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di hellomelancholy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Risveglio ***
Capitolo 2: *** Mostri ***
Capitolo 3: *** Paura ***
Capitolo 4: *** Insieme ***
Capitolo 5: *** Infinito ***
Capitolo 6: *** Infanzia ***
Capitolo 7: *** Amore/Odio ***
Capitolo 8: *** Abbandono ***
Capitolo 9: *** Coraggio ***
Capitolo 10: *** L'ultimo risveglio ***



Capitolo 1
*** Risveglio ***


; Risveglio
Mi risvegliai in un letto che non era mio. Lo capii subito, anche senza aprire gli occhi, appena ripresi coscienza da quella che sembrava essere stata una lunga e scomoda dormita. Il cuscino era troppo fine e il materasso troppo duro. E le coperte? Dov'erano le mie soffici coperte? Ciò che mi ricopriva non sembrava essere affatto soffice, ma piuttosto ruvido. Il letto su cui mi trovavo non poteva di certo essere il mio. Mi strofinai gli occhi con le dita, una, due, tre volte appena mi misi a sedere. Quando riuscii a mettere a fuoco in modo abbastanza chiaro l'ambiente circostante, tutto mi sembrava irreale. Impiegai qualche secondo per realizzare che tutto intorno a me era diverso, rispetto a ciò che ero abituata a vedere ogni mattina. In verità impiegai qualche secondo a capire persino chi ero, mentre sentivo la testa pesate.
Sono
Hayley Williams, ripetei a me stessa un paio di volte. Mi massaggiai le tempie per qualche minuto, tuttavia non mi servì a fare chiarezza dentro me e neanche a concentrarmi; ero così confusa da credere di essere in un sogno; mi aspettavo che, da un momento all'altro, le pareti cadessero e rivelassero la mia vera camera da letto, cosicché io potessi svegliarmi per davvero e vedere le cose di sempre. Le parenti intorno a me erano di un anonimo bianco, con macchie scure di sporco qua e la. C'era una sola finestra affianco al letto, con delle sbarre e che dava verso l'alto. Da lì vedevo solo il grigiore del cielo e le nuvole cupe sovrastarmi. A parte quella finestra, la stanza non era poi molto piena, se non fosse stato per i fiori sparsi qua e la, che se non altro davano un po' di colore alla stanza. Sul comodino dall'altro lato del letto rispetto alla finestra, c'era un grosso vaso di un arancione sgargiante, contenente diversi tipi di fiori. E persino davanti a me, dove di solito, nella mia stanza, ci sarebbe stato uno specchio e un tavolo da trucco con le cornici colorate, le foto dei miei migliori amici e la scritta “Hayley” sulla parte alta dello specchio, lì c'era un altro tavolo, con un altro noioso vaso di fiori. Affianco riconobbi la mia borsa e alcuni miei effetti personali. Iniziando a riprendere conoscenza, una certa quantità di preoccupazione mi travolse, come un onda; se fino ad allora non me l'ero ancora chiesto, ora stavo cominciando a farlo.
Dov'ero? Quella non era di certo la mia camera, né un posto conosciuto. Non era nulla che avevo mai visto. Ma l'insieme di tutto ciò che avevo intorno, la camera vuota, il semplice comodino affianco al letto, la finestra con le sbarre e il semplice tavolo davanti a me, con i fiori, riuscivano a farmi venire in mente un solo luogo; un ospedale. Anche l'odore, l'odore che aveva quel posto sapeva di ospedale; di medicine, di cibo poco salato, di malattia, di tristezza. Senza pensarci troppo, cercai di alzarmi. Scostai le coperte ruvide e di un blu scolorito e triste e misi un piede fuori dal letto. Infilai le mie scarpe che trovai sul pavimento, e mentre esploravo la stanza con lo sguardo, tentavo di ricordare. Ricordare e capire com'ero finita lì dentro. Ero sicura che, soltanto qualche ora prima, fossi addormentata sul divano di Jeremy, mentre lui e Taylor giocavano ai videogiochi e io non riuscivo a tenere gli occhi aperti. Appena svegliata, avrei dovuto ritrovarmi su quel divano, oppure nella stanza di Jeremy, dove lui di solito mi portava mentre dormivo, per farmi riposare immersa nel silenzio. Anche lì, a volte, quando mi svegliavo, credevo di essere nella mia stanza dalle pareti rosa, poi mi rendevo conto di dov'ero e cosa era successo prima. Ma non questa volta. Poche ore prima, ero stranamente stanca e assonnata e il tempo fuori non era dei più rassicuranti, e piuttosto che spingermi a uscire fuori a fare una passeggiata, mi teneva dentro casa, con una coperta che profumava di Jeremy e una tazza di cioccolata calda. Si sentiva il rumore della pioggia battere sul tetto e l'oscurità penetrava persino in casa, dalla finestra. L'unica luce che riuscivo a vedere era quella della televisione gigantesca, che mandava colori in tutta la stanza, mentre i ragazzi si sfidavano a Guitar Hero. Così, ben presto avevo preso sonno.
Ma non mi ricordavo di essermi svegliata, né tanto meno di essere arrivata in un posto del genere, che neanche avevo mai visto. Perlustrai la stanza, ma l'unica cosa che trovai, oltre una delle mie borsette con dentro una spazzola e un blocchetto con una penna, fu un bigliettino tra i fiori, sul tavolo davanti al letto. “
Questa non è la fine!” recitava il biglietto. E siccome cominciavo a preoccuparmi di essere in quel posto, sperai veramente che fosse la verità.
Con molto coraggio mi avviai verso la porta bianca chiusa, che avrebbe dovuto portarmi fuori da quella strana stanza. Afferrai la maniglia e l'aprii. Quando misi un piede fuori, fui avvolta dall'oscurità. Tutto era buio e l'ambiente era decisamente diverso da quello che avevo trovato dentro; non c'era la minima luce, nemmeno quella che poteva arrivare da un cielo cupo, infatti li fuori non vedevo finestre e rispetto alla stanza ordinata, il corridoio in cui mi trovavo era fatiscente. Riuscivo a scorgere ben poco, ma quel che riuscivo a vedere erano pezzi di muro per terra, una parete completamente rovinata e annerita che mi faceva pensare a un incendio che rovina i colori di ogni cosa. Vidi anche sagome di oggetti, forse lettini, sparsi e qua e la.
Tutto questo è assurdo, pensai. Per un attimo, mi sentii in dubbio. In quella situazione, avrei dovuto andare avanti o fermarmi? A quel punto, mi sembrava piuttosto chiaro che in quel posto non poteva esserci nessuno, infatti non riuscivo a sentire nessun rumore da quel corridoio ampio e largo, in cui mi trovavo. Era come se fossi imbottigliata, in una dimensione a parte rispetto a quella in cui vivevo di solito, ed era da escludere che chiunque sarebbe potuto venire a cercarmi in quella stanza immersa nel buio e nel silenzio più totale. Perciò, nonostante trovassi tutto assurdo, strano, decisi che era meglio muoversi, spostarsi e forse, cercare di capire cosa era successo. Mi incamminai per il corridoio silenzioso e scuro, lasciandomi alle spalle la stanza e la porta che si richiudeva con un rumore cigolante.

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Capitolo 2
*** Mostri ***


; Mostri
Camminai a lungo per quel corridoio, e tuttavia non credevo di aver percorso una grande distanza. Stavo camminando più lentamente possibile, un po' perché il buio di quel luogo mi immobilizzava e terrorizzava (era come un buco grande, nero e vuoto, privo di qualsiasi anima viva o buona che fosse), un po' perché avevo cominciato a sentire dei rumori. Il silenzio che avevo intorno poco prima, che gravava su di me, si era rotto. Potevo sentire tonfi, scricchiolii, suoni di mobili che si spostavano e sedie dalle rotelle cigolanti muoversi, porte sbattere e passi. Ovviamente, stava a me interpretare questi suoni. Non sapevo se ciò che sentivo potesse essere davvero, ad esempio, il rumore di una sedia. La mia mente lo immaginava e basta. Avrebbe potuto essere il vento, che da qualche parte muoveva le cose e le faceva cadere, oppure suoni esterni. Semplici suoni esterni, della vita che andava avanti, mentre io ero imbottigliata li.
Ma era logico che, la fuori, ci fosse un mondo che viveva, almeno che non fossi stata rapita dagli alieni e portata sulla luna. La fuori c'erano persone che vivevano e mandavano avanti la loro vita. Quindi, se i miei ragionamenti erano esatti, c'era persino un modo di uscire. Com'ero arrivata non lo sapevo, ma intuivo che una porta, una finestra accessibile (non come quella della stanza) o un buco da qualsiasi parte ci doveva essere. Non potevo semplicemente essermi smaterializzata in quel luogo, soprattutto senza neanche rendermene conto. Ma a un certo punto, decisi di bloccare quelle fantasie, quelle congetture per scappare. Non perché non avessi bisogno di andarmene, ma perché dentro al buio era facile lasciar andare la mente lontana, senza riuscire più a riacchiapparla, e in effetti a un certo punto mi chiesi anche se ciò che stavo sentendo era reale. E se anche quei rumori fossero stati invenzione della mia mente? Nient'altro che un'invenzione, solo per riempire quello spazio vuoto e silenzioso? Le cose sarebbe potute andare così, e io non avrei mai saputo se avevo ragione o meno.
Man mano che ero andata avanti, ero riuscita ad abituare i miei occhi al buio; almeno una fortuna, in tutta quella strana situazione. Nonostante ciò, questo non mi impediva di andare a sbattere contro quelli che avevo appurato veramente essere lettini per i malati di un ospedale, sparsi nel corridoio. Cercavo di stare il più attenta possibile, ma mi riusciva difficile esserlo, mentre mi lasciavo distrarre dai rumori che sentivo, nonostante cercassi di convincermi fossero tutti nella mia mente. La maggior parte delle volte riuscivo a vedere quei lettini e ad evitarli, ma le altre volte ne urtavo gli angoli e se ci posavo le mani sopra, mi accorgevo che erano completamente squarciati e polverosi. Per terra, poi, mi imbattei qualche volta in grandi pietre che rischiarono di farmi cadere. Riuscivo comunque a scorgere i muri e sino a dove si estendevano; erano molto lunghi, perciò non potevo vederne chiaramente la fine. Cominciai sperare, per quanto mi fosse possibile, di arrivare a qualcosa; delle scale, che potessero portarmi in un eventuale piano alto, o un posto con più luce.
Durante la camminata notai moltissime altre porte lungo quel corridoio, ma non osai entrare in nessuna di esse. La mia mente stava cominciando a viaggiare velocemente, ancor più velocemente di prima, perciò non osavo aprire un'altra per ritrovarmi chissà cosa davanti. Zombie, mostri, vampiri? Io volevo stare lontana da queste cose. Nella vita reale potevo sembrare molto coraggiosa, invece non sempre lo ero. E forse, in quel momento, stare nascosta nel buio era la soluzione migliore. Io non vedevo loro e loro non potevano vedere me; almeno che non avessero avuto gli occhi da gatto, e allora speravo fossero soltanto dei innocui felini, e non strani esseri con occhi da gatto, coda da dinosauro e denti da squalo, nonostante il luogo fosse perfetto per qualcosa del genere, ma ancor di più per qualche fantasma.
Mentre la mia mente galoppava, mi ritrovai a quello che al buio mi sembrava la biforcazione del corridoio in cui stavo camminando, in altri due corridoi. Così, presi quello di destra istintivamente. Iniziai a percorrere il nuovo corridoio che mi sembrava leggermente più illuminato del primo, sino a che vidi in lontananza una fioca luce; mi diressi in quella direzione, sempre diritto, mentre vedevo il puntino di luce che stavo cercando di raggiungere diventare man mano che mi avvicinavo sempre più grande. -Fin che, tutto accadde molto velocemente. Mentre cercavo di raggiungere quella luce, sentii il pavimento tremare e delle urla. Non compresi subito che erano delle urla e neanche cosa ciò volesse dire, ovvero che c'era qualcuno in quel posto insieme a me. Se già quel luogo era fatiscente, probabilmente lo sarebbe stato ancora di più. Tutto tremava; le pareti, il pavimento e io, e ben presto iniziarono a cadere dal soffitto altri pezzi di muro. Non sapevo in che direzione andare, presa dal panico, perché qualsiasi direzione avessi preso mi avrebbe messo in pericolo, ma persino restare impalata li lo avrebbe fatto. Nell'incertezza, tentai di iniziare a correre. Ma non ci riuscivo.

Chiunque tu sia, non da questa parte!” disse una voce maschile. Mi accorsi all'improvviso che c'era qualcuno che correva nella direzione opposta in cui stavo cercando di muovermi io, e che, quindi, arrivava dalla luce. La persona mi raggiunse ancora correndo e mi spintonò con forza indietro per il corridoio da cui ero venuta. Quella persona fu la mia salvezza; se non mi avesse spintonato probabilmente sarei rimasta lì imbambolata. Tutto continuava a tremare incessante e dei rumori, come di muri che crollavano, si sentivano chiari e forti, come se tutto stesse cadendo dietro di noi. Quando finalmente tutto si fermò, eravamo ormai arrivati di nuovo alla biforcazione dei corridoi. Ci fermammo per respirare, e ne approfittai per cercare di guardare in faccia il ragazzo che mi aveva spintonato.

Taylor!” Urlai felice.

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Capitolo 3
*** Paura ***


; Paura
Continuai ad attraversare i corridoi, questa volta insieme a qualcuno. Io e Taylor potevamo farci compagnia. Non sapevamo dove stavamo andando e tutto era ancora buio. Tuttavia, eravamo intenzionati a trovare un'uscita. Mi cominciai a chiedere se, in quel posto, non avremo trovato qualcun altro di conosciuto. Non avrei mai voluto trascinare nessun altro la dentro, non avrei augurato a nessuno una situazione simile, ma se avessi trovato un'altra persona amica, sarebbe stato di certo d'aiuto. Dopo i rumori che si erano presentati poco prima e che cessarono in pochi minuti, non ne sentimmo altri. Eppure, chissà perché ero sicura che qualcosa si nascondesse nell'ombra e ci guardasse. Ci osservasse con il suo sguardo cattivo e fosse pronto ad attaccarci di nuovo. Nonostante questa sensazione sgradevole, mi sentivo meglio. Mi sentivo meglio perché sapevo di avere Taylor affianco. In un certo senso, non avrei dovuto sentirmi confortata, perché Taylor aveva molta più paura di me di stare in quel posto. Non avrebbe potuto difendermi. Ma io avrei voluto difendere lui. Era visibilmente spaventato e sembrava un pulcino alle prese con le sue prime esperienza di vita, terrorizzato persino da una foglia che cadeva da un albero, danzando nell'aria. Si guardava alle spalle di continuo e non sempre rispondeva subito alle mie domande; questo mi faceva pensare che fosse troppo distratto da ciò che stava succedendo nella sua testa, dalle fantasie orribili, per sentirmi. Ma non gliene facevo una colpa; poco prima anche io mi ero sentita così. Mi avvicinai a lui per cercare di confortarlo non la mia presenza. Avevo sempre visto Taylor come un fratello minore e avevo perciò sviluppato una sorta di affetto fraterno. Credevo che per lui fosse la stessa cosa, perciò ogni volta mi atteggiavo a sorella maggiore. Gli presi la mano per rassicurarlo; sapevo non avrebbe confuso il gesto con qualcosa di romantico. Sobbalzò appena lo feci, poi però si rilassò, accorgendosi che ero solo io.
Rilassati Taylor” Strinse forte la mia mano e si guardò ancora una volta alle spalle, preoccupato.
Lo farei. Ma questo posto è raccapricciante. Ho una brutta sensazione, è come se qualcuno ci stesse seguendo” rispose. Capivo benissimo le sue sensazione. Le stavo provando anche io, ma cercai di non darlo a vedere.
Avevo intuito avessi paura. Ma, ehi, ci sono io qui con te” dissi nel vano tentativo di farlo stare meglio. Sapevo non avrebbe funzionato. Si voltò verso di me, mi guardò dall'alto e accennò un sorriso.
Come diamine siamo arrivati qui?” chiese preoccupato, alzando leggermente la voce, che rimbombò in quello spazio vuoto. Persino quando urtavamo qualcosa, davamo in calcio a una pietra che rotolava, ne sentivamo il rumore amplificarsi.
Non ne ho idea. So solo che mi sono risvegliata in una strana stanza, in un corridoio tetro quanto questo” Non ero sicura di poter di nuovo riconoscere la stanza in cui mi ero svegliata, né, tanto meno, il corridoio. Camminavamo a vuoto da tempo, e a causa del trambusto di prima, che ci aveva costretto a prendere nuovi corridoi, avevo perso il senso dell'orientamento. Era possibile che fossimo nel corridoio in cui c'era la stanza oppure che fossimo in un corridoio totalmente diverso; non l'avremmo mai saputo.
Io, invece, ero sdraiato in un divano in una sorta di sala d'attesa. Un posto strano, sai? C'era un bancone con un telefono rotto, era illuminato ma alle finestre c'erano sbarre. E fuori era grigio e non c'era un anima viva. Il cortile che vedevo era incolto e gli alberi inclinati in un modo sinistro” fece una smorfia, forse al ricordo di quella vista “E soprattutto, ogni cosa intorno a me era rovinata. E non ricordo nient altro di ciò che sia successo prima” Non avrei potuto dire a chi di noi due fosse andata meglio; lui si era svegliato in una sala d'attesa spettrale e io in una strana camera piena di fiori, e un messaggio che ora non trovavo più tanto rassicurante. Questa non è la fine. Inoltre, almeno io mi ricordavo cosa era successo prima, cosa stavo facendo, ma lui neanche quello.
Per fortuna, ho trovato te sussurrò. Sorrisi nel buio, nel sentirglielo dire.
Poi, tornai a lavorare con la mente. La descrizione del cortile che Taylor aveva descritto corrispondeva a qualcosa di conosciuto. Nella mia mente era tutto nebbia, nebbia fitta. Sapevo solo che avrei voluto buttare giù i muri a calci per uscire fuori; non potevo dire che fuori di lì saremo stati al sicuro, ma almeno avremo respirato aria pulita. La dentro, l'aria cominciava a diventare stantia, o forse lo era già dall'inizio e con tutto quel caos non me n'ero accorta.

Fino a quando continueremo a camminare?” chiese Taylor, angosciato e impaurito, con la voce da bambino.
Non lo so. Ma dobbiamo trovare il modo di andarcene, perciò non fermiamoci” dissi cercando di non mettere in mostra le mie insicurezze, perché più andavamo avanti, più credevo non avremmo trovato anima viva oltre a noi. Ma perché, perché proprio noi eravamo la dentro?
Sento dei passi” disse Taylor, questa volta distogliendo me dai pensieri. Aguzzai l'udito, cercando di concentrarmi. E aveva ragione, iniziai anche io a sentire dei passi, ma non avrei potuto dire da dove arrivassero. Restammo fermi per qualche minuto, immobili e incerti.
Continuammo a camminare. Se stiamo fermi, non arriveremo a nulla” affermai a voce alta, strattonandolo per ribadire il concetto che stare fermi non serviva a niente. Ma lui non sembrava reagire, infatti senza dire niente si fece trascinare da me. Camminammo a lungo prima di riuscire a trovare qualcosa. Qualcosa che non avevamo ancora incontrato sino a quel punto. Delle scale. Mi sorpresi di averle trovate, dopo aver camminato tanto a lungo vedendo solo mura estendersi quasi all'infinito. Eppure, provai un certo senso di soddisfazione. Certo, non sapevo dove ci avrebbero trovato, ma le avevamo trovate. Trascinai Taylor, che sembrava ancor più impaurito di prima, sulle scale. Contai gli scalini. Erano due rampe, da tredici scalini ciascuno. Ma quando arrivammo in cima, la scena che trovammo fu la stessa di quando eravamo al piano di sotto. Un corridoio,un altro noioso e buio corridoio. Sospirai stanca.
Guarda, c'è qualcuno lì” sussurrò Taylor.

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Capitolo 4
*** Insieme ***


; Insieme

Taylor mi indicava un punto indefinito nel buio. Aveva detto che aveva visto qualcuno, e io avevo fatto un salto, nel sentire che lì con noi c'era, presumibilmente, un essere umano, o almeno così speravo. Ma anche se seguivo la direzione indicata dal suo dito, non vedevo nulla, neanche se aguzzavo la vista.
Dove? Io non vedo nessuno” chiesi, ad un tratto spazientita. Ero stanca, stanca di quel posto. Stanca, delle fantasie della mente, che in quel momento stavano colpendo anche Taylor. Continuavo a non veder nessuno nel buio, mentre lui teneva il braccio teso, a indicare qualcosa che non c'era, con il viso contratto in una smorfia di paura, e il tempo passava. Il tempo passava e noi stavamo fermi, a cercare tutto e niente.
Da quella parte. Non vedi?” sussurrò, alcuni minuti dopo “Si sta muovendo” Mi chiesi come facesse a distinguere qualcosa, ancora una volta, con tutto quel buio.
Taylor, non lo vedo. Forse stai immaginando tutto, non è reale!” Mi decisi a dirgli quella che era la verità, nient'altro che la verità, e prendendolo per le braccia, cercai di scuoterlo. Per tutti sarebbe stato strano e divertente vedermi fare quel che stavo facendo; una piccola ragazza che cercava di scuotere uno come Taylor, che non accennava a muoversi, ma restava fermo nella sua posizione, così rigida. Solo che di divertente in quella situazione non c'era nulla e nessuno era lì a guardarci, e sorridere di noi. Sarebbe stato bello se solo fossimo stati nel mondo reale, in quello di tutti i giorni. Non sapevo come avrei fatto a far spostare Taylor dal suo posto, con il dito ancora puntato verso il nulla.
E' lì, ti dico. Ci sta osservando, sa che siamo qui!” Dopo aver tentato invano di scuoterlo, farlo uscire da quello strano stato di trance, decisi che anche se avessi continuato per del tempo, non avrebbe funzionato, perciò iniziai a pensare a un'altra soluzione, questa volta ignorando ciò che Taylor aveva da dire; se il mio cervello era l'unico funzionante in quel posto, se quello di Taylor sfortunatamente era troppo impaurito, allora il mio doveva lavorare duro. Iniziai a pensare a una soluzione, facendo muovere i miei pensieri il più velocemente possibile.
Sta arrivando. Si sta avvicinando, Hayley!” Taylor, continuava a ripetere quella frase, impaurito.
Taylor, stai zitto un attimo! Sto cercando di pensare!” Sbottai tutto a un tratto. Non avrei mai voluto rispondere in quel modo, eppure avevo perso la pazienza, persino con Taylor. Quel posto mi stava dando alla testa, e mi pentii subito di ciò che avevo fatto. Guardai in faccia Taylor, per cercare di cogliere sul suo viso qualche espressione, una qualsiasi traccia di rabbia contro di me, di dispiacere. Ma nulla. Continuava a guardare verso il buio, come se non mi avesse sentito, ancor più impaurito e questa volta aveva preso a tremare, come una foglia.
L'ultima cosa che vidi, fu appunto lui, che tremava, poi mi ritrovai a terra. Qualcosa mi spinse forte, verso il pavimento, e caddi su Taylor che urlava. Io non ci riuscivo; la voce non usciva dalla gola. Non riuscii a gridare perché mi mancò il fiato, per quanto ogni cosa successe all'improvviso. Non avevo avuto il tempo di capire. Ma non persi i sensi. Riuscii a non sbattere la testa, perciò pur essendo stordita dagli eventi, rimasi più o meno lucida. Ero caduta su di Taylor, che, al contrario di me, non sembrava dar segni di vita. Qualcosa si era lanciato contro di noi con forza.

Ma che diavolo sta succedendo..?” dissi a voce alta, non curandomi del fatto che qualcuno o qualcosa avesse potuto buttarci a terra e mi sentisse. A dire il vero, non me ne importava, e se parlava la mia lingua quella persona o cosa, si meritava tutto il mio disprezzo e la mia rabbia. Nell'oscurità vidi avvicinarsi al mio volto qualcosa, qualcosa di lungo come un bastone.
Fermi, tutti e due!” disse la voce, agitata. La persona che ci teneva incollati al pavimento, con il solo potere di un bastone, aveva una voce conosciuta. Una voce che sentivo spesso. Una voce agitata, di una persona tuttavia non consapevole di ciò che stava facendo, ma accecata dal terrore. Non aveva tutti i torti a reagire così, dopotutto.
Jeremy, sei tu?” chiesi, colta da un illuminazione. Quella voce, l'avevo riconosciuta. Non poteva che essere lui.
Come fai a sapere il mio nome?
Non essere stupido. Riconoscerei la tua voce tra mille” dissi cauta e senza essere aggressiva, per non spaventarlo. Jeremy si mise in ginocchio ma continuando a tenere il bastone puntato e iniziò a punzecchiarmi piano, sulla testa. Sperai che il mio sguardo adirato lo colpisse.
Hayley, Taylor. Siete voi! Quanto sono felice di vedervi!” Anche nel buio, vidi un sorriso accendersi sul suo volto e per un attimo, mi accesi anche io. Mi contagiò per un attimo, perché eravamo insieme. Eravamo tutti e tre in quel luogo. E ora che eravamo uniti, potevamo uscirne. Insieme.
Anche io sono felice di vederti, Jeremy. Taylor lo è un po' meno, sai, ha perso conoscenza” feci una pausa “Per l'amor di Dio, smettila di puntarmi contro quell'arma!” Sbottai, improvvisamente, stanca di vedere quel bastone a pochi centimetri dal mio volto e toccarmi la testa. Jeremy la guardò stranito, poi reagì.
Oh sì, certo. La gamba che ho staccato a una sedia. Utile.” la posò a terra , si alzò e mi allungo una mano per aiutarmi ad alzarmi. Guardai Taylor, ancora sdraiato per terra.
Pensi sia vivo?” chiese Jeremy. Lo guardai torva.
Certo che è vivo. Sicuramente ha sbattuto la testa, quando ci hai buttato per terra” cercai di sottolineare la seconda parte della frase, per fargli capire che era colpa sua “Prima era sotto shock, credo. Non credo che questa caduta gli abbia fatto bene. Dai, cerchiamo di svegliarlo” Ci chinammo entrambi su Taylor, che respirava ancora, certo, ma sembrava entrato in uno stato di sonno profondo. Non sapevo che fare in quella situazione. Forse era svenuto? Cosa si faceva in caso di mancamenti? Mi era capitato di vedere persone perdere i sensi, e anche a me era capitato a volte, ma proprio in quel momento non riuscivo a ripescare dalla mente tutti i modi utili per agire in quelle situazioni. Presi Taylor per le braccia e iniziai a scuoterlo. Non avevo altra alternativa, mentre anche Jeremy sembrava strano e reagiva ben poco a ciò che dicevo o facevo. Infatti, rimase fermo tutto il tempo a guardare, senza muovere un muscolo. Le braccia iniziavano a farmi male, mentre cercavo di sollevare il peso di Taylor, che, dopo alcuni secondi, iniziò a riprender vita; sicuramente quello non era il modo giusto per risvegliarlo, ma avevo ottenuto lo stesso effetto. Nel momento in cui si mise a sedere silenziosamente, sfregandosi gli occhi con le dita, iniziò a succedere qualcosa. Il pavimento tramava di nuovo. I muri tremavano di nuovo. Altri suoni strani, come urla di mostri riecheggiavano nell'edificio.

Cosa sta succedendo?” chiese Jeremy.
Ce lo siamo chiesti per tutto questo tempo Jeremy, eppure non abbiamo trovato risposta nemmeno noi.

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Capitolo 5
*** Infinito ***


; Infinito

Corremmo per del tempo. Del tempo che continuava ad estendersi, davanti a noi, infinito come il posto in cui eravamo. Il tempo si prendeva gioco di noi e non sapevo quanto fosse trascorso dal momento in cui avevamo iniziato a correre, mentre eravamo bloccati in quel labirinto orribile; era probabile che le lancette dell'orologio neanche si muovessero lì, e fossimo rinchiusi in uno spazio senza limiti, usati come cavie. Uno spazio in cui ognuno di noi tre vedeva e sentiva le proprie paure del buio, dei rumori sconosciuti e di ciò che si nasconde nell'ombra, di ciò che la nostra mente si inventava. Altro non avevamo trovato che terrore, anche se fino a quel momento ero stata troppo impegnata a pensare invano a delle soluzioni, per accorgermene.
Mi sembrava di essere tornata bambina e credevo che anche per gli altri fosse lo stesso. Avere di nuovo paura del mostro sotto il letto, o di quello dentro l'armadio erano cose che sino ad allora mi erano sembrate lontane, passate e concluse; eppure la dentro, la paura era cresciuta piano piano dentro me. Mi chiedevo come potessi provare di nuovo quel tipo di terrore dell'infanzia, puro e pungente.
E poi, oltre alla paura infantile, c'era quella che derivava dal pensare a quel posto come uno spazio senza tempo, senza uscita, fuori dal mondo. La stessa paura misteriosa che si prova anche guardando il cielo, nel pensare che l'universo sia infinito. Pensare all'infinito, ti risucchia in ragionamenti più o meno logici, ma quando credi di arrivare alla risposta, portandoti all'esatto centro dell'universo, cadi di nuovo in basso e inevitabilmente ti accorgi di non aver capito nulla. Un posto del genere poteva essere solo in un sogno, secondo i miei ragionamenti. Ma ero più che sicura di non sognare. No, non proprio in quel momento. Persino un sogno sarebbe apparso molto meno reale di quella situazione.
Nel momento in cui avevamo di nuovo sentito quei rumori spaventosi, poco prima, Taylor era riuscito straordinariamente a mettersi in piedi. Sembrava ancora non capire bene cosa stesse accadendo, ma nonostante questo, quando lo afferrai per un braccio per paura che non ci seguisse e iniziai a correre, iniziò a correre anche lui senza opporre resistenza. Sentivo che qualcosa ci stava inseguendo, ma non potevo capire cos'era; non era identificabile, non poteva essere capito da una mente umana. Era qualcosa che superava l'immaginazione.
Mentre correvamo, Jeremy era quello più veloce. Correva in modo strambo e divertente con le sue gambe fini e lunghe, e ogni tanto guardava indietro forse per assicurarsi che ci fossimo ancora. In quella situazione disperata, mi scappò un sorriso nel vederlo correre quasi saltellante per i corridoi.
Taylor mi teneva per mano mentre correvamo, e questo mi confortò parecchio, perché tutto il resto cercava di farmi arrendere. I corridoi iniziarono a ruotarci attorno, tutti uguali e vagammo senza meta, senza la più pallida idea di dove stessimo andando. Ma pensai che a quel punto non fosse poi troppo importante saperlo. Non lo era davvero; neanche se l'avessi voluto con tutta me stessa, neanche in quel momento sarebbe accaduto qualcosa che avrebbe potuto aiutarci o indicarci una via di fuga.

Dove andiamo, ragazzi?” Jeremy mi strappò dai miei pensieri, e mi accorsi che ci eravamo fermati.
Di qua di certo non possiamo proseguire per un altro corridoio. Possiamo tornare indietro e cercare un altro posto in cui andare, oppure usare questa porta” aggiunse, voltandosi verso me e Taylor. Mi guardai indietro, ma come sempre non riuscii a vedere nulla. Il pavimento continuava a tremare, e pezzi di muro cadevano. Non sapevo se sarei riuscita a tornare indietro, mi accorsi che le gambe iniziavano a farmi male. Correre ancora sarebbe stato un suicidio. Guardai la porta davanti a noi, che Jeremy indicava con il braccio teso, fissandola concentrato, come se stesse cercando di capire cosa ci fosse all'interno. Era una porta più grande di quelle che avevo visto sino a quel momento. Mi voltai istintivamente verso Taylor che ancora non avevo sentito fiatare. Ma rinunciai a parlargli quando vidi sul suo volto un espressione strana, quasi assente. Avrei voluto occuparmi completamente di lui, ma in quel momento non era possibile. In realtà dovevo pensare ad ognuno di noi.
Entriamo. E' l'unica cosa che possiamo fare, ora. Tornare indietro non ci servirà a nulla” Vidi Jeremy annuire nel buio, e iniziare ad avvicinarsi alla porta e tendere la mano verso il pomello; non sapevo perché, ma più guardavo quella porta bianca e grande, più ero attratta da ciò che avrebbe potuto nascondere al suo interno, da ciò che avrebbe potuto rivelare. Sarei rimasta delusa se ci avessi trovato le stesse cose che avevo visto nella stanza in cui mi ero risvegliata all'inizio di quella strana avventura. Eppure, sentivo che nessuna delle cose contenute da quelle quattro mura avrebbe potuto deludermi.
Poi, Jeremy, piano piano aprì la porta e la spinse, senza accompagnarla con la mano. Lasciò che si aprisse da sola, aspettando che rivelasse ciò che conteneva. Cercammo di guardare dentro la stanza, restando a debita distanza, per sventare qualsiasi pericolo.

Dovremmo entrare” dissi, cercando di convincere più me stessa che i ragazzi. Jeremy tuttavia sembrò convincersi, annuì e fece un passo verso la stanza. La paura mi assalì improvvisamente, lasciando però spazio, però, anche a quel senso di attrazione che provavo poco prima verso la stanza; ero curiosa di vedere, di toccare con mano qualsiasi cosa. Quando Jeremy entrò nella stanza, mi decisi a seguirlo. Lo vedevo stare fermo, senza muoversi guardandosi intorno.
Questa stanza è allagata” mormorai appena misi piede dentro e mi ritrovai alle spalle di Jeremy. Il pavimento era ricoperto da piccole pozzanghere di qua e di la; in effetti era esagerato dire che era allagato, ma fu la prima parola che mi venne in mente. Mi guardai intorno, finalmente felice di portelo fare. Ma in quella stanza non c'era nulla; le pareti trasudavano sudiciume ed erano ricoperte di scritte a bomboletta. Una delle scritte più grandi diceva “Questa è la fine”. Mi venne subito in mente il biglietto che avevo trovato tra i fiori, nella stanza. Quel biglietto diceva esattamente il contrario della scritta sul muro. Ma che razza di scherzo di cattivo gusto era quello? La paura mi assalì di nuovo, insieme a una brutta, bruttissima sensazione. Delusa, mi avvicinai alla parete lasciando Taylor vicino a Jeremy, al sicuro. Nonostante in quel momento tutto si fosse calmato, intorno, sentivo che era soltanto la quiete prima della tempesta. La porta si chiuse di scatto, e di certo non avrei potuto immaginare che, di lì a poco, avremo trovato dentro quella stanza i nostri ricordi peggiori e mai digeriti.

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Capitolo 6
*** Infanzia ***


; Infanzia
Era estate. Estate, ma non mi veniva in mente che anno fosse. Faceva molto caldo in giardino, tra le aiuole di fiori colorati e gli insetti che vagavano sonnolenti e silenziosi, come se si fossero appena svegliati. Il cielo era sereno, e nell'aria iniziavano a diffondersi i classici odori del mattino, caffè e brioche. Stringevo tra le mani le catene che facevano parte della mia altalena, che mio padre aveva costruito per me tanti anni prima, e su cui ero seduta. Ascoltavo il rumore cigolante di quell'altalena vecchia e mi dondolavo calma da sola, nonostante desiderassi che un alito di vento mi spingesse, su e giù, senza che dovessi fare alcun sforzo. Quella mattina, ero uscita di soppiatto dalla porta di casa, dopo essermi alzata e vestita cercando di non svegliare la mia sorellina. Ero stata svegliata da un vociare, nervoso e inquieto di chi cerca di calmare la voce per non farsi sentire, di chi sta per scoppiare e urlare. Ormai, riconoscevo quel tipo di interazione tra le persone, l'avrei riconosciuto in qualsiasi situazione. Non avevo neanche fatto colazione perché per me, la cucina era una zona in cui non dovevo entrare, come d'altronde accadeva altre mattine. Davanti alla cucina c'era una barriera che mi impediva di oltrepassare la soglia. Poteva succedere che quella barriera si spostasse anche in altre stanze, e allora dovevo passarci davanti lentamente e senza farmi vedere da chi era dentro. Dovevo far finta di non sentire. Dovevo far finta di non vedere. Dovevo far finta di essere forte, davanti alla situazione che avevo davanti agli occhi, che mi ritrovavo a fronteggiare ogni giorno, quando tutto iniziava a peggiorare.

Strinsi forte le mani attorno alle catene, che mi lasciavano sulla pelle alcuni pezzi di ruggine, e cercai di trattenere le lacrime. Nonostante questo, nonostante la forza che misi nel tentativo di resistere a qualsiasi azione che dimostrasse la mia debolezza, una lacrima cadde, scivolando per il viso e cadendomi in grembo, sul vestito nuovo e colorato che portavo quel giorno. Mi concessi di far scendere qualche altra lacrima, nel silenzio del giardino, dove i rumori della casa arrivavano a malapena. Lì, in quel posto, ero sola. E quando ero sola, forse potevo permettermi di essere debole. Per una volta, solo una volta.
Continuai a dondolarmi sull'altalena, una volta finite le lacrime, con i capelli lunghi e biondo scuro che mi ricadevano sulle spalle e si muovevano leggeri. Il vociare che sentivo prima lieve e ovattato dalle mura di casa era terminato, non si sentiva più niente arrivare dalla cucina; tuttavia, decisi di non rientrare, nonostante il mio stomaco stesse brontolando. Sapevo che non era ancora il momento giusto. Quella mattina, stava per succedere qualcosa. Ne ero consapevole. Sapevo che il punto di non ritorno era stato oltrepassato da molto tempo, e che da quel momento era iniziato il conto alla rovescia alla fine. Incredibile che da una frase, possa scatenarsi l'inferno, si possa raggiungere il precipizio. Le parole sono così dure, così taglienti da annullare interi progetti di vita, promesse, migliaia di decisioni prese con calma e a mente lucida. Le parole possono rovinare, ferire.
Io vado via da questa casa” avevo sentito urlare, una notte.
Era più facile stare lì, incollata a quell'altalena e aspettare che gli eventi mi raggiungessero, senza dover fare lo sforzo di raggiungerli io stessa per accelerarli, entrando nella casetta di mattoni che avevo davanti.
E qualcosa accadde. Qualche foglia cadde dall'albero sino a posarsi sopra i miei capelli, mentre la porta di casa si aprì all'improvviso e fu chiusa, violentemente. Vidi mio padre che teneva in mano una valigia e varie borse, e mia madre, dietro, che riaprì la porta che poco prima era stata chiusa con decisione. Mio padre si lasciò cadere dalle mani tutte le borse sul vialetto dopo essersi accorto della mia presenza davanti a lui. Non sapevo leggere l'espressione sul suo volto, però rimasi a guardarlo, cercando di convincermi che non stava per succedere ciò che avevo temuto. Lo vidi avvicinarsi a me, camminando sul tappeto di foglie fresche.
Te ne stai andando” mormorai. Non era una domanda, più che altro una constatazione. Stavo cercando di convincermi della realtà. Ero una bambina, e a quell'età si sa, i sentimenti sono amplificati, esagerati, ogni cosa che accade è più grave di quanto lo sia per una persona adulta. O forse, i bambini, tendono a nascondere di meno ciò che provano al mondo. Il fatto è che, la dipartita di qualcuno può trasformarsi in tragedia; anche se sai che quella persona esisterà ancora e ti vorrà bene.
Ti resterò sempre accanto” disse mio padre, stringendomi. Non ebbi la forza di aggiungere nient'altro a ciò che avevo detto, e non avevo bisogno di rispondergli. Così, mio padre, tornò indietro e prese le sue borse, la sua valigia e raggiunse la macchina alla fine del vialetto. Non lo guardai mentre guidava in retromarcia e si immetteva nella strada, per poi scomparire. Immaginai solo lo stesse facendo. Ripensandoci, non mi sarei dovuta stupire tanto del fatto che mio padre stesse andando via. Non sapevo i motivi, ma avevo capito che la nostra casa non era più il posto adatto per lui. Quel posto, non era più il luogo in cui si sentiva sicuro di se stesso, non era più ciò che voleva. Forse a quell'età non potevo capire bene la situazione, ma avevo la vaga sensazione, al di là del dolore e della mancanza della sua presenza nella casa, che avesse fatto la cosa giusta. Per me, per le mie sorelle, per la mamma. E nonostante tutto, la ferita che mi lasciò mi rimase sulla pelle, non si cancellò mai, come un ricordo mal digerito e pronto ad unirsi ad altri, che il tempo avrebbe portato.

Mi sentii risucchiare da un vortice. Dal mio corpo di bambina, poi, mi ritrovai ad avere un corpo da adolescente. Mi sentivo sbalzata da una dimensione all'altra, senza poter controllare ciò che stava accadendo. Ed ecco che mi ritrovavo in un altro luogo, un altro ricordo doloroso..
Quella volta accadde che..

Nota dell'autrice.
Questa volta, come non era ancora successo in questa storia, sono entrata nel personale del personaggio. Spesso è difficile farlo, inventando una situazione così intima, che molte persone possono provare, e costruendo ogni cosa su un personaggio che tutti conosco. Ho cercato di basarmi su ciò che conosco e le sensazioni che si provano nella vita, non potendomi basare su una situazione reale del personaggio che ho descritto, di cui si sapessero tutti i dettagli. In questo capitolo poi, voglio ringraziare tutte le persone che stanno seguendo la storia e, di volta in volta, mi fanno sapere cosa ne pensano; al prossimo capitolo!

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Capitolo 7
*** Amore/Odio ***


; Amore/Odio
Ero un adolescente immersa in un corpo piccolo e fragile. Non ero mai stata alta, né tanto meno particolarmente forte, perciò assomigliavo più a una fogliolina che cadeva dalla chioma rossa di un albero in autunno, e danzando in aria andava a posarsi sul terreno con leggerezza, che a una ragazza vera e propria. Non che mi piacesse immaginarmi in quel modo, ma pensavo che il mondo ormai mi avesse classificato nella categoria delle cose deboli, le più deboli che esistessero. Le cose da proteggere e tenere in caldo, per assicurargli una vita. Non sapevo come avevo fatto ad andare avanti fino a quel momento; mi sembrava che ogni cosa, compresa la città mi cadesse addosso, i muri delle stanze si chiudessero intorno a me. Eppure, forse, se ero ancora viva voleva dire che il vento non aveva ancora cominciato a soffiare forte. Come una fogliolina, che deve affrontare il mondo da sola senza poter fare granché, trasportata dal vento del giorno, ero persa tra le cose che avevo sempre pensato mie, nel mio piccolo mondo di sorrisi e oggetti personali, che quella volta sembravano tradirmi. Svolazzavo di qua e di la, in apparenza da sola; eppure chissà, forse, non ero la sola ad essere trasportata da quel vento senza nessuna scelta. L'unica cosa che sapevo in quel momento, era che mi sembrava di non avere nessuno accanto.
Mi guardavo attorno, dopo essermi rifugiata negli unici spazi personali che mi facevano sentire veramente me stessa. La casa in cui ero andata ad abitare con mia madre e le mie sorelle, rispetto alla precedente, era più grande. Non la sentivo veramente mia, come quella che in cui abitavamo quando il papà era ancora con noi, o almeno non la sentivo mia interamente. Ogni emozione si disperdeva nello spazio, nella luce che entrava dalle grandi vetrate, nelle stanze ampie e fredde, come non lo erano mai state. Mi era stato riservato solo un posto, che a modo mio avevo reso accogliente; l'unico che potesse essere vissuto da me, me soltanto. Non sentivo il bisogno di personalizzare nessun'altra stanza, come se quella casa non fosse fatta per me. La privacy che avevo conquistato, scegliendo la mia camera da letto, in quel momento mi andava stretta. Non sapevo come, non sapevo perché, ma nonostante fino a quel momento volessi tenere chiusa dentro me ogni cosa, ora desideravo esplodere.
Sulle pareti, i poster dei miei idoli, le miriadi di foto dei miei amici, sorridevano. E quei sorrisi che di solito sembravano felici, ora mi apparivano soltanto come dei ghigni beffardi, rivolti a me, al centro della stanza. Derisa da ogni volto, non facevo altro che avvolgermi nella mia pelle trasparente e mai troppo protettiva nei confronti di ciò che c'era dentro. Quelle pareti che avevo intorno erano imbevute di sentimenti, emozioni che potevo ricordare benissimo, anche solo guardando le immagini appese, con i volti congelati in un attimo di felicità, un ricordo ormai passato, da aggiungere ad altre mille pagine e giorni da scrivere e fotografare ancora. Ed era proprio da alcune di quelle immagini, che uscivano fuori i demoni peggiori, a ricordarmi qualcosa. A ricordarmi che la fine arrivava sempre, in ogni occasione. La conclusione di un evento mi aspettava costantemente, negli angoli più bui delle strade e delle stanze, mi seguiva ogni volta che mi spostavo. E quei demoni albergavano nell'anima delle foto e non intendevano andarsene. I fratelli Farro, infatti, sorridevano felici davanti ai miei occhi.
Li avevo conosciuti quando arrivai a Nashville, i miei migliori amici. Uno di questi era Jeremy, e per me era come un fratello maggiore. Poi, avevo conosciuto Taylor, e anche in questo caso avevo sempre visto anche lui come un fratello, ma un fratello minore. E infine c'erano proprio loro. Quei fratelli così simili, eppure anche così diversi. Avevo stretto un rapporto speciale con ognuno di loro, ma era innegabile che tra me e Josh ci fosse un intesa speciale. Potevo dire con decisione che lui fu il mio primo amore; certo, avevo avuto delle cotte, più o meno importanti, ma in cui il mio interesse non era mai corrisposto, tanto meno preso in considerazione. Neanche io mi rendevo conto che mi stavo innamorando, nel momento in cui stava accadendo. Me ne resi conto soltanto dopo, quando ormai tutti l'avevano capito, e io cercavo ancora di aggrapparmi a tante scuse come “No, lui è solo un amico”, e frasi simili, con cui provavo a giustificare il rapporto che si era creato tra noi, per non sapere cosa sarebbe accaduto dopo, per non dover accettare un rifiuto.
Sorprendentemente, senza neanche confessargli ciò che provavo per lui, sapevamo entrambi tutto. Non mi sarei mai aspettata una cosa del genere, eppure tra di noi c'era un'intesa che agiva in ogni momento, senza il necessario uso delle parole, come se fossimo sempre sulla stessa lunghezza d'onda. In tutto il periodo che passammo assieme, potevo affermare di essere la persona più felice del mondo. Quale persona, che ha passato la sua infanzia da sola, non sarebbe stata felice di trovare qualcuno che si prendesse cura di lei, occupandosi di ogni cosa? Sapevo di essere completamente e irrimediabilmente innamorata di lui; mi aveva risucchiato tutte le forze, eppure, in un certo senso, a me andava bene così. Ero la persona più stupida del mondo.
Tutti pendevano dalle sue labbra, come se avesse tante calamite addosso, e attirava ogni persona e sguardo. Nonostante questo, pur guardando le foto appese alla parete della mia camera, non riuscivo a realizzare che lui non fosse mio. Che lui fosse di ogni persona che lo guardava, ammirava, tranne che mio. Avevo accettato a lungo quegli sguardi indiscreti e gelosi che ci bersagliavano e mi trafiggevano. Avevo accettato abbastanza a lungo ogni cosa, come se io fossi lì per accettare soltanto gli sbagli e passarci sopra, e mai avere un attimo della pace che meritavo.
Avevo accettato persino la fine, anche se solo in apparenza. Anche la fine di quella storia, proprio come il suo inizio, era arrivato talmente in fretta da assomigliare a un soffio di vento primaverile; rischiara la mente e i pensieri e poi, in un attimo sparisce.
Sapevo che, quelle parole che mi aveva rivolto, parole di dolore e che mi riecheggiavano ancora in testa, non sarebbero scomparse se non col tempo. Le parole, dette all'angolo della via, col buio e la pioggia scrosciante che mi inzuppava i vestiti, non sarebbero evaporate molto in fretta, neanche se avessi voluto. Più si cerca di scacciare un ricordo, più quel ricordo affonda le radici nella mente, rilasciando il suo veleno.
Così, in bilico sul ciglio del burrone che si era aperto tra di noi, riuscivo solo a vedere il buio. Il buio di non sapere cosa avesse spinto la nostra storia ad andare verso la fine. Perché la scintilla si era spenta, perché il vento aveva soffiato forte, in quel momento?
L'unica cosa che potevo pensare, a mente lucida e dopo giorni, era che la fine non aveva un senso. La fine si faceva sentire, e ogni volta che iniziava ad arrivare, non c'era modo di fermarla. Non c'erano parole in grado di addolcirla.
Il telefono squillò sulla scrivania, affianco a me. Non risposi scorgendo il nome sul display, ma presi semplicemente la forza per alzarmi e strappare dal muro quelle facce che mi deridevano. Le foto di noi, un'altra versione di me stessa, ben lontana da ciò che ero in quel momento.
 Da quel momento avrei cercato di apparire sicura in qualsiasi situazione, costasse quel che costasse. Nessuno avrebbe mai dovuto vedermi fragile. Le ferite, non avrebbero mai più dovuto essere viste.

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Capitolo 8
*** Abbandono ***


; Abbandono

Guardai i fratelli Farro allontanarsi e caddi, facendomi male alle ginocchia. Ma quel dolore, il dolore che provai sbattendo per terra, non sarebbe mai potuto essere grande come quello che provavo all'altezza del petto. Mi ero lasciata cadere sulle ginocchia come avevo lasciato cadere sul pavimento il microfono che tenevo in mano, perché non riuscivo a controllare nessuna parte del mio corpo. Ma non ne sentii il rumore, non sentii il rumore di nulla, era come se mi stessi spegnendo. La gola si strinse, formando un nodo e non provai neanche a parlare o urlare. Sarebbe stato impossibile, e avrei emesso solo suoni spezzati dal pianto. Non c'erano parole per quella situazione. Non era rimasto più nulla, se non un fiume che sgorgava dai miei occhi, e inondava le guance calde, bollenti, come in un giorno d'Agosto. Cercavo di guardare il corridoio davanti a me, nonostante la vista annebbiata. Ogni cosa aveva perso colore e i suoni erano attutiti. Persino la porta che sbatteva, sembrava avere un rumore leggero, lontano da me. Nel mio attimo di black-out non sentii nulla. Mi rinchiusi nel piccolo spazio della mia mente, dove un ronzio incessante era l'unico rumore che mi faceva pensare di essere ancora viva e vegeta, e il corpo non diventò altro che un guscio vuoto.
Le pareti mi cadevano addosso.
Come ogni volta, le cose erano accadute troppo in fretta. In un attimo le parole si erano trasformate, e dall'essere positive, erano diventate negative. Conoscevo bene quella situazione. Quel momento in cui l'aria intorno a me cominciava a diventare irrespirabile, troppo tesa. Vibrava così tanto da diventare insopportabile. Nessuno si mosse dalla posizione in cui era, quando successe quel fatto. Rimanemmo tutti congelati in quell'attimo, finché l'incantesimo che poco prima era stato lanciato, non si spezzò. Finché il tempo non ricominciò a scorrere normalmente, e Josh e Zac uscirono dalla stanza a grandi passi. Uno con più decisione, l'altro meno. Le loro parole continuavano ad aleggiare nella stanza, per dissolversi piano. Solo Zac, quella volta, si voltò indietro, come se non volesse davvero andarsene. Come se si stesse lasciando solo trascinare via dal vento, dal destino. Da un filo invisibile che legava lui e il fratello, che lo teneva alle strette. Guardando il suo viso, non riuscivo ancora a realizzare bene cosa stesse accadendo, ma riuscivo a percepire il dispiacere, che contribuiva a farmi del male, ad angosciarmi e darmi rabbia. Josh invece camminò dritto, come se non avesse ripensamenti, senza dispiacere, deciso e fermo sulla propria scelta. Allargò la grossa voragine che avevo tentato sino a quel momento di nascondere, tra me e lui. Una voragine scura e nera, che stava segnando la nostra lontananza, passo dopo passo, e che, tra gesti e parole non riuscivamo a colmare. Senza accorgercene, ogni giorno, grattavamo via i bordi di quella voragine, che inevitabilmente diventava sempre più grande. Nessun abbraccio, nessuno bacio poteva sanare i nostri mali e noi eravamo estranei nella veste di amanti. Io e Josh. Sempre io e lui.
E quel giorno, la voragine si era allargata ancora, con poche parole. E sapevamo che seppure avessimo provato a parlare, a cambiare le cose, non sarebbe servito a nulla. Mi resi conto come, a volte, il potere delle parole era immenso, mentre a volte, semplicemente, parlare non serviva a nulla. Le cose non sarebbero mai più tornate come prima.
Lasciamo la band” Come fosse un eco, continuavo a sentire quella frase. Con la stessa voce profonda e decisa di Josh, vedendo la stessa faccia contrariata di Zac. Sentendo gli stessi passi che si allontanavano da me, Jeremy e Taylor ancora e ancora. Non ci aspettavamo che quel momento arrivasse tanto in fretta. Come altre volte, avevo avuto paura che accadesse, ma cercavo di rimandare quel pensiero, pensando che non sarebbe mai accaduto. E invece, quell'evento, era rimasto acquattato in un angolo, aspettando solo il momento “giusto” per accadere.
E come era già successo, ero stata abbandonata di nuovo. Le mie emozioni, ciò che provavo era stato schiacciato per una seconda volta. Avevo provato a superare l'abbandono, la volta precedente, eppure, sapevo che non mi avrebbero mai lasciata, quella rabbia, quella sensazione di solitudine che mi avvolgevano. Ero solo un umana, avevo uno scheletro dentro me. Carne e ossa, emozioni che fluivano nel sangue. Amore e gelosia, odio e rancore. C'era tutto.
Hayley calmati” mi accorsi solo in quel momento di un groviglio di braccia calde che mi tenevano stretta. Jeremy e Taylor, in ginocchio sul pavimento come me, mi sussurravano all'orecchio.
Tranquillizzati” disse Jeremy.
Non piangere” fece Taylor. Ma nonostante mi dicessero quelle cose, sapevo che loro stessi non stavano seguendo quei consigli. Sentivo il loro tremare sulla pelle, che si fondeva col mio. Neanche in quel momento sapevo cosa avrei dovuto aspettarmi dal futuro. Il mondo mi sembrava ancor più di prima un posto selvaggio, una giungla.
Ma forse c'era ancora qualcosa per cui valeva andare avanti.
Quell'abbraccio caldo, accogliente, valeva più di ogni cosa. Era come essere a casa, pur non essendoci effettivamente. Pur trovandosi nell'esatto centro dell'inferno.



Nota dell'autrice.
Questa volta, ci ho messo un po' ad aggiornare! Mi scuso con chiunque stia seguendo la storia, ma anche con me stessa. Mi è mancato molto scrivere e aggiornare questa storia, ci pensavo praticamente sempre! Ciò che però è più difficile, è vedere questa storia che si conclude. Ebbene sì! Purtroppo, ogni cosa si sta avviando verso una conclusione e già so che questa storia mi mancherà tantissimo. In qualunque caso, abbiamo da passare ancora dei momenti insieme. Perciò, buona lettura dei prossimi capitoli, e spero di leggere i vostri pareri! Grazie a tutti.
 

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Capitolo 9
*** Coraggio ***


; Coraggio

Riaprii gli occhi nell'oscurità. Era come se per un attimo, che mi era parso infinito, mi fossi smaterializzata, fossi uscita da quel posto e avessi vissuto altri ricordi. Eppure, nonostante sembrassero tremendamente reali, quei ricordi, erano solo allucinazioni. Ero sempre rimasta in quella stanza. Quella stanza, non l'avevo mai abbandonata, o forse chissà, lei non aveva mai abbandonato me. Come se facesse parte di me. I ricordi che avevo rivissuto mi erano sembrati talmente vividi da farmi pensare di essere tornata indietro nel tempo. Prima ero piccola, poi adolescente, poi una giovane donna. Come in una corsa contro il tempo ero cresciuta in un sol attimo di ricordo, per poi tornare quella che ero. I miei tre ricordi più brutti, quelli che mi avevano ferito di più, li avevo rivissuti. In qualunque caso, c'entrava sempre la perdita di qualcuno. Mio padre, la persona che amavo, due membri della band. Era come se, in qualche modo, si fosse azionata una reazione a catena, strana e crudele, che mi faceva perdere persone a cui tenevo, scelte a caso nella mia vita. Persone sempre più essenziali, persone di cui, al momento in cui le perdevo, sapevo di non poter fare a meno.
Mi guardai attorno. Come se non fosse passato neanche un secondo, Jeremy e Taylor erano precisamente dove li avevo visti l'ultima volta. Jeremy esaminava la stanza, Taylor sembrava apatico, con lo sguardo ancora perso. Chissà se pensava, se frugava nella sua mente, oppure semplicemente se anche la sua mente era ferma. Avrei voluto chiedere se anche loro, per un momento, fossero usciti da quel luogo, con la mente. Ma non lo feci. Se anche avessero visto qualcosa, come me, forse non era il caso di parlare. Era qualcosa di troppo intimo e importante e me ne rendevo conto da ciò che avevo visto io stessa. Non sarebbe stato giusto rigirare il coltello nella piaga. Eppure, in un angolo nascosto dentro me, sapevo che, se avevo rivissuto quei ricordi, forse non era per soffrire; doveva esserci un motivo, un motivo valido, una soluzione. Avevo già sofferto una volta e non volevo scegliere di stare ancora male. Le ferite si stavano rimarginando e quei ricordi erano solo l'ultima macchia sulla pelle, che stavo vedendo sparire. L'ultimo modo per pensare a quei momenti sentendo qualcosa di negativo. Erano i momenti che poi avrei potuto ricordare con un sorriso. Decisi di dare a quella stanza un nome: la stanza dei ricordi. Iniziai persino a dare un senso alla scritta 'La fine è vicina'. Sì, la fine di molte sofferenze. Non sapevo quale fosse il significato, ma potevo dargliene uno mio. Perché la verità, era ciò che vedevo io, in quel momento, e non una cosa irraggiungibile, e che non potevo capire.
Jeremy, Taylor?”chiamai nel buio, con voce calma. Li vidi voltarsi nell'oscurità, con una lentezza sovrannaturale verso me e rimanere a fissarmi.
Sta arrivando di nuovo” affermai “Arriva
Sentii dei rumori di nuovo, come quelli delle volte precedenti. Jeremy si chinò e raccolse da terra qualcosa, come il bastone con cui l'avevo trovato la prima volta. Effettivamente, quel posto era colmo di così tante macerie, che sarebbero potute diventare tranquillamente una scorta di armi rudimentali, per chi è costretto ad arrangiarsi, come lo eravamo noi.
Sì, sta arrivando qui. Sa dove siamo, questa volta” rispose Jeremy “Sente il battito del cuore” aggiunse. Lo guardai in viso, e in quel momento capii che dovevo ringraziare quei due compagni di viaggio che avevo affianco, benché il fatto che non fossero reali, mi colpì tutto ad un tratto. Erano riflessi della mia mente, e forse anche io, in quell'ambiente macabro, non ero altro che un riflesso di me stessa. Ero irreale.
Ci siamo messi in trappola da soli” esordì Taylor dopo molto tempo. Raccolsi una delle pietre da terra e ci riunimmo tutti al centro della stanza. Sentivamo i passi, se così potevano esser definiti, venire verso di noi, raggiungere la nostra Stanza dei ricordi.
Non serve a niente che ci armiamo” dissi, perché sapevo che le cose stavano esattamente in quel modo. Jeremy annuì, e ci silenzio per alcuni secondi, secondi durante il quale la mia mente si affollava di domande, come ad esempio cosa avremo dovuto fare in tutto quel tempo, in quel luogo strano. Se il nostro obiettivo era davvero quello di trovare quella stanza, o se avessimo dovuto fare qualcos'altro. Era stato giusto scappare? Forse, ciò che dovevamo fare era sin dall'inizio esorcizzare le nostre paure e affrontarle. Forse era quella la fine, la chiave di tutto; aspettare in silenzio, prendere coscienza di noi stessi, guarire e dominare la mente, padroni di ciò che era nostro.
Eravamo forse noi, i mostri di noi stessi?
Dopo tutti quei ragionamenti, non riuscivo ad avere paura. Era come se stessi aspettando quel momento da così tanto tempo, dentro me, che non ci fosse altro da fare che usare il coraggio raccolto, durante tutto quel tempo. Non sapevo la risposta a tutte le domande che mi ero posta, ma non era importante; decisi che non c'era altro da fare che lasciare tutto al caso.
Devi solo chiudere gli occhi. E tutto finirà..velocemente” rispose Jeremy. Lo guardai in volto confusa, ma lui non mi guardò.
La figura nera, indescrivibile, si stagliò davanti alla porta. In un attimo, sperai che quel luogo cadesse a pezzi, che quel “mostro” fosse seppellito in quel luogo macabro, che non era altro che la prigione della nostra anima, con i nostri mali immagazzinati dentro. Nel momento in cui iniziai a desiderare che tutto crollasse, mi accorsi che i tremori nell'edificio erano già iniziati. Guardai Jeremy che con fare deciso teneva teso il bastone verso la porta, senza lasciar trasparire nessuna emozione. Guardai Taylor che invece era teso come una corda di violino, piuttosto impaurito.
Poi guardai in alto. Delle crepe si stavano formando sul soffitto. E questa fu l'ultima cosa che vidi. Ogni cosa, il soffitto, forse anche il pavimento, si frantumarono in mille pezzi, e io iniziai a cadere.

Tutto scomparve.

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Capitolo 10
*** L'ultimo risveglio ***


Aprii gli occhi. Tutto appariva strano e irreale, intorno a me. Dalla finestra arrivava una luce serale dal colore rosso intenso, che mi accecava. I miei occhi erano abituati al buio, e la testa pesante e colma di vuoto non si era avviata per bene. Non ero ancora riuscita a formulare un pensiero sensato sulla mia situazione in quel momento, perché nel mio cervello erano ammassate una marea di informazioni, che non riuscivo a riordinare. Una tempesta di immagini e confusione si era scatenata dentro me. C'erano troppe cose che attendevano di essere ragionate, ma io ancora non riuscivo a collaborare con me stessa, così, nell'attesa di riuscirci rimasi dov'ero, abituandomi alla luce intensa, sbattendo le palpebre e stropicciandomi gli occhi, riuscendo man mano a distinguere sempre più figure nella stanza. Un comodino, un armadio, uno specchio nell'angolo della stanza, la finestra e le tende bianche scostate, che lasciavano entrare le luce. Nonostante mi fosse familiare, non era la mia stanza. Così mi sforzai di capire dov'ero, ma non arrivai subito a una risposta, sinché non spostai lo sguardo sulle due figure sulla soglia, immobili.
Vidi Jeremy e Taylor davanti a me, che mi fissavano con aria interrogativa, come se avessero dei grandi punti di domanda stampati sulla faccia. E solo in quel momento, mi accorsi di essere per terra, attorcigliata nella coperta e con un dolore pungente al sedere. Quella in cui mi trovavo era la stanza di Jeremy. Come avevo fatto a non riconoscerla?

Sei caduta dal letto” disse Jeremy sorridendo, dopo qualche attimo di silenzio. Si avvicinò insieme a Taylor ad aiutarmi, mentre si trattenevano dal ridere.
Hai fatto molto rumore.. E hai urlato!” aggiunse Taylor, togliendo le coperte da terra, una volta assicuratosi che ero sul letto, poi mi coprì di nuovo. Mi sentii leggermente offesa, d'altronde non l'avevo fatto di proposito. Durante il sonno facevo spesso cose strane, ma quella volta avevo superato me stessa. Non ero mai caduta dal letto, al massimo mi mettevo a sedere nel sonno e dicevo parole a caso. Comunque, cercai di non prendermela, rendendomi improvvisamente conto di quel che era successo, con la mente un po' meno impastata dal sonno e dei ricordi di un incubo che iniziavano a tornare a galla.
Ho fatto un sogno” dissi, realizzando ciò che era accaduto “Un sogno strano
Altre sensazioni cominciarono a tornare dal sonno. Avevo provato paura, e di questo ero certa. E probabilmente, anche nel sogno, ero caduta da qualche parte. Come in un grosso buco nero, come se il pavimento si fosse spalancato sotto i miei piedi.

Non l'avrei mai detto” rispose Jeremy, sedutosi sul letto affianco a me. Misi il cuscino in modo da poterci appoggiare la schiena e iniziai a riflettere, cercando di ricordare quanti più particolari possibili. Ancora scossa, però, i dettagli faticavano a tornare, e sapevo che quel sogno, più di tutti gli altri che avevo fatto nella mia vita, doveva avere un senso. E quel senso dovevo farlo mio.
Ti va di raccontarci ciò che hai sognato?” chiese Taylor, rompendo il silenzio. Annuii, pensando che forse sarebbe stata la cosa giusta da fare.
Così iniziai a farlo. Raccontai ogni cosa che ricordavo. Quello, come qualsiasi altro sogno, mentre dormivo mi aveva fatto tutto un altro effetto. Avevo provato emozioni come paura, mi ero sentita persa, poi coraggiosa. Ma mentre lo raccontavo da sveglia, era come se stessi capendo che volesse insegnarmi qualcosa, nonostante non ricordassi ogni particolare e potessi solo raccontare quello che era il succo di ciò che avevo visto. Man mano che raccontavo, la morale di quel sogno si stava facendo viva nella mia testa, così avrei potuto far riflettere anche i ragazzi su ciò che mi era stato insegnato dalla mia stessa mente, perché mi resi conto che quel sogno non poteva non significare qualcosa. Jeremy e Taylor avevano una faccia sbalordita mentre ascoltavano il mio racconto, ma quel sogno, dove persino loro erano presenti, forse iniziava a prender forma anche nelle loro menti. Come se loro conoscessero quel sogno, e l'avessero vissuto in un modo o nell'altro.
E la mia storia finì, in pochi secondi, nonostante mi sembrasse di averla vissuta per ore.

Perché i mostri sono i nostri ricordi.
A volte dolci, a volte amari, lasciano un segno sulla pelle.
Possono far star male, e proviamo a cancellarli, velocemente, senza pensarci,
ma solo col tempo, possiamo riuscire a lasciarli andare via dalla nostra mente.


Nota dell'autrice.
Ed eccoci qui, questo è l'ultimo capitolo. Purtroppo, non sono sicura che tutti abbiano potuto percepire il senso di questa storia. Credo di averla scritta per tutti, ma soprattutto per me stessa. È una storia che per alcuni può non avere significato, potrebbe essere inconcludente. Ma per me è piena di senso. Ho sempre pensato che i sogni abbiano un loro perché e mi affascinano molto. Per di più, penso anche che i sogni siano collegati ai ricordi, e molto spesso li raccontino. E i ricordi, sono i nostri mostri. I ricordi sono tutto ciò che a volte non vogliamo dimenticare, oppure, come in questo caso, qualcosa che vogliamo far andare via al più presto. E non capiamo che il tempo soltanto può aiutarci a superare le ferite, a curarci e prenderci cura di noi stessi.
In questo caso, la nostra protagonista scopre il momento in cui può superare i suoi mali durante il sonno. Uno stato in cui la verità si mostra nuda, e lei riesce a comprendere ciò che deve fare, raccontandolo ai suoi amici. Da qui, nasce Monster.
Ringrazio ogni singola persona che ha letto questo storia, perché ha tenuto duro sino alla fine e.. sta tentando di capire i miei viaggi mentali. Folli viaggi mentali!

 

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