divenni serio anche io, mostrandomi interessato alle sue parole.
In realtà io le disprezzavo tutte, le consideravo tutte uguali, interessate solo ai soldi. Egoiste, non curanti delle amicizie e dei rapporti umani. Sempre pronte a fare la spia e mettere le altre in cattiva luce.
Non lavoravano per necessità come Bunny ma per avere la vita facile. Per loro il Moonlight era un divertimento, un modo per accrescere la loro stupida autostima.
Rimasi in silenzio. Non sapevo che dire e non volevo che, se le avessi rivelato le mie impressioni su di loro, Bunny ne avrebbe pagato le conseguenze.
“Stasera sono libera al Moonlight… se ti va, ti faccio compagnia. Così, essendo impegnata non avrò tempo di raccontare a lady Amy di te nella camera della mocciosa stamattina.”
Sembrava una sfida, uno sporco ricatto.
Non potevo mettere Bunny nei guai, così fui costretto ad accettare.
La avrei usata solo per fare ingelosire Bunny durante la sua esibizione. Chissà se avrebbe sofferto vedendomi con Sidia. Se pensavo al suo sguardo durante la mia presentazione con Morea, credevo di sì.
In ogni caso, era l’unico modo per sperare che si rendesse conto che non voleva realmente rinunciare a me, a noi due assieme.
Presi coraggio:
“Stasera durante lo spettacolo ti voglio accanto a me.”
Sorrise, credendo di essere una vincitrice.
Sapeva che non mi interessava più e che se avevo accettato era perché non potevo permettere che mettesse nei guai Bunny.
Si alzò e, avviandosi verso l’uscita, mi disse:
“Sarò tutta tua.”
Dopo aver sentito il campanello suonare alla sua uscita, sospirai portando le mani alla testa e riflettendo:
Marzio Chiba, playboy, colui che, ricattato da un’intrattenitrice ha ceduto al ricatto per una donna.
Assurdo! Fino a tre giorni prima sarebbe stato assurdo.
Ma Bunny non era una donna qualunque. Bunny era l’Amore. Il mio, intoccabile, amore.
E così, riprendendo a scrivere ben due capitoli, aspettai che giungesse la notte e si riaccendessero le luci del Moonlight.
 
 
Erano le 23.45 quando giunsi al Moonlight.
Il calore all’interno del locale contrastava col freddo pungente della città.
L’accoglienza, poi, era eccellente.
Sidia mi vide e, facendo cenno a Rea e Marta di non avvicinarsi, coperta solo da un completo intimo di pizzo e raso nero, mi venne incontro.
Mi prese sottobraccio e mi fece accomodare in prima fila.
Appena il tempo di sederci, io sulla poltroncina sotto il palco e lei sulle mie gambe, che lo spettacolo iniziò.
Alcune dancers si esibirono, ma io non vi facevo caso.
La voglia di vedere Lei era tanta, la paura di farla soffrire facendomi vedere con Sidia pure.
Ordinai una bottiglia di Principe di Corleone ** per rallentare un po’ la tensione e l’ansia. Dovevo farmi coraggio a ciò che sarebbe accaduto appena Lei fosse salita sul palco. Dovevo farlo per lei, per noi.
Finalmente arrivò il suo turno e con esso aumentarono i battiti  del mio cuore.
Era bellissima. Indossava un nastro rosa che le fasciava e metteva in risalto le forme prosperose dei seni e, sotto, un gonnellino inguinale dello stesso colore.
Era un incanto. Sensuale ma dolce. O forse ero solo io che, al contrario degli altri, riuscivo a scorgere la sua tenerezza.
Sidia notò subito il mio sguardo perso nella bellezza di Bunny. Avvertiva la differenza rispetto a come ero solito guardare le altre.
Adesso nei miei occhi era evidente una luce piena d’amore, ammirazione, voglia di averla tutta per me e tanta, tantissima gelosia.
Sulle note di Only girl in the World di Rihanna, Bunny iniziò a ballare, sensualmente, piena di grinta.
Stava diventando sempre più brava e i clienti erano tutti pazzi di lei, bramosi del suo corpo.
I commenti e gli applausi erano molto calorosi.
Io invece ero immobile, perso nel mio mondo in cui esisteva solo lei con la sua dolcezza.
Sidia cercò di distrarmi, iniziando a baciarmi il collo, sotto l’orecchio.
Cercai di non farci caso, nonostante mi desse fastidio e nonostante sapessi che Bunny non avrebbe capito che lo stavo permettendo per proteggerla e allo stesso tempo per sperare che tornasse da me.
Fra i tanti movimenti a ritmo di musica, mi notò.
Il suo sguardo mutò radicalmente.
Adesso, il suo finto sorriso, che era costretta a mostrare al pubblico, era scomparso del tutto.
Era sorpresa, non si aspettava di trovarmi lì a guardarla con Sidia in braccio, che la scrutava con cattiveria e mi baciava il collo accarezzandomi l’orecchio.
Divenne subito molto triste e dispiaciuta. Sono certo che in quel momento si sentì ferita e amareggiata.
Era stata Lei a dirmi di dimenticarla ma quella sera, il suo sguardo e i suoi occhi malinconici mi svelarono che lei non voleva essere dimenticata, solo amata.
Voleva essere amata da me e voleva essere l’unica a potermi baciare, toccare, accarezzare.
Avvertivo la gelosia nei suoi occhi, il dolore nel suo cuore.
I nostri occhi rimasero attratti per qualche secondo, momenti in cui le chiedevo perdono e di tornare da me.
Attimi in cui anche lei chiedeva perdono per quella mattina.
Mi aveva chiesto di dimenticarla magari odiandola.
Dai miei occhi pieni d’amore capì, però, che non l’avrei mai fatto, non avrei mai potuto.
Il mio cuore batteva a più non posso, quella situazione assurda non mi piaceva per niente.
Perché non potevo togliermi Sidia da dosso, salire sul palco, prendere Bunny e portarla via con me al sicuro?
Si voltò dalla parte opposta, mostrandosi a me di profilo.
Cercava di non far trasparire le sue emozioni e i suoi stati d’animo ma soffriva in silenzio come me, dovendo far finta di nulla.
Solo due persone sensibili come noi potevano però scorgere i sentimenti provati dall’uno per l’altra. E li avvertivamo, quella notte, tra le molte persone interessate solo al suo corpo.
Come da disposizione di lady Amy, scese dal palco iniziando a ballare sensualmente davanti ai clienti accomodati nelle prime file.
Seppure io sapessi che era severamente vietato toccare le dancers durante le esibizioni, bruciavo dalla gelosia.
Sidia continuava ad accarezzarmi, cercando di attirare la mia attenzione,  e io, dopo aver finito la prima e bevuto metà della seconda bottiglia di vino, non sentivo più il suo tocco su di me.
Il mio Mondo si era ovattato. Solo Bunny possedeva la chiave per potervi accedere. La guardavo e la desideravo come non avevo mai desiderato nessun’altra.
Fu costretta ad avvicinarsi nella mia direzione, ballando davanti ad alcuni uomini seduti alla mia sinistra.
Poi, continuando a ballare, si avviò verso la mia destra, non considerandomi.
“Siediti Sidia!” le ordinai sgarbatamente, obbligandola ad accomodarsi sulla poltroncina accanto alla mia.
Non voleva ma ubbidì.
Nonostante il volume alto, riuscii a farmi ascoltare da Bunny:
“Ti prego, balla per me.”
Il tono della mia voce faceva notare che l’alcool era già entrato in circolo nelle mie vene.
La spiazzai, non avrebbe mai immaginato quella mia richiesta e, non potendo dire di no, iniziò a muoversi sensualmente e in maniera divina ad un passo da me.
Perché non potevo prenderla per un braccio e farla sedere sulle mie ginocchia, stringendola a me?
La guardai ballare, mantenendo in viso uno sguardo serio e sconfortato, bevendo il vino rimasto nella bottiglia.
Nel frattempo la fissavo, facendole capire che era di nuovo per lei che mi stavo riducendo così. Solo per lei.
Chiuse gli occhi mentre si muoveva davanti a me, per me.
In quel momento anche lei immaginava di essere in un luogo diverso, in una situazione diversa, senza doversi vergognare per come si stava mostrando a me.
Sì, anche se stava prendendo confidenza con quel luogo e con il ruolo di dancer, verso di me provava sempre quell’imbarazzo che la faceva apparire ai miei occhi dolce e speciale.
Alcuni momenti che desiderai non finissero mai e poi, quando la canzone stava per terminare, salì di nuovo sul palco e, col desiderio di essere per me l’unica ragazza nel Mondo ***, andò via.
Dal palco, dai clienti affamati di lei. Da me.
“Bunny…” sospirai malinconicamente ormai ubriaco fradicio.
Sidia notò il mio essere sofferente, essere pazzo di Lei.
Si alzò in piedi e, nonostante lo spettacolo non fosse ancora terminato, mi prese le mani e mi aiutò a mettermi in piedi.
Non riuscivo a reggermi, la testa mi girava e il mio equilibrio ne risentiva.
Mi fece appoggiare alla sua spalla, sostenendomi per il busto, mentre mi conduceva verso la sua stanza.
“Bunny…” ripetevo con le poche forze che avevo.
Più lo dicevo, più pronunciavo quel nome, e più Sidia si indispettiva.
Il suo orgoglio femminile veniva colpito e lei non amava essere considerata inferiore a nessuno. Soprattutto da me.
Una volta dentro la sua camera mi fece sdraiare sul suo letto.
Non ricordo bene cosa fece lei perché per qualche minuto rimasi solo nella stanza mentre non riuscivo più a sollevare la testa dal cuscino.
Stavo male, sia per l’alcool che per la mia droga. Bunny era la mia droga.
Mi creava dipendenza e senza il suo sguardo su di me, senza poter sentire la sua dolce voce, io entravo in astinenza e impazzivo.
La volevo. Stretta a me e senza lasciarla uscire dal mio abbraccio.
La porta si aprì e io sperai:
“Bunny, sei tu?”
Non udii la porta chiudersi, solo una donna che, sedendosi a cavalcioni su di me, iniziò a sbottonarmi la camicia e a baciarmi i pettorali:
“Non sono Bunny…”
Era Sidia ma io non riuscivo neppure a sentirla.
Il mio corpo non riusciva più a provare sensazioni. L’alcool mi aveva letteralmente stordito.
“Bunny…” invocavo, immaginando che fosse lei a baciarmi, a desiderarmi…
“Eccomi Sidia, dimmi pure!”
Una voce che tanto amavo entrò nella stanza, lasciata volutamente aperta.
Ci vide e, portando istintivamente la mano alla bocca per evitare di lasciar uscire le emozioni provate in quel momento, spalancò gli occhi.
Sidia la guardò con un sorriso pieno di cattiveria. Si sentiva come se avesse appena vinto, come se farle del male fosse l’unica cosa che desiderava. Perchè Sidia sapeva che Bunny, vedendomi con lei, avrebbe sofferto.
Dagli occhi di Bunny, istintivamente, uscirono delle lacrime. Amare, piene di dolore, di sofferenza per quel cuore così puro che le si stava frantumando.
“Bunny!” urlai spingendo Sidia lontano da me e portandomi seduto, non appena mi resi conto che Lei era veramente lì, sulla soglia della porta, immobile.
Ci guardammo, sconvolti, increduli. Fu un attimo.
Chiuse gli occhi, facendo cadere sulle guance le lacrime che cercava disperatamente di trattenere e, dopo, corse via entrando nella sua stanza.
In quel mio Mondo ancora ovattato, riuscii a sentire soltanto il rumore della porta della sua stanza che veniva sbattuta con rabbia fino a chiudersi.
Quel rumore mi riportò alla realtà.
Una triste realtà in cui, ancora una volta senza volerlo, le avevo fatto del male.
E adesso? Che fare? Andare da lei o smettere per sempre di farla soffrire?   
 
Note:
*: Memorial Sloan Kettering Center è un ospedale oncologico situato sull’Upper East Side di Manhattan.
**: Principe di Corleone è un vino pregiato, confezionato nelle cantine di Corleone (Palermo).
***: titolo della canzone di Rihanna: Only girl in the World.


Il punto dell'autrice


Cari lettori, spero che dopo aver letto non organizzerete una spedizione a Siracusa per uccidermi o che non chiuderete la pagina facebook ‘Moonlight fan club’ (che vi invito a visitare) nata proprio in onore della fan fiction Moonlight.
Detto ciò, mi auguro veramente che questo capitolo sia piaciuto, nonostante sia da shock!
Ho messo anima e corpo per scriverlo e dedicarvi tante emozioni, quindi spero che non vi abbia deluso e che continuerete a seguirmi!
Nel frattempo, fatemi sapere cose ne pensate, anche se negativa, una vostra recensione fa sempre piacere!
Un bacio e a presto!
 Demy


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Capitolo 7
*** Emozioni (prima parte) ***


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Cap. 7: Emozioni (prima parte)


L'eco della porta sbattuta con rabbia, con forza, mi aveva riportato, come una doccia fredda, alla triste realtà da quel mondo ovattato creato dall'eccessivo alcool.
Avevo immediatamente ripreso coscienza di me, del mio corpo, delle mie emozioni e la prima di queste era stata l'incredulità.
Sì, ero rimasto incredulo non appena quegli occhi azzurri, tristi, delusi, sconvolti mi avevano fissato facendomi svegliare e capire cosa in realtà fosse accaduto.
Sidia mi aveva portato nella sua stanza e, con cattiveria, aveva fatto sì che Bunny la vedesse sopra di me, incosciente, per farla soffrire.
Sì, lei sapeva che Bunny avrebbe sofferto così come me.
Lo aveva capito dal suo modo di guardarci durante l'esibizione, da come la sua espressione era mutata radicalmente non appena aveva visto Sidia sulle mie gambe. Ne aveva avuto conferma dal suo modo particolare, più innocente e timido, di ballare ad un passo da me. Lo aveva letto nei suoi occhi che cercavano di trattenere le lacrime per non rivelare le sue emozioni.
E aveva goduto sapendo di ferirla.
E adesso che Bunny era scappata via in lacrime rifugiandosi in quella camera così diversa da lei e dalla sua personalità, io mi sentivo impotente.
Sapevo che qualunque cosa avessi fatto sarebbe stata sbagliata.
Andare da lei o smettere per sempre di farla soffrire?
Dondolandomi su me stesso al centro del letto, con le mani alle tempie, cercavo di riflettere e cercare di essere lucido, sempre se ciò in quella situazione fosse stato possibile.
Io amavo Bunny, dal profondo del cuore e la cosa che esso mi suggeriva era di andare da lei, stringerla a me e dirle che la amavo e che se avevo accettato la compagnia di quella puttana, non prevedendo di trovarmi ubriaco sul suo letto, era stato soltanto per proteggerla.
D'altra parte Lei mi aveva chiaramente detto, e scritto, che se era vero che la amavo avrei dovuto dimenticarla, non cercarla, magari odiandola se necessario.
Adesso avrebbe creduto che ero andato con Sidia per dimenticarla o, peggio ancora, per farle un dispetto perché magari la odiavo.
Ma era stata Lei a dirmi di lasciarla stare, allora perché era scappata via piangendo se tanto non voleva che facessi parte della sua vita?
La verità è che lei in realtà non voleva che io uscissi dalla sua vita.
Da quella vita in cui, in punta di piedi, ero entrato sconvolgendo la sua esistenza.
Le avevo sconvolto la vita e lei lo aveva fatto con la mia. Anzi, lei ne aveva creata una nuova.
Anche se era stata Lei a chiedermelo, non potevo permettere che ora credesse che la avessi dimenticata, che mi fossi arreso rimpiazzandola con la prima ragazza disponibile.
Impossibile. Bunny non sarebbe mai stata dimenticata o sostituita. Mai.
Sì, avevo deciso in quei pochi attimi che per me erano sembrati un'eternità.
Sarei andato da Lei, le avrei spiegato come stavano realmente le cose e poi, se Lei non avesse voluto avermi più tra i piedi, sarei andato via. Ma almeno non mi avrebbe visto per come temevo: un porco per cui, una o un'altra non faceva differenza. Non sarebbe stato questo il suo ultimo ricordo di me.
E così, alzandomi dal letto, cercando di non perdere l'equilibrio - dopotutto non avevo ancora smaltito l'alcool - invocando il suo nome, mi diressi verso la sua stanza.
Sidia mi raggiunse, bloccandomi da dietro per un braccio.
“Se vai da lei racconterò tutto a lady Amy.”
Mi voltai di scatto, furioso, al suono di quella voce minacciosa e divertita al contempo.
Afferrandola per i capelli con tutta la rabbia che avevo, che lei stessa aveva provocato in me, e facendole male:
"Perché lo hai fatto, puttana? Ti giuro che se provi ancora una volta a farle del male mi dimentico che sei una maledetta femmina!"
Il mio respiro era affannato, la avrei uccisa.
“Lasciami, mi fai male... ” implorava lei, e io avvertivo la sua sofferenza provocata dalla mia stretta sui suoi capelli.
Finalmente ero io a tenerla in pugno.
“Falle ancora dal male, falla piangere un’altra volta e ti faccio male veramente, te lo giuro!”
In quel momento il mio tono era simile a quello di Al Pacino nel ruolo del Padrino, e fui certo che le misi paura.
“Stalle lontano, stacci lontano!” continuai.
Era incredula, aveva creduto che con le sue minacce mi avrebbe tenuto in pugno e ora che ero io a farle capire come stavano veramente le cose si sentiva sconfitta. Nell'orgoglio femminile e non solo.
Le lasciai i capelli e due secondi dopo ero già alla porta della stanza di Bunny.
 
“Bunny, ti prego, aprimi... ”
Stavolta avevo bussato delicatamente, non potevo pretendere che mi aprisse usando i soliti  toni impositivi, anche se avrei tanto voluto buttare giù la porta pur di entrare.
La sentivo piangere. Ebbi un colpo al cuore.
Poi la porta fu aperta e, inaspettatamente, un uomo uscì abbassando gli occhi non appena mi vide.
Era lo stesso della sera precedente. Lo stesso di cui mi aveva rassicurato dicendo che avevano solo parlato.
Che ci faceva di nuovo lì? Erano trascorsi al massimo dieci minuti da quando Lei era corsa via ed era da escludere che quell'uomo avesse avuto il tempo di toccarla.
Solo per quella mia supposizione non sfogai tutto il mio dolore e la mia rabbia verso di lui ed evitai quindi di domandare.
In fondo non ne avevo nessun diritto dati gli eventi susseguiti quella sera.
Salutò con un “Buonanotte, Miss.” in tono serio e dispiaciuto, e andò via.
Lei, asciugandosi le ultime lacrime con le dita, cercò di richiudere subito la porta in modo da lasciarmi fuori.
No. Non potevo permetterglielo.
Bloccai col palmo della mano la porta, evitando che venisse chiusa.
Ancora sconvolta, con gli occhi persi nel vuoto, increduli, sussultò. Non avrebbe mai pensato che avrei cercato di parlare con lei a tutti i costi.
“Aspetta Bunny, devo parlarti, devo spiegarti.” Con tono rassicurante e spaventato all’idea di perderla per sempre, cercavo di mostrarmi lucido, ma l’alcool tradiva le mie intenzioni.
Con forza cercò di richiudere la porta opponendomi resistenza:
“Non devi spiegarmi niente, và da lei…”
A quelle parole piene di disprezzo e tristezza, al pensiero che per Lei c’era lei, la mia rabbia, la mia irruenza aumentò.
Riuscii ad aprire la porta ed entrai, richiudendola a chiave dall’interno.
Indietreggiò impaurita.
“Vattene!” urlò con voce stridula e infastidita non riuscendo più a trattenere le lacrime.
Indietreggiava ancora di più, quasi spaventata da me.
“No. Stavolta non me ne andrò. Rassegnati!”
Ormai i suoi polpacci toccavano il letto, non poteva più indietreggiare.
Si voltò, pur di non guardarmi. E la udii piangere di nuovo.
“Bunny… non é come credi tu.” La mia voce era rammaricata, piena di sensi di colpa.
Tra un singhiozzo e un altro, che cercava di nascondere, rispose:
“Io non credo nulla e tu non mi devi nessuna spiegazione… lasciami in pace, va’ via.” Le sue parole contraddicevano le sue emozioni e i suoi sentimenti.
Avanzai lentamente verso di lei ancora voltata di spalle.
“Non ti avvicinare, stammi lontano.” Adesso le sue parole erano piene di odio.
Non le diedi retta e avanzai ancora di più.
Io non ero abituato ad essere prepotente, ma quella notte avevo deciso che sarebbe andato tutto come avrei deciso io.
Sì, perché se eravamo finiti in quella situazione in cui dall’amore lei era arrivata a disprezzarmi, la colpa era stata mia che rispettosamente le avevo ubbidito quando mi aveva scritto di lasciarla andare e non cercarla più.
Se solo la avessi chiamata, cercata… ora sarebbe stato tutto diverso. Forse.
Il Mondo, NYC, erano pieni di donne, di belle e intelligenti donne. Ne ero consapevole.
Ma io volevo Lei, lei soltanto e non l’avrei lasciata andare. Mai più.
Giunsi ad un passo da lei e, nonostante avrei tanto voluto toccarla, avere un contatto fisico e pieno di rassicurazione con Lei, capii che la avrei infastidita ancora di più. E io non volevo ciò.
“Se non devi credere nulla, perché sei corsa via piangendo?”
Cercai di essere più dolce possibile.
Si voltò sconvolta, ancora di più.
“È per questo che sei qui? Ti ho fatto pena? Beh, scusami tanto non volevo rovinare il vostro magico momento…”
Era ironica e allo stesso tempo delusa. Era dannatamente gelosa.
Chiusi un attimo gli occhi per concentrarmi e cercare di non fare uscire dalla mia bocca una risata isterica, nervosa e incredula.
“Tu sei gelosa… dici che devo dimenticarti ma poi sei gelosa…”
Rimase in silenzio qualche secondo, giusto il tempo di cercare qualche risposta plausibile, dandomi modo di riflettere sul fatto che ero riuscito – anche se non era quello il modo che avrei voluto usare – a farla ingelosire.
Forse, una volta sbollita la rabbia, avrebbe realizzato che non  voleva seriamente rinunciare a me. A noi.
Adesso sì che mi guardava delusa, amareggiata, scuotendo la testa in segno di rassegnazione.
“Sapevo che era troppo bello per essere vero…”
“Che vuoi dire?” Non capivo.
Cercò di allontanarsi da me e solo quando fu distante, appoggiando la schiena alla parete di fronte, riprese:
“Eri troppo perfetto per essere vero. Eri adorabilmente e amabilmente perfetto.” Un sorriso pieno di nostalgia.
“Mi hai fatto sentire davvero come se fossi l’unica ragazza nel Mondo… ma la realtà è che sei come tutti gli altri. A te non importava nulla di me, ero solo un capriccio… ho fatto bene a non fidarmi di te… lo sapevo che era troppo bello per essere vero.”
Una lacrima le scese sul viso.
Con impeto la raggiunsi alla parete su cui aveva appena appoggiato la testa in senso di conforto per quell’amara realtà.
Lei sussultò non appena presi il suo viso umido fra le mani, mentre la bloccavo tra la parete gelida e il mio corpo caldo.
“No! No! non puoi dire questo! Lo sai che non è vero. Lo sai che per me non sei mai stata un capriccio. Io… io ti ho protetta quando avevi paura, difesa da chi voleva solo usarti… io mi sono ridotto uno schifo per te. Io ho pianto per te. Io ho detto per la prima volta nella mia vita ti amo a te. Non puoi parlarmi così. Tu mi hai lasciato con un biglietto dopo avermi detto che mi amavi. Tu mi hai chiesto di dimenticarti.
Perché allora mi tratti così?”
Ero fuori di me.  
Abbassò lo sguardo, come se sapesse che infondo io avessi ragione.
Lo spostò nuovamente di lato non appena notò la mia camicia ancora sbottonata.
Chiuse gli occhi, triste.
“Bunny, te lo giuro, non c’è stato nulla fra me e quella puttana!”
“Hai ancora il suo odore addosso…” Era sdegnata.
Ed io? Che dovevo fare adesso? Non volevo che sentisse l’odore che Sidia, forzatamente,  mi aveva lasciato. Non potevo permettere che ciò potesse allontanarla ancora di più da me mentre cercavo, a tutti i costi, di ottenere l’effetto opposto.
Sarà stato l’effetto dell’alcool, la paura di perderla per sempre o forse semplicemente la voglia di farla svegliare e farle capire che per me esisteva solo Lei.
La presi in braccio, di forza, e la rimisi giù una volta dentro il box doccia.
Aprii il getto dell’acqua fredda e, in un attimo o poco più, eravamo già bagnati.
Lei, bloccata fra le piastrelle e il mio corpo, cercava di liberarsi.
“Ma sei pazzo? Che fai?!” Mentre tentava di dimenarsi, di uscire dal mio abbraccio.
“Mi tolgo l’odore che non mi appartiene e cerco di farti svegliare!”
“Fallo allora nel suo bagno e io, poi, sono già sveglia. E tu sei pazzo!”
Ci provava a liberarsi ma non ci riusciva. Tutta la mia rabbia, la mia voglia di Lei si era trasformata in forza. Non poteva più andare via da me.
Nel frattempo  l’acqua le aveva bagnato i capelli sciolti che ora sembravano attaccati al suo corpo.
Un corpo che sembrava, perfettamente e sublimamente, un tutt’uno con la vestaglia bianca di raso, ormai quasi trasparente, che non lasciava più nulla all’immaginazione.
“Sono pazzo di te! Io voglio solo te. Desidero solo te. Amo soltanto te, amore mio.” Il mio respiro era affannato, combattevo con me stesso tra il dover tenerla stretta  e il non farle notare quanto la desiderassi.
“Però vai a letto con Sidia!”
Oddio quant’era bella quando era gelosa e bagnata. Il suo viso, le sue labbra, il suo corpo.
Non mi lasciò altra scelta. Dovevo farle capire che non era come pensava lei.
Premetti ancora di più il mio corpo contro il suo, aderendo perfettamente tanto da divenire un tutt’uno.
Si irrigidì, sussultando e spalancando gli occhi.
“Bunny, solo tu mi provochi questo… solo tu riesci a farmi sentire uomo.”
Il contatto dei nostri corpi le piaceva, lo sentivo.
Era meno tesa, aveva istintivamente inarcato la schiena per sentirmi più vicino.
Chiuse gli occhi, per un attimo, per assaporare meglio quella sensazione inebriante data dall’unione dei nostri corpi.
“Non c’è stato nulla con quella. Ero stordito, non mi ricordavo neanche di essere finito nella sua stanza.” Le mie parole dolci erano un sussurro che fuoriusciva dalle mie labbra che quasi sfioravano le sue.
Rimase in silenzio, con la testa poggiata alle piastrelle e gli occhi chiusi per paura che, se mi avesse guardato negli occhi, si sarebbe lasciata andare a quello che entrambi desideravamo.
“Ti prego credimi. Io voglio solo te, Bunny.”
“Ma io non voglio te.” Una lacrima dal suo viso. Un’altra.
Mentre la bloccavo con il mio corpo tenendo il suo viso fra le mani, cercò di liberarsi spingendomi, con le braccia, indietro.
Non glielo permisi. Le afferrai i polsi e li portai alla parete piastrellata bloccandoli delicatamente ma allo stesso fermamente. Adesso la sentivo meglio. Il mio torace ancora scoperto riusciva a percepire le sue forme come se anche lei non avesse avuto nulla addosso.
“Guardami Bunny, dimmelo guardandomi negli occhi.”
Ma lei non osava aprirli e le sue lacrime si confondevano con l’acqua che ci aveva ormai resi bagnati fradici.
“Perché scappi da me? Perché mi fai del male? Stamattina mi sono svegliato credendo di essere l’uomo più felice della Terra e poi mi è crollato il Mondo addosso. Non puoi farmi del male. Neanche io lo merito.”
Aprì gli occhi tristi e confusi. Voleva parlare ma non sapeva cosa dire, come comportarsi.
“Lasciami i polsi, mi fai male. Sento freddo, voglio uscire.”
Tremava.
Le lasciai i polsi e richiusi l’acqua.
Appena fuori dal box doccia c’erano degli asciugamani. Ne presi uno e lo avvolsi attorno a Bunny.
“Scusami, non volevo… ” dissi, con dolcezza e senso di colpa, stringendola forte a me, avvertendo che continuava a tremare per colpa dell’acqua fredda. La tenerezza che provai per Lei in quel momento era indescrivibile.
E lei, avvolta da quel panno di spugna e dalle mie braccia, non disse nulla.
Rimanemmo così  alcuni minuti, poi la lasciai libera. Ero stato troppo irruento. Avevo esagerato. E lei sembrava piccola e indifesa in quel momento.
Mi passò davanti e, tenendosi con una mano i lembi dell’asciugamano per non farlo scivolare a terra, ne prese un altro.
Tornò indietro da me e, con delicatezza lo passò sul mio viso, asciugandolo. Come una carezza.
“Asciugati o ti prenderai un raffreddore.” Era dolce e i suoi occhi sembravano brillare.
“Ti prego, asciugami tu…” lo sussurrai, prendendo fra le mani i lembi della tovaglia, ormai bagnata, che aveva addosso.
E così, mi asciugò delicatamente i capelli, il collo e poi il torace.
Arrossì e abbassò lo sguardo. In quel momento la sentivo. Percepivo le sue emozioni, le sue paure, i suoi desideri. E lei sentiva me.
Ci appartenevamo, dal primo momento, e ci saremmo appartenuti per sempre. Lo percepivo. E anche lei.
La presi in braccio lasciando cadere  l’asciugamano a terra. Adesso non ne aveva più bisogno.
La sdraiai sul letto.
Era calma, rilassata, non me lo aspettavo.
Rimase sdraiata,  guardandomi, aspettando la mia prossima mossa.
Mi sdraiai sopra di lei, facendo leva sui gomiti per non farle male.
Adesso il nostro cuore batteva all’unisono, i nostri respiri erano agitati, i nostri occhi parlavano fra loro rivelandosi tutte le emozioni che quel momento magico ci stava regalando.
Dolcezza. Passione. Speranza. Paura. Desiderio. Amore.
“Ho bisogno di te, Bunny, e tu hai bisogno di me. I tuoi occhi mi parlano, mi rivelano le tue emozioni. Ti amo, Bunny. Non ho mai amato nessuna prima di incontrarti. Voglio te, soltanto te, per sempre te.”
Due lacrime uscirono lateralmente dai suoi occhi a quelle parole d’amore finendo sul cuscino.
Le accarezzai il viso, scostando i ciuffi bagnati dalla sua fronte e asciugando le lacrime.
“Ho paura. Paura di soffrire. Ho sofferto tanto e non voglio più farlo. Eppure so che accadrà ancora. Così cerco di soffrire il meno possibile fuggendo dalle situazioni che porterebbero soltanto sofferenza.”
“Perché pensi che io ti farei soffrire?”
“Perché non sai cosa significhi soffrire, sei stato abituato ad avere tutto dalla vita, tutte le donne che volevi. Ti stancherai di me, della mia situazione di perenne tristezza e mi abbandonerai. Sei il classico ragazzo viziato abituato alle feste nei locali in di Manhattan e ai night club. Non sono la ragazza giusta per te, credimi. Non hai mai amato, non sai cos’è l’amore.”
A quelle amare parole il mio cuore sussultò.
Non mi credeva. Non credeva nel mio amore per Lei, mi considerava soltanto un viziato che si sarebbe stancato di lei e dei suoi problemi. Ancora una volta non si fidava di me. Non mi credeva. Tutti i miei sforzi e le mie parole piene d’amore non erano serviti a niente.
Mi sentii ferito. Deluso e ferito. La amavo ma mi ero stancato di essere visto come quello che la avrebbe fatta soffrire. Più che altro, non ce la facevo più a sentirmi parlare in quel modo, come se i mie sentimenti non contassero niente, come se le mie emozioni fossero irrilevanti. E tutto ciò perchè poi? Perchè ero stato abituato ai quartieri alti della City? Perchè avevo sempre avuto tutto ciò che desideravo? Anche i ricchi piangono e anche io soffrivo. Per lei.
Mi alzai dal letto e, abbottonandomi la camicia bagnata, dissi con tono serio e amareggiato:
“Se è questo quello che pensi di me allora è meglio che mi rassegni. Speravo che avresti capito come fossi in realtà, che ti saresti ricreduta su di me, che ti saresti fidata di me, ma non è stato così. Non so più cos'altro fare per fartelo capire che sono pazzo di te. Mi arrendo. Ti lascio in pace per sempre.”
Chiuse gli occhi, lasciando che altre due lacrime le rigassero il viso, trattenendo i singhiozzi. Immobile.
Aprii lentamente la porta, facendomi coraggio e auto-convincendomi che stessi facendo la cosa giusta e, prima di uscire dalla stanza, mi voltai per l'ultima volta verso di lei; come a voler memorizzare per sempre quella ragazza che aveva cambiato, senza volerlo, persino uno come me:
“Finora sei stata sempre tu quella che mi ha fatto soffrire. Addio Bunny.” La mia voce aveva tremato, nonostante io avessi cercato di celare il mio dolore.
E così, a malincuore, uscii dalla camera, richiudendomi la porta alle spalle e ritrovandomi definitivamente fuori dalla sua stanza. E dalla sua vita.
 
Il punto dell'autrice

Eccomi di nuovo qui!
So per certo che molti di voi aspettavano con impazienza questo settimo capitolo e, sebbene inizialmente avessi pensato di non dividerlo, dopo questa prima parte ho ritenuto più opportuno separarlo dalla seconda parte per non renderlo troppo pesante.
Spero sarà di vostro gradimento e che non abbia deluso le vostre aspettative.
Fatemi sapere, ve ne sarei grata!
Un bacio e al prossimo capitolo!
Demy


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Capitolo 8
*** Emozioni (seconda parte) ***


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Cap. 8: Emozioni (seconda parte)


Emozioni. Una sola parola per esprimere un turbine di sentimenti complementari ma, talvolta, anche contrastanti fra loro.
Desiderio… di lei.
Speranza… che capisse i miei sentimenti.
Paura… di non poter vivere la mia vita con lei.
Sconforto… dopo le sue parole ingiuste verso di me.
Delusione. Illusione. Rassegnazione.
 
E così, dopo essere passato dalla speranza e dall’illusione di una vita insieme a Bunny, passai definitivamente alla rassegnazione.
Ci avevo provato con tutto me stesso, spingendomi a compiere gesti mai lontanamente immaginati prima di quel 13 Novembre.
Ma adesso anch’io avevo detto “Stop!”
Avrei fatto di tutto per lei, per quella ragazza che solo con un sorriso dolce e triste aveva messo in discussione tutte le mie certezze.
Ma non potevo più struggermi per lei. Forse, in fondo, era così che dovevano andare le cose.
Se avessi continuato a insistere non avrei ottenuto nulla; avrei semplicemente dato la possibilità a Lei di prendere il mio cuore, metterlo in un frullatore e ricavarne un Bloody Bunny*.
Avrei tanto voluto renderla felice ma non me lo permetteva e dopo tutto quello che, di cattivo e ingiusto, mi aveva detto – anche se in contrasto con le sue emozioni – capii che era veramente giunto il momento di rassegnarmi.
 
E così, tutto bagnato, feci ritorno nell’Upper East Side augurandole Buona Fortuna e sperando che, anche senza di me, un giorno avrebbe trovato quella felicità che meritava.
Entrai in bagno, accendendo la radio per avere un po’ di compagnia e cercare di non affogare nella mia solitudine.
Era appena iniziata ‘Stay’ **.
E su quelle note mi spogliai dei vestiti  bagnati e feci un bagno caldo, lottando con me stesso per togliermi dalla mente quei momenti da poco passati, a contatto con lei, sotto la doccia.

… Bunny bloccata alla parete dal mio corpo bramoso di lei. I suoi polsi stretti delicatamente dalle mie mani, mentre un respiro le moriva in bocca sentendomi aderire ancora di più a lei.
Il suo corpo che si irrigidiva a quella nuova sensazione di piacere che cercava di nascondere, inutilmente.
Io che la sentivo inarcarsi, godere il più possibile di quel momento dolce ma pieno di passione.
Chiudeva gli occhi per assaporarlo al meglio senza che il suo sguardo su di me potesse tradirla e spingerla a fare ciò che tanto avrebbe voluto. Essere mia.

E così, non resistendo, la pensai mia, immaginando ciò che entrambi avremmo voluto e che in realtà non era accaduto.
Esausto, avvilito, andai a letto. Sperando che dal giorno dopo quel turbine di emozioni si sarebbe affievolito.
Non la avrei mai dimenticata ma, dall’indomani, avrebbe fatto parte del passato.
 
16 Novembre 2010 – ore 10.30
Il suono del telefono mi svegliò da quel coma profondo in cui le vicende della notte precedente mi avevano condotto.
Lentamente riuscii ad aprire gli occhi e rendermi conto di cosa fosse quel rumore che rimbombava pesantemente nella mia testa.  
Mi alzai dal letto e risposi.
Era Mister Taiki, il mio capo, che anticipava il nostro appuntamento a quella mattina, a causa di un viaggio improvviso che lo avrebbe tenuto lontano dalla City per due settimane.
Fui costretto ad accettare, nonostante l’appuntamento fosse solo tra mezz’ora, e quando mi disse che si trovava a Central Park e di vederci in un locale lì vicino chiamato Jupiter, il mio cuore si fermò.
Avrei tanto voluto dirgli di incontrarci da un’altra parte – senza spiegare che lì temevo di incontrare Bunny –  ma non ne ebbi il tempo che mi salutò velocemente chiudendo la telefonata.
Posai il telefono e portai le mani al viso, strofinandole,  come a volermi svegliare da quello che ormai in ogni modo e in ogni circostanza sembrava un incubo.
Bunny andava sempre lì la mattina, temevo di incontrarla. Dopo  ciò che era successo non volevo vederla, guardare i suoi occhi e sentire la sua voce. Mi avrebbe fatto troppo male. Mi sarei sentito a disagio.
Però non potevo far nulla. Avevo in parte soggezione di Mister Taiki, nonostante fosse un ragazzo sui trentacinque anni ben portati, il suo tono era sempre molto autoritario con gli scrittori non ancora affermati. Non riuscivo ad essere a mio agio con lui, soprattutto ora che il mio libro era fermo al capitolo quattro. Richiamarlo e dirgli di spostare il luogo dell’incontro era fuori discussione.
E così, in fretta e furia, mi vestii e usci di casa con la valigetta del mio Apple in mano .
 
Per fortuna quella mattina il sole era alto nel cielo, riscaldando tiepidamente l’aria gelida di Manhattan.
Arrivai all’entrata dello Jupiter, scorgendo dalla vetrata l’interno.
Temevo di incontrarla. Ma non perché non volessi vederla più, anzi.
Semplicemente l’idea di sapere che fosse lì a qualche metro di distanza, senza poterle stare accanto e ricordando cosa pensasse di me e come c’eravamo lasciati la sera prima, mi metteva in imbarazzo.
Per fortuna non la vidi all’interno del locale.
I tavoli erano tutti pieni, alcuni clienti mangiavano i famosi dolci di Morea, altri semplicemente bevevano del caffè. Tra essi, in un divanetto alla fine del locale, intravidi Mister Taiki.
Alzò gli occhi dal New York Times non appena il campanello sopra la porta suonò al mio ingresso.
Infastidito, mi fece cenno con la testa e io mi avvicinai rapidamente, chiedendo scusa per il ritardo.
Mi raccontò del suo viaggio improvviso che lo avrebbe tenuto lontano da NYC per due settimane.
Si trattava di un viaggio d’affari, un incontro con un noto scrittore che Taiki stesso aveva introdotto nel mondo degli autori e che aveva avviato verso il successo. Ed ora che, dopo cinque libri pubblicati, Yaten era diventato molto famoso, era tornato nella capitale, sua città natia, e aveva chiesto a Taiki di raggiungerlo nella sua villa.
Taiki ci sapeva fare con gli autori – affermati -, sapeva sempre accattivarsi la loro simpatia e dare così alla RoseEdition quella fama che la rendeva una delle migliori case editrici dell’intero Stato di New York.
“Adesso veniamo a noi, Chiba. A che punto è il tuo libro?” chiese continuando a fissare l’orologio che indossava al polso sinistro.
Tirai fuori il mio notebook per mostrargli il mio lavoro ma mi bloccò subito:
“No, non ho tempo per leggere adesso, dimmi solo come procede.”
In quel momento avrei tanto voluto rispondergli che andava male; che avevo incontrato una ragazza che mi aveva letteralmente sconvolto la vita e poi abbandonato alle mie sensazioni di delusione e sofferenza, facendomi mettere in secondo piano il mio lavoro.
“Bene, i primi quattro capitoli sono pronti, ora devo solo dedicarmi alle interviste al gentil sesso da usare come fonti per la parte centrale del libro. È tutto sotto controllo, stia tranquillo!” riuscii semplicemente a dire, cercando, col mio sorriso, di essere credibile.
Aggrottò la fronte, come se non ne fosse molto sicuro.
Nel frattempo Morea si avvicinò a noi con il notes per le ordinazioni.
“Buongiorno, avete già scelto?”
Taiki si alzò in piedi e, indossando il cappotto color sabbia che richiamava il castano dei suoi capelli, rispose:
“Oh, grazie ma Albany *** mi attende, devo andare ma tu, Marzio, rimani pure; magari potresti iniziare le tue interviste con la signorina!”
Il suo tono e il suo sguardo eloquente facevano intendere che dovevo sbrigarmi a finire il libro e che aveva capito che in realtà non c’era nulla di cui stare tranquilli.
Rimasi senza dire nulla, guardandolo andare via dopo aver preso da dietro il divanetto il suo trolley e aver detto: “Al mio rientro leggerò il tuo lavoro, Chiba.”
Morea mi fissò per tutto il tempo e, solo quando il campanello suonò all’uscita di Taiki, si sedette a quello che era stato il posto del mio capo.
Sospirò, preoccupata, portando i gomiti al tavolo e facendosi avanti col  busto. In quel momento mi venne in mente, inevitabilmente, Bunny e alla sua stessa posizione della prima e unica volta che eravamo stati assieme in quel locale. La spazzai via.
“Cos’è questa storia dell’intervista?” chiese curiosa, anche se in viso manteneva un’aria distratta.
“Niente, solo una scusa inventata al mio boss per non fargli sapere che in questi giorni il lavoro va a rotoli!”
Nel frattempo guardavo la porta d’ingresso per paura che Lei entrasse. Sapevo che a quell’ora sicuramente stava provando, ma il rischio di ritrovarmela lì, con la sua dolce e triste espressione c’era sempre.
E così conservai nella valigetta il notebook, che avevo tirato fuori inutilmente, cercando di andare via da lì il prima possibile.
“Oggi non è venuta, se ti stai chiedendo questo.”
Rimasi stupito. Non avrei mai immaginato che potesse capirlo.
“No, non mi stavo chiedendo questo. Non sono affari miei.”
Cercai di nascondere le mie emozioni, che inevitabilmente fuoriuscivano quando pensavo a Lei, continuando a guardare la valigetta.
“Marzio, puoi sederti un attimo, per favore, e guardarmi in faccia?”
Era seria e al contrario della volta precedente capii che non voleva flirtare con me.
Annuii e mi sedetti, appoggiando la valigetta sul divanetto di pelle color noce accanto a me. 
La guardai negli occhi verdi e dispiaciuti.
Sospirò e poi disse:
“So che non sono affari tuoi, ma conosco Bunny da molto e so com’è fatta. Ha sofferto tanto e cerca di proteggersi per difendersi dal Mondo crudele e da certa gente che vuole solo farle del male.”
La interruppi subito:
“Scusami ma non mi va di parlare di Bunny.”
Non le importò:
“Bunny non è venuta stamattina e, sapendo che viene sempre, le ho telefonato.”
“Morea, forse non hai capito, non ho nessuna intenzione di parlare di Bunny.” Cercai di essere più chiaro, usando un tono più duro ma allo stesso tempo garbato.
“Marzio, Usa è grave, rischia di non arrivare a domani. Bunny è in ospedale in sala d’attesa da stanotte. I medici non la fanno entrare nelle ore non stabilite ma lei è voluta andarci lo stesso. Io sarei voluta andare ma non posso lasciare il locale.”
“Perché mi dici questo?” cercavo di non far trasparire le emozioni che in quel momento mi attanagliavano l’anima.
Paura. Dispiacere. Sofferenza.
“Perché lei si confida con me e so per certo che ci tiene molto a te. Mi ha parlato molto di te, dopo che siete venuti qui assieme. Marzio, so che è sbagliato, ma ti prego, se tieni a Bunny per come mi racconta lei, stalle accanto anche se cerca di allontanarti. Ha bisogno d’amore e conforto quella ragazza. È così fragile. Non reggerà ancora per molto se continua a incassare i colpi che la vita le dà, restando sola. Tu le vuoi bene e lei ha bisogno di te, anche se non te lo dimostra.”
Mi guardava con dispiacere per le sorti dell’amica e con la speranza che io potessi aiutarla.
“Bunny non ha bisogno di me, mi considera solo una fonte di sofferenza.” Non sapevo cos’altro dirle, quella rivelazione mi aveva spiazzato. Io credevo che Bunny mi considerasse davvero una fonte di dolore e che mi avesse allontanato per questo, nonostante mi desiderasse.
Ma ora? Adesso che avevo appena saputo che lei aveva parlato di me a Morea dicendole che teneva a me, ora che la mia tesi, in cui affermavo che Lei aveva bisogno d’amore, era stata avvalorata, che dovevo fare?
Lei non disse nulla, sospirò credendo di non essere riuscita a farmi capire come stessero le cose veramente.
“È al Memorial Sloan Kettering Center, giusto?” La mia voce era tesa mentre lo domandai istintivamente.
Morea, assorta nei pensieri pieni di preoccupazione per Lei, mi guardò annuendo.
E così, ancora una volta la stessa emozione, che mi aveva accompagnato in quei giorni, albergò nel mio cuore: speranza. In contrapposizione ad altre.
 Paura: che Lei soffrisse, che Usa soffrisse.
Impotenza: non potendo fare nulla per impedire ciò.
Chiedendomi se stessi facendo la cosa giusta, presi un taxi e mi diressi verso l’ospedale. Speravo di poterle stare accanto e confortarla senza che Lei me lo impedisse, per il resto, la avrei amata in silenzio da quel momento in poi.
 
Il Memorial Sloan Kettering Center non distava molto dal mio appartamento, soltanto un paio di isolati, ed era perfettamente raggiungibile a piedi.
È uno dei migliori centri oncologici di New York, pronto ad ospitare ricercatori e professori internazionali.
Dopo aver attraversato in lungo Manhattan, tra il caos delle strade sempre super affollate, arrivai all’entrata dell’ospedale.
Sospirai. Tra poco la avrei rivista dopo aver creduto che ciò non sarebbe più accaduto.
Le porte scorrevoli si aprirono non appena mi avvicinai all’ingresso.
Alla mia destra notai il bancone delle informazioni con un’infermiera impegnata al telefono.
Io non sapevo cosa domandare, non conoscevo il cognome di Usa e sapevo che non mi avrebbero fatto passare dato che le visite erano previste soltanto dalle 17.00 alle 19.30.
Voltai lo sguardo alla mia sinistra e il mio cuore si fermò per un attimo. Chiusi gli occhi, cercando di mantenermi lucido e forte per poter affrontare meglio quella straziante situazione.
Seduta su una sedia della sala d’aspetto, dondolandosi come un automa avanti e indietro, con le mani giunte sotto il mento e lo sguardo perso nel vuoto più totale, c’era Bunny.
Avanzai verso di lei, ma era troppo assorta nelle sue preoccupazioni per notarmi.
Quando le fui di fronte, le posai le mani sulle spalle, come a volerla fermare da quel dondolio nervoso e pieno di sconforto.
Il mio tocco sulle sue spalle coperte da una felpa bianco-panna la riportò alla realtà.
Alzò lo sguardo, sorpresa, e la sua incredulità aumentò non appena notò il mio viso sul quale mantenevo un dolce sorriso pieno di rassicurazioni.
Non parlò ma i suoi occhi si accesero di una luce nuova, piena d’amore.
“So che ti avevo promesso che ti avrei lasciata in pace ma…”
Non mi diede il tempo di finire che si alzò e si strinse forte a me, cingendomi  con tutta la forza che possedeva il busto e appoggiando la sua testa vicino al mio cuore, potendolo sentire battere all’impazzata.
La strinsi forte anche io, cercando di farle capire che io ci sarei stato sempre per lei, anche quando avrebbe cercato di allontanarmi.
Magari  avrei dovuto amarla in silenzio. Ma di certo avrei continuato ad amarla.
Iniziò a piangere così forte da rischiare di soffocare tra i singhiozzi.
E io non potevo dire nulla, quella situazione era disperata e le mie parole sarebbero risultate inutili e banali.
“Sfogati Bunny, sfogati piccola mia, ci sono io qui con te.”
Lo sussurrai all’orecchio e le diedi un bacio pieno d’amore sulla testa.
Strinse la mia giacca ancora di più. E pianse.
Impotenza. La sensazione più brutta che una persona, davanti a tanta sofferenza, possa provare.
“Marzio, io…” cercava di dire, tra un singhiozzo e un altro, a contatto con il mio cuore.
“Shh… non dire nulla, sta’ tranquilla. Ci sono io qui con te, non sei sola.”
Annuì, sfregando la guancia sul mio petto.
Le accarezzai i capelli legati in due codini, notando che erano ancora umidi. E mi sentii in colpa. Sicuramente era dovuta correre in ospedale e non aveva avuto il tempo di asciugarli dopo che io l’avevo bagnata contro la sua volontà.
Alzò lo sguardo per incontrare i miei occhi e li trovò pieni d’amore e di tenerezza solo per lei.
“Mi dispiace Bunny, sono stato troppo impulsivo in questi giorni, non dovevo” dissi mentre le asciugavo le lacrime dal viso.
Le rubai un sorriso. Solo per un attimo. Poi:
“Usa sta morendo…” e pianse di nuovo.
Presi la sua testa e la appoggiai di nuovo sul mio cuore, stringendola forte fra le mie braccia.
“Oh Bunny…” non sapevo cosa dire per dimostrarle il mio dispiacere.
Rimanemmo in quella posizione per alcuni minuti, poi si allontanò dal mio abbraccio.
Stava per dire qualcosa quando qualcuno attirò la sua attenzione:
“Professore!” disse correndo incontro all’uomo.
E in quel momento, divenne tutto chiaro, semplice.
Era lo stesso uomo che per due notti consecutive avevo visto uscire dalla sua stanza.
Era un medico.
Rimase a parlare con l’uomo per qualche minuto, con le mani giunte al cuore e la speranza nell’anima.
Io mi sedetti sulla sedia accanto a quella dove prima avevo trovato Lei.
Quando il medico rientrò da dove era uscito, tornò da me, un po’ più sollevata ma sempre con la tristezza in viso, e mi sedette accanto.
“Cosa ti ha detto?” domandai.
“Finalmente ha riaperto gli occhi. Stanotte aveva perso conoscenza.”
Un sospiro, poi riprese:
“Quello è il Professor Tomoe, un grande medico nell’ambito oncologico. È per questo che ho portato qui Usa, per avere il meglio. Per cercare di avere tutte le possibilità esistenti per salvarla. Quando ha scoperto che lavoro al Moonlight per poter pagare le cure di Usa, credo ne sia rimasto colpito. Così, anche se di solito non usa farlo, l’altro ieri è venuto direttamente nella mia stanza dopo lo spettacolo perché voleva avvisarmi il prima possibile di ciò che aveva saputo.”
Fece una pausa. Poi, abbassando lo sguardo:
“Non sono compatibile per il trapianto di midollo. Era l’unica speranza che avevo per salvarla…”
Portai i gomiti alle ginocchia e sostenni con le mani la fronte.
“Maledizione!” Ero stato un idiota. Avevo pensato tutt’altro e mi ero fiondato nella sua stanza dicendole di stare con me mentre lei aveva appena ricevuto una notizia così devastante.
“Ieri è passato soltanto per avvisarmi che Usa aveva perso conoscenza, come di solito avviene negli stadi finali. Volevo correre qui, anche se sapevo che non me l’avrebbero fatta vedere, ma qualcuno me lo ha impedito” disse guardandomi e io capii che era a me che si riferiva.
“Mi dispiace Bunny, perché non me lo hai detto?”
Scosse la testa: “Non volevo farti passare dai momenti magici di Sidia ai momenti tragici di Bunny.” Era ironica e il suo tono rivelava leggermente il suo odio per Sidia.
Avrei tanto voluto dirle che con Sidia non c’era stato nessun momento magico e che era Lei la mia unica magia, ma non lo feci.
Avevo incassato troppi colpi al cuore in quei giorni, non le avrei più rivelato i miei sentimenti.
“Sai che per qualunque cosa potrai contare su di me” mi limitai a dire.
Sorrise lievemente e annuì:
“Marzio, ti ringrazio per essere venuto qui dopo il modo in cui mi sono comportata con te.”
Sorrisi e lei capì.
“Allora non ce l’hai con me?” disse guardandomi negli occhi.
Scossi la testa e con tono rassicurante: “No, Bunny, non ce l’ho mai avuta con te.”
Abbassò lo sguardo, immergendosi di nuovo in mille pensieri.
“Adesso che Usa ha ripreso conoscenza pensi ti faranno entrare per vederla?”
Si voltò di nuovo verso di me e, confusa, rispose:
“Sì, il professor Tomoe ha detto che non appena finiranno di visitarla mi farà entrare.”
“Sei contenta?” cercai  – anche se inutilmente – di farle notare l’aspetto positivo di quella tragica situazione.
Annuì: “Povera Usa, chissà quanta paura avrà avuto… era sola prima di perdere conoscenza.”
Portò i gomiti alle gambe, tenendosi la fronte con i palmi delle mani, mentre le lacrime ricominciarono a scenderle dagli occhi ormai spenti.
Le accarezzai la testa, anche se in realtà morivo dalla voglia di abbracciarla.
“Bunny, ti prego, non piangere, devi farti forza.”
“Lo so, è solo che non ci riesco… Quando entro nella stanza di Usa devo cercare di farmi vedere serena, non posso farle notare la mia paura di perderla; è soltanto una bambina spaventata che avrebbe bisogno dei genitori. E invece loro non ci sono.
Quando sono al Moonlight, durante le prove e le esibizioni, devo far finta di essere allegra e di non avere problemi. E così devo sempre cercare di fingere, di nascondere tutte le mie emozioni. Non posso mai essere me stessa. E poi, all’improvviso, mi ritrovo a piangere senza riuscire a smettere. Come a voler far uscire tutto il mio sconforto. È più forte di me.”
Continuai ad accarezzare i suoi lunghi capelli, che le coprivano i lati delle spalle, sfiorandole così la schiena.
“Lo so. Sappi che con me potrai sempre essere te stessa. Amo quando sei te stessa.”
Mi guardò arrossendo e portandosi dritta sulla schiena, i suoi occhi tristi emanavano una luce piena di fiducia. Sapeva di poter contare su di me. Sapeva che la amavo.
Pochi istanti in cui i nostri occhi rimasero attratti fra loro, poi distolse lo sguardo non appena la porta alla fine della sala d’aspetto si aprì e il professor Tomoe uscì.
Bunny corse da lui e, dopo averla vista annuire, tornò a passo svelto da me:
“Mi fanno entrare, vado da Usa.” Il suo tono era pieno di sollievo e di speranza.
“Bene, sono contento Bunny” risposi con un lieve sorriso non appena vidi i suoi occhi illuminarsi.
“Marzio, non è che ti andrebbe di… insomma… ti va di conoscere Usa?”
Rimasi spiazzato, senza parole, incredulo.
Non avrei mai immaginato che potesse chiedermi una cosa del genere.
Credevo non mi volesse fra i piedi, che volesse tenere la sua sorellina lontano da tutti coloro che lei allontanava; e invece, in quel momento, quelle parole piene di dolcezza e titubanza furono la più bella dichiarazione che lei potesse farmi per dimostrarmi la sua fiducia.
Sorrisi, ancora meravigliato, e annuendo con voce tremante:
“Ne sarei onorato.”
Sorrise anche lei e insieme, indossando sul viso la maschera della serenità, ci avviammo così verso la stanza di Usa.
 
Emozioni. Un turbine di sentimenti ricompresi in un’unica parola.
Paura. Sconforto. Speranza. Fiducia…
Amore.
 

Note:
*: Bloody Bunny è un modo ironico per riferirsi al cocktail Bloody Mary. (trad. Bunny la sanguinaria, in questo caso).
**:  ‘Stay’ di Sasch feat. La trec. (la trovate tra i link del Moonlight fan club su facebook)
***: anche se molti vengono tratti in inganno, è Albany la capitale dello Stato New York.

 
Il punto dell'autrice

Finalmente questo capitolo tanto atteso (e sofferto) è terminato.
Inizialmente volevo continuare qui stesso la parte relativa alla visita ad Usa, ma sarebbe stato troppo lungo e, a mio avviso, pesante.
Spero che vi sia piaciuto e che non abbia deluso tutti coloro che lo attendevano con ansia.
Spero di aggiornare presto, nel frattempo mi farebbe piacere ricevere i vostri pareri che - anche se negativi - sono sempre molto graditi!
 
E adesso passiamo ai ringraziamenti (doverosi):

Ringrazio con tutto il cuore le amministratrici del Moonlight fan club su Facebook:
Emi, Silvia, Alessia.
Inoltre grazie mille alle mie Moonlight dancers (le iscritte al Moonlight fan club (fondato da Emi) sul forum di Sailor Moon).
Grazie davvero ragazze per il vostro sostegno e per l’affetto che giorno dopo giorno mi  dimostrate.
Vi voglio davvero bene.
Grazie mille a Desirèe Raddusa per aver realizzato degli splendidi video su Moonlight.
Guardateli fra i link del Moonlight fan club su facebook, sono davvero splendidi. 

 
Grazie di cuore a:
1-amy_m88
2 - azaz
3 - nicolettaambrosino
4 - Noemi88
5 - pianistadellaluna
6 - sailorm
7 - SailorMercury84
8 - serenity82
9 - SerenityEndimion
Per avermi fatto sentire onorata aggiungendomi fra gli autori preferiti!
 
Grazie mille a:
1 - alemagica88
2 - Angelica82
3 - buba16
4 - china91
5 - Cri cri
6 - cri88
7 - Ily94
8 - key17
9 - luna88
10 - nicolettaambrosino
11 - pianistadellaluna
12 - SailorMercury84
13 - SERENATA
14 - serenitas
15 - serenity82
16 - SerenityEndimion
17 - sun86m
Per aver inserito Moonlight fra le preferite!
 
Grazie a:
1 - alemagica88
2 - buba16
3 - Bulm88
4 - china91
5 - Cri cri
6 - EllieMarsRose
7 - frogvale91
8 - hoshi90
9 - ladybug88
10 - Lisanechan
11 - micina82
12 - mustardgirl
13 - pathisas
14 - SailorMercury84
15 - Serenity 4ever
16 - Shining Aurora
17 - star86
18 - Thaila
19 - vanny 3
20 - wingedangel
21 - _Principessa di Cristallo_
22 - _Sofia_
per aver inserito Moonlight fra le seguite.

 
Un bacione e a presto!
Demy


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Capitolo 9
*** Un tesoro chiamato Usa ***


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Cap. 9: Un tesoro chiamato Usa


Attraversammo le porte che ci condussero direttamente al lungo corridoio ai cui lati erano disposte le stanze per la degenza.
Tutte rigorosamente chiuse, per rispetto dei piccoli pazienti e della loro privacy.
Mentre raggiungevamo la stanza di Usa, vedevo Bunny agitata, ansiosa, che però cercava di trovare la calma per non mostrarsi stremata davanti alla piccola.
Mi sentivo onorato, Lei mi aveva appena dimostrato la sua fiducia proponendomi di conoscere la persona più importante della sua vita, colei per la quale aveva messo se stessa in secondo piano accettando un lavoro che la faceva soffrire e la obbligava a scendere a compromessi.
Però d’altra parte ero a disagio, non sapevo come comportarmi davanti a quella piccola creatura malata e fragile. Cosa le avrei detto? In che modo avrei dovuto presentarmi? Che ruolo avevo io per lei e per Lei?
Finalmente, a metà corridoio, Bunny rallentò il passo spedito, bloccandosi davanti alla porta sulla quale era scritto ‘30’.
Fece un respiro profondo chiudendo gli occhi e poi, poggiando la mano sulla maniglia della porta:
“Sei pronto?”
Le accarezzai dolcemente la guancia e, sorridendo lievemente, annuii.
 
Le veneziane, dalle quali penetravano i tiepidi raggi di sole, donavano alle pareti bianche una tonalità verde chiaro, rilassante per gli occhi.
Ma non per lo spirito. Infatti, una volta entrati, l’angoscia più totale mi percorse.
Rimasi spiazzato, inerme, immobile con la porta chiusa alle mie spalle.
Bunny, invece, facendo il giro del letto, si diresse immediatamente verso la bambina debole e ancora stordita per via degli antidolorifici.
Le sollevò delicatamente la testa e il busto dal letto e la strinse al suo petto.
Le accarezzava i capelli che portavano i segni di cicli di chemioterapia, le baciava il viso, e la piccola si stringeva a lei trovando rifugio vicino al suo cuore.
“Piccola mia, sono qui, come stai?”
“Bunny, cos’è successo, dov’eri?”
Bunny cercava di non piangere, di inghiottire il suo dolore per non renderlo visibile:
“Hai dormito piccolina, ma non eri sola, io ero qui fuori. Ora sono qui con te.”
Riprese a baciarle le guance e la fronte.
Quella scena era disarmante, per chiunque.
Bunny sollevò lo sguardo dalla sorella e mi guardò.
In quel momento vide il vero Marzio Chiba,  quello che non mostravo mai a nessun altro. Il mio sguardo era affranto dal dolore, il mio sorriso rassicurante – che mi mostrava sempre sicuro di me stesso – era scomparso. Adesso ero visibilmente vulnerabile, spaventato, insicuro, impotente.
Ero un uomo.
Ci guardammo per qualche istante.
I suoi occhi mi dicevano che aveva tanta paura, che non sapeva cosa fare, mi chiedeva aiuto.
Ed io, le rivelavo che ero altrettanto spaventato, che avrei voluto tanto aiutarla ma che mi sentivo impotente.
“Chi è questo ragazzo, Bunny? È il tuo fidanzato?”
Anche la bambina si era voltata verso di me, rimanendo sempre stretta fra le braccia della sorella.
Rimasi per un attimo senza parola, osservando quegli occhi bellissimi, color nocciola con qualche sfumatura di rosso.
Bunny sorrise imbarazzata:
“Lui è Marzio, è mio amico, volevo fartelo conoscere.”
A quelle parole, mi avvicinai al letto e, prendendole con delicatezza una mano, la baciai dicendo:
“Sono felice di conoscerti, Usa. Bunny mi parla spesso di te, sei una bambina molto coraggiosa, lo sai?”
Mi guardò incuriosita, sorpresa. Credo che Bunny non avesse fatto mai entrare nessuno in quella stanza prima di quel momento.
Sorrise lievemente.
Il suo sguardo, il suo viso, portava i segni della stanchezza e della sofferenza.
Mentre accarezzavo la sua piccola mano ancora nella mia, inevitabilmente mi accorsi dei lividi al braccio, dovuti ai numerosi prelievi sicuramente andati male.
Una strana sensazione di dispiacere mai provato prima e di tenerezza assoluta si impadronì di me.
Avrei tanto voluto fare qualcosa per aiutarla, per farla stare bene.
Era così piccola e indifesa.
Bunny non smetteva di coccolarla. Anche lei era sconvolta. I suoi occhi erano gonfi e stremati. Credo che non avesse dormito completamente, così come credo che non avesse mangiato nulla dalla sera precedente.
Volevo andarle accanto e stringerla, darle quel conforto, quell’amore di cui aveva bisogno per affrontare quella situazione tragica.
“Marzio, tu vuoi bene a Bunny?”
Com’è vero il detto: la voce dell’innocenza!
Bunny arrossì improvvisamente e io, non sapevo cosa rispondere, o meglio; sapevo di amare Bunny in una maniera inspiegabile – nonostante la conoscessi da pochi giorni - e che avrei fatto di tutto per renderla felice, ma preferii soltanto dire:
“Sì, le voglio molto bene e da oggi vorrei essere anche tuo amico, ti va’?”
Annuì e lasciò la stretta di Bunny voltando il busto verso di me e allungando le braccia.
Mi riempì il cuore, mi chinai verso di lei e la strinsi a me, cercando di non farle male. Era molto fragile e sciupata.
Bunny ci guardava con occhi pieni di dolcezza, tanto da lasciar uscire un  sorriso carico di serenità. Vedermi abbracciare Usa le piaceva, la faceva sentire più tranquilla. Sapeva che non era più da sola. Sapeva che io le sarei stato accanto.
Solo quando la piccola si allontanò dal mio abbraccio, rimettendosi sdraiata, le dissi:
“Come sei bella, Usa, sei una bambina bella e coraggiosa.”
Sorrise. E anche Bunny.
Mi piaceva quella complicità che si era creata, anche se nel luogo peggiore di tutti, nell’aria si respirava una sensazione di armonia e di calore che mi faceva sentire in pace con me stesso. Un calore mai provato prima. E so che per Bunny era lo stesso.
“Bunny, io vorrei un frappè! Con tante fragole! E con la panna sopra!”
Usa aveva pronunciato quella frase con tanto entusiasmo, ma Bunny si rammaricò subito.
Sapeva che i medici non le avrebbero permesso di comprarle cibo non previsto dall’ospedale, soprattutto dopo quello che la piccola aveva passato la notte prima.
“Usa, non so se questo è possibile…” disse dispiaciuta, titubante, tenendo la manina della piccola tra le sue.
“Non è giusto… io ho fame, voglio il frappè, ti prego, ti prego!”
Bunny era in difficoltà, per una bambina di soli cinque anni, da un anno ricoverata in ospedale senza poter vivere una vita allegra e spensierata come gli altri coetanei, senza poter mangiare ciò che voleva – soprattutto quando la chemio le toglieva anche la forza di respirare - quella situazione non era per niente facile; e Lei si sforzava di non fargliela pesare, anche se poi inevitabilmente questo accadeva.
Mi chinai verso di lei e accarezzandole la guancia:
“Usa, facciamo così, parlo con il professor Tomoe e se per lui va bene ti compro il frappè più buono dell’Upper East Side! Va bene?”
Cercavo di non deluderla, di renderla – a modo mio – contenta.
Sorrise annuendo. Sorrisi anch’io.
Se dovessi stabilire un momento in cui poter affermare con certezza che Bunny mi amasse, quello era Il momento.
Mi guardava, mi osservava, e i suoi occhi lasciarono trasparire una nuova luce.
Piena d’ammirazione, di gratitudine, di meraviglia. Unita alla luce piena d’amore che ormai da un po’ leggevo nello specchio della sua anima. Potei affermare con certezza, che quel momento fu anche per me Il momento in cui capii che l’amavo ancora di più. Che l’avrei amata per sempre.
Mi chinai e baciando una guancia di Usa dissi:
“Vado, cerco di convincerlo e torno col frappè!”
E lei, entusiasta, sebbene la debolezza:
“Anche a Bunny, prima, dai un bacio anche a Bunny!”
Bunny arrossì, rimanendo sorpresa. Voleva dire qualcosa ma la precedetti:
“Certo, anche a Bunny.”
E mentre facevo il giro del letto, per andarle vicino, ci guardammo intensamente, lasciando che i nostri occhi si intendessero senza bisogno di dire nulla, sotto gli occhi ingenui e curiosi di Usa.
 Le misi una mano sulla schiena e le diedi un bacio sulla guancia.
Ma non uno di quelli che avevo dato a Usa. No.
Dischiusi leggermente le labbra, accarezzandole così la sua guancia prima di baciarla.
Era un bacio dolce ma sensuale.
Ovviamente Usa non riuscì a notare la differenza, ma Bunny arrossì, chiudendo gli occhi per assaporare meglio quella dolce sensazione. Sapevo che dopo tutta la tensione accumulata, quel bacio – innocente ma pieno d’amore – le piacque, ne ero certo. Lo desiderava, mi amava. E io la amavo di più.
Riaprì gli occhi non appena sentì le mie labbra andare via dal suo viso e il mio respiro allontanarsi dalla sua pelle.
 
Lanciai un sorriso rassicurante a entrambe e uscii dalla stanza.
Parlai con il professor Tomoe di alcune cose e, inoltre, riuscii a convincerlo ottenendo il permesso per comprare a Usa ciò che voleva.
Lasciai quindi l’ospedale e, a un isolato da lì, comprai due frappè e dei biscotti.
 
Tornai presto nella stanza ‘30’, notando Bunny con Usa in braccio davanti alla porta del bagno interno alla stanza.
“Le ho fatto il bagno nel frattempo.”
Era stanchissima, a fatica riusciva a sorreggerla.
Posai sul comodino la busta della caffetteria e la raggiunsi:
“Dalla a me, ci penso io!”
Presi la piccola fra le mie braccia molto delicatamente.
Nel porgermela, le nostre mani si incontrarono, come ad accarezzarsi teneramente.
Ormai, quando le parole non lo facevano, erano i nostri corpi – anche involontariamente - a parlare, ad esprimersi, manifestando le nostre emozioni e il nostro bisogno reciproco l’uno dell’altra.
Rimanemmo a guardarci per qualche istante, volevo parlarle con i miei occhi blu e  profondi, sperando che lì potesse leggere tutto l’amore che provavo per Lei.
Sorrise, poi:
“Hai visto Usa, Marzio ha portato il frappè! Sei contenta?”
Lei annuì ringraziandomi. Ormai le poche forze la stavano abbandonando.
La sdraiai sul letto e le porsi il frappè e i biscotti mentre Bunny le rimboccava le coperte.
Porsi l’altro anche a Bunny e con tono apprensivo:
“Tieni. Sei stanca, siediti e bevilo.”
Sorrise lievemente e, sedendosi accanto al letto, lo bevve.
 
Rimasi lì una mezz’ora. Usa mi raccontò delle sue passioni e dei suoi sogni.
Amava colorare e le piacevano le favole sulle fate, soprattutto quelle sugli unicorni e i cavalli alati. Il suo sogno era quello di andare a Disneyworld.
Era molto simpatica. E, nonostante la malattia, riusciva a donare a chi la guardava un sorriso pieno di dolcezza.
Durante la nostra chiacchierata la porta si aprì e un’infermiera entrò dicendo:
“Mi spiace, il professor Tomoe ha fatto un’eccezione ma adesso dovete andare via.”
Usa era abituata a vedere la sorella solo nelle ore di visita e Bunny pure.
Io invece ne fui dispiaciuto, la compagnia di Usa era molto piacevole e stare lì con lei, con loro, mi faceva stare bene.
“Torno presto a trovarti, sei contenta?” le dissi dopo averle baciato la fronte.
“Sì, sono felicissima, grazie Marzio!”
Stavo per allontanarmi quando mi chiamò facendomi segno di avvicinarmi a lei.
Mi chinai e, all’orecchio, mi sussurrò:
“Prenditi cura di Bunny. È sola e io sto in pensiero.”
Notai in lei una maturità mai vista in nessun’altra persona della sua età.
Nonostante stesse male, si preoccupava per la sorella.
Mi sciolse il cuore.
Sorridendo, all’orecchio le risposi:
“Sta’ tranquilla, penso io a lei. È al sicuro con me.”
E l’avrei fatto, avrei fatto sì che fosse veramente al sicuro con me. In un modo o nell’altro, mi sarei preso cura di Lei.
Bunny si chinò per abbracciarla forte a sé e baciarle le guance:
“Torno stasera piccola. Colora i tuoi disegni e stasera me li fai vedere, ok?”
Usa annuì e noi la salutammo lasciando la stanza.
 
Una volta fuori dall’ospedale, guardai Bunny, notando la sua stanchezza sempre più evidente.
Presi coraggio:
“Bunny, non vorrei sembrarti sfacciato ma, abito a due isolati da qui. Ti andrebbe di salire a prendere un caffè? Niente docce e nessun atteggiamento impulsivo. Giuro!”
Sorrise ma poi, ritornando seria, abbassò lo sguardo:
“Ti ringrazio Marzio ma sono molto stanca. Preferisco tornare al Moonlight e riposare un po’. Stasera voglio farmi  trovare più riposata da Usa.”
Avrei tanto voluto dirle che poteva sdraiarsi sul mio letto e, cullata fra le mie braccia, addormentarsi con la testa lì dove batteva il mio cuore.
Ma non lo feci.
“Certo. Hai ragione. Sei stanca, hai bisogno di riposare.”
Inghiottii la mia gelosia e poi ripresi:
“Stanotte, poi, devi anche lavorare.”
Scosse la testa:
“No. Ho chiesto a lady Amy alcuni giorni di ferie spiegandole la situazione di Usa e me li ha concessi.”
“Capisco. Per qualsiasi cosa non esitare a chiamarmi. Me lo prometti?”
Sorrise e annuendo:
“Marzio, ti ringrazio davvero tanto per quello che hai fatto oggi per me e per Usa. Mi sono comportata male con te in questi giorni. Ti ho trattato male. Non dovevo. Non volevo.”
“Non importa Bunny, è tutto apposto. Non pensare a me, riposati, sei stremata.”
Per un attimo la sua espressione mutò.
Non capii se per la frase ‘non pensare a me’ o se per la carezza alla guancia, alla quale si abbandonò seguendo la mia mano col viso.
“A presto Marzio!”
Sorrisi falsamente, cercando di nasconderle il mio dispiacere ora che aveva appena iniziato ad avviarsi verso la parte opposta della banchina.
“A presto, Amore…” sussurrai quando era già andata via.
 
Arrivai a casa, posando sul tavolino basso del salotto il mio notebook che portavo con me da quella mattina.
Mi sdraiai un attimo sul divano, portando le mani al viso.
Che sensazioni, che emozioni, avevo provato in meno di due ore.
Avevo finalmente notato personalmente quanta sofferenza esistesse, quanto dolore tanti piccoli bambini innocenti e le persone a loro care dovessero sopportare senza poter far nulla per evitarlo.
Se solo avessi potuto aiutare Usa…
Poi ripensai a Bunny e con quanta dolcezza si dedicava a sua sorella.
Al suo modo di mostrarsi sempre in forma, nonostante le forze la avessero abbandonata già da molto, alla paura che portava nel cuore.
Ripensai alle sue parole piene di sconforto, al suo sfogo mentre mi confidava che doveva sempre fingere senza poter essere se stessa.
Sia con Usa che col Mondo intero.
Anche lei aveva bisogno d’affetto, di coccole, d’amore.
E io avrei tanto voluto darle tutto l’amore che provavo per lei. Grazie a lei.
Se solo me lo avesse permesso…
Poi il mio cellulare squillò, riportandomi alla realtà.
Era Moran. Non lo avevo più sentito dopo il nostro ultimo incontro al Crown.
“Ciao Marzio, com’è andata con Bunny? Non mi hai fatto sapere nulla! Si è ingelosita?”
Sorrisi nervosamente: “Lascia perdere Moran, preferisco non pensarci. Comunque, con Bunny i rapporti sono migliorati, adesso credo che mi consideri un amico. Ti racconto tutto appena ci vediamo.”
Non ricordo cosa rispose perché il campanello di casa suonò, distraendomi.
Salutai Moran, chiedendomi curioso chi fosse, dato che non ricevevo mai visite inaspettate.

Aprii la porta e rimasi stupito, incredulo, mentre una sensazione di felicità spazzava via la stretta al cuore che sentivo da quando avevo salutato Bunny all’uscita dell’ospedale.
Il mio, iniziale, sguardo sorpreso lasciò subito posto ad un sorriso sincero.
Con un’espressione dolce, Bunny mi guardava sorridendo:
“È ancora valido l’invito per un caffè?”
 
… continua.


 
Dedicato a tutti i bambini malati, alle persone a loro care e a coloro che ricordano i piccoli, ormai, angeli del Paradiso.

 
Il punto dell'autrice

Cari lettori, prima di tutto ci tenevo a ringraziarvi per l’affetto che mi dimostrate.
Moonlight ha già ottenuto più di 100 recensioni in 8 capitoli, quindi grazie di cuore a tutti voi!
Spero che questo capitolo non vi abbia deluso, ci tenevo a dedicare un capitolo a Usa e far riflettere sulla sofferenza che purtroppo realmente esiste.
Fatemi sapere cosa ne pensate, anche se negative, le recensioni son sempre gradite!
Un bacio e a prestissimo!
Demy

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Capitolo 10
*** Non lasciarmi andare... ***


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Cap. 10: Non lasciarmi andare...



“È ancora valido l’invito per un caffè?”

Lo aveva domandato con la dolcezza tipica di Lei, con uno sguardo pieno d’amore e tenerezza, e con un sorriso lieve ma intenso che illuminò la stanza.
Per attimo rimasi immobile, cercando di mettere ordine nella mia mente, nella quale si era creata la confusione più totale.
E lei mi fissava, curiosa, in attesa di una mia risposta, con le mani giunte all'altezza del ventre. Le presi una mano invitandola ad entrare:
“Certo che lo è, accomodati.”
Ero così felice da non riuscire a descrivere la gioia provata in quel momento.
Non avrei mai immaginato che Lei potesse cambiare idea, né, a maggior ragione, che potesse venire da me.
Richiusi la porta alle mie spalle, indicandole il salotto.
Si guardò intorno, meravigliata, notando l'arredamento in stile antico e le pareti beige sulle quali erano appesi alcuni quadri di pittori illustri:
“Complimenti, è molto bello qui! Vivi da solo? Coi tuoi? Oh, scusami, non sono affari miei!”
Sorrisi, invitandola a sedersi sul divano in pelle bianca:
“Vivo da solo da quando avevo diciotto anni. Non scusarti, mi fa piacere parlare con te."
Mi avviai verso la stanza adiacente dicendo: " Torno subito!”
Annuì, sedendosi, dopo aver tolto il cappotto, e continuando a guardarsi in giro mentre io, in cucina preparavo il caffè.
La confusione provocata da quella vistita, tanto inaspettata quanto voluta, non mi abbandonava e la paura che portasse cattive notizie mi rendeva ansioso. Tornai poco dopo con un vassoio con sopra due tazze e un piattino con dei pasticcini.
Poggiai il vassoio sul tavolino basso e le porsi una delle tazze da caffè americano, quella con la scritta I heart NY *, la mia preferita.
“Non saranno buoni come le torte di Morea ma sono ottimi!”
Cercai di metterla a suo agio, indicando i pasticcini.
Sorrise, prendendone uno.
“Amo i pasticcini.”
Mi sedetti accanto a lei, prendendo l'altra tazza e bevendo il caffè.
Bevve un sorso anche lei, poi mi guardò negli occhi e trovò il coraggio per dire:
“Credo, dovremmo parlare.”
“Sei stanca Bunny, io credo invece che dovresti riposare.”
Avevo paura che mi dicesse qualcosa che io non volevo sentire. Non un’altra volta.
Sapevo che fin a quel momento i suoi occhi mi avevano rivelato quell’amore che provava per me e che cercava, inutilmente, di non far trasparire.
Sapevo anche che mi aveva presentato a Usa come un amico e questo significava molto. Significava fiducia. Volermi, in un modo o nell’altro, nella sua vita.
E poi, era venuta da me con una dolce espressione in viso.
Sì, sapevo tutto ciò, ma temevo ugualmente un suo ripensamento. In fondo, non sarebbe stata la prima volta.
Scosse la testa e, posando la tazza sul vassoio, disse:
“Ti prego, ho bisogno di parlarti. È importante.”
Abbassai lo sguardo e, chiudendo gli occhi, annuii.
Fece un respiro profondo, poi: “Per me non è facile essere qui, e non intendo per la stanchezza.”
Stavo per interromperla ma mi precedette:
“No Marzio, ti prego, lasciami finire senza interrompermi, per favore.” La sua voce era cortese e aggraziata e i suoi occhi desiderosi di esprimere le sue emozioni.
Acconsentii. E riprese:
“Quando mi hai chiesto di venire qui con te, avrei voluto accettare. Qualcosa dentro di me mi diceva di farlo. Però, razionalmente ho pensato fosse meglio tornare al Moonlight e riposarmi. Credevo fosse meglio stare da sola."
Abbassò lo sguardo fissando i suoi Jeans: "Senza di te.”
Una pausa, poi, a testa bassa, seguendo con le dita le cuciture dei pantaloni:
“E invece questo mio pensiero è durato solo pochi secondi. Quando mi son voltata per salutarti un’altra volta, per guardarti un’ultima volta, ti ho visto già di spalle mentre ti allontanavi e, istintivamente, ho capito che io non volevo stare da sola."
Prese coraggio:
"Non volevo stare lontana da te. Così ti ho seguito, rimanendo qui sotto chiedendomi se stessi facendo la cosa giusta.”
La fissavo per tutto il tempo, accorgendomi della sua delicatezza nell'esprimersi, apprezzando lo sforzo che stava facendo rivelandomi i suoi pensieri. Volevo dirle qualcosa, ma le avevo promesso che l’avrei lasciata parlare, così rimasi in silenzio.
Specchiando i suoi occhi, tanto stanchi quanto luminosi, nei miei si rivelò: “Quando quella mattina ci siamo incontrati per la prima volta a Time Square, la tua gentilezza, il tuo modo affabile di aiutarmi a rialzarmi, di guardarmi, non lo so spiegare ma, mi ha colpito. Anche se non ci conoscevamo prima, ho avuto come la sensazione di conoscerti da sempre.”
Una lieve risata, poi, voltando lo sguardo dall'altro lato, verso la portafinestra:
“Che stupida che sono!”
Le presi una mano, invitandola a guardarmi:
“No, non sei stupida. Credimi, ho avuto la stessa sensazione anche io. Ho pensato anche io di averti conosciuto probabilmente in un’altra vita. In un Universo Parallelo.”
Poi mi interruppi, lasciandole la mano e dandole la possibilità di parlare.
“Quando la stessa sera ti ho visto al Moonlight, ti confesso che ho provato un senso di mortificazione, di vergogna. Ero già imbarazzata per come mi stavo mostrando a tutti quegli uomini. Ma con te non era solo imbarazzo. Non volevo che anche tu pensassi di me… insomma…”
Si coprì il viso con le mani.
Le poggiai una mano sulla spalla:
“Bunny, io non ho pensato nulla di tutto ciò che credi tu. Ho solo pensato che volevo prenderti e portarti via da quello schifo.”
Tolse le mani dal viso, voltandosi immediatamente verso di me e dandomi la possibilità di ammirare i suoi occhi che sembravano brillare di una nuova luce. Quella della speranza.
Ripresi:
“Dopo averti conosciuta quella mattina, ho ripensato a te, al tuo sguardo triste, alla tua dolcezza. Ero dannatamente dispiaciuto del fatto che sicuramente non ti avrei rivista mai più. Ma poi, di sera, se da una parte non volevo vederti su quel palco, dall’altra ero sollevato perché almeno sapevo dove poterti trovare.”
Mi guardava. Non sapeva più come continuare, era sorpresa.
“Bunny, io sapevo già le tue sensazioni, i tuoi pensieri che mi hai appena rivelato. Li leggevo nei tuoi occhi, nel tuo sguardo. Sapevo che non mi sbagliavo.”
“Davvero?” chiese incredula, portando una mano chiusa all'altezza del cuore e continuando a fissarmi.
Annuii: “Io devo chiederti scusa per il mio comportamento infantile e irruento. Sono stato troppo impulsivo in questi giorni. Hai ragione tu, sono soltanto un ragazzo viziato. Non sapevo cosa fosse la vera sofferenza. L’ho scoperta solo oggi. Vedendo Usa. Vedendo te.”
Mi interruppe scuotendo la testa:
“No. Non devi scusarti. Sono io che devo chiederti scusa.
Come stavo dicendo prima, è da quando ti ho conosciuto che qualcosa mi diceva dentro di me di potermi fidare. E ne ho avuto la conferma quando sei entrato nella mia stanza proteggendomi da Seiya.”
Si nascose il viso fra le mani:
“Oddio, che vergogna.”
Una pausa, poi:
“Ti ho visto veramente come un eroe, ho capito che eri diverso. E poi, quando mi hai detto quella frase… il mio cuore si è sciolto.”
Avrei voluto dirle di nuovo che l’unica cosa che volevo era soltanto vederla felice. Ma non potevo. Non adesso che si stava lasciando andare. Non ora che si stava confidando.
“Marzio, da quando ti conosco, cerco di combattere con me stessa. Cerco di non pensare al tuo modo, dolce e gentile di rivolgerti a me, alle tue attenzioni… ai tuoi sentimenti per me.”
Una lacrima scese sul suo bel viso. L’asciugò rapidamente, poi:
“La sera che seppi che Usa probabilmente non avrebbe mai avuto un donatore, mi sentivo fragile. Mi sentivo come se la vita, breve, mi stesse sfuggendo velocemente di mano. Avevo bisogno di te, del tuo calore, del tuo sostegno… del tuo amore. E quando sei tornato, inaspettatamente, ho capito che dovevo rivelarti i miei sentimenti."
Il suo tono divenne esasperato:
"Solo che, la mattina seguente la razionalità ha ripreso il sopravvento. Ho ripensato a Usa, ai maledetti soldi che mi servono per lei. E così, ancora una volta, ho sofferto in silenzio. Sono stata cattiva con te. Non avrei voluto, credimi.”
Le presi una sua mano e la baciai delicatamente:
“Non importa Bunny, non preoccuparti.”
“Marzio, per me è stato difficile ieri notte mandarti via. Io… ecco vedi… io non volevo che te ne andassi. Ma dovevo andare da Usa. Ero spaventata. Temevo di perderla.”
Prese coraggio abbassando gli occhi e chiudendo le mani a pugno sopra le gambe:
“Mi dispiace di essere scappata via dopo averti visto con quella, cioè volevo dire, con Sidia. Non erano affari che mi riguardassero.”
Il suo modo di nominare Sidia, il tono che usava, accompagnata da quell’espressione infastidita che celava un’enorme gelosia, mi fece sorridere.
Amavo vederla gelosa di me, anche se di quello spiacevole episodio avrei fatto a meno.
“Bunny, ti ho lasciata parlare, ora per favore fammi spiegare. È importante per me.”
Mi fissò, senza dire una parola, rimanendo in quella posizione.
“Bunny, la mattina in cui mi dicesti di lasciarti andare per sempre, mi è crollato il Mondo addosso. Ingenuamente, da ragazzo viziato che ottiene tutto facilmente, ho creduto che saremmo stati assieme, felici. E invece tu non c’eri accanto a me. Solo un biglietto. Sidia mi ha visto uscire dalla stanza e mi ha ricattato.”
Sussultò, spaventata.
Ceracai di farle capire la realtà delle cose:
“Mi disse che, se non volevo che dicesse nulla a lady Amy, avrei dovuto accettare la sua compagnia. Ho cercato di proteggerti. Ero ubriaco…”
Non mi lasciò finire. Si alzò di scatto dirigendosi verso la portafinestra da cui era possibile vedere il panorama di Manhattan:
“Basta Marzio, ti prego, non dire nulla… non voglio saperlo.”
Notando il suo nervosismo, la raggiunsi, cingendole la vita da dietro e sussurrandole dolcemente all’orecchio:
“Iniziai a bere pensando che, vedendomi con quella puttana, ci saresti stata male. Sapevo che non avresti potuto sapere che lo stavo facendo per proteggerti.”
Al contatto col mio corpo e al mio respiro sulla sua pelle, si irrigidì. Le diedi un bacio sul collo, sotto l’orecchio, mentre lei rimaneva immobile, osservando dalla finestra il caos dell'Upper East Side, tra gente che camminava a passo spedito e file di auto imbottigliate nel traffico.
“Bunny, mi sono ubriacato vedendoti ballare. Ero geloso, mi avevi lasciato quella mattina e, in quel momento ballavi quasi nuda davanti a tutti quei porci che ti mangiavano con gli occhi senza che io potessi fare niente.”
Sentivo il suo respiro farsi sempre più affannato.
Un altro bacio, sulla spalla leggermente scoperta dalla scollatura a barca della felpa, mentre le mie mani accarezzavano il suo ventre:
“Dopo che sei andata via dal palco non riuscivo a smettere di pensare a te. Volevo stare con te. Ero così ubriaco da non rendermi conto che quella mi avesse portato nella sua stanza. E anche lì, immaginavo te, pensavo che ci fossi tu con me.”
Si voltò di scatto, con le lacrime agli occhi, ritrovandosi stretta fra le mie braccia:
“L’ha fatto apposta… è venuta da me, dicendomi che fosse urgente e che dovessi raggiungerla, con cattiveria. La odio.”
Il suo tono era pieno di rabbia, si sentiva tradita.
“Lo so Bunny, lo so. Non temere, non sarà più cattiva con te. Te lo assicuro” le risposi, comprensivamente, scostandole i ciuffi che le scendevano sulla fronte.
Ci guardammo. Non riusciva a trattenere le lacrime, mentre stringeva le sue mani sulla mia camicia:
“Se tu sapessi quanto sono stata male quella notte… per averti visto con lei in braccio dovendo far finta di nulla. Per averti visto insieme a lei nella sua stanza… sul suo letto.”
Iniziò a singhiozzare:
“E poi, Usa che perde conoscenza… oddio.”
La strinsi forte a me, poggiandole la testa sul mio petto.
“Bunny, non avrei mai voluto farti soffrire, volevo solo proteggerti… mi dispiace. Perdonami.”
Rimase qualche minuto in quella posizione, cingendomi la schiena, mentre io le accarezzavo i capelli cercando di farla calmare.
Nessuno parlava, solo il caos della City. Dopo qualche minuto, si allontanò dal mio abbraccio, quel poco per potermi guardare in viso:
“A proposito di Usa. Stamattina quando ti ho visto in ospedale ho capito che stavo sbagliando tutto. Io non volevo dirti addio. Voglio averti accanto. È solo che non posso farti entrare nella mia vita per come vorrei. Tu capisci questo vero?"
Si voltò di profilo, cercando le parole giuste per continuare:
"Usa ha bisogno di cure. Io non posso lasciare il Moonlight. Se prima pensavo che ti saresti stancato presto di me e dei miei problemi, dopo averti visto con Usa non lo penso più. Ma non ho 40.000 dollari per il risarcimento. Devo restare lì. Almeno fino alla scadenza del contratto.”
Non sapevo che dire, io volevo tanto aiutarla, trovare una soluzione e renderla libera, ma non avevo tutto quel denaro. Avevo usato l’acconto per il secondo libro per pagare il mutuo dell’appartamento, che tra l’altro non era ancora stato estinto.
Capii le sue ragioni, neanche per lei era facile quella situazione e; anche se avrei cercato in tutti i modi una soluzione, stavolta, non le avrei complicato le cose, non le avrei reso tutto più difficile. Lei si fidava di me e io dovevo meritarmi quella fiducia.
Cercai di rassicurarla, di farle capire che su di me avrebbe potuto sempre contare: “Ti starò accanto nel modo che vorrai tu. Sarò tuo amico, se è questo che desideri. Farò di tutto per proteggerti. Non sei più sola. Ci sarò io con te d’ora in poi.”
Mi guardò. I suoi occhi, appannati dalle lacrime, brillarono.
Adesso si sentiva più tranquilla, sollevata. Piena di conforto.
“Grazie, Marzio” disse dolcemente.
Sorrisi, lasciandola uscire dal mio abbraccio.
Dovevo comportarmi da amico. Dovevo resistere, dovevo farlo per Lei.
Si voltò, tornando a sedersi sul divano. La seguii, sedendole accanto.
Le chiesi quanti giorni di ferie aveva preso e mi rispose:
“Una settimana, sperando che Usa non peggiori. Lady Amy è una ragazza molto comprensiva. È stata molto disponibile quando Rea e Marta mi hanno portata al Moonlight. Ha capito la mia situazione e non ha esitato ad assumermi.”
“Sì, ma a lei, al locale, conveniva assumerti” ribattei io istintivamente. Lei riusciva sempre a vedere il buono in tutti. Era sempre amorevole con chiunque. Io no. Specialmente in quell’ambiente.
“Sì è vero, però non è cattiva. È comprensiva. Non ci impone, ad esempio, di dormire lì. Possiamo andar via dopo aver finito il lavoro, al contrario di altri night club…
Sono io che, dopo aver venduto la casa, mi sono trasferita lì. Così come Marta e Rea.”
Quella situazione, il fatto che avesse dovuto vendere la casa dopo la morte dei suoi, dovendosi accontentare di un luogo non adatto a lei mi lasciò amareggiato: “Bunny, sappi che puoi venire qui tutte le volte che vorrai. Poi, l’ospedale è vicino. È anche comodo per andare da Usa. Davvero, mi farebbe piacere se mi venissi a trovare quando ne hai voglia.”
In realtà avrei voluto dirle che volevo con tutto me stesso che si trasferisse da me, ma sapevo che non avrebbe accettato, e io avrei fatto di nuovo la parte del ragazzo impulsivo.
Cercai di ironizzare:
“Qui i pasticcini non mancano mai!”
Annuì sorridendo: “Grazie Marzio, sei gentile. Verrò a trovarti qualche volta.”
“Allora amici?” chiesi con tono affettuoso.
Il telefono squillò. E lei, distratta dalla suoneria, non mi rispose.
“Scusami, torno subito” dissi mentre mi avviavo verso la cucina, dove avevo lasciato il cellulare.

Lessi sul display: Mamma.
Era da qualche settimana che non la sentivo. Da quando era partita per Parigi insieme a mio padre.
Lui era andato per una conferenza medica internazionale. Lei, invece, approfittandone per fare una vacanza nella città che tanto amava.
Risposi al telefono, scambiando quattro chicchere con lei e chiedendole del viaggio.
In realtà avevo voglia di chiudere la telefonata e tornare da Lei.
Dopo qualche minuto la salutai, quindi, dicendole che sarei andato presto a trovarla.

Tornai in salotto e il cuore mi si riempì di una tenerezza indescrivibile.
Si era addormentata sul divano, rannicchiata su se stessa.
Era esausta. Infinitamente dolce e, ai miei occhi, indifesa e vulnerabile.
Aveva dovuto prendersi sempre cura di Usa, dalla morte dei suoi genitori, mettendo da parte se stessa, la sua vita e i suoi sentimenti.
Non aveva potuto neppure riposare quella notte. Se avesse continuato così, avrebbe finito per ammalarsi.
Da quel momento in poi mi sarei preso cura di Lei.
Mi avvicinai a lei e delicatamente la presi in braccio cercando di non svegliarla.
La portai nella mia camera e la adagiai al centro del letto.
Dormiva beatamente.
La coprii per evitare che prendesse freddo. Solo allora aprì gli occhi, lentamente, come se non si rendesse conto di essersi addormentata.
Mi chinai verso di lei e, baciandole la fronte, le sussurrai:
“Dormi Bunny, riposati.”
Richiuse gli occhi annuendo, ancora assonnata, scostandosi alcuni ciuffi dal viso.
Mi rialzai, dirigendomi verso il salotto con l'intenzione di riprendere a scrivere.
Solo quando cercai di allontanarmi da lei, prese la mia mano incrociando le sue dita fra le mie.
Mi voltai di scatto, sorpreso.
“Marzio, ti prego, resta qui con me. Tienimi stretta a te.”
Lo aveva chiesto con tanta dolcezza, quasi implorandolo.
Il mio cuore iniziò a battere più forte. Una piacevolissima sensazione di calore mi pervase.
Mi sdraiai accanto a lei, rimanendo con la mano nella sua.
L’abbracciai forte e lei si strinse ancora di più a me, con la testa lì dove batteva il mio cuore.
“Tienimi stretta Marzio, non lasciarmi andare... ”
Le sue parole sembravano un sussurro, bisognoso di protezione, di tenerezza, d’amore.
Io non capivo, mi sforzavo di capire ma proprio non ci riuscivo.
Mi aveva detto, poco prima, che non avrebbe potuto avermi nella sua vita nel modo che entrambi desideravamo. Le avevo risposto che le sarei stato accanto come amico. E ora? Cosa significava ‘Non lasciarmi andare…’?
Non riuscivo a darmi una risposta ma, in quel momento, non mi interessava. Volevo solo starle accanto e darle quell’affetto di cui aveva un immenso bisogno.
Le baciai dolcemente la fronte, cullandola fra le mie braccia e rassicurandola:
“Sono qui con te, Bunny, non ti lascio più.”
E così, con più serenità, lasciando fuoriuscire un sorriso pieno di sollievo, richiuse gli occhi e si lasciò trasportare nel mondo dei sogni.
 
Note:
*: classica tazza souvenir, venduta in tutto il Mondo con il nome delle varie città, in questo caso NY.
 

Il punto dell'autrice
 
Carissimi lettori, spero che questo capitolo (pubblicato prima del previsto) non vi abbia deluso.
So che molti di voi attendono con ansia un‘risvolto’, ma questo capitolo, apparentemente piatto, era un passaggio fondamentale per spiegare meglio i loro sentimenti.
Ora si sono parlati col cuore in mano. Ora non ci sono più possibili interpretazioni.
Mi auguro che vi sia piaciuto.
Grazie sempre a tutti coloro che mi seguono e che mi dimostrano il loro affetto quotidianamente!
Fatemi sapere cosa ne pensate di questo capitolo!
Anche se negativa, una vostra recensione è sempre graditissima!
Baci e a presto!
Demy


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Capitolo 11
*** Promesse da mantenere ***


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Cap. 11: Promesse da mantenere


Si era stretta a me, voltata sul fianco sinistro, con la testa sul mio cuore, una mano sul mio petto e l’altra sul mio collo.
Era servita la mia rassicurazione “Sono qui con te Bunny, non ti lascio più” a renderla serena allontanando, così,  tutti i pensieri e le preoccupazioni, e a farla abbandonare – con un dolce sorriso sulle labbra – nel mondo dei sogni.
La guardavo dormire beata, rilassata, e mi sentivo un uomo felice.
“Se solo le cose potessero andare diversamente, se solo potessi aiutarla…” pensavo fra me non riuscendo a toglierle gli occhi di dosso.
Il suo viso candido, quasi di porcellana, le sue labbra rosee e carnose mi ipnotizzavano e, il suo respiro sul mio collo mi mandava in estasi.
Avrei voluto accarezzarla e, non me ne vergogno a dirlo, rubarle un dolce bacio. Ma non sarebbe stato giusto. Lei si fidava di me e per me ciò significava tutto. E così mi accontentai di sfiorare il suo viso col mio, percependo il suo odore inebriante di petali di rosa.
Rimanemmo in quella posizione per un paio d’ore.
Lei stretta a me e io, con un braccio attorno alla sua schiena e l’altra mano sulla sua nuca, ad ammirarla in tutta la sua beltà desiderando che il tempo si fermasse.
Purtroppo Chronos, dio del tempo, non fu dalla mia parte e, ad un tratto, Lei iniziò a muovere, ancora assonnata, il viso accarezzando così il mio.
Lentamente aprì gli occhi, accorgendosi di me che la osservavo estasiato.
Era ancora confusa.

“Ben svegliata principessa Serenity” le dissi, dolcemente, con un sorriso, guardandola negli occhi.
“Principessa Serenity?” chiese, con voce assonnata, non capendo e aggrottando la fronte.
“Sembravi il ritratto della serenità…” risposi ironicamente.
Sorrise, capendo il gioco di parole che io, in quanto scrittore, riuscivo sempre a fare. Solo dopo si rese conto di essere ancora tra le mie braccia.
So che non avrebbe voluto ma, tolse le sue mani dal mio collo e dalla mia schiena, portandosi seduta sul letto. Indifferente.
“Che ore sono? Mi sono addormentata senza neanche rendermene conto.”
Cercava l’orologio con gli occhi, sistemandosi i codini ormai sfatti.
“Sono le 14.00, eri stremata e ti sei addormentata sul divano.”
Non mi guardava, ricordava tutto e si sentiva in imbarazzo, come se ciò che mi avesse chiesto dicendomi ‘Non lasciarmi andare’ potesse compromettere tutto.
La rassicurai.
“Bunny, è tutto ok, ti ho portata qui solo per farti riposare meglio.”
Ma lei, voltata alla sua destra, continuava a fissare il balcone senza dire nulla.
Mi alzai dal letto, cercando di provarle che per me non c’erano stati fraintendimenti, che l’averla tenuta stretta a me non avrebbe riaperto discussioni ormai chiuse.
“Preparo qualcosa da mangiare, va bene?” le chiesi in tono rassicurante.
Si voltò verso di me, triste, con gli occhi lucidi:
“Grazie, Marzio, ma devo proprio andare adesso.”
Chiusi gli occhi istintivamente, concentrandomi per riuscire a mandare giù quelle parole amare.
Annuii e, con tono apprensivo: “Va bene. Promettimi che mangerai, però.”
I suoi occhi divennero ancora più lucidi anche se Lei cercava invano di non farlo notare.
Annuì alzandosi dal letto e, senza dir nulla, uscì dalla camera passandomi accanto, quasi sfiorandomi.
Le andai dietro, in silenzio, col cuore a pezzi, senza riuscire a dire nulla.
Rimanendo immobile dietro il divano, la vidi indossare il cappotto e frettolosamente abbottonarlo mentre tentava di trattenere le lacrime.
Prese la borsa e si voltò verso di me, notando il mio sconforto stampato in viso.
Sorrise, almeno ci provò:
“A presto, Marzio. Grazie, ancora, di tutto.” E si avviò verso l’uscita.
“Bunny… ” la chiamai a voce alta non appena mi accorsi che aveva già aperto la porta d’ingresso.
Si bloccò, voltandosi verso di me e trovandomi dispiaciuto.
“Bunny, è tutto apposto fra noi, vero?”
Ero spaventato e la mia voce rivelava la mia paura.
Non riusciva a parlare. Se lo avesse fatto le lacrime sarebbero uscite dai suoi occhi azzurri e la sua voce l’avrebbe tradita.
Si limitò ad annuire, sforzandosi, ancora una volta, di sorridere.
Solo dopo, uscì richiudendosi la porta alle spalle.

E di nuovo solo. Di nuovo senza di Lei.
Mi sedetti sul divano, portando le mani alla testa. Volevo trattenermi ma non ci riuscii e iniziai a piangere.
Per Lei, per quella maledetta situazione, per noi.
Lasciai uscire tutto il mio sconforto, il mio dolore. Averla vista trattenere le lacrime mi fece male. Avrei voluto fare qualcosa per renderla felice, o almeno per donarle un po’ di serenità, ma purtroppo, in un modo o nell’altro, riuscivo solo a farla stare male.
Rimasi in quella posizione, con i gomiti sulle gambe e le mani a sorreggermi la testa per qualche minuto, poi, un’idea balenò improvvisamente nella mia testa.
Mi sentii un perfetto idiota per non averci pensato prima.
“Ma certo!” pensai ad alta voce, ora che, finalmente, quell’idea aveva aperto una nuova speranza, una via verso la soluzione di tutto.
Poi, razionalmente e con molta riflessione, un dubbio tremendo e un’innata paura che tutto fosse inutile mi resero titubante e disilluso.
Mi alzai ugualmente dal divano e, dopo aver preso il cappotto, uscii di casa.
Magari non sarei riuscito ad aiutarla.
Però, per Lei, per noi, dovevo almeno provare.
 
Memorial Sloan Kettering Center – Upper East Side
Ore 16.00
 
Avevo appena finito di parlare, dietro il bancone della reception, con il  professor Tomoe che, gentilmente, mi aveva spiegato meglio le condizioni di Usa. Non che Bunny non l’avesse fatto.
 Semplicemente, avevo bisogno di sentirmi dire, in tutta franchezza e onestà, il parere professionale circa le sorti della bambina e la probabilità della sua guarigione.
Mi stavo dirigendo verso l’uscita dopo aver salutato il professore - che era ritornato nelle stanze della degenza - quando le porte scorrevoli dell’ingresso si aprirono. Il mio cuore si fermò.
Camminando a fatica, con gli occhi persi nel vuoto, Bunny entrò in ospedale, facendo sì che le porte si richiudessero non appena fu abbastanza distante da esse.
Rimasi incredulo, scioccato più che altro.
Fino a due ore prima l’avevo lasciata bene, almeno fisicamente. Cosa le era successo da ridurla in quelle condizioni?
Mi diressi spaventato verso di lei e, una volta fatto il giro del bancone, mi accorsi di un borsone che teneva in mano a fatica. Dalla bombatura intuii che fosse pieno e abbastanza pesante.
“Bunny, che è successo?” chiesi allarmato quando le fui di fronte.
Istintivamente lasciò cadere il borsone a terra, destandosi dallo stato di shock in cui si trovava.
Mi guardò. Il suo viso, i suoi occhi non lasciavano trasparire emozioni.
Non rispose. Mi fissava soltanto. Tornò di nuovo in quello stato di assenza dalla realtà.
Presi il suo viso fra le mani, cercando di farla tornare in sé.
“Ahi!” sussultò dolorante, lasciando uscire una smorfia, quando le mie dita premettero troppo forte vicino l’occhio.
Le tolsi subito, prendendole le mani e sperando che il contatto con me potesse farla riprendere:
“Bunny, ti prego rispondi, cosa ti è successo?”
Sbatté le palpebre un paio di volte e dopo, sembrò essere tornata definitivamente in sé:
“Niente Marzio, sto bene.” Cercò di sorridere, tentando di rassicurarmi dopo essersi accorta del mio viso spaventato e dei miei occhi pieni di dispiacere.
“No, non stai bene, dimmi cos’è successo.” Il mio tono era alto - non volevo che mi mentisse davanti all’evidenza - e allo stesso tempo apprensivo.
Volevo che si fidasse di me confidandosi.
“Voglio sedermi” disse sofferente abbassando lo sguardo e avviandosi a fatica verso le sedie sulle quali quella stessa mattina c’eravamo seduti.
Le misi il braccio destro sul fianco, facendola appoggiare a me.
Dopo essersi seduta, lentamente, stropicciò le labbra chiuse per trattenere un lamento di dolore.
Mi sedetti accanto a lei e cercai di farmi guardare in viso:
“Bunny, dimmi cos’hai. Basta fingere. Non sono stupido.”
Mi guardò con gli occhi lucidi e spenti. Quella luce piena di speranza, di serenità, che ero riuscito a donare ai suoi occhi, era scomparsa di nuovo.
“Prometti che non dirai e non farai nulla se te lo dico?”
Era spaventata.
Annuii velocemente.
Prese coraggio e si confidò:
“Quando sono tornata al Moonlight lady Amy mi ha fatta chiamare, così sono andata nel suo ufficio. Sidia era lì con lei.”
Abbassò lo sguardo, asciugando le lacrime che avevano iniziato a scenderle sulle guance. Poi riprese:
“Sidia ha raccontato tutto a lady Amy. Le ha detto di averti visto uscire una mattina dalla mia camera. Le ha anche raccontato tutto di ieri sera. E dato che Sidia è la donna di fiducia di lady Amy, questa le ha creduto subito.”
Non potevo crederci, non volevo crederci. Il mio cuore iniziò a battere forte e una moltitudine di sensi di colpa mi assalì.
Avevo minacciato la puttana di non farla più soffrire o l’avrebbe pagata cara, ma solo in quel momento mi resi conto del mio ingenuo sbaglio.
Solo che a pagarne le conseguenze era stata colei che non avrei mai voluto soffrisse.
Le ravviai dietro l’orecchio una ciocca di capelli, ormai sciolti e simili a una cascata di fili dorati, che le ricoprivano la schiena e le spalle:
“Che ti hanno fatto, piccola?”
Dalla mia voce, dalla mia espressione, riusciva a notare il mio rammarico, la mia completa disperazione.
Con lo sguardo basso e le braccia incrociate sulla pancia, rispose:
“Lady Amy mi ha solo punita. Mi ha detto che è molto comprensiva ma guai a tradire la sua fiducia. E io l’ho tradita facendoti dormire con me e ‘scappando via come una bambinetta disturbando il lavoro altrui’. Ecco come ha definito quello che è successo ieri sera.”
Era in imbarazzo. Iniziò a strofinare le mani sulle braccia incrociate.
Cercava di non far fuoriuscire le lacrime.
“Mi ha detto che la mia punizione consiste nel non poter vivere al Moonlight per una settimana.”
Iniziò a piangere, inevitabilmente, piena di sconforto:
“Ha scelto questa punizione perché sa che ora non ho un posto dove andare a dormire.”
E pianse ancora, cercando, inutilmente, di asciugare le lacrime.
La spinsi delicatamente verso di me, portando il braccio destro sulla sua spalla sinistra.
Lei si appoggiò al mio petto, in cerca di conforto, continuando a piangere.
Le accarezzai i lunghi capelli, cercando di rassicurarla:
“Non piangere Bunny, ci sono io con te, non devi preoccuparti per il posto dove stare. Starai da me.”
Sollevò la testa di scatto, incontrando i miei occhi.
Era stupita. Voleva dire qualcosa ma la precedetti:
“Bunny, è inutile fare obbiezioni. È deciso. Verrai a casa mia per una settimana. Ho una stanza per gli ospiti. Non ci sono problemi.”
Ero duro e deciso. Non le avrei permesso di controbattere.
“Posso chiedere a Morea di ospitarmi. Le farà piacere” cercava di convincermi.
“No. È fuori discussione. Sono più tranquillo sapendoti a casa mia. E poi l’ospedale è vicino. Sarà più comodo per te. Ti prego, fidati di me.”
Ero sempre più serio e fermo nella mia decisione alla quale a lei non veniva data possibilità di replica.
Annuì, ritornando con la testa appoggiata a me.
“Grazie Marzio, sei un tesoro.”
Mi sciolse il cuore con quelle parole dolci e con quel tono triste.
Ripresi ad accarezzarle i capelli lisci e morbidi: “Bunny, cos’è successo dopo? Chi ti ha fatto del male?”
 Volevo sapere tutto, prendere a pugni chiunque le aveva fatto del male.
“Quando lady Amy ha finito di parlarmi, sono salita in camera a preparare il borsone. Puoi prenderlo e portarlo qui, per favore?”
Fece cenno con la testa verso l’entrata.
Solo allora notai che era rimasto davanti alle porte scorrevoli. Andai a prenderlo e quando tornai da lei chiesi:
“E dopo?”
Si strinse nuovamente a me, mantenendo la testa bassa:
“Sidia è entrata nella mia stanza e mi ha preso per i capelli. Io… io non me lo aspettavo e son rimasta immobile. Come una stupida.”
Una pausa, poi:
“Mi ha sbattuto a terra, prendendomi a calci nella pancia e dicendomi che le piaceva farmi male e farmi piangere e che la sera precedente non era stato abbastanza divertente.”
Iniziò a piangere, a singhiozzare, abbracciandomi ancora più forte.
E io non riuscivo a muovermi. Ero amareggiato, incredulo, un imbecille completo.
Era colpa mia, tutta colpa mia. Mia. Che avevo cercato solo di proteggerla, e invece…
“Bunny perdonami, è tutta colpa mia, ho cercato di proteggerti e ho combinato solo guai.”
Alzò la testa, specchiando i suoi occhi, tristi e spaventati, nei miei, pieni di rimorsi.
“Ti prego non dirlo a nessuno, per favore Marzio, per favore.”
Tremava.
Annuii, cercando di non farle notare la rabbia che covavo dentro.
“Va bene, sta’ tranquilla adesso. Devi farti vedere da un medico.”
Scosse la testa: “No, no, per favore. Se si viene a sapere ci saranno altri problemi. Marzio, per favore… sono soltanto indolenzita.”
Non sapevo come comportarmi. Avevo fatto già troppo danno.
Le asciugai le lacrime, accarezzandole il viso.
E, dopo un dolce bacio sulla guancia, la avvolsi in un abbraccio sussurrandole:
“Va bene, come vuoi tu. Ora però calmati o Usa si spaventerà. Non aver paura, mi prenderò cura io di te questa settimana.”
Annuì, strofinando la guancia sul mio petto.
Rimanemmo in quella posizione per un po’, approfittando del fatto che fossimo gli unici all’interno della stanza.
Lentamente il suo respiro si fece meno affannato, i singhiozzi rallentarono fino a quando si rasserenò. Apparentemente.
Solo allora, si allontanò da me e, con auto ironia disse:
“Sarebbe stato meglio se non mi avessi incontrata. Sono una frana. Una piagnucolona sempre triste. E una stupida che non riesce a difendersi.”
Passai nervosamente una mano fra i capelli e, con tono serio:
“Bunny, vorrei risponderti ma non posso. Ho promesso che mi sarei comportato da amico. Perdonami.”
Mi fissò per un istante con gli occhi colmi di stupore. Non si aspettava una simile risposta. E arrossì, voltando lo sguardo dall’altra parte.
“Come mai eri qui?” chiese cercando di cambiare discorso.
“Volevo far visita a Usa, sempre se per te va bene.”
Annuì sorridendomi dolcemente con gratitudine.
Lasciai andare un sospiro di sollievo. Non mi aveva fatto ulteriori domande e, quindi, non fui costretto a mentirle.
Il professor Tomoe uscì dalla porta che conduceva alla degenza e, sebbene mancassero ancora venti minuti, fece cenno a Bunny, permettendole di andare dalla sorella.
Si alzò a fatica, le costole erano indolenzite ma lei cercava di fingere che tutto andasse bene. La presi per il fianco e la feci appoggiare a me.
Solo così superammo la porta e ci ritrovammo presto nella stanza numero 30.
 
All’apertura della porta, Usa si voltò di scatto.
Non appena ci vide, un sorriso le si manifestò in quel tenero viso pallido e sciupato. I suoi occhi si riempirono di gioia.
A Usa, bastava sapere di avere accanto chi le volesse bene per essere felice.
Bunny, facendo in modo che il dolore alle costole non fosse percepibile dalla sua espressione, le si avvicinò mostrandosi serena. Si piegò per baciarla e la piccola le cinse il collo con le braccine.
“Come sta la mia piccolina?” chiese, con amore, stringendola a sé.
Nonostante la sofferenza, era quel piccolo tesoro a darle la forza per andare avanti.
Usa le baciò dolcemente la guancia:
“Bene, ho colorato tutto il quaderno!”
“Ciao piccola” le dissi, avvicinandomi a lei e accarezzandole la testa.
Guardandomi con entusiasmo, sempre fra le braccia di Bunny:
“Sono contenta di rivederti, Marzio!”
“Sono contento anche io” risposi donandole un sorriso.
Ci mostrò i suoi disegni e ci raccontò dei cartoon che aveva guardato quel giorno.
Sembrava stare bene. Il professor Tomoe mi aveva spiegato che spesso, nei casi come quelli della bambina, si alternavano momenti di apparente benessere a crisi e peggioramenti.
E Bunny lo sapeva bene e la coccolava, si prendeva cura di lei con la paura nel cuore che ogni giorno potesse essere l’ultimo.
 
Alle 19.00 trasmettevano l’anime preferito di Usa. Le protagoniste erano un gruppo di guerriere che salvava la Terra dai mostri. Bunny prendeva la piccola in braccio e, sulla poltroncina accanto al letto, lo guardavano tutte le sere abbracciate. E Usa, riscaldata dall’immenso amore della sorella, si incantava davanti allo schermo del televisore.
Quella sera, sedendomi accanto a loro, guardammo l’anime assieme.
Una delle protagoniste era molto buffa e spesso un sorriso divertito fuoriusciva anche dalle labbra di Bunny.
In quei venti minuti di programma, anche Lei cercava di non pensare a nulla, godendosi quel momento di profondo affetto con la persona a lei più cara e preziosa.
La guardavo e mi chiedevo ancora una volta come fosse possibile che una ragazza all’apparenza così fragile e indifesa in realtà fosse così coraggiosa e piena di forza di volontà. Dove trovava tutta quella grinta?
Poi posai lo sguardo su quella piccola creatura accoccolata a Lei e trovai le risposte.
Quell’angelo biondo era entrato senza volerlo, senza che io lo volessi, nella mia vita. E ne aveva creata una migliore.
E io? Anch’io volevo far parte della sua. Della loro.
Volevo stare con loro, crescere con loro. Sognare con loro *.
Ogni tanto, avvertendo il mio sguardo su di sé, si girava a guardarmi. E sorrideva.
C’era complicità. Tanta complicità. Forse troppa per due come noi, costretti a restare soltanto amici.
Ogni sera, alla fine dell’anime, Usa lasciava andare un sospiro di dispiacere e attendeva con ansia il giorno seguente.
“Uffa, è finito” esclamava triste e impaziente.
“Domani ce ne sarà un altro” le rispondeva Bunny baciandole la fronte e cullandola fra le braccia.
 
“Bunny, mi porti alla finestra? Vorrei guardare le stelle!”
Lei cercò di alzarsi, prestando attenzione a non far male alla bambina e a non farle notare la sua sofferenza.
La fermai prima che si alzasse:
“Usa, posso portarti io a guardare le stelle?”
Annuì contenta, allungando le braccia verso di me.
 E Bunny mi guardò, perdendosi nel mio sguardo pieno d’amore, ancora una volta e, soltanto per Lei.
Presi in braccio Usa e la portai alla finestra.
 
Manhattan era piena di luci, sembrava incantata.
Di giorno i rumori delle auto, delle sirene delle ambulanze, degli elicotteri, la rendevano caotica. Le migliaia di persone che camminavano a passo svelto per raggiungere case, uffici, scuole, la caratterizzavano come città frenetica.
Ma la notte, Manhattan era descrivibile con una sola parola…
Magica.
 
Usa mi cingeva il collo con le sue piccole mani, osservando estasiata quel panorama spettacolare.
E Bunny, dopo essersi alzata a fatica, mi venne dietro e, senza dire nulla, incrociò le sue braccia attorno al mio busto, premendo i suoi seni sulla mia schiena e appoggiandovi la testa.
 
Un sussulto al cuore, una pace nell’anima.
 
Rimanemmo in quella posizione di infinita tenerezza per un po’, non so dire quanto. Sarei voluto restare così per molto tempo, ma si sa, gli attimi da ricordare con gioia e calore nel cuore sono sempre troppo brevi.
Guardavo l'Upper East Side e mi sembrava di osservarla per la prima volta.
Quella magia che si era appena creata all'interno della stanza, con lei tra le mie braccia e Lei stretta a me, così da poter udire il suo cuore battere all'impazzata sulla mia schiena mi fece riflettere sul fatto che; bastava davvero poco, era sufficiente soltanto l'affetto e l'amore delle persone amate per rendere felice un uomo.
 
Purtroppo, la porta che venne aperta, fece terminare quel momento di magia.
Un medico, forse uno specializzando, entrò.
Bunny si voltò, liberandomi dal suo abbraccio.
Notai il modo in cui lui la guardava, la squadrava dalla testa ai piedi, con aria maliziosa.
 
"Signorina, mi scusi, dovrebbe venire a firmare dei consensi informati."
Bunny annuì, ogni tanto doveva occuparsi anche di firmare i moduli per acconsentire alle varie terapie sulla piccola.
Lui continuava a fissarla. E io iniziai a odiarlo.
 
Dopo aver passato la mano tra i capelli ramati di Usa disse:
"Torno subito, piccola."
E con il dottor Ale - Alex era il suo nome ma preferiva farsi chiamare Ale - che sulla soglia della porta sperava in un contatto fisico, uscì dalla stanza, imbarazzata, cercando di mantenere basso lo sguardo.
 
Rimasi solo con Usa che mi chiese di rimetterla a letto.
Le rimboccai le coperte. Solo allora mi confidò:
"Al dottor Ale piace Bunny. La guarda sempre."
Mi sorprese. Usa era davvero attenta a tutto, molto intelligente e perspicace.
Le sorrisi, cercando di nascondere la mia gelosia:
"Le da' fastidio? Si comporta male con lei?"
Scosse la testa:
"No, è simpatico, a volte mi aiuta a colorare."
Mi sedetti accanto a lei.
Mi faceva piacere che quel dottore fosse gentile con Usa ma, al tempo stesso, non sopportavo l'idea che potesse provarci con Bunny.
"Vuoi guardare un altro cartoon?" chiesi cercando di non pensare più a ciò che avevo visto prima.
"Marzio, anche a te piace Bunny, vero?"
E mi stupii ancora. Un sorriso carico d'incredulità uscì spontaneo dalla mia bocca.
La guardai senza sapere cose risponderle.
Era incredibile come una bimba di cinque anni potesse mettermi in imbarazzo.
"Dai, ammettilo che ti piace, è così evidente!"
Rideva divertita. Contagiò anche me con la sua risata cristallina che le fece brillare gli occhi color nocciola così belli e ingenui.
"Ah sì? E da cosa sarebbe evidente?"
"Ma Marzio, è semplice. Da come la guardi, da come le parli. Si vede che ti piace tanto. Poi, Bunny è tanto bella!"
Sempre col sorriso e con tanta consapevolezza:
"Sì, hai ragione. Bunny è bellissima. La ragazza più bella di tutta NYC."
Annuì soddisfatta e d'accordo con me.
"Anche tu piaci a lei! Tantissimo!"
"Ah sì? E tu come fai a dirlo?"
Mi mostravo indifferente. Ero consapevole del fatto che Lei mi amasse e sapevo che il mio amore per Bunny era evidente dalla luce che emanavano i miei occhi quando ero con Lei o anche quando, semplicemente, la pensavo.
"Lo so, lo vedo. Si capisce da come guarda te e come il dottor Ale. Saresti perfetto come fidanzato di Bunny."
Cercai di sviare il discorso. Usa non sapeva tutto ciò che era accaduto in quei giorni, non sapeva quanto, io e Bunny, soffrissimo capendo di non poter stare assieme. Nonostante la sua perspicacia, non credo avrebbe mai potuto immaginarlo:
"Io pensavo che preferissi il dottor Ale, visto che ti aiuta a colorare!"
"No, no, tu sei più simpatico e più bello! Dimmi che anche a te lei piace, così poi sto più tranquilla…"
Il suo entusiasmo iniziale aveva lasciato posto al senso di apprensione verso la sorella.
Mi alzai dalla poltroncina e mi sedetti sul bordo del letto, accarezzandole i capelli:
"Ti confido una cosa. Sono innamorato di Bunny. Davvero tanto."
La gioia provata nel cuore al suono delle mie parole si manifestò anche sul suo visino, lasciando fuoriuscire un sorriso di sollievo e soddisfazione.
 
Subito dopo la porta fu riaperta e Bunny entrò richiudendola alle sue spalle.
Voleva apparire calma, ma leggevo nei suoi occhi che qualcosa non andava.
Quando fu di fronte a me, cercai di rialzarmi, per cederle il posto accanto a Usa.
Mi bloccò posando le mani sulle mie spalle e, con la dolcezza di sempre:
"No, resta, io mi siedo qui accanto."
Usa rise divertita e quando ci voltammo a guardarla mi fece l'occhiolino.
Capii, e sorrisi anch'io.
Bunny aggrottò la fronte, con capendo.
"Mi spiace Bunny, ma è il nostro segreto!" rispose Usa con aria furba.
Ma Bunny era troppo scossa per tutto ciò che era successo quel giorno per prestare attenzione e mostrare interesse.
Si limitò ad sorridere.
 
Alle 19.30 salutammo la piccola. Le promisi che sarei tornato a trovarla presto.
Quando mi abbassi per baciarle la guancia, mi cinse il collo e mi sussurrò all'orecchio:
"Promettimi che la bacerai sulle labbra!"
Rimasi senza parole, meravigliato, guardandola con occhi sgranati.
Mi lasciò rialzare e, con occhi tristi:
"Promettilo..."
"Usa, che c'è? Cosa deve prometterti?"
Bunny riuscì persino a preoccuparsi, temendo chissà cosa, mentre indossava il cappotto.
Ma Usa continuava a fissarmi, con sguardo dolce, in attesa di risposta.
Annuii:
"Te lo prometto."
Quasi mi pentii di quella risposta.
Conteneva una promessa contrastante con quella fatta a Bunny quella  stessa mattina.
 
Sorrise, più serena. E noi, col pensiero alla sua serenità, uscimmo dalla stanza, rincuorati.
 
Appoggiata a me, arrivammo nel mio appartamento.
 Sembrava a disagio.
"Bunny, va tutto bene?" le chiesi una volta richiusa la porta.
"Sì. Sì, va tutto bene."
Cercava di convincermi col suo dolce sorriso, ma i suoi occhi erano troppo sinceri per me.
"Vieni. Ti mostro la casa."
Mi seguì e, dopo aver ammirato la stanza di fronte alla mia - dalle pareti color pesca, le tende bianche con lavorazioni dorate che coprivano le vetrate del balcone e il letto matrimoniale col copriletto color oro -esclamò:
"Marzio, è stupenda..."
La guardai negli occhi pieni di meraviglia:
"Sono contento che ti piaccia. Credo sia adatta a te."
Il mio tono, il mio sguardo eloquente, le parlava dicendo che in qualsiasi momento avrebbe potuto trasferirsi lì. E rendermi, così, felice.
Si appoggiò alla parete, con le braccia incrociate dietro la schiena. Voleva parlare, ma sapeva che poi sarebbe stato tutto complicato.
Lo compresi, accettandolo.
"Fa' come se fossi a casa tua, Bunny" le dissi, rasserenandola, passandole accanto e dirigendomi a preparare la cena.
 
Davanti a due piatti di spaghetti al pomodoro e due bicchieri di vino rosso iniziammo a chiacchierare, come due buoni amici.
"Sei bravissimo a cucinare, sono ottimi!"
disse dopo la prima forchettata.
"Amo la cucina italiana" le risposi asciugandomi le labbra con un tovagliolo di stoffa blu come la tovaglia.
Sembrò ipnotizzata da quel gesto. Portò il bicchiere da vino alle labbra, svuotandolo.
Sorrisi lievemente.
"Bunny, quando sei ritornata nella stanza eri preoccupata. E' successo qualcosa? Il medico ti ha dato fastidio?"
Per un secondo sembrò non capire, poi:
"No. Tutto apposto. È solo che, ogni volta che firmo tutti quei moduli mi intristisco un po’..."
Le versai altro vino e, dopo averne bevuto un sorso continuò:
"Scusa, che c'entra il dottor Ale?"
Girando la forchetta nel piatto, per raccogliere gli spaghetti, spiegai:
"Non mi piace come ti guarda. Lo ha notato anche Usa. E' in gamba la piccola."
Sorrise, riprendendo a magiare.
"E' simpatico. Solo che dopo avermi vista al Moonlight ha iniziato a guardarmi... diciamo... diversamente."
Alzò le spalle e con una smorfia di amarezza:
"Pazienza, sono i rischi del mestiere."
Non risposi. Non sapevo che dire. Terminammo di cenare in silenzio.
Solo allora mi alzai, leggendole uno sguardo pieno di vergogna per ciò che mi aveva appena spiegato.
Mi guardava e, quando le fui accanto in piedi, le dissi: "Vieni, alzati." Le avrei voluto far vedere il mio primo libro pubblicato, di cui andavo fiero. Almeno per cercare di distrarla un pò.
Ci provò ma poi, una volta in piedi, si portò una mano alla fonte:
"Mi gira la testa, mi sa che non reggo l'alcool."
Rideva, abbandonando i pensieri e le preoccupazioni e lasciandosi trasportare dalla leggerezza provocata dal vino.
Sembrava persino spensierata.
La avvolsi in un abbraccio, cingendole la vita:
“Ce la fai? Ti porto in camera?” le sussurrai sensualmente con la fronte a contatto con la sua.
Incrociò le braccia dietro la mia nuca:
“Marzio… sto bene, non devi preoccuparti sempre… sono soltanto un pò indolenzita. Quel bicchiere di vino ci voleva. Adesso mi sento più serena.”
Sorrideva.
Sorrisi divertito anch'io, prendendola in braccio:
“Ho capito, non ce la fai.”
La portai nella sua stanza e la adagiai dolcemente sul letto.
Mi guardava. Mi voleva. Mi amava.
“Siediti qui, vicino a me…” chiese implorando, battendo il palmo della mano sul letto.
Le obbedii, continuando a guardarla.
Un’infinità di pensieri, di desideri vagavano nella mia testa.
Tutti da dover reprimere.
Iniziò ad accarezzare con i polpastrelli il mio braccio che la manica della camicia rialzata lasciava scoperto.
“Bunny, ti prego… non fare così.”
Con voce supplichevole cercavo di non cedere alla tentazione di abbracciarla, baciare quelle labbra carnose e farla mia per tutta la notte. Dovevo resistere. L’avevo promesso.
Ma lei mi guardava piena d’amore, di desiderio.
E i suoi occhi mi rispondevano mentre, con quel gesto, continuava a provocarmi brividi, non soltanto al braccio ma su tutto il corpo.
“Bunny, ti ho promesso che mi sarei comportato da amico. Che lo avrei fatto per te. Non farmi questo.”
Il mio respiro, alla vista di Lei che mi guardava con l’altra mano chiusa a pugno sul cuore - mentre una cascata di fili dorati le ricopriva il corpo finendo sul copriletto - si fece affannato. Era così ingenuamente sensuale che il cuore mi batteva forte. Non volevo deluderla. Dolevo resistere.
“Perché?” chiese dispiaciuta.
“Sono tuo amico. Ma sono un uomo. Un uomo che ti ama da morire.”
Si mise seduta sul letto e, con le braccia sul mio collo iniziò ad accarezzarmi i capelli con entrambe le mani:
Il suo viso sfiorava il mio, le sue labbra si facevano sempre più invitanti, soprattutto quando con lingua, sensualmente, le inumidiva. Le guardavo, a pochi millimetri di distanza dalle mie che volevano accarezzarle, morderle, renderle gonfie.
Poi le schiuse, sussurrando:
"Lo so Marzio, ti amo anche io." Una pausa, poi: "Cos’hai promesso a Usa?”
La guardai, perdendomi nei suoi occhi colmi di una nuova luce:
“Che ti avrei baciata sulle labbra.”
La mia voce aveva tremato, mentre i battiti del mio cuore divenivano sempre più accelerati.
Altre carezze sui miei capelli, poi una mano scivolò sul mio viso finendo sulle mie labbra:
“Manterrai la promessa?”
Era perfettamente lucida e mi stava provocando. Lei aveva sentito chiaramente le parole di Usa e aveva voluto che io le ripetessi per provocarmi.
Capii che non era l'effetto del vino a farla comportare così, ma semplicemente l'amore per me che non riusciva più a frenare, che non voleva più reprimere. Ma donarmelo. Solo dopo tale riflessione, portai le braccia all’altezza dei suoi fianchi e  infilai le mani sotto la sua felpa, spingendola a me.
Al contatto della sua schiena con le mie mani, un respiro le morì in bocca.
Inarcando la schiena premette i suoi seni al mio petto e intrecciò le sue dita tra i miei capelli.
 Stringendola a me la feci sdraiare, finendo sopra di Lei:
“No… se tu non vuoi.”
I suoi occhi nei miei, il suo cuore all’unisono col mio, i suoi sentimenti per me perfettamente ricambiati, la fecero lasciare andare:
“Lo voglio, Marzio. Ti voglio.”
Il suono di quelle parole per un attimo mi spiazzò. Temevo fosse un sogno, uno scherzo beffardo della mia testa.
La guardai inizialmente incredulo ma poi, quando sorrise piena di tenerezza, un’esplosione di sentimenti, di emozioni fuoriuscì dal mio corpo tramite un sorriso di immensa felicità.
Chiuse gli occhi. E io, baciandole le labbra con dolcezza, mantenni la promessa.
 

Note:
*: frase tratta da ‘La vittoria dei sogni’ - Sailor Moon serie 4.


Il punto dell'autrice
 
Carissimi lettori questo capitolo è stato un vero travaglio.
Avevo ingarbugliato la matassa così tanto che, riuscire a trovare un modo per sistemare tutto è stato difficile perché temevo di scendere nel banale.
Spero vi sia piaciuto!
Vi informo che il prossimo capitolo verrà pubblicato sotto forma di raccolta (insieme di one-shot per il rating rosso) intitolata
Moonlight Uncutted, in modo che io non debba modificare quello della storia principale (cioè questa).
Ovviamente il proseguo sarà comprensibile anche senza leggere
Moonlight Uncutted (scritto solo per i maggiorenni).
Va bene, dopo questo piccolo spoiler,
vi abbraccio e vi ringrazio per l’affetto che quotidianamente mi dimostrate!
Un ringraziamento speciale va a Valeria, per questa splendida immagine che ha realizzato per me con tanta pazienza e gentilezza.
Fatemi sapere cosa ne pensate del capitolo, le vostre recensioni mi fanno sempre tantissimo piacere!
Un bacio e a presto!
Demy

 

 


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Capitolo 12
*** Solo noi due ***


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Cap. 12: Solo noi due.



17 Novembre 2010 - Upper East Side
Ore 8.00

Se il simbolo di New York City è la mela, il suono è la sirena dell’ambulanza.
Quella mattina fu proprio il suono assordante dalle sirene delle ambulanze dirette al Memorial Sloan Kettering Center a svegliarmi.
Accadeva spesso, a qualsiasi ora, in qualunque momento della giornata – ma anche della notte -  che quel rumore rimbombasse, tra le pareti del mio appartamento, sempre più forte fin quando non terminava di colpo. Capivo allora che l’ambulanza era arrivata a due isolati da casa mia.
Sinceramente fino a quel momento non ci avevo mai prestato attenzione.
Ma quel giorno, il mio pensiero fu rivolto a Usa.
Non avevo ancora riaperto gli occhi che una forte emicrania mi colpì, simile a un martello pneumatico intento a trapanarmi il cranio.
Portai una mano alla fronte, massaggiandola, cercando di alleviare il mal di testa ma soltanto voltandomi alla mia destra trovai la cura a tutti i miei malesseri.
Bunny dormiva di fianco, rivolta verso di me, in posizione fetale. Il piumone la copriva dal fondoschiena in giù.
Approfittai di quel momento per poterla osservare meglio.
I suoi capelli dorati, come una cascata, le scendevano lungo la schiena finendo sul materasso; alcune ciocche spesse, invece, dal collo andavano a ricoprirle i seni.
Notai le sue mani. Una stringeva l’angolo del cuscino, l’altra era aperta col palmo sul materasso.
Aveva delle bellissime mani, molto curate. Le dita affusolate e le unghie lunghe squadrate, laccate con uno smalto trasparente.
Erano come Lei: semplici e bellissime.
Il suo viso era rilassato, le labbra leggermente dischiuse in un sorriso ingenuo.
Più la osservavo, più ero felice sapendo che stavolta sarebbe stata mia senza ripensamenti.
Sul comodino accanto a Lei, notai la sveglia e capii che il momento di riprendere a scrivere era arrivato. Mancavano due settimane al ritorno del mio capo e la stesura del libro stava andando troppo a rilento.
Mi alzai a malincuore dal letto con movimenti cauti per non svegliarla.
Mi sarebbe tanto piaciuto restare accanto a lei ad osservarla dormire beata, lontano dalle preoccupazioni e dalle responsabilità di cui si faceva quotidianamente carico.
Aprendo un cassetto dell’armadio, presi un paio di boxer e li indossai.
Richiusi il cassetto e aprii le ante per tirare fuori un paio di pantaloni grigi della tuta che indossavo quando stavo in casa e un maglione nero di lana.
Mi vestii e mi avvicinai a Lei, chinandomi, per coprirla meglio.
Solo quando le portai il piumone all’altezza del collo, sentii la sua voce.
“Marzio…”
Era ancora assonnata mentre apriva lentamente gli occhi e si stiracchiava, facendo così aderire la schiena al materasso.
Le diedi un dolce bacio sulle labbra ancora calde e, scostandole le ciocche dal viso, le sussurrai:
“Torna a dormire amore. Riposati.”
Scosse leggermente la testa, cingendomi il collo con le braccia, e con un sussurro pieno di tenerezza:
“Abbracciami amore mio.”
Un sorriso uscì spontaneo dalla mia bocca.
Era una sensazione bellissima, come un calore nel cuore, quella che provavo quando mi chiamava ‘amore’.
Senza uscire dalla sua presa, mi sdraiai e la abbracciai forte sotto il piumone sentendo la sua gamba cingere la mia.
Le accarezzai la schiena, liscia e un po’ fredda, riscaldandola con le mie mani calde:
“Dormito bene, principessa?”
Annuì alzando la testa e, guardandomi negli occhi:
“Marzio, non avevo mai dormito così bene.”
Portò la mano al mio viso, avvicinandolo al suo, e mi baciò:
“Per la prima volta ho dormito serena. Sai, di solito la notte ho degli incubi e, quando mi sveglio e mi ritrovo sola al Moonlight, una brutta sensazione di sconforto mi assale.”
I muscoli delle sue braccia si irrigidirono ancora di più mentre aumentava la stretta sulla mia schiena, tenendo la testa sulla mia spalla.
Mi rivoltai nel letto in modo da averla sotto di me.
Le scostai la frangia dalla fronte mentre Lei si abbandonava con gli occhi chiusi al mio tocco su di sé:
“Non dormirai più al Moonlight. So che è presto per chiedertelo ma vorrei che venissi a vivere qui con me.”
Aprì gli occhi, con un’espressione rincuorata:
“Qui con te?” chiese con voce incredula.
Annuii: “Sì amore, qui con me. Insieme, per sempre. Ricordi?”
Mi cinse le braccia attorno al collo e, sorridendo piena di stupore, i suoi occhi brillarono:
“Sì, Marzio, ricordo. Lo vorrei tanto.”
Chiuse le palpebre avvicinando le labbra verso le mie.
Ero così felice da non riuscire a descrivere le sensazioni provate in quel momento. L’avrei tirata fuori dal Moonlight, in un modo o nell’altro ci sarei riuscito, ma sapere che fino a quel momento Lei avrebbe in ogni caso dormito accanto a me, avvolta dal mio amore e non in quel luogo non adatto a Lei, mi rincuorò.
Lentamente schiuse le labbra e la sua lingua incontrò la mia, mentre le sue mani sotto il mio maglione iniziavano ad accarezzare la mia schiena.
“Perché ti sei vestito? Dove stavi andando?” mi chiese curiosa tra un bacio e l’altro.
“Dovevo scrivere un po’ ma posso sempre spogliarmi di nuovo!”
Lei rise divertita riscaldandomi il cuore con una gioia immensa.
Sollevandomi da Lei iniziai a togliermi il maglione e i pantaloni.
“No Marzio, non devi trascurare il tuo lavoro” mi disse guardandomi, mentre portava il piumone all’altezza del petto. Non prestai attenzione alle sue parole e, togliendo i boxer, ritornai a letto coprendo entrambi fin sopra la testa e portandomi sopra di Lei. Iniziai a baciarla dappertutto e risposi:
“Troppo tardi, bambina!” *
 
Dopo aver fatto l’amore si strinse a me, poggiando la testa sulla mia spalla e facendo scivolare i polpastrelli delle dita della sua mano lungo il mio braccio, mentre io giocavo con alcune ciocche dei suoi morbidi e lunghissimi capelli.
Le diedi un bacio sulla fronte: “Cosa vuoi fare oggi?”
Scrollando le spalle: “Mi basta stare assieme a te, davvero. Devo soltanto chiamare Morea e dirle che non passerò dallo Jupiter stamattina, altrimenti si preoccupa di nuovo.”
“Non vuoi che andiamo a mangiare una fetta di torta?” le chiesi iniziando ad attorcigliare una ciocca dei suoi capelli fra le dita.
Non volevo che cambiasse le sue abitudini, quel poco di stabilità che si era costruita, per me.
Scosse la testa: “No Marzio, voglio stare qui con te. Noi due soli.”
La sua voce era malinconica e Lei bisognosa di tutto l’amore possibile.
Temeva che quel momento, romantico e pieno di magia e complicità, potesse svanire una volta fuori per le vie di Manhattan.
Presi la sua mano portandola alle labbra e baciandone il dorso, mentre Lei mi osservava con uno sguardo pieno di serenità. Quando la sua mano fu libera dal mio bacio incrociai le mie dita tra le sue:
“Piccola, io non ti lascio nemmeno un attimo, voglio solo che non cambi le tue abitudini per me.”
Divenne seria:
“Io non ho abitudini. In questo periodo le uniche cose che faccio sono lavorare e occuparmi di Usa. Il fatto che vada da Morea è perché è l’unica amica sincera e ho bisogno di vedere un volto amico per affrontare meglio le mie giornate.”
Alzò gli occhi e vi scorsi dentro un po’ di tristezza.
“Marzio, ora ci sei tu nella mia vita. Andremo spesso allo Jupiter ma oggi ho bisogno di stare sola con te. L’ho desiderato così tanto che ora voglio semplicemente godermi questo momento.”
“Vieni qui…” le dissi pieno di felicità nel cuore, abbracciandola forte e portando la mia mano sulla sua nuca. Volevo averla più vicino possibile, sentirla respirare sulla mia pelle, udire il suo cuore battere, avere la consapevolezza che finalmente tutto il dolore e tutta la sofferenza passata in quei giorni, da quel momento in poi sarebbero stati soltanto un brutto ricordo per entrambi.
Mi baciò sulle labbra e io riuscii a percepire tutto l’amore che aveva deciso di donare soltanto a me:
“Dimmi che non finirà, ti prego Marzio, dimmelo…”
“No bambina, non finirà, è tutto appena iniziato.”
Aveva bisogno di rassicurazioni, di dimostrazioni continue. Aveva bisogno di sentirsi amata, attimo dopo attimo, e di sapere che non era più da sola contro il Mondo ma che c’era qualcuno che ricambiava i suoi sentimenti, qualcuno su cui poter riporre la sua fiducia e che le sarebbe stato accanto sempre. E Lei sapeva che quel qualcuno ero io.
Allontanando le sue labbra dalle mie, sfiorò con l’indice della sua mano il contorno della mia bocca: “Ora però vai a scrivere altrimenti poi mi sento in colpa.”
Catturai il suo dito fra le labbra e lei rise divertita.
Le sue guance divennero più paffute e si colorarono leggermente.
Lasciai il suo dito dopo averlo baciato: “Prima però voglio un altro bacio.”
Non mi fece attendere un solo istante. Portandosi sopra di me baciò le mie labbra scendendo per il collo arrivando a baciarmi il petto e l’addome.
Le raccolsi i lunghi capelli in una mano, per evitare che le coprissero il viso mentre sentivo le sue labbra carnose e umide accarezzare la mia pelle.
“Bunny non mi provocare…” le dissi mentre, ancora una volta, mi arrendevo al suo ingenuo - e allo stesso tempo sensuale - potere che aveva su di me.
Alzò gli occhi perdendosi nel mio sguardo e si sedette cavalcioni sopra di me, intrecciando le dita delle mie mani fra le sue: “Hai ragione, scusami, è solo che non riesco a starti lontano… ho bisogno del tuo contatto fisico…”
Liberai le mie mani per poterle scostare i capelli dalle spalle e ravviarli sulla schiena. Iniziai così ad accarezzarle le braccia per poi prendere i suoi seni fra le mani:
“Ci sto, restiamo così per tutto il tempo!”
Una risata divertita fuoriuscì dalla sua bocca, contagiando anche me; iniziai a far scivolare le mani sui suoi fianchi accarezzandoli e ritornando serio:
“Come stai oggi? Ti fanno ancora male le costole?”
Scosse la testa, posando le sue mani sulle mie:
“No, sto bene” rispose fingendo un sorriso.
Ma non stava bene. Era diventata di nuovo triste e i suoi occhi spaventati.
Mi sollevai dal cuscino, sedendomi sul letto con Lei sopra; le cinsi la schiena con le braccia e, baciandole una spalla:
“Cosa c’è bambina?”
Portò le braccia attorno al mio collo, poggiando la testa sulla mia spalla mentre i suoi seni premevano contro il mio petto:
“Niente, non preoccuparti. È solo che è ancora tutto così vivido nella mia mente. Quella scena… non riesco a scacciarla via.”
Prendendo il suo viso fra le mani e guardandola negli occhi, li notai lucidi.
Abbassò lo sguardo con un pizzico di imbarazzo e una lacrima cadde vicino il mio pollice.
Le baciai l’occhio, sentendo il sapore salato.
“Bunny, guardami.” Anche la mia voce era triste e il mio sguardo, fino a pochi minuti prima allegro, era pieno di dispiacere e tremendi sensi di colpa.
Alzò lo sguardo, mentre il suo viso era ancora fra le mie mani.
“Lo so che per un po’ quella scena sarà viva nella tua testa, ma ci sono io con te. Non aver paura. Quando ti capita di ripensare a quel momento, tu… corri ad abbracciarmi.”
“Stringimi Marzio, stringimi forte…” chiese con un sussurro spezzato sbattendo le palpebre e liberando gli occhi dalle lacrime che le rigarono le guance.
E così, lasciai il suo viso per cingerle la schiena e farla aderire perfettamente al mio corpo, trasmettendole tutto l’amore e il conforto di cui aveva bisogno. E molto di più.
Rimanemmo in quella posizione per alcuni minuti. Come se tutto il resto non esistesse più, come se il tempo si fosse fermato. Soltanto noi due, in quel piccolo angolo di paradiso in cui poteva sentirsi in pace con se stessa, al sicuro tra le mie braccia.
“Non ti voglio vedere triste, Bunny” le sussurrai, serio, spostandole i capelli dalla spalla e baciandole il collo. Solo allora Lei, tra le mie braccia, allontanandosi quel poco per potermi guardare negli occhi, mi chiese:
“Ti prego, dimmi quella frase, quella che mi fece sciogliere il cuore.”
Sorrisi, sentendole pronunciare quella richiesta con gli occhi desiderosi d’amore:
“Voglio solo vederti felice!”
Bastò quella frase, la frase che le avevo detto il primo giorno che la conobbi dopo averla protetta, a riaccendere nei suoi occhi una nuova luce, a ridarle quel sorriso così dolce e ingenuo che le evidenziava le guance e mi faceva impazzire.
Prese il mio viso e iniziò a baciarne la fronte, le palpebre, le guance; ogni parte veniva riempita di dolcissimi baci pieni di amore e di gratitudine.
Tenendola stretta, mi lasciai cadere con la testa sul cuscino mentre catturavo le sue labbra con le mie, facendola abbandonare a baci più intensi, pieni di passione e di desiderio.
“Lo sai che se continuiamo così non riuscirai mai a scrivere, vero?”
Annuii continuando a baciarla e rivoltandomi nel letto, facendola finire sotto di me, protetta dal mio corpo come un tesoro prezioso.
Le accarezzai il viso, iniziando a baciarle il collo per poi scendere sempre più in basso mentre lei - inarcando la schiena per poter assaporare meglio le sensazioni provocate dal contatto con le mie labbra - iniziò ad accarezzarmi i capelli.
“Marzio…” cercava di resistere, ma la sua voce era spezzata, il suo respiro sempre più affannato mentre si abbandonava a me. **
 
“Ha fame la mia bambina?” chiesi, riprendendo fiato, dopo averle dato un bacio sulle labbra.
Annuì sorridendo; le piaceva essere chiamata ‘bambina’, le trasmetteva un senso di protezione facendola sentire al sicuro, facendole capire che mi sarei preso cura di Lei.
Mi alzai dal letto e mi rivestii mentre Lei mi guardava appoggiando un gomito sul cuscino e sorreggendo così la testa; andai nella stanza per gli ospiti e presi il suo borsone.
Quando lo riportai nella mia camera, poggiandolo sul letto, le dissi:
“Vestiti e poi disfa pure il borsone.”
Mi avvicinai all’armadio e, aprendo due delle sei ante, ripresi:
“Questa parte dell’armadio è tutta per te. Se avrai bisogno di altro spazio dimmelo che tolgo qualcosa, ok?”
Uscì dal letto correndo verso di me, accompagnata dall’ondeggiare dei suoi capelli, buttandosi tra le mie braccia e stringendomi forte:
“Grazie amore mio.” Era commossa e un sorriso uscì spontaneo dalla mia bocca.
“Vestiti ora, prima che mi spogli anch’io…”
Annuii divertita mentre io andai in cucina a preparare i pancakes e il caffè.
 
Quando la colazione fu pronta in tavola, andai a chiamarla accorgendomi che la camera da letto era vuota; notai la porta del bagno aperta a metà e la vidi. Rimasi per un attimo appoggiato alla parete di fronte, con le mani in tasca, ad osservarla. Era già vestita con un paio di jeans scuri aderenti e un maglioncino di lana turchese sagomato sui fianchi e una scollatura a V che terminava con un fiocco blu. Era molto semplice ed era proprio quella sua semplicità a renderla speciale.
Con cura pettinava i lunghi capelli raccolti per comodità su una spalla, lasciando scivolare la spazzola per le lunghezze fino a districare tutti i nodi.
Quando terminò, con cura conservò la spazzola e un barattolo di crema per il viso nel suo beauty case, poggiandolo sul mobiletto del bagno sotto la specchiera.
Mi avvicinai alla porta, chiamandola.  
Si voltò di scatto verso di me, sorpresa di vedermi lì ad osservarla:
“Non mi ero accorta che fossi qui. Che fai, mi spii?” l’ultima frase fu detta con un sorriso, in tono ironico.
Entrai in bagno, facendola voltare verso la specchiera sopra il lavabo e stringendola da dietro:
 “Ti ammiravo. Sei bellissima” le dissi, iniziando a baciarle la spalla scoperta dai capelli. Mi inebriai del suo profumo, del suo odore misto di ingenuità e sensualità. Era un’essenza ai petali di rosa che usava da sempre dopo il bagno. Mi fece impazzire quella fragranza sulla sua pelle morbida e liscia. Entrando le mani sotto il suo maglione, per sentirla meglio, per mantenere quel contatto con Lei per me necessario, iniziai ad accarezzarle l’addome; mentre Lei portò un braccio indietro verso i miei capelli, iniziando ad accarezzare il mio viso col suo e osservando la scena riflessa dallo specchio. Un bacio, un altro, senza riuscire a smettere, senza volermi fermare, solo assaporare la sua pelle.
Lei era la mia droga, l’aria senza la quale non riuscivo a respirare. Era colei per la quale avevo abbandonato spontaneamente il mio ‘vecchio’ mondo per vivere una vita nuova, migliore, creata da Lei.
Si voltò cingendomi il collo con le braccia e iniziando a baciarmi mentre io potevo sentire la morbidezza dei suoi capelli sotto le mie mani prima di farle scivolare lungo la sua schiena e fermarle sui suoi glutei. Avevamo fatto l’amore due volte quella mattina ma non eravamo sazi; il desiderio reciproco era tanto, l’amore ricambiato e tenuto a freno nei giorni precedenti aveva bisogno di recuperare il tempo perduto.
Staccò le labbra dalle mie, accarezzando il mio viso:
“Sarà meglio che andiamo a mangiare, così dopo potrai lavorare pieno d’energia!”
Prese la mia mano conducendomi in cucina.
“Non posso mangiare te?” la provocai divertito.
Ridacchiò, guardandomi con occhi seducenti:
“Più tardi, se farai i compiti!”
Era bello averla in casa; era una sensazione nuova, magica, piena di calore nel cuore, quella che provavo quando inondava le stanze con le sue risate cristalline, con la sua voce dolce e aggraziata, quando illuminava l’intero appartamento con la luce che i suoi occhi innamorati e sempre sinceri emanavano ogni volta che incontravano i miei.
 
“Hai chiamato Morea?” chiesi mentre versavo un po’ di sciroppo al cioccolato sui miei pancakes.
Annuì, continuando a masticare. Quando ebbe la bocca libera riprese:
“Mi ha chiesto di te.”
“Le hai detto che sono già impegnato con la ragazza più bella e più dolce di tutta NYC?”
Alzò lo sguardo dal suo piatto, notando il mio viso divertito:
“Non in quel senso, presuntuoso!” rispose con una smorfia.
Lasciai fuoriuscire una fragorosa risata mentre la osservavo bere il suo caffè.
“Mi ha chiesto di Usa e poi siamo finite a parlare di te che mi hai raggiunto ieri mattina in ospedale. Mi ha detto di essere stata lei ad informarti.” Bevve un altro sorso di caffè americano, poi riprese:
“Le ho detto di noi e credo che tutti i clienti abbiano sentito il suo urlo di gioia.”
Sorrise, guardandomi negli occhi e trovando in me uno sguardo nuovo, fatto di realizzazione di qualcosa di meravigliosamente nuovo.
“Cosa c’è, amore?” domandò aggrottando la fronte.
Scossi leggermente la testa e, con un sorriso, presi la sua mano nella mia:
“Niente… pensavo al fatto che… c’è un noi. Per la prima volta nella mia vita c’è un noi.
Con tono curioso che nascondeva la vena investigativa tipica di ogni donna innamorata e gelosa: “Non mi vorrai dire che non hai mai avuto una storia? Una ragazza?”
Scossi la testa, sorridendo alla vista del suo sguardo incredulo ma, in fondo, contento:
“Sei la prima che ho lasciato dormire nel mio letto, sei l’unica con la quale ho passato più di dodici ore assieme. Finora le ‘ragazze’, se così vuoi chiamarle, erano soltanto un divertimento. Non c’è mai stata infatuazione, meno che meno amore.”
Feci una pausa e: “Poi sei arrivata tu… e mi hai fatto perdere la testa.”
Il mio sorriso si allargò sul mio viso mentre Lei, al suono di quell’ultima frase detta con tenerezza, si alzò dalla sedia venendo accanto a me e inginocchiandosi di fronte per potermi abbracciare forte.
La presi per le braccia, invitandola ad alzarsi e facendola sedere sulla mia gamba. Mi guardava perdendosi nel mio sguardo pieno d’amore solo e sempre per Lei. I suoi occhi erano luminosi, colmi di gioia e commozione. Quelle parole appena pronunciate le avevano scaldato il cuore, facendola sentire importante, speciale, unica. E lo era.
Non disse nulla, qualsiasi parola o frase sarebbe sicuramente risultata banale, bastavano i suoi occhi a parlare in maniera sincera e complice, rivelandomi la sua felicità. Si limitò a cingermi il collo con le braccia e a baciarmi le labbra. Mi abbandonai così ai suoi baci dolci e passionali, gustando le sue labbra al sapore di cioccolato.
Quando riprendemmo fiato, ravviandole una ciocca dietro l’orecchio le chiesi:
“E tu? Scommetto che hai sempre avuto file di corteggiatori. Chissà quanti ragazzi hai fatto innamorare…”
In realtà ero curioso, non sapevo nulla di Lei, di quanti ragazzi avesse avuto, di quante volte si  fosse innamorata; anche se, il solo pensiero – magari dovuto all’orgoglio maschile – mi rendeva geloso.
Guardandomi negli occhi, mi sorrise con dolcezza e un po’ di imbarazzo:
“Non ho mai avuto un ragazzo, se è questo che ti stai chiedendo. Se proprio lo vuoi sapere, sei il primo ragazzo che io abbia baciato.”
Una risata: “A parte le recite scolastiche.”
Rimasi incredulo, felice ma incredulo. Com’era possibile che una ragazza dolce, sensibile, bellissima, non avesse mai avuto un ragazzo a cui dare e da cui ricevere tanto amore?
“Com’è possibile?”
Fece spallucce, mantenendo le sue mani attorno al mio collo:
“Diciamo che fino alla morte dei miei non ho mai incontrato un ragazzo di cui avrei potuto innamorarmi… i ragazzi che conoscevo pensavano soltanto ad una cosa… e io non volevo quello.”
La guardai con ammirazione, apprezzandola ancora di più.
“Le mie amiche del Queens mi prendevano in giro, ma a me non interessava… per me la prima volta doveva essere con il ragazzo che amavo. Doveva essere speciale.”
Baciandole le labbra e giocando con una ciocca dei suoi capelli, le chiesi:
“Lo è stata?”
Annuii più volte, stringendomi forte con la testa poggiata sull’incavo della mia spalla:
“È stata indimenticabile, non credevo sarebbe stata così… così perfetta.”
Ero felice al suono di quelle parole e alla vista di quell’entusiasmo col quale mi faceva capire che le sue aspettative, le sue speranze, non si erano rivelate delusioni; al contrario, erano state fonte di gioia per un desiderio che si avverava.
Avrei fatto di tutto per Lei, avrei cercato di realizzare tutti i suoi desideri, di far avverare tutti i suoi sogni. Perché Lei era Bunny, il mio desiderio realizzato, il mio sogno divenuto realtà.
 
Il suo telefono squillò, costringendola ad alzarsi dalle mie gambe e a dirigersi verso la camera da letto. Tornò subito dopo da me, continuando a parlare al cellulare con Usa. La piccola la chiamava tutte le mattine non appena si svegliava, in modo da farla stare più tranquilla visto che era l’unico modo per stare in contatto in attesa dell’unica ora e mezza concessa per le visite. In questo modo Bunny poteva farle compagnia facendola sentire meno sola.
Bunny le disse che si trovava da me e subito dopo la sentii ridere, credo che Usa avesse manifestato la sua felicità a seguito di quella notizia.
Nonostante quel suono divertito i suoi occhi erano di nuovo tristi, malinconici. Tutta la serenità che avevo cercato di donarle fino a quel momento era scomparsa. Quando sentiva o vedeva Usa, ritornava la Bunny triste che avevo conosciuto a Time Square e, sebbene io lo volessi, sapevo che non avrei potuto fare nulla per togliere il dispiacere dai suoi occhi e dalla sua anima in quei momenti.
Si avvicinò alla finestra, scostando la tenda e osservando la frenesia dell’Upper East Side mentre continuava a parlare al telefono. Quando finì di parlare si voltò verso di me:
“Usa era contenta sapendomi qui.”
“Lo immaginavo, soprattutto dopo la storia della promessa.”
Forzò un sorriso, posando il telefono sul tavolo:
“A volte mi sento in colpa.”
Mi avvicinai a lei, prendendo il suo viso fra le mani:
“Per cosa?”
“Marzio, siamo sorelle, figlie degli stessi genitori, eppure la sorte ha scelto lei per questa maledetta situazione. A volte mi sembra ingiusto essere contenta se mi capita qualcosa di bello.”
Iniziò a piangere istintivamente, cercando di asciugare le lacrime con le mani.
“Bunny, no. Non puoi parlare così, non puoi sentirti in colpa. Tu sei incredibile, il modo in cui ti prendi cura di Usa, i sacrifici che sei disposta a fare per lei ti fanno onore. I tuoi sarebbero fieri di te.”
Una risata nervosa le uscì spontanea:
“Se i miei sapessero che lavoro al Moonlight morirebbero una seconda volta. Se Usa sapesse che sua sorella invece di fare la ballerina lavora in un locale per uomini non so come mi vedrebbe… di certo, non mi paragonerebbe più alla protagonista del suo anime preferito.”
Un singhiozzo, poi:
“Non sai quanto mi vergogni di quello che faccio, non sai quanto mi senta umiliata tutte le volte che salgo su quel palco.”
La strinsi forte fra le mie braccia, sentendomi amareggiato e provando dispiacere per quelle lacrime amare che versava senza riuscire a smettere.
“Ti tiro fuori da quello schifo, te lo giuro bambina mia.”
E lo avrei fatto. Non sapevo come ma ci sarei riuscito.
La tenni stretta a me, accarezzandole i capelli fin quando si calmò. Mi baciò, rassicurandomi del fatto che si sentisse più serena e mi invogliò a scrivere.
Mi feci coraggio e mi diressi in salone, prendendo il mio notebook per iniziare a lavorare.
 
Riuscii a scrivere ben tre capitoli quel giorno, d’altronde l’ispirazione non mi mancava e il puzzle fatto di mattoncini enigmatici a piccoli passi si stava riempiendo, risolvendo l’enigma che tormentava una città come NYC.
Era semplice: le donne non erano indipendenti, non pensavano soltanto a tentare gli uomini facendoli cedere alle loro provocazioni, non erano dedite alla carriera senza voler lasciare posto a quel sentimento, tanto noto quanto leggendario, chiamato amore. No. Le donne avrebbero fatto volentieri spazio ad un uomo nel proprio cuore, nella propria vita, avrebbero persino accettato dei compromessi per amore; il problema era che per loro erano gli uomini a non volere l’amore ma soltanto il sesso.
E dunque? Era un circolo vizioso, in cui ognuno credeva fosse l’altra categoria ad essere nel torto, a non volersi abbandonare a quel sentimento che, una volta provato, riempiva il cuore di un calore così forte e avvolgente che la domanda sorgeva spontanea:
“Perché non l’ho provato prima?”
 
La giornata trascorse in fretta; mentre scrivevo ogni tanto Bunny veniva a portarmi un po’ di caffè riempiendo il mio viso pieno di baci. Si metteva dietro di me, incurvata in avanti con le braccia a cingermi il petto e la testa sulla mia spalla, leggendo dallo schermo del monitor.
Restava pochi minuti per non distrarmi e poi ritornava a sedersi sul divano davanti a me riprendendo a leggere il mio libro ‘Odore di ciliegi in fiore’.
Ogni tanto alzavo la testa per poterla osservare concentrata nella lettura e un sorriso usciva spontaneo dalle mie labbra.
Una risposta arrivava automaticamente ai tanti interrogativi posti nel mio libro.
Ma quella volta non la scrissi, la tenni per me.
Se la domanda era: come fare a trovare un’uscita al circolo vizioso creato dagli uomini e dalle donne di NYC, la mia risposta diceva che non mi interessava affatto.
Io, l’amore lo avevo trovato, era lì davanti ai miei occhi.
Il suo nome era Bunny.

Pensai a lei, a noi, al modo per farla andare via dal Moonlight. Anche se non glielo avrei mai detto, dentro di me sperai di poter salvare anche Usa.
In fondo, c’era ancora una speranza.
 

Note:
*: Uncutted cap.2-parte prima
*: Uncutted cap.2-parte seconda

 
Il punto dell'autrice
 
Eccomi di nuovo ad aggiornare. Con questo capitolo chiudo (per ora) la parte dedicata al romanticismo.
Dal prossimo capitolo riuscirete finalmente a scoprire come farà il bel Marzio a liberare Bunny dal Moonlight… e non solo!
Per quanto riguarda il cap.2 di Moonlight - Uncutted, all’interno di questo capitolo, spero di scriverlo presto anche se penso di dedicarmi prima al capitolo 13.
Un ringraziamento va come sempre a tutti i miei cari lettori che mi seguono e che mi dimostrano quotidianamente il loro affetto.
In particolare ringrazio le mie Moonlight dancers perché è grazie a loro se trovo la spinta per andare avanti in questa avventura chiamata Moonlight!
Spero il capitolo vi sia piaciuto, fatemi sapere con un vostro commento, ve ne sarei grata!
Un bacione e a presto!
Demy


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Capitolo 13
*** Mezze verità ***


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Cap. 13: Mezze verità



 22 Novembre 2010 – Upper East Side
Ore 9.00
 
Il cielo di New York City quella mattina era grigio, cupo, addensato da nuvole; la pioggia continuava a scendere da ormai tre giorni senza dare segni di interruzione, infrangendosi sui vetri delle finestre, sui marciapiedi, su tutto ciò che riuscisse a raggiungere. Manhattan, frenetica di per sé, era diventata invivibile. Automobili bloccate nel traffico per ore e ore, incidenti stradali che peggioravano il caos cittadino e lo stress dei newyorkers, clacson che sembravano impazziti. Chi poteva, faceva a meno di uscire.
Chi ne aveva la possibilità, restava nella tranquillità della propria abitazione, riscaldato dall’amore delle persone amate.
Io ero uno di questi.
 
Per quanto fosse inevitabile il rumore della frenesia dell’Upper East Side che si propagava nel mio appartamento, io e Bunny avevamo trascorso quei cinque giorni insieme, tra cui gli ultimi tre sotto le coperte, a goderci quel po’ di magia che ci meritavamo; nonostante i miei impegni lavorativi fossero sempre presenti e da non trascurare, riuscivo  a scrivere e a smaltire parte del mio lavoro senza togliere a Lei le attenzioni che meritava.
Era serena, rilassata; pian piano la tristezza sempre presente nei suoi occhi da quando l’avevo conosciuta quel 13 Novembre stava lasciando posto alla tranquillità. Il mio amore la confortava, la rasserenava; sapeva che io mi sarei preso cura di Lei e che non avrebbe più dovuto affrontare tutto da sola.
Uscivamo solo per andare da Usa nelle ore di visita pomeridiane e per comprare qualcosa al supermarket in fondo alla strada che collegava l’ospedale all’isolato successivo a quello del mio appartamento; la piccola era contenta sapendo che Bunny vivesse da me e ogni volta che ci vedeva scherzare – più che altro per far divertire lei -, quando davo un bacio o facevo una carezza a Bunny, Usa sorrideva. In quei giorni, per fortuna, le sue condizioni erano state buone; nonostante il grigiore del cielo della City, i nostri cuori erano illuminati dalla gioia di vedere la bambina sorridere e stare bene. Per quanto fosse possibile in un reparto oncologico, eravamo felici.
 
Quella mattina mi svegliai agitato, irrequieto. Dopo essermi alzato e aver bevuto un caffè, iniziai a scrivere approfittando del fatto che Bunny stesse ancora dormendo.
Ma l’ansia aumentava sempre di più, l’attesa era diventata insostenibile. Guardavo il cellulare ogni cinque minuti, lo portavo sempre con me ma, niente, nessuna chiamata, nessuna novità.
 
Sospiravo davanti al mio Apple, picchiettando i polpastrelli sui bordi e attendendo l’ispirazione che tardava ad arrivare.
Ma niente; erano trascorsi quarantacinque minuti e, niente. Nessun’idea, solo ansia e un’attesa ingestibile.
“Dannazione!” esclamai sorreggendo la testa con le mani, con gli occhi chiusi.
 
“Buongiorno, amore mio.”
Sollevai la testa, tornando alla realtà dai miei pensieri e dalle mie perplessità:
“Buongiorno, bambina, non mi ero accorto che fossi qui” risposi non appena la notai  poggiata alla parete del salone, di fronte a me.
Con sguardo dispiaciuto e un po’ curioso, avanzò verso di me, coperta solo dal maglione grigio di lana che avevo indossato il giorno prima; si chinò a darmi un bacio sulle labbra, prendendo il mio viso fra le mani:
“Marzio, cosa c’è?” Aveva intuito che qualcosa non andava.
Le cinsi la vita con le braccia, facendola sedere sulle mie gambe:
“Niente. Stai tranquilla, ho solo delle scadenze da rispettare.” Cercavo di essere più credibile possibile.
Divenne triste, preoccupata e, stringendosi a me:
“Dì la verità, non è che ti sei già stancato di me?”
Un sorriso spontaneo uscì dalla mia bocca; la allontanai da me, quel poco per poterle accarezzare il viso e baciarla:
“Ma cosa ti salta in testa, bambina?”
Inclinò la testa di lato, stropicciando le labbra come a voler farmi capire che ormai non sapeva più cosa pensare.
“Io ti amo da morire, impossibile che mi stanchi di te. Credimi.” Era l’unica frase vera di tutta quella conversazione.
Ma lei non sembrava convinta, con voce di chi in fondo sapeva che c’era dell’altro e non solo la preoccupazione delle scadenze; ravviando i ciuffi dei miei capelli all’indietro, insistette:
“Da qualche giorno sei sempre sovrappensiero e guardi in continuazione il display del telefono” esitò un istante, poi: “A volte ti parlo e non mi ascolti neanche.”
Cercai di rassicurarla: “Sto aspettando la telefonata del mio capo, stai tranquilla Bunny, non c’è niente che non va. Io ti amo.” La baciai e, quella mezza verità sembrò renderla più serena.
Annuì, premendo le sue calde e carnose labbra sulla mia fronte e alzandosi:
“Vado a fare colazione.” Cercava di togliersi quella voce rammaricata e quell’espressione ancora insicura.
Le sorrisi, riprendendo a scrivere. Almeno, ci provai; dovevo cercare di non far trasparire le mie ansie e le mie preoccupazioni. Lei si fidava di me, si era affidata a me, aveva bisogno di amore e rassicurazioni e non potevo rischiare che temesse che qualcosa non andasse. Non potevo permettermi che dubitasse del mio amore per Lei; dato che io, per amore, per Lei, avrei fatto di tutto. Anche mentirle.
 
Ore 13.00
Bunny era riuscita a preparare la pasta alla carbonara; inizialmente non era stato così semplice per Lei fare entrare i lunghi spaghetti ancora crudi all’interno della pentola; avevo riso tanto guardando il suo viso imbronciato e sentendole ripetere: “Ce la faccio da sola!” mentre cercavo di aiutarla.
Pian piano ce l’aveva fatta e il suo viso si era disteso in un grande sorriso pieno di soddisfazione. Mi aveva guardato con sguardo eloquente di chi riusciva sempre a cavarsela. Come darle torto.
Stavamo per sederci a tavola quando il mio cellulare squillò provocandomi un bruciore al cuore.
Come un lampo lo raggiunsi e, per quanto ci avessi provato, l’espressione agitata nel mio viso fu chiaramente leggibile. Bunny mi guardò preoccupata notando con quanta fretta cercassi di rispondere il prima possibile.
La mia agitazione, la speranza nel cuore che portavo ormai da due giorni sparì non appena lessi il display, lasciando spazio alla delusione.
Risposi al telefono; il mio tono poteva rendere palese la mia delusione anche a Mister Taiki.
Mi avvisava di aver anticipato il rientro nella City e avrebbe voluto incontrarmi l’indomani pomeriggio.
Maledizione, ci mancava solo lui!
Ovviamente non potei fare altro che acconsentire; l’indomani ci saremmo incontrati alla RoseEdition, in uno dei grattacieli dell’Upper East Side.
 
Quando tornai in cucina, non mi resi conto che la mia espressione delusa era diventata, in maniera evidente, rivelatrice di agitazione che andava crescendo sempre di più.
Sospirando ripresi ad attorcigliare gli spaghetti.
 
Bunny mi osservava, mi studiava in silenzio; cercava di non farsi accorgere anche se – inevitabilmente - avvertivo il suo sguardo su di me.
Ovviamente facevo finta di nulla, continuando a fissare il mio piatto senza avere il coraggio di guardarla negli occhi; quella situazione era imbarazzante e io non ce la facevo più a fingere, non volevo doverlo fare con Lei, proprio con Lei alla quale non avrei mai voluto dover mentire.
Pranzammo in silenzio, accompagnati dal suono della pioggia che si infrangeva sul vetro della finestra.
Quando finimmo, mi alzai per sparecchiare ma mi precedette; mi cinse la schiena da dietro e io non potei far altro che voltarmi verso di Lei.
“Sei più tranquillo, ora che hai sentito Mister Taiki?” La sua voce era dolce come sempre ma i suoi occhi dispiaciuti, per quanto Lei cercasse di non farlo notare.
Per un attimo non capii, poi ricordai la mezza verità:
“Sì.” La strinsi forte, baciandole la testa: “Stai tranquilla bambina, è tutto ok.”
 In realtà non andava bene per nulla, la telefonata che aspettavo da ormai due giorni non arrivava e per di più l’incontro anticipato col capo mi metteva ancora più ansia di quella che già avessi.
 
Annuì, strofinando così la sua guancia sul mio maglione, poi alzò la testa, incontrando i miei occhi:
“Riprendi a scrivere?”
Ma sapevo cosa sperava, cosa desiderava, capivo che aveva voglia di sentirmi vicino e non distante come, senza volerlo, mi stavo dimostrando negli ultimi due giorni. E anche io, nonostante la tensione, avevo bisogno di Lei, del suo contatto, del suo amore; avevo bisogno di sentirla mia.
La sollevai da terra e fu costretta a cingermi le gambe sulla schiena per aggrapparsi a me; iniziai a baciarla con tutta la passione che provavo per Lei mentre mi dirigevo verso il camino all’interno del salone; Bunny ricambiava i miei baci mordendomi le labbra e catturandole con lo stesso desiderio che anche Lei provava per me fino a quando non si ritrovò adagiata sui grandi cuscini.
Sorrise divertita e, nonostante la pioggia, il mio cuore davanti ai suoi occhi luminosi rivide il sole. Chiusi le tende delle finestre accanto al camino e mi sdraiai con delicatezza su di Lei:
“Dopo… scriverò dopo!”
 
Ore 14.30
Dopo aver fatto l’amore la portai a letto e lì, sotto le coperte, si strinse a me, poggiando la testa sul mio petto e riscaldandomi col suo respiro sul mio collo; rimanemmo abbracciati a lungo ad ascoltare il suono della pioggia che scendeva sempre più fitta e in maniera incessante.
Non c’era bisogno di parlare; erano le mie carezze sui suoi lunghi capelli e sulla sua vellutata schiena a cercare di trasmetterle il mio amore e l’infondatezza delle sue paure…
Se solo avesse saputo!
Presto, chiuse gli occhi lasciandosi trasportare nel mondo dei sogni avvolta fra le mie braccia e ne approfittai per rilassarmi qualche altro minuto prima di riprendere a lavorare. Fu proprio nel momento in cui la mia mente si dimenticò di tutti i pensieri che il mio cellulare squillò.
Un tuffo al cuore, una paura ma anche un’enorme speranza.
Cercando di non svegliarla, mi alzai dal letto e, dopo aver guardato il display, col cuore in gola risposi. Finalmente, dopo due giorni di agonia, la sentenza era arrivata.
 
Indossai di corsa un paio di pantaloni e, mentre stavo per infilarmi il maglione, Bunny aprì gli occhi notando la mia fretta.
Confusa, si sedette sul letto e, portando il piumone all’altezza del petto, con voce curiosa e un po’ agitata:
“Dove stai andando? Che sta succedendo Marzio?”
I suoi occhi divennero lucidi, passò una mano sulla fronte ravviando all’indietro i ciuffi dorati mentre una sensazione di terrore era visibile nel suo volto.
Mi sedetti sul letto e prendendo il suo viso fra le mani, con un sorriso sincero e voce rassicurante:
“Mia madre ha bisogno di me ma torno presto.” Le baciai le labbra e con una mano accarezzai le sue guance asciugando le lacrime.
Scosse la testa: “Cosa ho sbagliato? Ti prego dimmelo.” La sua voce era sempre più agitata; prese le mie mani nelle sue: “Se ho fatto qualcosa che ti ha dato fastidio ti chiedo scusa ma…” Un singhiozzo: “Ti prego non lasciarmi.” Era spaventata. Confusa e spaventata.
Mi sentii in colpa, un verme, la stavo terrorizzando senza volerlo, la stavo facendo preoccupare sapendo che l’unica cosa di cui avesse bisogno fossero le rassicurazioni e le continue dimostrazioni d’amore. Ma non potevo dirle la verità.
 
Ripresi a baciarla, con dolcezza ma anche con estrema passione sentendo le sue lacrime scendere e bagnare anche il mio viso fino a quando riuscii persino ad assaporarle. Mi strinse forte, cingendomi il collo con le braccia e facendo sì che il piumone scivolasse dal suo corpo.
Era rigida, i muscoli delle sue braccia sempre più tesi mentre mi teneva a sé con tutta la paura di perdermi.
“Amore mio, non hai fatto nulla, io ti amo. Non ho nessuna intenzione di lasciarti.” Le baciai la fronte: “Ti prego credimi, non ti farei mai del male.”
Si allontanò da me quel poco per potermi guardare negli occhi e quando capì che non mentivano, che il mio amore per Lei era sincero, si fidò:
“Torna presto, va bene?”
E lì, in quegli occhi azzurri come il cielo, luminosi ma allo stesso tempo lucidi e spaventati, capii che per Lei avrei fatto di tutto. Anche se ciò avrebbe significato spaventarla.
Sorrisi per rassicurarla e, dopo un ultimo bacio sulle labbra, indossato il mio cappotto, aprii la porta d’ingresso richiudendola alle mie spalle.
 
Ore 17.00
Ero di nuovo sotto la pioggia; avevo dimenticato l’ombrello e, ad ogni modo, non era il caso di camminare a piedi.
Decisi quindi di prendere un taxi anche se ero consapevole che col super affollamento nelle strade sarei rimasto bloccato a lungo prima di arrivare a destinazione. Quando il tassista mi domandò dallo specchietto retrovisore dove desiderassi andare, senza esitare, con voce ferma e sicura, risposi:
“Al Moonlight.”
 
L’insegna era ancora spenta, la porta ancora chiusa. Dall’esterno era però possibile udire il suono delle musiche utilizzate per le esibizioni. Suonai il citofono posto di lato alla porta e attesi qualche secondo.
Una ragazza aprì la porta e, prima che potesse avvisarmi che il locale fosse ancora chiuso, con voce ferma e sicura la informai:
“Devo parlare con Lady Amy.”
“Ma… ha un appuntamento?” La ragazza dai capelli biondi legati in una mezza coda sembrava in difficoltà.
“No ma è importante… dica che riguarda Bunny.”
Lei mi aveva dato del ‘lei’, era giusto quindi che lo usassi anche io, nonostante la conoscessi bene dato che era una delle accompagnatrici ai tavoli, oltre che una Moonlight dancer.
“Bunny? Come sta? Dov’è?” La ragazza spalancò gli occhi non appena nominai quel nome che tanto amavo e io riuscii ad avvertire preoccupazione nella sua voce.
“Sta bene; per favore potrei entrare e parlare con Lady Amy?” Cercai di farle notare che fuori continuava a piovere e non avevo intenzione di continuare a bagnarmi.
Indietreggiò, permettendomi di entrare. Le Moonlight dancers continuarono a provare non curanti della mia presenza e quelle sotto al palco, in pausa, mi osservarono curiose cercando di capire perché fossi lì a quell’ora; molte di loro si ricordavano di me.
“Aspetti qui, informo Lady Amy.” E si avviò verso la scalinata; fece una piccola esitazione e, voltandosi verso di me:
“Posso sapere il suo cognome?”
“Chiba. Marzio Chiba.” Il mio nome glielo avevo già detto quando una sera Seiya aveva presentato sia lei che Rea a me e Moran; la stessa sera che la mia vita cambiò non appena vidi Bunny per la prima volta su quel palco; lo stesso sul quale, in quel momento, alcune Moonlight dancers provavano una sensuale coreografia.
Sorrise e, allontanandosi sempre più, con tono molto solare:
“Avviso Lady Amy e torno subito!”
Annuii, sorridendo di fronte a tanto entusiasmo.
 
Tornò dopo alcuni minuti con viso sorridente: “Lady Amy la aspetta.”
Chinai il capo in forma di ringraziamento e aggiunse:
“Marzio, mi saluti Bunny per favore.”
“Lo farò senz’altro! Grazie mille Marta.”
 
Salii la scalinata notando una delle prime porte aperta. All’interno, di spalle, Lady Amy era rivolta verso la finestra ad osservare la frenesia della strada sottostante.
Bussai ugualmente e si voltò.
I capelli corti, tinti di blu, mettevano in risalto i suoi occhi color turchese e, un tailleur azzurro, come gli orecchini a forma di goccia, la faceva apparire più grande e più matura della sua età.
“Prego, entri.”
Non esitai. Entrai chiudendo la porta alle mie spalle. Vedendomi a disagio, mi fece segno di accomodarmi, indicando la poltroncina color nocciola ad un lato della scrivania.
Non appena mi sedetti, Lady Amy, accendendo una sigaretta, domandò:
“Non ho molto tempo quindi mi dica…”
Mi guardò con sguardo eloquente, poi riprese:
“Cosa vuole da me?”
Dal suo tono, dalle sue espressioni, dal modo di porsi capii che era una ragazza dura, forte, che sapeva imporsi e farsi rispettare.
O forse non era in realtà così; probabilmente la sua era una maschera, una di quelle che dovevano essere usate in quel teatrino chiamato Moonlight.
Magari, in fondo, era una ragazza dolce e sensibile che aveva dovuto solo prendere le redini di un’attività particolare dopo la morte del padre. E si sa; se le donne sono belle non si dà loro molta importanza nel mondo degli affari, si preferisce trattare sempre con gli uomini.
E lei questo non poteva permetterlo; ecco quindi che la maschera da uomo d’affari veniva tirata fuori e indossata sul suo viso dai lineamenti delicati.
 
“Si tratta di Bunny.”
Mi guardò, seria, lasciando uscire il fumo della sigaretta dalla sua bocca.
Continuai: “Voglio che lasci questo locale.”
Stavolta dalle sue labbra fuoriuscì una risata divertita.
Si alzò dalla poltrona di fronte alla mia e, dalla libreria accanto alla scrivania, tirò fuori una carpetta rosa.
La aprì e voltando pagina per pagina alcuni fogli bianchi, ne estrasse alcuni.
Iniziò a leggere, inspirando dalla sigaretta:
“Bunny Tsukino, contratto sottoscritto il 5 Novembre 2010 e valido fino al 5 Novembre 2011.” Scorrendo con gli occhi e voltando pagina: “In caso di recessione il risarcimento dovuto sarà di 40.000 dollari.”
Sapevo già quelle cose:
“Lady Amy, ascolti; Bunny mi ha parlato molto bene di lei, mi ha detto che lei è molto gentile e mette le ragazze a loro agio ma, vede…”
Si sedette di nuovo di fronte a me, studiando meglio il contratto.
“Voglio che lasci questo posto perché lavorare qui non è ciò che veramente desidera. Lo ha fatto solo per la sorella, lei saprà già la situazione…”
Posò il contratto sulla carpetta ancora aperta e, coi gomiti sulla scrivania e le mani giunte a sorreggerle il mento, mi guardò annuendo e cercando di seguire meglio il mio ragionamento.
“Adesso ci sono io che penserò a Lei. Non ha più bisogno di lavorare qui.”
Presi coraggio: “Non ho tutto quel denaro per il momento ma presto il mio nuovo libro verrà pubblicato e - come è già accaduto dopo la pubblicazione del mio primo lavoro – spero di riuscire a trovare la somma per il risarcimento.”
 
Ero disperato, volevo a tutti i costi convincerla ma la paura di non farcela e magari mettere Bunny in ulteriori guai – dato che non sapeva che sarei andato al Moonlight – era tanta, troppa.
 
Non potevo esitare, dovevo mostrarmi sicuro di me; in passato non sarebbe stato così difficile ma in quel momento, in quella situazione, c’erano troppi interessi in gioco, c’era Lei coinvolta. Non era facile per me rimanere lucido e freddo. Ma dovevo.
“Per favore Lady Amy, mi dica cosa posso fare… ci sarà un modo. Io non lo so, questo non è il mio ambito. Io sono soltanto uno scrittore.” Riflettei un attimo e poi giocai la mia carta vincente:
“I miei libri sono pubblicati dalla RoseEdition.” Sapevo che fosse una casa editrice molto famosa in tutto lo Stato di New York; una sorta di garanzia.
 
 La sua espressione, da curiosa divenne enigmatica.
Si alzò dalla poltrona e, dopo aver schiacciato per bene la sigaretta sul posacenere di cristallo posto al lato della scrivania, si avvicinò alla finestra, scostando la tenda gialla per poter osservare il cielo della City grigio e nuvoloso.
“Il Moonlight perderebbe tanti clienti, molti vengono proprio per Bunny.” Una pausa, poi, con tono riflessivo: “Ho sempre trovato volgare la pubblicità del Moonlight sui manifesti di NYC… le mie ragazze non dovevano passare sotto gli occhi di tutti, non le ho mai volute vedere su cartelloni di Time Square o su lati degli autobus *”
Volevo chiederle cosa significassero le sue parole ma mi precedette, voltandosi verso di me e fissandomi seria, con una determinazione mai vista prima di allora in una persona:
“Voglio un libro.” Annuì e, con una consapevolezza maggiore che stesse facendo la scelta giusta:
“Un libro dove si pubblicizzi il mio locale; che parli delle mie ragazze e di quest’attività.” Sempre più convinta:
“Parli pure di lei, di Bunny, di come vi siete conosciuti… non mi interessa; voglio solo che si pubblicizzi il Moonlight, che più persone possibili conoscano il mio locale e si incrementi la clientela.”
La guardai titubante; era sufficiente un libro?
“Ovviamente non occorre che io le specifichi quale dovrà essere il titolo del libro… e quale immagine dovrà comparire in copertina.”
“No, certo che no!” La mia voce aveva appena tremato, la paura si era trasformata in incredulità, una luce piena di speranza era intravedibile all’uscita di quel tunnel in cui Bunny era entrata in maniera condizionata.
Si avvicinò a me e, incurvandosi in avanti in modo da potermi guardare dritto negli occhi, con voce astuta:
“Voglio un contratto firmato dal suo editore dove si metta per iscritto che vi vincolate alla pubblicazione del libro.”
Per un attimo il pensiero a Mister Taiki e al suo possibile rifiuto mi terrorizzò ma poi, determinato e con molta fiducia in me stesso; con la speranza che non fosse giusto che certe situazioni non trovassero una via d’uscita e confidando in tal proposito anche nella Provvidenza Divina, annuii:
“Domani pomeriggio parlerò con il mio editore. Lo porterò qui e decideremo i dettagli.”
Un sorriso e uno sguardo furbo e deciso, da donna di successo, le si palesò sul viso:
“A domani, signor Chiba.”
 
E così lasciai il Moonlight, colmo di speranza e di consapevolezza che quello fosse il giorno più bello e felice di tutti quelli trascorsi negli ultimi anni della mia vita; la pioggia scendeva ancora dal cielo della City ma il mio cuore intravedeva già l’arcobaleno.
Salii sul taxi dando un’ultima occhiata all’insegna del night club ancora spenta; sperai con tutta l’anima che presto il Moonlight, da luogo in cui Bunny aveva fatto esperienze non adatte ad una ragazza ingenua e sensibile come Lei, potesse trasformarsi in un’ancora di salvezza; in un libro col quale, ancora una volta potesse capire il mio amore per Lei.
 
Non appena rientrato in casa, il suono di un pianto mi diede la conferma che Bunny fosse già tornata dall’ospedale; chiusi la porta e mi poggiai con le spalle su di essa abbassando le palpebre e cercando di prepararmi psicologicamente.
Entrai nella mia camera e Lei era lì, al buio, seduta sul bordo del letto con i gomiti sulle ginocchia e la testa sorretta dalle mani.
Non riusciva a smettere di piangere, affogava tra i suoi singhiozzi ed io per una volta non mi preoccupai per Lei, anzi.
Avanzai e, inginocchiandomi davanti a Lei, presi il suo viso fra le mani:
“Bunny, sono qui.”
Portando le sue mani sulle mie, con sguardo incredulo, come se fosse soltanto un bellissimo sogno, tra un singhiozzo e l’altro e gli occhi gonfi appannati dalle lacrime, sorrise:
“Hanno trovato un donatore.” Di nuovo un singhiozzo, ancora lacrime; bisogno di lasciar uscire tutta la paura e il terrore che aveva vissuto nell’ultimo anno; necessità di liberarsi l’anima dalla tensione accumulata dal giorno in cui seppe della malattia di Usa.
Tolse le sue mani dalle mie per cingermi il collo e abbracciarmi forte:
“Marzio, hanno trovato un donatore, hanno trovato un donatore…”
Continuava a ripeterlo, con il mento poggiato sulla mia spalla, come se dovesse ancora realizzarlo Lei stessa; come se fosse così bello da sembrare quasi impossibile.
Stretta a me, riuscii ad avvertire il suo cuore battere talmente forte da sembrare che le stesse per uscire dal petto.
Accarezzandole i capelli, percependo tutte le sue emozioni venir fuori attraverso quello sfogo, sentendola tremare, rigida, dentro il mio caldo abbraccio, una lacrima uscì anche dai miei occhi; le baciai la spalla mentre Lei non riusciva a staccarsi da me e, con voce tremante risposi:
“Sono tanto felice Bunny.”
Era la verità; sapere che fosse felice, vederla piangere di gioia era quello che avevo voluto dal giorno in cui la conobbi. Era tutto ciò che rendeva felice anche me.
E lì, in quella stanza buia in cui era possibile udire i tuoni che presagivano altra pioggia sulla città che non dorme mai; lasciando andare tutta la sua felicità in quel pianto liberatorio, rimase stretta a me fin quando pian piano iniziò a calmarsi ma; anche quando fu più serena, era talmente emozionata che non riuscì neppure ad accorgersi che il mio sguardo, seppure pieno di gioia, non fosse per nulla sorpreso.


Note:
*: ispirato a Sex and the City. La foto della protagonista appare su un lato dell’autobus.
 


Il punto dell’autrice
 
Cari lettori, innanzitutto perdonatemi per avervi fatto attendere tanto!
Sono stata  molto impegnata con gli esami e ho iniziato una nuova fanficion ‘La melodia del cuore’.
Spero che l’attesa sia stata ben ripagata e che questo capitolo non vi abbia deluso. Vi confesso che ormai manca poco alla fine di questa storia e un po’ mi dispiace perché sono molto affezionata a questi personaggi :(
Vi prometto che d’ora in poi aggiornerò più di frequente, nel frattempo, se avete due minuti da dedicare ancora a me e alla mia storia, lasciate un commento facendomi sapere cosa ne pensate, ve ne sarei grata!
Ringrazio come sempre tutti coloro che mi seguono e che mi dimostrano il loro affetto sia tramite le recensioni qui su EFP che sul ‘Moonlight fan club’ di facebook!
Un bacione e a presto!
Demy


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Capitolo 14
*** L'ultima possibilità ***


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Cap. 14: L'ultima possibilità



Una carezza agitata, tormentata. Ecco cos’era il suo respiro irregolare sul mio collo.
Tremava.
Per quella notizia tanto sperata, tanto pregata, sofferta, desiderata con tutta l’anima, ottenuta - se necessario - anche vendendo il suo corpo. E finalmente, con sorpresa, con incredulità, arrivata.
Per quella possibilità che avrebbe donato ai suoi occhi, azzurri e perennemente coperti da un velo di tristezza, quella luce di felicità pura e meritata; la stessa che avrebbe regalato a Usa una nuova vita. Una migliore, allegra, giocosa, normale come quella dei suoi coetanei. Una vita. Semplicemente una vita.
Non ci poteva ancora credere Bunny mentre si stringeva forte a me, non credeva fosse possibile. Forse era troppo bello o forse era stato così tanto desiderato da risultare ancora strano il suono di quelle parole. Quelle che poi non erano soltanto semplici parole ma qualcosa di più. Erano tutto.
“Hanno trovato un donatore.”
E lo ripeteva. Se lo ripeteva per auto convincersi, per realizzarlo; come se ascoltando la sua stessa voce non sembrasse soltanto un sogno frequente, un desiderio espresso col cuore infranto ogni volta che entrava nella stanza ‘30’, una preghiera fatta nel cuore della notte accompagnata da lacrime amare prima di addormentarsi in quella stanza fredda e impersonale del Moonlight.
Doveva ancora rendersene conto, capire che fosse tutto vero.
Ed io non potei fare altro che avvolgerla nel mio abbraccio, sperando che il contatto col mio corpo potesse servire a farla calmare.
La pioggia scendeva sempre più fitta, sempre più incessante dal cielo grigio della City, unendosi ai suoi singhiozzi e al suono di quella verità ripetuta tra un misto di incredulità e felicità profonda.
Il cielo piangeva, si lamentava. Che fosse anch’esso un pianto di gioia?
 
Pian piano il suo respiro si regolarizzò; mi guardava con occhi persi nel vuoto, il suo pensiero era ancora in quella realtà utopica in cui si era rifugiata nell’ultimo anno, accompagnata dalla speranza nel cuore.
Presi un fazzoletto dalla scatola di cartone posta sul comodino e, simile ad una soffice carezza, lo feci scivolare sul suo viso, asciugando le lacrime: “Presto avrete la vita che meritate entrambe, amore mio.”
Mi portai in piedi, le ginocchia tenute premute contro il pavimento facevano un po’ male ma non mi interessava.
Ero felice. Per Lei, per Usa. Per noi.
Si alzò anche Lei, aiutandomi a sfilare il cappotto. La guardavo mentre lo adagiava sulla panca ai piedi del letto e mi riempii il cuore di gioia il suo sguardo che gradualmente si riempiva di serenità; lo stesso col quale si avvicinò a me cingendomi il collo e sollevandosi sulle punte dei piedi prima di dirmi:
“Grazie. Grazie di cuore, Marzio.”
Per un istante una lama mi trafisse facendomi bruciare il petto; per un attimo sentii il cuore fermarsi per poi ricominciare a battere molto velocemente.
Che avesse capito? Che avesse saputo? Impossibile! Vietato!
“Per cosa, piccola?” cercai di capire con voce tremante, contento del fatto che con la guancia poggiata sull’incavo della mia spalla non potesse vedere la mia espressione. L’avrebbe trovata spaventata, forse avrebbe persino visto il mio viso impallidire.
Strofinò la testa sul mio maglione di cashmere blu e, facendo scorrere le sue braccia su e giù per la mia schiena:
“Per esserci. Per l’amore che mi dai. Per aver sempre creduto in una soluzione.”
Alzò i suoi occhi verso i miei e distendendo le labbra in un sincero sorriso:
“Ti amo Marzio, ti amerò sempre.”
Passai una mano sulla sua nuca raccogliendo così i suoi lunghi capelli morbidi al tatto in una coda e, avvicinando il mio viso al suo:
“Io di più. Io sempre di più, amore mio”. Sorrise; lo feci anche io, e la baciai sulle labbra ancora salate ma sempre calde e bisognose delle mie.
Un bacio. Non era il primo e non sarebbe stato l’ultimo. Ma era diverso, sapeva di nuovo, di serenità sincera.
 
Lei era rilassata, quella volta sul serio. Fin a quel momento c’era sempre stato qualcosa che la aveva bloccata; un assurdo senso di colpa che la aveva logorata nel profondo del cuore e col quale pensava fosse ingiusto tutto ciò che di bello le capitasse. Mi amava ma non riuscivo mai a sentirla lasciarsi andare fino in fondo. Provava passione, desiderio, ma i sensi di colpa per il fatto che la sorte avesse scelto Usa avevano sempre la meglio. Ed io lo capivo, lo sentivo e, mettendomi nei suoi panni, lo accettavo.
 
Le sue labbra intrappolavano le mie con dolcezza ma, allo stesso tempo, con profondo bisogno di quel contatto.
Ricambiai il suo bacio, con passione e irrefrenabile desiderio, intrecciando la mia lingua alla sua, mordendole le labbra con delicatezza e facendola sorridere.
“Mi sei mancato… mi sei mancato da morire” riuscì a dire - come se avesse aspettato davvero tanto prima di potersi sentire amata  e condividere quella notizia - mentre non intendevo separare le mie labbra dalle sue.
“Tu di più… ma ora sono qui. Qui con te” risposi tenendola stretta a me e facendola indietreggiare fin quando toccò il letto.
Si sedette tenendo il mio viso fra le mani e continuando a baciarmi fin quando non si ritrovò sdraiata con me sopra di lei.
“Sei bagnato” notò accarezzandomi i capelli.
Non le risposi, iniziai a toglierle la felpa per poi passare ad accarezzarle il collo, il seno, fino al ventre, con le labbra sempre più affamate di Lei.
C’era qualcosa che non andava però, riuscivo a sentirla tesa. Di nuovo. Perché?
Risalii per poterla guardare negli occhi e, pieno di desiderio:
“Lasciati andare, Bunny.”
Mi cinse la schiena, spingendomi a sé e stringendomi forte:
“Restiamo così per un po’.”

Per un istante non capii, mi sentii rifiutato e la cosa non mi piaceva; perché colei che mi amava e che aveva bisogno del mio contatto non voleva fare l’amore con me? Come mai proprio quando finalmente la speranza era diventata una certezza? Cos’era successo?

“Non mi vuoi?” fu la mia domanda con voce meravigliata e allo stesso tempo dispiaciuta.
Con le gambe dischiuse per permettermi di starle sopra, poteva sentirmi, poteva notare la mia voglia di Lei; dai miei occhi era evidente il desiderio di averla mia.
Accennò un sorriso ma la tristezza dei suoi occhi era appena tornata; iniziai a capirci sempre meno, credendo che fosse meglio sdraiarmi sul fianco accanto a Lei per poterla osservare:
“Cosa c’è bambina?” Il mio tono era passato da eccitato a preoccupato e molto curioso.
Si voltò di fianco anche Lei stringendosi a me:
“Ho paura.” E i suoi occhi sui miei lo confermavano.
“Di cosa?” chiesi aggrottando la fronte cercando di capire, spostandole la frangia dagli occhi e ravviandole delle ciocche dietro l’orecchio.
“E se Usa rigettasse il trapianto? Cos’accadrebbe?” scosse la testa, rifiutando l’ipotesi: “Lei ne morirebbe.”
Cercai di dire qualcosa ma mi precedette con tono amareggiato:
“Era così felice quando il Professor Tomoe gliel’ha detto davanti a me.”

I suoi occhi divennero lucidi, trattenne le lacrime ma, quando poggiò la sua testa sul mio petto, mi sentii bagnare da quelle gocce di paura capendo così che aveva ancora bisogno di sfogarsi.

“Sì, potrebbe capitare, Bunny, ma tu non devi pensarci. La prima regola fondamentale è essere positivi.”
Accarezzai la sua schiena liscia e fredda e, baciandole la testa:
“Andrà tutto bene. Andrà tutto bene, amore mio.”
Lo ripetei più volte, come un sussurro simile ad un soffio d’amore sul suo orecchio, cercando di rasserenarla e convincendomene pure io.
Ma in realtà gli stessi dubbi e le stesse paure vagavano per la mia mente da quel pomeriggio. Lei non poteva di certo saperlo ma io sì.

“Hai ragione, anche il Professor Tomoe ha detto che bisogna essere positivi” confermò strofinando la guancia sul mio petto e lasciandovi un dolce bacio sopra il maglione.
Distesi le labbra in un sorriso rassicurante, facendole poggiare la schiena sul materasso e mantenendo il contatto del mio corpo con il suo; quando i suoi occhi incontrarono i miei, aggiunsi:
“Ci sono io con te, con voi. Vedrai, presto sarà solo un brutto ricordo.”
Annuì solamente. Non c’era bisogno di continuare a parlare, erano le profondità delle sue iridi a manifestarmi il suo amore e la sua riconoscenza; era il suo sguardo pieno di dolcezza a farmi capire che si fidava di me e che si voleva affidare a me, per sempre.
 
Restammo abbracciati per un tempo indefinito; c’erano troppi pensieri che vagavano liberi nella mia testa, aumentando l’ansia e la paura che portavo nell’anima.
E se il trapianto non fosse riuscito? Come avrebbe reagito una bambina di soli cinque anni che intravedeva la luce alla fine del tunnel della leucemia?
E Bunny? Le sue speranze, le sue preghiere? La sua meritata felicità, la sua vita fatta di piccole cose e di esperienze da ventenne che aveva già dovuto bruciare? I suoi sogni sarebbero rimasti nel cassetto? Sua sorella, l’unica persona che teneva il filo conduttore con la parola famiglia, che fine avrebbe fatto? 
E poi c’era Moonlight… e non il night club bensì il libro voluto da Lady Amy come riscatto, come forma di risarcimento alternativo ai cari 40.000 bigliettoni verdi.
E se Mister Taiki non avesse mai acconsentito? Lo conoscevo. Alla RoseEdition era lui il boss, era lui che decideva i libri da pubblicare e non colui a cui commissionare l’edizione di un libro… specialmente se la committente era una donna.
Dovevo fare qualcosa… dovevo essere il suo Tuxedo Kamen; dovevo proteggerla, dovevo fare tutto il possibile per renderla felice.
Le diedi un bacio sulla fronte e, per alcuni minuti, sperando che tutto si risolvesse per come era giusto, chiusi gli occhi.
 
Dopo cena ripresi a scrivere; oramai avevo finito i primi tredici capitoli e, a mio avviso, trovato le risposte ai tanti quesiti a cui era volto il mio libro. Volevo che tutto fosse perfetto, speravo che il mio lavoro potesse piacere a Mister Taiki, magari leggendo i capitoli sarebbe rimasto soddisfatto e ciò avrebbe fatto sì che per me fosse più semplice parlargli del Moonlight e della proposta di Lady Amy.
Leggevo, rileggevo, correggevo, modificavo e rileggevo. Come se non fosse mai abbastanza, come se ci fosse sempre qualcosa da sistemare. In realtà era solo tensione e paura che qualcosa andasse storto, che il mio intento non andasse a buon fine. E se Mister Taiki non fosse rimasto soddisfatto? Avrei dovuto perdere altro tempo appresso a Le donne, l’Amore e New York. E io non potevo permettermelo. C’erano in ballo interessi troppo grandi, persone troppo importanti coinvolte. Io dovevo iniziare a scrivere Moonlight; lui doveva acconsentire alla mia necessità di scrivere Moonlight.
 
Nel buio del salone, distratto dalle mille perplessità che mi attanagliavano, riuscii a scorgere un’ombra davanti a me; alzai la testa e vidi Lei, il motivo delle mie tante paure, la ragione di tutto ciò che avrei cercato di ottenere, lottando contro tutto e contro tutti. Lei, Bunny, l’Amore.
Venne verso di me, illuminata dalle luci della City che dalla portafinestra penetravano riflettendosi sul suo viso:
“Vieni a letto?” Si chinò per darmi un bacio sulle labbra, prendendo la mia mano tra le sue: “È tardi, sono le 02.00.”
Scossi la testa: “Tra un po’ arrivo. Va’ a dormire, piccola” risposi portando la mano libera alla spalla per distendere i muscoli ormai tesi. Lasciò la mia mano e, dietro di me, iniziò a massaggiarmi la schiena e il collo:
“Marzio, sei stanco, andiamo a dormire. Continuerai domani.”
Voltai la testa indietro per poterla guardare in viso e notare la sua espressione piena di premure per me. Leggevo nei suoi occhi l’Amore, quello vero e sincero. Quello che non avevo mai provato prima. Quello che Lei provava per me, solo per me. Lo stesso che io avrei donato a Lei, sempre.
Mi alzai e, dopo quella spontanea riflessione, la abbracciai forte:
“Domani mattina ho l’incontro col mio capo. Vai a letto, io ti raggiungo tra poco.”
Alzò il viso, notando la stanchezza nei miei occhi e, aggrottando la fronte, chiese:
“Ma non era nel pomeriggio?”
Feci cenno con la testa indicando il cellulare posto accanto al notebook sul tavolino:
“Ha anticipato l’incontro. Mi farà impazzire prima o poi.”
Sospirai e lei sorrise a quelle parole:
“Resterà super soddisfatto del tuo lavoro!” cercò di rincuorarmi alzandosi sulle punte e premendo le sue labbra sulle mie.
“Speriamo…”
E lo sperai con tutto me stesso.
“Rileggo l’ultimo capitolo e arrivo” continuai, entrando le mani sotto la sua camicia da notte blu.
Annuì, lasciando una carezza sulla mia guancia e tornando nella nostra camera da letto.
 
23 Novembre – ore 9.00

Con la valigetta del mio notebook, a passo svelto, così come la moltitudine delle persone che affollavano i marciapiedi di Manhattan, mi diressi verso uno dei grattacieli dell’Upper East Side, sede della famosa casa editrice RoseEdition.
Le porte scorrevoli trasparenti, con scritto RoseEdition in rosso, si aprirono non appena mi avvicinai, permettendomi di accedere.
Le due giovani e avvenenti segretarie, rigorosamente nei loro tailleur neri, mi diedero il benvenuto lanciandomi uno sguardo eloquente.
 
Con Lenya *, una di loro, avevo avuto una notte di puro sesso in passato; era accaduto la sera in cui il mio editore aveva organizzato una festa per l’uscita del mio primo libro Odore di ciliegi in fiore; ero felice, mi sentivo importante, come se finalmente ciò per cui avevo lottato e in cui avevo creduto si fosse realizzato.
Era presente tutta la Manhattan che contava, erano stati invitati i migliori capo redattori delle case editrici della City. Ovviamente non poteva mancare lo staff. Fu così che, a seguito di molte coppe di champagne per brindare, sentii la necessità di terminare la serata ancora meglio di come lo era iniziata. Il sesso era quello che ci voleva; Lenya aveva trascorso tutta la serata a fissarmi, a lanciarmi sguardi maliziosi e seducenti e, a fine serata, dopo avermi detto all’orecchio:
“Vieni via con me?” giocando con una ciocca dei suoi lunghi capelli corvini; le sorrisi, avvicinandomi ancora di più a lei:
“Tra poco sai tu quella che verrai con me.”
Dopo aver preso quello che volevo, e che lei senza problemi mi aveva dato, lasciai il suo appartamento. Tornai a casa, sentendomi insoddisfatto, incompleto. Lungo l’Upper East Side, riflettei molto sul fatto che sarebbe stato bello avere qualcuno con cui condividere quel mio primo successo, quella mia soddisfazione.
Sarebbe stato bello avere una ragazza, che mi amasse, che fosse felice per i miei momenti di gioia e triste per le mie delusioni; qualcuna con cui condividere tutto. Qualcuna d’amare e da cui essere amato.
Ma quella era NYC, la città in cui l’Amore era una leggenda metropolitana e io ero soltanto un giovane ragazzo credulone nei buoni sentimenti.
Tornai così a casa, cercando di distogliere i miei pensieri da una possibile vita in due e ritornando alla realtà dei fatti. Una realtà dove le donne non provavano amore; non donavano amore. Erano troppo prese dalla frenesia e dalle mille opzioni della City e a me non restava altro che continuare a fare ciò che avevo sempre fatto negli ultimi quindici anni: adattarmi.
 
Ma dato che finalmente avevo trovato l’Amore con la A maiuscola, visto che c’era Lei che mi amava e che si fidava di me; superai il bancone posto all’ingresso e mi avviai, deciso e sicuro di me, verso la porta con la targhetta dorata in cui era inciso Mister Taiki Kou.
Battei due colpi sulla porta color noce e subito dopo sentii la sua voce dirmi: “Avanti.”
Seduto sulla sua poltrona di pelle nera con la caviglia destra poggiata sul ginocchio sinistra, Mister Taiki faceva roteare la poltrona da una parte all’altra; mi fece cenno con una mano di  accomodarmi di fronte a lui mentre con l’altra mano teneva il cellulare all’altezza dell’orecchio. Aspettai che terminasse la sua telefonata e dopo aver salutato il suo interlocutore mi disse:
“Veniamo a noi, Chiba!” Niente buongiorno, nessun come va?
Dritti al punto: “Come procede il tuo lavoro? Hai portato…?”
Annuii prima che potesse terminare la frase, tirando fuori dalla mia valigetta blu i tredici capitoli stampati quella mattina e porgendoglieli.
Diede un’occhiata, scorrendo le pagine con molta rapidità:
“Lo leggerò presto e ti farò sapere” disse, continuando a fissare i fogli rilegati.
E lì, arrivò il momento cruciale:
“Mister Taiki, dovrei parlarle.”
Rimanendo con la testa china, alzò gli occhi verso di me, aggrottando la fronte e mostrandomi un’espressione curiosa:
“Che è successo?”
Sospirai, facendo uscire tutta l’ansia che avevo accumulato nell’attesa di quella conversazione, e prendendo coraggio iniziai:
“Ho bisogno del suo aiuto.” Non parlò, si limitò ad alzare la testa, poggiando un gomito sul bracciolo e sorreggendo con la mano il mento, attendendo che continuassi.
“Scrivere quei capitoli sarebbe stato davvero difficile per me, e dico sarebbe stato perché in realtà c’è stata una persona, una musa, un’ispiratrice che mi ha permesso in pochissimo tempo di arrivare alla soluzione dell’enigma.”
I suoi occhi erano ancora fissi nei miei, attendendo di capirci qualcosa di più mentre con la gamba continuava a far girare la poltrona da destra a sinistra.
“Quella persona ora ha bisogno di me.” Una pausa e: “E di lei, Mister Taiki.”
“Di me?” chiese, con tono sorpreso fermando la poltrona.
Annuii: “Sì. Si tratta della mia ragazza. Ha perso i genitori l’anno scorso e dopo poco la sorella di quattro anni si è ammalata di leucemia.” Non sapevo se fosse giusto raccontare con così facilità ciò che Lei mi aveva confidato con tanta fragilità e tanto dolore, credevo solo che fosse necessario se volevo aiutarla davvero:
“Per pagare le cure e il ricovero al Memorial Sloan Kettering Center ha dovuto firmare un contratto al Moonlight.”
Un sorriso ambiguo uscì dalle labbra del boss:
“La tua ragazza è una Moonlight dancer?” C’era malizia, c’era un misto di stima maschile e divertimento puro da parte sua nei miei riguardi, c’era curiosità nel suo tono. Immaginavo già i pensieri nella sua mente, io in passato li avrei fatti:
“Non più se lei mi aiuta a tirarla fuori da lì.”
 
“Scordatelo! Non se ne parla!”
Furono queste le parole che, tutte d’un fiato, uscirono fuori dalla sua bocca dopo che gli raccontai della mia conversazione con Lady Amy.
“Chiba, noi ci conosciamo da più di un anno ormai; dovresti sapere che questa non è una casa editrice che pubblica libri su richiesta. Sono io che decido quali manoscritti pubblicare.”
Era come temevo, come in fondo sapevo. Mi limitai ad annuire, con un dolore al cuore e una sofferenza atroce se pensavo allo sguardo dolce e timido di Bunny, con un vuoto dentro lasciato dall’illusione di poter proteggere colei che amavo. Per un istante non riuscii a dire nulla e lui continuò, pieno di rabbia, considerando la proposta assurda e impensabile:
“La RoseEdition è una delle case editrici più rinomate di New York, se non la più rinomata. Ma dico, che figura facciamo pubblicizzando un night club!” Ci pensò un attimo e poi, scuotendo il capo: “No, no, fuori discussione!”
Deglutii, sentendo la gola secca per il panico e, trovando un appiglio: “Ascolti, Lady Amy dice che in molti uomini acquisterebbero un libro che parla di ballerine di night club.”
Sempre più convinto, nella speranza di convincere anche lui:
“Sarebbe vantaggioso per entrambi, mi creda!”
Sbatté il palmo sulla scrivania, adirandosi: “Ma come si permette questa Lady Amy a dire ciò che è vantaggioso e cosa no? Questo è il mio lavoro, io so cosa è vantaggioso e cosa non lo è!”
La parola io era stata pronunciata con maggior intensità in tutta la frase.
“Dica a Lady Moonlight che i romanzi sono per le donne; gli uomini preferiscono andare direttamente a vedere e a toccare tette e culi!”
Come dargli torto? Si vedeva che nel suo campo era il migliore; la sua capacità di capire cosa fosse un ottimo affare e cosa no, così su due piedi, era sbalorditiva.
Ma io avevo bisogno di lui, avevo bisogno di una soluzione.
Ero ormai senza speranze. Sapevo che il suo rifiuto sarebbe stato quasi certo ma non volevo rassegnarmi all’idea. Forse dovevo. Forse era necessario farlo. O forse no…
Sulla scrivania c’era un manoscritto rilegato con la copertina azzurra e il titolo in blu Meet me.
Era l’ultima speranza, l’ultima ancora di salvezza:
“Lei è il migliore, Mister Taiki, e non oserei mai contraddirla. Lei sa come funziona il campo dell’editoria; quella Lady Amy invece non ne capisce nulla; quella sa solo come far andar avanti il suo locale. E lo fa egregiamente.”
Mi guardò incredulo, non immaginando che avessi potuto concordare con lui; con aria pensante si alzò avvicinandosi alla vetrata laterale; i grattacieli di Manhattan e il ponte di Brooklyn in lontananza sullo sfondo di un cielo azzurro senza nuvole, donavano un’incantevole vista della City. Si perse in quel panorama portando la mano destra sul polso sinistro dietro la schiena.
Sospirai e, con moltissima audacia, osai:
“Fottiamo Lady Amy, diamole il libro intitolato come il suo bordello! Alle donne piacciono i romanzi e le storie d’amore? Bene, scriverò una storia d’amore; la mia storia d’amore con Bunny. Le lettrici adoreranno Bunny.”
Il suo silenzio faceva aumentare i battiti del mio cuore, accresceva la paura di un rifiuto definitivo. Precedetti una sua qualunque risposta:
“Mi permetta di presentarle Bunny. La conosca, magari si renderà conto del perché ci tengo così tanto ad aiutarla. Capirà perché sono certo che il libro sarebbe un successo. Per me è importante, troppo importante.” Ero serio, visibilmente disperato e bisognoso di una possibilità; la mia voce era sempre più confusa e tremante.
 Si voltò verso di me con sguardo serio ed enigmatico e, in attesa di una sua risposta, il mio cuore per pochi attimi si fermò.

Continua…
 
Note:
*: Lenya è la versione rivisitata e adattata di Nehellenia!

 

Il punto dell’autrice

Cari amici e fidati lettori, finalmente è chiaro cosa è Moonlight!
Innanzitutto tengo a ringraziare le mie Moonlight dancers, e cioè coloro che mi seguono sul Moonlight fan club di facebook, e tutte coloro che tramite le recensioni spendono parole piene d’affetto nei miei riguardi!
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, non so perché ma credetemi, la prima parte è stata davvero difficile da scrivere…
Ero bloccata e per questo ho ritardato la pubblicazione!
Ora però viene il bello e il prossimo cap. sarà pubblicato con più rapidità!  
Ci tenevo a precisare e a smentire ciò che ho scritto in precedenza:
Moonlight avrà qualche capitolo in più e quindi non mancano 3 cap. ma un po’ di più. Mi spiaceva affrettare i tempi e scrivere Fine.
Questo capitolo è dedicato a tutte le mie lettrici, un modo per ringraziarle per avermi sopportato e supportato per ben 14 capitoli (15 con Uncutted!)
Quando ho scritto ‘ le lettrici adoreranno Bunny’ ho pensato a tutte voi!
Fatemi sapere con una recensione cosa vi è piaciuto e cosa no, ve ne sarei grata!
Un abbraccio e a presto!

Demy


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Capitolo 15
*** Amore, odio e compromesso ***


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Cap. 15: Amore, odio e compromesso



Dicono che ci sia un rapporto fra Amore, odio e compromesso; fu proprio ciò a cui pensai quel giorno dopo aver conosciuto la risposta di Mister Taiki.

Uscì dopo dieci minuti dalla stanza del boss, a testa bassa e con le palpitazioni al cuore, riattraversando subito dopo l’ingresso con un’ansia visibile e un’espressione talmente seria e preoccupata da lasciare sorpresa anche Lenya che fino a quel momento era sempre rimasta incantata dalla sicurezza in me stesso e dai sorrisi che sfoggiavo, fiero, dopo ogni incontro con Mister Taiki.
Ma quella volta no; in quel momento avevo troppi pensieri in testa, troppe situazioni difficili da tenere sotto controllo. Se non fosse stato il mio boss a farmi impazzire ci sarebbero di certo riusciti quei problemi che da poco più di una settimana si erano presentati nella mia vita, fino a quel momento volta solo al lavoro e ai divertimenti che la City offriva.
Varcate le porte scorrevoli della casa editrice, l’ascensore mi condusse al piano terra e da lì, mi ritrovai di nuovo sulle strade dell’Upper East Side.
C’era una marea di emozioni contrastanti dentro di me, ancora una volta; speranza per Usa ma paura per Bunny.
E se Lei non avesse capito? Se non avesse compreso i motivi che mi avevano indotto a una tale decisione? Cosa le avrei detto? Come avrei potuto spiegarle le cause del mio comportamento? Come avrei fatto a giustificare il mio atteggiamento strano? Non potevo dirle la verità, non per il momento; temevo di deluderla, di illuderla. E io la amavo troppo per vederla piangere.
Tirai  fuori dalla tasca interna del cappotto il mio cellulare e, nonostante in caos e il chiasso della strada, composi il numero di Lady Amy. Quando mi chiese: “Allora? Cosa avete deciso? Verrete oggi pomeriggio come stabilito?” presi coraggio e risposi:
“Dobbiamo rimandare, Lady Amy, il mio capo aveva già degli impegni per oggi.”
Con una risata di chi immaginava già una simile risposta, affermò:
“Sapevo che non avrebbe mai accettato!”
Deglutii a fatica, sperando che dalla mia voce tremante non notasse la mia paura e, cercando più che altro di essere credibile, continuai:
“La chiamo domani pomeriggio per fissare un incontro.”
“Dopodomani Bunny torna al Moonlight” ricordò - accentuando la serietà del suo tono e rendendolo più scostante -  anche se non era necessario dato che io non avevo mai smesso un solo attimo in quella settimana di pensare a tale giorno, sperando che le cose cambiassero e che dunque Lei non dovesse più tornare al night club. Entro un giorno avrei dovuto tirarla fuori da lì. Dovevo tirarla fuori da lì.
Premendo il tasto di fine telefonata, feci scivolare il cellulare all’interno della tasca e iniziai a dirigermi verso casa. Mi piaceva molto camminare a piedi; la City era frenetica, il rumore dei clacson dei taxi e delle auto ingorgate nel traffico era assordante, quello degli elicotteri che sovrastavano il cielo contribuiva al caos della città. Donne che, nonostante gli abiti eleganti da lavoro, indossavano comode scarpe da ginnastica per poter camminare a passo svelto e uomini d’affari intenti a parlare al telefono senza perdere il ritmo spedito.
Turisti che dai tour bus si sporgevano a fotografare l’Empire State Building o il Chrysler Building estasiati; ragazzi che correvano per Central Park giocando a frisbee, facendo jogging o semplicemente leggendo un libro nelle belle giornate di sole; le auto che sfrecciavano a velocità sul ponte di Brooklyn.
Questa era New York City, la città che non dorme mai, la città mai stanca di tutta quella frenesia quotidiana.
Amavo la Grande Mela e, nel caos delle strade super affollate, riuscivo per un po’ a distrarmi dai miei problemi e dalle mie preoccupazioni.
Il sole era alto su nel cielo, riscaldando l’aria gelida che si avvertiva nelle zone d’ombra e accarezzando il mio viso pieno di sconforto.
 
L’insegna rosa e ovale di un negozio alla mia destra, su cui era scritto in fucsia La principessa dei sogni, catturò la mia attenzione; mi avvicinai alla vetrina guardando i cinque manichini disposti uno accanto all’altro, ciascuno con un modello diverso di abiti da sera. Ai piedi di ognuno di loro cinque diversi modelli di scarpe, perfettamente abbinati con gli abiti, erano adagiati su dei cuscini di velluto blu.
Il negozio era vuoto, riuscii a scorgere solo una commessa intenta a sistemare degli accessori su un ripiano accanto alla cassa.
Chiusi gli occhi, cercando di auto convincermi che stessi facendo la cosa giusta e, con un profondo sospiro, dopo aver pronunciato pieno di sensi di colpa: “Perdonami Bunny”, mi diressi verso la ragazza dai capelli rosso fuoco.
Una volta dentro, un buonissimo odore di vaniglia pizzicò le mie narici, in sottofondo un motivetto suonato al pianoforte donava alla boutique un maggior senso di eleganza, per non parlare degli eleganti abiti da sera decorati da strass e perline esposti ai lati del negozio.
La commessa si avvicinò a me, nel suo completo giacca – pantalone beige, con fare garbato, accennando un sorriso e chiedendomi in che modo potesse aiutarmi.
“Devo acquistare un abito per la mia fidanzata, stasera abbiamo una cena molto importante.”
Il suo sorriso si distese ancora di più sul suo viso diafano:
“Certo, mi segua!”
 
 
“Amore, sono a casa” dissi una volta richiusa la porta d’ingresso.
Nessuna risposta e, dopo aver appeso il cappotto all’attaccapanni all’angolo dell’ingresso, mi diressi in camera da letto. Pochi  passi e sentii le ante del box doccia aprirsi.
Mi avvicinai alla porta del bagno e bussai:
“Sono tornato.”
“Entra, entra pure” rispose piena d’entusiasmo e di curiosità.
Sistemò i lembi dell’asciugamano attorno al corpo umido fissandoli al petto e venne a darmi un bacio sulle labbra:
“Allora? Gli è piaciuto?”
Sorrisi per la sua ingenuità:
“Lo saprò dopo che lo avrà letto” risposi cingendole la vita.
Stropicciò le labbra in una smorfia e, inclinando la testa:
“Quanto pensi ci vorrà?”
 “Spero poco” sospirai, dopo aver premuto le labbra sulla sua guancia fresca e ancora bagnata.
Poggiò la testa sul mio petto, bisognosa di quel contato.
“Bunny, stasera ho una cena con il mio editore. Vorrei che mi accompagnassi.”
Si scostò per potermi guardare in viso e, con gli occhi luminosi e pieni di vita:
“Davvero? Sarei felicissima!”
Sapere che volevo averla con me durante i miei impegni le dimostrava quanto tenessi a Lei e quanto fosse importante per me; le faceva capire quanto io fossi fiero di Lei e orgoglioso di far sapere a tutti quanto ne fossi innamorato.
La guardai con immenso amore notando il suo sorriso sincero e pieno di entusiasmo. Durò poco però, perché dopo alcune riflessioni, allontanandosi da me per potermi guardare negli occhi, il suo sguardo si rammaricò:
“Io… non ho nulla da indossare per stasera”, lasciò uscire un sospiro dispiaciuto e: “I miei vestiti sono al Moonlight…”
Risi divertito e lei aggrottò la fronte innervosendosi appena per la mia reazione sfacciata; stava per dire qualcosa quando:
“Vieni…” le dissi mordendole le labbra e prendendola per mano fino alla stanza da letto.
Ferma accanto allo stipite della porta, sgranò gli occhi sorpresa; sarei dovuto essere felice quando il suo sorriso diventava sempre più evidente e le sue labbra sempre più distese; dovevo gioire vedendo la ragazza che amavo che con occhi che brillavano mi guardava incredula dicendomi:
“Marzio, ma questa confezione è di una boutique costosissima… ”
Dovevo godere di quel momento in cui la sua euforia avrebbe disarmato chiunque, ma non potevo, non fino a serata conclusa:
“Vai ad aprirlo!” risposi solamente, dandole una leggera pacca sui glutei in parte scoperti dall’asciugamano.
Con cura, pian piano slegò il nastro fucsia sul quale era stampato il nome della boutique, aprì lo scatolo beige e sollevò la velina bianca che copriva l’abito:
“Oddio Marzio, è stupendo…” riuscì a dire solamente, sempre più meravigliata di ricevere quell’abito di seta nera, semplice, con le spalline dorate.
Sorrisi, notando i suoi occhi azzurri pieni di luce:
“Spero la misura vada bene, la commessa dice che in caso puoi cambiarlo.”
Scosse la testa più volte:
“No, no, no, è perfetto!”
Mentre lo teneva ancora tra le mani, facendolo aderire al corpo per vedere l’effetto davanti allo specchio, mi avvicinai a lei e, da dietro, iniziai a cingerla per i fianchi e a baciarle il collo:
“Perché non lo provi?” proposi come un sussurro caldo malizioso sulla sua pelle umida.
Si voltò, contenta, annuendo.
Poggiò delicatamente l’abito sulla poltroncina accanto allo specchio  e, con fare sensuale, sciolse i lembi dell’asciugamano lasciando che scivolasse a terra.
La guardai, e non solo negli occhi, prima di raggiungerla con un paio di passi svelti, stringendola a me e iniziando ad accarezzare la sua pelle liscia e morbida, spinto dalla passione e dal desiderio.
Mi cinse il collo con le braccia e mi baciò sulle labbra ricambiando la voglia di Lei che leggeva nei miei occhi e che avvertiva dalle mie carezze.
Per un attimo, soltanto per un attimo, temetti di perderla per sempre, di dover rinunciare a Lei per sempre; il mio cuore mancò un battito, una scarica di paura mi attraversò l’anima facendo diventare lucidi i miei occhi. Presi tra le mani il suo viso, così dolce e pieno di espressioni amorevoli ma allo stesso tempo bisognoso di quel contatto con le mie labbra e, allontanandolo poco dal mio – tanto da poterla guardare negli occhi – le dissi:
“Promettimi che non mi lascerai mai più; giurami che starai con me, sempre.” Avevo bisogno di quelle rassicurazioni, di sentirmi dire che qualunque cosa sarebbe accaduta Lei sarebbe sempre rimasta al mio fianco; sembravo un ragazzino, ero insicuro come non mai nella mia vita, ma Lei mi aveva  cambiato anche in quel senso, aveva fatto venire meno tutte le mie sicurezze in me stesso; mi aveva reso semplicemente un uomo innamorato, un uomo che temeva di perdere qualcosa che amava più della propria vita; soprattutto in vista della serata.
 
“Ti amo Marzio, te lo prometto amore mio” promise con voce sincera, stringendo le sue braccia sulla mia schiena.
Volevo crederci ma ci avrei creduto seriamente a fine serata.
In quel momento mi limitai a sollevarla da terra e sdraiarla sul letto, riprendendo a baciare la sua pelle fresca e profumata di petali di rose appena raccolte e godere di quegli attimi in cui eravamo solo noi due stretti in un abbraccio che odorava di passione e di complicità; in un mondo nostro che nessuno avrebbe mai potuto distruggere o rovinare perché il nostro amore, la nostra voglia di stare assieme e risolvere tutte le difficoltà avrebbe vinto, sempre.
 
Upper East Side – Ore 21.00

Avevo appena finito di abbottonare la giacca del mio vestito nero quando sentii il rumore dei tacchi a spillo sul parquet avanzare verso di me; mi voltai e notai Bunny che timidamente davanti la porta della stanza da letto mi chiese:
“Come sembro?”
Non risposi subito, ero ipnotizzato dalla sua bellezza; non l’avevo mai vista così dolce e sensuale contemporaneamente, neanche al Moonlight durante le esibizioni.
Lì esprimeva erotismo ma in quel momento, davanti a me, l’abito perfettamente sagomato che seguiva le sue curve prosperose e le bretelline dorate un po’ lente che ogni tanto le scendevano sulle braccia donavano a Lei un misto tra sensualità e innocenza a cui nessun uomo avrebbe saputo resistere quella sera; l’unico che avrebbe dovuto controllarsi dal prendere a pugni qualcuno che la avrebbe guardata maliziosamente sarei stato io.
Un po’ triste e dispiaciuto, avanzai verso di Lei, accarezzandole i lunghi capelli morbidi e profumati, lasciati sciolti sulle spalle nude, e facendole poggiare la schiena sulla parete della stanza da letto.
Le diedi un bacio sulle labbra, per trasmetterle le sensazioni che aveva procurato in me la visione di Lei con quell’abito; le parole sarebbero risultate banali.
“Non voglio dividerti con nessun altro stasera, ti voglio tutta per me” confessai iniziando a far scivolare le labbra sul suo collo; mi lasciò fare, arrendendosi alla mia presa sui suoi fianchi e alle mie mani sempre più desiderose di Lei che abbandonavano la seta per incontrare la pelle nuda sotto il vestito.
“Marzio, dobbiamo andare, quando torneremo sarò tutta tua” cercava di convincermi, ma il suo respiro agitato e coinvolto nelle emozioni che il mio corpo le trasmetteva tradiva le sue parole.
Posò le mani sulle mie spalle, ridendo per il solletico provocato da mio viso poco ruvido che accarezzava il suo ventre e le sue gambe lisce.
“Marzio, andiamo…” ripeteva, ma la prima a voler restare lì con me era proprio Lei.
“Adesso andiamo, adesso andiamo…” risposi mentre le sue mutandine scivolavano sul parquet.
 
Lasciammo l’appartamento di fretta e furia dopo il contrattempo piacevolissimo che comunque ci avrebbe fatto arrivare in ritardo al ristorante.
Salimmo sul taxi; destinazione Golden Kingdom, il locale più elegante e lussuoso di tutta Manhattan.
Sul sedile posteriore, Bunny sorrideva mentre stringeva la mia mano nella sua; era serena, felice, entusiasta.
Le cose stavano andando per il verso giusto, la luce era sempre più accecante nei suoi occhi azzurri col passare delle ore, la speranza che finalmente la situazione si sarebbe sistemata per Usa cresceva e fioriva come un bocciolo di rosa bianca dentro il suo cuore.
“Marzio”, attirò la mia attenzione mentre ero concentrato sui miei pensieri e sulle mie paure riguardanti il fatto che, a fine serata, le cose fra me e Bunny sarebbero potute cambiare.
La guardai, forzando un sorriso, invitandola dunque a continuare.
“Sono felice. Oggi hai visto tu stesso l’entusiasmo di Usa. Tra qualche giorno verrà effettuato il trapianto” sorrise ancora di più:
“Sono felice, amore mio.” La sua voce era allegra, Lei sempre più euforica mentre pronunciava quelle parole.
“È bello sentirtelo dire, bambina” risposi, e sperai che presto potesse aggiungersi altra felicità, che determinate situazioni si risolvessero rendendoci veramente felici.
Il taxi si fermò al semaforo rosso e, dopo un sospiro, guardando fuori dal finestrino le insegne luminose di alcuni locali, Lei continuò:
“Ancora un giorno…” una pausa e: “Ti farò soffrire Marzio.”
All’improvviso la sua voce era diventata amareggiata e piena di sensi di colpa; nonostante la felicità per la sorella, temeva di ferire me sapendomi pazzo di gelosia e desideroso di averla tutta per me, sempre; Lei stessa non accettava l’idea di doversi concedere a uomini in cerca di sesso, animali frustrati e bramosi del suo corpo senza rispetto.
In Bunny era questa la cosa che mi spiazzava in continuazione: i suoi sbalzi d’umore, il suo essere un momento prima felice come non mai e un attimo dopo triste e spaventata.
Era strana la sensazione che provavo guardando i suoi occhi perdere luminosità per poi ritrovarla poco dopo. Era strana, però allo stesso tempo piena di consapevolezza che con Lei la monotonia non si sarebbe fatta viva.
 
“Ti tiro fuori da quello schifo” sussurrai, perdendomi nel suo sguardo e baciando il dorso della sua mano ancora nella mia.
Poggiò la testa sulla mia spalla, chiudendo gli occhi come se per quel giorno non avesse più voluto pensarci ma soltanto godersi la serata.
 
Arrivammo all’entrata del locale, situato all’interno di un alto palazzo in muratura bianca, stile antico, che si distaccava dall’architettura moderna di NYC e dei suoi maestosi grattacieli.
Entrammo, mano nella mano; cercavo di tenerla per me il più possibile, temendo di perderla da un momento all’altro; era troppa la voglia di far capire a tutti che Lei fosse mia, che l’avrei protetta da tutti coloro che avrebbero desiderato sfiorarla.
Ero patetico lo so, in quel periodo però io mi definivo soltanto un uomo geloso e innamorato.
Una volta dentro, un melodia creata da arpe e pianoforte, situati alla fine dell’enorme sala, allietava i presenti seduti ai tavoli.
Ero già stato in quel locale raffinato, in cui il color oro delle tende e delle tovaglie risaltava dalle pareti color panna e dal marmo lucente con venature argentee donando una meravigliosa sensazione e percezione di lusso ed eleganza; ma quella sera era tutto diverso, essere lì con Bunny, vederla estasiata da tutto quello sfarzo, notando la sua ingenuità con la quale si guardava attorno stupita, rendeva tutto tremendamente nuovo e speciale.
 
Subito dopo notai un tavolo rotondo accanto allo spazio riservato a coloro che intendessero ballare durante la serata; Mister Taiki osservava alcune coppie sulla quarantina esibirsi in un lento.
Continuando a tenerla per mano lo raggiungemmo e lui, avvertendo le nostre presenze farsi sempre più vicine, si voltò.
Non fu soltanto una mia impressione dettata dalla maledetta gelosia, fu proprio lui che rimase immobile non appena notò Bunny. Man mano che Lei si avvicinava a lui, i suoi occhi castani sembravano ipnotizzarsi alla vista dei suoi lunghi capelli dorati, morbidi che come onde scendevano sul soprabito nero.
Il respiro gli si fermò un istante quando i suoi occhi si fermarono sulle labbra carnose e rosse come una ciliegia di Bunny, leggermente schiuse. Non si mosse Taiki, non fino a quando gli occhi di Lei incrociarono i suoi; senza considerarmi, le si avvicinò prendendole una mano e baciandone il dorso.
“Tu devi essere Bunny” sospirò attento a non soffocare nel suo stesso respiro.
Sorrise Lei, con la timidezza che era soltanto sua: “Per me è un piacere conoscerla, Mister Taiki” rispose abbassando il capo; mentre io guardavo la scena, perplesso, da spettatore esterno e invisibile.
Lui non lasciò la sua mano, anzi, riportandola alle labbra, sempre più incantato dagli occhi azzurri così limpidi e cristallini e da quella voce angelica che avrebbe fatto amare il Paradiso anche a Satana, le sfiorò nuovamente il dorso con le labbra:
“Il piacere è tutto mio” ribatté con voce calda e sensuale.
Aveva ragione, era l’unico a provare piacere; io sentivo solo rabbia dentro, impotenza e frustrazione immaginando cosa frullasse nella sua testa, capendo i suoi pensieri e non potendo fare nulla per evitare che continuasse a flirtare con Lei.
Tolsi il soprabito, sperando che i miei movimenti lo distogliessero da quella magia che solo Bunny riusciva a creare in tutti coloro che incrociassero il suo sguardo.
Ma anche in quel caso, la vista con la coda dell’occhio di me che appendevo il cappotto all’attaccapanni appeso al muro, gli diede l’idea:
“Permetti che ti aiuti?” chiese, andandole dietro e facendo scivolare il tessuto caldo sulle braccia prima di sfilarglielo del tutto.
Bunny rimase di stucco, sorpresa dall’atteggiamento molto caloroso dell’uomo sconosciuto e tra l’altro mio editore; le avevo sempre parlato di lui come un uomo freddo e distaccato e dunque non si aspettava una presentazione così affettuosa. Non disse nulla, si limitò a incrociare i suoi occhi coi miei mentre lui era di spalle, intento ad appenderle il soprabito.
Le sorrisi debolmente, cercando di non far trasparire il mio nervoso.
Ci accomodammo al tavolo; io guardavo Lei, cercando di comprendere il suo disagio mentre, con le mani sulle gambe e le braccia visibilmente tese, cercava di non guardare gli occhi del boss che inevitabilmente percepiva sulle sue guance rosee per poi scendere e fermarsi sulla sua scollatura.
 
“Allora, Bunny, Marzio mi ha parlato molto di te; lavori al Moonlight, giusto?”
Lo avrei ucciso in quel momento; lo avrei letteralmente fatto fuori facendogli pagare anche il suo comportamento sfacciato fino al quel momento tenuto.
Lei rimase per un attimo spiazzata; per Lei lavorare al Moonlight era mortificante, umiliante, se ne vergognava e si sentiva sporca ogni volta che saliva su quel palco e sentiva gli occhi di tutti sul suo corpo. Deglutì, cercando di trattenere le lacrime che la sua emotività le rendeva facili. Cercava di rispondere nel miglior modo possibile, in maniera educata; sapeva che quella cena sarebbe stata utile ai fini del mio libro… non sapeva di quale libro perché non le avevo mai parlato dell’offerta di Lady Amy ma, tutto sommato, sapeva di un libro.  
Annuì tenendo gli occhi bassi sulle mani, strette a pugno sulle gambe, con un’espressione fatta di imbarazzo sul viso.
“Sì, è così” confermò. Un attimo di silenzio in cui nessuno di noi tre sapeva come continuare, poi Lei aggiunse: “Ho perso i genitori l’anno scorso e mia sorella ha bisogno di cure costosissime.” Alzò gli occhi incontrando i suoi e, fiera di sé: “Lo faccio per mia sorella.”
La sua voce era triste, tremava, e io avrei tanto voluto stringerla a me e sussurrarle ‘mi dispiace, perdonami, torniamo a casa e dimentichiamo tutto’.
Mi limitai però ad allungare una mano e posarla sulla sua, sopra la sua gamba; notandola evitare il mio sguardo e abbassare nuovamente gli occhi, fissi sulla mia mano che col pollice accarezzava la sua.
Guardai subito dopo Mister Taiki in maniera eloquente, sperando che finisse di metterla a disagio.
Lo capì da solo o forse furono i nostri volti leggermente imbarazzati a farlo smettere.
“Marzio mi ha già detto che sei speciale” riprese cercando di essere meno brusco e invadente, “quello che fai è ammirevole.”
E fu quello il primo momento, in un anno che conoscevo Mister Taiki, in cui vidi nascere un sorriso spontaneo e pieno di tenerezza dalle sue labbra sottili mentre cercava gli occhi di Bunny ancora tenuti bassi.
Anche Lei, dopo un istante di esitazione, lo guardò, sorridendo di rimando per educazione.
Fortunatamente quel momento di tensione fu interrotto da un cameriere che, avvicinandosi, ci porse dei menu stampati in carta bianca in cui risaltava in dorato il nome del ristorante.
Ordinammo, su consiglio di Mister Taiki che ci suggerì di scegliere alcune specialità del ristorante a base di pesce.
Per fortuna la cena fu accompagnata da una conversazione più leggera e piacevole; Taiki non sembrava il solito editore della casa editrice più rinomata di tutta NYC a cena con suo autore; per la prima volta lo sentivo ridere, lo vedevo rilassato; Bunny aveva catturato la sua completa attenzione; non mi guardava molto, solo quando  si ritrovava a fissare di fronte a sé, per il resto rimaneva girato alla sua destra a chiacchierare con Lei, escludendomi, facendomi sentire di troppo. Dove voleva arrivare? Non lo sapevo e quel misto di perplessità e curiosità mi faceva paura; fin dove si sarebbe spinto? E io fin dove gli avrei permesso di spingersi?
Arrivò il dessert, io e il boss avevamo scelto una fetta di torta alle mandorle, Bunny invece ne aveva preferito una al limone e fragole.
Feci scivolare la forchetta da dessert nel pezzo di torta per poi avvicinarla alle labbra di Bunny e invitarla: “Assaggiala”, sapendo che ne era golosa; sapevo che non era da galateo quel comportamento ma, in fin dei conti, quello tenuto da Taiki fin a quel momento lo era stato?
Bunny sorrise, timida, prima di socchiudere le labbra per poi richiuderle e assaporare quel pezzo di dolce, leccandosi velocemente le labbra per raccogliere i granelli di mandorla rimasti lì, dove chiunque avrebbe voluto rimanere.
Lo fece rapidamente ma forse non troppo dato che lui rimase ipnotizzato da quel gesto che racchiudeva tanta sensualità ingenua. Ci guardò, accorgendosi di quel momento in cui i miei occhi erano persi in quelli di Lei, notò i nostri sguardi, il nostro amore manifestato anche in quel breve istante tramite un dolce sorriso reciproco. Eravamo soltanto noi due in quei pochi secondi; nessun altro nella sala, nessun altro al nostro tavolo, niente musica, parole, sguardi indiscreti. Soltanto io e Lei, occhi negli occhi, complici più che mai.
“Ti piace?” sussurrai dolcemente come si usa con una bambina.
Abbassò le palpebre, annuendo e distendendo le labbra. Sembrava davvero una bambina. Taiki ci osservava e più la nostra complicità cresceva, più il suo sorriso diminuiva, incredulo probabilmente che a NYC il sentimento tanto noto quanto leggendario esistesse davvero e fosse lì sotto ai suoi occhi.
 
Quando finimmo di gustare il dolce, Taiki si abbottonò la giacca blu e si alzò in piedi; avvicinandosi a Bunny chiese: “Mi concedi un ballo?”
Lei ne rimase sorpresa, si voltò verso di me, non capendo o semplicemente in cerca di un consenso; le sorrisi e il mio sguardo la rasserenò. Annuì guardandolo negli occhi e si alzò.
“Te la rubo per un po’” comunicò lui con voce sfacciata e divertita mentre le metteva una mano sul fianco e la conduceva al centro della pista da ballo. Bunny era sempre più confusa, la vedevo con le mani chiuse a pugno all’altezza del petto e gli occhi dritti davanti a sé per non incontrare quelli del boss; percepivo il suo disagio  ma non potevo fare nulla; sapevo che la serata avrebbe sicuramente preso quella piega già da quella mattina, ma era una piega che portava a Moonlight e alla possibilità di liberarla dalle grinfie di Lady Amy. Dovevo seguire quella piega; dovevo farlo per Amore, per Bunny, per noi.
E così, ripetendo nella mia testa la risposta che avrei dovuto dare a lui ‘Ho tutta la vita per stare con Lei’, poggiai il gomito sulla spalliera della sedia, osservandoli ballare.
 
I battiti del mio cuore erano sempre più irregolari, un vuoto all’anima sempre più percepibile mentre mi accorgevo di lui che faceva scendere la mano dalla schiena molto più giù fino a posarla sopra i glutei; il mio cuore mancò un battito quando capii che cercava di spingerla ancora più a sé per sentire meglio il loro contatto, e avrei voluto alzarmi quando notai l’espressione di Bunny imbarazzata, a disagio, che con occhi bassi tentava invano di aumentare la distanza tra i loro corpi. Mi guardò, mostrandomi un pizzico di paura dai suoi occhi; credo che essa aumentò quando vide il mio viso abbassarsi e smettere di guardarla dopo un dolce sorriso.
Avrei voluto ballare io con Lei, stringerla forte tra le mie braccia e farla volteggiare davanti a tutti, rapiti dai sorrisi pieni di vita che sarebbero usciti dalle sue labbra. Le avrei sussurrato ‘Ti amo, amore mio’ e Lei avrebbe risposto ‘Anche io, Marzio’ aggrappandosi a me per evitare di inciampare a causa del mio entusiasmo col quale l’avrei fatta danzare tutta la sera.
E invece no; invece c’era lui a stringerla contro la sua volontà e io, al contrario di come feci al Moonlight, quella volta non potevo intervenire.
 
Quando finirono di ballare decidemmo di andare via; il boss si limitò a baciare nuovamente la mano di Bunny in segno di saluto e, voltandosi verso di me disse:
“Domani mattina ti aspetto alle 9.00; abbiamo un contratto da firmare”; si diresse dopo vero la Jaguar nera parcheggiata alle mie spalle senza darmi il tempo di aggiungere qualcosa.
 
Arrivammo a casa; Bunny non aveva parlato per tutto il tragitto in taxi ed io sapevo che era arrabbiata anche con me. Per quanto riguardava me, ero in parte felice; sapevo che il giorno dopo avremmo firmato il contratto con Lady Amy ma la paura di un eventuale ripensamento del boss, di un suo voler ripetere l’incontro con Lei, l’idea di altri compromessi mi rendeva ansioso e incapace di sentirmi felice e rilassato fin in fondo; almeno fin quando non avrei sottoscritto insieme a Taiki il contratto.
 
Chiusi la porta d’ingresso alle mie spalle e, subito dopo, togliendosi le scarpe e ritornando nel suo metro e sessantacinque centimetri di rabbia; Bunny si voltò verso di me con le guance rigate dalle lacrime.
“Bunny…” la mia voce era spezzata, non sapevo cosa dire, sapevo perché piangeva ma non potevo dirle ancora la verità.
“Cosa sono per te, Marzio?” domandò piena di ira e di delusione;
“Rispondimi, cosa sono per te? Un trofeo da esibire? Una garanzia per i tuoi contratti?” Le sue parole risultavano sempre più affannate mentre i suoi occhi si rivestivano di lacrime amare.
Scossi la testa, dispiaciuto, triste, impotente.
“Rispondimi Marzio! È per il tuo libro che hai permesso che quel porco mi toccasse mentre ballavamo?”
Lasciò uscire tutto lo sconforto che aveva accumulato per tutta la serata mentre io, con la schiena poggiata alla parete, non riuscivo a dire nulla ma continuavo a scuotere la testa.
“Perché gli hai permesso di trattarmi come una puttana?”, una pausa in cui cercava di riflettere meglio e: “Sono una puttana per te?” continuò sconfortata, venendomi accanto e inclinando la testa per incontrare i miei occhi che tenevo bassi.
“No, che dici! Tu sei la cosa più importante della mia vita.” Quella volta dovetti rispondere, dovevo farle capire che Lei fosse sul serio la persona per la quale avrei fatto di tutto.
“Perché mi hai fatto umiliare? Perché gli hai detto del Moonlight?”, passò svelta le dita sulle guance per asciugarle: “Sai quanto mi vergogni di lavorare lì; che bisogno c’era di dirglielo?”
Le sue ultime frasi mi fecero male per la delusione e per il dolore che si avvertiva mentre venivano pronunciate tra un singhiozzo e l’altro, mentre teneva gli occhi fissi su di me, mortificata.
“Bunny, amore mio perdonami” pregai inutilmente.
“Io mi fidavo di te” confessò con una mano sul petto e gli occhi pieni di amarezza;
“Io credevo mi amassi e volessi proteggermi, sempre.” Il suo tono era diventato più calmo, forse perché era la delusione che diveniva maggiore dentro di Lei.
“Sì, è così amore mio”, annuii e cercai di farla calmare prendendole una mano; ma si allontanò subito, d’istinto, e questo mi fece ancora più male perché si era sempre fidata di me, anche quando non mi conosceva, specialmente la prima sera che la vidi al Moonlight.
“Sono una stupida che crede nell’amore; dovevo capire che mi volevi solo perché ti faceva comodo un corpo da esibire per assicurarti i contratti col tuo editore.” Scuoteva il capo camminando su e giù per il salone e passava velocemente le mani tra i capelli, portandoli all’indietro; un gesto col quale credo volesse cercare di svegliarsi da quell’incubo in cui credeva che l’unica persona di cui si fidasse l’avesse tradita.
“Ora sei ingiusta, stai dicendo un sacco di cazzate!” In quell’istante il mio tono fu alto e alterato; poteva mettere in dubbio tutto nella mia vita ma non il mio Amore per Lei.
“E tu sei uno stronzo!” ribatté con tutto il fiato che aveva nei polmoni, fermandosi e voltandosi ad incontrare i miei occhi;
“La colpa è mia; avrei dovuto dargli uno schiaffo e andarmene via.” Un sorriso nervoso e: “E invece per paura che ci andasse di mezzo il tuo lavoro mi son fatta umiliare in quel modo.”
Mi sentii un verme; Lei lo aveva fatto per Amore e non sapeva che anche io lo avessi permesso solo per Amore che provavo soltanto per Lei. Sospirai anche se la voglia di dirle la verità fregandomene se il giorno dopo le cose fossero andate diversamente e si fosse illusa; ma poi pensai stupidamente che era troppo arrabbiata per credermi e così, scelsi il silenzio.
Stropicciò le labbra in una smorfia di dolore che io le avevo causato; un dolore che trasformava il suo Amore per me in odio; si girò e si diresse nella stanza degli ospiti, sbattendo con tutta l’ira che aveva dentro la porta alle sue spalle.
Ed io rimasi lì, al buio, in quella stanza che sembrava troppo grande senza di Lei. Mi lasciai scivolare a terra, temendo di aver appena perduto colei per la quale avevo cercato di fare l’impossibile per renderla felice e dimostrarle il mio Amore.
Con la testa poggiata alla parete, udendo soltanto il rumore di alcune auto che di rado percorrevano l’Upper East Side, mi ritrovai per la seconda volta in un giorno a riflettere sul rapporto tra Amore, odio e compromesso.
Lei aveva appena scelto l’odio, io invece il compromesso. Entrambi, per Amore.
 
Il punto dell’autrice
 
Carissimi e fedelissimi lettori, innanzitutto chiedo umilmente perdono per questa attesa; come saprete ho iniziato da poco
La melodia del cuore e quindi capita che spesso gli aggiornamenti di Moonlight vengano rallentati per dar spazio anche all’altra mia fan fiction.
Questo capitolo è stato molto difficile da scrivere, soprattutto la parte finale; ho cercato di descriverla per come la immaginavo io anche se, come al solito, non ne sono soddisfatta. Credo che la rivedrò in seguito quando revisionerò tutta
Moonlight.
Per ora spero che a voi il capitolo sia piaciuto e che l’attesa sia stata ben ripagata. Come al solito ringrazio tutti coloro che mi seguono con affetto, in particolare coloro che hanno inserito Moonlight fra le preferite o semplicemente tra le seguite.
Ci tenevo tantissimo a dedicare con tutto il cuore questo capitolo alla mia carissima amica Gabry; so che la sua fan fiction preferita è
La melodia del cuore però desidero dedicarle questo capitolo perché ho saputo da lei (che mi ha autorizzata a fare il suo nome) che è grazie alla lettura di Moonlight che ha deciso di lottare contro una brutta malattia e di vincerla.
Carissima Gabry, te lo dedico con tanto affetto.

Io sono felicissima e credo che sapere che un proprio lavoro, oltre a donare momenti di piacevole lettura, possa servire a qualcosa di più serio e importante – come in questo caso - sia la soddisfazione più bella che un’autrice possa ricevere. Per me lo è.
Cercherò di non farvi attendere molto per il cap.16, promesso; nel frattempo spero di ricevere le vostre impressioni e i vostri commenti su questo capitolo. Anche se negative le vostre recensioni son sempre gradite!
Un bacione e a presto!

Demy


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Capitolo 16
*** Moonlight - La storia nella storia ***


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Cap. 16: Moonlight - La storia nella storia



24 Novembre – Ore 8.45

Camminavo a passo svelto per le strade dell’Upper East Side, ansioso di raggiungere la RoseEdition; se dovessi paragonare il mio umore quel giorno sicuramente il tempo faceva al caso mio.
Le nuvole dense rivestivano il cielo della City rendendolo grigio, cupo, preannunciando pioggia se non una vera e propria bufera. La notte precedente non avevo dormito molto; ero amareggiato, mi sentivo in colpa per averla fatta stare male e per averla mortificata. Lei mi credeva un approfittatore e, per quanto cercassi di mettermi nei suoi panni, ne ero deluso. Io avevo sempre fatto di tutto per dimostrarle che poteva fidarsi di me, la avevo protetta, difesa, mi ero preso cura di Lei in quei dieci giorni; come aveva potuto dirmi quelle cose dopo tutto ciò che era accaduto in precedenza? Io la amavo, la amavo davvero tanto però le sue parole, sinceramente, mi avevano spiazzato. Io mi fidavo di Bunny, conoscendola mi sarei fidato in qualunque situazione. Lei lo aveva fatto con me? No. Non lo avevo fatto. A prima occasione non si era fidata di me, anzi, senza permettermi di spiegarle, mi aveva buttato adesso la sua rabbia sbattendo la porta della stanza per gli ospiti e lasciandomi solo in quel letto che, dopo aver conosciuto solo me per sette anni, quella notte sembrava troppo grande senza di Lei.
Dicono che c’è sempre una spiegazione a tutto ma Lei, la notte precedente, aveva trovato quella sbagliata ed io, a mente lucida, capii che in fondo non ero stato l’unico a sbagliare. Lei aveva sbagliato come me, se non di più.
 
Arrivato nella stanza del boss cercai di contenere tutta la mia ira e il mio rancore per il suo modo di comportarsi la sera precedente, mettendo Bunny in imbarazzo e mancando di rispetto sia a Lei stessa che a me.
Era tranquillamente seduto sulla sua poltrona di pelle nera, con il suo solito modo di accavallare le gambe. Leggeva alcuni fogli di un manoscritto e con una mano continuava a premere la molla della penna d’argento provocando un fastidioso ticchettio.
Alzò gli occhi da quello che, dalla sua espressione, sembrava un interessante romanzo e, sorridendo pieno d’entusiasmo, mi invitò ad accomodarmi con un cenno della testa.
Ero sorpreso; non l’avevo mai visto di buon umore come quella mattina ed era la prima volta che mi offriva un’espressione serena.
“Ieri sera è stata una bellissima serata” disse richiudendo il manoscritto di fretta tanto da provocare uno spiffero d’aria e facendolo strisciare verso il bordo della scrivania.
Non risposi; era meglio così.
“Dunque, Chiba, Credo dovremmo parlare del contratto con Lady Moonlight.”
Anche quando si trattava di parlare d’affari non perdeva l’abitudine di fare battute ironiche, soprattutto nei confronti delle donne che non aveva visto inizialmente in maniera positiva.
Annuii, permettendogli di continuare.
Coi gomiti portati in avanti sulla scrivania e la penna che girava tra le sue mani iniziò:
“Ieri mi sono comportato da stronzo, ti ringrazio per non avermi spaccato la faccia.” Con un sorriso divertito: “Ero preparato anche a quello.”
Lo guardai incredulo senza proferire una sola parola ma spiazzato dalla sua confessione.
“Bunny è una brava ragazza, non sembra neanche una newyorker. Sei sicuro che non provenga dalla Luna?” chiese con tono sempre più divertito.
“Lei è speciale, lo so” risposi consapevole, anche se la sensazione di delusione non mi abbandonava.
“Voglio aiutarvi. Lei non ha niente a che vedere col bordello di Lady Moonlight” giudicò, e io a quel punto pensai che la sua era stata una tattica per vedere fino a che punto Bunny si sarebbe trattenuta prima di tirare fuori gli artigli e comportarsi in maniera sfacciata e spudorata tipica delle Moonlight dancers. E quando Lei si era irrigidita alla sua presa sempre più viscida durante il ballo cercando di sfuggirgli, aveva capito che Lei era ingenua, timida, non era capace di nascondere il proprio imbarazzo ed evidentemente il Moonlight non era il luogo per Lei.
Volevo rispondergli ma la sua bocca rimaneva sempre socchiusa come se intendesse continuare, così tacqui.
“Credo sarebbe un’ottima idea una storia d’amore con protagonista Bunny. Le lettrici ne rimarrebbero colpite.”
“Sì, sì lo credo pure io.”
Provavo uno strano calore al cuore, come se finalmente le cose stessero andando nel verso giusto. Non mi sembrava possibile.
D’un tratto la sua voce ritornò seria; in quel momento sì che si iniziava a parlare d’affari importanti.
“Chiba, di solito leggo i manoscritti prima di sottoscrivere i contratti con gli autori.”
E lì, temetti di morire, che il mio cuore mi abbandonasse; pensai che volesse leggere la storia prima di accettare, ma poi:
“Sei un bravo autore, la critica ha detto del tuo primo libro che riesci ad esternare i sentimenti e le emozioni molto bene.” Una pausa e:
“Voglio fidarmi di te. Accetto di firmare il contratto ma non mi deludere. Ovviamente ti seguirò passo dopo passo e rivedremo assieme i pezzi che non mi convinceranno.”
Nonostante quelle parole non potei fare a meno di sorridere, di gioire, l’avrei persino abbracciato!
“Non se ne pentirà Mister Taiki. Non la deluderò.”
Annuì per alcuni secondi, iniziando a far roteare la poltrona da destra verso sinistra; rifletteva, e:
“Il titolo sarà Moonlight, ma la storia dovrà vertere sulla vostra storia d’amore e su tutto ciò che di Lei colpisce e fa innamorare rendendola speciale. Sei in grado di farlo?”
“Certo; se finora è stata un’ispiratrice per il mio libro, figuriamoci se non riesca a scrivere una storia d’amore su di Lei.” Dalla mia voce era percepibile la mia estrema felicità.
Annuì, sempre più pensieroso:
“Bene… bene.”
Si alzò dalla poltrona massaggiandosi il collo con le mani:
“Ovviamente mettici pure qualche momento trascorso al Moonlight, altrimenti mi sa che la signora si sentirà presa per il culo.”
“Crede che Lady Amy si tirerà indietro quando le parleremo delle idee per il libro?” domandai credendo per un attimo che ciò non fosse quello che la ragazza volesse.
Scosse il capo, stropicciando le labbra in un’espressione sempre più confusa e assorta tenendo il mento con una mano chiusa a pugno e lo sguardo basso:
“No, non credo. Io sono l’editore e so cosa si vende e cosa no. Lei vuole la pubblicità ma questa si ottiene anche senza parlare esclusivamente di balletti e tette di fuori.”
Si voltò verso di me e, con l’indice puntato nella mia direzione continuò:
“E noi le daremo la pubblicità ma puntando su ciò che piace alle lettrici: una storia d’amore struggente.”
Sorrisi; era un bastardo ma era anche il numero uno negli affari!
Il telefono squillò e lui si avvicinò alla scrivania per prendere la cornetta e portarla all’orecchio. Rimase a sentire l’interlocutore per pochi secondi, con la mano libera dentro la tasca del pantalone beige di velluto, dopo aggiunse:
“Falla passare.”
Mi guardò, riponendo la cornetta del telefono e mi informò:
“Ho chiamato stamane anche Lady Amy, è qui!”
E io rimasi incredulo; non avrei mai pensato che prendesse l’iniziativa a fissare direttamente da sé l’incontro.
Non ebbi il tempo per ulteriori riflessioni che la porta si aprì e Lenya, nel suo tailleur rosso magenta con un sorriso cordiale, invitò la ragazza dai capelli tinti di blu ad entrare.
Taiki con un cenno del capo ringraziò la segretaria congedandola e, avvicinandosi alla giovane ragazza dall’aria seria e matura le porse la mano:
“Grazie di essere venuta nonostante il breve preavviso. È un piacere conoscerla!”
La guardava fisso negli occhi turchesi e pieni di intensità, valorizzati da un ombretto dorato. La sua mano era ancora stretta in quella della mistress quando questa, accennando un sorriso di convenienza, rispose:
“Non importa. È un piacere anche per me, Mister Taiki. La sua fama è notevole.”
Lui rise, fiero e soddisfatto, lasciando scivolare via la mano e prendendo posto sulla sua poltrona.
“Si accomodi pure, Lady Amy” aggiunse indicando la poltrona accanto alla mia. Solo mentre toglieva il lungo soprabito blu prima di prendere posto, mi sorrise e abbassò il capo in segno di saluto.
Diciamo che entrambi usavano le parole col contagocce!
“Buongiorno Lady Amy” risposi gentilmente rimanendo poggiato allo schienale della comoda poltrona di pelle nera.
Mentre si sedeva notai il modo di Taiki di osservarla; di squadrarla dalla testa ai piedi partendo dalla camicetta bianca di raso lucido e scendendo sulla gonna nera appena sopra il ginocchio.
E quando lei accavallò le gambe con fare elegante, credo che per un istante il boss fu rapito da quel movimento lento e sensuale; presumo che la considerò diversamente da come aveva fatto fin a quel momento. Una donna d’affari, ma non solo!
“Dunque, ho parlato col mio autore e siamo disposti a darle la pubblicità che chiede per il suo locale.” Iniziò in maniera rapida, sintetica e decisa, con i gomiti sulla scrivania e le dita delle mani incrociate fra loro.
“Però ovviamente come lei saprà, il campo dell’editoria non è come un semplice spot televisivo o un manifesto su Time Square.”
La donna si inclinò leggermente a sinistra, poggiando il gomito sul bracciolo e portando il dorso della mano sotto al mento. Annuì, in attesa di capire dove volesse arrivare il boss col suo discorso.
 “Non possiamo parlare in un libro di esibizioni e ballerine; lei capisce cosa intendo giusto? Gli uomini non leggono questi libri, preferiscono direttamente venire al locale.” Lo aveva appena detto come si usa fare coi bambini, in modo che il concetto fosse stato chiaro e lineare, usando un tono stranamente calmo e gentile.
La ragazza si schiarì la voce con un colpo di tosse e, portandosi dritta sulla schiena, con le braccia conserte, rispose:
“Beh, non ho mai detto questo al suo autore.” Mi guardò per un attimo, mostrandomi la sua freddezza dai suoi occhi turchesi ma privi di emozioni; riprese subito, ridandomi il profilo e guardando in faccia il boss:
“Mister Taiki, sono una donna, non sono una stupida!” Una risata divertita e: “Lavoro con gli uomini da ormai quattro anni. So che gli unici libri che leggono i miei clienti sono libri illustrati”, continuò con sguardo eloquente quando si soffermò sulle ultime due parole.
Io e il boss ci guardammo e vidi in lui la voglia di trattenere una risata, come se anche lui facesse parte di coloro che leggono quel genere di riviste a cui la ragazza si riferiva.
“Bene; ho parlato col mio autore e vorremmo che il libro Moonlight parlasse principalmente della storia d’amore con Bunny, sua dipendente. Ovviamente la maggior parte delle scene saranno ambientate al Moonlight.”
“Certo, lo avevo già detto al ragazzo che poteva parlare della storia d’amore. A me interessa la pubblicità.”
“Infatti. Ovviamente sappia che essendo soggetta al giudizio di tantissime persone, c’è chi la troverà assurda, chi la troverà strappalacrime, chi non vedrà l’ora di andare a letto per poterla leggere prima di dormire.” Un attimo di silenzio e poi aggiunse:
“In ogni caso tutti sapranno che sull’East Side di Manhattan c’è un locale chiamato Moonlight”, facendole l’occhiolino.
Lady Amy sorrise annuendo, lasciando andare un sospiro di sollievo e fidandosi della bravura del boss tanto rinomata.
“Credo potremmo dunque passare a firmare il contratto, dico bene?” chiese ravviandosi alcune ciocche che involontariamente le erano scese davanti agli occhi.
“Prima il contratto della ragazza” ordinò lui con tono rigido e serio, allungando la mano aperta verso la mistress.
Lei rimase di stucco, non aspettandosi un tale atteggiamento privo della benché minima fiducia. Con una smorfia sdegnata che sfociò in un sorriso forzato, prese la sua Chanel color panna e tirò fuori una carpetta plastificata.
La porse all’uomo senza smettere di guardarlo. I loro occhi si incontravano e si scontravano in uno sguardo acuto fatto di intensi dialoghi silenziosi.
Era una sfida di potere, creata da movimenti e da frasi che cercavano di segnare la supremazia, la vittoria tra il mondo maschile degli affari e quello in cui le donne rivendicavano fiducia e rispetto. Era una lotta tacita  fra loro, ma odorava di passione.
 Lui estrasse i fogli pinzati tra loro dalla custodia trasparente e iniziò a controllarli. Dopo aver letto l’ultima pagina lo passò a me.
Non ebbi tempo di dir nulla che lui aggiunse:
“Come clausola del contratto, aggiungerò che il contratto della ragazza verrà sostituito da quello che andremo a sottoscrivere, e dunque perderà di efficacia.” Si poggiò allo schienale, comodamente, e incrociando le braccia al petto continuò: “Dico bene?” con aria di sfida. Di nuovo.
La ragazza sembrò infastidita da quell’atteggiamento guardingo e io temetti che la loro stupida sfida sfociasse in una guerra in cui avremmo perso io e Bunny.
“Mister Taiki, su, non so lei ma io di solito tratto con persone serie.”
Un sorriso vittorioso nacque dalle labbra sottili ma astute del capo.
 
E così, in quel giorno di fine Novembre, in una stanza di un grattacielo dell’Upper East Side, Lady Ami Mizuno, Mister Taiki Kou e il sottoscritto diedero inizio, con tre firme, a quello che per la mistress avrebbe rappresentato una fonte di pubblicità; per il boss un altro successo firmato RoseEdition; e per me e Bunny semplicemente l’inizio della tanto desiderata Libertà.
Signori e signore, prese vita Moonlight.
 
Dopo gli ultimi dettagli, Lady Amy, alzandosi dalla poltrona e indossando il soprabito, mi guardò e disse:
“Il contratto di Bunny adesso è tuo; fanne quello che vuoi.” Sistemò il colletto del cappotto e riprese: “E dille di passare oggi a prendere le sue cose. La stanza mi serve libera.”
Annuii con un enorme sorriso di gioia immensa sul viso, alzandomi per prendere la valigetta che avevo poggiato sul divano dietro le due poltrone. Non c’era più bisogno di rimanere.
Avevo così tanta voglia di urlare e liberarmi da tutta quell’ansia accumulata in quei giorni; l’idea di Libertà era ormai una certezza eppure così lontanamente percepibile. Dovevo tornare a casa. Solo quando avrei visto gli occhi di Bunny illuminarsi per la felicità, quando avrei letto nel suo sguardo commosso il senso di liberazione, ne avrei preso consapevolezza.
Prima che potessi salutarli, Taiki, porgendo la mano alla ragazza, già davanti alla porta, disse con voce calda e sicura di sé:
“Sono contento di questa proficua collaborazione.” Lei sorrise, per una volta sinceramente, perdendosi nei suoi occhi intensi ed eloquenti.
“Se le va, uno di questi giorni potremmo vederci per pranzo.” Non c’era altro bisogno per lui di specificare o di inventare banali approcci; quella era NYC e Amy aveva già capito tutto.
“Perché no; il mio numero ce l’ha” rispose soltanto, alzando leggermente una spalla e cercando di mantenere un’aria quasi indifferente. “Ovviamente dovrò prima controllare i miei impegni segnati in agenda” si affrettò ad aggiungere per mantenere la sua dignità di mistress.
Taiki  lasciò la sua mano, socchiudendo le palpebre in segno d’assenso.
Chi lo sa; magari Moonlight avrebbe rappresentato qualcos’altro per entrambi oltre ad una ‘proficua collaborazione’.
 
Tutta l’ansia, la tensione e pure la delusione che albergava nel mio cuore si stava dissolvendo pian piano che lasciavo il maestoso grattacielo dirigendomi da Lei.
Avrebbe finalmente capito il motivo per cui avevo permesso che Taiki si comportasse da porco, mi avrebbe perdonato per non essermi intromesso. Ed io ero troppo felice per portare rancore per la mancata fiducia. La avrei perdonata a mia volta per non aver creduto in me e nelle mie buone intenzioni; intenzioni per nulla da approfittatore.
Avremmo chiarito, fatto pace e festeggiato per quella nuova vita che pian piano stavamo costruendo assieme. Una vita migliore per entrambi.
L’incubo che mi aveva lasciato insonne parecchie notti, cercando una soluzione per tirarla fuori dal Moonlight finalmente era finito e, anche se rimaneva il problema di Usa e di un possibile rigetto al trapianto, ero tranquillo del fatto che Lei era salva, tranquilla, al sicuro lontano da quello schifo.
 
Il salone era ancora al buio; le saracinesche non erano state ancora alzate; la stanza sembrava pervasa da un grigiore soffocante. Una scia di luce proveniva dalla camera da letto riflettendosi sul pavimento. Lentamente mi avvicinai, rompendo il silenzio coi miei passi che rimbombavano sul parquet.
Il cuore per un attimo si fermò quando vidi il borsone di Bunny sopra al letto perfettamente rifatto. Scorgendo alla mia sinistra, l’anta dell’armadio era aperta e, d’un tratto, Lei riapparve con alcuni maglioni tra le mani.
Non poteva essere… Non poteva accadere sul serio…
“Che diavolo significa?” domandai con voce sempre più tremante e nervosa quando incontrai i suoi occhi.
Colta in flagrante, chiuse le palpebre, sospirando.
“Credo sia meglio così” rispose, abbassando gli occhi verso i pullover, con un filo di voce.
Deglutii a fatica, iniziando a sentire sempre più caldo. Mi mancava l’aria, il mio respiro era sempre più affannato.
Tolsi il cappotto tirandolo con rabbia sul letto tanto da farla meravigliare per quel mio gesto.
Presi un grosso respiro, come a cercare di prendere ossigeno, e:
“Perché?” lo sussurrai solamente. La voce mi stava abbandonando.
“Perché ho sbagliato a fidarmi di te.” Era convinta, decisa… cattiva e ingiusta mentre metteva dentro le ultime cose nel borsone.
“Pensavo che stanotte avessi riflettuto e capito di aver esagerato ieri e invece…” Non mi davo pace all’idea che veramente pensasse determinate cose su di me. Mi sedetti sul bordo del letto; le mie gambe stavano per cedere.
Lasciando perdere i suoi preparativi e avvicinandosi a me per potermi guardare negli occhi iniziò:
“Marzio, ieri mattina sei venuto qui con un vestito costato minimo 300 dollari dicendomi che volevi che ti accompagnassi alla cena. E poi capisco che era tutto organizzato per permettere a quello schifoso di trattarmi come una puttana.” Era incredula anche Lei ricordando la serata. Non le era facile immaginare che io fossi complice dello ‘schifoso’.
Lasciò uscire la sua ansia e il suo rammarico con un sospiro mentre tirava all’indietro la frangia.
“Dimmi una cosa, Bunny. Ti ho mai dato motivo per non meritare la tua fiducia?” Inizialmente era una domanda sussurrata ma poi la delusione che avevo dentro, unita alla rabbia, fece sì che il mio tono diventasse esasperato. Alto.
“Ti ho mai dato motivo quando Seiya voleva scoparti?” urlai. Sussultò, spaventata.
“Ti ho mai dato motivo quando Lady Amy voleva farti scopare la sera dopo da uno dei tanti clienti?”
Rimase in silenzio, forse pentita. Sapeva che in quelle situazioni avrei potuto approfittare di Lei come tutti gli altri. Maledizione, sì che lo sapeva!
“Rispondimi Bunny!” continuai a voce così alta da sentire pizzicare la gola.
Indietreggiò, notando il mio viso rosso e i miei occhi sempre più colmi di ira; il suo respiro era sempre più affannato, i suoi seni si muovevano sempre più velocemente seguendo i battiti del suo cuore che si riempiva a mano a mano di paura.
“Non ti ho mai dato motivo per non fidarti di me! Dannazione!” esclamai sempre più disperato, alzandomi dal letto che non era più in grado contenere tutte le sensazioni di amarezza insite dentro al mio corpo.
E lei non parlava, ancora una volta. Indietreggiò, quando di scatto fui ad un passo da Lei, portando una mano chiusa a pugno davanti alla bocca.
I suoi occhi erano lucidi, tristi, li avevo già visti così tante volte eppure quel giorno mi sembravano enigmatici.
“Datti una calmata” ordinò titubante con gli occhi sul parquet, temendo un’altra reazione dettata dall’agitazione.
“No! Io ho sempre fatto di tutto per dimostrarti quanto ti amassi; come fai a dire certe assurdità!”
Alzò lo sguardo verso di me: “Perché lo hai permesso? Perché?” iniziò a lasciare andare le sue emozioni che aveva represso per tutta la notte, e con esse, le lacrime.
“Perché quando ti ho guardato spaventata hai abbassato gli occhi? Perché?” urlava pure Lei; era esasperata. Piangeva e svuotava i polmoni coi pugni serrati sui fianchi e il busto verso di me, non dandosi pace per il mio strano atteggiamento.
Non potei più omettere e così confessai:
“C’era in ballo qualcosa di troppo grosso” con voce quasi impercettibile.
Un respiro le morì in bocca. In quel momento si sentì tanto vittoriosa nelle sue deduzioni quanto dispiaciuta. Sperava di sbagliarsi, sperava che dessi un’altra motivazione.
Stropicciò le labbra in un’espressione di pura sofferenza e delusione, scuotendo la testa come se in fondo non volesse crederci.
Ed io? Dovevo rivelarle fino in fondo cosa fosse quel ‘qualcosa di troppo grosso’? Non doveva avvenire così; la mia rivelazione doveva rappresentare il nostro momento di felicità da godere stretti l’una all’altro, felici come non mai.
Doveva apprezzarmi, doveva avere l’ennesima prova che la amassi e la avrei salvata sempre. Da qualsiasi situazione.
E invece Lei, anche quell’ultima volta, aveva continuato a credere in maniera errata e anche se poi – conoscendo i fatti - mi avesse detto ‘grazie’, restava il fatto che non si era fidata di me.
Non si era fidata di me.
 
“Basta così; me ne torno al Moonlight” singhiozzò con gli occhi sempre più pieni di lacrime che non voleva più trattenere.
Chiuse con rabbia la cerniera del borsone, avviandosi verso l’ingresso per prendere il suo soprabito.
La seguii, aprendo la mia valigetta di cuoio e tirando fuori la carpetta di plastica trasparente: “Mi sa che dovrai andare da qualche altra parte. Lady Amy vuole libera la tua stanza.”
Era il momento della verità; una verità accompagnata dal rumore della plastica che veniva fatta scivolare sul tavolo del salone.
Si voltò di scatto; sorpresa, incredula, sbarrando gli occhi e rimanendo immobile col cappotto ancora tra le mani.
“Portati questo. È tuo.” Lo dissi con tono serio, con un pizzico di soddisfazione ma avvertendo i battiti del mio cuore farsi sempre più veloci. Avvertivo delle fitte allo stomaco; gli occhi pizzicavano e, nonostante la delusione, il pensiero di perderla mi faceva tremare.
Il suo sguardo era fisso sulla carpetta, curioso, mentre avanzava verso il tavolo.
“Cos’è?” chiese aprendola e scrutando i fogli all’interno.
La lasciai lì, sola, tornandomene nel mio letto, a sedermi in quella stanza che ancora odorava di noi.
“Quel qualcosa di grosso per cui mi hai considerato stronzo.”
Non volevo guardarla negli occhi, non volevo guardarla da nessuna parte; di spalle raggiungevo la camera udendo soltanto i fogli agitati fra le sue mani sempre più velocemente.
Poi i suoi passi si fecero sempre più vicini a me, fin quando mi raggiunse prendendomi per il polso:
“Cosa significa?”
In quel momento la rabbia, la delusione, l’amarezza mista alla sofferenza era scomparsa dal suo viso.
C’era soltanto curiosità nei suoi occhi spalancati verso i miei.
Non risposi; con una leggera forza liberai il mio polso dalla sua presa, andandomi a sedere sul bordo del letto.
“Come lo hai avuto?” chiese sempre più insistentemente, buttandosi in ginocchio davanti a me per farsi guardare in faccia, sempre più incredula.
Ma io non risposi direttamente; coi gomiti sulle gambe e le mani a sostenermi il viso, sospirai:
“L’ho pagato a caro prezzo. L’ho avuto permettendo che ti toccasse. L’ho avuto inghiottendo la voglia di spaccargli la faccia per tutta la serata.” Feci una pausa, sentendo ormai la gola secca. “L’ho avuto perdendo te.”
Lasciò che i fogli le scivolassero dalle mani verso il pavimento; prese le mie braccia cercando di incontrare i miei occhi:
“Marzio…”
Scossi la testa, ancora nascosta per evitare di rimanere preda del suo sguardo.
“Ti prego Marzio guardami” ripeteva cercando di scuotermi per le braccia, strisciando con le ginocchia sempre più verso di me.
“Perdonami. Perdonami Marzio; ti chiedo scusa. Perdonami.” E pianse di nuovo; in colpa, sentendosi una stupida, pentita.
Lasciai scivolare indietro le braccia e, perdendomi nei suoi occhi simili a quelli di un cucciolo bastonato:
“Tu credi davvero che avessi bisogno di te per concludere un contratto col mio boss?” Lo chiesi  con tutta l’incredulità che potesse esistere ad un pensiero simile.
“Prima di conoscere te, quasi ogni sera, avevo una donna diversa. Avevo tute le puttane che volevo. Non avevo bisogno di farti trattare da puttana da quello che mi ha aiutato a tirarti fuori da quel bordello!”
Sussultò. Forse perché alzai la voce, forse perché lesse delusione e rabbia feroce nei miei occhi. Non lo so perché. So solo che sbatté le palpebre mentre le lacrime le rivestivano le guance e le labbra.
“Marzio, ti prego, perdonami. Sono stata una stupida. Non ho giustificazioni ma ieri alla cena ho creduto che non ti importasse del fatto che ci provasse con me. Non me lo aspettavo da te.” Abbassò gli occhi e, con le mani aperte sul freddo parquet, pianse ancora, sfogandosi.
Tra un singhiozzo e l’altro riprese: “Io non ho mai avuto qualcuno che mi volesse davvero bene. Da un anno conosco solo cattiveria intorno a me. Per me non è facile.” Cercò di non affogare tra i suoi respiri sempre più affannati e: “Ci sto provando, credimi, ci provo a non vedere il male nelle cose.”
Alzando lo sguardo sempre più addolorato e pentito verso i miei occhi delusi:
“Ti prego Marzio perdonami. Non sono così perfetta come credevi. Amami anche per i miei difetti.”
Sorrise, nervosamente: “Aiutami a essere una persona migliore.”
E lì, percependo i suoi respiri affannati, sentendo la sua voce triste e in cerca di un’ancora di salvezza, guardando le sue lacrime scendere in segno di pentimento, fu più forte di me.
Se è vero che in amore vince chi fugge, a me quel giorno poco importava.
L’orgoglio a volte serve per essere messo da parte.
Mi alzai e, porgendole una mano, le dissi:
“Devi fidarti di me. Sempre, in qualunque circostanza; perché non ti farei mai del male.”
Si alzò, annuendo.
La sua mano era ancora stretta nella mia. Non la lasciai e Lei, accarezzando la mia guancia con l’altra mano che ancora tremava, rispose:
“Sempre. D’ora in poi, sempre, amore mio. Te lo giuro.”
Mi cinse il collo con le braccia, stringendomi a sé con tutta la forza che aveva. E io, respirando quell’odore soltanto suo che tanto mi era mancato la notte precedente - che a me parve un’eternità - la avvolsi in un abbraccio intenso dal quale non avrei mai voluto liberarla.
Era stato il nostro primo litigio, forse, anzi sicuramente, ce ne sarebbero stati altri.
D’altronde in una coppia non può andare sempre tutto bene.
Ma li avremmo affrontati, superati, e ne saremmo usciti più forti, più maturi, smussando gli angoli dei nostri caratteri per farli combaciare meglio. Pian piano saremmo riusciti entrambi a migliorarci. Insieme.
E poi, la parte più bella che ci avrebbe aiutato ad archiviare tutto, sarebbe stata di certo quella in cui avremmo fatto pace!

 
Il punto dell’autrice.
 
Non so cosa ne pensate voi ma io non ne ero per nulla convinta e non lo sono tutt’ora! Sicuramente durante la revisione lo modificherò, per ora spero solo che a voi possa piacere e che magari molti di voi mi doneranno molti consigli.
Bunny finalmente si è umanizzata, non è più la ragazza perfetta che Marzio credeva. (D’altronde l’amore è cieco.)
Il titolo del cap. mi sembrava adatto visto che capiamo come nasce Moonlight... (Il vero Moonlight nasce in una mattina n cui la voglia di studiare mi aveva abbandonata ;)) Spero che  l’attesa sia stata ben ripagata, in caso contrario perdonatemi!
Fatemi sapere cosa ne pensate, ve ne sarei grata! Inoltre, ho revisionato il cap.1 per bene... una vostra opinione sarebbe super gradita :)
Un bacio e  a presto!


Demy


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Capitolo 17
*** Saluti finali ***


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Cap. 17: Saluti finali


Sdraiato sulle calde lenzuola, ero rimasto immobile, pensieroso, a guardare un punto ben preciso del soffitto, mentre il palmo della mano sosteneva la mia nuca e l’altro scivolava tra i lunghi fili di seta dorata perdendosi tra le tante ciocche.
Se è vero che il silenzio a volte è d’oro, altre invece può essere pesante, fastidioso, troppo rumoroso.
E Lei questo lo sapeva bene.
Percepivo il suo sguardo sul mio viso; poggiata con la guancia sul mio petto, attendeva un mio qualsiasi movimento, anche quello più impercettibile; solo quando l’attesa divenne insostenibile, lentamente iniziò ad accarezzare il mio braccio provocandomi dei brividi e un po’ di solletico.
 
“Sei ancora arrabbiato con me, non è vero?” chiese con voce fioca e dispiaciuta, come se ne fosse consapevole.
Sospirai, rimanendo a guardare l’angolo del cornicione, e ciò la rammaricò; si coprì portando il piumone all’altezza del petto e si mise seduta inclinando la testa in modo da incontrare i miei occhi assenti.
“Marzio, ti prego, rispondi, non mi hai ancora perdonata?” Il tono divenne più alto, la sua insistenza era chiaramente leggibile dai suoi occhi.
 “Non parliamone più, okay?” mi limitai a rispondere; volevo soltanto lasciarmi tutto alle spalle, non riprendere di nuovo l’argomento. Dopo tutto ciò che, come un uragano inaspettato, era arrivato nella mia vita travolgendomi nel suo vortice, volevo soltanto pensare al futuro, al mio futuro con Lei in cui le incomprensioni sarebbero diminuite e la fiducia aumentata.
 
“Non mi hai risposto.” I suoi occhi erano ancora fissi sui miei, un po’ delusi, così come lo era la sua voce.
Credeva che aver fatto l’amore avesse cancellato tutto ciò che era successo. O forse ci aveva sperato. Ma io non riuscivo a dimenticare la fiducia che mi aveva negato, così come non potevo cancellare la notte precedente passata da solo a dannarmi per il comportamento di Taiki e la reazione di Bunny; si erano verificati troppi eventi, troppo vicini tra loro, concatenati e, associati all’ansia accumulata in quei giorni per paura di non riuscire a salvare Lei, avevano fatto degenerare la situazione.
Una vera e propria reazione a catena.
Anche se era stato fantastico, pieno di passione e di desiderio, il sesso non aveva passato una gomma invisibile sulla situazione. Non per me.
Con la mano libera portò all’indietro la frangia che presto le ricadde di nuovo sulla fronte, simile a un insieme di corti fili d’oro spettinati e ribelli. Faceva sempre quel gesto nervoso quando non sapeva cosa fare, credo pensasse le avrebbe suggerito la risposta alle sue domande e alle sue perplessità.
“Per favore, c’è una cosa che mi tortura il cervello, devo sapere” continuò imperterrita. “Perché quando ti ho chiesto il motivo del tuo atteggiamento non mi hai detto del contratto per il libro di Lady Amy?”
“Il libro è mio, sono io l’autore” la corressi immediatamente con un pizzico di gelosia per ciò che era mio, soltanto mio.
Sospirò sempre più nervosa mentre la sua pazienza stava per superare l’invisibile limite di sopportazione.
“Dai, hai capito che intendevo, non cambiare discorso, per favore.”
 
Avvicinai  la mano libera alla sua schiena nuda e la spinsi verso di me facendola sdraiare.
Voltata sul fianco, non smetteva di fissarmi con occhi simili a quelli di una bambina che finalmente avrebbe saputo la verità sui misteri della vita; mi girai nella sua direzione e guardandola, mentre con una mano stringeva l’angolo del cuscino, risposi:
“Avevo paura.”
 Aggrottò la fronte ma rimase in silenzio aspettando che continuassi.
“Quando andai da Taiki per chiedergli di aiutarmi firmando il contratto con Lady Amy, lui inizialmente mi disse che era fuori discussione.” Le accarezzai il braccio scoperto e ripresi: “Avevo paura che anche dopo averti presentata a lui avesse potuto rifiutare l’accordo.” Sorrisi notando la sua espressione colma di sensi di colpa.
“Avevo paura che se te lo avessi detto, poi, in caso di un suo rifiuto, ci saresti rimasta male.” Una pausa, il tempo di scostarle alcune ciocche dal collo, e: “Non volevo illuderti. A modo mio volevo proteggerti.”
Tutta l’impazienza, la curiosità impressa nel suo viso e accentuata dai suoi gesti agitati, lasciò posto un lieve sorriso malinconico; chiuse gli occhi e, facendomi poggiare la schiena al materasso, fece aderire il suo corpo caldo al mio.
“Fatti abbracciare, amore mio; abbracciami” sussurrò come una carezza sul mio collo mentre aumentava la pressione fra i nostri corpi caldi.
La strinsi forte, quasi da toglierle il respiro, tanto da perdermi nel suo odore, un odore mischiato al mio, più intenso, unico, nostro.
“Mi sa che il fatto di non aver potuto tirare fuori il mio lato aggressivo con Taiki mi ha reso peggiore con te.”
“Non importa. Non importa più.”
“Sappi che per me è molto difficile fidarmi delle persone ma d’ora in poi cercherò di fidarmi di te, sempre” sussurrò prima di suggellare quella promessa con un dolce bacio sulle mie labbra.
“Non voglio litigare mai più con te, Marzio, voglio soltanto amarti” riprese prima di unire nuovamente le sue labbra alle mie; quella volta non le lasciai andare, le intrappolai per un bacio più intenso, più profondo mentre le mie braccia creavano una X sulla sua schiena.
La mia lingua accarezzò le sue labbra gonfie per poi incontrare la sua; capii che neanche io avrei voluto litigare con colei che amavo e, anche se ciò sarebbe stato inevitabile prima o poi, realizzai che, come prima cosa, avrei dovuto essere più maturo e spiegarle le mie ragioni invece di farla impazzire nel vano tentativo di capire cosa mi aveva spinto a un tale comportamento.
A modo mio avevo voluto proteggerla. A modo mio, appunto. Ma ormai c’era Lei nella mia vita, non potevo più fare a modo mio. Dovevo crescere.   
E così, la feci rigirare sul letto sentendo il suo sorriso sfociare in una risata, la sua risata, quella che mi regalava quando era felice e percepiva la nostra complicità crescere.
Lei, Bunny, quella ragazza che fino a poco prima sembrava così aggressiva e adirata, che aveva sfogato su di me il tuo rancore, in quel momento sembrava soltanto piccola e indifesa sotto il mio corpo imponente; era ritornata ad essere la ragazza dolce e ingenua di cui mi ero innamorato e per cui avevo messo in discussione le mie certezze; in quel momento capii che la avevo perdonata sul serio, che non avrei dovuto pretendere che una ragazza conosciuta solo dieci giorni addietro e con una storia difficile alle spalle potesse fidarsi di me anche quando veniva palpata sotto i miei occhi indifferenti. Rivalutai le mie ragioni. E le sue.
 
“Ti amo, sappi che è davvero tutto okay tra di noi” dichiarai seriamente.
“Grazie Marzio, mi spiace che sia andata così; avresti meritato un ringraziamento e un comportamento diverso dopo tutto quello che hai fatto per me.”
“Non importa” affermai scuotendo la testa, “adesso voglio pensare al futuro, alla nostra felicità.” Accarezzai le sue labbra con l’indice e le dissi, fiero di me: “Te l’avevo detto che ti avrei tirato fuori dal Moonlight.”
I suoi occhi brillarono, riuscii a scorgere una lacrima sull’angolo del suo occhio mentre annuì con un impercettibile sorriso sulle labbra; era felice, commossa, forse persino incredula che avrei realmente fatto l’impossibile per Lei.
Cercai di cambiare discorso, lasciandomi una volta e per tutte quell’episodio alle spalle. “Bunny, dovresti firmarmi una liberatoria per poter parlare di te e della tua storia nel libro.”
“Certo” annuì, “a proposito, devo andare a riprendere le mie cose e lasciare la stanza. Dovrei anche parlare con Lady Amy e ridarle le chiavi del Moonlight.”
Mi scostai da Lei riportandomi sdraiato su un fianco ascoltando quello che, dalla sua espressione, sembrava un discorso serio.
“Ti andrebbe di accompagnarmi?” continuò, “Dopo dovrei andare da Morea; devo parlarle.” 
“Tutto quello che vuoi, amore mio; posso sapere di cosa devi parlarle?” chiesi intrecciando le mie dita alle sue.
“Devo chiederle se può riprendermi a lavorare allo Jupiter; adesso che Usa sta per avere il trapianto, credo che i soldi basteranno dato che ho ancora qualcosa da parte, in caso contrario, cercherò qualche altra cosa.”
Le sorrisi, felice di vederla così positiva, e Lei riprese: “Lei guarirà, vero, Marzio?” stringendo l’angolo del cuscino sempre di più.
Avrei tanto voluto dirle che Usa sarebbe guarita, che il trapianto sarebbe andato bene e che presto l’incubo sarebbe finito e, anche se le sue paure erano le mie, risposi:
“Guarirà, lei guarirà” cercando di convincerla e di auto convincermi”; poi un’idea mi giunse istintivamente, forse anche per rasserenarla, “quando uscirà dall’ospedale, le farò trovare la stanza degli ospiti piena di tanti peluches e poster dei suoi personaggi preferiti.”
Un sorriso malinconico nacque sulle sue labbra. “La prossima settimana inizieranno a prepararla per il trapianto” mi disse prima di ridacchiare nervosamente, “per fortuna che mi faranno stare con lei tutto il tempo in camera sterile”.
“Amore, presto tutto questo finirà” la rincuorai avvertendo la sua paura prima di schioccarle un bacio sulla fronte e strofinare la mia mano sulla sua schiena, “anche se non ti nascondo che mi mancherai tanto.”
Mi donò uno sguardo pieno di luce, più eloquente di mille parole;
“Ci sentiremo tutti i giorni, e mi racconterai tutto” le sussurrai all’orecchio, “dai, adesso, però, alziamoci, andiamo al Moonlight per l’ultima volta!” 
 
 
Parcheggiai la mia Audi A3, che tiravo fuori raramente, dato il caos della City che spesso mi invogliava a preferire di camminare a piedi o prendere il taxi, sotto l’insegna spenta del Moonlight. Scendendo dall’auto rossa metallizzata, Bunny svoltò l’angolo e salì la rampa di scale di ferro con molta velocità, tenendosi al poggia mano e voltandosi ogni tanto indietro verso di me.
“Dai, su, sbrigati!” mi esortava divertita, come una bambina che stava per ricevere un regalo di compleanno, mentre notava la mia titubanza.
“Sicura che non vuoi che ti aspetti qui?” le chiesi aggrottando la fronte. Il freddo pungente sbatteva sul mio viso paralizzando i muscoli facciali; nonostante tutto, avrei preferito rimanere lì fuori che entrare con Lei. Mi sentivo a disagio, provavo una strana sensazione dentro di me. Il motivo ben preciso non lo conoscevo neppure io, ad essere onesto, però era una sensazione soffocante. Avevo spesso frequentato quel locale; conoscevo le ragazze, sia ballerine che intrattenitrici.
 
Il Moonlight eraun luogo in cui entrare e trovare il piacere dei sensi grazie a tante ragazze che si muovevano sinuosamente, in mini abiti, scatenando le fantasie più perverse che un uomo potesse mai osare fare;
il Moonlight erala passione che si avvertiva, mentre l’adrenalina nasceva nel corpo e faceva bollire il sangue dentro le vene, alla vista delle curve mozzafiato e degli sguardi ammiccanti che tutte le ragazze più belle di NYC dedicavano ai clienti.
Il Moonlight erasoddisfazione sapendo che non c’era bisogno di parlare, di chiedere; un solo incrocio di occhi bramosi e ogni desiderio carnale veniva appagato.
Il Moonlight eraun locale magico: si entrava per soddisfare i sensi e qualche volta, come nel mio caso, si trovava l’Amore.
Assurdo, vero? Beh, no se la Città è NYC!
 
“Su pigrone, sbrigati” esclamò con occhi entusiasti mentre una nuvola di fumo usciva dalla sua bocca, “qui si congela!”
E così, seguendo la sua volontà, a piccoli passi salii le scale per poi trovarmi all’interno del Moonlight, riscaldato dal suo calore contrastante col freddo della City.
Entrammo nella stanza di Bunny; l’odore di chiuso rendeva l’aria soffocante in quella camera buia e grigia; Lei sospirò profondamente, colma di ricordi tristi, prima di andare ad alzare la tapparella e aprire la finestra dalla quale entrò una ventata d’aria fresca, oltre a un raggio di luce che irradiò d’arancio l’interno.
La mia sensazione di disagio e di imbarazzo lasciò presto spazio a una di amara malinconia; mentre Bunny apriva le ante dell’armadio e tirava fuori i suoi abiti riempiendo alcune valigie, per un attimo mi guardai attorno; fu così vivido dentro di me il momento in cui ero entrato per la prima volta in quella camera, pieno di una strana agitazione, proteggendola da Seiya e avvolgendola nel mio abbraccio confortante e rassicurante; fu davanti ai miei occhi l’immagine di Lei che mi diceva di non cercarla più mentre piangeva sdraiata sul suo letto, tutta bagnata per via della doccia.
Istintivamente, le andai dietro, stringendola forte, come se ancora non mi sembrasse vero che tutti quei momenti fossero ormai soltanto un lontano ricordo.
 
“Hey” ridacchiò sorpresa voltando il viso indietro verso me, “cosa c’è, amore?”
Scossi semplicemente la testa, allentando la presa e abbassandomi per aprire alcuni cassetti del comò, “Dai, ti aiuto, voglio andare via da qui il prima possibile!”
Tirai fuori i suoi pigiami e la sua biancheria intima, infilandola dentro le valigie senza curarmi di piegarli; volevo solo accelerare i tempi e lasciare quel bordello. Aprendo due ante del mobile, notai uno scatolo di cartone marrone sigillato.
“È tuo questo?” chiesi tirandolo fuori e avvertendo quanto fosse pesante.
Gettò d’istinto i vestiti, che aveva in mano, sul letto, avvicinandosi a me e prendendo lo scatolo in mano, come se al suo interno vi fosse un tesoro prezioso, mentre annuiva con tristezza.
“È tutto ciò che mi resta della mia famiglia” spiegò con dolcezza mantenendo lo sguardo sullo scatolone, “ci sono gli album con le foto della mia famiglia e tutti i ricordi dei miei.”
Lo posò con cura per terra, sfiorando con le dita lo scotch che sigillava il pacco; “Da quando mi sono trasferita qui, non l’ho mai aperto” sussurrò incrociando i miei occhi prima di accennare un triste sorriso, “non riesco ancora a guardare le foto dei miei.”
La raggiunsi, prendendo la sua mano e baciandola come si bacia una principessa, perché lei era quello per me: la mia Princess.
“C’è tempo; quando sarai pronta le guarderai” le sorrisi accarezzandole la guancia, “non c’è fretta.”
 
La cosa di cui mi rendevo perfettamente conto era che io parlavo, mi riempivo la bocca di belle parole piene di conforto ma, in fondo, che ne sapevo io della sofferenza? Io non sapevo cosa significasse svegliarsi al mattino e dover affrontare le giornate da soli, senza un abbraccio, una parola d’affetto, ma, al contrario, dovendo combattere le avversità e superarle da soli. Non comprendevo cosa si potesse lontanamente provare sapendo di non rivedere mai più le persone più importanti della propria vita, quanto dolore si potesse avvertire al cuore alla vista di immagini che ritraevano momenti di vita serena, dopo che quelli stessi momenti sarebbero divenuti soltanto ricordi sempre più lontani. Però, anche se fossero risultate stupide frasi fatte, le parole di amore e conforto, erano le uniche che io avessi potuto donarle, rendendole vere e sincere grazie al  mio amore per Lei.
 
Non ci volle molto tempo per riempire le valigie con le uniche cose che restavano della sua vita: pochi vestiti, biancheria, oggetti tenuti nascosti all’interno dei mobili per rendere impersonale quella stanza da lavoro.
Quando Bunny andò ad abbassare nuovamente la tapparella, il buio che pervase la camera, fu così confortante che, con un sospiro di sollievo, lasciai uscire la strana ansia che quella camera aveva il potere di mettermi addosso. Richiusi la porta alle nostre spalle e ci avviammo lungo il corridoio che presto ci condusse davanti allo studio di Lady Amy.
Lei bussò alla porta sorridendomi, contenta; attendemmo un suo permesso ad entrare, però, stranamente, la donna dal caschetto blu venne direttamente ad aprire.
Quando ci vide, non sembrò per nulla sorpresa, in fondo aspettava che Bunny lasciasse la stanza.
“Ti aspetto qui fuori” la informai facendo un cenno con la testa, invitandola ad entrare senza di me; non ebbe il tempo di rispondere che la Mistress, indietreggiando, ridacchiò:
“Su, Chiba, non sia timido” mentre tornò a sedersi sulla sua poltrona, dietro alla scrivania, “entri pure, socio!”
Bunny mi guardò titubante prima di entrare tenendo le mani basse, giunte a tenere la sua borsa, e io la seguii, prendendo posto su una delle due poltrone di fronte a Lady Moonlight, come soleva chiamarla Mister Taiki.
In quel momento, come per magia, Lady Amy, mostrò un sorriso così luminoso e spontaneo che le sue iridi turchesi sembrarono riflettere le sfumature dell’Oceano baciato dai raggi del sole. “Allora, signorina, hai visto che il Principe Azzurro è venuto a salvarti?” E la cosa bella era che le sue parole non avevano, per la prima volta, nulla di ironico o presuntuoso; la ragazza dai capelli blu, aveva mostrato il suo lato umano, quello che non poteva mostrare quando si copriva con le vesti – talvolta ingombranti – di Mistress di bordello. Poggiò i gomiti sulla scrivania, continuando a guardare Bunny negli occhi, come se volesse farle capire che lei non era più Lady Amy, la sua datrice di lavoro, la sua salvatrice dalla fame e alla quale dover ubbidire; era semplicemente Amy, una giovane ragazza di venticinque anni che nel profondo del cuore desiderava poter parlare normalmente con le altre ragazze, da amica, e non da manager da rispettare.
Bunny sorrise di rimando accennando un con la testa, mentre le sue gote si coloravano di un rosso pallido. “Lady Amy, io devo ringraziarla” iniziò, “le devo molto per tutto ciò che ha fatto per me, anche per aver accettato di lasciarmi andare.” La dolcezza con la quale aveva pronunciato quelle parole, tenendo un pugno all’altezza del cuore, fece allargare il sorriso sulle labbra lucide della ragazza. “Beh, diciamo che è andata bene a tutti e tre!” ironizzò con una risata che la riponeva sul suo gradino di donna d’affari.
“Queste sono le chiavi del Moonlight” continuò Lei posando sulla scrivania un portachiavi, con un ciondolo a forma di stella gialla, al quale era inserita una chiave argentata.
Amy non rispose, si limitò ad annuire e, lasciando posto sul suo viso a un’espressione leggermente dispiaciuta, affermò: “Lo sai Bunny, tu mi sei sempre piaciuta” mentre accavallava le gambe e poggiava il gomito al bracciolo della sua poltrona, “sei brava, sei onesta e hai un gran cuore che ti ha spinta fin qui nonostante il Moonlight non facesse per te.”
 
Lasciai uscire un leggero sorriso fatto di consapevolezza, riconsiderando Amy in meglio e capendo quanto fosse sensibile e vera, ma soprattutto dispiacendomi che questo suo lato dovesse essere spesso oscurato.
 
“E io ho sempre apprezzato e stimato lei, per la fiducia che mi ha dato nonostante non avessi esperienza” rispose Bunny portando in avanti il busto, “e per avermi dato la possibilità di lasciare il night club nonostante il contratto. Grazie mille.”
“Beh, ci rivedremo presto, ora che io e Chiba siamo soci in affari” rispose con tono freddo, ma io avevo ormai capito, e i suoi occhi lo confermavano, che il suo era soltanto un modo per mantenere quel distacco che doveva imporsi, forse per non lasciarsi andare troppo ai sentimentalismi.
Si alzò per accompagnarci alla porta mentre Bunny annuiva, credo che per Lei fosse importante saper di avere qualcuno che la stimasse e che, andando via dal Moonlight, non avrebbe perso del tutto i contatti con lei.
“A presto, allora, Lady Amy” le rispose sulla soglia della stanza, abbassando il capo, prima di voltarsi verso l’uscita del locale.
 
Stavo per aprire la porta d’ingresso che essa fu aperta dall’esterno, impedendomi di abbassare la maniglia; un sussulto uscì d’istinto dalla bocca di Bunny che indietreggiò con il pacco in mano. Lasciai cadere le due valigie a terra, guardando quegli occhi rossi davanti a me con una tale rabbia e disprezzo e scorgendovi dentro, invece, soltanto curiosità, la stessa curiosità che donò al suo volto ambrato un’espressione enigmatica, simile a un mix di invidia e dispiacere. Abbassando lo sguardo verso le due valigie, si rivolse a Bunny, incrociando i suoi occhi ardenti come le fiamme dell’Inferno a quelli che racchiudevano il cielo di primavera. “Te ne vai?” domandò con stupore; credo che ciò che le dispiacesse fosse il fatto che ci fossi io con Lei; Sydia odiava la concorrenza, avrebbe fatto i salti di gioia in un’altra occasione, sapendo che una delle Moonlight dancers stesse abbandonando il campo di guerra, in cui gli stessi soldati son in lotta fra loro.
“Togliti dai piedi, Sydia” mi intromisi senza dare a Bunny la possibilità di rispondere, “ringrazia il fatto che non sia un uomo” continuai quasi ringhiando, ricordando ciò che aveva fatto a Bunny, a come mi aveva ricattato e come l’aveva ridotta per pura gelosia e invidia.
La mia risposta la stupì, mosse le labbra senza riuscire a dire nulla, per la prima volta la vidi in difficoltà; tutta la sicurezza in se stessa, la sua consapevolezza di avere potere era svanita, dissolta, lasciando posto a una fragilità percepibile dai suoi occhi improvvisamente tristi.
“Sì, vado via, Sydia.” Bunny ruppe quel silenzio pesante che si era creato; la sua voce era nervosa, emanava tensione, “non mi vedrai più in giro, sarai contenta.” Fece una pausa, poi, inaspettatamente, mi stupì.
“E io sarò più felice di te” aggiunse con un sorrisetto vendicativo, come se per la prima volta potesse essere libera di parlare, di sfogarsi, di esternare ciò che il suo cuore provava senza paura delle ripercussioni, “e lo devo a te” continuò sempre più sicura di ciò che diceva, “perché se non fosse stato per il tuo gesto meschino e infame, io sarei ancora qui, senza Marzio, invece di andare a vivere con l’uomo che amo e che mi ama.”
Pazzesco! Con disinvoltura e un’apparente gentilezza, era riuscita a far pentire Sydia in un modo che probabilmente, con la violenza o con sgarbo, non avrebbe sortito lo stesso effetto.
“E ora levati e facci passare!” ordinò infine alzando il tono della voce.
La ragazza dai capelli scuri come l’ebano, rimase in silenzio, senza proferire parola, spiazzata da quell’atteggiamento inaspettato di Bunny, che, fin a quel momento, aveva soltanto subìto. Poggiò la schiena alla parete, permettendo a Lei di uscire dal locale; io, invece, persi qualche istante, il tempo di riprendere le valigie, e fu così che lei ne approfittò; si avvicinò a me e con il fuoco che ardeva nei suoi occhi e la voglia di una vita diversa, migliore, che non avrebbe avuto mai e che avrebbe sempre invidiato a Lei, sussurrò:
“Parli, parli, però so io come godevi con me, sotto di me…”
Una risata divertita e piena di stupore mi uscì spontanea; scossi la testa e avvicinando il mio viso al suo, tanto da poter sentire il suo respiro affannato, risposi: “Mai quanto ho goduto qualche istante fa.”
La lasciai lì, a rimuginare su tutto ciò che era accaduto, a pensare che nella vita la violenza e la cattiveria, talvolta, più che un danno a chi le riceve, sono un dono; uno strano, incredibile dono a chi, come Bunny, meritava la felicità.
Non le lasciai il tempo per controbattere, non mi interessava; aprii la porta ritrovandomi  subito fuori, accanto a Lei che mi sorrideva soddisfatta.
Le feci l’occhiolino sorridendo di rimando, fiero di Lei, iniziando a scendere le scale; l’aria fredda e pungente avvolgeva i nostri corpi che pian piano cercavano di adattarsi alla temperatura, mentre fiocchi di neve cominciarono ad abbandonare il cielo grigio della City e ad apparire sempre più vicini, fino ad accarezzare i nostri volti e a imbiancare le strade di Manhattan.
Non ci voltammo più indietro mentre raggiungevamo l’auto.
Il Moonlight era appena diventato soltanto un vecchio ricordo.

 
Il punto dell’autrice
 
Non so da dove iniziare: dunque, credo sia doveroso iniziare chiedendo scusa a tutti i miei carissimi lettori che hanno aspettato questo capitolo da ormai mesi. Mi spiace tanto e mi spiace ancora di più sapendo che sicuramente ne sarete rimasti delusi.
Come sapete ho in corso La melodia del cuore e Listen to your heart e quindi i ritardi son dovuti all’aggiornamento di queste due ff.
Il capitolo si conclude così, con il Moonlight che viene definitivamente abbandonato e con un piccolo richiamo all’anime, in cui Sailor Moon combatte contro i nemici senza violenza, solo con le parole, ovviamente nel caso di Sydia è un po’ diverso, però mi piaceva mantenere in Lei la bontà che l’anime le ha dato.
Il prossimo sarà l’ultimo capitolo che lascerà la traccia per Moonlight 2.
Spero veramente che il capitolo, anche se in parte, possa essere stato da voi gradito. Ci tengo ai vostri commenti quindi, anche se negativa, lasciatemi una recensione con tutto ciò che ne pensate a riguardo.
Come sempre ringrazio tutti coloro che mi seguono con affetto e che mi danno la voglia di continuare a scrivere cercando di regalarvi capitoli sempre migliori (questo fa eccezione, lo so :D).
Se vi va, in attesa del capitolo finale, qui potrete leggere la shot
Moonlight - La Rinascita  che si colloca alla fine di questo capitolo, prima del cap 18.  
Un bacione e a presto!

Demy

 


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