Hand in glove

di La neve di aprile
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Just a rainy afternoon...? ***
Capitolo 2: *** The long long night in the city of the angels ***
Capitolo 3: *** (Not) so sweet romance ***
Capitolo 4: *** Compromise (me) ***
Capitolo 5: *** In a place outta sound ***
Capitolo 6: *** The ground beneath their feet [ minutes to midnight ] ***
Capitolo 7: *** The ground beneath their feet [ the moolight serenade] ***
Capitolo 8: *** Trouble in heaven ***
Capitolo 9: *** Here without you ***
Capitolo 10: *** Promises, dramas and whisky [part I] ***
Capitolo 11: *** Promises, dramas and whisky [part II] ***
Capitolo 12: *** What I've done ***
Capitolo 13: *** Carry on ***
Capitolo 14: *** The end of an era ***
Capitolo 15: *** The one that got away/baby please come home ***
Capitolo 16: *** Keep holding on ***
Capitolo 17: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Just a rainy afternoon...? ***


Disclaimers



Questa fanfiction è il tributo di una fan e non rivendica alcun diritto sull’opera citata, né persegue finalità lucrative. 



Non si ritiene infranto alcun copyright o altro diritto depositato.




L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright dell’autrice (La neve di aprile).


Capitolo revisionato 17 dicembre 2012

 

 

HAND IN GLOVE

#1 JUST A RAINY AFTERNOON…?

 
 

PARLA ROXANNE:
Ricordo la prima volta che ti vidi, Izzy.

È una scena che si è stampata nella mia memoria, un marchio che non vuole saperne di sbiadire.

Pioveva da giorni, non c’era stato un attimo di tregua.

Neppure il più piccolo spiraglio di sole.

Il cielo continuava a vomitare pioggia sulla città, che scintillava.

Le luci dei lampioni, le vetrine, i grattaceli: si rifletteva tutto nelle strade coperte di pozzanghere.

Ricordo che quel giorno non avevo voglia di starmene a casa.
Avevo litigato con Tom, il mio ragazzo all’epoca, e bruciavo di rabbia.

Mi sembrava di andare a fuoco e, stupidamente, pensai che forse camminare sotto la pioggia mi avrebbe fatto bene.

Scesi in strada così, con addosso una felpa sbiadita e un paio di jeans sdruciti, le mie inseparabili all star rosse ai piedi.

Ero giovane, allora, giovane e stupida.

Lo eravamo entrambi, a pensarci bene, pieni di problemi da cui cercavamo in tutti i modi di fuggire.
Fermarci e affrontarli, era l’ultima cosa che ci passava per la testa.
La cosa buffa, è che io non ti riconobbi.

Quando ti sedesti vicino a me, su quei gradini, e mi offristi una sigaretta, io ti vidi solo come un ragazzo carino completamente fradicio che si nascondeva dietro un paio di occhiali da sole.

Non avevi niente a che vedere con l’Izzy dei Guns’n’Roses che conoscevo io, eri una persona come un’altra.
E forse fu proprio per questo che accettai quella sigaretta.

Perché se avessi saputo anche solo minimamente a cosa andavo in contro, è probabile che quel giorno sarei fuggita a gambe legate.

 

 
Can't believe how easily the silences can explain

Some things that always seem so hard to say

I can't believe how hard some things are to say
 

Sophia, I can’t believe the things I can’t believe.

 
 
 
LOS ANGELES, settembre 1987
“E così,” disse dopo un po’ il ragazzo, aspirando un avida boccata di fumo, “ti chiami Roxanne.”

La ragazza annuì, passandosi una mano sul viso per scostare qualche ciocca fradicia scivolatale sugli occhi scuri.
Soffiò fuori il fumo della Malboro che lui le aveva offerto e colse l’occasione per guardarlo di sbieco: per essere bello, era bello.

Nonostante la pioggia avesse inzuppato i suoi vestiti, sformandoli e appendendoli al profilo sporgente di una magrezza eccessiva, aveva in sé il fascino sfacciato di chi non ha riguardo per nessuno, e probabilmente neppure per se stesso.
Quel genere di bellezza sfrontata che tendeva ad evitare con diffidenza, consapevole del fascino che esercitava su di lei.
“Roxy, per gli amici,” aggiunse dopo qualche attimo, rigirando il mozzicone ancora acceso tra le dita con aria distratta, valutandolo silenziosamente. “E tu?”

Il ragazzo fece un sorriso sghembo – gli occhi ridenti dietro le lenti scure degli occhiali –, si concesse un altro tiro e poi le soffiò il fumo in faccia, assieme al suo nome.

“Izzy.”

“Come quello dei Guns,” osservò lei senza sorrisi, abbracciandosi le ginocchia con le braccia.

La felpa, ormai zuppa di acqua, era pesante quasi quanto il suo fardello di pensieri.
“Come quello dei Guns,” le fece da eco lui, regalandole un altro sorriso.
Roxanne si ritrovò ad arrossire, suo malgrado, sentendosi nuda davanti a degli occhi di cui non conosceva neppure il colore.
“E scommetto che magari suoni pure la chitarra.” commentò, cercando di mascherare il disagio dietro un velo ben fitto di sarcasmo tagliente.
“Ci puoi giurare, gioia.” le assicurò lui, con un tono di voce che le fece venire i brividi.
“Anche io.” chiuse gli occhi, reclinando il capo all’indietro.

Sentiva gocce di pioggia scivolarle lungo il collo e poi giù nella schiena.

Sentiva anche il suo sguardo bruciarle addosso, ma non intendeva ricambiarlo.
“E suoni pure in una band?” domandò Izzy, cercando di dare un senso che fossi almeno accettabile ai meccanismi di quell’attrazione che sentiva per quella taciturna ragazza del tutto incurante della pioggia battente.
Quando Roxanne tornò a guardarlo, cercò senza errore i suoi occhi con una sicurezza che lo intimorì. Era la sicurezza delle bestie feroci, che ti saltano alla gola per evitare che tu arrivi alla loro.
“Io no, ma conosco parecchi musicisti. Tu?”
 “Si, suono in una band. Magari...” s’interruppe, senza proseguire.
Rivelarle chi fosse veramente avrebbe sbilanciato a suo favore il sottile duello verbale che stavano combattendo, soppesandosi e valutandosi a vicenda sotto lo sguardo vigile di un temporale estivo cupo come le loro espressioni, greve quando i loro cuori.
Gli piaceva essere considerato esattamente per quel che era, piuttosto che per quel che sembrava essere su un palcoscenico o nelle righe di un’intervista da quattro soldi.
Gli piaceva essere esattamente chi era, senza i filtri luccicanti dello show.
“Magari se mi dici con chi suoni posso anche dirti se li conosco o meno, eh!” lamentò lei, aggrottando la fronte e lanciando via il mozzicone, condannandolo ad affondare in una pozzanghera melmosa ai suoi piedi.
Izzy rimase sorpreso.
Non perché non fosse stato riconosciuto, ma per il vago disinteresse di cui faceva sfoggio senza premure. L’assenza di curiosità trasformata in cortesia spiccia, il riserbo di chi chiede pur di non rivelare.
“Beh? Ti aspettavi che ti riconoscessi?” insistette lei, confermando quella che fino ad un istante prima non era che un’ipotesi appena abbozzata.
Izzy stiracchiò un sorriso sornione, sghembo.
Un taglio su un volto pallido che guizzò elettrico lungo la spina dorsale di lei, scuotendola in un brivido che finse solamente fosse dovuto alla troppa pioggia.
“Diciamo che mi aspettavo tante cose.” Ribatté con una stretta di spalle e un ammiccamento che la fece ritrarre. Aveva una risata sulla punta della lingua, e in punta di dita un formicolio che suggeriva l’urgenza fisica di scostarle i capelli scuri – bende d’ossidiana – dal volto sbiadito.
“Non sei di qui, vero?” le domandò invece, cacciando le mani nelle tasche sdrucite dei jeans che indossava e frugandole alla ricerca di una sigaretta.
Roxanne lo precedette, allungandogli quel che restava del suo pacchetto prima e sporgendosi per accendere poi.
I riflessi caldi della fiamma dell’accendino guizzarono per un attimo sulle minuscole gocce di pioggia che le ricoprivano il viso. Poi, una sottile nuvola di fumo amaro attutì ogni sua consapevolezza in un tonfo soffice.
“Neppure tu,” chiosò abilmente lei, “hai l’accento di qui. Da dove arrivi?”
“Indiana,” sputò fuori Izzy con un astio che credeva dimenticato “LaFayette. Una cazzo di città inutile dove non ho mai trovato niente di buono a parte… Bill.”
Tentennò impercettibilmente e la vide sorridere con delicatezza, distogliendo lo sguardo scuro come a concedergli un istante di riserbo privato.
“Il mio migliore amico,” dovette precisare.
“L’avevo immaginato,” lo rassicura tagliente nel tono, sfilando un sorriso e addolcendo i tratti del volto per il tempo di un battito di ciglia.
Perché il cuore, invece, quel battito l’ha perso per strada, incastrato da qualche parte nella curva delle labbra di lei.
“A giudicare da come te la ridevi, direi che invece avevi immaginato tutt’altro.”
“Non c’è niente di male nell’essere… diversi!”
“Diversi, si dice così qui?”
“No,” fece lei con durezza inaspettata, “si dice deviati nella migliore ipotesi, malati quando non si vuole accettare qualcosa che la natura considera del tutto naturale, e tutta una sequela ignobile di insulti che sono sicura non serva ripeterti.”
“Non sono… gay.”
“Decisamente no, sembri troppo vergine di insulti per esserlo davvero…” lo schernì pronta, la voce calda e abile nel mescolare serietà e sarcasmo sino a rendere troppo labile e confuso il confine tra verità e menzogna.
Quale che fosse la sua idea, Roxanne era straordinariamente brava a nasconderla.
Izzy la fissò in silenzio, soppesandola per l’ennesima volta e rinunciando ancora a capire cosa, di lei, lo attraesse con tanta insistenza.
Da sempre aveva un debole per le bambole bionde, non se lo era mai nascosto e mai si era negato il piacere di una lucida massa color del grano nell’intimità del suo letto; in altre circostanze non avrebbe mai attaccato bottone con quella ragazza che della bambola sciocca e superficiale non aveva proprio niente.

Non seppe trattenere l’impulso di andarle più vicino e chiuse gli occhi, mentre le scivolava incontro di qualche centimetro, pregando silenziosamente che non si scostasse.

Roxanne non fece nulla, continuando a fumare tranquillamente quella Malboro che sembrava non finire mai.

Tutto d’un tratto non aveva più nulla da dire.
Un enorme buco nero gli aveva risucchiato ogni pensiero, ogni idea, qualsiasi cosa.

Al centro della sua testa c’era solo lei.

“Roxy,” la chiamò dopo qualche attimo, mentre il fumo le scappava dalle labbra socchiuse.

“Mh?” gli scoccò un’occhiata pigra, gli occhi socchiusi in due fessure d’indifferente oscurità.
“Perché te ne stai seduta sui gradini di una chiesta, sotto la pioggia?”
“Per lo stesso motivo per cui ci stai tu.” rispose riaprendo gli occhi su di lui e allungando una mano verso il suo viso, dove le dita indugiarono tra la sua guancia e i suoi occhiali, prima di chiudersi a pugno e allontanarsi, senza sfiorare nulla.

“Cioè?” insistette, afferrando quella mano prima che andasse a nascondersi tra le larghe pieghe fradice della felpa.

Lo lasciò fare, osservandolo schiuderle le dita bagnate e lasciar scivolare i polpastrelli sul palmo.
Trattenne un brivido, ma perse la presa sulla sua riservatezza cedendo al bisogno fisico di condivisione che le bruciava il basso ventre con intensità insostenibile.
“Scappo.” capitolò, ritraendo la mano.
Le piaceva il modo che aveva di toccarla – di esplorarla, come, un centimetro di pelle alla volta -, ma non poteva permettersi di lusso di un abbandono totale.
Cosa avrebbe preteso, una volta scoperto ogni palmo di pelle?
Quanto a fondo sarebbe andato?

Non lo conosceva, ma aveva come l’impressione che se non fosse stata attenta abbastanza si sarebbe radicato in lei come un male incurabile, o una gioia irrefrenabile, così a fondo che dimenticarlo o sfuggirgli sarebbe stato impossibile.
Eppure non riusciva a fare a meno di guardarlo.

Di percorrere ogni singolo centimetro del suo viso pallido con gli occhi.

Smaniava per potergli togliere quegli occhiali da sole, ma non aveva il coraggio di farlo, temendo che non sarebbe stata in grado di fermarsi e toglierli solo quelli.

Vederlo e volerlo erano le stesse facce di un unico istinto, lo realizzò con chiarezza quando fu Izzy a raccogliere il suo polso tra le dita e trattenerlo con dolcezza.
Fece per ritrarsi, ma sussultò mentre la stretta si faceva leggermente più intensa, invitandola a rimanere.
“Scappi da cosa, Roxanne?”
A concedersi.
“Te lo dico se dici a me perché tu stai scappando” replicò sulla difensiva, diffidente.

Erano troppe le emozioni che le si aggrovigliavano dentro, e non era sicura di saperle gestire senza esserne sopraffatta. Le aveva credute addormentate troppo a lungo, sopite in attesa di qualcuno o qualcosa che valesse la pena il loro ardente consumarsi in silenzio.
Izzy inspirò a fondo, mentre lei si liberava di una sigaretta fumata lentamente, come se il tempo fosse solo una costante relativa.

Da cosa stesse scappando, non lo sapeva nemmeno lui.

Si era svegliato qualche ora prima, aveva dormito per buona parte della mattinata, in una stanza che non era stato in grado di riconoscere ma il cui disordine era famigliare: bottiglie vuote abbandonate sul pavimento, tra valige piene a metà e vestiti abbandonati come stracci sulla moquette; costellazioni di specchietti su cui rimanevano leggere tracce bianche delle piste che si erano fatti la notte prima, un inconfondibile odore di tabacco, erba e birra che non gli dava più nemmeno fastidio.

Aveva aperto gli occhi e pioveva.

Quell’enorme temporale continuava a ringhiare nel cielo, nonostante urlasse da giorni, la sua impietosa luce grigia aveva illuminato l’intero mosaico del suo squallore e riportato alla mente il sole mite di LaFayette e la purezza del bambino che era stato, la stessa che un adolescente aveva goffamente taciuto sino a diventare un giovane uomo ormai corrotto dalla sua stessa sporcizia.
Ricordava solo l’impulso di andarsene via, di corsa, fuori da quella stanza.
Senza avvertire nessuno, aveva vagato per ore per le strade della città deserte, incurante dell’acqua, degli sguardi, dei commenti.

Aveva fumato, seguendo i suoi pensieri che avevano la stessa opalescente consistenza del fumo che lasciava la sua bocca.

E poi l’aveva vista.

Era arrivata con calma, camminando sotto la pioggia con gli occhi socchiusi.

Si era seduta qualche gradino più in basso, all’ombra imponente di quella chiesa, ed era rimasta immobile a guardare le macchine scorrere nelle strade.
Chiederle come si chiamasse, gli era sembrato naturale quasi quanto offrirle una sigaretta.

E ora erano lì, uno accanto all’altro, talmente vicini che potevano sfiorarsi, potevano ascoltare i loro respiri mescolarsi al chiasso ovattato della metropoli.

“Scappo dai miei fantasmi.” Ammise alla fine, distogliendo brevemente lo sguardo.

Roxanne allungò le gambe davanti a sé, sfiorando con gli occhi le cuciture sdrucite e gli strappi che lasciavano intravedere piccole porzioni di pelle in mezzo ad un mar azzurro chiaro.

“Tu?” chiese di rimando, forzando le barriere del silenzio altrui per costringerla a rivelarsi a sua volta. Le rese il polso, rifuggendo il calore che dalla pelle di lui si raccontava a lui, denso di segreti alla stessa maniera dello sguardo scuro che lo trafiggeva inmpietoso.
“Scappo da una vita che non mi piace” mormorò la ragazza, il tono leggero di chi  racconta sciocchezze di poco conto.
Tornò a calare una coltre di silenzio viscoso, elettrica della tensione che inchiodava entrambi sulla pietra sporca della gradinata oltre ogni buon senso.
“Non male come inizio, ti pare?”
“Inizio di cosa? Stiamo solo parlando.”
Izzy si concesse una risata, bassa e vibrante, reclinando il capo all’indietro in gesto che sembrava tanto una resa quanto una pacata accettazione di un inevitabile non ancora del tutto compreso.
Evidentemente si era sbagliato.

Aveva avuto come l’impressione di un qualcosa di indefinito, tra loro due, un implicito che con un po’ di pazienza avrebbe potuto sperare di fiorire in un di più.
Qualcosa che fosse diverso dallo squallore di una sveltina da niente in un vicolo buio, qualcosa che potesse resistere alla pochezza delle due giornate annebbiate, qualcosa che valesse la pena sognare e sperare.
Ma si conosceva, era buono solo di rovinare ogni cosa buona gli capitasse sotto al naso.
Lo aveva fatto con Desi, sacrificata in nome del contratto che lo aveva reso celebre.
Perché con una sconosciuta dagli occhi bui le cose avrebbero dovuto piegarsi su percorsi inesplorati?
Fu per questo che rimase completamente spiazzato quando sentì le labbra della ragazza premere dolcemente sulle sue.

Un bacio dalla dolcezza dolorosa, un parlarli labbra contro labbra talmente innocente che sentì gli occhi pizzicare dietro le lenti scure degli occhiali.
“Adesso, se vuoi, puoi parlare di inizio,” bisbigliò con le ciglia serrate, “perché solo un bacio segna davvero qualcosa tra due persone.”
Sapeva di pioggia, e tabacco. Sentiva il suo sapore indugiare al confine della sua bocca, così vicino da invogliarlo a raccoglierlo con la lingua, ma sapeva che se l’avesse fatto poi ne avrebbe sentito la mancanza e la fame l’avrebbe distrutto.
“E davvero vuoi che qualcosa inizi?”
“Perché, tu no?”
Roxanne si ritrasse con un movimento brusco, gocciolando acqua che si perse nello scroscio costante della pioggia.
Da qualche parte, in lontananza sullo skyline, un tuono brontolò di ire celesti. Lì, nel ventre della città, Izzy protese una mano verso il suo volto per rabbonirne i tratti tesi in un moto di fastidio.
Aveva la pelle calda, e morbida; e il volto nato per incastrarsi nella curva del suo palmo senza fatica.
“Perché pensi non lo voglia?”
“E allora perché me lo chiedi?”
“Perché stiamo giocando al gioco dei perché?”
Si sorrisero sbiechi, timidi, scoperti.
“Non hai paura possa essere un errore?” riprese lui dopo un istante speso ad imparare la filigrana del viso di Roxanne, rimasta impressa nelle linee dove era segnato tutto il suo destino.
“Dai per scontato che lo sarà?” la sentì ringhiare a denti stretti, gli occhi serrati in due fessure improvvisamente gelide.
Tremava, al punto che dovette scostarsi per non rivelare più di quanto non avesse già svelato.
Lui le piaceva, le piaceva e lo sentiva dove non aveva mai sentito nessuno per troppo tempo: sotto la pelle, nelle vene. Nel palpitare inquieto del cuore che ora le correva disperato in petto, cercando come di sfondare la gabbia di costole che lo condannavano eterno prigioniero.
“Quindi perché rischiare, se deve essere un errore? Perché fare quel passo in più quando è così comodo fumare sigarette su sigarette sotto la pioggia e ignorare di voler fare ben altro?”
“Perché, cosa vorresti fare?”
“Farti smettere con tutti questi perché, ad esempio, potrebbe essere un buon punto di partenza.” sibilò acida, incrociando le braccia al petto in un segno di chiusura che non era difficile cogliere.
Izzy si morse le labbra, non perché non sapesse cosa dire ma per rubare quel che la pioggia ancora non aveva lavato via, i rimasugli di un bacio che gli corse lungo la gola in un desiderio ardente.
“Hai da fare, stasera?” si sentì chiedere prima ancora di realizzare quanto stava facendo.
Lei alzò gli occhi su di lui, poco più che incredula.

“Eh?”

"Hai da fare, questa sera?”
“Ovvia che si. C’è il concerto dei Guns.”

“Bene,” sorrise Izzy, prendendole il mento tra le dita, “allora ci vediamo lì.”

Lei scoppiò a ridere, senza ritrarsi né perderlo di vista.
“Hai idea di quanta gente ci sarà? Tu sei completamente pazzo se pensi che ci incontreremo lì, è praticamente impossibile!”

Lo vide scrollare le spalle con quello che interpretò come disprezzo del fato.

“Tu fai in modo di trovarti alla destra estrema del palco, vicino alla transenna.” le ordinò, scostandole i capelli fradici dal viso con una carezza, “ti troverò io. D’accordo?”

Lei sbattè le palpebre un paio di volte, le ciglia imperlate di gocce di pioggia.

“D’accordo...” accettò, scettica.

Il viso di Izzy si accese di un nuovo sorrido – morbido -, mentre si chinava a darle un bacio che si veloce e dolce non aveva nulla.

Si gettò sulle sue labbra con la stessa veemenza e irruenza di un assetato, suggerendo più un bisogno che non un capriccio, raccontando alla sua lingua ogni singolo grammo di desiderio covasse in petto.

Quando si separò da lei, premette la fronte contro la sua e si rialzò con un movimento goffo, le gambe rigide e doloranti.
Roxanne invece rimase lì, imbambolata, con le dita posate sulle labbra, per qualche minuto del tutto incapace di muoversi.

Quel bacio le aveva strappato ogni pensiero dalla testa, lasciandola galleggiare su una nuvola di nulla.

Quando finalmente tornò in grado di formulare un pensiero coerente, realizzò che non vedeva l’ora arrivasse quella sera per vedere di nuovo quello strano ragazzo.
 

 
PARLA ROXANNE:
Fu dopo quel bacio che capii che con Tom era tutto finito.

Erano bastate le tue labbra avide, il tuo sapore intenso di tabacco e solitudine, le tue mani calde e la tua voce a cancellare cinque mesi di una storia faticosamente costruita passo dopo passo.

Quando arrivai a casa, quel pomeriggio, non avevo altro che te nella testa.

Fantasticavo su chi tu potessi realmente essere, sulla tua vita, sui tuoi amici: l’idea che fossi Izzy Stradlin non mi sfiorava nemmeno per sbaglio.

Mi trascinai attraverso le ore nutrendo i miei sogni ad occhi aperti con piccoli dettagli di quel pomeriggio appena passato, ignorai il resto del mondo e sorrisi come una povera idiota per tutto il tempo, senza riuscire ad abbassare gli angoli delle mie labbra.
Mi sentivo come una liceale al suo primo amore, del tutto incapace di essere razionale.

Io però non volevo essere razionale.

Io volevo essere con te.

Ovunque tu fossi, qualsiasi cosa tu stessi facendo.

Ero succube del tuo ricordo e mi domandavo se fosse lo stesso per te.

Ma ero felice.

Ero davvero felice.

E adesso che gli anni sono passati, che le cose sono cambiate, mi rendo conto che forse la mia vita, la tua vita, sarebbe stata diversa se le cose avessero preso una piega diversa.

Se io non ti avessi baciato, se tu non mi avessi offerto quella famosa sigaretta.

Forse ci saremmo risparmiati tante cose, forse saremmo stati persone diversi.

Ma non sarebbe stata la stessa cosa.

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Capitolo 2
*** The long long night in the city of the angels ***


HAND IN GLOVE
#2 The long long night in the city of the angels

 

 

PARLA ROXANNE:

Quella sera fu a dir poco memorabile.
Ricordo ogni dettaglio, ogni particolare, ogni piccola insignificante parola che sentii durante quella notte che continuo a considerare la più bella della mia vita.
I bagliori dei flash, l’assordante brusio della folla che si accalcava addosso a quel palco enorme che era vicino e lontano al tempo stesso.

L’aria profumava di pioggia, le stelle facevano capolino negli sprazzi scuri del cielo acora occupato da nuvoloni neri e minacciosi.
Ero ansiosa come quando, a scuola, si aspetta di conoscere il voto del compito che decreterà la tua bocciatura o la tua promozione.
Dopo un pomeriggio passato a saltare da una stanza all’altra in preda all’euforia e all’impazienza, improvvisamente avevo paura. Paura di rivederti, paura di scoprirti diverso. 
Ma mi imposi di raggiungere quella maledetta transenna all’estrema destra del palco: quando i riflettori si spensero all’uninsono e le urla si alzarono verso la notte, io la stringevo tra le dita come se da quella dipendesse la mia vita intera, lottando contro l’istinto di vomitare o di scappare via a gambe levate, senza guardarmi alle spalle.

 

 

All that noise, all that sound
All those places I got found
And birds go flying at the speed of sound
To show how it all began
 

Coldplay, Speed of sound

 
 

LOS ANGELES, settembre 1987

L’aria avrebbe dovuto essere incredibilmente tersa, quella sera.
Aveva smesso di piovere da qualche ora e un vento invisibile stava spazzando via quelle grosse nubi cariche di rabbia e di tempesta, scoprendo a tratti grandi porzioni di nero dove le stelle brillavano lontane. Ci sarebbe dovuto essere un buon profumo di erba bagnata, d’inizio autunno.
E invece, una fitta cortina di fumo sovrastava un mare pressoché infinito di teste e striscioni, perdendosi a vista d’occhio fino all’orizzonte, fino al confine tra terra e cielo, fino a una fitta muraglia di case scure in lontananza.
Roxanne riportò lo sguardo al palco ancora deserto, illuminato da accecanti fasci di luce bianca.
Dall’angolo dove si trovava, schiacciata da migliaia di persone che si ammassavano minuto dopo minuto sempre più inquiete alle sue spalle, riusciva a scorgere una gigantesca bandiera con il logo della band sventolare appena nella la brezza notturna.

Impaziente, si mordicchiò le nocche della mano destra, fissando insistentemente un punto non ben definito davanti a se.
Chiedendosi quando Izzy sarebbe comparso, cacciò le mani nelle tasche dei jeans, curvando appena le spalle per spingerle più in fondo.
Dondolò sui piedi un paio di volte, prima di sbuffare: era fin troppo consapevole di essere il nervosismo fatto a persona.

È che odio le attese, si disse accendendosi una sigaretta con apparente disinvoltura, non mi piace aspettare. E più il tempo passa, più io mi convinco che non verrà nessuno.
Soffiò fuori una densa nuvola di fumo, affrettandosi ad inspirarne un’altra per coprire quel miscuglio di pensieri e ricordi che si affacciava alla superficie.
Il sapore amaro in bocca, il soffice rimbombo in testa per il brusco calo di ossigeno.
Si sentì subito meglio, al punto che si azzardò ad appoggiarsi con disinvoltura alla transenna di freddo ferro che le impediva di avanzare, guadagnandosi un’occhiataccia da parte di una guardia in uniforme nera, che in quel momento le passava accanto.
Ricambiò lo sguardo con altrettanta cortesia, senza muoversi di un millimetro.

Cosa diavolo avesse poi quella guardia da guardarla male, lo sapeva solo il cielo: avrebbe dovuto esserle grata per non essere come quei pazzi scatenati che cercavano di salire sul palco e che facevano sgobbare parecchio gli addetti alla sicurezza.
Certo, a concerto iniziato sarebbe stato tutto un altro discorso, lo sapeva perfettamente: i Guns’n’Roses avevano lo strano potere di privarla di ogni inizibizione, lasciandola sola con il suo istinto, era molto più che probabile che anche lei avrebbe provato a scavalcare la transenna per salire sul palco.
Del resto, era anche per questo che li amava.
La loro musica sembrava essere capace di entrarle in circolo, nel sangue, e mandarla dritta in paradiso, senza fermate intermedie.

Si alzò in punta di piedi, sentendo le suole della All Star sbiadite scivolare sulla fanghiglia che si nascondeva tra l’erba, a terra, e si allungò in avanti. Chissà, forse sarebbe riuscita a scorgere qualcuno aggirarsi dietro il palco.
Non si accorse minimamente che Izzy la stava guardando, nascosto dietro una colonna di casse sistemate ai lati del palco, ma non ebbe modo di vederlo, perché i riflettori sul palco si spensero all’uninsono, facendo precipitare il buio sulla folla che reagì con un unico, assordante, boato.
La terra tremò sotto i piedi di Roxanne mentre tirava un’ultima boccata dalla sigaretta e la lanciava in una pozzanghera oltre la transenna.
Strinse le dita contro il ferro, imponendosi di fare qualsiasi cosa.
Era talmente terrorizzata che sentiva il battito del cuore rimbombarle nelle orecchie talmente forte che temeva scoppiasse da un momento all’altro. Era questione di secondi. Non ebbe nemmeno il tempo di notare che di Izzy non c’era traccia che le prime note del riff di Welcome to the jungle la fecero urlare assieme a qualche altro migliaio di persone.

I riflettori si accesero di nuovo con uno schiocco secco, il bagliore fu tale che si vide costretta a chiudere gli occhi con forza e alzare una mano davanti al viso.
E quando la abbassò, al centro del palco avanzava un ragazzo vestito completamente di bianco.
Una bandana nera sulla fronte, capelli talmente lisci da sembrare finti e grandi occhiali da sole.
Inconfondibilmente Mr. Rose.

Con un sorriso che sapeva vagamente di scherno, allargò le braccia come a voler abbracciare la folla e urlò un saluto che si perse nelle grida del pubblico.
Welcome to the jungle, we got fun 'n' games, we got everything you want.” iniziò a cantare, sovrastando il delirio che sembrava essersi impossessato di ogni singola persona “Honey we know the names , we are the people that can find whatever you may need: if you got the money honey we got your disease!
E mentre il mondo sembrava esplodere, mentre la terra tremava, mentre la chitarra di Slah strappava l’anima e la voce di Axl saliva e scendeva seguendo la melodia, mentre ogni singola nota le entrava dentro e la lasciava senza fiato, Roxanne scorse qualcuno che non si sarebbe mai aspettata di vedere lì, sul palco.
Izzy.
L’Izzy che lei aveva incontrato quel pomeriggio, il ragazzo a cui aveva detto una marea di bellissime parole, il ragazzo che aveva baciato, il ragazzo che aveva accusato di fingersi il chitarrista dei Guns, era davvero Izzy Stradlin.
Con gli stessi occhiali da sole, gli stessi capelli neri arruffati, la stessa aria indolente, con una sigaretta distrattamente abbandonata tra le labbra socchiuse.
Le stesse labbra che si erano gettate sulle sue, qualche ora prima.
Le due immagini, quella dell’idolo che la faceva sognare con una canzone e quella del ragazzo di cui si sarebbe potuta innamorare si sovrapposero l’una all’altra, sino a fondersi completamente, diventando un tutt’uno.
Non ebbe nemmeno il tempo di arrossire: la musica la rapì, penetrando in ogni singola fibra del suo corpo e facendole dimenticare il resto del mondo.
Come tutte le persone attorno a lei, si ritrovò a saltare e ad urlare con le braccia al cielo come se da quello dipendesse la sua intera vita.

 

Izzy era in un’altra dimensione.
Letteralmente.
Mentre premeva con forza le dita sulle corde della chitarra per strapparle quegli accordi che facevano impazzire il pubblico, si disse che sarebbe potuto morire felice.
Che se un fulmine lo avesse fulminato ora, in quel momento, non gli sarebbe importato più di tanto perché era in sintonia con tutto e tutti.
Mentre se ne stava schiena contro schiena con Axl, Slash e il suo ridicolo cilindro nero alla sua destra, Duff e Steven alle spalle, era nel suo elemento.
Come se fosse nato per stare lì, su quel palco, in quel preciso momento.

Lasciò spegnersi le ultime note di Mr. Brownstone e si scambiò un’occhiata con Axl, che sorrise.
Il biondino si passò una mano tra i capelli, dopo avergli fatto segno che avevano tre minuti scarsi per riprendere fiato, e urlò qualcosa nel microfono, scatenando un’ennesima ondata di caos da parte del pubblico.
Stordito dall’intensità del rumore, afferrò una bottiglietta d’acqua e ingurgitò un lungo sorso, che scivolò nella sua gola arida lasciandosi dietro una scia di sollievo.

Passandosi il polso sulla fronte, gettò un’occhiata al pubblico: lei era ancora lì.
Sembrava pendere letteralmente dalla labbra di Axl, appoggiandosi alla balaustra davanti a lei.
Era bella, pensò mentre un sorriso gli si faceva largo sul volto madido di sudore.
Era dannatamente bella, con le guance arrossate per il caldo e gli occhi lucidi di felicità.

“Fa impressione, eh?” domandò Slash, comparendo alle sue spalle.
Izzy non lo guardò, ma sentendo uno scatto metallico subito seguito da un improvvisa nuvola di fumo immaginò si fosse acceso una delle sue solite sigarette.

“Cosa?” replicò distratto, cogliendo l’occhiata che la ragazza gli aveva lanciato, prima di arrossire furiosamente e tornare a guardare il cantante.
La vide gridare, alzando le braccia al cielo.

“Tutto questo enorme, cosmico casino.” stava dicendo l’altro chitarrista, affiancandoglisi “Fa impressione.”
“Già.” commentò, togliendosi gli occhiali da sole per vedere meglio quell’enorme distesa di corpi che si agitava, come un gigantesco animale pronto a scattare per avventarsi sul palco.
Urlavano, cantavano, ballavano, saltavano.
La terra tremava, le stelle si oscuravano, il tempo diventava relativo.

“La magia della musica. Tu sei qui, che suoni senza pensare ad altro che alla musica, e loro reagiscono come la tua chitarra, facendoti scoprire che hai un potere su di loro che fa quasi paura.” rise Slash, tra un tiro e l’altro, iniziando a pizzicare le corde dello strumento che portava a tracolla, come a voler dimostrare quello che aveva appena detto, con lo stesso amore che un amante avrebbe dedicato alla sua donna.
Era fatto così Slash.
Messo insieme alla meno peggio dalla mano del caso, del tutto incapace di relazionarsi con le persone, privo di tatto e sensibilità, dolce solo con la sua chitarra e innamorato unicamente del sapore del whisky, ma capace di notare le piccole cose nei momenti più disparati.
Dopo un attimo di smarrimento, rise a sua volta, seguendolo fino a raggiungere il centro del palzo, davanti a quella distesa in subbuglio.
Dimentico degli occhi scuri di Roxanne, si abbandonò a Paradise City tenendo d’occhio il pubblico: ed era vero, Slash aveva ragione. Saltavano, quando la musica saliva.

Ballavano, quando la melodia si faceva più morbida.
Cantavano, quando le canzoni diventavano dolci.
D’un tratto comprese perché in tanti guardassero alla luna con ammirazione: il suo potere di causare le maree, di trascinare enormi quantità d’acqua con se, era qualcosa di assolutamente splendido.
E lui provava la stessa identica sensazione, mentre intonava assieme ad Axl un ritornello o lottava con Slash, chitarra contro chitarra, in una nuvola di fumo sbiadito.



Roxanne lo guardava ammirata, dal suo piccolo spazio alla destra del palco.
Il solo vederlo lì, in piedi sotto i riflettori, la faceva sentire talmente bene che temeva il cuore le schizzasse fuori dal petto per la troppa forza con cui batteva.
Doveva sforzarsi per ricordarsi di respirare.

Moriva dalla voglia di scavalcare quella maledetta transenna che le si era conficcata nello stomaco e minacciava di tagliarla a metà se non si fosse allontanata un po’, e salire su quel palco con un unico, chiaro obbiettivo ben fissato in testa: saltargli addosso. Letteralmente.
Coprirlo di baci. Tappargli la bocca.
In barba alla folla che l’avrebbe vista, in barba al fatto che sarebbe stata cacciata fuori e avrebbe dovuto ascoltare il resto del concerto dalla sua macchina, nel parcheggio. Saltare o non saltare?

Strinse inconsciamente le dita attorno al ferro, i muscoli tesi, pronti allo scatto. Ma ne valeva davvero la pena? Certo, se ci fosse riuscita sarebbe stata una di quelle avventure epiche, da tramandare ai nipoti, da ricordare con orgoglio.
Ma se non ci fosse riuscita... beh, quella era un’altra storia.

“Fanculo.” sbottò alla fine.
La vita è una sola, pensò mentre si sollevava verso l’alto e passava le gambe oltre quel muro in miniatura che la separava da Izzy, da una momentanea gloria e da una molto più probabile rovina. Se non lo faccio adesso, quando dovrei farlo?
Si chiese mentre atterrava agilmente dall’altra parte e si lanciava in avanti, di corsa, con un sorriso che le si allargava sul viso.

Era saltata.
Era davvero saltata e stava correndo verso un Izzy che la guardava a bocca aperta, rischiando di far cadere la sigaretta che aveva tra le labbra e portando avanti la canzone meccanicamente.
Non sapeva nemmeno se sperare che riuscisse davvero a raggiungere il palco o che venisse fermata prima. Rimase attonito, guardandola saltare oltre una pozzanghera, schivare agilmente una guardia e fermarsi davanti a lui.

“Izzy.” la sentì gridare, sovrastando di poco la voce di Axl intento a strillare tutto il suo immenso e smisurato amore per Erin Everly.
Sembrava non aver notato quello striscione che svettava in mezzo al pubblico con su scritto qualcosa che suonava vagamente come “Erin, you’re such a bitch, go to hell”.

Il chitarrista non seppe trattenere un sorriso, mentre lei si guardava attorno e posava le mani sul palco, prima di darsi una spinta e cercare di tirarsi su: per un attimo sembrò che c’è l’avesse fatta.
Vedeva già il trionfo brillare nei suoi occhi scuri.
In quel momento Duff gli si avvicinò, come a chiedergli perché si fosse incantato in quel preciso punto del palco, e scorse la ragazza che si lanciava letteralmente in avanti nell’esatto momento in cui un omone le afferrava una caviglia e la strattonava giù con forza, facendola cadere faccia a terra con un gran tonfo.

“Ouch!” esclamarono assieme i due artisti, mentre Roxanne iniziava a dibattersi come un’ossessa, scalciando e dimenandosi.
Izzy scoppiò a ridere, mentre colpiva la faccia della guardia con un calcio e si liberava: fu quella stessa risata a morirgli in gola quando la vide improvvisamente sparire con un altro urlo, trascinata via da altre cinque omaccioni dall’aspetto poco amichevole.

Ma non ebbe tempo di chiedersi dove sarebbe finita.
Non ebbe tempo per pensare.
L’uragano Nightrain lo strappò via dal palco, portandolo in un posto dove non ci sarebbe dovuto esser altro al di fuori della musica.

Gettò un’occhiata al cielo: non c’erano più stelle, solo un’enorme distesa nera dove enormi nuvoloni neri si ammassava minacciosi, brontolando in lontananza.
Che stesse arrivando un altro temporale?

 

Era l’inizio di un nuovo giorno, quando il concerto finì.
Esausti, i cinque musicisti abbandonarono il palco assieme, dopo aver ringraziato il pubblico.
Con le orecchie ancora piene di urla, applausi e ovazioni si rintanarono nella stanzetta che era stata riservata loro.
Quando iniziarono a parlare, tutti contemporaneamente, si stupirono poco della stanchezza che colorava le loro parole.

“Ohi, Izzy.” esclamò ad un certo punto Steven, cercando di passarsi una mano in quella criniera impazzita che aveva al posto del capelli “Ti sei un po’ perso a metà di Sweet child, sai?”
Il chitarrista annuì stancamente, accenendosi una sigaretta.
Ignorò volutamente tanto la critica che si nascondeva nelle parole del batterista quanto il flash che gli aveva attraversato la mente.
Il viso di Roxanne, illuminato dai bagliori della fiamma di un accendino, sotto la pioggia.

“Capita.” scrollò le spalle, massaggiandosi il collo indolenzito.
“Beh, del resto c’era una pazza che minacciava di saltargli addosso.” ghignò Duff “Un gran bel pezzo di ragazza, per essere sinceri.” commentò leggero, riempiendosi un bicchiere con qualcosa che era tutto meno che acqua.
Ingurgitò il liquido ambrato, abbandonandosi contro lo schienale di un divano sfondato recuperato in chissà quale discarica.

“Vabbeh, pazze a parte...” s’intromise Axl, con un sorrisetto inquietante sul viso “Direi che è andata piuttosto bene.”
“Dire che andata bene è un eufemismo, cazzo!” sbottò Slash, calcandosi il suo inseparabile cilindro nero in testa.
“E’ andata fottutamente bene.” commentò laconico Steven, molto più concentrato sulla bottiglia che Duff gli aveva passato.
“Mh-mh.” mugolò Izzy, che secondo un copione che si ripeteva sistematicamente dopo ogni concerto, avrebbe dovuto rincarare la dose.
Avevano iniziato a farlo nei primi tempi, quando erano poco più di una delle centinaia di band che tentavano di calcare la scena a Los Angeles, quando il loro nome non valeva niente e mostrarsi sicuri di se era molto più che fondamentale.

Quattro facce si voltarono verso il ragazzo, che sembrava intento a fissare il vuoto.
“Contempli la geometria astratta dell’universo cercando di scoprire il mistero della vita fissando una macchia sulla parete?” s’informò premurosamente Axl, sedendosi accanto all’amico e passandogli un braccio attorno alle spalle con aria meditabonda.
Izzy sbuffò, scrollandoselo di dosso.

Il front-man non mollò.
“Ah, Izzy Izzy!” sospirò, scuotendo il capo “Sarà mica che ti sei innamorato?” lo prese in giro.
Lo ignorò, senza neanche guardarlo torvo. Gli occhi di Slash vagarono tra i due, inquieti.

“Sono solo stanco.” commentò, alzandosi in piedi “E me ne torno in albergo.”
“Ma come, non viene a festeggiare con noi?” chiese Steven, dopo una lunga sorsata di liquore che gli bruciò la gola e il fegato.
Scosse il capo “No, questa volta passo. Davvero, sono solo stanco.” Sorrise, fermandosi davanti alla porta “Ci si vede tra un paio d’ore, okay?”
Non aspettò i saluti di nessuno, varcando la soglia della stanzetta e incamminandosi lungo il corridoio.
Era vero, era stanco.
Di essere preso in giro, delle battutine di Axl che quando era euforico non sapeva proprio starsene buono nel suo angolino: in fondo, lui aveva la sua bella, eterna Erin sempre pronta a corrergli dietro.
Lui no.
Lui aveva la musica, i Guns e la sua chitarra.
Per gli amici, non aveva il tempo che avrebbe voluto, preso com’era da quella folle routine che gli dava a malapena tempo di respirare, della sua famiglia non aveva più notizie da anni. Si sentiva solo, e non si vergognava ad ammetterlo.

“Ma maledetta la volta che l’ho raccontato ad Axl, quell’imbecille non ha capito proprio un cazzo!” sbottò, inspirando a fondo una boccata d’aria fresca, che portava con se strascichi d’estate.
Si guardò attorno, constatando che non c’era nessuno oltre l’alta rete metallica che separava il back stage dal parcheggio dove le ultime macchine indugiavano ancora ad andarsene.
Si chiese dove fosse Roxanne, dove l’avessero portata, che fine avesse fatto.
Una strana angoscia gli strinse la gola e gli attorcigliò lo stomaco, costringendolo a percorrere il perimetro disegnato da quella rete, affondando le dita nelle maglie dipinte di verde. Si trattenne dal correre, guardandosi attorno nella grigia luce che precede l’alba senza vedere altro che un’enorme distesa di cemento scuro.

“Dove sei, Roxanne?” mormorò tra se e se, fermandosi per accendersi un’altra, ennesima sigaretta.
Tirò un calcio ad un sassolino, riuscendo persino a sentire il flebilo suoni della pietra che rimbalzava via.

La voce di Roxanne, che gli arrivò da un punto imprecisato alla sua destra, gli parve una risposta alle sue preghiere.
“Certo che sei strano forte, Izzy Stradlin.” commentò pacata la ragazza, che se ne stava appoggiata con un fianco contro la rete, le braccia incrociate al petto.
“E tu sei completamente pazza.” replicò fermandosi la davanti a lei, che si girò stringendo tra le dita il filo metallico.
Trattenne l’impulso di coprirle le mani con le sue.

“Tu dici?” osservò pensierosa, inclinando il capo di lato.
Un livido scuro sullo zigomo destro le trasformava il viso in una maschera.

“E quello?” chiese il chitarrista, sfiorandole il viso con la punta delle dita.
Le socchiuse gli occhi, che brillavano nella penombra.
Non sorrideva, ma era felice. Non aveva mai visto così tanta felicità concentrata in una persona.

“Questo?” scrollò le spalle, con noncuranza “Un gentile souvenir di un’adorabile guardia che non ha apprezzato il gentile tocco dei miei piedini sul suo visino angelico.”
Il ragazzo sorrise, indugiando per qualche attimo di troppo sul suo viso.
Quando lei spalancò gli occhi e socchiuse le labbra, senza però dire nulla, si ritrasse.

“Cosa c’è?” le chiese, senza l’ombra di un sorriso.
“...non lo so.” Distolse lo sguardo, curvando le spalle “E’ come se... oh, non lo so, è strano.” tornò a guardarlo, sentendosi uno sciame di farfalle nello stomaco “Voglio dire, tu sei Izzy! Sei quell’Izzy! L’Izzy che mi è sempre sognato così maledettamente lontano e impossibile, l’irraggiungibile. È strano!” ripeté.
Lui annuì, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni.

“Posso capire.” mormorò.
“No, non puoi!” sbottò lei, facendolo sussultare “Cazzo, ti ho pure accusato di essere un bugiardo che voleva solo provarci con me, diamine non puoi proprio capire quanto è imbarazzante!”
La vide arrossire sempre più, man mano che il tono della voce diventava sempre più alto. Era veramente imbarazzata.
“Ma non potevi saperlo.” osservò.
“Ma avrei dovuto! Con che coraggio posso definirmi una fan dei Guns se non li riconosco quando li vedo per casa?” esclamò, facendolo scoppiare in una risata.
“Roxanne,” le chiese dopo averla guardata per qualche minuto “è solo questo il problema?”
“Io non... non lo so, Izzy” sospirò “Cioè, è strano. Solo questo.”
“Ed è una cosa tanto brutta?” abbozzò un sorriso poco convinto, sentendosi la terra cedere sotto i piedi.
O forse, erano le sue gambe a cedere.

Lei rimase in silenzio, colpendo un paio di volte la rete con una mano, per poi stringerla tra le dita di nuovo.
“No.” rispose alla fine “Non lo è. Probabilmente è la cosa più bella che mi sia mai capitata in vita mia.”
Izzy aspettò qualche attimo, prima di sorridere e coprirle la mano con la sua.
Aveva le dita gelide, osservò, e un graffio le correva lungo il dorso della mano, fino al polso.
Si chiese, con un brivido, cosa le fosse successo dopo il fallito tentativo di abbordaggio al palco.
Posò le labbra sulla sua fronte, senza curarsi della rete che li divideva e sentire il bisogno di dire nulla.
Non c’era niente da dire, c’erano solo loro due e un’alba che tardava ad arrivare.
C’erano i loro respiri, il silenzio del parcheggio rotto solo dai rumori indiscreti della città ancora addormentata.
Si guardarono negli occhi, lei si alzò in punta di piedi e gli andò incontro, incontrando le sue labbra a metà strada, con la rete che premeva contro il viso di entrambi.

Fu un bacio lungo, lento, di quelli che si fa fatica a dimenticare anche ad anni di distanza, un bacio al sapore di fumo, un bacio che cancellò ogni difesa e li lasciò li, l’uno in balia dell’altra.
Quando si separarono, Roxanne tenne gli occhi chiusi per qualche attimo, lasciando che lui le sfiorasse il viso con una carezza che scese fino al suo collo e li si spense, a causa della rete.

“Non credere che questo ti scusi, comunque, per aver clamorosamente sbagliato Sweet child o’mine” puntualizzò lei, riaprendo gli occhi.
E l’ennesima risata di Izzy, fu accompagnata da un timido raggio di sole che si fece largo tra i banchi di nubi.

No, non stava arrivando un altro temporale.


 

PARLA ROXANNE:

Fu così che cominciò.
Te lo ricordi Izzy?
Ricordi quella notte che sfumava in mattina, quel parcheggio, quella rete?
Io si.
Io ricordo ogni cosa come se fosse ieri.
Ricordo le tue mani bollenti, il tuo viso stanco, il tuo sapore, il tuo profumo.
Ricordo l’eccitazione che mi teneva sveglia, ricordo quella colazione che facemmo a casa mia, accoccolati tra le lenzuola aggrovigliate del mio letto.
Ricordo che mettesti due cucchiaini di zucchero nel caffè e non mangiasti niente mentre io divorai metà scatola di biscotti.
“Esploderai, se continui a mangiare così tanto.” ridevi mentre io buttavo giù un biscotto dopo l’altro, senza poterci fare niente: avevo la sensazione di vivere un sogno ed ero terrorizzata dall’idea che tutto potesse finire da un momento all’altro.
Era sempre così con te, la paura di perderti mi perseguitava come un fantasma e non mi lasciava dormire in certe notti troppo lunghe e troppo silenziose.
Ma eravamo giovani.
Non ci importava, non mi importava.
Volevo solo stare con te, affondare il viso nella curva del tuo collo, far scivolare le mani sulla tua schiena e sentirti rabbrividire, sentire i tuoi baci, sentirli bruciare come se fossero marchi.
Io ero felice.
Lo sono ancora.
Ma tu? Sei felice, adesso?
Pagherei, per poter vedere il tuo viso e chiederti, guardandoti negli occhi, se sei felice come allora.

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Capitolo 3
*** (Not) so sweet romance ***


HAND IN GLOVE
#3 (Not) so sweet romance

 

 

PARLA IZZY:

Ci sono momenti in cui sono fermamente convinto che tu sia stata la cosa più bella mai capitatami in tutta la vita. E negli altri momenti ti piazzi sicuramente molto bene nella top-ten.
È matematico, però, che nelle giornate in cui benedico il cielo per averti fatta entrare nella mia vita e lo maledico per avertici fatta pure uscire, non posso fare a meno di chiudere gli occhi e immaginare cosa sarebbe stato di noi se le cose avessero continuare ad andare come nei primi giorni, quando eri l’unica cosa, oltre alla musica, a farmi desiderare di arrivare sobrio al domani.
Sei stata tu, a farmi notare quanto bevevo ogni giorno, quanto enorme fosse la quantità di alcol che ingurgitavo senza nemmeno accorgermene.
Era ormai diventato normale, per me, svegliarmi la mattina e lavarmi i denti con il whisky, non mi rendevo minimamente conto delle proporzioni del problema.
E quando l’alcol diventò troppo poco, la droga.
Sei stata una boccata d’aria fresca nelle mie giornate, la scintilla che ha fatto scattare la fiamma della consapevolezza.
Ai miei occhi, eri una roccia che non si piegava a nulla.
L’idea che anche tu potessi avere paura, che tu potessi avere delle debolezze, non mi sfiorava nemmeno.
Ero talmente preso da me e da quello che mi succedeva, che non mi resi conto che anche tu, sotto la tua facciata imperturbabile, ti stavi lentamente sgretolando.

 

 

The sun shines out of our behinds
Yes, we may be hidden by rags
But we've something they'll never have.
 

The Smith, Hand in glove.

 

 

LOS ANGELES, settembre 1987

Roxanne era seduta sul bordo del letto, tenendo tra le braccia una chitarra acustica.
Una ciocca di capelli le cadeva scomposta davanti al viso, oscurandone una parte, e danzava lieve nell’aria, mentre lei abbozzava con qualche indecisione gli accordi di Paradise City nella calda luce di una mattina di fine settembre.
Alle sue spalle, Izzy se ne stava disteso a pancia in giù, coperto solo da un lembo delle lenzuola bianche aggrovigliate per lo più ai suoi piedi, dove era accoccolata la ragazza. Aveva un sorriso dipinto sul volto, segnato da profonde occhiaie scure, e chiaramente non stava dormendo: fingeva, rubando quel momento ad insaputa di lei che continuava a strimpellare con maggior decisione man mano che la canzone andava avanti, fino a fermarsi dopo una serie di clamorose stecche.
La sentì sbuffare, la immaginò riavviare i capelli dietro un’orecchia e posare la chitarra a terra, rassegnata.
Il calore del suo corpo morbido contro il fianco, una mano che si abbandonava innocente sulla sua schiena e un bacio sulla spalla: mugolando, Roxanne tornò a distendersi, chiudendo gli occhi.

“Izzy.” chiamò piano, sussurrando le parole contro la sua pelle.
Lo sentì rabbrividire, mentre si girava verso di lei e la accoglieva in un caldo abbraccio.

“Che c’è?” le chiese con un soffio, le labbra tra i capelli che profumavano di shampoo per bambini.
Abbandonata contro il suo petto, con le sue braccia a proteggerla dal freddo del primo mattino, Roxanne sorrise.
“Niente. Mi mancava la tua voce.” rispose piano, alzando il volto per cercare gli occhi scuri del ragazzo.
“E mi hai svegliato per questo?” protestò fiocamente il chitarrista, pizzicandole un braccio.
“Mica stavi dormendo...”
“Ah no? E come lo sai?” indagò curioso, scostandosi quel tanto che bastava per guardarla negli occhi mentre gli prendeva una mano, intrecciando le dita alle sue, prima di rispondere.
“Ho passato tutta la notte a guardarti dormire e no, non stavi dormendo.” si accoccolò meglio contro di lui.
“Tutta la notte? Però!” commentò Izzy con un sorriso, ignorando quel vuoto nello stomaco causato dal repentino desiderio di aggrapparsi alla ragazza e affondare in lei fino a sciogliersi nel suo calore.
“Si, tutta la notte. Lo sapevi che parli nel sonno, ogni tanto?” riprese la ragazza, con tono leggero, lasciando che il ragazzo facesse scorrere una mano lungo la sua schiena, in lente e morbide carezze.
“Davvero?” indagò, mentre la sua mano scendeva appena più in basso e lei si mordeva le labbra, continuando ad ostentare completa indifferenza per quello che stava facendo.
“Si. Dicevi qualcosa circa un tale Bill e...” s’interruppe, guardandolo negli occhi, scuri e opachi, velati da qualcosa che si rifletteva anche nel suo sguardo.
Desiderio.
La consapevolezza che lui la voleva, in quel momento, la investì con la stessa intensità di un uragano e le strappò di bocca le parole, tanto che l’unica cosa che le sembrò sensato fare fu baciarlo.
E baciarlo ancora, e ancora, e ancora, fino a quando non si rese più conto di quello che faceva e venne trascinata via assieme a lui in un altro mondo, in un altro tempo, dove i colori erano dolci e accecanti al tempo stesso, dove c’era la musica, dove non c’era nessuno al di fuori di loro due.

Quando tornò cosciente di se e della realtà che li circondava, Izzy cercò gli occhi della ragazza, che ricambiarono il suo sguardo, limpidi.
Sentiva il nastrino che lei teneva legato alla caviglia destra premere contro il suo polpaccio, in quel groviglio di gambe e lenzuola arancioni impregnate ormai del loro profumo, e le sue braccia attorno alla vita.
Premette il viso contro il suo collo, mentre lei ridacchiando, protestava dicendogli che le stava facendo il solletivo, e fece un profondo respiro: avrebbe voluto rimanere così per il resto della sua vita, in quel letto, disteso sopra di lei, con il suo sapore ancora sulle labbra e quegli occhi, così assolutamente privi di difese che, volendo, avrebbe potuto scoprire qualsiasi cosa su di lei solo guardandola.
Sapeva che era impossibile, che tra qualche minuto si sarebbe dovuto alzare e tornare in albergo.
Già il semplice fatto di essere scomparso per ventiquattro ore, senza avvisare nessuno, gli avrebbe causato non pochi guai, se poi prendeva davvero in considerazione l’idea di restare in quel letto per il resto della vita, allora sarebbe stata la sua fine.
Chiuse gli occhi, sollevando le braccia e facendole ricadere sul cuscino dove erano sparsi i capelli castani di Roxanne.
Strinse qualche ciocca tra le dita e girò il volto in modo tale da posare le labbra contro il suo collo e baciarlo delicatamente.

“A cosa pensi?” le chiese, mordicchiandole la pelle bianca e morbida.
“Che se davvero vuoi farmi un succhiotto,” iniziò lei, mentre il chitarrista si bloccava, sollevando di poco il viso e lasciando andare quel piccolo lembo di pelle appena appena arrosato, “allora fammelo come si deve.” concluse, mentre lui tornava a lavorare febbrile sul suo collo, strappandole un basso gemito che cercò di trasformare in una risata.
Sentì la pelle tendersi tra le sue labbra, mentre lei girava il viso, nascondendosi ai suoi occhi attenti che cercavano di catturare qualsiasi cambiamento su quel volto improvvisamente arrossato.

“Ehi...” la chiamò, lasciando andare i capelli che teneva prigionieri tra le dita e sollevandosi sugli avambracci.
Lei continuò a non guardarlo, presa da chissà quale pensiero, e lui osservò in silenzio il suo profilo morbido.

“Ehi, cosa c’è?” le chiese di nuovo, rotolando sul fianco per guardarla negli occhi e cercando di non pensare al freddo che si era sostituito al tepore del corpo di Roxanne sotto il suo.
“Pensavo...” rispose alla fine, ricambiando il suo sguardo.
Gli accarezzò una guancia, facendo scendere la mano fino a raggiungere una vena pulsante, nascosta da un sottile strato di pelle calda.

“Al mio succhiotto?” cercò di farla ridere Izzy, ottenendo solo un breve sorriso e una lieve pressiono sul collo.
“Scemo!” lo rimproverò gentilmente “Mi stavo chiedendo quando mi dirai che te ne devi andare.”
Avrebbe potuto dirle qualsiasi cosa, e lei gli avrebbe creduto.
Avrebbe potuto dirle che non se ne sarebbe mai andato, così come che aveva ancora tempo.
Una bugia, una qualsiasi bugia, e lei gli avrebbe creduto.
Ma sapeva che non era così: la luce dorata del sole entrava a fiotti dalla finestra e non lasciava spazio ai dubbi.
Era tardi, sarebbe dovuto andarsene via da un pezzo, dovevano lavorare, provare, registrare, rispondere a stupide domande.

“Tra un po’.” le rispose alla fine.
Lei si mise a sedere, facendo scivolare le gambe sul materasso e posando i piedi a terra, incurante dello sguardo di Izzy che sembrava essere in grado di perforarle la schiena.
Si allungò verso il pavimento, recuperando la felpa che il chitarrista le aveva tolto ore prima.
La tenne tra le mani per una manciata di secondi infiniti, prima di infilarla e voltarsi verso di lui, con un mezzo sorriso.

“Allora è meglio che ti prepari.” mormorò con un filo di voce, prima di alzarsi in piedi e scomparendo oltre la soglia della camera, lasciando il ragazzo solo.
Aveva bisogno di una sigaretta per soffocare i troppi pensieri.

 

Cinque minuti più tardi Izzy entrò nel minuscolo cucinino dell’appartamento di Roxanne, ritrovandosi a fissare la ragazza che, con un equilibrio che avrebbe fatto invidia ad un gatto, se ne stava appollaiata sulla finestra, apparentemente dimentica di trovarsi al settimo piano di un enorme edificio mezzo fatiscente.
Ai suoi piedi, un portacenere pieno di mozziconi abbandonati in un mare di cenere.

Teneva tra le labbra una sigaretta, guardando fisso una distesa di casermoni e cemento, e non si voltò quando Izzy si fermò sulla soglia, abbracciando la stanza con lo sguardo.
Era uno stanzino minuscolo, poco più largo del rispostiglio della suite dove alloggiava in quei giorni, con un frigorifero ammassato in un angolo vicino a un lavello traboccante di piatti da lavare e i fornelli, su cui erano elegantemente impilate qualcosa come dieci tra pentolini, padelle e terrine varie, che era poco definire sporche.
Aggrottò le sopracciglia, mentre Roxanne si girava verso di lui, soffiando una nuvola di fumo con deliberata lentezza e lo guardava senza dire una parola, con una chiara, esplicita domanda negli occhi.
Che ci fai ancora qui?

“Ti facevo ordinata.” commentò il chitarrista, raggiungendola.
“Sbagliavi.” commentò laconica “Ma del resto, non sai niente di me.” aggiunse dopo qualche attimo, aggiungendo un altro corpo nel piccolo cimitero di filtri nel posacenere.
“A questo si può rimediare, non ti pare?” inclinò il capo di lato, sorridendole.
“Adesso?”
“Anche adesso, se vuoi.” si strinse nelle spalle, sporgendosi appena oltre di lei, per guardare la strada dove sfrecciavano macchine e taxi “Però preferirei non doverti parlare con il terrore di vederti volare giù, sai?”
Lei rise, reclinando il capo all’indietro e offrendo la gola ai raggi del sole, una risata roca e bassa, graffiata dal fumo “Fossi in te, mi preoccuperei ben di altro.” gli assicurò con un mezzo sorriso.
“Ad esempio?” le domandò avvicinandosi pericolosamente al suo viso.
Lei si ritrasse appena, prima di rispondere.

“Non sono capace di vivere senza caffé e Malboro.” ammise dopo una lunga pausa che lasciava presagire chissà quale terribile verità “E ho un debole per i dolci al cioccolato, al punto che se ne vedo uno e non lo mangio vengo colta da improvvisi raptus omicidi.” chiuse gli occhi, come se avesse appena confessato di aver ucciso sua madre, suo padre e il suo cane ed esser scappata in un altro continente prima di approdare a Los Angeles.
“Tu, invece? Senza cosa non vivi?” chiese poi, facendo spuntare un sorriso curioso.

“La mia Gibson, nicotina e la musica.” abbozzò un ghigno “E il mio amico Jack.”
“Daniel’s?” si informò lei, incrociando le braccia le petto.
Izzy annuì, mentre lei gli passava le mani tra i capelli e li tirava gentilmente verso di se, per dargli un bacio a stampo, veloce, e poi scivolare giù, con i piedi a terra, sgusciando via verso il minuscolo tavolino addossato ad una parete, dove si sedette accavallando le gambe.
Il chitarrista la seguì, posando le mani sulla superficie di plastica bianca, accanto ai suoi fianchi, e intrappolandola lì.

“C’è altro che devo sapere di te?” le chiese piegando il collo fino a posarsi contro la sua fronte, ad occhi chiusi.
Si sentiva assolutamente incapace di rimanere nella stessa stanza dov’era lei senza sentire il bisogno fisico di toccarla.
Era come un ragazzino alla sua prima cotta, avrebbe voluto passare ogni singolo istante con lei.
Anche solo a guardarla fumare, si disse, senza parlare, solo per starle vicino.
Turbato per quell’insolito pensiero, si ritrasse e tornò sulla soglia della stanza, appoggiandosi allo stipite della porta.
Lei lo seguì con gli occhi, curvandosi appena il avanti.

“Sta a te scoprirlo.” replicò pacata, arrotolando una ciocca color cioccolato tra le dita “Sempre se vuoi...” aggiunse timorosa, dopo qualche attimo, strappandogli un sorriso.
“E perché non dovrei volerlo, scusa?” le domandò con una mezza risata, sollevando lo sguardo dalle scarpe da ginnastica bianche che portava ai piedi e fissandolo sul volto della ragazza “Se c’è una cosa che voglio fare, è proprio conoscerti, Roxanne.” si avvicinò di un passo, titubante quasi quanto lei, ma con le idee ben chiare in testa “Vedi, tu mi piaci. Mi piaci parecchio, altrimenti non sarei finito a letto con te e non sarei qui a parlare, ma ti avrei già strappato di dosso quella felpa e quei ridicoli pantaloncini che hai recuperato non so dove in questo buco di casa e sarei occupato in un bis di quanto abbiamo fatto prima. Ma non sono quel tipo di persona, in genere non vado a letto con la prima ragazza incontrata per strada.” La vide arrossire e abbozzare un sorriso “Quindi smettila di farti tanti problemi chiedenti se voglio o meno conoscerti, perché è inutile. La risposta la sai già. È talmente banale che non occorre nemmeno che io te lo dica, perché è chiaro come il sole che voglio conoscerti, d’accordo? Ti fidi di me?”
La ragazza deglutì, senza distogliersi lo sguardo.
Neanche volendo, ci sarebbe riuscita: lui era lì, in piedi davanti a lei, talmente bello da far paura, e le stava dicendo quello che nessuno dei suoi precedenti ragazzi era mai stato in grado di dirle.

“Ho già saltato per te una volta, Izzy” osservò “E il risultato lo vedi stampato sulla mia faccia.” lo vide trasalire, come se gli avesse appena tirato un pugno, mentre sollevava una mano e se la posava sulla faccia, sopra il livido violaceo. “Ma la vuoi sapere una cosa? Lo rifarei altre mille, fottutissime volte.” sbottò, saltando giù dal tavolino e andandogli incontro.
Lo afferrò per la camicia, tirandolo a se e premendo le labbra contro le sue senza pensare, limitandosi ad agire e basta, abbandonandosi in quel bacio che si spingeva quasi al limite della violenza tanto era irruenta e affamata della sua bocca.
Quando si separarono, ansimavano entrambi.

“Quindi adesso vattene, prima che cambi idea, vai e fai quello che devi fare.” riprese la ragazza, senza lasciarlo andare “E poi torna da me, d’accordo?”


 

This is never the life I thought you aspired to lead
Oh what has rock and roll led you to believe.
Is this what happiness is like?
 

Sophia, Last night I had a dream

 

Quando Izzy si fermò davanti alla porta della stanza di Axl, aveva già le orecchie piene delle urla che la il legno non era in grado di contenere nella camera e avevano invaso il corridoio.
Per un attimo prese seriamente in considerazione l’idea di girare sui tacchi e darsela a gambe levate: sembravano tutti molto, molto, molto incazzati.
Ma non poteva.
Non poteva fare questo agli unici amici che aveva, non poteva mollarli li senza dare spiegazioni.
Inspirò a fondo, pescando l’ultima sigaretta che gli era rimasta e stringendola tra le labbra con più forza di quanta avrebbe voluto, prima di aprire la porta e entrare nella stanza.

Il tanfo di fumo, sudore e vomito lo colpiì con la forza di uno schiaffo, facendolo vacillare, tanto che dovette appoggiarsi allo stipite della porta per non cadere.
“Ma che cazzo...” iniziò a dire, trovando con gli occhi Slash – completamente fatto -, che se ne stava abbandonato sul pavimento davanti ai suoi piedi, con una bottiglia stretta in mano e la maglietta sporca da far schifo.
Lo scavalcò, mentre Axl si voltava e spalancava la bocca.

“Eccolo qua, il cazzone!” strillò con un ghignò dipinto sul viso, alzando la bottiglia di birra da cui stava bevendo “Eccolo, quello che sparisce e non dice nemmeno dove va!”
“Axl, non rompere, lascialo in pace” brontolò Duff, dall’angolo dove era seduto.
Se non ci fosse stata la parete alle sue spalle, sarebbe crollato come un sacco di patate.

“Oh, io non lo lascio in pace invece.” sbraitò ancora il front-man, con il volto madido di sudore e rosso per il troppo alcol in circolo nel corpo “Si può sapere dove cazzo sei stato, Stradlin?” urlò ancora, parandoglisi davanti a gambe larghe, in una posizione che avrebbe potuto sembrare minacciosa senza tener conto del continuo dondolare del biondino, del tutto incapace di rimanere fermo in equilibrio.
“Stai gridando come una puttana isterica.” commentò gelido, stravaccandosi sul letto accanto a Steven, con uno spinello tra le labbra.
Il batterista gli porse la canna, che Izzy rifiutò con brusco gesto della mano, accendendosi l’ultima Malboro.

Il sapore amaro e velenoso del tabacco mescolato con il catrame e la nicotina gli riempì la bocca e i polmoni, cancellando in parte lo stordimento causato dal tanfo che impregnava la stanza.
Continuò a guardare Axl, che aveva la bocca talmente spalancata che la mascella sembrava sul punto di staccarsi e cadere sul pavimento con un tonfo secco.

“...una puttana isterica?” ripetè alla fine, chiudendo gli occhi e agitando la mano con attaccata la bottiglia di birra “Mi ha davvero dato della puttana isterica?”
Steven annuì, subito immitato da Duff e Slash, che sembravano aver acquistato un po’ di lucidità solo per assistere allo scontro tra i due amici di sempre, i due inseparabili.
Una litigata tra loro due era una novità da non perdere.

“Ma chi ti credi di essere, razza di...” attaccò il cantante, subito fermato da Izzy che aveva adocchiato una bottiglia di Jack Daniel’s abbandonata per terra.
“Axl, senti.” gli disse, allungandosi e afferrando la bottiglia “Perché non ci beviamo su, eh? Non ho voglia di litigare” e come a confermare le sue stesse parole, ingurgitò una lunga sorsata di liquore, assaporandone il sapore talmente forte da causargli una lieve vertigine.
“Se non volevi litigare, potevi non sparire.” lo rimbeccò l’altro, non ancora convinto “Che poi, si può sapere dove sei stato?”
Izzy gli regalò un enorme sorriso che sapeva tanto di presa in giro, dopo aver buttato giù un’altra considerevole quantità di alcol come se fosse acqua.
“Hai presente la ragazza che al concerto ha provato a salire sul palco?”
“Chi, la sventola?” intervenne Duff, mostrando barlumi di interesse per la conversazione.
A fatica, il bassista si sollevò in piedi e barcollò verso il cantante, al quale si aggrappò dopo esser inciampato nei suoi stessi passi “Te la sei fatta?” biascicò lentamente, facendo fatica ad articolare le parole.

“Figurars.i” commentò Steven, togliendo di mano la bottiglia ad Izzy e concedendosi un generoso sorso, prima di sorridere sghembo.
“Izzy non fa porcate con la prima ragazza che gli capita sotto il naso.” proseguì Slash, che continuava a starsene disteso sul pavimento con una sigaretta in bocca.
“Perché Izzy è una brava persona.” concluse Axl, con aria solenne, portandosi la bottiglia di birra al cuore dopo averla vuotata in un colpo solo.
Il chitarrista non rispose, limitandosi a riprendere il Jack Daniel’s per scolarne un altro goccio.
Non li sopportava quando facevano così, erano insopportabili.
Che ne sapevano loro, in fondo?
Nessuno si preoccupava mai della sua vita privata, nessuno sapeva niente di lui fatta eccezione per Axl che, nei rari momenti di lucidità che aveva riusciva a tornare una persona quasi normale. Come facesse Erin a stargli accanto, solo Dio lo sapeva.
Si lasciò cadere di schiena sul letto, senza accorgersi di Axl che prendeva la rincorsa – o quanto meno ci provava, andando a sbattere contro tutto quello che lo circondava - e gli saltava addosso, conficcandogli un gomito nello stomaco.
Gli si mozzò il respiro e la vista gli si oscurò per il dolore, mentre l’ultimo sorso di whisky che aveva ingurgitato minacciava di risalire il suo esofago a una velocità spaventosa.

“Eddai, Izzy!” sghignazzò il cantante, scivolando sul materasso e circondandogli la gola con le braccia, in un bizzarro impeto di affetto mascherato da violenza “Lo sai che scherziamo, che ti vogliamo bene!”
“Si, soprattutto tu.” replicò tossendo Izzy, cercando di liberarsi dalla stretta dell’amico.
“Oh, ma come sei scontroso!” brontolò Axl, lasciandolo andare e incrociando le braccia al petto.
Si sentì vagamente in colpa, senza sapere se per aver fatto imbronciare il suo amico di sempre o se per essere somparso per tutta la mattina senza dire niente.
Si tirò a sedere, guardando ora il biondino, ora gli altri membri della band, che sembravano tutti aspettarsi da lui qualcosa. Capitolò.

“Oh, va bene, va bene.” ammise “Mi dispiace di essere scomparso senza avvisare nessuno e mi dispiace di essermela presa.”
Slash gli battè una manata sulla schiena, facendogli andare per traverso il Jack Daniel’s con cui si stava premiando per aver sotterrato il suo orgoglio e aver chiesto scusa, mentre Duff seguiva con attenzione i movimenti di Steven, intento a rollare una canna.
Incrociò gli occhi verdi di Axl, chiaramente insoddisfatti.

“Oh, andiamo, che altro c’è?” gli chiese esasperato, mentre il mondo iniziava a muoversi più lentamente e i pensieri si trasformavano in parole senza il suo consenso.
Sapeva di essere arrivare al fragile confine che sta tra l’essere brilli e l’essere completamente ubriachi, se ne rendeva perfettamente conto. Guardò il cantante arricciare le labbra.

“No, niente...” biascicò guardando da un’altra parte. Duff tirò una gomitata al chitarrista, ridacchiando vistosamente, e lui capì.
“Ahhhhh!” esclamò con un ghigno “Caro mio, te lo puoi scordare.” gli assicurò, rigirandosi la bottiglia tra le mani, come se stesse valutando se bere ancora, e ubriacarsi, o se fermarsi li.
Fu Slash, a farlo decidere, mentre Axl continuava a fare l’offeso, tirando di tanto in tanto un tiro dallo spinello sapientemente preparato da Steven.
“O bevi.” gli disse “O lo faccio io.”
Senza neanche pensarci su, il chitarrista si portò la bottiglia alle labbra e si affrettò a riempirsi la bocca con il sapore forte della bevanda.
Quando diede la bottiglia al genio della chitarra che la reclamava, era parecchio più vuota, come la testa di Izzy, che si sporse appena verso il biondino.

“Non ti chiederò mai scusa per averti chiamato puttana isterica, puoi scordartelo!” sghignazzò, sentendo la lingua inciampare nelle parole.
Molto tempo più tardi, quando ormai aveva più alcol che sangue nelle vene, si rese conto che non si stava divertendo come gli altri, intenti a scommettere quante capriole sarebbero riusciti a fare Slash e Axl prima di vomitare e chi dei due avrebbe ceduto per primo.
Si chiese perché non riuscisse ad abbandonarsi a risate sguaiate e esagerate come aveva fatto per anni.
Non trovando la risposta, seppellì il dubbio con della birra, affidandosi alla beata ignoranza degli ubriachi.


 

PARLA IZZY:

Le nostre serata seguivano sempre una precisa routine: alcol, droga e di nuovo alcol.
Iniziammo con le canne, finimmo con la coca e l’eroina.
Che fosse sbagliato, che ci portasse grane e basta, non lo pensavamo nemmeno per sbaglio.
Eravamo dei grandissimi codardi, capaci solo di cancellare i nostri problemi alterando la nostra capacità di pensare fino ad annullarla del tutto.
Axl litigava con Erin?
Una pista di coca e via, il problema si dimenticava così.

Slash sbagliava l’intro di un pezzo in un live?
Sotto con l’eroina e avanti con lo show.

Duff andava a sbattere con la macchina perché troppo ubriaco per poter guidare?
Uno spinello e tutto torna a posto

Steven non si presentava in studio e lo trovavamo svenuto nel bagno della sua stanza con una siringa ancora nel braccio?
Un po’ di pasticche e tutto veniva cancellato.

La verità è che eravamo bambini spaventati da quello che erano diventati, ci aggrappavamo a qualsiasi modo per scappare dalla realtà.
E solo il cielo sa quanto mi pento di averlo capito così tardi, ma il passato è quello che è, specie il mio.
Non ne vado fiero, non ho tanti motivi per esserlo.

Solo su una cosa non ho rimorsi: l’averti fatta entrare nella mia vita.
Lo giuro su tutto ciò che ho di più caro.
L’averti incontrata, mi ha salvato.
Fui io a non essere in grado di salvare te.

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Capitolo 4
*** Compromise (me) ***


HAND IN GLOVE
#4 Compromise (me)





PARLA ROXANNE:

Piove.
Hai sempre amato la pioggia, Izzy.
Ti piaceva stare sotto quegli scrosci d’acqua gelida, mentre il cielo urlava la sua furia ad un mondo che scappava.
Un giorno mi dicesti che lo facevi perché ti piaceva pensare di uscirne pulito, che la pioggia avesse la capacità di attraversare le fibre del tuo corpo e andare a lavare le macchie della tua anima.
Io risi, all’epoca, e ti presi in giro.
Tu ti imbonciasti e dovetti darti un bacio per farti tornare il sorriso.
Eri così bello, quando ti imbronciavi, eri bello quando entravi nel mio piccolo appartamento completamente fradicio, con una delle tue eterne camice addosso, appiccicata come una seconda pelle al tuo corpo.
Arrivavi con la pioggia e te ne andavi con il sole.
Con gli anni, ho imparato ad amare la pioggia, lo sai?
Io, che senza il sole non ero capace di stare, io che avevo le mani fredde anche con trenta gradi all’ombra.
Ho imparato ad amare la pioggia così come ho imparato ad amare ogni cosa di te.
È un’arte difficile, quella del compromesso.
Difficile da imparare, difficile da gestire ma fondamentale nelle piccole cose della vita.
E nessuno meglio di te può saperlo.

 

Nothing lasts
This too here will come to pass
Wanna spend my days away from all the fuss
Wanna spend them with you baby but you're in a rush
 

Macy Gray, Slowly.

 

LOS ANGELES, ottobre 1987

Era notte fonda, quando Izzy aprì gli occhi.
Caldi sbuffi di vento gli accarezzavano il viso, passando attraverso una finestra spalancata davanti a lui. Faceva talmente tanto caldo che si sentiva soffocare.

Rimase disteso, coprendosi gli occhi con un braccio, e quando provò a mettersi seduto fu buttato giù da un enorme peso invisibile che gli si arpionò aulle tempie e le strinse in una stretta micidiale.
Strinse i denti, allungando un braccio oltre il letto per cercare il comodino: ci mise sette secondi a realizzare che non c’era e che non si trovava nella sua camera.
Il letto era piccolo, il materasso non aveva niente a che vedere con quello dove riposava da mesi e quello che intravedeva oltre la finestra era poco più di una minuscola porzione di cielo nero senza stelle imprigionato in una distesa di enormi condomini fatiscenti.
No, decisamente non era in albergo.
Forse era a casa di Erin.
Era davvero così piccola la camera da letto di Axl e Erin? Non riusciva a ricordarlo.

Senza nemmeno fare un altro tentativo di mettersi a sedere, cercò di fare mente locale e farsi tornare in mente come fosse arrivato lì.
I suoi ricordi erano fermi a quel pomeriggio, quando Slash aveva decretato che avevano provato abbastanza e, dopo aver riposto la sua chitarra nella custodia con una cura che rasentava l’amore, aveva affettare una bottiglia di birra.

Si rigirò sulla schiena, fissando il soffitto bianco sporco della stanzetta che aveva bisogno di molto più di una mano di vernice.
Non riusciva ad andare oltre quel preciso punto in cui aveva passato a Duff lo specchietto con sopra le ultime due strisce di coca rimaste e aveva svuotato in un colpo solo mezza bottiglia di birra.
Poi, il nulla.
Era come cercare di andare a scavare nella nebbia: spostava un cumolo di lato e subito un altro ne prendeva il posto. Oltre ad essere del tutto inutile, era pure sconfortante.

Una macchina sfrecciò veloce, giù in strada, regalandogli un adorabile fitta di dolore alla testa.
Detestava stare male.
Era una cosa più forte di lui, era totalmente e assolutamente allergico al dolore. In questo non era cambiato, da quando era piccolo, non riusciva a sopportare di star male fisicamente.

Ma del resto, si disse mentre di obbligava a mettersi seduto, cosa saremmo senza costanti?
Posò i piedi sul pavimento, tenendosi la testa tra le mani per soffocare parte delle fitte.

Sentiva la voce di Axl blaterare nell’altra stanza, le sue parole arrivavano chiare e distinte come martellate alle sue orecchie, passando attraverso le pareti sottili della stanza.
Socchiuse la porta delicatamente, senza far rumore, e sbirciò nella piccola fessura che aveva creato: la stanza era completamente buia, illuminata solo dalla luce intermittente di una televisione.
Davanti a lui spuntava la testa di Roxanne, apparentemente intenta a seguire le immagini che comparivano sullo schermo, un’intervista che avevano registrato qualche giorno prima.
Immobile, la ragazza era rannicchiata su una vecchia poltrona sfondata, abbracciandosi le ginocchia con le braccia, muovendosi solo per afferrare una bottiglia d’acqua posata su un tavolino lì accanto. Aveva i capelli sciolti, arricciati in morbide onde ancora bagnate alle punte che immaginava profumare di mandorle e albicocca.

“Quindi non sono a casa di Axl.”osservò alla fine, facendola sobbalzare leggermente.
Lei si voltò verso di lui, sorridendo pigramente.

“Ciao.” bisbigliò sotto voce “Ti ho svegliato?”
Izzy scosse la testa, mentre il pavimento scricchiolava appena sotto i suoi passi, e si sedette sul bracciolo della poltrona, circondandole le spalle con un braccio.
Affondò il viso tra i suoi capelli ancora umidi, inspirando a fondo il dolce profumo dello shampoo.

“No, non mi hai svegliato.” le rispose, guardando con lei Axl che spiegava qualcosa, gesticolando furiosamente.
“Come stai?” gli chiese tenendo bassa la voce, quasi avesse paura di disturbare il dialogo che animava lo schermo davanti a loro.
Vedeva i colori illuminarle il volto e le immagini riflettersi nei suoi occhi scuri. Nonostante il sonno, la nausea e il mal di testa, non poteva fare a meno di sorridere.

“Sono stato meglio.” sospirò, passandosi una mano sul volto.
“Vuoi che vado a prenderti un’aspirina?” si offrì gentilmente Roxanne, posandogli un bacio sulla fronte dopo avergli scostato una ciocca di capelli neri.
Senza aspettare risposta si alzò in piedi, mentre lui scivolava giù dal bracciolo, al suo posto, annuendo.

“Sei un angelo, Roxy.” le disse, mentre spariva in una stanza buia che non era ancora in grado di identifica.
In due mesi che si frequentavano, non aveva ancora capito come fosse disposto quel minuscolo appartamento.

“Oh si.” rise lei, la voce soffocata dalle pareti leggere mentre afferrava il telecomando per cambiare canale.
Gli faceva impressione l’idea di vedersi in televisione, non ci era abituato.
“Un vero angelo del focolare.” riprese Roxanne, porgendogli un bicchiere pieno d’acqua e una pastiglietta bianca, che buttò giù con un sorso.
Gli si sedette in braccio, con le gambe abbandonate oltre il bracciolo, dondolando i piedi.

“No, non cambiare canale!” protestò afferrandogli il polso e impedendogli di premere un pulsante qualsiasi “Voglio vederti in tv!”
Lui rise, pentendosi immediatamente di quell’attacco dìilarità: una fitta alla testa gli contrasse la bocca in una smorfia.
“Ma se hai qui l’originale,” continuò dopo qualche attimo, mentre il dolore si attenuava, “che t’importa di quello che c’è sullo schermo?” la strinse a se, in modo da posare la guancia contro la sua spalla.
“Tu sei k.o. caro mio, quindi stai buono e lasciami guardare.” lo freddò rapidamente, passandogli un braccio oltre il collo e affondandogli le dita tra i capelli.
Izzy chiuse gli occhi con la stessa indole pigra di un gatto che si gode qualche carezza, mentre lei fissava il televisore con attenzione, un mezzo sorriso appena accennato sulle labbra.

“Io non sono k.o.” protestò dopo qualche minuto, stranamente a disagio nel guardare un altro se stesso.
Roxanne gli scoccò un’occhiata significativa.
“Beh, non del tutto!” si corresse, mentre l’intervistatore domandava qualcosa riguardo i loro testi a Slash.
Ricordava quel momento: l’acclamato genio della chitarra lo aveva guardato da sotto la sua enorme criniera di riccioli neri e aveva ciondolato la testa, senza spiaccicare parola. Era talmente fatto che era già un miracolo si fosse accorto che la domanda era rivolta a lui.
Sul momento aveva trovato la cosa divertente, complice la birra e le canne che Duff gli aveva passato sistematicamente ogni cinque minuti, ma adesso.. adesso non voleva che lei vedesse quelle scene.
Non voleva che lei vedesse quanto cazzo era ubriaco anche lui, quanto tutti quanti fossero imbottiti di alcol e droga.
Si agitò, inquieto, distogliendo lo sguardo.

“Ehi, stai buono!” protestò ridendo la ragazza “Non occorre dimenarsi così tanto, se stai perdendo l’uso delle gambe per colpa mia basta dirlo e mi sposto.”
Izzy rise a sua volta.
“Non è questo..” sospirò, lasciando cadere la frase che venne raccolta da Roxanne.
Per quanto ogni parola fosse dolorosa come una pugnalata, per lo meno così non guardava lo schermo.

“E allora cosa c’è, mister inquietudine? Perché non vuoi lasciarmi guardare l’intervista? Cos’è, riveli al mondo che sei sposato con una svedese dalle gambe chilometriche e gli occhi blu?” insinuò, senza però riuscire a frenare quell’infondato timore che le riempì gli occhi, caldi come cioccolata al latte.
Il chitarrista si sentì sciogliere il cuore da una improvvisa dolcezza e la strinse più forte, fino a sentire il calore della sua pelle oltre vestiti.

“Non essere sciocca.” la rimbeccò, baciandole la punta del naso “Lo sai perfettamente che mi dai troppo da fare da sola, non ho il tempo per pensare di tradirti con una bambola svedese. Perché svedese, poi!”
Lei aprì la bocca in un sorriso, senza però demordere.
“Non cercare di infinocchiarmi, Jeff Isbell.” ribatté piccata, calcando con la voce sul nome -il vero nome- del ragazzo che fece una smorfia.
Aveva rinchiuso il suo passato, assieme ai suoi ricordi, dietro una porta sigillata.
La chiave, l’aveva seppellita sotto strati di polvere, alcol e solo il cielo sapeva che altro era stato disposto a fare per dimenticare.
“Perché non vuoi che veda quell’intervista?”

“Certo che sei veramente tremenda!” esclamò esasperato, roteando gli occhi: aspettò che la bassa risata di lei sfumasse nel silenzio, per riprendere a parlare.
Le indicò lo schermo, dove il malcapitato intervistatore probabilmente si malediva in tutte le lingue del mondo per aver fatto una domanda a Slash, che si era lanciato in un elogio del whisky e del bere, del drogarsi e del sesso con le fan.
“Non voglio che tu veda questo” le disse, parlando a qualche centimetro dalla sua orecchia destra, tra i suoi capelli “Non voglio che tu veda come ci riduciamo quando decidiamo di far festa, non voglio che tu veda il nostro squallore, Roxy, perché ne rimarresti disgustata.”

Rimasero entrambi in silenzio, mentre nel televisore il chitarrista dai riccioli corvini lanciava via una sventurata bottiglia di Heineken vuota.
“E se anche fosse?” rispose lei, reclinando il capo fino a posarlo contro la fronte del ragazzo “Pensi che cambierebbe qualcosa?”
“Roxanne, tu non hai idea di quello... di come...” sospirò, cercando di afferrare quelle parole che sfuggivano, come sabbia tra le dita “E’ difficile spiegarlo a qualcuno che non l’ha mai visto, ma ci andiamo giù pesante. Veramente pesante. E anche se sappiamo che non va bene, che è sbagliato, che ci facciamo del male da soli, non riusciamo a farne a meno. Siamo cresciuti in posti talmente squallidi da spingerci a cercare ogni possibili via di fuga: e anche adesso, che di scappare non abbiamo più bisogno, non siamo in grado di smettere. Io non voglio che tu abbia qualcosa a che fare con questo mondo, sei troppo preziosa per correre il rischio di farti scivolare nel nostro vortice.”
“E se ti dicessi che sono più forte di quel che pensi, che ho già visto quello che tu vuoi evitarmi e mi è sembrata una scena all’acqua di rose?” domandò lei tranquilla, seguendo distrattamente le ultimi immagini dell’intervista.
“Faccio fatica a crederti” allentò la stretta su di lei, lasciando che si accoccolasse meglio contro il suo petto “E comunque, non hai mai visto me in quelle condizioni. Ubriaco si, ma completamente distrutto no. Ci sono momenti in cui mi faccio schifo da solo, cosa credi? Quando mi sveglio la mattina e l’aria stessa diventa pesante da respirare, mi sembra di soffocare tanto di merda mi sento.”
Nessuno dei due disse niente per qualche minuto.
Rimasero fermi, su quella poltrona rovinata dal tempo, illuminati dai flash colorati della televisione che andavano e venivano accompagnando un sonoro quasi inesistente.

“Izzy, io ti ho già visto così,” mormorò alla fine Roxanne, parlando a bassa voce.
Sentì il ragazzo irrigidirsi impercettibilmente, ma decise di proseguire.
“Ti ho visto molto peggio di così,” inspirò a fondo, racchiudendo la sua mano tra le dita con delicatezza.
“Questa sera, quando sono tornata a casa dal lavoro, ti ho trovato mezzo svenuto in corridoio. Puoi immaginare la paura che ho avuto, a vederti accasciato contro la parete, talmente immobile da sembrare freddo. Ho cercato di svegliarti, di farti rinvenire, ma niente: hai aperto gli occhi e basta, fissando il vuoto.” s’interruppe, dominando un lieve tremore della voce “Per una nata e cresciuta nella periferia di Los Angeles una scena del genere non è nuova, credimi, non sai quante volte ho visto ragazzi e ragazze nelle tue condizioni, uno più fatto dell’altro, distesi nei vicoli o sui gradini delle chiese. Sono cose con cui convivo da anni, mio fratello è un tossico e l’ho visto rovinarsi con le sue stesse mani sotto gli occhi dei miei genitori, senza che nessuno potesse fare niente per aiutarlo. Sapevo anche che tutti voi avete problemi con alcol e droga, lo ho sempre saputo e una parte di me si rendeva conto che presto o tardi una cosa del genere sarebbe capitata, ma vederti lì mi ha sconvolta più di quanto potessi immaginare.” un singhiozzo le salì alla gola, mentre la vista si offuscava di lacrima che ci avrebbero impiegato poco a rotolare lungo le sue guance.
Ma sapeva che se si fosse fermata non sarebbe mai riuscita a finire.
“Tu non ricordi come sei arrivato qui, vero? Scommetto che quando ti sei svegliato non hai nemmeno capito dove eri.” riprese lentamente.
“Ti ci ho portato io su quel letto così come ti ho portato dentro casa, mezza morta di paura e con te che mi vomitavi anche l’anima addosso, Dio! ti ho tenuto la testa, ho pianto mentre quasi ti soffocavi, ti ho ripulito e ti ho infilato a letto dicendomi che andava tutto bene, che saresti stato bene, che no, non ti sarebbe successo niente. Eri pallido, Izzy, così pallido che avevo paura di respirare per portarti via l’aria, tu non puoi capire quanta paura ho avuto porca puttana!” esclamò, senza riuscire a cancellare una nota stridula che lo fece trattenere il respiro “Quindi ti prego, non farmi discorsi del cazzo dicendomi che non vuoi che io veda come ti riduca quando sei con i tuoi amici perché già lo so. Hai avuto la premura di mostrarmelo tu stesso. Risparmiati le belle parole, non so che farmene, e non dirmi mai più che non vuoi che io sappia questo perché equivale a dirmi che non vuoi che io faccia parte del tuo mondo e non lo posso sopportare, Izzy, non posso sopportare l’idea di lasciarti andare adesso, sto male solo al pensiero e-e...” s’interruppe, scossa da un altro singhiozzo.
Le lacrime ormai traboccavano dai suoi occhi, avevano iniziato a scendere in un qualche punto indefinito tra le parole «non ti sarebbe successo niente» e «non vuoi che io veda» e non riusciva a capacitarsene.
Aveva passato due ore buone, fissando lo schermo spento della televisione dopo essersi fatta una doccia a ripromettersi che non avrebbe pianto, che non lo avrebbe fatto perché non c’era motivo.
Inspirò, per riprendere a parlare, ma Izzy le premette le punte delle dita sulle labbra, intimandole di non aggiungere altro.

“Roxanne, io non voglio che tu rimanga fuori dal mio mondo, anzi! Vorrei passare con te ogni singolo istante del giorno e della notte, anche solo per guardarti mentre dormi. Non sai quanto vorrei che tu venissi con me in studio, che ci ascoltassi suonare e registrare, ma non è possibile. I Guns’n’Roses sono buoni solo a far musica, per il resto sono dei relitti umani che si sono uniti e rimangono assieme per paura del mondo. Parlarne è un conto, viverlo è un’altro, non puoi negarlo..”
La vide lottare contro l’istinto di ribattere e alla fine arrendersi, con un sospiro.
Sembrò perdere ogni forza, abbandonandosi contro di lui come se le avessero privato il corpo delle ossa e affondando il viso nella maglietta che indossava, bagnandola con lacrime silenziose e mormorando qualche parole che si perse tra le maglie di cotone.

“Come dici?” le chiese accarezzandole i capelli.
Le onde scure si tesero, mentre sollevava il volto rigato da calde perle salate, mordendosi rabbiosamente le labbra che poi schiuse appena, per rubare un po’ di aria un più.

“...” boccheggiò, come un pesce, senza riuscire ad articolare quel groviglio informe che si sentiva dentro, quel nodo che le stringeva la gola e le impediva di parlare.
Si sentiva sottosopra, confusa e sperduta, persa nella sua casa, naufraga in un mare di emozioni che si agitava, la trascinava sotto la superficie e non le dava tempo di respirare. Riusciva solo a fissare gli occhi scuri di Izzy, neri come le notti più scure, quelle notti in cui non c’erano nè stelle nè luna e lei era sola con se stessa, messa davanti ai suoi pensieri e alle sue parole.

Chiuse gli occhi.
Quando li riaprì, lui continuava a guardarla con una dolcezza che non aveva mai conosciuto prima.
“Izzy,” lo chiamò piano, mentre la realtà assumeva la consistenza impalpabile di un sogno, “devo dirti una cosa.”
Lui rimase in silenzio, affondando le dita tra i suoi capelli lentamente. Inspirò a fondo, facendosi coraggio.
“Izzy io penso...” riprese, incespicando nelle parole “...io penso che...” non si era mai sentita così stupida, piccola e insicura in vita sua: non era la prima volta che lo diceva, ma probabilmente era la prima volta che sentiva era vero, che ne era sicura al punto da non avere dubbi.
E allora perché diavolo esitava? Aveva le parole ferme sulla punta di lingua, ma non riusciva a sputarle fuori.

“...non mi lasciare.” capitolò alla fine, mentre il sapore amaro della delusione le riempiva la bocca: non era quello che voleva dire.
Ma di più non sarebbe riuscita a fare, non quella sera. Si sentì stringere più forte, mentre le labbra di lui si posavano sulla sua tempia.

“Non lo farei per niente al mondo.” le assicurò sottovoce.
“Me lo prometti?”
“Te lo prometto.”
Roxanne mugolò qualcosa, chiudendo gli occhi e stringendogli una mano con la stessa dolce foga di un bambino che abbraccia un orsacchiotto la notte, per farsi coraggio nel buio della sua cameretta, prima di abbandonarsi al confortante oblio del sonno e lasciare Izzy sperduto nel mare dei suoi pensieri, senza nemmeno lontanamente intuire cosa quella promessa avrebbe comportato poi un giorno.

 

Un timido raggio di sole fece capolino in lontananza, superando un enorme cumolo di nubi colorate di rosa dalla calda luce dell’alba e granelli di polvere volteggiarono leggeri nella lama di luce che si conficcava nel pavimento con la stessa fredda precisione di una lama, acquistando via via intensità minuto dopo minuto: ben presto, quella sottile striscia di luce aveva abbracciato tutta la stanza.
Il mattino la colse di sorpresa, abbandonata su quella vecchia poltrona sotto una coperta scolorita dagli anni.
Roxanne aprì gli occhi, sbadigliando, e si guardò attorno con un mezzo sorriso, cercando la figura fin troppo sottile di Izzy.
Come diavolo facesse quel ragazzo a essere così magro, considerata l’abnorme quantità di cibo che ingurgitava quotidianamente, era un mistero destinato a rimanere inspiegato.

Allungò le gambe davanti a se, stiracchiandosi pigramente.
Quanto aveva dormito, non lo sapeva, ma a giudicare dalla luce tenue che abbracciava la stanza, dovevano essere passate si e no un paio di ore da quando aveva chiuso gli occhi tra gli braccia del chitarrista e si era addormentata.

“Caffè” biascicò, alzandosi in piedi e barcollando verso la cucina, trascinandosi dietro la coperta.
Aveva un impellente bisogno di caffè per affrontare la giornata.

Una volta acceso il fuoco sotto la moka, si lasciò cadere sull’unica sedia sgamgherata della stanza, abbracciandosi le ginocchia con le braccia: dopo aver sbadigliato vistosamente ed essersi stropicciata gli occhi, cercò di capire dove diavolo si fosse cacciato Izzy.
Non sentiva l’acqua scrosciare nella doccia né tantomeno la sua voce roca canticchiare qualcosa, quindi non stava facendo la doccia e non era in bagno.
Che stesse dormendo in camera, era inconcepibile: in quei due mesi che si erano frequentati, era capitato più di una volta che uno dei due arrivasse tardi al punto da trovare l’altro addormentato e Izzy, ogni maledetta volta, si era addormentato al suo fianco.
Che si trovasse nel letto, sul divano o anche sotto la doccia – perché era successo un paio di volt e- , lui si era sempre accocolato vicino a lei e al mattino lo aveva trovato li: non si era mai lamentato per il mal di schiena, il torcicollo o il raffreddore.
Era un vero angelo, sospirò versandosi il caffè in una tazza azzurra e zompettando nel minuscolo corridoio che portava alla sua stanza.
No, non era lì. Già lo sapeva, ma per scrupolo...

Buttò giù un sorso, la calda bevanda amara scivolò veloce lungo la gola lasciandosi dietro uno strascico che sapeva d’oriente e acqua sporca.
Fece una smorfia, era davvero disgustoso.
Si sporse dalla finestra della sua stanza, sbirciando sulla scala anti-incendio che si arrampicava lungo la parete, una bizzarra edera di ferro arrugginito.
Con una fitta al cuore, realizzò che non era nemmeno lì: sporse le gambe oltre il cornicione, posando i piedi nudi sul sottile e freddo reticolo di lamine che dava vita a una sorta di minuscolo terrazzino davanti alla stanza.
Agguantò le sigarette abbandonate su uno scatolone adibito a tavolino e se ne accese una, sedendosi sulla sdraio sistemata in un angolo, accanto ad una pianta dalle foglie talmente secche che sembravano sul punto di polverizzarsi al minimo tocco: come tutti gli abitanti del palazzo e della città, anche lei se ne era allegramente infischiata delle norme di sicurezza e aveva trasformato l’unica via di fuga in un prolungamente dell’appartamento dove prendere un po’ d’aria nelle notti più torride.

Soffiò fuori una lunga boccata di fumo, mentre il telefono iniziava a squillare.
Lo lasciò suonare, ignorando gli squilli fastidiosamente insistenti che si stopparono quando si inserì la segreteria telefonica.

“Ciao sono Roxanne,” iniziò a recitare, sulla falsariga della sua voce registrata, agitando la sigaretta in aria, “ e in questo momento non sono in casa, e se ci sono non ti voglio sentire, quindi dopo il beep lascia un messaggio: se ho voglia ti richiamo, sennò no. Beeeep!”
Seguì un attimo di silenzio, che la riempì di aspettative e attese, prima che la voce del suo capo le ringhiasse che c’era bisogno di lei al locale anche in mattinata perché Charlie si era di nuovo sentita male.
Sospirò, curvando le spalle e posandosi contro lo schienale della vecchia sdraio, sentendosi come svuotata.
Avrebbe voluto fare colazione con Izzy, assaporandosi il suo sorriso sbilenco e il suo caffè imbevibile, ridendo di tutto e di niente, chiacchierando come una coppietta di sposini.

“...solo che non siamo due sposini” commentò amaramente, la bocca piena di fumo e una delusione che sfumava in tristezza.
Con un sorriso cinico, constatò che in parte era stata accontentata: il caffè era imbevibile, anche se lo aveva preparato lei.



 

PARLA ROXANNE:

Forse tu non lo ricordi, Izzy, ma avevi un modo tutto tuo di guardare al futuro, quando eri con me.
Mi dicevi di voler passare ogni singolo istante della tua vita assieme a me e poi, alla prima occasione, scappavi via, senza dire una parola.
Come se ti accorgessi di lottare contro qualcosa che non potevi sconfiggere.
Sapevi che presto o tardi avresti dovuto scegliere tra me e la tua musica.
Credo che tu lo abbia sempre saputo, dal primo momento in cui ci siamo incontrati.
Il tuo destino era nella musica, il mio no.
Stare assieme era un sogno, un bellissimo sogno, una favola ad occhi aperti che forse ci avrebbe salvati da molte altre cose.
Ma pretendere che un sogno si trasformi in realtà, un sogno del genere, era troppo.
La corda si spezza, se viene tirata troppo.
E visto che tu la tiravi senza sosta, fui io a dover cedere e lasciarti fare.
Compromesso, Izzy, compromesso.
Il trucco sta nel capire che certe volte non c’è altro da fare se non scendere a patti.
Un male minore per un bene superiore.
Che poi questo male minore fosse incredibilmente doloroso, alla fine, era relativo.
L’importante, era stare con te.
Ad ogni costo.

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Capitolo 5
*** In a place outta sound ***


HAND IN GLOVE
#5 In a place outta sound



 

PARLA IZZY:

Il dolore è imprevedibile.
Arriva quando meno te lo aspetti, si aggrappa dove fa più male e non si scolla di lì neanche a pagarlo.
Si attacca, ti prosciuga, ti consuma, ti impedisce di pensare e ti trasforma nel surrogato di un essere umano.
Troppo dolore ti uccide, al lungo andare.
Spezza la tua volontà, fa di te il suo fantoccio, condiziona il tuo modo di essere, di fare, di pensare.
Ti manipola.
È il più subdolo tra i subdoli, non c’è modo di sfuggirgli: arriva sempre il momento in cui ognuno di noi si ritrova a combattere contro questo nemico che ha mille volti, mille nomi, mille aspetti.
Quello che conta, è il modo in cui se lo affronta, è questo che ci rende uno diverso dall’altro.
Il modo in cui affrontiamo il dolore è quello che ci rende unici.
C’è chi fugge.
Chi lo anestetizza, lo ignora, lo seppellisce in fondo al proprio cuore, nei meandri dell’animo, nella speranza che si esaurisca o si stufi, che torni da dove è venuto.
Ma non c’è modo di sfuggire al dolore, torna sempre a regolare i conti prima della fine.
E più passa il tempo, più il debito è alto.

 

 

Oh, instincts are misleading
You shouldn't think what you're feeling
They don't tell you what
You know you should want.
 

Death cub for cutie, Lightness.

 

 

LOS ANGELES, novembre 1987

Izzy fissava il vuoto, davanti a se.
Era seduto per terra, le mani affondavano nella soffice moquette della lussuosa stanza d’albergo dove si era rintanato per sfuggire al caldo torrido di fine novembre.
Non sapeva se fosse mattina o sera, aveva perso il conto dei giorni molto tempo prima: ancora un po’, e non sapeva nemmeno dov’era.

Accanto a lui, la sua chitarra era abbandonata vicino a un posacenare pieno di sigarette e spinelli, un blocco scribacchiato e una bottiglia di Jack Daniel’s.
Si sentiva insolitamente pesante, come se sul capo gli gravasse un macigno che lo spingeva verso il basso, facendogli ciondolare la testa, ma al tempo stesso era leggero, quasi stesse fluttuando in un mare di soffici nuvole.
I colori erano morbidi, soffusi nella luce dorata di una lampada accesa da qualche parte in quell’isola di notte artificiale che si era creato.

“Janis Joplin..” borbottò, allungando una gamba davanti a se e tenendo l’altra piegata.
Aveva l’impressione di essere dentro una canzone di Janis Joplin, ma non riusciva a ricordare quale: l’aveva ascoltata qualche sera prima a casa di Roxanne, avevano ballato assieme su quelle note malinconiche.
Lei aveva cantato piano, stringendolo forte, cullandolo con la sua voce e quelle note struggenti, al punto che quando la canzone era finita era stato come se gli avessero strappato via il cuore.
È poesia Izzy, aveva detto lei con quel suo sorriso un po’ storto ma estremamente dolce, è la poesia incarnata in un essere umano.
Avevano discusso di poesia, a quel punto, mentre quella voce continuava a cantare piano, abbracciandoli delicatamente.

Si, era come essere dentro quella canzone, era tutto un enorme e gigantesco contrasto.
Gli piacevano i contrasti, erano belli, forti, netti. Erano decisi, non avevano paura di esserlo.
Erano una voce roca su una melodia delicata, erano i suoni ovattati di un incubo terrificante, erano occhi scuri in un volto pallido.
Axl era un contrasto.
Piccolo come un folletto ma con la furia e la rabbia di un orso intrappolato, certe volte faceva quasi paura.
Slash pure: geniale e folle al tempo stesso, ma con la straordinaria capacità di intuire, di osservare e trarre silenziosamente le conclusioni più giuste.
La determinazione legata alla disperazione di un mondo da cui era fuggito.
Da cui tutti loro erano fuggiti, aggrappandosi a qualsiasi cosa per non farsi trascinare in chissà qualche inferno dai loro fantasmi.

Peccato però che l’inferno lo avevano creato poi con le loro stesse mani, gettando la chiave una volta dietro le sbarre.
Chiuse gli occhi, ascoltando il frenetico via vai delle macchine giù in strada, un concerto di clacson e insulti che lo avevano sorpreso, la prima volta, ma che ora quasi gli mancava quando era fuori città.
Si sentiva in pace con il mondo, in sintonia con l’universo: gli era mancata quella sensazione, decisamente.
Quando era con Roxanne al massimo riusciva a dare qualche sniffatina veloce, sapeva che lei detestava vederlo trafficare con aghi e siringhe, forse cercava di convincersi che aveva smesso. Che ci stava provando sul serio, quantomeno.

Izzy non era un bugiardo.
Non lo era mai stato, se non a fin di bene, e comunque –s i disse mentre afferrava il whisky e beveva un sorso - non le aveva mentito del tutto.
Ci aveva provato, a disintossicarsi, ci aveva provato seriamente.

La prima settimana.
Poi era tutto tornato come prima, ma per la prima settimana ci aveva provato seriamente.

Aveva messo via lacci emostatici e compagnia bella, buttandosi anima e corpo su spinelli e alcol per non pensare, per non ricaderci, e per un paio di giorni era andato tutto bene. Era rimasto pulito, complice anche la presenza della ragazza che gli faceva pensare ad altro e quei tre giorni trascorsi fuori città sotto il sole, all’aria aperta.
Erano state giornate fantastiche, solo loro due e il mare, la sabbia e il cielo limpido, senza nuvole.
Parlare, fumare, camminare mano nella mano al tramonto davanti a quel minuscolo paesino di pescatori dai volti rugosi, lontani dalla metropoli, dal gruppo, dal frenetico tram tram quotidiano. Era rientrato a Los Angeles trasformato, con un colorito quasi abbronzato e un sorriso sulle labbra.
Ed era andato tutto bene fino a quando non aveva visto Steven prepararsi una pera.
Mettere l’eroina sul cucchiaio, scioglierla con l’accendino.
Aveva chiuso gli occhi, combattuto: non poteva, non doveva, ne era perfettamente consapevole.
Ma dio, quanto voleva farsi.

Il batterista evidentemente aveva letto il desiderio sul suo viso e aveva sorriso, stordito dalla droga che si era appena iniettato in corpo, e gli aveva offerto la siringa, dopo averla accuratamente ripulita. C
osa vuoi che sia, per una pera
, si era detto stupidamente, tanto ormai ho smesso.

Ci era caduto dentro di nuovo, forse più di prima, spinto proprio dall’assurda convinzione di poter smettere quando voleva.
Buttò giù un altro sorso, mentre gli occhi gli cadevano sul piccolo forellino arrossato che gli segnava l’avambraccio e distolse lo sguardo, assaporando il sapore dolciastro del liquore che gli scaldava la gola e lo stomaco.
Barcollando vistosamente, si alzò in piedi e andò alla finestra socchiusa, posando la fronte contro il vetro.

Ancora non riusciva a ricordare il titolo della canzone che aveva ascoltato con Roxanne, per quanto si sforzasse aveva un buco nero al posto della parola della lo trasportava ad altri pensieri, ad altri folli ragionamenti senza capo né coda.
Sentì la risata sguaiata di Duff attraversare la parete della stanza, subito seguita da quella più roca di Slash e abbandonò ogni proposito di pensare o fare qualcosa di anche solo vagamente somigliante, mentre Axl intonava i primi versi del ritornello di Nightrain.
Un sorriso sbilenco gli si allargò sul viso, mentre ondeggiava verso la porta cercando di seguire un’immaginaria linea dritta davanti a se per raggiungere gli altri ragazzi: una cosa semplice, in teoria. Doveva solo attraversare la stanza, aprire la porta, altri due passi e un’altra porta.
Poi, il delirio.
Era un buon piano, si disse mentre avanzava quasi a tentoni, inciampando nei sui vestiti abbandonati per terra, nelle scarpe spaiate disseminate per la stanza, un ottimo piano! Si corresse aggrappandosi alla maniglia e rischiando di cadere faccia a terra nel corridoio.
Completamente sbilanciato, scoppiò a ridere e quasi rotolò nella camera attigua, ancora più disordinata della sua se possibile.
Quattro ragazzi, Erin e altre tre che non aveva mai visto prima si voltarono a guardarlo, attraverso la fitta cortina di fumo che colorava l’ambiente di un cupo e triste azzurro sporco.
Tabacco e erba si mescolavano in un nauseante odore dolce-amaro che lo stordì, mentre senza smettere di ridere si lasciava cadere su un divano, accanto a Duff.

“Beh, che avete da guardare rottinculi?” chiese annaspando per far arrivare un po’ d’aria ai polmoni.
Non sapeva perché, ma trovava tutta la situazione esilarante. E lo stesso doveva essere anche per gli altri, che proruppero in fragorose risate.

Axl gli si avvicinò, tenendo avvinghiata a se Erin, e gli diede una pacca sulla spalla.
“Mancavi solo tu, Stradlin,” biascicò.
Izzy sentì una zaffata di alcol raggiungergli il viso e si guardò attorno alla ricerca di una bottiglia. Il cantante riprese, dopo una breve pausa, mentre il chitarrista si faceva passare da Steven della vodka.
“Una festa non è una festa senza il nostro Izzy!”

“Troppo gentile” replicò il giovane mentre una delle tre ragazze gli si sedeva sulle gambe.
Capelli biondi, tinti, occhi scuri. Era carina, ma c’era qualcosa nei suoi lineamenti che la faceva sembrare sgraziata.

“E tu chi sei?” domandò lui, sbattendo le palpebre un paio di volte e ritraendosi impercettibilmente quando lei provò a passargli un braccio attorno al collo.
“Jenny” soffiò lei a qualche centimetro dal suo viso. Il suo fiato sapeva di gomma da masticare senza sapore e fumo. “E tu?”
“Izzy.” brontolò insofferente. Si rivolse al resto del gruppo “Chi ha una cicca?”
Jenny gongolò, porgendogli il suo pacchetto.
Camel. Lui storse il naso, disgustato.
Se c’era una cosa che non poteva sopportare era proprio fumare una Camel.
Tuttavia accettò, sforzandosi di non fare troppo smorfie.

“Di un po’, Izzy.” continuò lei, mentre il ragazzo guardava Slash che fissava il suo cilindro nero con aria stralunata “Sei un chitarrista, vero?”
Annuì distrattamente.
“Lo sai che si dice dei chitarristi?” Scosse il capo, mentre l’altro chitarrista apriva la bocca e boccheggiava come un pesce, apparentemente sconvolto.

“Che siano fottutamente bravi a scopare. Sai, tutta la storia della sensibilità alla dita...” la ragazza agitò una mano in aria e tacque, secondo un copione che gli era perfettamente noto: toccava a lui, a quel punto, prendere in mano le danze e risponderle per le rime, flirtarci un po’ e poi farsela, senza troppi problemi.
Erano mesi che la scenetta si ripeteva.
Lei lo sapeva perfettamente, ed era lì per quello.
Erano anche mesi che lui faceva sempre la stessa identica cosa.
Imbarazzato, consciò degli occhi verdi di Axl puntati su di lui come due fari, cercò di farsi venire in mente qualche valido motivo per rifiutarla senza dover raccontare di Roxanne.
Nonostante fosse stordito, non aveva dimenticato il suo proposito di tenerla fuori, di tenerla lontana da loro.
Anche perché, così facendo, avrebbe potuto continuare a tenere il piede in due scarpe. Per poco, indubbiamente, ma sempre meglio di nulla.
Tossicchiò, nell’esatto istante in cui Slash si lanciò su un ignaro Steven intento a chiacchierare con un’altra ragazza.

“Brutto coglione!” ruggì furibondo, spintonandolo per terra “Mi hai rovinato il capello, razza di stronzo!”
Il batterista sgranò i suoi enormi occhi azzurri mentre impattava con la schiena a terra, le mani di Slash saldamente strette sulla sua maglietta.
“Il-- il tuo cilindro?” chiese boccheggiandosi per respirare. L’altro non mollò.
“Si, il mio cilindro, razza di stupido! Lo hai rovinato, tu e le tue fottute mani-impugna-bacchette!”
Il biondino ci mise qualche attimo a capire, gli occhi che vagavano sistematicamente dal viso dell’amico contratto per la rabbia e il cappello abbandonato per terra.
“Ma se ne hai altri sette uguali!” protestò alla fine, rinunciando a capire come avesse potuto rovinarlo.
Il resto del gruppo scoppiò a ridere. Tutti tranne Izzy, che colse la palla al balzo e, mentre il chitarrista strattonava l’altro per la maglietta quasi soffocandolo, si scrollò di dosso la finta bionda, precipitandosi tra i due.

“Ehi, ehi!” biascicò, facendo fatica a mantenere l’equilibrio in quella stanza che aveva preso a vorticare furiosamente. “Datevi una calmata!”
In tutta risposta, il gomito del batterista gli si conficcò nello stomaco e lo fece piegare in due dal dolore con un tempismo perfetto per ricevere sul naso il pugno di Slash, che sarebbe dovuto arrivare al biondino, con gli occhi chiusi e già pronto a ricevere il colpo.
Non si rese conto di altro se non del dolore, che lampeggiò davanti ai suoi occhi furiosamente prima di spegnersi in un confortante e silenzioso buio.


 

“..zy! Izzy!”
Mugolò infastidito, mentre mano poco gentili gli tiravano leggeri schiaffetti sulle guance, e fece per girarsi su un fianco.
Non voleva svegliarsi, stava così bene in quello stato di totale e assoluta incoscenza che avrebbe fatto carte false per poterci rimanere ancora un po’.
Ma la voce e le mani non gli davano tregua: aprì gli occhi.
Sbatté le palpebre un paio di volte, senza riuscire a vedere altro che un macchia pallida, sfuocato, in mezzo a un mare biondo-rosso.
Ci mise qualche secondo a riconoscere Axl e a collegare la sua faccia a una evidente preoccupazione.
E immediatamente dopo, una zaffata che sapeva di vomito gli fece storcere il naso e gli fece contrarre lo stomaco.
Fece per mettersi seduto, ma la mano del cantante lo tenne giù.

“Buono, Stradlin, o va a finire che vomiti l’anima una seconda volta.” gli intimò gentilmente, togliendogli dalla fronte quella che sembrava una pezza bagnata.
Il ragazzo disteso gemette, mentre un’ondata di nausea e mal di testa minacciava di farlo capitolare.

“Ma che è successo?” chiese cercando di avere la meglio sul suo stomaco.
Gli sembrava di essere appena sceso dalle montagne russe. Dopo tredici giri consecutivi a stomaco pieno.

La risata bassa dell’amico gli fece capire che era dall’altra parte della stanza e si stava avvicinando.
“E’ successo che sei piombato in camera mia completamente fatto, merdaccia, hai detto di no a un’adorabile puttanella con cui adesso se la sta spassando Duff e ti sei preso un’esemplare gomitata dello stomaco da Steven, nonché un magistrale pugno di Slash dritto sul naso. Una scena piuttosto comica, in effetti, sono curioso di vedere che bel livido avrai domani.”
“Ah.” si limitò a commentare laconico, cogliendo una sottile vena di sincera preoccupazione nel tono spensierato e scanzonatorio del front-man.
Era fatto così, Axl Rose. Parlava di quello che lo preoccupava o spaventava come se stesse raccontando di un pic-nic al parco in una domenica di sole.

“E non è tutto,” proseguì posandogli nuovamente la pezza umida sulla fronte, “perché sei mezzo svenuto dopo il pugno e ti sei ripreso solo per vomitare” scosse il capo, passandosi una mano tra i capelli rossastri “Izzy, Izzy, quando imparerai che non devi mai mangiare spaghetti di soia prima di farti? In tutti questi anni, pensavo avessi capito che ti fanno rimettere tutto quello che hai dentro!”
Stupidamente, si ritrovò a chiedere come facesse a sapere che aveva mangiato spaghetti si soia: l’occhiata che ricevette, non aveva bisogno di essere accompagnata da parole. Axl sospirò, sedendosi su una sedia e appoggiando i gomiti alle ginocchia.
“Stradlin, cosa dobbiamo fare con te?” gli chiese guardandolo dritto negli occhi.
“Riguardo cosa?” biascicò l’altro, chiudendo gli occhi.
La luce bianca che illuminava la camera gli dava particolarmente fastidio e la sua mente archiviò quel fastidio come causato dalla fine della dose che si era fatto qualche ora ora prima.

“Sei mica frocio, Izzy?” gli chiese a bruciapelo l’altro, con una certa e inquieta paura che sfuggì allo spirito di osservazione del chitarrista, ancora troppo stordito e in balia di altri pensieri.
Tuttavia, la domanda non lo lasciò indifferente: si sollevò di scatto a sedere, con gli occhi fuori dalle orbite e la bocca spalancata.

“E cosa cazzo te lo fa pensare?” domandò a sua volta, dopo aver boccheggiato a vuoto per qualcosa come venti secondi circa, senza trovare la voce per dar forma alle sue parole.
“Beh sai...” il cantante sembrava veramente imbarazzato, come mai lo aveva visto in vita sua “Non c’è verso di farti scopare una ragazza che sia una da qualche mese a questa parte.”
“Ah.” commentò laconico, perdendo espressivita e nascondendosi dietro una maschera di fredda e calcolata indifferenza.
“Stra--- Izzy, non c’è nulla di cui vergognarsi, eh!” proseguì l’altro, fraintendendo la sua espressione “E’ una cosa che possiamo sistemare, cosa credi? Non ti ricordi di quel tizio, quel Johnny vattelapesca, a scuola. Il frocetto. Ti ricordi di come è andata a finire? Gli abbiamo fatto cambiare idea e adesso pare che sia più etero di me, Steven, Slash e Duff messi assieme!”
“Axl, frena.” lo interruppe Izzy, portandosi una mano alla testa per frenare quel ritmico e doloroso pulsare dietro la sua fronte “Non sono gay.” lo guardò dritto negli occhi, ripetendo la frase lentamente, facendo attenzione a scandire bene le parole “Non-sono-gay.”
Il front-man si concesse una pausa e il chitarrista intuì che stava cercando un collegamente tangibile tra le sue parole e i fatti che aveva a portata di mano e memoria.
Lo vide aprire la bocca e sollevare una mano per replicare, bloccandosi a metà del gesto e tornando a rimuginarci sopra.
Lo lasciò fare, chiamando a raccolta tutta la sua poca lucidità per mettere in piedi una spiegazione esauriente ma vaga al tempo stesso, non si sentiva ancora pronto di raccontare di Roxanne, voleva tenerla tutta per se ancora per un po’ di tempo.
“Ma...” Axl finalmente riprese a parlare e lui aprì di nuovo gli occhi, fissandoli in quelli verdi dell’amico. Li vedeva colmi di sospetto e imbarazzo.

“Ma...?”
“Ma allora perché non scopi mai?”
“E cosa ti fa pensare che non scopo?” replicò con semplicità, scrollando le spalle.
“Non vai mai con le ragazze che ti presentiamo.” protestò il ragazzo sulla sedia, rassegnato a quella che per lui era una schiacciante ed evidente verità: il suo amico di sempre, il suo migliore amico, era gay.
“Bill, ma ti è mai passato per la testa che forse ho un motivo – che non deve per forza coincidere con l’essere frocio - per non andare con quelle ragazze?”
Gli occhi verdissimi di Axl lo guardarono senza capire e senza dar segno di fastidio per il modo in cui l’aveva chiamato.
Tra tutte le persone che conosceva e aveva conosciuto, era l’unico che poteva permettersi di farlo. Izzy proseguì.

“Tipo, tanto per nominarne uno, che non mi va di andare a puttane.” ignorò lo sguardo sconvolto dell’amico “O che non mi piacciono fisicamente.” aveva un po’ l’impressione di bestemminare pesantemente davanti al Papa, ma andò avanti “O che non ho voglia di restare inculato con qualche malattia venerea. O che magari ho una ragazza.”
“Non occorre che racconti balle, rimani uno del gruppo anche se sei gay.” mormorò piano il cantante dopo qualche minuto di silenziosa riflessione.
Il chitarrista roteò gli occhi, spazientito.

“Axl, porca di quella puttana che ti ha messo al mondo con un cervello così incredibilmente sottosviluppato che fa quasi paura la tua completa mancanza di logica, lo vuoi capire che non sono gay? Sono quasi tre mesi che mi scopo una ragazza e ci scopo da dio e ci scopo pure parecchio, se proprio vuoi saperlo, e il fatto che non vado più a puttane vuol dire che non ne ho bisogno!”
Quasi urlò quelle parole, che sembrarono investire Axl con la stessa forza di uno tsunami che si abbatte sulla costa, devastando tutto quello che incontra.
Seguì qualche lento minuto di silenzio, mentre la tensione di smorzava impercettibilmente e Izzy ricadeva sulla schiena, vinto dalla nausea e dal mal di testa.

“...hai una ragazza, quindi.” Ripeté il cantante, con voce sommessa.
“Si.”
“Quindi non sei gay.”
“Si.”
“Da tre mesi, dici.”
“Si.” chiuse gli occhi, invocando silenziosamente la fine di quell’interrogatorio privo di senso.
“Ah.” concluse Axl “Va bene. Meglio!” abbozzò un sorriso pimpante, alzandosi in piedi e battendo le mani con aria gioiosa “Questa è buona notizia, si.”
Non si prese la briga di rispondere, mentre l’altro ragazzo si muoveva nella stanza apparentemente inquieto, per poi bloccarsi davanti alla porta.
“Che ne dici di tornare a far festa di là?” gli chiese con un sorriso che Izzy percepiva luminoso nonostante gli occhi chiusi.
Suo malgrado, il chitarrista era sollevato: il solo fatto che gli avesse chiesto se voleva tornare di la era la prova lampante che non ricordava più un tubo della conversazione appena conclusa, né tantomeno che come fossero finiti lì. Poco male, si dosse, un problema di meno.

“Dai, Jeff! Dai dai dai!” lo incitò, con lo stesso entusiasmo di un bambino che vuole provare un giocattolo nuovo.
“Non mi sembra di essere nelle condizioni per reggere altra roba, Axl.” osservò per nulla sorpreso dalla mancanza di tatto dell’amico che, come sempre, una volta esaurita la preoccupazione dimostrava la stessa sensibilità di un bradipo ai problemi altrui.
“Ah già” commentò brevemente, fermo sulla soglia della camera “Beh, ci vediamo domani allora Izzy!” lo salutò allegramente, scivolando nel corridoio.
Il chitarrista hiuse gli occhi, mentre il tonfo secco della porta che veniva sbattuta gli perforava la testa dolorosamente. Ma non si sorprese.
Del resto, era di Axl Rose che si stava parlando.


 

Ain't no use in being faithful,
I see you lookin' at the sky.
I know what's in it make you happy there,
But it only make you cry.
 

Janis Joplin, As good you’ve been to this world.

 

Sorse un’alba dai colori metallici, cosa piuttosto insolita per la stagione e il cielo era limpido, di un grigio freddo e impenetrabile nonostante l’aria calda, carica di un’umidità.
Izzy aprì gli occhi mentre il sole iniziava a disegnare la lenta parabola che lo avrebbe portato all’apice, al centro perfetto della volta celeste, sovrano di ogni cosa al di sotto di lui in un mondo privo di ombre.

La testa continuava a pulsargli violentemente, accompagnata da un forte dolore al volto.
Si toccò delicatamente il naso, sentendolo gonfio sotto i polpastrelli che scivolarono leggeri lungo tutta la sua lunghezza, constatando che, per fortuna, per lo meno non era rotto.
Si mise seduto sul letto, guardandosi attorno nella fioca luce dell’aurora: era nella stanza, su quello non c’erano dubbi.
Ma era sempre rimasto lì la sera prima?
Non aveva modo di scoprirlo, i suoi ricordi erano pressoché inesistenti.
Tuttavia, a giudicare dal dolore al naso, qualcuno doveva essere andato a fargli visita e non era stato un incontro amichevole.

Non ebbe tempo di pensare, però, perché un malessere che aveva già sperimentato più volte lo avvolse nel suo abbraccio di sudore gelido.
Era come se mille aghi lo stessero punzecchiando contemporaneamente, tormentando i suoi sensi particolarmente sensibili.
Ogni singolo suono proveniente dalla strada aveva moltiplicato la sua intensità, i colori si erano fatti tutti molto più accesi e il rosso prevaleva su tutti, dandogli la sensazione di avere una coltre di sangue davanti agli occhi, aveva caldo nonostante il sole fosse poco più di un mezzo cerchio in lontananza, sopra i tetti, e si sentiva la gola secca. Non aveva più una sola goccia di saliva in bocca, le mani era in preda a un tremore che non riusciva a controllare.
Sbatté le palpebre più volte, cercando di mettere a fuoco la finestra aperta.

Per un attimo, un attimo soltanto, fu preso dal panico: l’ondata di paura lo attraversò da capo a piedi, raddoppianto il suo malessere e offuscandogli del tutto la mente, dove un unico pensiero lampeggiava furiosamente.
Droga.
Aveva un disperato bisogno di iniettarsi in corpo una dose, se voleva far smattere quella tortura.
Si impose di alzarsi in piedi, mentre all’innaturale caldo si sostituivano brividi freddi che gli gelarono il sudore addosso mozzandogli il fiato, mentre la sua mente mandava messaggi contraddittori al corpo.
Si aggrappò alla cassettiera dove aveva sistemato alla meno peggio le sue cose e aprì uno dopo l’altro i quattro cassetti, gettando camice e dio solo sapeva che altro alla rinfusa nella stanza, fermandosi solo quando fu certo di avere tra le mani un astuccio di cuio accuratamente chiuso.
Si lasciò cadere per terra, esattamente dov’era, e aprì la cerniera con le dita che tremavano vistosamente.
Tra le gambe gli caddero una siringa e un cucchiaio, assieme a diversi quadratini di carta stagnola. Ne afferrò uno a caso, aprendolo e versandone il contenuto – una minuscola quantità di polverina bianca sottilissim a- sul cucchiaio, sotto il quale piazzò la fiamma del suo accendino.
E mentre la droga si scioglieva, strinse il laccio emostatico attorno al suo avambraccio con tanta forza che la pelle sbiancò e un reticolo di vene azzurrine si disegnò in rilievo fino alle sue dita.
Inspirò a fondo.
Sapeva cosa fare: doveva solo infilare l’ago in una di quelle vene e premere lo stantuffo, fino in fondo.
Ma lo voleva davvero? Voleva davvero restare in balia di quella sostanza che alterava la realtà, che gli impediva di pensare e ragionare lucidamente?
Voleva davvero continuare quella farsa, continuare a mentire a Roxanne e a se stesso, illudendosi di poter controllare il problema? Lo voleva davvero?

Rimase immobile per una manciata di secondi, la siringa sospesa sopra il suo avambraccio.
Sentiva il cuore battere furiosamente nelle sue orecchie e nel suo petto, il sangue che fluiva veloce per tutto il suo corpo e le scariche di dolore che gli offuscavano la vista.
Poi, si decise.

La droga entrò immediatamente in circolo e tornò a galleggiare in quel nulla artificiale che continuava a ricordargli quella canzone di Janis Joplin.
Ma per quanto si sforzasse, il titolo continuava a sfuggirgli dalle dita, come sabbia nel vento.

E mentre il dolore si affievoliva e una patina di incoscenza gli calava davanti agli occhi attenuando l’intensità dei colori, ricordò come Janis Joplin fosse morta e si chiese se non fosse quello, il suo destino, se non avesse trovato il modo di cambiare le cose.
Una domanda che non smise di tormentarlo per molto tempo.

 

 

PARLA IZZY:

Per quanto mi riguarda, l’unico modo che avevo per affrontare il dolore era annullarlo.
Cancellarlo, renderlo innocuo.
Si, in un certo senso imbrogliavo, è vero: truffavo, giocavo il suo stesso gioco per allontanarlo in fretta.
Del resto, in Vietnam stordivano i soldati prima di amputare loro una gamba.
Il dolore cancella il dolore.
Se aggiungi dolore al dolore, questo si esaurisce per inerzia.
Non è fantasia, è fisica: un corpo si dice in equilibrio solo quando la risultanto delle forze che agiscono su di esso è uguale a zero.
Aggiungi dolore al dolore e troverai equilibrio.
Ma l’ho già detto, più il tempo passa e più il prezzo da pagare è alto: trovare altrettanta sofferenza non è sempre facile. Nel mio caso, si rivelò pressoché impossibile.
La via che presi, fu l’ultima che avrei dovuto prendere temo.
Ero un codardo, Roxanne, questa è la verità.
Scappai dal dolore, è vero.
Ma lungo la strada, persi anche te.
E in nome di cosa, mi chiedo adesso: l’equilibrio che raggiunsi è andato perduto quando mi resi conto che per ottenerlo avevo commesso un clamoroso errore.
Il dolore per la tua perdita si dimostrò infinitamente superiore a quello che volevo sciogliere.
Fui un perfetto idiota.

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Capitolo 6
*** The ground beneath their feet [ minutes to midnight ] ***


HAND IN GLOVE
#6 THE GROUND BENEATH THEIR FEET

~ minutes to midnight


 

PARLA ROXANNE:

Quando si ha appena venticinque anni, è difficile capire cosa sia effettivamente giusto e sbagliato.
Quando poi, a venticinque anni, si è talmente famosi da non poter nemmeno uscire da soli a comprare un pacchetto di sigarette, diventa ancora più difficile capire.
Con questo non voglio dire che eri giustificato,sia chiaro.
Dico solo che posso capire i perché che si nascondevano dietro tue determinate scelte.
All’epoca invece mi rifiutai di cercare di capire, seguii il mio istinto e basta.
Avevo un po’ la sensazione di essere trascinata in un buco nero, senza poter far nulla, quando in realtà mi sarebbe bastato fare un piccolo passo e allontanarmi da quell’orbita che mi tirava verso il basso.
Immagino che sarebbe bastato veramente poco per cambiare le cose, per superare quegli ostacoli che mi sembravano intramontabili.
Forse fu per questo che non mi arresi, che mi illusi, che chiusi gli occhi e finsi di non vedere tante cose.
Forse fu per questo che ti aspettai per mesi, prima di crollare davanti all’evidenza.
Ma l’ho già detto: a venticinque anni è difficile vedere le cose per quello che realmente sono.
Se è successo quello che è successo, la colpa fu mia tanto quanto tua.
Siamo stati due stupidi.
Questo è un dato di fatto che non si può scavalcare o nascondere in un angolo.

 

 

The fairy tale life wasn't for me
I don't wanna be like Cinderella
Sitting in a dark old dusty cellar
Waiting for somebody.
 

Play, Cinderella.


 

Los Angeles, gennaio 1988

“Allora? Dove sarebbe questo fantomatico paradiso?” chiese Axl tra una boccata di fumo e l’altra a un concentratissimo Izzy, che cercava di orientarsi in un dedalo di strade e vicoli mai percorsi prima.
Dietro di loro, le risate di Slash, Duff e Steven facevano da coro al monologo del bel front-man, insolitamente imbronciato.

Erano usciti qualche ora prima, praticamente costretti da Izzy che aveva detto loro di aver scoperto un posto dove facevano della musica straordinaria e avevano dell’ottima birra per pochi dollari.
Musica e birra, le due paroline magiche che avevano messo in moto tutti e li avevano portati a girare sotto il caldo crepuscolo di Los Angeles per un paio d’ore senza cavarne un ragno dal buco.

Contrariato, il chitarrista si fermò, guardandosi attorno con una smorfia sul viso.
Axl aveva più un buon motivo per essere arrabbiato, pensò tentando di capire dove andare, primo fra tutti il caldo.
Si passò una mano sulla fronte, malicendosi silenziosamente per aver avuto la brillante idea di mettere quel cappello che piaceva tanto a Roxanne.
Si morse le labbra, facendo appello a tutta la sua memoria per richiamare alla mente le indicazioni della ragazza.

Sette isolati da casa mia aveva detto lei una sera.
E loro erano a sette isolati da quel buco che si ostinava a chiamare casa.

Poi, quando vedi sull’angolo una lavanderia, giri la prima a destra e subito dopo la seconda a sinistra.
E fin li c’era arrivato.

Dopodiché, ti troverai davanti a un enorme casermone nero, mezzo bruciacchiato e il casermone era davanti a loro, in tutto il suo macabro splendore.
Qualche metro alla sua destra, Slash stava proponendo di andare in esplorazione del condominio fatiscente e vedere se era possibile organizzarci una festa “di quelle giuste, cazzo!”. Sospirò.

Poco lontano dal casermone, c’è un sottopassaggio abbandonato.
Ecco l’inghippo. Non c’era nessun sottopassaggio. E comunque, non aveva idea di che forma avesse un sottopassaggio in disuso.
Si morse la lingua, inclinando il capo di lato.
“Allora?” insistette Axl, agitandogli la sigaretta davanti al viso.
“Axl, invece di fare domande del cazzo – perché mi pare evidente che non è qui il posto che stiamo cercando - perché non ti rendi utile e cerchi un fottutissimo sottopassaggio abbandonato per favore?” sbraitò irritato, bloccando Duff nel bel mezzo di una battuta.
Tre teste più o meno ricciute, delle quali due biondissime, si girarono verso di lui simultaneamente.

Il cantante si passò una mano tra i capelli rossi, e si guardò attorno, accigliato.
“Certo che sei insopportabile quando sei nervoso, Isbell.” commentò semplicemente.
“Ma si può sapere perché non andiamo in un pub qualunque?” domandò Slash, una sigaretta abbandonata tra le labbra e pericolosamente vicina alla sua criniera di riccioli corvini.
“Già, perché?” gli fece eco Duff, appoggiandosi alla spalla di Steven che si scostò, protestando per il caldo.
“Perché,” ripetè pazientemente Izzy, setacciando la strada con la stessa attenzione di un segugio a caccia, “ne vale la pena. E poi, ci lavora una persona che voglio presentarvi.” buttò lì vago, mentre con sollievo scorgeva in lontananza quello che sembrava essere il famoso sottopassaggio abbandonato.
Aveva lo stesso aspetto di una stazione della metro di New York, solo priva del classico cartello identificativo sopra le scale.

“Eccolo lì!” esclamò Steven riacquistando la sua solita vivacità all’idea di una bella pinta di birra.
Erano passate quasi due ore da quando aveva buttato giù l’ultima goccia di alcol, un vero record.
Si avviarono, tutti e cinque assieme, nella strada deserta e, quando raggiunsero l’imbocco delle scale, ostruito da una pesante transenna arruginita, di trovarono davanti ad un minuscolo vicolo, dal cui fondo provenivano, indistinte, le note di una chitarra.
Chiunque stesse suonando, constatò Izzy con una smorfia, non aveva fatto un gran lavoro nell’accordare lo strumento.
E a giudicare dall’espressione sconvolta e schifata di Slash, stava pensando anche lui la stessa identica cosa.
Si addentrarono nella stradina, talmente stretta che se avessero aperto le braccia sarebbero stati in grado di toccare le pareti di mattoni rossi dei condomini ai lati, fino a raggiungere l’ingresso di un minuscolo locale.

Underpass, recitava un’insegna scolorita sopra una porta socchiusa.
“Originale,” brontolò il bassista, “spero solo abbiano davvero della buona birra.”
Prima di varcare la soglia, Izzy si chiese se stesse facendo la cosa giusta, presentando il resto del gruppo a Roxanne.
La cosa poteva rivelarsi più rischioso del previsto, conoscendo i suoi amici.
Gettò un’occhiata ad Axl, che chiacchierava con Steven, e a Slash e Duff, che fumavano una sigaretta standosene appoggiati ad una parete.
Sembravano assolutamente innocui, ma sapeva quanto potessere essere indisponenti se proprio si impegnavano.
E con le ultime ragazze che aveva presentato loro –p ochissime se messe a confronto con quelle che entravano e uscivano dalla camera di Duff, ad esempio - si erano impegnati parecchio.
Troppo noiosa, troppo snob, troppo stupida, troppo perfettina.
I motivi che tiravano fuori per criticare erano uno più assurdo dell’altro.
Il peggio era stato quando Axl ne aveva liquidata una dicendo che era troppo intelligente. Poteva sempre cambiare idea, se proprio voleva.
Dire che non era quello il posto, inventare una balla qualunque e andare via, lasciare che Roxanne restasse sempre e solo sua.
Ma non poteva.
Non con la mezza idea che gli ronzava in testa e la nuova tournè in arrivo.
No, non poteva evitare quell’incrontro, doveva trovare la forza di andare avanti. Inspirò a fondo, sentendo l’impellente bisogno di farsi di qualsiasi cosa pur di allentare la tensione. Non che non si fidasse di lei, sapeva che i ragazzi l’avrebbero adorata e lei avrebbe adorato loro.
Era troppo speciale perché non se ne rendessero conto anche loro.

“Beh?” fece Slash, posandogli una mano sulla spalla e interrompendo il flusso dei suoi pensieri “Che succede? Attacco di panico? Sembra quasi che tu debba chiedere a un padre la mano della figlia!”
Izzy si voltò, sorpreso: l’altro chitarrista gli regalò un sorriso sbilenco, come a fargli intuire che non c’era nulla da preoccuparsi.
Sorpreso, studiò il volto dell’amico per qualche secondo, chiedendosi quanto realmente sapesse, le labbra strette in una linea nervosa che si sciolse quando l’altro scoppiò in una vivace risata.

“Vai tranquillo, Stradlin.” gli disse, posandogli una mano sulla spalla e sorpassandolo, per aprire la porta e scivolare nel locale, subito seguito dagli altri “Non c’è nulla di cui tu debba preoccuparti! È solo un pub, in fondo, e per quanto certi tuoi gusti musicali siano discutibili, la birra attenua le critiche.”
Calcandosi il cappello in testa, il ragazzo si fece coraggio e, in coda al gruppetto, varcò la soglia, ritrovandosi quasi a scongiurare un dio in cui non credeva perché tutto andasse per il meglio, e rimase senza fiato quando l’odore di fumo lo colpì in faccia con la stessa intensità di uno schiaffo: l’aria era talmente pregna dell’aroma amaro e soffocante del tabacco che una lieve vertigine lo colse, strappandogli tutto l’ossigeno che gli era rimasto nel petto per sostituirlo con catrame e nicotina.
Una cameriera con i capelli rossissimi e il viso spruzzato di lentiggini li condusse fino ad un tavolo che dava su un piccolo palco, occupato per lo più da una batteria e una lunga serie di amplificatori, senza dar segno di averli riconosciuti, e consegnò loro cinque menù rilegati in pelle scura.
“Posso portarvi qualcosa da bere, intanto?” chiese la ragazza con la fredda cortesia di chi è abituato a fare quella domanda centinaia di volte al giorno e non si preoccupa più di essere veramente gentile.
“Birra!” esordì pimpante Duff “Per tutti.”
Lei annuì, sorridendo, e sparì dietro il bancone, avvolto da una cupa penombra.
Seguendola con lo sguardo, Izzy la sentì scambiare qualche parola con un tizio basso, tarchiato, che asciugava energicamente dei bicchieri appena lavati.
Aveva un drago tatuato sul braccio destro che si arrotolava in pigre spire fino alla sua spalla.
Il tipo ricambiò il suo sguardo, accompagnandolo con un movimento brusco del capo che poteva essere tanto di saluto quanto intimidatorio.
Tornò a seguire le chiacchiere dei ragazzi con lui, infilandosi nella discussione.

“Secondo me cambia poco niente tra la versione acustica e quella normale.” commentò con noncuranza, accendendosi una sigaretta con l’accendino che Steven aveva abbandonato sul tavolo di mogano, graffiato dal tempo e dalla distrazione di chissà quanti clienti.
“Izzy, come sei arido.” replicò gelido Axl “Non hai un briciolo di poesia dentro di te.”
“Dipende da cosa intendi tu per poesia.” rispose serafico il chitarrista, con un sorriso innocente.
Prima che il cantante potesse replicare, arrivò la cameriera dai capelli rossi con un vassoio carico di birra chiara.

“Ecco qua.” esordì allegramente, posando le cinque pinte davanti a ciasciuno dei ragazzi.
“Grazie, dolcezza.” la ringraziò Slash con un mezzo ghigno che la fece arrossire.
“P-posso fare altro per voi?” proseguì lei, vagamente imbarazzata.
“Il tuo nome e il tuo numero di telefono, tesoro, e poi sono a posto.” prosegue il ragazzo, provocando una serie di risate più o meno nascoste agli altri musicisti.
Ci fu un attimo di silenzio, mentre la ragazza sembrava prendere veramente in considerazione l’idea di dirgli quello che voleva, interrotto da un’altra voce che fece fare una capriola al cuore di Izzy.

“Charlie!” strillò Roxanne, una nota irritata a ravvivare tra le parole “Perché non muovi il culo e vieni a darmi una mano?”
La rossa parve risvegliarsi e, con un sorrisetto appena abbozzato, si allontanò di tutta furia.
“E bravo Slash! Ma che ci fai tu alle ragazze per farle scappare così!” sghignazzò il bassista, provocando un eccesso di risate - che ben prestò si trasformò in un vero e proprio ululato - a Steven, che si accasciò sul tavolo con le lacrime agli occhi, presto seguito dallo stesso Duff.
Gli altre tre guardarono i due biondini ridere, senza batter ciglio: Axl vagamente perplesso, Slash offesissimo e Izzy immerso nei suoi pensieri.
Fu il comparire alle spalle del palco di Roxanne, con un amplificatore sotto un braccio e una tastiera sotto l’altro, il viso contratto in una smorfa e un’imprecazione prigioniera tra le labbra a farlo sobbalzare.

“Charlie, vacca ladra, datti una mossa!” strillò di nuovo, mentre una ciocca di capelli le ondeggiava pericolosamente davanti agli occhi e la rossa le correva incontro, saltando agilmente oltre i cavi disseminati sul palco.
Entrambe indossavano jeans stretti e scuri, una maglietta bianca a maniche corte e portavano un grembiule nero legato in vita.

“Scusa, Roxy,” la sentirono dire mentre le sfilava la tastiera di mano e la posizionava su un piedistallo, “ma un tipo identico a Slash ci stava provando con me.”
La mora sistemò l’amplificatore, ridendo sarcastica.
“Oh, si, come no. Figurarsi.” commentò gelida, con un cavo tra i denti, china su un groviglio di fili che andavano sistemati.
“Ma Roxy, non è una balla!” insistette Charlie “Guarda tu, è identico!”
Izzy trattenne il respiro.
Era il momento della verità: adesso lei li avrebbe visti, lo avrebbe riconosciuto e sarebbe andata da loro.
Li avrebbe conosciuti e allora avrebbe saputo cosa sarebbe stato di loro. La mano del destino avrebbe mostrato le sue carte, rivelando se sarebbero stato buone o cattive.

Ma non successe nulla di tutto questo: Roxanne liquidò la collega con un gesto della mano e continuò a sistemare varie attrezzature, sbraitando riguardo un tale Joe che, a sentirla, aveva incasinato tutto.
“Respira, Stradlin, sei cianotico.” la voce di Duff lo fece trasalire e gli permise di riempire i polmoni di aria, impedendogli di morire asfissiato a soli venticinque anni. Si voltò verso gli altri quattro ragazzi, che lo guardavano trattenendo a stento le risate.
“Beh?” li squadrò con un’occhiataccia, buttando giù un sorso di birra con la massima noncuranza, nonostante si sentisse bruciare il viso.
“Nulla, nulla.” lo rassicurò Axl, con una serie di leggere pacche in testa che lo fecero arrossire ancora di più, se possibile.
Bloccò sul nascere un ennesima risata sguaiata di Steven.

“Allora?” esclamò, stridulo come mai in vita sua “Che hai da ridere cazzone?”
Il batterista simulò un colpo di tosse, distogliendo lo sguardo, e si accese un’altra sigaretta.
Izzy si mise a fissare il fondo della sua pinta per un quarto vuota, rimuginando su quanto fosse stata una pessima idea portarli tutti lì, quando all’improvviso sentì una mano fredda e sottile posarsi sul suo collo, con fare possessivo.
Scattò su come se lo avesse marchiato, ritrovandosi a guardare gli occhi divertiti di Roxanne.

“Fai talmente tanto casino,” disse piano la ragazza, con un sorriso che andava via via assumendo sfumature sempre più ambigue, “che dovrò sbatterti fuori se continui così, sai?”
“E tu vieni con me?” ribattè, rilassandosi impercettibilmente.
“Quando stacco, non prima, perché io devo lavorare davvero per poter vivere.” Roxanne gli fece una linguaccia, prima di rivolgersi al resto del gruppo con un sorriso cordiale “Allora, volete ordinare adesso? È un po’ presto per l’inizio della serata, in genere non serviamo cene così presto, ma se preferite mangiare adesso non c’è problema.”
“Un hamburger.” esordì Slash, l’unico dei quattro che non aveva seguito la scenetta con gli occhi fuori dalle orbite e aveva continuato a sfogliare il menù con aria distratta “Che sia ben cotto. E un piatto di patatine.” proseguì disinvolto “E un’altra birra, già che ci siamo.”
“Hamburger ben cotto, patatine e un’altra birra.” elencò diligentemente la ragazza “Grande, immagino.” aggiunse poi, con una piccola smorfia.
“Grande che?” s’intromise Axl, che aveva seguito lo scambio di battute con un’orecchia sola, inseguendo un inesistente pensiero che si era perso tra un sorso di birra e l’altro.
“La birra.” risposero all’uninsono Izzy e Roxanne. Si guardarono di sottecchi, un mezzo sorriso sul viso, prima che la ragazza riprendesse.
“La birra. Allora, grande?”
“Mancasse altro, zucchero.” sorrise sornione il chitarrista, avvicinando pericolosamente la sigaretta che aveva in bocca ai capelli.
“Perfetto” la cameriera indugiò per qualche istante su di lui, prima di passare agli altri “Voi? Digiuno stretto?”
“Uno... no, due hot dog per me.” intervenne Duff, mentre Steven si picchiettava le labbra incerto e poi ordinava lo stesso.
Gli occhi scuri di Roxanne sfilarono su Axl, indagatori. Il cantante sostenne sfrontatamente il suo sguardo, facendola sogghignare.

“Io nulla. Solo un’altra birra grande.” disse alla fine, sollevando il mento con fare altezzoso. La ragazza sorrise.
“D’accordo, grazie ragazzi” si allungò tra Slash e Izzy per recuperare i menù, scoprendo una sottile porzione di pelle morbida sulla schiena che catturò immediatamente i due chitarristi.
Due piccole fossette, appena accennate, erano tagliate a metà dai jeans.

“E a lui non chiedi cosa vuole?” domandò alla fine Axl, mentre lei già si avviava verso il bancone.
Izzy, chiamato in causa, chiuse gli occhi, avvertendo nitida la sensazione che i giochi stavano per aprirsi, e si affidò alla ragazza, che si fermò e volse solo il capo in direzione del tavolo, scrollando i larghi riccioli castani allegramente.

“So già cosa vuole.” rispose semplicemente, mentre l’eco dei suoi passi si faceva più leggero man mano che si allontanava.
Quando tornò a guardare il tavolo, tre paia di occhi erano puntati su di lui, con un’unica domanda a cui rispondere.

 

Repeating back flashes
Remembering the name
Approaching visions of things
 

Stratovarius, The Kiss of Judas.

 

La prima cosa che pensò Slash, quando il vecchiò salì sul palco e prese in mano la chitarra, fu che avrebbe preferito morire piuttosto che ascoltare un supplizio del genere.
Lo strumento era buono, era una Gibson vecchia scuola, ma andava decisamente accordato, e alla svelta.
Il vecchio invece strimpellava tutto felice i suoi accordi stonati, come se fossero perfetti, in una mancata cover di una canzone di Elvis, esibendo un sorriso senza denti.

Il locale si andava riempiendo, frotte di ragazzi si ammassavano attorno al bancone e ai tavoli, tutti con una sigaretta tra le labbra e qualcosa da dire, al tavolo erano rimasti solo lui e Duff, intento a chiacchierare con la cameriera dai capelli rossi che era venuta a portar via i loro piatto vuoti, sostituendoli con un altro giro di birra, scura questa volta, mentre il resto del gruppo era fuori a respirare un po’ d’aria fresca.
Su quanto fosse fresca, aveva qualche dubbio, ma doveva ammettere che la stanza era troppo satura di fumo, perfino per uno come lui che senza nicotina non poteva vivere.

Strinse i denti, ad un ennesima stecca del vecchio, e battè le mani sul tavolo con decisione: era troppo.
Poteva sopportare una brutta canzone, ma non una chitarra scordata. Si alzò in piedi e fece per dirigersi verso il palco, quando una figurina veloce gli tagliò la strada e lo precedette, strappando di mano lo strumento all’anziano, che protestò animatamente.

“Roxy, ma ti pare il modo?” brontolò offeso, incrociando le braccia al petto mentre la ragazza metteva la chitarra a tracolla pizzicando delicatamente la corde.
“Joe stai buono cinque minuti che accordo questo affare.” replicò lei, il viso nascosto da una cascata di capelli scuri.
“Ma se è perfetto così!”
Slash sbiancò, nel sentire quell’affermazione, e si trattenne dall’uccidere seduta stante l’uomo.
C’erano cose che non poteva proprio sentire. Roxanne rise, una risata bassa e vibrante come le note che strappava alla chitarra, tirandone e allentandone le corde, battendo di tanto in tanto un diapason su un amplificatore e posandolo vicino all’orecchia.
Il ragazzo incrociò le braccia al petto, posandosi contro una colonna di casse, quando Joe si accorse di lui.

“Ragazzo, dillo anche tu che era perfetta così! Dillo anche tu che le ragazze meno hanno a che fare con chitarre e affini, meglio è!”
“Joe!” protestò indignata la ragazza, sollevando il capo di scatto e fulminandolo con un’occhiataccia che fece sogghignare il chitarrista.
La cosa non sfuggì a Roxanne, che roteò gli occhi esasperata e sospirò, esattamente come faceva Izzy, e restituì lo strumento.

“Ecco qua, come nuova.” guardò la chitarra con un moto d’affetto, mentre passava dalle sue mani sottili a quelle rugose del vecchio “Trattamela bene, Joe.”
“Ci puoi contare, bambola!” le strizzò l’occhio, riprendendo a suonare dal punto in cui era stato interrotto.
La ragazza sorrise, riavviando una ciocca dietro le orecchie, e si avvicinò a Slash, fermandosi davanti a lui.

“Ti serve qualcosa?” chiese più per scrupolo che per altro.
Lui scosse i riccioli neri, gli occhi illuminati da uno scintillio divertito.
“Sai anche suonare, oltre accordare?” le chiese, ignorando completamente la sua domanda. Lei si strinse nelle spalle.
“Mi arrangio.” sorrise “Nulla di eccezionale, ma so cavarmela.”
“Pure chitarrista.” commentò con una risata vibrante il ragazzo, strappandole un sorriso.
“Così sembrerebbe.” la vide scavalcarlo con gli occhi per un istante e attraversare la sala con un’occhiata.
“Se cerchi Izzy, è fuori a fumare qualche sigaretta.”
Fu lei a ridere, questa volta.
“Io direi piuttosto che sta cercando di sopravvivere a un terzo grado!” gli occhi color cioccolata brillavano della consapevolezza di essere lei la causa dell’interrogatorio cui era sottoposto il suo ragazzo.
“Si, in effetti è molto più probabile.” Slash la squadrò per qualche attimo, mentre lei gli tendeva la mano destra e si presentava.
“Io sono Roxanne, comunque, piacere di conoscerti”
“Slash.” le strinse la mano, sorprendendosi della decisione con cui lei ricambiava la stretta.
“Slash.” ripetè con un mezzo sorriso che ricordava vagamente l’espressione sorniona di un gatto soddisfatto “E posso chiederti, Slash, come mai non sei anche tu fuori a torchiare il mio ragazzo?”
La risposta si fece attendere, mentre il ragazzo faceva scattare l’accendino e si accendeva una sigaretta, assaporando un paio di tiri in silenzio.
L’idea di offrire, sembrava non sfiorarlo nemmeno per sbaglio.

“Beh vedi, Roxanne, se devo essere sincero, non me ne frega un cazzo di stare lì fuori a torchiare il tuo ragazzo.” si strinse nelle spalle, ignorando l’occhiata inquisitoria di lei “Perché non mi importa sapere di come vi siete conosciuti, da quanto state insieme, se scopate e quanto scopate.” Sogghignò, vedendola arrossire suo malgrado e, approfittando del suo silenzio, continuò imperturbato, dopo una lunga boccata di fumo “E poi, so già tutto.”
Lei sgranò gli occhi impercettibilmente, ritraendosi con il busto quel tanto che bastava per far si che lui se ne accorgesse. .
“Dubito fortemente che Izzy te ne abbia parlato apertamente.” commentò Roxanne, cercando di capire se stesse bluffando o se dicesse la verità.
Izzy le aveva raccontato più volte e in più occasioni dello straordinario spirito di osservazione del chitarrista, quasi incredibile se messo in relazione con l’assoluta mancanza di tatto e sensibilità, ma non ne era del tutto convinta.

“Infatti, non ci ha mai detto di te fino a questa sera.” ribatté candidamente il chitarrista, incurante dei riccioli che gli ricadevano davanti al viso, danzando vicini alla sigaretta accesa.
Roxanne non seppe trattenersi e allungò una mano, scostandoli quel tanto che bastava per guardarli negli occhi senza doverli cercare attraverso quella folle cortina nera. Il giovane rimase in silenzio per qualche istante, come impietrito, arretrando a sua volta.
Lei rise, sommessamente.

“E allora come fai a saperlo?” indagò sogghignando “Nella tua chitarra nascondi una sfera attraverso sui vedi il futuro?”
“No, non è necessario.” fu lui a sogghignare, questa volta, alla faccia sorpresa della cameriera che non si preoccupava di nascondere lo stupore “Basta guardarlo per capire che ha qualcosa a cui tiene più della musica.”
E della droga, aggiunse silenziosamente, senza sentire il bisogno di andare a dirlo a quella ragazza dagli occhi grandi e pieni di luce.
Tirò un’ultima boccata e automaticamente lei agguantò un posacenere abbandonato vicino alla tastiera, alla sua destra.
Spenta la sigaretta, se ne accese subito un’altra.

“Si, insomma...” proseguì agitando una mano in aria “E’ felice. Certo, rimane il solito disadattato del cazzo che passa le ore in un angolo, chitarra tra le braccia e penna in bocca, in questo non è cambiato di una virgola.” la vide ascoltare in silenzio, a tradire il suo stato d’animo solo uno scintillio remoto negli occhi “Però è sereno. E alla fine non conta il perché, il come, il quanto, conta che lo sia e basta.” concluse bruscamente.
Per un attimo, un attimo soltanto, Roxanne credette di vederlo arrossire mentre nuvoloni neri di indifferenza si affrettavano ad oscurare quello squarcio azzurro di sensibilità e gentilezza.

“Aveva ragione su di te.” commentò dolcemente, socchiudendo gli occhi e aprendo la bocca in un sorriso “C’è molto più di quello che mostri.”
“Stronzate, sono quello che sono e basta.” brontolò lui, nuovamente scontroso.
La parentesi di umanità si era chiusa, il dialogo era arrivato alla sua ultima battuta.
La cameriera scrollò le spalle, lasciando cadere l’argomento e riavviò i capelli con un gesto stanco.

“E’ stato bello conoscerti, Slash.” disse con un mezzo sorriso, sistemandosi il grembiule e agguantando un blocchetto su cui aveva incastrato una penna “Ma il dovere mi chiama! Bella la vita del musicista, che fa solo quello che ama fare!” sospirò teatrale, sorpassando il chitarrista che rise, mentre veniva inghiottita dalla folla.
E mentre con un sorriso prendeva le ordinazioni di un gruppetto di amici, Izzy rientrò nel locale, chiacchierando con Axl e Steven.
Il trio si separò quando il batterista e il cantante tornarono a sedersi al loro tavolo, vicino a un più solitario che mai Duff e il chitarrista salì sul palco vicino a Slash.

“Beh?” gli chiese accendendosi una sigaretta “Che fai qui? Rifletti sull’immensità dell’universo?”
“Mh.” una smorfia “Veramente no. Pensavo ad altro.”
“A cosa?”
“A quella pazza che ha deciso di stare con te.” un sorriso sghembo gli illuminò gli occhi, mentre Izzy si voltava verso di lui.
“C’è da stabilire chi sia più pazzo tra i due,” si difese debolmente il giovane, appoggiandosi contro una pila di amplificatori.
“Lei, indubbiamente.” replicò fulmineo Slash, senza nemmeno pensarci su “Sa che non hai...”
“No.” lo interruppe Izzy, più duro di quanto in realtà non volesse apparire “Non lo sa. Intuisce, probabilmente, ma non ne è sicura. E stasera non deve assolutamente venire a saperlo, nemmeno per sbaglio.”
“Perché?” Slash soffiò fuori una boccata di fumo, dopo averla trattenuta per un tempo che pareva quasi innaturale.
“Perché stasera festeggia il suo compleanno, ecco perché.” commentò con un mezzo sorriso Izzy, rifugiandosi nell’amaro bozzolo di fumo della Malboro che teneva prigioniera tra le labbra.

 

You can lose yourself in pleasure
'Til your body's going numb
But will it ever be enough?
You know that it'll never be enough
 

Pandora’s Box, Original Sin.

 

Le undici e qualche minuto.
Izzy non aveva mai visto così tanta gente stipata in un così piccolo locale in tutta la sua vita: a frotte, le persone si ammassavano attorno al palco ancora deserto, unica isola in quel mare di teste e sigarette accese.
Dietro al bancone, Charlie e il vecchio con il drago tatuato sul braccio correvano da una parte all’altra con le mani sempre occupate da bicchieri pieni e vuoti, ma di Roxanne nemmeno l’ombra.
Era scomparsa da una mezz’ora buona, risucchiata da una minuscola porticina vicino al bagno su cui spiccava chiara una targhetta che dichiarava privata la stanzetta. Sospirò, appoggiando la schiena contro la panca e inspirando a fondo una lunga boccata di fumo.

“...niente male.” commentò Steven al suo fianco, tirando una lieve gomitata a Duff e indicandogli qualcosa nella sala gremita di gente.
“Eh?” domandò il bassista, prima di fischiare sommessamente e sghignazzare, richiamando l’attenzione di Axl, che a sua volta – dopo aver sgranato gli occh i- colpì Slash.
Uno dopo l’altro, i quattro ragazzi si voltarono a fissare Izzy.
Senza capire, il giovane li guardò, perplesso, per poi seguire la direzione dei loro sguardi e incontrare la figura sottile di una ragazza che rideva allegramente, attorniata da un gruppetto di persone che sembravano ancora convinte di vivere negli anni ’60.
La ragazza si voltò appena.
Indossava un minuscolo abito nero, che le fasciava il busto e un terzo scarso delle cosce bianche, una cascata di bracciali argentati le tintinnava ai polsi e ai piedi portava delle All Star alla caviglia, un tempo rosse.

“Mica male.” ripetè a bassa voce Seven.
Izzy annuì, cercando di vedere il volto della giovane che inclinò il capo all’indietro liberando una risata graffiata.
I capelli, morbidi riccioli sfatti, erano legali in una coda che le cadeva tra le scapole, due grandi occhi castani luminosi trattenenvano rimasugli di quella risata che si era spenta: il chitarrista per poco non si soffocò con il fumo che aveva in bocca, quando la vide voltarsi verso di lui e corrergli incontro.

Roxanne rise di nuovo, sedendosi sulle gambe del ragazzo che la fissava inebetito.
“Un gatto ti ha mangiato la lingua?” chiese divertita, posandogli un bacio sulla fronte. Automaticamente, Izzy le cinse la vita con le braccia, tirandola a se.
“Scusalo, ma quando è davanti a una bella ragazza perde ogni capacità di intendere e volere.” sghignazzò il bassista, catturando lo scintillio che brillava negli occhi di Roxanne.
“Un vero timidone.” rincarò Axl, il viso illuminato dalla vampata calda dell’accendino.
Una sottile striscia di fumo azzurognolo si arricciò davanti al viso del cantante, mentre scrutava la ragazza e riprendeva a parlare, come sovrapensiero.
“Penso che quando l’ho conosciuto faceva fatica a mettere in fila più di quattro parole, quando poi compariva Erin con quella sua amica... come si chiamava?” chiese maligno, guadagnandosi un’occhiata truce in tutta risposta, assieme a un brontolio che suonava tanto come Lucy “Lucy, giusto! Gran bella ragazza si. Ma comunque! Ogni volta che comparivano quelle due andava letteralmente in para!”

“Da allora ne è corsa di acqua sotto i ponti, però,” s’intromise bonariamente il batterista, allungando una mano verso la ragazza.
“Steven, piacere di conoscerti Roxanne” si presentò con un sorriso che si sposava perfettamente con il suo volto gentile, da bambinone.
Ricambiando la stretta, lei non potè fare a meno di incurvare le labbra a sua volta, contagiata da quella vivace ingenuità che vedeva negli occhi azzurri del ragazzo.

“Roxy, per gli amici.” precisò con una piccola smorfia.
“Mica siamo amici.” replicò ostile Axl, stringendo a sua volta la mano sottile della ragazza, senza sentire minimamente il bisogno di presentarsi.
“Gli amici di Izzy sono i miei amici, Mr. Rose.” scrollò le spalle, per nulla sorpresa, sorrise candida e si rivolse a Duff “E tu sei Duff, ovviamente.”
Il ragazzo abbozzò un sorriso.
“Così pare.”
Izzy la guardava in silenzio, mentre si destreggiava tra quegli sconosciuti di cui sarebbe stata capace di snocciolare date e luoghi di nascita, gruppo sanguigno, piatto preferito e numero di scarpe con la stessa facilità con cui avrebbe snocciolato il suo numero di telefono.
Era stupito.
Non tanto dalla reazione di Axl – già lo sapeva che sarebbe stato innegabilmente stronzo, era fatto così e c’era poco altro da fare -, quanto dalla semplicità con cui aveva scalfito quella bolla di fama che li avvolgeva e li separava dal resto del mondo.
O quantomeno ci aveva provato con semplicità, senza cercare grandi frasi ad effetto.
La sentì agitarsi appena sulle sue gambe e gridare qualcosa alla cameriera con i capelli rossi, prima di tornare a chiacchierare con Steven.

“Si, sono io la pazza che ha provato a salire sul palco, all’ultimo concerto.” raccontava, mentre il batterista e il bassista erano piegati in due dalle risate “E ci sarei anche risciuta, se quel cazzone di un figlio di buona donna non mi avesse preso per la caviglia!”
“E perché?” Duff sembrava davvero non concepire le ragione che potessero spingere qualcuno a sfidare un esercito di armadi armati di manganello per salire su un palco.
“Perché ci sono cose che se non le fai, poi ti resta il rimpianto fin che campi.” spiegò lei, facendosi accendere una sigaretta dal bassista, che si sporse sul tavolo allungando un accendino.
“Grazie. Dicevo, comunque, che se non l’avessi fatto, se non ci avessi provato, forse ora non sarei qui a raccontarvelo, forse non sarei qui a festeggiare il mio compleanno con i Guns n’ Roses, cazzo! Che poi in realtà le cose non siano andata come volevo, alla fine è relativo.” scrollò le spalle “Ovvio che, potendo scegliere, avrei preferito evitare tutte le botte che ho preso,” agitò una mano in aria, minimizzando.
Il bassista rise, mentre Izzy girava il viso e posava le labbra sulla spalla scoperta della ragazza, percependone il profumo di albicocca e fumo.
Silenzioso, non disse nulla, immersi in pensieri che nessuno dei presenti avrebbe anche solo lontanamente potuto intuire.
Che stesse per fare un madornale errore? Non ne aveva la più pallida idea.

“E se ci fossi riuscita, che avresti fatto?” domandò Slash con un guizzo di pura curiosità negli occhi.
Roxanne sbatté le palpebre, schiudendo appena la bocca e lasciando che i secondi passassero accumulando una giusta dose di suspence.

“Beh, mi pare ovvio!” esclamò alla fine, come se fosse la cosa più ovvia e banale di questo mondo “Me lo sarei scopato lì seduta stante, no?”
Suo malgrado, anche Axl si ritrovò con la fronte pigiata contro il tavolo, gli addominali doloranti per le troppe risate.
Più per l’espressione imbarazzata di Izzy, che non per le parole della cameriera, che si era chinata sul chitarrista e gli sussurrava qualcosa all’orecchio indicandogli il palco vuoto.

“Davvero?” domandò sorpreso il chitarrista, sperando disperatamente che il suo viso assumesse presto un colorito normale.
Lei annuì di nuovo e si alzò in piedi.

“Torno subito.” mormorò, e senza aggiungere altro si dileguò nella folla, inghiottita dal rumore delle chiacchiere e dalle nuvole di fumo.
Aggirò un gruppo di ragazzine strillanti e si rifugiò dietro il bancone, dove Charlie la guardò disperata.
Si strinse nelle spalle, fino a raggiungere il palco e, illuminata dalla calda luce dei riflettori, agguantò un microfono e si piazzò al centro della piccola pedana. Alle sue spalle, come se avessero sempre e solo aspettato lei, si materializzò quella che doveva essere la band: un gruppo di ragazzi attorno ai trent’anni che si sistemarono davanti agli strumenti, in attesa.

“Si sono fatti aspettare, eh?” esordì con una mezza risata Roxanne, scatenando un’ondata di urla d’assenso dalla piccola folla “Ma sappiamo già che ne vale la pena. Ragazzi, potrei passare ore a parlarvi di quanto adoro vederli salire su questo palco, di quanto vorrei poterli ascoltare più spesso, ma ahimè! Sappiamo tutti che è impossibile, se la tirano troppo...” la folla rise, i musicisti pure. Il bassista protestò, la voce si perse nella confusione crescente ma raggiunse la ragazza, che sghignazzò “Si, anche io ti voglio tanto bene Alan! Ma bando alle ciance. Solo per stasera, come ai vecchi tempi, i Kinslayer!”
Il boato fece tremare la sala, mentre Roxanne soffiava un bacio al cantante, un biondino dagli occhi acquamarina che ricambiò il gesto, prima di catturare la scena e lanciarsi in una cover di Black Dog, dei Led Zeppelin.
Come promesso, la ragazza tornò al tavolo, dove i ragazzi erano immersi in una coltre di chiacchiere e fumo.
Afferrò una mano di Izzy e lo trascinò via, giustificandosi con un sorriso carico di deliziose promesse cui il ragazzo non seppe opporsi, e sotto gli sguardi più o meno perplessi del resto del gruppo lo condusse nella folla senza lasciar andare le sue dita fino all’uscita del locale e poi fuori nella notte che abbracciava la città, oltre il chiarore delle stelle e dei lampioni fino all’oscurità delle scale abbandonate del sottopassaggio, in un corridoio polveroso e dimenticato dal mondo. Lì, in un angolo buio, lo tirò a se.

“Mi sei mancato.” sussurrò contro il suo collo, mordicchiandoglielo appena “Mi sei mancato per tutta la sera.”
“Ma se ero sempre vicino a te!” protestò senza troppa convizione lui, facendo scivolare le mani lungo la sua schiena, in una languida carezza.
Sentiva i brividi correrle lungo la spina dorsale.

“Ma non eri lì. Sei silenzioso, sta sera” la voce era poco più di un fioco sussurro, soffice come cotone “C’è qualcosa che non va, Izzy?”
Lui rimase in silenzio, mentre le note di una nuova canzone li raggiungevano in quel nido di polvere e tenebra.
Love of my life, dei Queen.

“Balla con me.” le disse senza rispondere alla sua domanda “Balla con me, Roxanne.” e la tirò via dal muro, per portarla nel cuore del sottopassaggio abbandonato, disegnando piccole spirali nella polvere di foglie morte e consumate dal tempo.
Era il momento perfetto.
Era l’occasione che aveva aspettato per tutta la sera, il momento perfetto per fare quello che si era ripromesso di fare.
Non era difficile in fondo, doveva solo fare un profondo respiro e inghiottire ogni paura, per aprirle il cuore e scoprire se davvero le carte del fato erano buone o no.
Fece per parlare, ma lei lo precedette.

“Sono bravi, vero?” chiese con un sussurro, mentre la voce del biondino si alzava e si abbassava con una dolcezza che sfiorava appena quella di Freddie Mercury ma era comunque notevole.
“Già.” commentò altrettanto piano lui, stringendola con più forza.
Di nuovo, quell’inspiegabile bisogno fisico di sentirla vicina, di sentire il suo calore sulla pelle.

“Ehi, piano che mi soffochi!” rise lei, sollevando le mani fino al suo collo, tra i capelli che scendevano disordinati a sfiorare le spalle.
“Li ho scovati io, sai?” c’era orgoglio, nella sua voce, si sentiva “Li ho conosciuti a scuola, quanto non erano niente più di un gruppo di disperati che nessuno prendeva sul serio. Li ho presi in massa e li ho portati qui, dove Alec ha dato loro una possibilità. E adesso guardali, viaggiano da costa a costa, concerto dopo concerto!”

Izzy vide gli occhi brillarle, e sorrise.
“Per merito tuo?”
“Oh, se non li avessi trovati io lo avrebbe fatto qualcun altro. Valgono troppo.”
Una piroetta, poi di nuovo i loro corpi appiccicati. Troppo appiccicati.
“Fanno cover solo perché glielo ho chiesto io, stasera.” riprese lei, il fiato corto “Solo per me. Sai perché?”
Lui annuì, facendola piroettare ancora e richiamandola con la schiena contro il suo petto. Dal punto dove erano, riuscivano a vedere uno sprazzo di cielo stellato, oltre le scale.
“Certo che lo so. E’ il tuo compleanno, no?”
Lei chiuse gli occhi, cullata dal suo respiro e dalle dolci note che uscivano dal locale.
“Pensavi me ne fossi dimenticato?” riprese lui, con un mezzo sorriso “Come avrei potuto? Non facevi che parlare di questa sera, da un mese a questa parte, come un disco rotto.” lei rise, stretta a lui con un sorriso sulle labbra e gli occhi pieni della luce delle stelle “Per questo suonano cover, per questo ci sono i ragazzi, per questo io...” s’interruppe, mentre la canzone sfumava nell’applauso di una folla in delirio.
“Per questo tu?” lei si scostò, voltandosi, e lo guardò dritto negli occhi, ammantata di una cheta bellezza che gli mozzò il fiato.
“...vuoi il tuo regalo?” le soffiò sul viso, con un sorriso sornione.
“No, voglio te.” replicò lei, spingendolo contro un muro e baciandolo con un impeto che non gli era nuovo, desiderio misto a divertimento.
Rise, contro la sua bocca.

“E allora prendimi.” la provocò con un sorriso storto, che lei subito coprì con le labbra, in un altro bacio.
Lottarono con il fiato corto, cercandosi e sfuggendosi, fino a quando non la spinse contro la parete del sottopassaggio, immobilizzandola sotto il suo corpo. E mentre si chinava a baciarle le spalle si disse che no, non era quello il momento.
Adesso volevo solo lei, il suo calore, il suo sapore dolceamaro sulle labbra, voleva perdersi e ritrovarsi in lei, rinascere come una fenice dalle sue ceneri.

“Vorrei essere una persona migliore.” le sussurrò piano, sollevandola e spingendola contro la parete.
Roxanne lo guardò, gli occhi nocciola annebbiati dal piacere.
Non sorrise, lottando contro quel sole che sembrava essersi staccato dal cielo solo per premerle tra le cosce.

“Sei quanto di più bello potesse mai capitarmi.” replicò altrettanto piano, mentre il sole rompeva la barriera della sua volontà e esplodeva in un mare di luce.

 

PARLA ROXANNE:

Io allora non lo sapevo, ma i grandi amori possono essere come un cancro se non vengono capiti subito.
Si installano dentro di te,fanno del tuo cuore il nucleo del loro male e si ingrandiscono, risucchiano le tue energie, i tuoi pensieri, le tue forze senza che tu possa fare nulla.
Ti accorgi di loro solo quando è troppo tardi, solo quando il male è troppo male per essere contrastato.

Se il nostro fosse un cancro, ancora non lo so.
Non l’ho mai capito, in tutti questi anni, forse è destino che non lo capisca mai.
Ti ho detto che sono felice, prima, non è vero?
Beh, non è vero.
Non è niente vero, non sono felice come lo ero allora, temo che non potrò più esserlo con la stessa libertà, la stessa frenesia, una felicità pura, calda come il fuoco e assolutamente priva di inibizioni.

La gioia dei bambini, che non temono il dolore nascosto dietro l’angolo.
Pensavo che sarebbe durata per sempre, è vero.
Pensavo che niente e nessuno si sarebbe potuto frapporre tra me e te, che eravano legati da qualcosa che andava oltre ogni cosa, che trascendeva la stessa idea di amore.
Pensavo tante cose, avevo le mie paure, ma sbadivano di fronte alla luce che volevo vedere e vedevo in noi.
Tipico dei grandi amori: si vede quello che si vuole vedere, ci si illude, si cercano segni di grandi verità anche nelle cose più scontate, ci si perde in un mondo di sogni.
Ma quando i grandi amori in realtà non sono altro che un cancro, allora c’è ben poco da fare. Allontanarsi non serve, perché l’unica cosa che può salvare è la stessa che uccide.
Il filo che ci legava, Izzy.
Io lo sento ancora, lo ho sentito per anni e lo sentirò fin tanto che avrò forza per far battere il cuore.
Lo stesso è per te, lo so.
Non può essere diversamente.

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Capitolo 7
*** The ground beneath their feet [ the moolight serenade] ***


HAND IN GLOVE
# 6 THE GROUND BENEATH THEIR FEET

~ the moonlight serenade

 



PARLA IZZY:

Che quella notte fossi terrorizzato, non era un mistero.
Se ne accorsero tutti, preso o tardi, e tutti vennero a chiedermi spiegazioni: nessuno, a parte te, ottenne risposta.
Cosa non avrei fatto per te!
Ti amavo al punto da non riuscire più a ricordare come fosse la mia vita prima di incontrarti, ogni cosa perdeva importanza davanti ai tuoi occhi scuri.
Mi spaventavi, si.
Mi spaventavi per il potere che esercitavi su di me, ma invece di allontanarmi questo mi attirava sempre più, ero una falena in balia della tua fiamma.
Fu per questo che scelsi quella sera per chiederti di venire in tourneé con noi.
Di partire, di venire via con me.
Era una mossa rischiosa, tu avevi la tua vita a Los Angeles, una vita che amavi e che non sapevo se saresti stata disposta ad abbandonare così, su due piedi, per chissà quanto.
Ma volevo farlo.
Dovevo farlo, proprio perché ti amavo e l’idea di lasciarti per mesi, forse un anno, mi uccideva lentamente.
E sempre quella sera, avrei voluto dirti che ti amavo.
Non l’avevo mai fatto, in quei mesi, non avevo mai trovato il coraggio.
Non perché non ne fossi sicuro, anzi.
Ero solo spaventato da ciò che quelle tre parole avrebbe potuto scatenare.
Una paura che troppe volte mi ha bloccato, portandomi a prendere strade dalle quali non sono mai tornato indietro, dalle quali non ho mai potuto scostarmi.
E adesso che lo so, tutto ciò che voglio è trovare anche solo un sentiero, una pista che mi riporti a un bivio conosciuto, il bivio che cambiò la mia e la tua vita, stravolgendole e facendole a pezzi, senza pietà.
Vorrei tornare lì e fermare il tornado.
Mi permetteresti di sconvolgere tutto, una volta ancora?
Certe volte, temo proprio che preferiresti morire piuttosto che attraversare ancora l’inferno.

 

 

And in the darkened underpass
I thought "Oh God, my chance has come at last!"
(But then a strange fear gripped me and I
Just couldn't ask)
 

The smiths, There Is A Light And It Never Goes Out.


 

Los Angeles, gennaio 1988

Erano abbracciati, seduti su quei gradini sporchi che nemmeno il vento riusciva a spazzare.
I loro respiri si susseguivano tranquilli, senza accompagnare parole che non avevano bisogno di esser dette.
Solo una sottile spirale, uno spettro di fumo azzurrognolo, si levava debole verso quello spiraglio di cielo aperto che li osservava benevolo. Una sigaretta, per due.

“Ma davvero mi hai preso un regalo?”
Fu Roxanne a rompere quel silenzio, alzando il viso e cercando gli occhi del ragazzo, due laghi neri più neri del fondo del sottopassaggio, bloccato da un cumulo di detriti e chissà cos’altro. Izzy ammiccò.
“Non dovevo?”
“Scemo!” una risata, un colpo sulla spalla “Pensavo però che fossero i ragazzi il regalo.”
“E perché mai?” sorpreso, il chitarrista sgranò appena gli occhi.
Lei corrugò la fronte, in un attimo di disappunto.

“Perché, Izzy, hai passato non so quanto tempo a dirmi che volevi proteggermi dal tuo mondo e blablabla e poi, tutto ad un tratto, la sera del mio compleanno ti presenti qui con il gruppo al completo.” scrollò le spalle, rubando la sigaretta dalle labbra del ragazzo “Ho pensato che fosse quello, il tuo regalo. Un passaporto in grande stile per il mondo di Izzy Stradlin!” annunciò all’eco che inseguì le sue parole con lo stesso tono altisonante, da direttore di circo.
“Quanto sei scema.” la rinbeccò affettuosamente, posandole una mano sulla gola e sollevandole il viso, ritrovandosi a guardare quegli occhi color cioccolata attraverso una cortina confusa di capelli scuri.
La bocca, corrucciata in una smorfia imbronciata. Sorrise.

“Tanto lo so che mi adori anche per questo.” lo rimbeccò lei, sciogliendo il broncio in un mezzo sorriso.
Izzy sentì un fremito: eccola, era l’occasione che aspettava.
No, io non ti adoro soltanto, io ti amo.
Nove parole. Una cosa semplice, niente di esagerato, solo la pura verità.
Si sentì in bilico, come mai in vita sua, sulla responsabilità che andava assumendosi con quel gesto.
Era portare il loro rapporto un gradino ancora più in su, era cementare i suoi sentimenti, era... era un grosso passo.
Che non fece. Si morse la lingua.

“Proprio vero, scemotta mia.” le disse alla fine, ignorando quella punta di fastidio per non aver trovato il coraggio. ù
Pazienza, si disse, la notte è lunga.

“Comunque lo voglio, il tuo regalo. Mi piacciono i regali, è una balla grossa come una casa dire che è il pensiero che conta.” brontolò posando la testa contro il suo petto e allungando le gambe. Le punte delle All Star, bianche, erano due minuscole collinette davanti a un mare di nulla.
“A nessuno importa del pensiero, alla fine, è quello che puoi toccare per mano che si guarda. Che sia un calzino o un diamante, poi, è un’altra storia. Ma il fatto che questo qualcuno, oltre al pensiero ci abbia messo vicino qualcosa di concreto è già segno di affetto. O no?” s’interruppe, picchiettandosi le labbra con il filtro della sigaretta ormai spenta.

Izzy frugò con una mano nella tasca dei pantaloni e ne trasse fuori qualcosa che tintinnò allegramente, qualcosa di freddo che si strinse per un attimo al collo di Roxanne prima di scivolare appena appena più in basso.
Qualcosa che lei prese tra le dita e sollevò nella luce delle stelle: un ciondolo a forma di fiore con i petali screziati di un blu scuro, come la notte quando si avvicina a passi felpati divorando il fuoco del tramonto e spegnendolo in un cobalto intenso, e un cuore azzurro chiaro.

“E’ splendido.” sussurrò, le labbra che via via si incurvavano verso l’alto “Izzy, non ho mai visto niente del genere, è meraviglioso.”
“Vedo però che non si intona con le scarpe.” commentò lui, vagamente imbarazzato. Era sempre così, ogni volta che faceva un regalo: sentirsi dire quanto era apprezzato lo metteva a disagio, invece di compiacerlo.
“E chissenefrega delle scarpe, è stupendo!” lasciò il ciondolo, che ricadde all’altezza dello sterno, e si voltò verso il giovane, prendendogli il volto tra le mani “Grazie” mormorò, stampandogli un bacio sulla bocca “Grazie, grazie, grazie, grazie, grazie...” e via così, ad ogni grazie un bacio, al punto che lui rise.
“Averlo saputo e ti regalavo la gioielleria intera!”
Anche Roxanne rise, lasciandolo andare e tornare a fissare il vuoto che si apriva oltre i suoi piedi, fermi qualche gradino più sotto.
“Sono felice ti piaccia, sai?” riprese il chitarrista, con voce fioca “Anche perché ho passato una cosa come tre ore a torturare una povera commessa che non capiva cosa volevo trovare. Penso le sia venuta una crisi di nervi, qualcosa del genere. Mi odierà a morte, adesso.”
“Non ti ci vedo ad andare in giro per negozi, Izzy” la ragazza arricciò il naso, prendendolo in giro.
“Sinceramente non mi ci vedo neppure io. Ma penso un po’, l’ho fatto. Solo per te.”
“Solo per me?” indagò, solo per il gusto di sentire quelle tre parole di nuovo.
“Solo per te.” l’accontentò il giovane, senza nemmeno pensarci su.
Di nuovo, la certezza che era l’occasione giusta.
Ancora più perfetta, volendo, le parole diminuivano a quattro, perché-io-ti-amo.
Forza coglione, forza, si disse appellandosi a tutto il suo coraggio per pronunciarle, per farle quello che sicuramente sarebbe stato il regalo più grande, la sorpresa più apprezzata.
Sarebbe andato tutto bene, lei sarebbe venuta in tourneé, la vita avrebbe perso la sfumatura amara della lontanza per trasformarsi in una favola a lieto fine. Forza coglione, forza. Inspirò a fondo, le parole ferme sulla punta della lingua, che spingevano contro le labbra per uscire.

E gli venne in mente Axl.
Gli venne in mente la sua perfidia, la sua cattiveria, quelle parole che gli aveva detto senza pensarci troppo su prima che lei lo rapisse via dal tavolo e lo portasse lì: non mi piace quella ragazza.
E sebbene potesse contare sull’appoggio di Slash, di Duff e di Steven, Axl era un muro che non era mai riuscito a scavalcare.
Forse non ci sarebbe mai riuscito. L’ultima cosa che voleva era esporre quella ragazza alla sua furia, ai suoi capricci da front-man viziato e in balia dei suoi eccessi.
Chiaro che neanche lui era un santo, nessuno di loro lo era.
Ma quella paura che il rifiuto dell’amico gli aveva piantato dentro non lo lasciava.
Lo atterriva. Mettersi contro Axl non era mai, MAI una buona idea.

“A che pensi?” chiese lei, sollevandogli una mano e sfiorandone il palmo con la punta delle dita, seguendo le linee che si intrecciavano, misteriose.
Un’altra stilettata dalla mano del destino, la terza occasione.
E per la terza volta, decise di lasciarla correre.
“Penso che forse dovremmo tornare dentro, è la tua festa e te la stai perdendo, stando qui con me.” sentendosi un ipocrita, si alzò in piedi e salì qualche gradino, aspettando che lei lo raggiungesse per affrontare la notte e il locale gremito di gente.
Che lei non avesse replicato, che non avesse detto nulla ma si fosse trincerata in un silenzio ostile, non lo ferì.
Era lui, probabilmente, ad averla ferita. Molto di più.
Ma non disse niente, non era nella condizione per farlo.
Fu quel sorriso che si congelò in una linea stretta, a preoccuparlo e fu solo quando lei, una volta dentro il locale, lasciò andare la sua mano e sparì nella folla dopo avergli sussurrato che avrebbe preferito passare cento serate con lui piuttosto che una sola in mezzo a quella gente, che il dubbio di aver fatto una clamorosa stupidaggine divenne certezza.
La guardò scivolare via, senza fare niente per trattenerla.

 

You give me the anger
You give me the nerve
Carry out the sentence
I get what I deserve.
 

Nine Inch Nails, Sin.

 

“Oh, eccoti qui!” lo accolse Axl con un largo sorriso da mezzo ubriaco, gli occhi verdi e il nasino da elfo che facevano capolino da una linga fila di pinte vuote “E senza quella piattola al seguito!”
“Piantala.” lo freddò cupo, lasciandosi cadere sulla panca e fissando imbronciato il palco dove i Kinslayer continuavano a tener spettacolo.
Il cantante, un ragazzo dai riccioli neri e gli occhi talmente azzurri da sembrare finto, stava improvvisando Don’t let me be misunderstood di Nina Simone, con una voce straordinariamente bassa.
Sotto il palco, scorgeva la coda mezza sciolta di Roxanne e i suoi occhi fissi in quelli del ragazzo sul palco, una risata in bocca: sentì di odiarlo, come mai aveva odiato qualcuno in vita sua.

“Stradlin, va tutto bene?” indagò cautamente Steven, la parlata strascicata di chi ha bevuto qualche bicchiere di troppo ma gli occhi assurdamente lucidi.
Scosse il capo, non aveva voglia di nascondersi dietro una scusa.

“No, non va niente bene perché sono uno stronzo insensibile.” brontolò accendendosi una sigaretta e fissando torvo il palco e la ragazza che vi si era seduta sopra, accavallando le gambe. Per lo meno, il ciondolo che le aveva regalato era ancora al suo collo.
“E come saresti arrivato a questa grande verità?” continuò il batterista aggrottando la fronte.
“La vedi? È lì, sotto il palco, bella che fa male. E io sono riuscito a rovinarle il compleanno.” sentiva che sarebbe potuto scoppiare a piangere se non annegava la frustrazione in qualcosa. Ma di farsi, non se ne parlava.
Tirò un’avida boccata di fumo, sentendosi subito più leggero per l’assenza di ossigeno.
Ne tirò un’altra, per precauzione: molto, molto meglio.

“Mah, io non credo che tu sia stronzo e insensibile al punto da combinare il disastro che vai farneticando. Avrai fatto una stronzata, ecco, ma nulla di irrecuperabile.”
“Oh, è inutile che fai tanto il gentile Steven, sono un sacco di merda e resto tale.” sempre più cupo, il chitarrista sprofondò in una nuvola di fumo.
“C’è una sola cosa da fare, allora.” sospirò Duff, che del discorso tra i due aveva capito poco niente.
E Slash, dietro di lui.

“Urge il nostro amico Jack!” esclamò pimpante l’altro chitarrista, facendo sobbalzare i riccioli scuri e lasciando intravedere il suo bel sorriso.
E all’uninsono con il bassista e Slash, Axl gridò, sovrastando il caos della sala.

“CHARLIEEEE!”
Roxanne si girò verso il tavolo dove sedevano i Guns n’Roses non appena udì l’urlo, giusto in tempo per vedere la collega che piazzava davanti al suo ragazzo un bicchiere vuoto e una bottiglia piena.
Scosse il capo, con un mezzo sospiro e sorrise alla ragazza che, vicino a lei, le aveva chiesto perché fosse triste la sera del suo compleanno.

“Nulla, un po’ di malinconia,” le rispose.
L’altra scrollò lo spalle e tornò a guardare il gruppo, lasciandola sola con la sigaretta che si era accesa qualche minuto prima.
La voce del cantante, la colse di sorpresa.

“Allora, Roxy, mi spieghi questo muso lungo?” le chiese, sedendosi accanto a lei.
La ragazza indugiò qualche attimo, tanto che lui la schernì.

“Non ti fidi più di me, jolié?” domandò con un sospiro intriso di una tristezza simulata, strappandole un mezzo sorriso.
“Non dire stupidaggini, Christopher.” lo colpì ad una spalla, scherzosamente.
“E allora perché questo muso? Cos’è, sono diventato improvvisamente stonato da far rimpiangere alla mia scopritrice il giorno in cui mi ha portato qui?”
Di nuovo, Roxanne rise.
“No, razza di scemo, no!” allungò un braccio, indicando Izzy e il resto del gruppo a Christopher “Lo vedi quel bel ragazzo seduto lì?” gli chiese.
“Chi, il biondino con la faccia da bambola?” indagò lui, con un guizzò interessato.
“No, non Steven.” scosse il capo, incrociando gli occhi azzurrissimi del batterista “Quello lì vicino.”
“L’altro biondino, con gli occhi furbi?” tentò di nuovo il cantante.
“No, Chris, no. Quello con il cappello, l’aria incazzata e la sigaretta in bocca.” sospirò.
“Ah” il moretto sembrava deluso “Non è che sia proprio un bel ragazzo tesoro, lasciatelo dire..”
“Resta il fatto che è il mio ragazzo.” ignorò volutamente il commento dell’amico, che la fece sorridere.
“E...?”
“E mi fa incazzare, ma proprio tanto, perché è un gran cretino!” sbottò irritata, soffiando fuori una nuvola di fumo che fece tossire il ragazzo, ancora silenzioso.
Non stava a lui parlare.
“Ti pare che preferisco stare qui, in mezzo a frotte di gente che sa a malapena il mio nome, piuttosto che con lui?”

“Mh.” rispose il cantante con un sorriso indulgente “Tu ami stare in mezzo a frotte di gente che non conosci.”
“E allora? Lui è sempre il mio ragazzo, io vorrei solo stare con lui e basta! In barba a quello che mi piace fare o non mi piace fare. È un gran cretino.” chiusa a riccio nella sua posizione, Roxanne non permise al dubbio di scalfire la sua corazza.
“Roxy, dimmi, tu pensi che lui non voglia passare la serata con te?” continuò pacato il ragazzo, sciogliendole la coda che ormai sfatta.
I capelli le ricaddero sulla schiena, arricciandosi morbidamente.

“Ma se mi ha detto che...”
“E tu credi che davvero, solo perché te lo ha detto, lui non voglia passare tutta la serata con te? ” insistette, riavviandole una ciocca con fare affettuoso, perfettamente conscio delle occhiare di fuoco del chitarrista che, seduto al tavolo, lo guardava con intenzioni tutto meno che amichevoli.
“...” Roxanne aprì la bocca per replicare, ma non le uscì niente, se non una nuvola leggera di fumo azzurrognolo.
Vedendola boccheggiare come un pesce, Christopher le accarezzò il capo

“Appunto.” commentò, rimettendosi in piedi e chiamando a raccolta il resto della band che rideva nei pressi del bancone.
Show must go on, guys!” gridò al microfono, mentre il bassista, Alan, strappava qualche accordo allo strumento che portava a tracolla.
La melodia languida di una canzone di cui non ricordava il titolo riempì il locale, quando le si parò davanti Steven, con una mano tesa.

“Balli?” le chiese il batterista, con un sorriso che non le diede tempo di replicare: prima di potersene rendere conto era già in piedi, con una mano sulla spalla del ragazzo e l’altra saldamente prigioniera tra dita calde all’altezza del suo cuore.
“Allora, Roxanne, ti diverti? Hai fatto le cose in grande, quanti anni fai?” domandò allegramente il ragazzo, la lingua sciolte dalle tante birre.
“A quale domanda vuoi che risponda prima?” commentò scettica lei, inarcando le sopracciglia.
“Oh, fai tu!” rise allegramente il giovane.
Aveva una risata contagiosa, tanto che lo scetticismo di Roxanne cedette e lei si ammorbidì in un sorriso.

“Beh, vediamo..” iniziò a dire, lasciandosi portare sulle note della canzone “Mi divertivo di più venti minuti fa, ha organizzato tutto Chris, il cantante e ho appena compiuto ventidue anni. Soddisfatto?”
“Beh, non del tutto.” ammiccò, volutamente vago.
“Però ora tocca a me. Balli con me perché improvvisamente ti è venuta voglia di ballare o perché ti manda un chitarrista a caso?” indagò, gli occhi ridotti a due fessure sottili.
“Ballo con te perché ho un debole per le belle ragazze, mi pare ovvio.” fu la risposta, dal tono sorpreso “Senza contare che quel mollusco del tuo ragazzo mi sta tirando delle occhiatacce che quelle rivolte al tuo amico cantante a confronto erano affettuose.”
“Davvero?” Si alzò in punta di piedi, sbirciando oltre la spalla del batterista: era effettivamente vero.
Non aveva mai visto Izzy così arrabbiato prima d’allora. Era carico di una rabbia fredda, gelida. Omicida. Un brivido la scosse, Steven rise.

“Sapevo di piacere, ma non fino a questo punto!” commentò, fraintendendo volutamente quel tremore.
Roxanne reclinò il capo indietro, in una risata graffiata.
Il ragazzo sembrava avere la straordinaria capacità di farla ridere, di cancellare con una frase i nuvoloni del malumore.
Lo guardò con simpatia, mentre ballavano schiacciati nella ressa su quelle note dolci, miagolate da Christopher al microfono.
Era raro trovare una persona così tremendamente ingenua, semplice, la stessa gioiosa vitalità dei bambini, mai stanchi di correre su e giù in un gioco senza fine.

“Se non fosse che sfortunatamente sono persa per Izzy, ti sposerei Steven.” disse ad un tratto, alzando lo sguardo sul suo viso.
“Mi spiace bambola, ma il mio cuore è un trofeo difficile da conquistare.” si pavoneggiò lui, stringendole poco più forte la mano a mo’ di ringraziamente “E lo stai facendo impazzire fin troppo, quel povero diavolo, non potrei mai tirargli un colpo tanto basso.”
Gli occhi di Roxanne brillarono nella penombra dei riflettori che vagavano pigri sulla folla.
“Io non sto facendo proprio nulla, mi godo la mia festa come mi ha detto di fare lui.” obbiettò tranquilla, gettando un’occhiata a Izzy, che fissava la schiena di Steven come se potesse trapassarla con una lama.
Distolse lo sguardo, vedendo gli occhi del ragazzo salire per cercare i suoi; tornò a quelli azzurrissimi di Steven.
“Se poi per questo si offende, non vedo cosa ci posso fare.”

“Beh, potresti quantomeno evitare di flirtare con il cantante sotto il suo naso.”
La ragazza si bloccò, guardandolo incredulo.
“Izzy pensa che ci sto provando con Chris?” domandò, gli occhi talmente sgranati da apparire innaturalmente grandi.
“Beh, a vedervi l’impressione era quella..”
Scoppiò a ridere.
Una risata convulsa, che la piegò in due e le riempì gli occhi di lacrime, una risata di fitte dolorose agli addominali: neanche volendo, sarebbe riuscita a dominarla.
Faticando per respirare, si agitò una mano davanti al viso, boccheggiando per portare qualche filo di ossigeno ai polmoni.

“Provarci con Chris...ahahahahahahah!” continuò a ridere, sotto lo sguardo stupito di Steven che non sapeva più che pesci pigliare.
“Cazzo, appena glielo dico muore.. ahahahahahahah!”

“Ma cosa c’è di così divertente?” sbottò alla fine il batterista, più disperato che esasperato.
“C’è, Steven... oh mamma! C’è che Chris è gay. Ecco cosa c’è!” e giù di nuovo a ridere, presto seguita anche dal batterista, che si girò verso Izzy con gli occhi pieni di lacrime.
“Che idiota.” biascicò tra una risata e l’altra, appoggiandosi alla ragazza per non cadere.
Sorreggendosi come due feriti di guerra tornarono al tavolo, scoppiando a ridere ad ogni occhiata che si lanciavano: tra tutti, solo Slash non gli guardò come se fossero completamente impazziti. Izzy scoccò un’occhiata offesa a entrambi, ma sorrise a Roxanne, speranzoso.
La ragazza lo guardò in silenzio, combattuta dal desiderio di andargli vicino e passare oltre l’intoppo di poco prima o andarsene: scelse il compromesso.
Abbozzò un sorriso mesto e andò a sedersi tra Slash e Duff, dritta di fronte a Axl che la guardò con aria di sfida.
Lo ignorò, mentre il batterista dava una manata a Izzy, facendolo quasi tossire.

“Amico mio, che eri un idiota collaudato l’avevamo capito tutti,” iniziò a dire bonariamente, scatenando un eccesso di risatine in Axl e Duff, “ma che lo eri al punto da credere che la tua ragazza ci stava provando con quel cantante, è una cosa nuova. E vuoi sapere perché?”
“Sentiamo, perché?” si intromise il bassista, prendendo la parola al posto di Izzy che aveva preferito nascondersi dietro una cortina di fumo e silenzio.
Aveva il vago sospetto che era sul punto di fare figura del paranoico stupido.

“Perché il ragazzo sul palco ha un debole piuttosto per i capelloni, che non per le capellone.. non so se mi spiego!”
Roxanne crollò sul tavolo, di nuovo piegata in due dalle risate, presto imitata dal resto del gruppo.
Anche il chitarrista, suo malgrado, fu costretto ad abbozzare un sorriso imbarazzato.

“E poi.” continuò lei “Se proprio vuoi preoccuparti di qualcuno non occorre andare tanto lontano.” tranquillamente, si accese una sigaretta e soffiò fuori il fumo in una lenta serpentina azzurrognola.
Se voleva esser sicura di aver calamitato l’attenzione di Izzy, ci era riuscita perfettamente.
La ragazza sogghignò, stringendo le dita attorno al polso sinistro di Slash e sollevandogli la mano.

“Perché vedi, Izzy.” riprese, facendogli trattenere il respiro “Queste mani mi fanno morire, sentirmele addosso sarebbe da brivido. Penso che morirei seduta stante!” sorrise, ambigua, fin troppo consapevole del lampo di autentico panico che gli aveva attraversato gli occhi quando aveva portato quella mano fino al suo collo, dove prima lui aveva posato le labbra in un lento bacio che era sceso poi più in basso.
“Oppure c’è Duff. Mi fa andare fuori di testa il suo atteggiamento scazzato, e il suo modo di suonare... ” socchiuse gli occhi, sorniona, lasciando andare il polso di Slash e passando una mano tra i capelli del bassista fino a sollevargli il mento e avvicinandosi pericolosamente al suo collo con la faccia, la bocca socchiusa in un mezzo sospiro.
Si mordicchiò le labbra, prima di tornare fulminea su un Izzy sull’orlo delle lacrime, come se non avesse fatto nulla e ignorando volutamente l’espressione quasi delusa del bassista, che sembrava sul punto di protestare vivamente per il mancato contatto.
“Non parliamo poi di Steven, è amore già dichiarato: il suo modo da fare, mescolato alla sua faccia, sono una combinazione ir-re-si-sti-bi-le.” sorrise al batterista, che ricambiò il gesto con la sua solita, intramontabile vivacità.
Come se non avesse colto il senso del discorso della ragazza.
“Con Axl invece vai tranquillo, è troppo basso per i miei gusti. Ma devo ammettere che i suoi occhi sono notevoli. La sua voce, poi.. quello che so è quando canta i brividi che mi corrono lungo la schiena non sono tanto innocenti.” di nuovo, ignorò la smorfia del cantante e tornò sul chitarrista, allungando le braccia sul tavolo e posando le mani su quella di Izzy, abbandonata tra pinte vuote.
“E si, sei un idiota integrale, ha ragione Steven, sei pure un po’ un disadattato del cazzo come dice Slash e sei pure un merdosissimo tossico alcolizzato come dico io perché si, lo so che non hai mai smesso e non smetterai perché non ci riesci, ma la verità è che a me piaci così, ho scelto te e sceglierei te mille altre volte quindi mettiti l’anima in pace e stai tranquillo, santo cielo! D’accordo?”

Il primo a scuotersi fu Duff, che fischiò e si mise a battere le mani entusiasta per la performance della giovane, presto imitato da Steven che la guardava con gli occhi sgranati. Slash sorrise e, dopo aver ricevuto un significativo calcio nelle gambe, lo imitò pure Axl.
Roxanne arrossì appena e si alzò.

“Ora, io vado a godermi la mia festa come mi hai detto di fare prima, tu fai quello che vuoi, okay?” soffiò un bacio al chitarrista e si fece inghiottire dalla folla, chiedendosi come mai tutto d’un tratto se ne fosse uscita con quell’assurdo discorso davanti a quelli che considerava alla stregua di dei scesi in terra per deliziare il mondo con la loro musica.
Scrollò le spalle, sentendosi il viso scottare per l’imbarazzo e si voltò di scatto, sentendosi afferrare per una spalla.
Si girò con un sorriso e la bocca socchiusa per dire qualcosa, quando riconobbe chi l’aveva fermata: la voglia di sorridere morì esattamente come era nata e la bocca si strinse con forza, facendo sbiancare le labbra.

 

 

I hear footsteps dosing in
Recognizing them from my early days
The times are different
The image remains the same
 

Stratovarius, The Kiss of Judas.

 

Lo riconobbe subito, non era cambiato di una virgola.
L’ultima volta che lo aveva visto, era stato mesi prima.
Come dimenticare, del resto, il loro ultimo incontro?
Ricordava l’aria ancora fresca di metà settembre, carica del penetrante profumo di pioggia e erba bagnata, ricordava come la felpa le pesasse addosso, zuppa d’acqua quanto i suoi capelli, ricordava l’urgenza che l’aveva spinta a distruggere quei cinque mesi faticosamente costruiti con pazienza e compromessi per un salto nel vuoto che avrebbe potuto rivelarsi un clamoroso errore.
Ricordava il modo in cui aveva parlato, distratta, quasi con indifferenza mentre troncava una storia che le era costata tanto, ricordava il suo viso, nascosto da una maschera di dolore e confusione, incomprensione.
Come avrebbe potuto capire, del resto, quando nemmeno lei capiva.
Poi, non lo aveva più rivisto, fino a quella sera.

Stessi occhi grigi, stessi capelli neri, stessa espressione malinconica.
Le sorrideva, come si sorride ad una persona che si rivede con piacere dopo una lunga separazione, con quella muta speranza di riallacciare i rapporti nello stesso punto in cui si erano interrotti.

“Tom.” mormorò alla fine la ragazza, costringendosi a parlare.
Tutto d’un tratto si sentiva la gola secca e le gambe molli, come fosse ammalata.
Il sorriso del ragazzo si allargò ancora di più, mentre si chinava per darle due baci sulla guancia.
La sensazione di precipitare si accentuò e dovette chiudere gli occhi per un attimo.

“Ciao Roxanne, sei splendida.” le disse piano.
Non mentiva, i suoi occhi erano troppo sinceri per coprire una bugia detta tanto per sembrare cortesi.
“Buon compleanno.”

“Grazie, Tom.” si ritrovò a sorridere a sua volta “Come stai?” aggiunse dopo qualche attimo, tanto per rompere l’imbarazzante silenzio calato tra loro. Il moretto sospirò.
“Domanda difficile.” le rispose “Diciamo però che non mi lamento, anche se ho avuto momenti migliori. Tu, invece? Scommetto che scoppi dalla felicità, sei radiosa come un fiore.”
“Vero.” annuì cauta, domandandosi quanto potesse raccontargli.
Un sottile senso di colpa le chiuse la gola e iniziò a sentirsi un verme per come si era comportata con lui.
Che fosse per via di tutta quella gentilezza, dopo i ridicoli sospetti di Izzy?

“Del resto,” proseguì lui, riavviandole una ciocca di capelli, “questa è la tua serata, sarebbe un crimine se la trascorressi con il broncio Roxy”
Roxanne sorrise, a disagio.
Si, era la gentilezza a spiazzarla. Tom se ne accorse.

“Roxanne, se ti metto in difficoltà me ne vado, non farti problemi..” dispiaciuto, abbassò appena gli occhi.
Lo trattenne, d’impulso.

“No, dai.” gli disse abbozzando un sorriso che pregò sembrasse convincente “Rimani, mi fa piacere!”
Fu come regalare un giocattolo ad un bambino, il viso del ragazzo si illuminò di colpo e, contemporaneamente, lo stomaco di lei si chiuse.
Si chiese perché diavolo si sentisse soffocare in questo modo.

“Meno male!” rise lui, sollevato “Sai, non sapevo nemmeno se passare o meno, ma poi mi son detto che non potevo non farti gli auguri. E così, eccomi qui!”
“Eccoti qu.i” ripeté lei, di nuovo a disagio.
Scacciò quel vago presentimento di essere caduta dritta nella sua trappola, dandosi della paranoica.
“Sei solo?” domandò, accettando con un sorriso la sigaretta che lui le offriva.
Non le passò neanche per l’anticamera del cervello che lui non aveva mai fumato in vita sua e che i pacchetti che si portava dietro erano quelli che comprava per lei, quando stavano assieme.

“Si, in ogni senso.” allargò le braccia, lasciandole ricadere lungo i fianchi con un mesto sorriso “Che vuoi farci, Roxy, non riesco a cancellarti dai miei pensieri.”
“Ma sono passati mesi!” protestò lei, cercando di sdrammatizzare.
Il discorso stava assumendo sfumature sempre più imbarazzanti.
“Non credevo di essere così irresistibile.”

“Beh, dovresti iniziare a crederlo. Ogni volta che esco con una ragazza il paragone con te è invitabile.”
La sensazione di essere in trappola la tese come una corda di violino.
“Tu, invece?”
Si sarebbe rivelata la domanda più difficile della sua vita, se in quel momento non avesse visto Izzy arrancare verso il bancone con le mani pieni di pinte vuote, tenute assieme praticamente per miracolo.
Lo vide scambiare qualche parola con Alec, il suo capo, e vide questi annuire, voltandosi verso la macchina dell’espresso, il gioiellino del locale.
Fatta arrivare direttamente dall’Italia durante la seconda guerra mondiale dal padre del proprietario.
Si rilassò, accarezzando la sagoma sottile e allungata del ragazzo, sfiorandone il volto pallido e incorniciato da quei capelli quasi troppo lunghi, neri neri neri, appena appena mossi, cercandone gli occhi, di quel colore stranissimo che poteva essere tanto nero quanto verde scuro.
Lo vide sorridere, accendersi una sigaretta con quella sua indole svogliata, che la faceva morire.
Tornò su Tom, di nuovo mossa da quell’urgenza di andarsene da lui e tornare all’aria fresca di solitudine e nicotina di Izzy. Esattamente come quel pomeriggio di settembre.

“Io no. Sono qui con i miei amici.” e indicò i Kinslayer sul palco, intenti ad accordare i loro strumenti e ridacchiare tra loro nel locale che andava via via svuotandosi. Non aveva la più pallida idea di che ora fosse, ma doveva essere decisamente tardi. O molto presto, a seconda dei punti di vista.
“E con il mio ragazzo e i suoi amici.” e indicò con un gesto vago il tavolo dove era tornato Izzy, con un vassoio carico di tazzine di caffé fumanti.

“Ma sono i...” iniziò Tom, bloccandosi e guardandola male “Senti, se devi inventare una scusa per liberarti di me, tanto vale che tu me lo dica subito.” protestò imbronciandosi. Lei ridacchiò.
“Nessuna scusa, Tom. Si, sono i Guns n’ Roses. E il mio ragazzo è il loro chitarrista, Izzy. E sei libero di credermi o meno, ma è la verità.” si strinse nelle spalle, portando una mano a giocherellare con il ciondolo a forma di fiore, stringendolo tra le dita con delicatezza.
“E lui ti ama come ti ho amato e ti amo io?” domandò cupo il ragazzo, avvicinandosi pericolosamente.
Lei arretrò, mantenendo una parvenza di normalità, quando in realtà aveva voglia solo di andarsene e cancellarlo definitivamente dalla sua vita.
Adesso le era tutto chiaro: si era presentato lì con la speranza di tornare assieme a lei, augurandosi che il motivo che l’aveva spinta a lasciarlo tempo prima si fosse rivelato deludente, che le cose fossero andare male.

“Questo non so dirtelo, Tom.” replicò con un sorriso di circostanza.
Tutto d’un tratto, il senso di colpa era sparito, risucchiato dal fastidio che sentiva crescere in Tom.
Era come stare vicino a una fiamma e ascoltarne il crepitare che, da sommesso, diventa insopportabile quando attacca un ceppo secco.

“Non te lo ha mai detto, immagino.” il commento fu sprezzante, e lo sguardo di Roxanne si indurì, carico di disgusto per quel ragazzo che avrebbe, un tempo, voluto amare.
“No, non me lo ha detto. Ma non importa. Lo vedo illuminarsi quando sono felice, lo vedo spegnersi quando sono triste, lo vedo impegnarsi. E se mi ama di più o di meno rispetto a quanto mi ami tu non ti deve interessare. Io ho scelto lui, non te. Ed è tempo che giri pagina, perché io lo ho fatto tanto tempo fa. Buona serata.”
Lo congedò gelida, voltandosi per andarsene, quando la sua mano la bloccò di nuovo.
La reazione fu fulminea: si girò di scatto e lo colpì con la mano aperta, uno schiaffo che lui non poté evitare perché troppo inaspettato e che risuonò secco nel locale, dove calò il silenzio.
Roxanne vide che Christopher si avvicinava guardingo, pronto ad intervenire, e lo bloccò con un cenno del capo.

“Lasciami, Tom.” ordinò gelida, avvertendo i passi di Izzy alle sue spalle.
Continuò a fissare il suo ex, senza più provare alcun rimorso, alcun senso di colpa.
Di colpo aveva la certezza di aver fatto la cosa giusta in quel pomeriggio di settembre, che aveva solo anticipato l’inevitabile e ne era uscita indenne.
Era pericoloso, Tom, morbosamente pericoloso.
Mentre lui le lasciava il braccio, si chiese come mai non l’avesse mai notato prima quell’aspetto del suo carattere.

“Roxanne...” la implorò lui, di nuovo docile e triste. Trattenne una smorfia.
“Problemi?” la chiese Izzy, torreggiando su di lei alle sue spalle.
“No, Izzy.” rispose con un mezzo sorriso, saturo di ironia “Stavo ringraziando Tom per esser passato al volo a farmi gli auguri. Se ne stava giusto andando, vero Tom?”
Il ragazzo fissò con astio Izzy, che non fece una piega, passando un braccio oltre la vita di Roxanne, tirandola a sé.
“Si, me ne stavo andando,” capitolò alla fine, aprendo la bocca in un sorriso tanto triste quanto falso, “stavo solo dicendo a Roxy che se vuole, sa dove trovarmi.”
Nessuno dei due rispose e Tom, dopo qualche attimò, li salutò con un cenno del capo e se ne andò, silenzioso come era arrivato. Izzy posò la guancia contro quella di Roxanne.
“Tutto bene?” le sussurrò dolcemente, cogliendo l’espressione sollevata del cantante sul palco, cui sorrise.
“Si, tutto bene.” rispose dopo qualche attimo la ragazza, sentendosi libera di un peso che fino ad allora aveva ignorato di portare “Era solo l’eco di un tempo lontano.”

 

You've came here just to start a fight
You had to piss on our parade
You had to shred our big day
You had to ruin it for all concerned
 

Radiohead, A Punchup at a Wedding.

 

La notte sbiadiva sopra Roxanne, mentre fumava una sigaretta all’aria aperta, seduta sui primi gradini del sottopassaggio.
Canticchiando, sollevò lo sguardo al cielo, con un mezzo sorriso disegnato sul volto arrossato.
Aveva ballato per ore, quando il locale si era svuotato, alla fine dello show dei Kinslayer: dopo due ore e mezza di musica live, dopo aver spolverato un repertorio ormai dimenticato di cover e vecchi successi, la voce di Christopher si era esaurita e avevano chiuso lì.
La folla aveva protestato, ma non c’era stato nulla da fare.
A poco a poco, il pubblico aveva rinunciato ad altri bis e, dopo aver pagato le loro consumazioni, tutti se ne erano tornati a casa con un gran schiamazzo.
E il locale era rimasto vuoto, fatta eccezione per le due band, le due cameriere e il proprietario.
Solo allora, la vera festa era iniziata: a suon di vecchi successi raccolti in un malandato ju-box nell’angolo avevano ballato fino a quando le gambe non aveva ceduto per la stanchezza e poi oltre.
Si era arresa quando, ballando con Duff, non era riuscita a fare una piroetta; solo allora si era scusata ed era scappata fuori, all’aria fresca, per fumare una sigaretta sotto le stelle.
Sola con i suoi pensieri, si era rannicchiata in cima a quelle scale sporche, i capelli abbandonati in balia della leggera brezza notturna.

Allungò le gambe verso il pozzo nero che le si apriva davanti, improvvisando una vecchia canzone dei Rolling Stones che aveva sempre adorato e si abbandonò alla musica, ringraziando il suo buon senso per non aver messo i tacchi.
I piedi le facevano già abbastanza male così.

“Non sei tanto stonata, sai?”
La voce di Axl la sorprese, ma non al punto da farla sobbalzare.
Si strinse nelle spalle, mentre il cantante le si sedeva accanto e si faceva accendere una sigaretta.

“Malboro.” commentò assaporando il fumo amarognolo che gli riempiva i polmoni e la bocca.
“Non riesco a fumare altro.” si giustificò lei, senza dare troppa importanza al commento.
“A me piacciono anche le Lucky Strike,” riprese lui, “ma fumo solo Camel”
“A Izzy non piacciono.”
Roxanne lo guardò di sbieco, senza riuscire a capire dove voleva andare a parare il cantante: che non gli era simpatica, l’avevano capito anche i muri del locale.
Quindi, dove voleva arrivare parlando di sigarette?

“A Izzy non piacciono tante cose” annuì lui “Le Camel, gli hamburger scotti, i miei troppi tatuaggi, andare a puttane... Certe volte i suoi gusti sono discutibili, se devo essere sincero.”
Il cantante soffiò fuori il fumo, guardandola fissa negli occhi.
“Parliamoci chiaro, tu non mi piaci. Mi pare sia piuttosto evidente, a questo punto.” la vide trattenere un mezzo sorriso, la sigaretta abbandonata tra le labbra “Ma piaci a Izzy, e anche questo è evidente.” lo disse come se fosse una disgrazia, scuotendo il capo, cosa che la fece irritare.
Chi era quel ragazzino viziato per dire una cosa del genere?
Lo lasciò proseguire, tuttavia, curiosa di sentire il finale di quel discorso astruso.
“E io voglio solo il meglio per lui, capisci? È il migliore amico che abbia mai avuto, lo ho visto crescere in pratica e...”

“E non vuoi che la prima stronza incontrata per strada lo illuda, lo usi e poi lo molli come se niente fosse?” concluse lei, impassibile.
La rabbia che le ribolliva dentro era sapientemente nascosta, solo un lieve vibrare delle parole la lasciava intuire.

“Esatto.” Axl annuì, di nuovo, passandosi una mano tra i capelli lunghi “Quindi, tesoro, dimmi un po’: fai sul serio o te la stai spassando con la star di turno?”
“Ti giuro che se non fosse che non sono violenta ti avrei già picchiato” sibilò la ragazza, senza più trattenere la rabbia. Non le importava più.
“E soprattutto non voglio creare guai a Izzy perché gli stronzi come te li conosco, ci ho passato la mia vita: siete tutti uguali, tutti convinti di avere il mondo ai vostri piedi, tutti presi dal vostro ruolo di padrieterni, dimentichi di essere poco più di niente.” spense la sigaretta sul gradino, con un gesto secco.
Probabilmente, il segno della bruciatura sarebbe rimasto per parecchi giorni
“Quindi ti dirò che si, faccio sul serio, e non sono una puttana che pensa solo a spennare il suo pollo. Ma giuro, giuro su tutto quello che ho di più caro che se ti sento dirmi una cosa del genere un’altra volta ti prendo a schiaffi fino a farti girare la testa sul collo, sono stata chiara? Posso capire di starti in culo, non saresti il primo a cui non sto simpatica, ma c’è un limite oltre il quale non puoi azzardarti a spingerti. Non mi conosci, non sai un cazzo di me. E passi. Ma venire a darmi della puttana, dopo cinque fottuti mesi che sto con quello che definisci il tuo migliore amico, è troppo anche per te, Axel. Intesi?”
“Grazie per la sigaretta.” sorrise sarcastico, imperscrutabile, allontanadosi.
I suoi passi sfumarono lentamente, fino a quando il silenzio della notte non l’abbracciò nuovamente.
Con un movimento furtivo, si asciugò quell’unica lacrima che non era riuscita a trattenere e urlò una bestemmia al cielo, affondando poi il viso tra le braccia, la fronte contro le ginocchia.
Cosa avesse fatto per sentirsi dire una cosa del genere, non lo sapeva.
Pur sapendo che nemmeno una delle accuse che si era sentita fare era vera, non riusciva a reprimere la delusione.
E la tristezza: sin da quando aveva iniziato a seguire i Guns n’ Roses, Axl era stato per lei una sorta di idolo, molto più degli altri.
Era quello che aveva sperato di conoscere, quello su cui aveva fantasticato per intere notti immaginando lunghe chiacchierato notturne, risate e cazzate.
E invece no. Invece lui non era altro che uno stronzo egoista, l’esatto opposto di quello che aveva immaginato.
Tuttavia, non sapeva se era per questo che piangeva o per il timore che le cose, da quel momento in poi, si sarebbero complicate non poco.

Quando Izzy la raggiunse, mezz’ora dopo, preoccupato per la sua scomparsa, era ancora lì, con il volto rigato dalle lacrime più amare che avesse mai pianto in vita sua.
Si sentiva come se tutte le stelle del cielo stessero spegnendosi per non accendersi mai più.

 

 

But I fear
I have nothing to give
I have so much to lose here
In this lonely place
Tangled up in your embrace
 

Sara McLachlan, Fear

 

“Roxy, eccoti qui!” esclamò il chitarrista, scorgendo una minuscola sagoma scura rannicchiata sui primi gradini del sottopassaggio.
La luce della luna le scivolava sui capelli, colorandoli d’argento, e sulla schiena, disegnando l’ombra delle scapole e delle vertebre che sporgevano appena.
Sorrise, anche quando lei non si voltò e rimase immobile, il viso nascosto tra le braccia, e le si sedette accanto, ignorando quella sigaretta schiacciata con forza sul cemento, esattamente dove Axl si era seduto.

“Ehi, che ci fai qui fuori?” le disse piano, scostandole i capelli per cercare di sbirciarle il viso.
Lei si scostò, trattenendo un singhiozzo “Scappi di nuovo, Roxanne?” la prese in giro.
La ragazza, questa volta, non seppe trattenere il singulto che risuonò quasi tetro nella notte limpida.
Izzy s’irrigidì.

“Perché piangi, piccola?” le chiese tirandola a se, racchiudendola nel suo abbraccio.
Era gelida, nonostante il caldo della notte.
“Cosa è successo? Paura di invecchiare?” continuò a parlarle dolcemente, accarezzandole i capelli e la schiena per cercare di calmarla.

“... sono- sono u-un disastro” mormorò alla fine la ragazza con la voce rotta, sollevando il volto dove le lacrime avevano sciolto il trucco che le cerchiava gli occhi, disegnando lunghe righe nere sulle sue guance.
Il chitarrista le cancellò con i pollici, sorridendole.

“Che dici! Tu non sei un disastro. Al massimo sei un impiastro, ma un impiastro adorabile.” le baciò la fronte, sentendosi il cuore lacerato da quel pianto di cui ignorava la causa. Roxanne scosse il capo.
“No. So-sono un disastro, ho-ho rovinato t-tutto e...” un singhiozzò mozzò la frase a metà.
“E...?” la spronò a continuare gentilmente.
“E o-ora ha un buon... buon motivo-o per o-odiarmi” nascose il viso contro il petto del ragazzo, inspirando a fondo il suo profumo intenso, mescolato all’odore amaro del tabacco. Ci mise poco a capire a chi si stesse riferendo.
“Axl.” commentò atono, fissando un punto indefinito davanti a se “Cosa ti ha detto?”
“Non.. no-n voglio ripeterlo” le lacrime si era fermate, solo la voce incerta rimaneva a testimoniare lo sfogo.
“Dimmelo, per favore. O dovrò chiederlo a lui” tornò a guardarla: aveva gli occhi sgranati, enormi. Si pentì immediatamente del tono che aveva usato e cercò di rimediare “E allora lui mi propinerà una balla per incasinare tutto.”
“Mi ha dato della puttana.” cedette alla fine, abbassando lo sguardo.
Si impose di tenere la voce ferma.
“Indirettamente, ovvio. Mi ha chiesto se non ti stessi solo prendendo per il culo, usandoti, per poi lasciarti con il cuore a pezzi.” le parole sfumarono in un brusco silenzio. Rialzò gli occhi su di lui che, per quanto si mostrasse impassibile, era furente.

“Ora lo faccio nero.” sibilò infatti dopo qualche attimo, tornando a guardarla. Lei scosse il capo, mesta.
“No, Izzy, no ti prego.”
“Perché no?” le chiese lui “Non deve neanche azzardarsi a dire una cosa del genere. Lui, poi... coglione, questo è troppo.” Fece per alzarsi, ma lei lo trattenne, circondandogli la vita con le braccia.
“No, no.” ripeté.
“Perché no, Roxanne?”
Lei inspirò a fondo, lottando contro l’impulso di lasciarlo andare a fare una cazzata per paura di perderlo.
“Perché,” disse alla fine,  "gli amori vanno e vengono... no, stammi a sentire.” lo bloccò, vedendolo pronto a ribattere “Gli amici rimangono. Io non voglio che per colpa mia tu perda il tuo migliore amico! Il cielo non voglia, ma se un giorno noi due ci dovremmo... ci... ci lasceremo, te ne pentiresti. Ed è inutile che adesso mi dici il contrario, Izzy, sarebbe una balla bella e buona. Quindi ti prego, ti scongiuro, non lo fare! Lascia correre, gli insulti gli tollero a lungo andare, ti prego.. ti prego, ti prego..”
Rimase immobile.
Era la prima volta che si sentiva fare un discorso del genere, la prima volta che vedeva la vittima difendere il torturatore.
Si sarebbe lasciata insultare, avrebbe lasciato che il cantante le rendesse la vita un inferno e l’avrebbe fatto solo perché sapeva quanto quell’amicizia era importante per lui. Dovevo molto ad Axl.
Più di quanto la ragazza avesse potuto immaginare, e lei forse lo aveva intuito, sfiorando la superficie di un baratro senza fine. Trattenne il respiro.
Era il sacrificio più amaro, quello che non si sarebbe mai azzardato di chiedere, quello che poteva solo sognare per poi svegliarsi inorridire.
Sacrificare se stessi, la propria dignità, la propria tranquillità, per qualcun altro.
Fu un attimo: il cuore gli si gonfiò d’amore in petto, al punto che temette scoppiasse per il troppo sentimento, mentre dalla bocca gli uscivano quelle parole che per tutta la sera aveva avuto paura di dire.

“Ti amo, Roxanne May.”
Un sussurro, la pesante certezza che era davvero come diceva, che l’amava e che l’avrebbe amato fin tanto che l’aria avrebbe riempito i suoi polmoni, fino a quando avrebbe avuto la forza per poterlo fare.
Ne fu spiazzato, tanto quanto lei che sollevò una mano fino ad incrociare il suo polso, tirando verso il basso.
Docile, Izzy si sedette sul gradino.
“Io ti amo” ripeté con più decisione fissando il nulla “Io, oh, se ti amo! Roxanne io...” si voltò a guardarla, il volto serio nella morbida oscurità della notte, gli occhi lucidi e ormai privi di trucco, la bocca increspata dalla sorpresa.
La sorpresa di chi ha quasi smesso di credere e osa a malapena sperare e, improvvisamente, vede le sue preghiere esaudite.

“Roxanne, ti amo.” le disse per l’ennesima volta, chiudendo gli occhi quasi per confermare che si, era realtà, non si stava immaginando tutto, che quando li avrebbe riaperti lei sarebbe stata ancora lì, solo per lui. “E voglio, voglio che tu venga con me quando partirò per la nuova tourneé.”

 

PARLA IZZY:

Capita, alle volte, che i miei pensieri volino a sfiorare ricordi lontani.
Che la mente vaghi, alla ricerca di nemmeno io so cosa.
Ed è in quei momenti che il tuo ricordo si fa talmente vivido da risultare doloroso, quasi insopportabile.
È come avvertire la presenza di qualcuno senza però riuscire a scorgerlo nella folla: frustrante.
Regolarmente, vedo te sotto la luce della luna di quella notte, sai?
Dio, non ti vidi mai bella come in quel momento.
Brillavi, letteralmente,nonostante gli occhi lucidi di lacrime e il naso arrossato.
Eri tutto quello che avevo sempre sognato.
E il pensiero che ti lasciai andare quando iniziai a scappare dal mondo che crollava attorno a me non mi da tregua, nemmeno quando vado a cacciare tutte quelle piccole cose che mi regalasti nel corso degli anni, per lenire il mio dolore.
Sorrisi, risate, emozioni, fotografie.
Dimmi, Roxanne, all’Underpass c’è ancora la foto che scattammo quella sera?
È ancora incorniciata sopra il bancone, assieme a quella di tutte le band che hanno calcato quel piccolo palco nel corso degli anni?
Riesco ancora a ricordare il momento: saranno state le sei del mattino, o giù di lì, e tu eri sul palco assieme a Steven.
Stavate improvvisando Mercedes-Benz, della Joplin, ma non ne usciva fuori nulla perché ridevate troppo tanto facevate schifo: lui troppo ubriaco di sonno e dio solo sa che altro per capire quello che tu gli dicevi circa il rithm, una scena che non avrei mai creduto potesse più ripetersi nel corso degli anni e che invece ha cambiato le nostre vite, e tu, con la tua voce troppo bassa per prendere quelle note roche.
Slash fumava e fumava e fumava assieme a me e a Axl, parlando di una tale Perla che aveva conosciuto tempo fa.
Fu lì che arrivò Alec, il tuo capo, con una vecchia Leica e ci disse di salire tutti sul palco.

Ci stringemmo tutti attorno a voi due, che avevate le lacrime agli occhi tanto ridevate, e vi reggevate a malapena in piedi.
Ricordo che eri calda quando ti strinsi a me, come se fossi rimasta per delle ore sotto il sole, e che ti alzasti in punta di piedi per baciarmi una guancia.
E in quel momento, il click della foto scattata.
“Un’altra, un’altra!” gridasti entusiasta, passando un braccio oltre la vita di Steven e sorridendo all’obbiettivo.
Il risultato fu una foto in bianco e nero di noi cinque, con un piccolo folletto completamente pazzo e incredibilmente divertito nel mezzo.
È una delle foto più belle che abbiamo mai scattato, per quanto mi riguarda.
Ma sono dell’idea che la penso così solo perché, in quella foto, sono veramente felice.
Come mai lo ero stato in vita mia.
E questo perché, neanche un’ora prima, mi avevi detto di si.

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Capitolo 8
*** Trouble in heaven ***


HAND IN GLOVE
#7 TROUBLE IN HEAVEN

 

 

PARLA ROXANNE:

Il tempo non si ferma mai.
Non arresta mai il suo incessante scorrere, non si blocca mai per pietà di chi subisce il suo influsso.
Il tempo, come mi dicevi quando la notte mi stringevi tra le tue braccia, è il più terribile dei tiranni.
Non concede tregua, non sa cosa sia un armistizio, aborrisce la pace.

Il tempo, mi sussurravi tra i capelli mentre lottavo per non scivolare nel sonno, esiste solo per combattere con noi una guerra che finirà solo con la nostra capitolazione.
Puoi provare a ingannarlo, dicevi, puoi provare ad addomesticarlo, ma non potrai mai vincerlo.
La cosa brutta, Izzy, è che con il passare degli anni il tempo gioca brutti scherzi.
Il peggiore tra tutti, è la confusione.
È la sua mano che si infila fra i tuoi ricordi e i tuoi sogni e li mescola, fino a confonderli gli uni con gli altri.
E chi può dire adesso se quel pomeriggio, passato in un campo di grano poco fuori la vostra LaFayette, io lo ho solo immaginato o c’è stato davvero?
Chi può dire se Axl mi dedicò davvero I think about you, quando i rapporti tra voi due andavano sempre più deteriorandosi, cercando in tutti i modi di arginare la crisi?
Chissà se davvero, durante uno dei vostri ultimi concerti tutti assieme, ho ballato con Steven sulle note di Patience o se lo ho solo sognato in una delle tante notti in cui siamo stati separati.
Chi, chi può restituirmi quelle che erano certezze?
È una sensazione orribile, frustrante.
È non saper più distinguere il vero dal falso, è il vivere in un limbo di mere illusioni e fragili verità.
È il motivo per cui, a lungo andare, la gente smette di sognare.
Si rifiuta, semplicemente, di prolungare un’agonia che non trova fine, è il sacrificio che cerca di allontanare sempre più la resa perché tutti sanno che quando il confine tra sogni e ricordi crolla del tutto, allora il tempo sta per mietere una nuova vittima.
Nessuno vuole morire e per questo si smette di sognare, ecco tutto.

 

Kick me down
with broken bones
you picked a fight
now stand your ground.
 

Velvet Revolver, Spectacle.

 

NEW YORK’S RITZ, 2 febbraio 1988

Roxanne era schiacciata contro il palco da una forza che nessun fisico e nessun matematico sarebbe ma stato in grado di imbrigliare in una formula complicata da mandare a memoria a scuola.
L’euforia che impregnava l’aria era inebriante, palpabile, densa come miele e altrettanto dolce.
Stordita, allungò le braccia sul palco ancora vuoto, socchiudendo gli occhi: mancava una mezz’ora buona prima dell’inizio dello spettacolo, e lei avrebbe potuto essere dietro le quinte, assieme a loro, a ridere e scherzare.
Avrebbe potuto essere assieme a Mandy, Erin e qualche altra ragazza con cui aveva scambiato al massimo due parole in croce, in quei due mesi di viaggi, concerti e sbronze colossali.
Quasi rimpiangeva quel “no” categorico che aveva urlato quando Izzy le aveva detto di poter rimanere sul palco, assieme ai tecnici, e guardare lo spettacolo da lì.
“Mai sei impazzito o cosa?” aveva strillato offesa, svegliando bruscamente Slash che si era appena addormentato accanto a lei, i riccioli e il viso abbandonati sulla sua spalla “E io dovrei guardarvi da dietro le quinte e perdermi il bello? Amore, lasciatelo dire ma non hai capito un cazzo di me, eh!”
Inutile dire che Slash aveva apprezzato poco il suo spirito da fan che non rinuncia alla ressa per amore della musica e dei concerti passati in mezzo alla gente, guardandola torvo e andandosene a dormire da un’altra parte.

Si era offesa, constatò con un mezzo sorriso mentre posava le mani sul palco e allungava le braccia, per allontanarsi quel tanto che bastava per permettere ad un po’ d’ossigeno di riempirle i polmoni.
Era come se stesse sostenendo sulla schiena la pressione di una cascata che precipita giù da un monte. Non una cosa nuova, non era certo il primo concerto a cui partecipava, ma una tale intensità non l’aveva mai sperimentata.
Il fiato le morì in gola quando si ritrovò spinta contro il palco, il duro ferro conficcato nel petto.
E mancava appena mezz’ora all’inizio del concerto, dio solo sapeva cosa sarebbe successo dopo.
Gemette, sconfortata, massaggiandosi lo sterno, e scoccò un’occhiata quasi di sfida in direzione degli amplificatori, dove immaginava si nascondesse il sorriso trionfante di Izzy. Ma non c’era nulla, a parte quella lunga fila di cassoni neri con sopra scritte argentate, illuminate dai fari quasi arancioni.
Marshall, per lo più. Cercando di assecondare le spinte alle sue spalle, come un’alga abbandonata alla marea, si stupì nel pensare come il tempo era stato veloce. Inclemente. Aveva strappato via i giorni come fossero erbacce in un giardino che contempla solo la maestosità dei secoli.

 

All of my memories
Keep you near
It's all about us.
 

Within Tempetation, Memories.

 

Erano partiti da Los Angeles alla fine di gennaio, a bordo di un enorme pullman trasformato per l’occasione in una sorta di casa ambulante.
Quando l’aveva visto, Roxanne aveva sgranato gli occhi e si era messa a saltellare su e giù tra i due tavoli e le due file di cuccette dove avrebbero dormito da lì a due mesi, salvo per le soste in città, dove sarebbero andati in albergo.
Era come se, solo respirando l’aria all’interno del mezzo, avesse finalmente realizzato che partiva sul serio, che la promessa di Alec di riavere il suo posto al suo ritorno non se l’era sognata, che sarebbe stata parte di quella meravigliosa chimera che erano le tourneé.
Che era reale, che non era un sogno.
L’entusiasmo l’aveva travolta al punto che non era stata capace di contenerlo e lo aveva liberato, contagiando chiunque le si fosse avvicinato per capire cosa avesse.
“Parto con i Guns, parto con i Guns!” aveva cantilenato prendendo un malcapitato Slash per le mani e saltellando in tondo con lui, in un buffo girotondo che muoveva solo lei. Il chitarrista si era ritirato all’istante, non appena lei lo aveva lasciato libero per buttarsi su Steven, che era stato più collaborativo.
Complice, probabilmente, la notevole quantità di droga che si era sparato in vena.
“Andiamo in tourneé, andiamo in tourneé!” avevano cantato sotto gli sguardi sbalorditi del resto del gruppo e del loro menager che, con un sospiro, aveva tirato una manata sulla spalla a Izzy, come a dirgli che se l’era cercata lui.
Ma dal canto suo, il chitarrista era ancora troppo stupito per poter reagire in alcun modo a quella dimostrazione di felicità.
Il semplice fatto di averla lì aveva il sapore di un piccolo miracolo.
E anche quando il mal d’auto –ogni volta finiva così, l’idea che bere a stomaco vuoto e poi viaggiare in pullman erano un pessimo binomio non lo sfiorava nemmeno- lo aveva costretto a viaggiare disteso, con la testa sulle gambe di Roxanne e una bacinella stretta tra le braccia come fosse un orsacchiotto, gli era sembrato tutto assolutamente perfetto.

Erano stati giorni assurdi, ricordò Roxanne con un sorriso mentre si faceva accendere una sigaretta da una ragazza incredibilmente magra che le era franata addosso qualche minuto prima.
Bionda, occhi azzurri, bandana in testa e ray-ban a specchio: avrebbe potuto tranquillamente essere la sosia al femminile di Axl. Abbozzò un sorriso, ascoltando la sua parlantina sciolta, e le venne in mente Duff.
Lo stesso modo spigliato di confrontarsi con il mondo, quel misto di sconsideratezza e malizia che gli brillavano negli occhi, il sorriso aperto.
Certo, da ubriaco era tutta un’altra cosa, lo aveva visto ridursi a una sorta di vegetale nel giro di un’ora, più di una volta, per poi ritrovarselo il mattino dopo sveglio e pimpante come se nulla fosse, spazzolino in una mano e Jack Daniel’s nell’altra.
Come quando erano arrivati a Boston. La sera stessa, dopo ventinove ore di pullman passate a pizzicare le corde di una vecchia chitarra acustica e a dormine, Duff aveva ritrovato tutta la sua energia nell’esatto istante in cui aveva messo piede nella hall dell’albergo: aveva afferrato Mandy, la sua ragazza, con una mano e Slash con l’altra, annunciando che era ora di far festa.
E non c’era stato verso di dissuaderlo, uno dopo l’altro erano tutti capitolati e si erano ritrovati in una suite troppo costosa e troppo bianca a bere e fumare.
Ancora stravolto dall’ultimo concerto, Izzy era crollato subito e Roxanne aveva colto la palla al balzo per fuggire da quella Hellhouse in miniatura e nascondersi in una stanza molto più piccola –e economica- qualche piano più sotto, trascinandosi dietro il suo ragazzo, ubriaco fradicio.
Lo aveva guardato dormire, rannicchiato su un fianco e con una mano sotto la guancia, il viso finalmente disteso.

“Chissà quando iniziano!” si stava intanto lamentando la biondina, bevendo un sorso di birra “Spero presto, se non torno entro domani all’alba sono dannatamente fottuta. Ho detto i miei che andavo al solito club e invece ho fatto quasi mille miglia con un’amica solo per vedere Axl” la ragazza ridacchiò “Dici che se provo a salire sul palco mi nota?”
Roxanne trattenne una risata.
Erano più o meno la ventesima ragazza che le faceva la stessa domanda, ad ogni concerto ce ne era almeno una con quel chiodo fisso.
E a farla ridere, era anche il pensiero che lei per prima lo aveva avuto.

“Non si può mai sapere,” commentò sibillina, “potrebbe essere che riesci a fartelo, per una sera” la fiamma dell’accendino guizzò rapida, illuminando l’espressione incredula della giovane davanti a lei.
“Ma...” balbettò a fatica, senza riuscire a prendere in considerazione l’idea “Ma... e Erin??”
La mora fece una smorfia, la sigaretta tra le labbra, raccogliendosi i capelli in una coda alta.
“Erin vede solo quello che vuole vedere” abbozzò un sorriso “E so per certo che più di qualche ragazza riesce a saltare nel letto di Axl senza che cada il mondo. Ce ne è una poi, tale Jackie, che è quasi un abituale...” agitò una mano in aria, disegnando una spirale di fumo e pensando a quella biondina magrissima che aveva incrociato di sfuggita nel corridoio di un albergo a Seattle.
Riusciva solo a ricordare i suoi occhi tristi e i movimenti nervosi delle mani.
Gettò un’occhiata all’altra, vicino a lei, che sembrava pendere dalle sue labbra, e sogghignò.
Quella si scosse, sbattendo le palpebre.

“E tu come sai tutto questo?” indagò sospettosa. Roxanne si strinse nelle spalle e sorrise candidamente.
“Ho le mie fonti” ridacchiò, e in quel momento le luci si spensero di colpo e cinque ombre comparvero sul palco.
“Please welcome” strillò una voce sul palco, mentre Axl stringeva tra le mani l’asta del microfono “The L.A hardest band: Guns-and-Roses!”

 

And they make me
Make me dream your dreams
And they make me
Make me scream your screams
 

Muse, Showbiz.

 

Fu come dar fuoco ad una miccia troppo corta: l’intera sala esplose in un urlo che fece tremare le pareti e il pavimento sotto i piedi di Roxanne, che si ritrovò sballottata a destra e a sinistra da una marea incontrollabile.
I riflettori si accesero sfarfallando, inondando di luce i cinque musicisti che avevano occupato il palco: al centro, Axl fissava il pubblico nascosto dietro le lenti a goccia di un paio di occhiali da sole, un’enorme bandana in testa e un’orrida giacca di finto pitone addosso.
Il cantante sfoderò il suo miglior ghigno sarcastico, che sollevò un’ondata di gridolini estasiati.

It’ so easy.
Roxanne storse la bocca, nel vedere come Izzy si agitava sul palco, con un entusiasmo che non era suo: come ogni volta che si faceva, o che pretendeva di muoversi di più, senza limitarsi a suonare e basta come suo solito, era terribilmente sgraziato, al contrario di Slash e Duff che, bene o male, riuscivano sempre a fare la loro bella figura.
Allontanò quei pensieri con una risata, alla vista degli assurdi capelli di Steven.
Erano letteralmente esplosi, diventando un enorme cespuglio biondo.
Peggio di quelli di Slash, urlò ad un incredulo Axl che la guardò malissimo, mentre le sfilava davanti stringendo a casaccio qualcuna di quelle mani protese verso di lui.

Lo ascoltò ringraziare MTV e incitare la folla ad urlare più forte, lo vide accontentato quando le urla si levarono così forti che per un attimo la sua voce ne fu sovrastata, tornando udibile solo per annunciare la canzone successiva.
Mr. Brownstone.
Fu durante il ritornello che Roxanne si convinse ad abbandonare ogni pensiero e tentò di lasciarsi trasportare dalla musica, urlando e saltando, fagocitata dall’euforia generale e dai movimenti di quella folla che si agitava come una piovra impazzita, allungando i suoi tentacoli tutto attorno al palco nel vano tentativo di stringerlo in una morsa ferrea e strappargli quei cinque ragazzi, la causa di quel caos che non aveva nulla di umano.
Si sgolò, abbracciando la biondina e saltando assieme a lei sul ritmo della canzone, provando di convincersi che preoccuparsi era solo uno spreco di tempo, come cantava Axl: era lì per divertirsi, tanto valeva farlo come si deve.
Ma qualcosa, che non riusciva a capire e ad identificare, continuava a ronzarle in testa. Infastidita, urlò più forte.

Out ta get me.
Izzy iniziava ad avere veramente caldo.
Le luci dei riflettori erano insopportabili, e non solo perché gli impedivano di vedere le facce di chi si ammassava sotto il palco: era come nuotare in una vasca piena d’acqua bollente.
Soffocante.
Inspirò a fondo l’aria rovente, satura del fumo delle sigarette che tanto lui quanto Slash avevano fumato, sfiorando le corde con decisione e buttando un’occhiata alla folla: niente.
Era come se alla fine del palco fosse stato fatto calare un sipario, a tratti nerissimo e a tratti bianco accecante, riusciva solo a sentire le urla passare oltre quella bizzarra cortina. Sbuffò.
Non gli piaceva suonare in posti da dove era impossibile vedere qualcosa, e non solo perché la faccia stravolta di Roxanne aveva un qualcosa di vagamente eccitante: il pubblico era la parte appagante del suo lavoro.
Vedere i sorrisi, vederli saltare.
Vederli sognare i loro sogni, vederli urlare le loro urla.
Si stava perdendo il più bello, e la cosa non lo metteva di buon umore.

Sweet child o’mine.
Roxanne era letteralmente piegata in due: le spinte che le arrivavano in schiena erano talmente forti che alla fine aveva ceduto e si era ritrovata con il busto premuto sul palco, in un’angolazione tale che aveva una perfetta visuale delle scarpe di Duff, Slash, Axl e Izzy.
Steven non riusciva a vederlo, ma lo sentiva fin troppo bene: ogni colpo contro le pelli della batteria era un vibrare del pavimento sotto di lei, un movimento da assecondare per non rimanere schiacciata da quel fiume in piena.
La biondina accanto a lei urlava come se fosse impazzita, saltando di qua e di là senza sosta con un’energia tale che la ragazza sorrise: anche lei era così, quando la musica la prendeva completamente.
Quella sera, invece, non riusciva a lasciarsi andare come al solito.
Colpa del posto?
Colpa del palco conficcato nel suo stomaco?
Provò a sollevarsi, ma una manata tra le scapole la spinse di nuovo giù.
Le sfuggì un urlo, che si perse nella ressa e nella confusione, e chiuse gli occhi.
Non aveva mai odiato così tanto quella benedetta canzone.

My Michelle.
La sua preferita, pensò Izzy con un sorriso, mentre Axl rubava qualche minuto parlando con il pubblico.
Duff gli si fermò accanto.

“Caldo del cazzo.” lo sentì brontolare, facendosi aria con una mano.
“Ringrazia che hai quella maglia addosso.” commentò cupo il chitarrista.
Il bassista ghignò, guardando la camicia a maniche lunghe e il panciotto che il chitarrista indossava.

“Scommetto che ti sei messo quella roba per lei.” insinuò divertito.
"Mh."
“Morirò giovane per causa tua, Izzy. Non solo ti sei rincretinito da morire, ma sei pure arrossito. Scommetto quello che ti pare che mi hai fatto venire il diabete.”
“Pensa a suonare, Duff, pensa a suonare..” gli intimò Izzy riacquistando un po’ di autocontrollo e ringraziando Slash per essersi messo ad improvvisare una bizzarra intro per la canzone.
Duff gli passò accanto lanciandogli un’occhiata che non aveva bisogno di parole per esser spiegata e si buttò sulla melodia, pizzicando dolcemente le corde del suo basso.
Il chitarrista, invece, guardò inquieto il pubblico: ancora non riusciva a vedere Roxanne.
Eppure era sicuro fosse da qualche parte sotto il palco.
Solo quando la musica esplose di nuovo, in tutta la sua intensità, vide una ragazza piegata in due sul palco: capelli sciolti, una maglietta nera troppo grande per lei.
Quella stessa maglietta che avrebbe riconosciuto tra mille perché era sua, la stessa che lei gli aveva preso con una linguaccia dicendogli che così sarebbe stato come guardare il concerto abbracciata a lui, causando un eccesso di risate e zuccherro nel sangue di Duff, che aveva assistito alla scena.
Era alla sua destra, e sembrava urlare. O stava cantando?
Con la faccia praticamente schiacciata ai piedi di Duff?
No, decisamente non stava cantando.
Non sembrava nemmeno divertirsi, quando reclinò il collo all’indietro e mostrò ai riflettori il volto contratto in una smorfia.
Continuò a suonare, pensando stupidamente a non perdere il ritmo, gettandole di tanto in tanto qualche occhiata, indeciso sul da fare.
Doveva mandare qualcuno a recuperarla? Adesso era immobile.
Solo al primo ritornello, quando Duff gli sfrecciò accanto per fiondarsi sul microfono, si accorse delle occhiate di Slash.
Gli si avvicinò solo quel tanto che bastava per sentirsi dire un tirala fuori di lì subito cazzone piuttosto perentorio e non ebbe bisogno di altro: tornò indietro di corsa e, fermato il primo tecnico fermo ai lati del palco, gli urlò di recuperare la sua ragazza.

“Chi?!” gridò in risposta il ragazzo, senza capire.
“La mia ragazza! Roxanne! Piccola, magra, capelli scuri, maglia nera e se non muovi quel culo del cazzo presto sarà pure tagliata a metà dal palco!” ruggì il chitarrista, prima che un verso cantato con particolare ferocia da Axl lo richiamasse al centro della scena.
Knockin'on heaven's door.
Roxanne riaprì gli occhi mentre Axl giurava di non poter più prendere in mano una pistola e puntarla contro qualcuno.
Tossì un paio di volte, inspirando l’aria satura di fumo e cercò di mettersi seduta.
Una pezza bagnata le scivolò via dalla fronte, cadendole in grembo: dove diavolo era finita? Sul fatto che non fosse più in mezzo alla ressa, non ci pioveva sopra.

Era su un divano sfondato, dal colore indistinguebile nella penombra, e, vicino a questo, c’era un tavolino con sopra una bottiglietta d’acqua mezza vuota.
Inorridendo all’idea di essere finita in una sorta di pronto soccorso temporaneo, cercò di fare mente locale.
L’ultima cosa che ricordava erano Duff e Izzy sul palco, vicini.
Era quasi sicura si stessero parlando, ma non poteva dirlo con certezza dal momento che aveva visto solo i loro piedi.
Poi era iniziata My Michelle e neanche al primo ritornello qualcuno le era franato addosso facendole letteralmente vedere le stelle.
Poi quelle si erano spente e si era ritrovata lì.
Ma non poteva essere un pronto soccorso temporaneo, allestito in fretta e furia: non c’erano i soliti infermieri rompi scatole e sentiva fin troppo bene la musica.
Sbuffando, allungò le gambe davanti a se.

“Ah, ti sei svegliata.”
La voce la colse alla sprovvista, facendola sobbalzare: una porticina si era aperta, facendo cadere sul pavimento una lama di luce tremula, intermittente.
Sulla soglia era ferma una sagoma femminile che riconobbe subito.

Erin.
Si trattenne dal chiederle se si divertiva a provocare infarti alla gente, comparendo all’improvviso, scegliendo invece di alzarsi in piedi e raggiungerla
“Vieni,” le disse con un sorriso mesto, “o impazzirà, se non ti vede tutta intera, e il povero disgraziato che ti ha portato qui passerà un brutto quarto d’ora.”
Welcome to the jungle.
Izzy era nervoso.
Non solo sfuggiva alle telecamere più del suo solito, ma continuava a gettare occhiate a quello spiraglio scuro dove si ammassavano i tecnici, un nugolo di persone pronte a scattare ad ogni minimo accenno di problema, nella speranza di scorgere, oltre a Mandy, Erin e Perla, anche Roxanne, magari un po’ sbattuta ma sorridente.
Forse non ho minacciato abbastanza quel coglione, si disse ignorando le mosse da perfetta porno star di Axl, che mandarono in completo e totale visibiglio la parte femminile del pubblico.
Gli occhi verdissimi del cantante brillavano, e non solo della luce dei riflettori: era nel suo elemento e chiunque se ne sarebbe accorto.
Stare accanto a lui in quel momento era impossibile, continuava a saltare su e giù, ballava, strillava, si contorceva e miagolava come fosse in preda ad un orgasmo.
Izzy si chiese con che coraggio stessero trasmettendo il concerto in televisione, era uno spettacolo che sfiorava l’indecenza.
Rimase accanto a Steven, mentre Duff, Slash e Axl si esibivano in cima al palco, rischiando di essere afferrati da una di quelle mille mani che si allungavano verso di loro, continuando a guardare alla sua destra con tanta insistenza che il batterista, nonostante l’alcol e la droga, gli urlò di darsi un calmata.
Lo guardò stralunato e scosse il capo.

“Non c’è un cazzo da stare tranquilli!” ruggì al biondino, che in tutta risposta sgranò i suoi enormi occhi azzurri e lo guardò come se non avesse detto nulla, scrollando le spalle. Il chitarrista sospirò: era inutile.
Aveva la gola chiusa da un nodo e al solo pensiero che le fosse successo qualcosa gli si riempivano di lacrime gli occhi.
Se solo avessi insistito un po’ di più, si rimproverò aggrottando la fronte, se solo non l’avessi lasciata stare lì sotto.

“Giuro che lo ammazzo, quel coglione.” sibilò non appena la canzone giunse al suo termine.
Ringraziò silenziosamente il cielo, quando Axl annunciò che avrebbe fatto una piccola paura, e corse verso le quinte, lasciandosi inghiottire dall’oscurità.

“Tu davvero credi che sarebbe capace di fare una cosa del genere?” stava chiedendo nel frattempo Roxanne, un fianco appoggiato contro una colonna di implificatori.
Erin, accanto a lei, ridacchiò, seguendo con gli occhi i movimenti di Axl sul palco.
Il suo sorriso, per quanto triste potesse essere, non si era incrinato nemmeno quando una voce femminile – che Roxanne aveva immediatamente associato alla biondina con cui aveva parlato all’inizio del concerto - aveva urlato Axl I love you.

“Oh, io dico di si. Avresti dovuto sentire cosa ha promesso di fare al povero Mike se non ti avesse trovata!”
“Faccio fatica a..” s’interruppe, letteralmente travolta da Izzy che l’abbraccio con tanta forza da mozzarle il respiro.
“Grazie al cielo stai bene.” sussurrò il ragazzo, prendendole il viso tra le mani e guardandola negli occhi.
Non le diede il tempo di dire nulla, baciandola e abbracciandola di nuovo.
“Giuro che è l’ultima volta che ti lascio stare lì sotto, non ho mai avuto così tanta paura, non farmi preoccupare mai più così, ti prego. Intesi?”

E prima che Roxanne potesse avere il tempo di protestare o dire qualsiasi cosa era di nuovo sul palco, pronto a ricevere la sua pioggia di applausi: il cantante stava presentando uno per uno i suoi gunner, Steven “pop-corn” Adler, Duff “the king of beer” McKagan, Izzy “accanto a lui per dieci anni” Stradlin e Slash “mezzo uomo e mezzo bestia”.
All right, shut up” rise il chitarrista al microfono dopo il lungo discorso di Axl circa la sua natura, scuotendo il capo per allontanare una cascata di riccioli neri dagli occhi “Anyway, I'm gonna dedicate this song real quick. And I'm not gonna say anything offensive so that we can make it on TV. This is the song that is not dedicated to drinking or drug addiction or any of that kind of stuff. This song is basically about a walk in the park. This is something called...”
Nightrain.
Corse veloce, la canzone.
Spinta dal sollievo, spinta da un entusiasmo sempre crescente, spinta dall’ilarità della dedica di Slash che aveva piegato in due una buona metà dello staff, spinta da un’energia esplosa tutta d’un colpo, spinta dall’impazienza di correre dietro le quinte e bere un bicchier d’acqua per dare un po’ di sollievo alle gole ormai prosciugate di ogni singola goccia di saliva.
Ebbe a malapena il tempo di chiedersi come diavolo facesser Axl a cantare ancora nonostante le sue folli corse e i suoi folli balletti che già le note erano quelle del finale.
Era come se finalmente tutti i pezzi del puzzle fossero al loro posto, l’armonia era tornata, il fragile equilibrio che rendeva un live veramente buono si era ristabilito e li sovrastava con il suo sguardo benevolo.
Sorrise, scorgendo con la coda dell’occhio Roxanne intenta a cantare e a saltare accanto a una sorpresissima Erin.
Axl chiuse la canzone con uno dei suoi impossibili acuti, il viso contratto in una smorfia per la fatica e la stanchezza al punto che, per un attimo, Izzy credette dovesse fermarsi e riprendersi.
Ma non lo fece.
E lo spettacolo continuò nella notte.

Paradise city.
Roxanne urlò per la gioia ancor prima che Axl finisse di pronunciare il titolo della canzone, facendo trasalire vistosamente buona parte delle persone accanto a lei.
“Ma non ti stufi mai?” le chiese Erin, guardandola imitare il cantante.
“Di che cosa?” domandò a sua volta Roxanne, tenendo gli occhi chiusi e ondeggiando sul ritmo della chitarra di Slash, scandito dai rintocchi secchi della batteria.
“Di essere sempre così entusiasta, dopo due mesi di concerti. È sempre la stessa cosa, in fondo..” osservò.
La ragazza si immobilizzò, voltandosi a guardarla. I grandi occhi scuri erano sgranati, luminosi nella penombra.

“Ma... mi stai prendendo in giro per caso?” indagò, trattenendo il respiro.
L’altra scosse il capo.
“Oh santo cielo! Erin, è semplice: non mi stufo perché è impossibile stufarsi. Guardali!” allungò un braccio, indicando i musiciti sul palco “Sono i Guns! Sono quanto di meglio Los Angeles ha sputato fuori negli ultimi due, tre anni. Sono..” s’interruppe un attimo, guardando allibita Axl che impediva a Slash di cantare il ritornello accanto a lui. “Quell’uomo non è normale” commentò, mentre il chitarrista allargava le braccia sconsolato al gesto di conforto di Izzy, con cui ora divideva il microfono.
Erin sorrise, scrollando le spalle.

“E’ un gran egocentrico.” lo giustificò.
“No, è una primadonna isterica.” la corresse Roxanne, sfoderando un gran sorriso e soffiando un bacio a Izzy, voltatosi in quel momento a guardarla.
Lo vide curvare le labbra rapidamente, prima di tornare a suonare rivolto al pubblico.

“Comunque,” riprese Erin, passandosi una mano tra i folti capelli biondi, “non riesco proprio a capire come tu faccia a essere sempre così piena di vita durante i concerti e..” scoppiò in una vivace risata, guardando la ragazza accanto a lei intenta a saltare, a piroettare, del tutto incurante di qualsiasi parole non riguardasse il testo della canzone.
“Andiamo Erin!” urlò senza riuscire a sovrastare la confusione che rimbalzava da una parete all’altra, senza sosta “Lasciati andare! Chissenefrega se la canzone l’abbiamo sentita fino alla nausea, è splendida e rimane sempre tale! Dai!” tese le mani verso la bionda, che dopo un attimo di indecisione le strinse, lasciandosi andare in un girotondo sfrenato.
Quando la band le raggiunse, durante una breve pausa prima dei bis, stavano ancora ridendo, tenendosi la testa come a voler farla smettere di girare così vorticosamente.

“Visto?” esclamò Steven, puntando un dito contro Roxanne, rivoltò a Izzy “Sta benissimo. Una calmata potevi dartela tranquillamente!”
"Stevie, fino a dieci minuti fa non stava niente bene." replicò gelido il chitarrista, posando lo strumento sul divano sfondato e agguantando la bottiglietta d’acqua che la mora gli porgeva. Lei gli fece una linguaccia, andando ad abbracciare il batterista.
“Non è vero, stavo benissimo!” protestò allegramente “Ho avuto solo un attimo di smarrimento, ecco..e poi, mica è la prima volta che mi succede”
"Ah no?" s’informò il biondino, ricambiando l’abbraccio e scompigliandole i capelli.
Lei si dimenò, strillando.

“Steven, sei sudato da far schifo!” urlò saltando via, come un grillo impazzito, cercando conforto da Izzy, che si ritrasse.
“Ah no, cara, da me non avrai niente.” sorrise candidamente, scrollando le spalle.
Roxanne lo guardò, interdetta.

“Prego?” chiese inarcando le sopracciglia e posando le mani sui fianchi.
Alle sue spalle comparve Duff, ghignando.

“Eddai, lascialo in pace. Il poveretto è quasi mezzo morto d’infarto e tu lo tratti male..”
“Io non lo tratto male, io sono obbiettiva!”
“No, sei solo acida.” intervenne Axl, con un sorriso smagliante che fece scattare Roxanne come una vipera a cui si ha pestato la coda.
“Senti un po’ nanetto, come sarebbe una bella dose di cazzi tuoi dritta in vena?” lo aggredì irritata.
Dall’inizio della tourneé, il cantante aveva colto ogni occasione per offenderla.
Battute, frecciatine, veri e propri insulti.
Non si era risparmiato, nemmeno quando tutta la band gli aveva fatto notare che il suo comportamente era un po’ esagerato, oltre che fuori luogo.
L’unica che sembrava non darci importanza era proprio Roxanne, che si limitava o ad incassare i colpi o a rispondere a tono, senza mai lasciare che la situazione degenerasse.

Erin intervenne, con un mezzo sorriso, abbracciando Axl.
“E lasciala in pace, Axl, dai. Che ti importa?”
Slash roteò gli occhi, buttando giù un sorso di whiky.
“Siete più melansi del solito, fate schifo.” commentò burbero “Mi si stanno cariando i denti solo a sentirvi.”
“Concordo!” Steven annuì vigorosamente, tirando una poderosa manata sulla schiena del chitarrista riccioluto, dopo avergli tolto di mano la bottiglia.
Izzy affondò le mani nelle tasche dei pantaloni, curvando le spalle, una sigaretta tra le labbra.
“Sei l’emblema della felicità.” gli disse sarcastico Duff. Il ragazzo lo guardò male, mentre Roxanne scoppiava in una risata, in risposta ad una battuta di Slash.
Il bassista scrollò le spalle, lasciandolo solo.
Una delle prime cose che aveva imparato di Izzy era che, quando era arrabbiato, la cosa migliore da fare era lasciarlo solo.
Tanto meglio, si disse inghiottendo una generosa sorsata di liquore, perfetto per la prossima canzone.

Mama Kin.
E in effetti, Izzy non suonò mai Mama Kin tanto bene come quella sera.
Sentiva la canzone pulsargli nelle vene assieme alla rabbia.
Scorreva assieme al suo sangue, lasciandolo stordito e senza fiato, capace solo di correr dietro alle urla che originalmente erano stato di Steven Tyler.
Perché fosse così arrabbiato, poi, non lo aveva ancora capito.
Si era irritato per l’atteggiamento sconsiderato di Roxanne o per il modo in cui Steven l’aveva abbracciata?
Da quando poi, era così geloso? Di Steven, poi!
La creatura più innoqua nel raggio di un migliaio di miglia, l’unico con cui avrebbe lasciato la sua ragazza senza sentirsi attanagliato da una strana ansia, cosa che succedeva puntualmente quando si trattava di farla stare per anche solo cinque minuti sola con Slash o Duff.

Sbuffò, aggirandosi inquieto sul palco ed evitando accuratamente di guardare, anche solo di sfuggita, in direzione di Erin e Roxanne, che immaginava sedute per terra, occupate in una fitta chiacchierata.
Era sicuro che non stesse ballando o cantando, ricordava perfettamente il giorno in cui l’aveva vista storcere la bocca in una smorfia, nel sentire la canzone sulla radio.
Non mi piace, Izzy, aveva detto aggrappandosi al suo braccio come una scimmietta, mentre camminavano lungo le strade di Nashville, non è vostra. Non mi convince più di tanto.
Lui aveva scrollato le spalle, senza dare troppa importanza alla cosa, e aveva lasciato correre.
Da allora, però, aveva notato che ogni volta suonavano Mama Kin, Roxanne si fermava e riprendeva fiato, per quanto fosse possibile farlo.

Slash gli sfrecciò davanti, il torso lucido di sudore illuminato dalla luce bollente dei riflettori e una smorfia sul viso.
Urlò qualcosa, facendo un cenno verso una piccola folla di tecnici ammassati alle spalle delle due ragazze, comodamente accoccolate sul pavimento.
La mora si accorse per prima del chitarrista e, con una rapidità che lo lasciò decisamente sorpreso, lo raggiunse.
Izzy, con la coda dell’occhio, la vide scambiare qualche battuta con Slash, prima di annuire e trafficare con la Gibson del suo amico, concentrata.
Il ragazzo le sorrise mestamente, quando alzò la testa dallo strumento, e tornò al centro del palco, senza perdere una sola nota fino alla fine della canzone, quando, piuttosto furbidondo, non scagliò lo strumento dietro le quinte, facendosene portare un’altro.

“Qualche stronzo l’ha sputtanata.” lo sentì ringhiare ad Axl, mentre buttava giù un sorso d’acqua “E la bimba l’ha fatta durare quel tanto che bastava. Ma giuro che se prendo il coglione che l’ha sfiorata lo faccio a pezzi con le mie mani.”
Izzy scoccò un’occhiata alla sua ragazza, di nuovo in piedi, pronta per il gran finale. Se possibile, era ancora più arrabbiato di prima.
E continuava a non capire perché.

Rocket queen.
Fu il delirio.
Roxanne se ne accorse a malapena, ma fu il caos più totale.
Uomini troppo grassi che saltavano sul palco per accendere una sigaretta a Slash, ragazzine dai capelli permanentati che saltavano addosso ad Axl, la folla completamente in balia della musica, il broncio di Izzy.
Lo aveva guardato bene, durante Mama Kin, ed era arrivata alla conclusione che era arrabbiato.
Che lei lo aveva fatto arrabbiare.
Non sapeva come, non sapeva perché, ma aveva questa vaga sensazione.

Per questo lo lasciò in pace, a concerto finito, mettendosi in un angolo della stanza a chiacchierarare con Mandy e Perla, mentre i ragazzi scolavano litri d’acqua e alcol, concedendosi tutte quelle sigaretta che non erano riusciti a fumare mentre suonavano.
L’aria dello stanzino divenne ben presto irrespirabile, tanto che gli stessi musicisti iniziarono a tossire e proposero, all’uninsono, di andare a festeggiare.

“E dove?” domandò Mandy, incollandosi al fianco di Duff.
“E cosa importa dove, è una città talmente grande!” Steven scrollò le spalle “Basta che andiamo.”
“Io passo, ragazzi.” annunciò Roxanne “Sono stanca e, a differenza vostra, tra due giorni faccio ritorno alla mia solita, banale e noiosa vita da cameriera.”
“Noo!” protestò il batterista “No, non puoi tirar pacco Roxy!”
“Proprio perché poi torni a casa dobbiamo festeggiare!” rincarò Slash, con un mezzo sorriso. Izzy lo fulminò.
“Per quanto mi riguarda, può anche tornarsene a casa e non farsi più vedere.” commentò acido Axl, asciugandosi il viso con un panno bianco che Erin gli aveva messo sulle spalle. Duff schioccò la lingua contro il palato, senza dire nulla.
“Anche io ti voglio bene, stronzetto.” brontolò la ragazza, raccogliendo i capelli in una coda “E se non fosse che davvero non posso, verrei con voi solo per darti fastidio.”
“Izzy, la lasci andare così?” tentò ancora Steven, appoggiandosi ad una spalla di Duff, dispiaciuto. Il chitarrista scrollò le spalle.
“Se vuole andare, lasciala andare.” borbottò senza nemmeno alzare gli occhi dalla chitarra cui stava pizzicando le corde.
Roxanne sorrise, abbassando lo sguardo.

“Sarà per un’altra volta, Stevie.” gli fece l’occhiolino, strappandogli un sorriso “Divertitevi anche per me! Buona notte, ragazzi!” agitò la destra, prima di aprire la porta e scivolare fuori.
Si, decisamente Izzy era arrabbiato con lei.
Ma perché?

 

I've never seen a night so long,
When time goes crawling by.
The moon just went behind a cloud,
To hide its face and cry.
 

Johnny Cash, I’m so lonesome I could cry

 

Roxanne saltò sul letto, rimbalzando un paio di volte come un peso morto.
Affondò il viso nel cuscino, inspirando a fondo la debole traccia di profumo lasciata da Izzy la notte precedente, quando era rimasto a dormire con lei.

Avevano passato ore intere a chiacchierare, in un groviglio di lenzuola bianche e coperte frettolosamente scostate, parlando di tutto e di niente.
Avevano riso, fino ad avere le lacrime agli occhi, ricordando di quando Duff era quasi impazzito per attaccare un adesivo, trovato in un pacchetti di patatine, sotto le corde del basso, o di quando i capelli di Axl erano rimasti impigliati nella lampo della sua giacca e lui aveva strillato per mezz’ora buona mentre Erin tentava di liberarli senza strappare l’intera ciocca.
Avevano fatto l’amore, fino a sentirsene sazi, e poi ancora perché semplicemente non riuscivano a farne a meno, come se fosse intollerabile l’idea di stare vicini senza essere completamente uniti.
Avevano riso di nuovo, quando lo stomaco di Roxanne aveva brontolato tanto forte da coprire lavoce di Izzy.
Si erano guardati, prima di scoppiare in una fragorosa risata e imbandire un piccolo banchetto chiamando un ristorante cinese che li aveva sommersi di involtini primavera, riso alla cantonese e pollo in agrodolce.

E ora di tutto quello non restava altro che una leggera traccia di profumo.
Si alzò in piedi, stringendo il cusino al petto e raggiungendo la finestra, un’enorme vetrata che si apriva sul cuore pulsante di New York.
Guardò i taxi gialli sfrecciare senza sosta nella notte scura, sotto un cielo plumbeo, uniforme: non una stella, non uno sprazzo di cielo limpido, persino la luna nascondeva la sua faccia argentata dietro una coltre spessa di veli, celando i suoi freddi raggi agli occhi scuri della ragazza che si ostinava a cercarla.

“Ma ho fatto qualcosa di sbagliato?” le chiese con un soffiò che appannò il vetro “Ho detto qualcosa di male?”
Il cielo ricambiò le sue parole con il silenzio, mentre un’ambulanza correva veloce a sirene spiegate, da qualche parte a Manhattan.
“Forse è arrabbiato perché non volevo stare assieme alle altre ragazze.” ipotizzò, continuando a parlare con la notte “E siccome sono pure svenuta, allora si è arrabbiato ancora di più. O forse.. non lo so, non capisco. È geloso? È preoccupato? Fino a ieri andava tutto bene e adesso non vuole nemmeno che vada fuori con loro.” scosse il capo, mordicchiandosi le labbra “Forse Axl ha ragione, quando dice che questo non è il mio mondo.”
Le luci intermittenti di un aereo appena partito da La Guardia la salutarono vivacemente, prima di sparire inghiottite dalle nubi.
Roxanne sospirò, posando la fronte contro il vetro.

“Cazzo, sono proprio messa male.” scosse il capo, lanciando il cuscino sul letto e andando verso il bagno “Sto dando ragione a quel coglione.”
Fece scorrere l’acqua: era solo stanca, erano tutti stanchi.
Nulla che un bel bagno e una bella dormita non potessero sistemare.

“Si.” si disse una ventina di minuti dopo, immergendosi nella vasca piena di schiuma e acqua bollente “Domani si sitemerà tutto.”
Spero, aggiunse tra se e se, senza avere il coraggio di pronunciare quella parola ad alta voce.

 

PARLA ROXANNE:

Hai mai avuto paura di morire, Izzy?
Io si.
C’erano notti in cui mi svegliavo con il terrore di non riaprire mai più gli occhi ben radicato nel mio cuore, al punto che non riuscivo più ad addormentarmi e aspettavo che il sole sorgesse, guardando vecchi film in bianco e nero.
È stato allora, che ho iniziato a credere che nessuno vuole morire.
Sono sicura che nemmeno Kurt Cobain, in fondo, volesse davvero che tutto finisse quando premette il grilletto che lo strappò via da questo mondo, privandoci di una persona che racchiudeva dentro di se una terribile tristezza.
O magari invece voleva proprio farlo, voleva dimostrare a quel tiranno che non ci lascia fiato per respirare di essere indifferente dal suo potere, di gestire da solo i suoi giorni, di essere semplicemente libero di scegliere da se.
Forse il suo non fu un gesto di vigliaccheria, una fuga da una realtà che sotto sotto lo terrorizzava, ma un gesto nobile, un atto di puro coraggio per stoccare un affondo al tempo e umiliarlo.
Come a dire “Ecco, guarda qua! Io faccio quello che voglio, quando voglio!”

La cosa buffa del tempo, però, è che è il grande amico dei martiri.
Nomi consacrati alla gloria, che perdurano oltre i secoli e i millenni, perché appartenuti a persone le cui vite sono state interrotte prima del dovuto in nome della follia, dei capricci, di un ideale, di una guerra.
Lui, l’incubo dei Peter Pan che nascondiamo nel cuore, il terrore di chi è giovane e non vuole invecchiare, la paura nascosta dell’adulto che si vede trasformato in un vecchio.
Voi avreste potuto essere dei martiri, esattamente come Kurt.
Avreste potuto essere molto di più di quello che nemmeno osavate sognare.
Ma a differenza sua, il tempo e il fato scelsero per voi strade diverse, che vi portarono a distruggere quanto di più buono aveste mai fatto in tutta la vostra vita.
Sacrificaste i Guns N’Roses, in nome del volgare dio denaro.
Axl stesso inflisse il colpo di grazia, portando avanti uno strazio che infanga un passato dorato.

E ora siete destinati ad essere il riflesso sbiadito di un’epoca che ormai è tramontata e non sorgerà mai più.
Rimpiangi mai, le scelte che hai fatto ormai quasi vent’anni fa?

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Capitolo 9
*** Here without you ***


HAND IN GLOVE
#8 HERE WITHOUT YOU



 

PARLA ROXANNE:

Il destino.
L’uomo ha un rapporto controverso con il destino.
Lo ama, quando si mostra favorevole ed esaudisce ogni desiderio.
Lo odia, quando invece è avverso e ci ostacola nei nostri progetti.
Lo ignora, quando semplicemente non ne ha bisogno.
Il destino, Izzy. 
Non ci hai mai creduto; snobbavi oroscopi, oracoli, cartomanti e chiunque si offrisse di scrutare nel tuo futuro.
Spesso mi sono chiesta se la tua fosse testardaggine o paura.
Paura di scoprire cose terrificanti, echi di un passato che avrebbe potuto tornare a bussare alla tua porta.
La tua infanzia, la tua adolescenza.
Non ti chiesi mai di parlarmene perché sapevo che l’avresti fatto malvolentieri e, complice il mio amore, non volevo che tu andassi a rivangare qualcosa che ti avrebbe potuto far soffrire.
Sbagliai, Izzy?
Che la chiave per capirti stesse proprio in un passato, in un nome, che avevi rifiutato?
Che Jeff Isbell fosse il punto di partenza per capire Izzy Stradlin?
Sapevo che c’erano cose legate a Jeff, cose che volevi disperatamente dimenticare e che rifiutavi, e cose legate ad Izzy, ricordi che non avevi paura di mostrare.
Ma temo che ormai sia tardi per poterti chiedere qualsiasi cosa.

 

I'm here without you baby
But you're still on my lonely mind
I think about you baby.
 

3 Doors Down, Here without you.

 

SOMEWHERE IN THE U.S.A, febbraio 1988

Izzy sbadigliò vistosamente, allungando le braccia verso il soffitto del pullman e lasciandole poi ricadere sui cuscini.
Era notte fonda e il motore del mezzo continuava a ringhiare sommessamente, divorando chilomentri d’asfalto consumato, sporco di terra portata dal vento, sfregiato dai segni di frenate troppo brusche finite chissà come e chissà dove.

In lontananza, su un orizzonte piatto e monotono, a tratti costellato dalle piccole luci di qualche paesino, la luna splendeva maestosa in un mare di tenebra, addolcendo un paesaggio altrimenti spettrale con i suoi freddi raggi argentanti.
Le stelle, piccoli diamanti appuntati sullo strascico vellutato della notte, splendevano remote, fragili come mai prima d’ora agli occhi assonnati del chitarrista.

Le vedeva apparire e scomparire senza logica, intermittenti come le luci che Roxanne aveva usato per decorare il suo minuscolo albero di natale qualche mese prima: un attimo prima c’erano, un attimo dopo non più.
Appoggiò la fronte contro il finestrino di plastica, chiudendo gli occhi.

Avrebbe dovuto dormire, ne aveva bisogno: erano partiti la mattina all’alba, dopo aver passato le ultime ventiquattro ore a firmare autografi, rilasciare interviste, partecipare a servizi fotografici e talk show di cui fino a quel momento aveva allegramente ignorato il nome.
Non una pausa, non un momento per visitare la città.

Non era nemmeno riuscito a salutare Roxanne, partita il giorno prima con il primo aereo del mattino per ritornare a Los Angeles, dove l’avrebbe rivista chissà quando, dal momento che giusto qualche ora prima, mentre buttavano giù un panino e una birra in uno squallido fast food sulla strada, il loro menager li aveva informati sui loro prossimi impegni futuri ed era saltato fuori che, per un motivo o per l’altro, non avrebbero avuto un solo giorno libero per settimane.
Sbuffò, senza nemmeno più sobbalzare ad un ennesima imprecazione di Steven che, a causa del fondo stradale particolarmente dissestato, era di nuovo andato a sbattere con la testa contro una mensola, mentre tentava di prepararsi un sandwich.
“Fanculo.” sibilò il batterista, chiudendo con forza una portellina e lasciandosi cadere sul divanetto di fronte ad Izzy.
“Rinunci?” chiese questi, senza smettere di guardare il cielo.
“Cazzo, si! Domani avrò qualcosa come tre dannati bernoccoli per colpa di queste strade di merda. Ma si può sapere cosa cazzo fanno alla Casa Bianca con tutti i soldi che sborsiamo in tasse cazzo?” sbottò il biondino, parlando tutto d’un fiato. Izzy sorrise del suo sdegno.
“Comprano nuove poltrone per i loro grassi culi.” rispose con aria solenne.
“Dovremmo scrivere una fottura lettera di protesta.” sospiro, abbracciando un cuscino.
Rimasero in silenzio per un po’, mentre l’autista fischiettava una vecchia canzone di Bob Dylan per ingannare il tempo.
Slash mugugnò qualcosa nel sonno, tirando inavvertitamente i capelli ad Axl - che dormiva con la testa posata sulla spalla -: il cantante borbottò qualche protesta, agitandosi e colpendo Duff con una gomitata.
Il bassista continuò a dormire, senza fare una piega.

“Senti un po’..” riprese alla fine il batterista, che non trovava per niente appagante guardare il panorama o gli altri ragazzi intenti a massacrarsi a vicenda anche da addormentati “Sei poi riuscito a parlarle?”
“Con chi? Roxanne?” il chitarrista scosse il capo “No, non sono riuscito a trovarla prima. Non era a casa.”
“All’Underpass?” indagò il biondino, accendendosi una sigaretta e offrendone una all’amico, che accettò ringraziandolo con un cenno, prima di rispondergli.
“Non ho avuto il tempo di provare.” la fiamma dell’accendino scattò, presto seguita da una nuvola di fumo “Ma ho paura che non mi voglia sentire, mi fa strano che non fosse a casa.”
“..ti ha mai sfiorato l’idea che possa esser uscita?” azzardò Steven, aggrottando la fronte.
“No, non esce mai quando è di cattivo umore perché..”
“...perché aspetta una tua telefonata per sfogarsi e farti arrivare al volo.” concluse il batterista, con un sorriso indulgente.
Detta in altre parole, magari non vuole sentirti.
Si spostò accanto al chitarrista, posandogli una mano sulla spalla.
“Dai non ti preoccupare. Sarà al lavoro, sai quanto le piace stare in quel buco, no? Non ti sta evitando. Non lo farebbe mai!”

“E tu come lo sai?” indagò Izzy, sospettoso. Steven rise sottovoce, per non svegliare gli altri tre, felicemente persi nel mondo dei sogni.
“Certo che sei idiota forte se sei geloso di me, sai?” esclamò, con un sorriso luminoso.
“N--non sono geloso!” protestò il chitarrista, arrossendo suo malgrado “E solo che siete sempre appiccicati e anche l’altro giorno, durante il concerto...”
“Ed è per questo che lei hai detto di andar via invece che di passare la serata con noi?” ruggì l’altro, afferrandolo per il bavero della camicia e agitando la sigaretta vicino al suo viso.
Izzy deglutì.
Non aveva mai visto Steven arrabbiarsi in quel modo. E così rapidamente, poi!

“Beh, anche, ma comunque cosa centra? È lei che mi ha risposto male per prima!” ammisse, facendosi piccolo piccolo.
Il batterista lo guardò senza dire una parola, prima di lasciarlo andare e spegnere la sigaretta.

“Caro il mio Izzy,” sospirò sconsolato, “non so proprio che dirti a questo punto. E quindi me ne vado a letto, buona notte.”
Il chitarrista non rispose – non lo avrebbe mai ammesso, ma non sapeva proprio cosa dirgli -, lo salutò con un cenno e si accesse un’altra sigaretta.
Non è colpa mia, si disse per la centomillesima volta, tamburellando nervosamente le dita sullo schienale del divanetto, è lei che mi ha risposto male, è lei che mi fa venire un infarto e se ne frega altamente! Che cazzo!

Aggrottò la fronte, sentendo chiaramente i borbottii di Steven circa la sua stupidità.
“Ti sento Adler!” strillò vagamente offeso, causando un picolo concerto di mugolii infastiditi  tenuto da Axl, Slash e Duff, praticamente accatastati l’uno sull’altro su un altro divanetto.
Ai loro piedi, un mazzo di carte era sparpagliato tra lattine di birra vuote accartocciate su se stesse e posaceneri pieni di mozziconi.

Imbronciato, tornò a guardare fuori dal finestrino.
“Non è colpa mia se lei è testarda come un mulo incazzato.” sussurrò alla luna, che ricambiò il suo sguardo da dietro una nuvola leggera.
Ebbe un po’ l’impressione che l’astro lo guardasse con rimprovero, al punto che abbassò gli occhi, abbracciandosi le ginocchia e inspirando una generosa boccata di fumo.
E se invece fosse tutta colpa mia? Si chiese, inorridendo all’idea.
Fu in quel momento, che Slash disse qualcosa, la voce roca e impastata.

“Si, sei un vero idiota, è tutta colpa tua cazzone!” sbottò, girandosi su un fianco e facendo crollare la testa di Axl sulla sua schiena.
Izzy sobbalzò, alzandosi cautamente in piedi e allungando il collo per capire se il chitarrista stesse dormendo o meno: a guardalo, era profondamente addormentato.
Ma con Slash non si poteva mai sapere, più di una volta era capitato che, credendolo addormentato, lui e Roxanne si fosse lasciati un po’ andare, salvo poi scoprire che non stava affatto dormendo.

Si bloccò, ritraendosi.
E adesso perché pensava a Roxanne? In fondo era arrabbiato.
Era arrabbiato con lei, non doveva pensare a lei.
Tornò a sedersi sul divanetto, del tutto deciso ad allontanare la ragazza dalla sua mente fino a quando non si sarebbe fatta viva lei per chiedergli scusa.

Lo sguardò cadde di nuovo sul panorama, ancora immutato.
Davanti a lui si estendevano chilometri di nulla, un nulla piatto e brullo che si perdeva nel buio, dove i fari del pullman non riuscivano ad arrivare: decisamente non un buon modo per far passare il tempo.
Certo, se ci fosse stata Roxanne avrebbero potuto giocare a carte o... cancellò immediatamente il pensiero.
Non-doveva-assolutamente-pensare-a-lei.
C’erano mille cose di cui doveva preoccuparsi, mille cose da fare, mille cose da organizzare.
Peccato non gliene venisse in mente neanche una.

Chiuse gli occhi, concentrandosi.
Pensa, Stradlin, pensa.
La tourneé era appena finita, avevano inciso poco tempo prima quattro nuove tracce, di cui una interamente acustica, solo chitarre e...Bingo! Chitarre! Aveva bisogno di una nuova chitarra, ecco come poteva riempire il tempo!
Un largo sorriso gli illuminò il viso, mentre chiudeva gli occhi soddisfatto, richiamando alla mente tutte le splendide chitarre che aveva intravisto a New York.
Aveva avuto per le mani un paio di Gibson assolutamente fenomenali.
Una byrdland, in particolare, lo aveva colpito.
Accantonò però l’idea di comprarla, ricordando le smorfia che aveva fatto la ragazza vedendogliela in mano.
E’ inguardabile aveva decretato decisa, trascinandolo via e fermandosi solo davanti ad una Fender nuova di zecca, con gli occhi luccicanti e...
Di nuovo, scacciò il pensiero con un’imprecazione.
Per quanto ci provasse, non riusciva a fare a meno di pensare a lei, di ricordare una miriade di piccole espressioni, di frasi, di parole, di momenti.
Abbandonò la sigaretta in un mare di cenere, prendendosi la testa tra le mani.
Poteva negarlo quanto voleva, ma la verità era che Roxanne gli mancava da morire e l’idea che lei potesse non volerlo sentire lo distruggeva, spingendolo a nascondersi dietro la sua rabbia insensata, causata più dalla stanchezza che dalla gelosia.
Gli mancava al punto che si sentiva quasi soffocare se abbassava le sue rabbiose difese.
Si distese, coprendosi gli occhi con un braccio: e comunque, si disse nel vago tentativo di ristabilire almeno parte del suo ormai perduto orgoglio, la byrdland la compro lo stesso, punto e stop.

 

Well all these little things in life
They create all this haze
And now I'm running out of time
I can't see through this haze.
 

3 Doors Down, Running out of days.

 

LOS ANGELES

“Grazie a te, ciao!” Roxanne sorrise, mentre chiudeva la cassa rapidamente, dopo averci riposto dentro una banconota da venti dollari.
Si appoggiò al bancone, passandosi il dorso della mano sulla fronte: dopo il freddo di New York, l’aria tiepida di Los Angeles era diventata bollente.
Ed era tornata da solo un giorno!

Afferrò uno straccio, passandolo sul bancone per l’ennesima volta e guardando il locale con affetto: le era mancato quel posto, saturo di fumo e musica.
Charlie le passò davanti con un vassoio vuoto tra le mani, portando le ordinazioni di un tavolo ad Alec, in cucina.
Le chiacchiere e l’allegro tintinnare di posate e piatti riempivano l’aria, mettendola di buon umore nonostante il sonno arretrato, evidentissimo nelle occhiaie che le cerchiavano gli occhi.

“Ti sei spupazzata per bene, eh?” le chiese la collega, tornando indietro e fermandosi, la schiena posata al bancone e un sorriso sul viso.
“Non mi sono risparmiata, no.” Roxanne sorriso “Sempre se è questo che intendi..” aggiuse dopo qualche attimo, lanciando lo straccio su un ripiano alle sue spalle e riempiendosi un bicchiere d’acqua.
“Non sembri chissà quanto entusiasta, per essere una che torna da due mesi di tourneé con una delle band più famose del paese, sai?” Charlie si voltò, passandosi una mano tra i capelli rossi.
“Toucheé.” rise la mora, dopo una generosa sorsata d’acqua.
“Qualcosa non va?”
“No, niente...” posò il bicchiere “E’ solo che... ho litigato con Izzy, prima di partire, ecco.”
“Tutte le coppie litigano!” la rossa scrollò le spalle, sorridendole gentilmente “E’ normale. Per la miseria, non sarebbe salutare se non fosse così! E poi... cazzo, sai la noia senza manco un battibecco?”
“Hai ragione.” Roxanne rise di nuovo “E’ solo che non mi piace litigare con lui, ecco.” prese una ciocca di capelli tra le dita, scrutandone le punte con aria critica “E mi manca da morire, Charlie, non sai quando!”
“E allora che aspetti a chiamarlo?” la rossa scoppiò a ridere, seguendo con gli occhi una coppia appena entrata.
“Non so nemmeno dove sia, non tornavano in aereo. Potrebbe essere ancora a New York, per quel che ne so.”
“Mh.” la cameriera si fece pensierosa “Beh, allora non so cosa dirti.” si scostò la bancone, recuperando il vassoio e dirigendosi verso i nuovi arrivati “Ma vedrai, ti chiamerà! Quant’è vero che mi chiamo Charlie, non saprà resistere. Salve, benvenuti! Posso portarvi qualcosa da bere, intanto?”
Roxanne sospirò, aprendo la porta che conduceva alla cucina e fermandosi sulla soglia.
“Ehi.” la salutò Alec, intento a impiattare hamburger e patatine fritte.
“Ehi.” gli fece il verso lei, incrociando le braccia “Serve una mano?”
“Naa.” l’uomo fece una smorfia, asciugandosi le mani sullo straccio che teneva legato in vita “Non c’è un granché da fare, oggi. Giornata calma.”
“Fin troppo.” la mora sbuffò.
“Se non fosse che ti conosco troppo bene e so che è impossibile una cosa del genere, direi che ti stai annoiando. Parecchio, pure.”
“In effetti.” aprì la bocca in un sorriso, abbassando lo sguardo alle sue scarpe per un attimo.
Sulla punta bianca delle All Star spiccavano due smile, uno per piede, disegnati con un pennarello indelebile nero: un’opera degna di Steven, che tra una sbronza e l’altra – come aveva scoperto ben presto - aveva la strana abitudine di disegnare smile ovunque.
Una mattina Slash si era svegliato con un enorme faccione sorridente stampato sulla fronte.
Era stato intrattabile, nei rari momenti in cui non tentava di strangolare il bassista. Riprese a parlare, trattenendo una risata.
“Ho pulito il bancone tre volte, spazzato il pavimento almeno cinque volte, servito ai tavoli, ordinato le bottiglie in ordine crescente e poi in ordine alfabetico, ho controllato gli ordini per i fornitori, cambiato il rotolo degli scontrini della cassa, lavato i bicchieri un paio di volte e fatto sette pause sigaretta, anche se questo in effetti era meglio non dirtelo. Alec, cosa si fa in queste giornate di calma piatta? Non me lo ricordo più!”

Il vecchio si fermò, scrutando il volto pallido della ragazza, poco più di un ombra sulla porta aperta.
“Bambolina, scusa tanto se il jet set è più divertente eh!” la prese in giro, passandole due piatti pieni “Porta questi al cinque, dai. E poi torna qui, forse c’è qualcosa che puoi fare.”
La ragazza inclinò il capo di lato, guardando il suo capo con un buffo sorrisetto divertito, poi prese i piatti e si allontanò, immergendosi nel fumo azzurrognolo che aleggiava nella sala, in penombra nonostante fosse l’ora di pranzo.
“Ecco qua ragazzi!” esordì pimpante, sorridendo ai due teen-ager che sedevano al tavolo, davanti a una pinta di birra “Buon appetito!”
“Grazie dolcezza.” le disse il primo, senza nemmeno guardare il piatto. Erano i classici ragazzini americano, capelli biondi, occhi blu e colorito bronzeo.
Inarcò le sopracciglia, stringendo il vassoio al petto.
“Dolcezza?” ripeté vagamente perplessa.
“Hai sentito bene, bambolina. Non ti spiace vero, se ti chiamo così? In fondo, è un complimento.” il ragazzino addentò un pezzo di pane, sgranando gli occhi.
“Tesoro.” rise Roxanne, piegandosi in avanti a sfiorandogli una guancia con l’indice della mano destra “Anche passando oltre il fatto che sei poco più di un bambino, chi ti dice che puoi chiamarmi dolcezza?”
“Perché non posso?”
“Decisamente no, se non vuoi che il vecchio Alec avveleni il tuo hamburger la prossima volta.” annuì con aria grave, mentre il ragazzino impallidiva sotto l’abbronzatura e l’amico tratteneva a stento una risata. “Sai è molto geloso delle sue cameriere. L’ultimo ragazzo che ha chiamato Charlie “tesoro” si è ritrovato fuori di qui prima di poter dire una sola parola.”
“D-davvero?” gettò un’occhiata inquieta alla porta della cucine, oltre la quale si intravedeva la sagoma massiccia di Alec. Roxanne annuì.
“Ma mi stai simpatico, biondino.” sorrise, scrollando le spalle “Se mi prometti di fare il bravo, farò finta che non sia successo nulla. Ci stai?” tese destra, che lui strinse prontamente.
“Andata.” pigolò.
“Andata.” ripeté lei “E adesso mangia, che si fredda.”
Lasciò i due al tavolo, tornando in cucina.
“Ah, Alec, ma che hanno questi bambini di oggi che crescono così sfrontati?” sospirò, posando il vassoio vuoto su un tavolo sgrombro.
Il vecchio, ghignò.

“Non chiederlo a una matusa come me, Roxy.” le rispose, sciacquandosi le mani sotto l’acqua corrente.
“Non sei poi così vecchio, Alec, dai!” rise la ragazza, giocando distrattamente con una ciocca di capelli.
“Sono vecchio abbastanza da non arrischiarmi più a salire su una scala, cosa che farai tu per me.” le passò accanto, facendole cenno di seguirlo. “E’ arrivata ieri mattina, va appesa sopra il bancone. Puoi pensarci tu?” le mise tra le mani un pacchetto rettangolare, piuttosto grande e sorrile, avvolto con della carta marrone.
“Certo.” la ragazza annuì “Ma cos’è?”
“Vedrai..” l’uomo scomparve in cucina, avvolto in una nuvola di vapore.
Scartò il pacchetto, dopo aver recuperato una sedia, martello e chiodi: una foto scattata la sera del suo compleanno, incorniciata, ricambiò il suo sguardo.
Erano tutti lì.
I Guns N’ Roses e lei, stampati in bianco e nero. Sfiorò il volto sorridente di Izzy, sospirando.

Le mancava da morire.
C’erano stati periodi in cui non erano riusciti a vedersi per settimane intere, ma mai come in quel momento aveva avvertito così forte la mancanza del ragazzo.
Aveva un po’ l’impressione che qualcuno le avesse strappato qualcosa di fondamentale. Qualcosa di indispensabile.

Fissò la foto.
Aveva fatto possibile e impossibile per non pensare a lui, ma non ci riusciva.
Lo aveva stampato in testa e non c’era modo di ignorare quella presenza fissa tra i suoi pensieri.

Forse dovrei provare a chiamarlo, pensò mentre conficcava un chiodo nella parete, ma dove? Potrebbe essere ovunque, per quel che ne so.
Diece un’altra martellata, prima di sistemare la foto al centro di una lunga fila di cornici.
Tutti i musicisti che avessero mai suonato nel locale erano lì, ordinatamente esposti agli occhi di chiunque vi entrasse.
Kinslayer, The Clash, L.A. Guns, Keith Richards dei Rolling Stone.
E ora i Guns N’ Roses.

Scese dalla sedia, circondandosi la vita con le braccia.
Non ne poteva più di quella situazione, voleva vedere Izzy e parlare con lui.
Fosse anche per litigare, voleva disperatamente sentire il suono della sua voce.
Mai, in vita sua, si era sentita così persa.

Ogni singola cosa sembrava diversa, senza di lui.
“Diavolo.” bisbigliò, passandosi una mano sul volto “Non è il momento di piangere!” si intimò stizzita, colpendosi le guance con dei deboli schiaffetti.
Era al lavoro, avrebbe avuto tutta la notte per deprimersi: adesso doveva concentrarsi, pensare ad altro, non doveva permettere alla malinconia di sopraffarla o sarebbe stata la fine. Inspirò a fondo, chiudendo gli occhi come faceva da piccola quando non voleva pensare alle litigate tra i suoi genitori o alla polizia che entrava in casa e portava via suo fratello.

Quando riaprì gli occhi, parte di quel malinconico velo grigiastro che aveva offuscato i suoi pensieri se ne era andato.
Poteva farcela. Era solo questione di volontà.

 

Baby, ev'rywhere I look
I see your eyes
There ain't a woman that comes close to you.
 

The Rolling Stone, Angie.

 

NEW ORLEANS

Izzy rimase immobile davanti al telefono per un quarto d’ora, prima di trovare il coraggio di alzare la cornetta ed comporre il numero.
Erano ormai passate più di due settimane dal famoso concerto, e da allora non aveva avuto notizie di Roxanne.
O meglio, da allora non l’aveva né vista né sentita al telefono, trincerato nel malumore che aveva irritato buona parte della band al punto da non farli nemmeno più uscire la sera. Preferivano rimanere sul pullman, o in albergo, a fumare sigarette su sigarette e annaffiare la droga con litri di birra, ciascuno chiuso in una stanza, ciascuno prigionieri dei propri pensieri.

Quando poi Steven gli aveva detto di aver telefonato a Roxanne, un pomeriggio, e di averla sentita piuttosto triste, si era infuriato al punto da colpire il batterista con un pugno. Neanche me la fossi scopata, cazzo!
Aveva urlato il biondino, prima di andarsene dalla stanza sbattendo la porta.
Ovvio che, sbollita la gelosia – che si ostinava a spacciare per rabbia - si era scusato e aveva pure domandato di più all’amico, ma poi basta. Il nulla.

Certi giorni erano infernali.
Si svegliava la mattina con il viso della ragazza fisso in testa e per tutto il giorno non riusciva a pensare ad altro, rendendo impossibile la vita a chiunque gli stesse attorno, anche solo per qualche minuto.
Pur di non pensare a lei si metteva a scrivere canzoni su canzoni, rannicchiato un angolo con la chitarra sotto braccio e una bottiglia di Jack Daniel’s accanto, assieme ad un pacchetto di Malboro e un accendino.
Non mangiava, non si alzava.
Si limitava a strimpellare note su note, buttar giù accordi alla rinfusa, abbozzare testi che bene o male finivano col ridursi a malinconiche richieste di perdono senza risposta.
E alla fine, non contento, bruciava ogni cosa, con sommo disappunto di Axl che invece si sentiva particolarmente romantico e avrebbe voluto lavorarci sopra.

Altre giornate, invece, non portavano a niente.
Apriva gli occhi, fissava il soffito per un po’ e infine decideva che no, non voleva svegliarsi, e si girava su un fianco incurante degli impegni che avevano per la giornata. Rimaneva a letto per ore, alzandosi solo per andare in bagno o spararsi qualche dose in vena.
Vegetava, letteralmente, e a nulla servivano le proteste e i rimproveri. Sordo a tutto e tutti, si limitava ad aspettare che le ore scivolassero via.

Solo quando finalmente si era arreso davanti all’evidenza e aveva ammesso di sentire la mancanza di Roxanne, era riuscito a prendere in considerazione l’idea di telefonarle. Ma anche lì, era bloccato.
Del resto, non si faceva vivo da parecchio tempo e probabilmente lei era furibonda per questo: non si sarebbe stupito neanche un po’ se lei si fosse rifiutata di parlargli.
Sospirò, spostando la cornetta di plastica rossa da una mano all’altra.
Dai, Stradlin, datti una mossa e fai la cosa giusta, una volta tanto!, si incitò, sfiorando i numeri sul dispositivo.
Inspirò a fondo, esattamente come aveva già fatto un migliaio di volte.

“Che cazzo, le hai chiesto di venire in tourneé con te e ora non riesci a telefonarle?” sbottò irritato, componendo finalmente il numero di casa della ragazza.
Uno squillo.
“Si, e cosa le dico? ‘Ciao, sono io, come stai amore? Tutto bene? Il lavoro? Noi siamo a New Orleans, non ho ben capito perché, ma dovremmo tornare a breve. Mi ha detto Steven che ti ha sentita, di recente.. Non è che per caso hai iniziato a tradirmi con lui da circa metà tourneé, vero? Ahahah, che assurdità ahahahah! A luglio giriamo il video di Sweet Child o’Mine, al solito Axl ha in mente qualcosa di fottutamente titanico che costerà una cifra. Mi ha fatto piacere sentirti, Roxy! Tra parentesi, scusami ma sono un coglione codardo che non ha capito un cazzo della vita e di te. Ti amo, ciao’?”
Due squilli.
Attorcigliò il filo attorno alle dita, mordicchiandosi le labbra.
E se davvero lei non lo avrebbe voluto sentire? Cosa doveva fare?
Chiamarla era davvero la cosa giusta?
Probabilmente era furiosa.
E chi non lo sarebbe stato, al suo posto?
A vedere la situazione da fuori, lui si era arrabbiato con lei tutto ad un tratto, senza un motivo apparente, e da allora aveva completamente ignorato la sua esistenza, senza farsi più vivo.
Chiunque, chiunque, avrebbe detto che un comportamento del genere equivaleva ad un implicita rottura.
Ma non voleva rompere con Roxanne.
Era l’ultima cosa al mondo che voleva fare, l’amava troppo per lasciarla andare.
Ma doveva davvero chiamarla?

Tre squilli.
"Pronto?"
Quasi urlò, quando la voce di Roxanne lo scosse dai suoi pensieri: frenò il grido, che si trasformò in un rantolo soffocato, e si morse la lingua, chiudendo gli occhi.
E adesso? Cosa doveva dirle?

"Pronto, pronto?! C’è nessuno?"
Non disse nulla, trattenendo il respiro.
Non ricordava che la sua voce potesse essere così dolce alle sue orecchie, nonostante sembrasse uscire dall’oltretomba.
Solo dopo una terrificante sbronza di tequila e scotch aveva una voca così cavernosa.
O quando si svegliava nel cuore della notte. Buttò l’occhio all’orologio che portava al polso, ancora regolare sul fuso orario di Los Angeles: le quattro e trentanove del mattino. Strangolò l’imprecazione in gola, rendendola più simile ad un osceno mugolio che ad una parola civile.
La ragazza sbuffò, dall’altro capo del telefono.

"Senti, non è divertente esser buttati giù dal letto alle quattro e mezza del mattino per poi sentire solo patetici gemiti ad intervalli irregolari: se il tuo scopo era sembrare un maniaco sappi che hai ancora molto da imparare. E ora, se non ti dispiace, vorrei tornare a dormire che devo svegliarmi presto. Chiunque tu sia, vaffanculo. Vaffanculo per avermi svegliata mentre sognavo il mio ragazzo disperso, vaffanculo per le tue molestie fallite, vaffanculo! E buona notte!"
“A- aspetta...” biascicò, prima che lei chiudesse la conversazione.
Seguì un breve silenzio.

"Izzy? Sei tu?" chiese poi la ragazza, incerta.
“Si.” chiuse gli occhi, pronto ad accusare una valanga di insulti “Sono io.”
"Ah." sembrava spiazzata. Udì un breve tonfo, probabilmente si era lasciata cadere sulla sua vecchia poltrona.
“Scusa per l’ora, davvero, io...” deglutì “Non mi sono reso conto che fosse così tardi."
"Non...non importa."
“No, invece importa.” posò i gomiti sulle ginocchia, passandosi la mano sinistra sul viso.
La destra stringeva saldamente la cornetta, come se da quella presa dipendesse tutta la sua vita.

"Izzy..." lo ammonì lei.
“Sono un disastro, io... io non ne azzecco una, non ne combino mai una giusta e non è.. non è giusto, davvero.”
"Beh, si, certe volte sei un vero incapace e fai cazzate degne dell’asociale che sei."  commentò leggera la ragazza.
“Oh, lo so! Ma ti giuro, non lo faccio apposta, e tu non meriti questo...”
"Non ti sembra di esagerare?" lo interruppe lei, tradendo un certo panico "Va bene che è tardi, ma tutto questo discorso non ha senso a meno che tu non voglia andare a parare da qualche altra parte."
Izzy sorrise.
Amava quel suo modo di fare, quella straordinaria capacità di cogliere ogni dettaglio e incastrarlo in un disegno più grande.
Oh, se l’amava! 
"Mica vuoi piantarmi, per caso?"

“NO!” urlò, sgranando gli occhi. La cornetta gli cadde quasi di mano, mentre scattava in piedi “Ma cosa vai a pensare?!”
"Ah, non lo so!" lo aggredì lei, senza alzare la voce "Non sono certo io che sono scomparsa per settimane e poi mi son fatta viva nel cuore della notte con uno strano discorso circa quanto e cosa merito, fino a prova contraria!"
“Oh, lo sapevo!” gemette sconfortato “Sei arrabbiata.”
"Vorrei ben vedere!"
Izzy si sedette di nuovo sul bordo del letto.
“E hai ragione, è vero.” ammise, nonostante il tono infastidito della ragazza gli facesse venir voglia di contraddirla per principio.
Cazzo, in fondo sto calpestando tutto il mio fottuto orgoglio per lei!

"..."
“Ma vedi...oh cazzo. Basta girarci attorno. Mi dispiace. Mi dispiace da morire, per tutto, per quello che sono, per quello che ho fatto” capitolò alla fine “Non dovevo arrabbiarmi, non dovevo sparire. E non avrei dovuto essere geloso di Steven.”
"Mi ha detto che gli hai tirato un pugno."
“Ti ha chiamata di nuovo? Giuro che lo uccido, lo uccido davvero!” sbottò, senza riuscire a fermarsi.
Era più forte di lui: ogni qualvolta sentiva nominare il batterista, se lo vedeva abbracciato a Roxanne, dietro le quinte del concerto al Ritz.

"Izzy..." lo placò lei "Cosa mi hai appena detto?"
“Che non avrei dovuto essere geloso di Steven.” brontolò il chitarrista, di malavoglia.
"Bravo bambino." ridacchiò "Così si fa. Meriti una caramella."
“Roxanne, davvero... mi dispiace, mi dispiace davvero. Ti prego, perdonami: non sopporto questa situazione, sto diventando matto, non ce la faccio più. Perdonami, ti prego.”
"E’ inutile che tu me lo chieda, sai?" pacata, la voce della ragazza lo colpì dritto al cuore, facendogli perdere un colpo.
“Allora.. allora è...” sentì gli occhi pizzicare. Non riusciva nemmeno a pensarlo, figurarsi a dirlo.
"Perché sai, ti ho perdonato già come ha squillato il telefono, razza di idiota."
Izzy trattenne il respiro per qualche attimo, mentre metabolizzava le parole e si lasciava invadere dal sollievo.
Scoppiò in una lunga risata, liberatoria, nel corso della quale si diede dell’idiota un centinaio di volte, per le ragioni più astruse, lasciando cadere la cornetta per terra e rotolandosi sul letto.

"Izzy? Izzy ci sei? È tutto a posto?" Roxanne lo riportò alla realtà. Si asciugò gli occhi, recuperado il telefono e l’autocontrollo.
“Si, amore, si.” le sussurrò “E’ tutto a posto, adesso.”
"Oh, lo spero." la sentì ridacchiare sommessamente "Perché sia Duff che Slash, quando mi hanno chiamata supplicandomi di perdonarti mi hanno raccontato cose veramente terribili sul tuo conto."
“Vuoi farmi ingelosire, per caso?” indagò sospettoso “Perché sappi che non ti darò la soddisfazione.”
"Per carità, non voglio avere sulla coscenza lo scioglimento dei Guns!"
“Esagerata. Mettimi alla prova, su!”
"Non mi tentare..."
“D’accordo, d’accordo. Malfidente.”
"Che scemo che sei, amore.." la sentì sbadigliare.
“Dai, ti lascio dormire che domani devi pure lavorare.” mormorò, sentendosi il cuore scoppiare da un’improvvisa tenerezza.
Se la immaginava perfettamente: rannicchiata sulla vecchia poltrona, con addosso una delle sue enormi magliette di cotone, i capelli arruffati e gli occhi opachi di sonno.
Avrebbe voluto essere lì, solo per poterla cullare e guardare dormire.

"No." potestò fiocamente "Non ti sento da troppo, voglio.." sbadigliò, di nuovo "Voglio sentire la tua voce, mi manchi troppo..."
“Allora facciamo così. Tu tieni il telefono lì vicino e io ti parlo fino a che non ti addormenti, d’accordo?”
"Va bene."
“Brava.” chiuse gli occhi, distendendosi sul letto “Che ho tante cosa da dirti e...”
"Ti amo, Izzy." lo interruppe lei "Davvero." si fermò un attimo, probabilmente rannicchiandosi meglio sulla poltrona "Tantissimo."
“Lo so, piccola, lo so. Ma adesso dormi...”

 

PARLA ROXANNE:

C’è una cosa che però ho capito, in tutti questi anni.
Sei una persona spaventata.
Hai paura, una terribile paura, di rimanere solo.
Per questo allontani le persone prima che loro allontanino te.
Lo hai fatto con Axl, lo hai fatto con i Guns, lo hai fatto con me, lo hai fatto con i Ju-ju Hounds e alla fine lo hai fatto anche con Annika, la svedese con cui ti accusavo di tradirmi in una calda notte di tanti anni fa, quando ancora non sapevi esistesse.
Hai allontanato tutte le persone che ti amavano per paura che loro lo facessero.
L’idea che nessuno volesse allontanarti non ti sfiorò nemmeno.
Sono passati gli anni, tanti anni, e adesso piano piano stai tornando indietro.
Ti ho visto, l’altra sera, sul palco assieme a Steven e Duff.
Ti ho visto ridere con Slash, dietro le quinte.
Ti ho visto, e il mio cuore ha fatto un salto che non credevo più possibile.
Tenterai di tornare da me, o sono solo uno dei tanti capitoli chiusi della tua vita, Izzy?
Sono come Axl, un fantasma del tuo passato che non vuoi affrontare?
Sono uno di quei ricordi dei quali non mi volevi parlare, qualcosa che associavi a Jeff Isbell come se fosse una persona distinta da Izzy Stradlin?
Chissà, forse un giorno di questi tornerai a bussare alla mia porta promettendomi tutto quello che non sei riuscito a darmi quando ne avevi l’occasione.
Sappi però che non ti ho ancora e probabilmente non ci riuscirò mai: hai mandato in frantumi tutti i miei sogni e le mie speranze, lasciandomi sola, con un cuore a pezzi e nulla con cui riassestarlo.
Non è stata facile la vita dopo te, Izzy, e anche adesso, più di dieci anni dopo, faccio fatica a credere di poterti perdonare, di potermi lasciare alle spalle il rancore per tutto il dolore che mi hai dato.
Questa volta, quando e se tornerai anche da me, non ti basterà chiamarmi nel cuore della notte e parlarmi fino a farmi addormentare sul suono della tua voce.
Questa volta, il prezzo sarà molto più alto.

 

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Capitolo 10
*** Promises, dramas and whisky [part I] ***


HAND IN GLOVE
#9 PROMISES, DRAMAS AND WHISKY

~ part I

 

PARLA IZZY:

Il matrimonio di Duff.
Sono sicuro che quel giorno è fermo nella tua mente, scolpito in un blocco di marmo.
C’è tutto, nei miei ricordi.

Le immagini sono nitide, fotogrammi di un passato sfuggito alle nostre mani, rese goffe e incerte dai nostri stessi errori, le parole dette sono incise sulla pietra grezza della memoria, ormai corrosa dagli anni e dagli eccessi, i colori sono lampi di luce in un contesto che non è proprio possibile scordare.
Non ho mai amato i matrimoni, tantomeno il mio, ma quello di Duff fu speciale.
Probabilmente è l’unico che ricordo con un sorriso malinconico e basta, senza che una ressa selvaggia di emozioni si ammassi nel mio cuore e minacci di farlo scoppiare da un momento all’altro.
Sul fatto che non fu tradizionale, nel senso stretto del termine, non ci piove: Slash si presentò ubriaco, Steven completamente fatto e io ero una via di mezzo tra i due, in preda ad un’euforia accentuata dal tuo profumo e il tuo calore al mio fianco.
Feci il possibile per non staccarmi da te, quel giorno.
Avevo un po’ l’impressione di doverti stare vicino per forza, come se un ciclone stesse per strapparti via e catapultarti in un’altra dimensione, dove non potevo raggiungerti.
Ma tu ridevi, quando ero riluttante a lasciarti ballare con questo o con quell’amico, ridevi e volavi via in una frusciare di raso che volteggiava attorno alle tue gambe, piroettando leggera sulle note di canzoni eterne.
Ridevi, e il tuo sorriso placava la mia preoccupazione.
Come quando un bambino piccolo vede il sorriso della madre e pensa che nulla può andare storto.
Ancora non sa, quel bambino, che la vita nasconde molti segreti, dietro quel sorriso.


 

Declare this an emergency
Come on
And spread a sense of urgency.
 

Muse, Apocalypse please.

 

LOS ANGELES, 28 maggio 1988

Il mare scintillava sotto i raggi del sole, screziandosi di bianco e argento laddove la luce andava a baciare la cima delle onde, impegnate nel loro lento infrangersi sulla spiaggia.
Il suo ruggisto basso e costante si confondeva con il brusio delle chiacchiere che si levavano verso un cielo azzurro smalto, privo di nuvole, nel cui centro splendeva sovrana la stella diurna, in un trionfo dorato.

Le code dei nastri di seta bianca danzavano assieme alla brezza salmastra un pigro valzer, allungandosi e disegnando onde tra una fila di sedie e l’altra, su un immenso prato davanti ad un gazebo bianco, alle cui spalle aspettava paziente una piccola orchestra.
Gli invitati si aggiravano per il giardino della villa a piccoli gruppetti, chiazzando il prato verde smeraldo con un’infinità di colori e stoffe che svolazzavano leggere, accompagnate da gridolini femminili e risate compiaciute, decisamente maschili, man mano che le persone presente aumentavano di numero: mezz’ora prima dell’inizio della cerimonia, la villa contava più di cinquecento ospiti.
Axl accese una sigaretta ad Erin, accarezzandole una guancia teneramente: la ragazza gli sorrise, soffiando fuori il fumo assieme alle parole.
“Grazie, amore.”
“Prego.” il cantante si appoggiò ad un tavolo ingombro di fiori, incrociando le gambe, e lasciò che gli occhi verdissimi vagassero nella folla.
“Conosci qualcuno?” indagò Steven, sbucando alla destra del cantante, che scosse il capo.
I capelli rossastri brillarono di riflessi dorati, diventando biondi per qualche breve istante.

“Per quel che mi riguarda sono tutti fottuti estranei,” replicò stonereo, cacciando le mani nelle tasche dei pantaloni, “forse sono amici di Duff.”
“O forse no.” Erin scrollò le spalle, picchiettando delicatamente la sigaretta con l’indice e facendo cadere la cenere in eccesso tra i fili d’erba, ai suoi piedi.
Il batterista s’imbronciò, incrociando le braccia al petto.
“Ci fosse almeno qualche faccia conosciuta...” brontolò, prima di illuminarsi alla vista di Izzy e Roxanne.
“Come non detto!” si corresse, guardando i due che dovevano essere arrivati si e no da cinque minuti, a giudicare delle loro espressioni sconcertate.

“Ehi, coppia d’oro!” li chiamò con un gran sorriso, sbracciandosi nella loro direzione.
Fu il chitarrista a notarlo: ricambiò il gesto con uno dei suoi soliti sorrisi tirati, guidando gentilmente la ragazza verso il trio.
Roxanne rise per qualcosa che lui le aveva sussurrato, reclinando il capo e offrendo la gola ai caldi raggi del sole quasi estivo, mentre il vento giocava dispettoso con il suo abito pervinca, agitando due lunghi nastri che scendevano liberi lungo la schiena della ragazza, che avanzava tranquilla nonostante i dieci centimetri di tacco nascosti dallo strascico dell’abito.
Aveva il fascino di una diva hollywoodiana degli anni ’70, capitata per sbaglio nel futuro.

“Izzy non mi uccidere, ti prego, ma devo dirlo,” esclamò Steven con un largo sorriso, chinandosi a baciare la mora sulle guance, “sei uno schianto, Roxy.”
“Per questa volta passi.” dichiarò il chitarrista, con un sorriso.
La ragazza lo colpì con il dorso della mano sul petto, sbuffando.

“Vorrei ben vedere!” protestò, soffiando un bacio ad Erin “Stevie può dirmi tutto quello che vuole.”
“Ancora con questa storia?” Axl roteò gli occhi, agitandosi inquieto “Sei diventato noioso, Stradlin.” gemette, circondando la vita di Erin con un braccio e affondando il viso nella curva del suo collo.
“Axl, mi fai il solletico!” rise la bionda, cercando di scansarsi.
Steven incrociò le braccia al petto, inarcando le sopracciglia: davanti a lui, Izzy stava facendo la stessa identica cosa con Roxanne.
“Ho bisogno di bere, sennò finisce che mi deprimo.” decretò cupo “Ho decisamente bisogno di bere.”
“No, dai.” la mora lo trattenne, sorridendogli “Andiamo a prender posto, vieni.” lo prese a braccetto, e, tra lui e il suo ragazzo, si incamminò attraverso le sedie, adocchiando un annoiatissimo Slash stravaccato qualche fila più un là.
“Dovresti vestirti così più spesso, sai?” commentò allegramente, rivolta al batterista “Stai molto bene.”
Steven sorrise orgoglioso, passandosi entrambi le mani sul petto e lisciandosi l’impeccabile camicia bianca, dalle larghe maniche, infilata in un paio di attilatissimi pantaloni di pelle nera.
Il front-man alle loro spalle borbottò qualcosa di incomprensibile e molto poco gentile, sbuffando di tanto in tanto.

“Si, Mr. Rose, anche lei è molto elegante oggi.” recitò Izzy, imitando la voce della sua ragazza e il suo tono ironico, voltandosi a guardare l’amico che, come il biondino, indossava dei pantaloni di pelle nera e una camicia bianca, sotto un’impeccabile giacca nera.
Accanto a lui, Erin era un’esplosione di fuoco, in un lungo abito di seta che le arrivava fino ai piedi, lasciando scoperta una generosa porzione di schiena.

“Hudson!” chiamò Steven “Fatti un po’ più in là, animale!”
Il chitarrista sollevò il capo, scrutandoli da sotto il suo immancabile cilindro e una cascata di riccioli nerissimi.
Quando lo raggiunsero, l’unica cosa visibile del suo volto era la bocca, piegata in un mezzo sorriso.

“..’giorno” li salutò sbadigliando “Come butta?” biascicò, barcollando vistosamente e franando addosso a Steven quando tentò di alzarsi in piedi.
Izzy lo guardò aggrottando la fronte.
“Quanto cazzo hai bevuto per ridurti così?” gli chiese, sollevandolo di peso e rimettendolo seduto.
“Una, due bottiglie..” scrollò le spalle, vago.
“Di birra?”
Steven guardò Roxanne scuotere il capo e mormorare qualcosa a Erin, prima di sparire assieme a lei nella ressa.
“Naaa!” Slash ridacchiò “Del caro, vecchio, Jack!”
“Gesù!” Axl sospirò “E perché di grazia?”
“Ohhh, non te lo dico.” protestò il chitarrista riccioluto, imbronciandosi.
“Non fare il bambinone..” gli intimò Steven, bonario.
Il chitarrista sbuffò.

“E va bene.” cedette, incrociando le braccia al petto “Perla non è voluta venire qui con me.”
“E tu ti sei ubriaco per questo...?” gli occhi di Axl si ridussero a due fessure.
Slash annuì, con un largo sorriso.
“E mi spieghi come cazzo dico a Duff che il suo testimone non è nemmeno in grado di reggersi in piedi perché la sua ragazza non è venuta con lui?!” lo aggredì il cantante, afferrandolo per il colletto della camicia sapientemente aperta sul petto e scuotendolo come fosse un pupazzo.
Fu quando vide il volto del ragazzo assumere un colorito vagamente verdognolo che Izzy intervenne, strappandolo di mano ad Axl e rimettendolo seduto, mentre Steven si lanciava contro il cantante.
“Dannazione Axl, ma non hai proprio mezze misure tu, eh?” strillò furibondo “Ci manca solo che si vomiti addosso e poi siamo a posto, Duff ci decapita di persona uno ad uno.”
Relax.” gli intimò il front-man “Duff non ci farà un cazzo, non se ne accorgerà nemmeno...”
“E COME PUO’ NON ACCORGERSI CHE è UBRIACO, DAL MOMENTO CHE NON SI RIGGE IN PIEDI?” ruggì il biondino.
“Steven, abbassa la voce!” sibilò Izzy, che tentava inutilmente di evitare che Slash rimettesse anche l’anima davanti a una marea di persone che sembravano non aver nulla di meglio da fare che accerchiarli e guardarli con aria interessata.
“Dannazione, dannazione!” il batterista iniziò a girare in tondo, mordicchiandosi nervosamente le nocche delle mani, lanciando occhiatacce velenose a chiunque osasse incrociare il suo sguardo.
“Adler!”
Si voltò di scatto, riconoscendo la voce di Erin.
La bionda era in piedi su una sedia, qualche fila più indietro, e si stava sbracciando per attirare la sua attenzione.

“Erin!” gridò di rimando.
“Venite!” urlò ancora la ragazza, indicandogli la villa che si alzava maestosa alle sue spalle, in un trionfo di colonne e archi immacolati.
Si sbracciò un altro paio di volte, prima di saltare giù dalla sedia e scomparire, rapida come un folletto rosso fuoco.
Steven non perse tempo: si scrollò di dosso Axl, che fremeva letteralmente per sapere cosa la sua ragazza avesse detto, e assieme ad Izzy sollevò il chitarrista, rimettendolo in piedi e passandogli un braccio attorno alla vita, in modo da sostenerlo.

“Andiamo.” disse all’amico “Prima che Duff ci veda per davvero e decida che è una bella giornata per commettere un triplice omicido.”

 

On her ghost white wings
She will be carrying the weight of our deeds
And she bleeds for love
Forever gone.
 

HIM, Drunk on shadows.

 

Il silenzio della villa avvolse Izzy nel suo confortevole abbraccio, strappandolo alla confusione che regnava sovrana nel giardino.
Poteva sentire l’eco dei suoi respiri mescolarsi ai passi dei ragazzi che lo seguivano in un labirinto di corridoi, inseguendo il miraggio rosso dell’abito di Erin che spariva dietro ogni angolo.

“Dove siamo?” biascicò Slash, trascinato dal chitarrista e dal batterista su pavimenti di marmo lucidi e immacolati “Dove...andiamo...? Io ho sonno!”
“Buono Slash, buono.” lo ammonì il biondino, cercando di evitare che il ragazzo rovinasse a terra.
Non sapeva nemmeno lui dove stessero andando, sapeva solo di dover andare.

Alle loro spalle, Axl fischiettava allegramente, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni e una smorfia noncurante stampata sul bel viso.
Se non fosse stato che era impegnato a tenere in piedi Slash, Izzy gli avrebbe volentieri mollato qualche ceffone.

“...dove cazzo sono?” esclamò Roxanne, spalancando una porta che per poco non centrò il cantante in pieno viso.
“Ah, eccovi!” commentò, aggrottando la fronte.
Aveva un’aria talmente contrariata che nessuno ebbe il coraggio di dirle nulla: i ragazzi seguirono il ticchettare arrabbiato dei suoi tacchi sul pavimento, dentro la stanza.

Erin fece capolino da un’altra porta.
“Qui.” ordinò secca ai ragazzi, mentre Roxanne le sfilava accanto infilandosi in quello che Izzy intuì fosse il bagno.
In un angolo, la doccia scrosciava allegramente, senza riuscire a coprire del tutto il cicaleggio che saliva dal giardino e passava oltre le grandi tende bianche, tirate davanti alle finestre aperte.
“Slash, ti prego di non raccontare mai a Perla quello che sto per fare.” sospirò la mora, le labbra tirate in un sorriso rassegnato “Ma, credimi, è necessario.”
Roxanne si avvicinò al ragazzo che sbatté le palpebre un paio di volte, intontito dal troppo alcol in circolo, e la guardò mentre gli slacciava la pesante cintura argentata che portava in vita e la lasciava cadere a terra, con un allegro tintinnare.
“Co-cosa diavolo fai?” boccheggiò Izzy, completamente paralizzato mentre lei iniziava a sbottonare i pantaloni del chitarrista, dopo avergli sfilato gli stivali neri dai piedi.
“Mi pare evidente.” replicò lei, proseguendo imperterrita nella sua opera.
“Lo sta spogliando, razza di idiota.” intervenne Axl, posandosi sullo stipite della porta, con una sigaretta penzolante tra le labbra.
Gli brillavano gli occhi.

“Si, lo sta spogliando.” convenne Steven, annuendo con aria grave.
“Lo stai spogliando?!” strillò il chitarrista dopo qualche attimo di silenzio, fissando la sua ragazza come se fosse completamente impazzita.
“Mi sta spogliando!” ridacchiò Slash, sorridendo felice come un bambino che ha appena ricevuto in regalo un intero pacco di caramelle.
“Si, lo sto spogliando.” confermò Roxanne, mentre con un strattone deciso, abbassava i pantaloni del chitarista, scoprendo un baio di boxer bianchi a righine blu “E credimi, non ho intenzione di fermarmi qui.”
Izzy sbiancò, le labbra strette in una linea nervosa e sottile.
Non disse niente, mentre le mani di Roxanne scivolavano sul petto di Slash, sfilandogli il frack e la camicia.
La ragazza schioccò la lingua contro il palato, posando entrambe le mani sulle spalle del chitarrista e guardandolo dritto negli occhi.

“Pronto, tesoro?” gli chiese con un largo sorriso.
I riccioli neri ballarono un paio di volte, mentre il ragazzo annuiva, senza nemmeno immaginare a cosa stesse dando il suo consenso. 
“Bene. Diamoci una mossa, o facciamo notte.”

Erin ridacchiò, aspettando che l’amica scostasse la tendina della doccia per spingere Slash dritto sotto il getto d’acqua.
L’acqua schizzò da tutte le parti, accarezzando la pelle scura del chitarrista che ci mise più  o meno una decina di secondi a realizzare quanto fredda fosse.

“Cazzooooo!” strillò, cercando di sottrarsi all’acqua gelida che gli cadeva addosso.
“No, tesoro, di lì non ti muovi!” gli intimò Roxanne, spingendolo nuovamente sotto il getto scrosciante, sorda alle sue proteste.
Strillò inferocita, quando uno spruzzo la colpì in pieno volto, ma non mollò la presa sui fianchi di Slash, costretto a rimanere immobile con addosso solo un paio di ridicoli boxer completamente fradici, fino a quando Izzy non si fece avanti e la spostò gentilmente, prendendo il suo posto.

“Lascia, faccio io..” le sorrise dolcemente, afferrando l’amico per gli avambracci e impedendogli di sfuggire all’acqua ghiacciata.
Aveva arrotolato le maniche della camicia, in modo da non bagnarsi troppo, e si teneva indietro con il busto, in modo che qualche schizzo non raggiungesse panciotto nero e i pantaloni, rovinandoli.
Il suo immancabile cappello, lo aveva affidato a Steven.

“Grazie, sei un tesoro..” gli posò una bacio su una guancia, prima di affondare il viso nell’asciugamano che Erin le porgeva.
“Come stiamo a tempo?” le chiese poi.

La biondina guardò pensierosa l’orologio che portava al polso.
“Un quarto d’ora abbondante,” decretò, aggrottando la fronte.
“Forse era meglio farlo vomitare..” la mora si passò il telo bianco sul collo e sulle spalle, prima di lanciarlo in un angolo.
“Vomitare?” domandò Steven “E perché mai?”
“Per fargli passare prima la sbornia,” gli sorrise, posandogli una mano sulla spalla destra “E’ quello che facevano a me le mie amiche, quando a una festa bevevo troppo e non ero in condizioni di tornare a casa.”
“La grande Roxanne ha un lato umano, dunque!” commentò sarcastico Axl, abbracciando Erin e posando il mento sulla sua spalla.
“Non ho mai sostenuto di non esserlo,” scrollò le spalle, osservandosi il vestito con aria critica dopo aver infilato nuovamente i guanti color perla, “ho fatto le mie buone cazzate, ai miei tempi” ghignò, aprendo un mobiletto di legno chiaro e agguantando un enorme asciugamano, probabilmente fresco di bucato.
Dopo che Izzy ebbe chiuso l’acqua, l’allungò a Slash , che se lo avvolse attorno, tremando per il freddo.
“Quando ero al liceo, ero un caso umano.”

“Stento a crederlo.” Steven si accoccolò su uno sgabello, allungando le gambe davanti a sé.
“Oh, fidati!” gli occhi della ragazza brillarono, sornioni “Ero una persona completamente diversa. Ma poi è successo quel che è successo, le cose sono cambiate e io con loro.” scrollò le spalle, raccogliendo i vestiti di Slash da per terra.
“Cosa è successo?” indagò il chitarrista, incuriosito.
“Probabilmente le è morto il pesce rosso e per lo schock ha giurato di diventare una bacchettona rompi-coglioni” acido, Axl la guardò male. Lei sospirò, senza prendersela.
“No, Axl. Hai presente quella cosa che il mondo è solito chiamare ‘realtà’? Ecco, diciamo che ci ho sbattuto il muso contro con ragguardevole intensità.”
“Una delusione d’amore?”
“No, Stevie, no.”
Izzy le posò un braccio sulle spalle, stringendola a se con fare protettivo.
“Ah.” il batterista si alzò in piedi “E allora cosa?”
“E non vedi che non vuole parlarne? E fammi il favore di tapparti quella fogna anche tu, mi scoppia la testa cazzo.” sbottò Slash, rivestito alla meno peggio e intento ad asciugarsi i capelli con l’asciugamano.
Roxanne gli sorrise, accoccolandosi meglio contro Izzy e chiudendo gli occhi per qualche attimo.

Sono passati anni, si disse, posso anche dirlo.
Ma non era facile.
Non era mai facile, per lei, toccare quell’argomento che per anni aveva condizionato la sua vita.
Non aveva mai imparato a conviverci completamente, non l’aveva mai accettato del tutto.
Inspirò a fondo, riempiendosi i polmoni dell’odore del ragazzo, quel miscuglio di nicotina e malinconia che alle volte le faceva venire le lacrime agli occhi, e si fece coraggio. Non c’è nulla di cui vergognarsi, si disse per l’ennesima volta.

“Questioni di famiglia.” disse alla fine, una mezza verità che non avrebbe fatto male a nessuno.
Riaprì gli occhi su Steven, per posarli poi su Axl, che non perse l’occasione per lanciarle una frecciatina.

“Oh, poverina, fammi indovinare: i tuoi hanno divorziato.” rise, beffardo, senza accorgersi di come il volto di Izzy si fosse contratto per la rabbia.
“Veramente no.” Roxanne si stupì nel sentire la sua voce ferma e limpida.
Mantenne lo sguardo fisso sul cantante, del tutto decisa a non abbassarlo per prima.
“Hanno arrestato mio fratello. La polizia lo ha fermato, una sera, stava tornando a casa in macchina: lo hanno trovato ubriaco come una merda e con un po’ troppe dosi di eroina in tasca.” spiegò con un distacco che fece rabbrividire il ragazzo accanto a lei.
Erin trattenne il respiro.
“Lo hanno sbattuto dentro prima che potesse dire una sola parola. E dal quel giorno ha cominciato ha fare dentro e fuori dal carcere, ad intervalli più o meno regolari. Ha smesso di spacciare, si è trasformato in un tossico disposto a tutto per la sua dose, e da mesi non abbiamo più sue notizie. Ecco cosa è successo.”

“Oh, Roxy, mi dispiace tanto..” Steven spezzò il silenzio che era calato nella stanza, gli occhi azzurri colmi di un dispiacere che traspariva, palese, anche nella voce.
“E’ stato tanto tempo fa, Stevie, non dispiacertene.” sorrise al batterista e a Slash, che senza dire una parola le si era avvicinato e le aveva posato una mano sul capo.
“Si, ma...”
“Niente ma, è una storia vecchia e triste che non dovrebbe esser raccontata in un giorno di festa!” Roxanne sorrise, vivamente, sciogliendosi dall’abbraccio di Izzy e recuperando il cilindro dell’altro chitarrista, abbandonato sul tappeto dove prima sedeva Steven.
“Quel che è stato, è stato, non si può cambiare il passato. Ma si può fare un tentativo con il futuro.” rigirò il cappello tra le mani, prima di calcarlo in testa a Slash. “E poi, siamo qui per festeggiare Duff, non per compiangere me o criticare mio fratello.”

Prese la mano a Izzy e, senza lasciarla andare, sfilò accanto ad Axl, che continuava a stringere Erin tra le sue braccia senza dire nulla.
Fissava la mora, in silenzio. C
ombattutto tra l’antipatia nei suoi confronti e il disgusto verso se stesso, per la cattiveria gratuita.

“...scusa” borbottò alla fine, mentre la ragazza lo sorpassava.
Roxanne si fermò un attimo, indecisa se rispondergli o meno: fu un attimo, un attimo soltanto nel quale sentì che sarebbe potuta scoppiare a piangere o avrebbe addirittura potuto abbracciarlo.
Izzy le strinse la mano con più forza e, dopo aver incrociato il suo sguardo limpido, verde scuro, inclinò appena il capo di lato, come a dire che non era importante.
Senza dire o fare altro, varcò la soglia della stanza.

 

With you I am revealed
All my shame all my faults and virtues
Behold body mind and spirit
Heart and soul devoted all to you.
 

Tracy Chapman, Wedding song.
 

Quando Mandy attraversò la navata improvvisata sul prato, leggera come una libellula e aggraziata come una ballerina, percorrendo al fianco di suo padre il lungo tappeto rosso che era stato steso sull’erba, Roxanne non seppe trattenersi dal sospirare e appoggiare il capo contro il petto di Izzy.
Il chitarrista le posò un bacio tra i capelli, abbracciandola e seguendo con lo sguardo la sposa che avanzava sorridendo verso il gazebo, dove Duff l’aspettava.

“E’ un gran bel pezzo di ragazzo.” commentò Erin alla loro destra, squadrando il bassista da capo a piedi un paio volte.
Elegantissimo nel suo smoking nero, portato con disinvoltura sopra un paio di pantaloni attillati, esibiva per l’occasione uno degli innumerevoli cilindri di Slash.

“Decisamente.” sussurrò Roxanne, mentre il biondino all’altare sollevava il velo alla sua futura moglie e gli invitati tornavano a sedersi.
“Siamo qui oggi,” iniziò a dire il vecchio prete, alternando gli occhi scuri tra i due ragazzi, in piedi davanti a lui, “per celebrare l’amore. Un amore che ha deciso di sfidare le distanze, un amore che non ha paura di affrontare le difficoltà della vita, un amore che è sbocciato come un fiore tra questi due giovani. Duff e Mandy.”
“Izzy, hai un fazzoletto?” domandò con un sospiro la ragazza, sentendosi pizzicare gli occhi.
“Santo cielo, ma è appena iniziata la cerimonia!” osservò il chitarrista, senza comprendere il perché di tutta quella commozione.
Steven gli rifilò una gomitata tra le costole, tirando su con il naso.

“E allora?” gli chiese, quasi offeso, tastandosi le tasche alla ricerca di un fazzoletto “E’ commovente!”
“Come guardare Madama Butterfly.” la voce strascicata di Axl non li colse di sorpresa e, per una volta, Izzy si disse d’accordo con lui.
“Sono noiosi i matrimoni.” borbottò, guadagnandosi tre occhiatacce velenose.
“Insensibili.” sibilò dopo qualche attimo Roxanne, incrociando le braccia al petto.
“Siete aridi da paura.” rincarò Erin, anche lei con gli occhi lucidi.
“Animali” concluse Steven.
Il chitarrista non disse niente, guardando l’amico sconsolato: il front-man scrollò le spalle, rassegnato.
Poco da fare, sembravano dire i suoi occhi, li abbiamo persi.

“Duff,” stava intanto dicendo Mandy, stringendo forte le mani del bassista e guardandolo negli occhi, “se tu mi dicessi di piangere per te, lo farei. Se mi chiedessi di morire per te, lo farei. Guardami: non c’è prezzo che non pagherei per poter restare sempre al tuo fianco e poterti dire quanto ti amo per il resto dei miei giorni. Vorrei poterti regalare tutti i miei sogni e le mie speranze, prenderli uno ad uno e chiuderli in una scatola da mettere tra le tue mani. La mia vita, il mio cuore, la mia anima.” s’interruppe un attimo, gli occhi lucidi per l’emozione “Ti amo, Michael Duff McKagan. Ti amo e ti amerò sempre, fino a quando le stelle smetteranno di brillare, fino a quando i cieli bruceranno e quando morirò.. quando morirò avrò te tra i miei pensiari, e null’altro. Ti amo, e ti amerò sempre.”
Roxanne singhiozzò rumorosamente, coprendosi la bocca con una mano guantata, mentre l’altra andava istintivamente a cercare quella di Izzy.
Il ragazzo sorrise, ricambiando la sua stretta.
Accanto a loro, Axl si era acceso una sigaretta ed era intento a guardare il cielo senza particolare interesso, perso in chissà quali pensieri, mentre Erin era sul punto di scoppiare a piangere.
Ma nessuno avrebbe potuto dire se fosse per la commozione o per il comportamento del suo ragazzo.
Steven, dal canto suo, seguiva la cerimonia in religioso silenzio, tenendo d’occhio Slash, che di tanto in tanto barcollava pericolosamente e continuava a tenersi una mano alla tempia.
I riccioli neri, ancora bagnati, brillavano nella calda luce del sole ogni qualvolta lui agitava la testa. Ma sembrava resistere.

“Non posso proprio baciarla, Padre?” domandò Duff dopo aver ascoltato la promessa di Mandy, stringendole entrambe le mani con dolcezza.
La folla rise, mentre il prete scuoteva il capo e sorrideva indulgente, invitandolo a pronunciare la sua, di promessa.
Il biondino si schiarì la voce, annuendo brevemente.

“Mandy Brix,” iniziò, con un mezzo sorriso che fece ridacchiare Slash, “non ho mai incontrato una come te. Ho visto tante cose, ho amato molte donne, ho perso tante persone lungo la strada, ho pagato per i miei errori. Sono finito all’inferno e sono tornato indietro, e tu sei sempre stata al mio fianco. Non sei solo la mia compagna, sei la mia migliore amica, la persona di cui mi fido di più, e per tutte le parole che non ti ho detto, le cose che non ho fatto...beh, da oggi in poi, ti prometto che troverò il modo per non fartele più mancare” s’interruppe, mentre una lacrima rotolava lungo la guancia di Mandy. La catturò con il pollice, portandosela alle labbra. “Ogni volta che ti guardo, ogni volta che guardo il tuo bellissimo viso, vedo qualcosa di nuovo che mi porta sempre più in alto, dove non sono mai stato prima d’ora, e mi fa desiderare di averne sempre di più.”
Izzy guardò Roxanne, che aveva affondato il volto in un fazzoletto gentilmente offertole da una vecchina seduta qualche fila più avanti, e desiderò di poter essere al posto di Mandy e Duff: desiderò di poter essere davanti al prete, con le mani di Roxanne tra le sue, a dire quello che celava nel suo cuore e non aveva mai il coraggio di dire.
“Ti amo, piccola..” le sussurrò, riavviandole una ciocca dietro un’orecchia e soffermandosi ad accarezzarle il collo. Lei singhiozzò di nuovo, stringendo più forte la sua mano.
“..mi fai desiderare di non dormire la notte, sognare diventa uno spreco di tempo quando sono accanto a te, quando posso ascoltare il tuo respiro. Quando guardo a dove sono arrivato, nella mia vita, mi rendo conto che io vivo solo per amare te. Puoi distruggere il mondo che ci circonda, puoi distruggere tutto ciò che sono, ricorda solo questo: vivo solo per amare te.”
Gli invitati trattennero il fiato, persino Axl si sciolse in un sorriso e strinse a se Erin, definitivamente in lacrime.
Steven sospirò, mentre Roxanne sorrise, asciugandosi una lacrima e abbracciando Izzy, che la cullò fissando il gazebo e i due ragazzi lì davanti con sempre più invidia.

“...al diavolo!” esclamò all’improvviso Mandy, prima che l’anziano prete potesse dire qualcosa: si slanciò in avanti, buttando le braccia al collo di Duff e baciandolo.
Slash fu il primo ad applaudire, entusiasta, presto imitato da buona parte dei presenti, tenuti a freno dalle proteste dell’officiante, che faticava a non sorridere.

“Vedere un tale amore in due creature tanto giovani fa bene al cuore.” commentò, chiamando con un cenno Slash e chiedendogli di dare gli anelli ai due ragazzi. “Duff, ripeti dopo di me.”
Il bassista si schiarì la voce, annuendo.
“Io, Micheal Duff McKagan.”
“Io, Micheal Duff McKagan.”
Izzy sorrise, sentendo la voce dell’amico tremare impercettibilmente.
“Prendo te, Mandy Brix.”
“Prendo te, Mandy Brix.”
Smise di seguire lo scambio di battute tra i due, troppo preso dalla presenza di Roxanne al suo fianco.
Se chiudeva gli occhi, poteva sentire il suo profumo solleticargli il naso.
Non aveva mai capito perché, ma aveva lo stesso dolce profumo dei bambini piccoli, un profumo che era un miscuglio di albicocca, mandorla e talco, con una punta di nicotina che lo faceva letteralmente impazzire.
La fece sedere sulle due gambe, circondandole la vita con le braccia e nascondendo il viso tra i suoi capelli.

“Ti ho già detto che sei bellissima?” sottovoce, soffiò le parole tenendo gli occhi fissi sulla coppia.
“Si, un paio di volte” replicò lei, vivacemente “E’ un vestito straordinario, lo so.. l’ho trovato per pura fortuna in fondo all’armadio, ero convinta di averlo buttato quando..”
“Non parlavo del vestito.” la interruppe, ascoltando i battiti del suo cuore pulsare nella vena che risaliva il suo collo.
Roxanne arrossì, voltando il capo fino ad incrociare la fronte del ragazzo sulle labbra.
“Ancora non ho capito,” mormorò, “cosa ho fatto per meritare te.”
“Potrei chiederti la stessa cosa.” replicò il chitarrista ridendo, mentre Duff finiva di promettere che si sarebbe preso cura di Mandy da lì all’eternità.
Lei sospirò, sorridendo.

“Quando mi sposerò,” iniziò a dire, cambiando bruscamente dicorso, “voglio pochi invitati. Gli amici più stretti, i miei genitori, mio fratello e basta.”
“E come la mettiamo con i giornalisti, i tizi della casa discografica e compagnia bella?”
“Cosa ti fa pensare che sposerò te?” lo battè sul tempo lei, con un sorriso sornione ad illuminarle gli occhi scuri.
Izzy la fissò pensieroso, perdendosi in quel mare color cioccolata.
Fece per baciarla, ma lei si ritrasse.

“Perché mi ami e io amo te.” le disse allora, aggrottando la fronte.
“E tu che ne sai dell’amore?” lo schernì, accarezzandogli il volto affettuosamente.
“Che l'amore sia la sola cosa, è la sola cosa che so dell'amore: tanto basta.” Rispose prontamente il chitarrista, citando Emily Dickinson.
Roxanne si lasciò baciare, questa volta, senza ritrarsi. Fu la voce gioiosa del prete, a farli separare.

“E in nome del potere conferitomi dalla chiesa, io vi dichiaro marito e moglie! Puoi baciare la sposa, adesso.”
Gli occhi scuri della ragazza corsero rapidi alla coppia, che si scambiava il suo primo bacio da sposati, mentre gli invitati esplodevano in un applauso spontaneo, che durò fino a quando la coppia non si voltò verso le file gremite di persone scattate in piedi per acclamarli.
“I prossimi siamo noi.” assicurò Axl ad Erin, tenendola per mano.
La bionda sorrise, vaga, lasciandosi trascinare via verso il bassista.

“Congratulazioni, Duff.” Roxanne sorrise, baciando il ragazzo sulle guance e passando poi a Mandy, che abbracciò di slancio “Sono così felice per voi!”
“McKagan, congratulazioni!” Izzy strinse la mano all’amico, imitato poi dal cantante e da Steven, intento a congratularsi con la novella sposa.
Il bassista inspirò a fondo, guardando uno ad uno i ragazzi presenti.
Sembrava sul punto di dire qualcosa, osservò Izzy. Ma se davvero voleva, non lo fece: il biondino si limitò a regalare loro un largo sorriso, prima di prendere per mano Mandy e annunciare con voce gioiosa.

“E adesso, ladies and gentleman, inizia la fottuta festa!”

 

Forever we are
Forever we've been
Forever we'll be crucified to a dream
In the nightside of Eden.
 

HIM, The nightside of Eden.

 

Slash scoppiò in una fragorosa risata, ascoltando Steven raccontare di una strana ragazza incontrata appena fuori dai bagni, che gli era letteralmente saltata addosso dichiarando di essere follemente innamorata di lui.
“E tu chei hai fatto?” indagò Axl, bevendo un sorso di vino.
“Me la sono filata, chiaramente!” esclamò il batterista, dopo essersi concesso a sua volta una generosa sorsata di Merlot.
“Ecco perché vai sempre in bianca, cretino!” replicò Duff, molto più ubriaco di quanto non avrebbe voluto.
L’intero tavolo si mise a ridere, batterista compreso, sino ad avere le lacrime agli occhi.
Era da poco passata la mezzanotte, e i festeggiamenti erano giunti al loro apice: dopo una cena che era sembrata infinita, i novelli sposi avevano aperto le danze sulle note di una vecchia canzone intonata da Axl, accompagnato dalla chitarra di Izzy.
Roxanne aveva fatto il suo primo ballo con Slash, volteggiando leggera sulla pista in un turbinare di raso blu scuro e riccioli neri, per poi cadere tra le braccia di Steven che le aveva tenuto compagnia per altri tre brani, prima che Izzy la reclamasse tutta per sé.
Avevano ballato per ore, senza mai accusare la stanchezza.
E anche quando erano stati troppo stanchi per proseguire erano andati avanti, troppo entusiasti per la splendida giornata che avevano alle spalle per poter lasciare che finisse troppo presto

Roxanne si sedette a gambe incrociate sulla sedia, dopo essersi sfilata le scarpe dai piedi dolorati, e si versò un bicchiere d’acqua.
Si sentiva abbastanza euforica e traballante per sapere che era brilla, l’ultima cosa che voleva era ubriacarsi prima che venissero serviti i super-alcolici.

“Ragazzi, io vorrei dire quattro paroline.” biascicò Duff, alzandosi in piedi a fatica e appoggiandosi al tavolo per non cadere “Wow..” commentò, chiudendo gli occhi per qualche attimo, in attesa che il mondo smettesse di girare così vorticosamente.
I ragazzi si zittirono, voltandosi a guardarlo.

“Innantitutto!” iniziò, sollevando il bicchiere “Un brindisi alla mia bellissima, straordinaria, fantastica, splendida moglie. A te, Milly!” aggrottò la fronte, subito dopo aver pronunciato il nome, un tantino perplesso, mentre la ragazza al suo fianco lo fulminava “Mandy!” si corresse fulmineo, scoppiando in una risatina imbarazzata “Mandy! Scherzavo tesoro, scherzavo. La mia vita non sarebbe la stessa, senza di te. Ti amo.”
“A Mandy!” esclamarono tutti in coro i ragazzi, levando il bicchiere a loro volta e buttandone giù il contenuto tutto d’un fiato.
I calici tornarono sul tavolo, coperto da una non più immacolata tovaglia rosa pallido, in attesa di essere riempiti di nuovo.

“Un brindisi anche a Slash, il miglior testimone che un uomo può desiderare!” riprese Duff, la voce impastata e lo sguardo opaco, perso.
Il cilindo gli pendeva da un lato, sui capelli biondissimi.

“A Slash!”
I bicchieri si svuotarono di nuovo, mentre il volume delle risate aumentava in diretta proporzione con il diminuire del contenuto della bottiglia, ben presto vuota.
Al quarto brindisi, non ebbero più nulla da versare.

“Un’altra bottiglia, un’altra bottiglia!” esclamò lo sposo, tra una risata e l’altra.
Izzy accarezzò il viso di Roxanne, che gli sorrise, soffiandogli un bacio.

“Sei stanca?” le chiese mentre un cameriere faceva comparire dal nulla una nuova bottiglia di vino.
“No.” rispose lei, con un sorriso luminoso.
Lui annuì, mentre la band attaccava una canzone di Johnny Cash.

“...e un brindisi anche ai migliori amici di sempre!” proruppe Duff, alzando nuovamente il suo bicchiere.
“A chi ha vissuto per mesi in quel dannato pullman, a chi ha saputo resistere alle cene preparate da me, a chi ha fatto tremate il mondo e ha urlato contro il cielo ogni-fottuta-sera. A Axl, che se non è il primo mi uccide! A Slash, il migliore con quella cazzo di chitarra! A Izzy e alle sue sigarette che non finiscono mai! A Stevie, il nostro Pop-corn, e le sue bacchette disperse per il paese!” s’interruppe un attimo, con gli occhi lucidi “Siete i migliori, ragazzi. Siamo i migliori, cazzo!”

“Ai migliori amici di sempre!” gridarono tutti assieme, per l’ennesima volta, celebrando la loro amicizia.
“E ai panini di Roxy!” aggiunse Steven dopo qualche attimo.
“E alla pazienza di Erin!” sottolineò Roxanne, sorridendo alla bionda che ricambiò il gesto. 
“A noi.” concluse Izzy, semplicemente. Scoppiarono a ridere, senza motivo, i visi arrossati per il caldo e i bicchieri di troppo, le lingue sciolte e le gambe traballanti.
Roxanne si appoggiò allo schienale della sedia, guardando i volti dei ragazzi che la circondavano.
Se, nove mesi prima, qualcuno le avesse detto che avrebbe partecipato al matrimonio di Duff McKagan, lei sarebbe scoppiata a ridere.
Nove mesi.
Guardò Izzy, al suo fianco, il bel volto disteso in un sorriso, i lunghi capelli neri, gli occhi di quell’insolito verde scuro che quando si posavano su di lei avevano il potere di scaldarle il cuore, le mani sempre fredde, dalle lunghe dita affusolate, il sorriso sbilenco.. ogni volta che lo guardava, scopriva piccoli particolari che finiva irrimediabilmente con l’amare alla follia. Amava ogni cosa, di Izzy.
Ogni sfumatura della voce, ogni espressione, ogni atteggiamento.

Nove mesi.
Stentava a credere che una cosa del genere fosse successa proprio a lei, una banalissima cameriera di Los Angeles.
Eppure era successo, e adesso stava vivendo il periodo più felice della sua vita, nonostante gli alti e bassi e la distanza.
Stava vivendo la sua favola personale, quella che nessuno avrebbe potuto mai rubarle.
Sorrise, accettando il bicchiere che Izzy le porgeva.
Le cose non possono andare meglio, si disse, scoppiando a ridere ad una battuta di Mandy.
Era come se la realtà, quella stessa realtà che presto o tardi era sempre tornata a bussare alla sua porta per colpirla fino a farle sputare sangue, ricordandole che non aveva alcun diritto di essere felice, si fosse dimenticata della sua esistenza.
O avesse deciso di concederle una pausa particolarmente lunga, dandole il tempo di prendere fiato prima di un ultimo attacco.
O forse.
Forse si era arresa.
Forse aveva deciso di averla fatta soffrire abbastanza e che poteva lasciarla tranquillamente in pace: erano mesi che suo fratello non si cacciava nei guai, in fondo, e le cose anche a casa sembravano andare per il meglio.

“...nne? Roxanne!” la voce di Duff la strappò ai suoi pensieri. Sobbalzò leggermente, voltandosi verso il bassista, che le stava porgendo un bicchierino colmo di liquido ambrato.
“Eh?” spaesata, guardò il biondino aggrottando la fronte.
“Tocca a te.” la esortò questi, con un largo sorriso. Roxanne allungò una mano, prendendo il bicchierino tra le dita, coperte da stoffa color perla.
“Tocca a me cosa?” domandò smarrita.
“Confessa un tuo segreto e bevi per dimenticare di averlo raccontato.” le spiegò Izzy, strascicando le parole.
La ragazza sospirò: di nuovo quel gioco. Aveva visto ognuno dei cinque musicisti confessare le assurdità più irripetibili, man mano che i giri andavano avanti: segreti che era meglio non svelare, confessioni di tradimenti di cui nessuno avrebbe dovuto sapere nulla, vecchi rancori nascosti per anni.
Non aveva nessuna intenzione di partecipare a una cosa del genere.

“Non mi va, Duff, scusami...” mormorò.
Era sufficentemente brilla dopo tutti i brindisi che avevano fatto, non aveva bisogno di altro alcol.
E poi, già da sobria aveva la tendenza a parlare troppo, la sua lingua stava bene così, senza bisogno di sciogliersi un altro po’.

“E perché?” Steven sgranò gli occhi, incredibilmente azzurri.
“Non mi va, ci deve essere per forza un motivo?” protestò vivacemente, con una mezza risata.
Slash la fulminò con lo sguardo, intimandole silenziosamente di partecipare al gioco senza troppe storie.

“Fuori-il-segreto.” sibilò Axl, mangiandosi metà delle lettere che componevano ogni parola. Il cantante si sporse sul tavolo, puntandole l’indice contro. “Non rovinare la festa a tutti.”
“Ma non mi va!” esclamò esasperata la ragazza, alzando gli occhi al cielo. Al suo fianco, Izzy ridacchiava senza ritegno, godendosi la scenetta.
“Di grazia, vuoi dirci almeno il perché?” insistette Axl, gli occhi verdi animati da un luccichio divertito.
“Non mi piace il whisky!” sbottò Roxanne, guardando torva il front-man, che sorrise trionfante.
“Ma ora lo butti giù tutto d’un fiato, perché nessuno di noi lo sapeva e sono le regole!” gongolò felice, mentre Izzy scoppiava definitivamente a ridere, piegandosi fino a toccare il tavolo con la fronte. La ragazza lo fulminò.
“Grazie per il supporto, eh!” sibilò gelida, posando con rabbia il bicchierino sul tavolo.
“Amore, ha ragione... hai svelato un segreto, adesso devi bere.” confermò il chitarrista, con più alcol che sangue nelle vene.
“Signorina May?” un cameriere si fermò discreto alle spalle di Roxanne, che si voltò, grata per poter rimandare la bevuta indesiderata.
“Si?”
“C’è una telefonata per lei, da parte di sua madre.” riferì compunto il ragazzo.
“Ah.” la mora si alzò, stupita. Non era tipico di sua madre chiamare alle tre del mattino ad un numero lasciato solo ed esclusivamente per le emergenze.
“Dove posso rispondere?”

“C’è una stanza, subito prima dei bagni, con un telefono. Può parlare lì, senza salire alla sua stanza.”
“Grazie.” Roxanne gli sorrise, chiedendosi cosa avesse causato la telefonata.
Accantonò la preoccupazione, schioccando un bacio sulla guancia ad Izzy e scusandosi con gli altri.

“Salutamela!” gridò il chitarrista, guardandola allontanarsi e imboccare un corridoio, dove sparì.
Non ci mise molto a trovare la stanzetta indicatale da cameriere: era l’unica porta nell’intero corridoio, se si escludevano quelle dei bagni, ed era talmente minuscola che non poteva essere assolutamente scambiata per una camera.
Una poltroncina rossa era sistemata accanto ad un tavolino, sopra il quale un telefono nero, smaltato, faceva bella mostra di se in attesa di poter essere utilizzato.
Roxanne si accoccolò sul pavimento, coperto da una folta e soffice moquette color porpora, con il telefono in grembo, e sollevò la cornetta.

“Ciao mamma, sono io!” esclamò pimpante, dopo aver aspettato che una centralinista le passasse la chiamata “Come stai?”
"Roxanne." disse la donna, con la voce rotta da un pianto troppo a lungo trattenuto "Tuo fratello è morto."
Lo disse tutto d'un fiato, alla stessa maniera con qui il whisky scappava lungo le gole dei suoi amici.
Senza pause, per non sentire il sapore.
Per non sentire il dolore.

Le cadde di mano la cornetta, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime.
Una volta ancora, il mondo non aveva perso occasione per farla schiantare contro il muro incrollabile della realtà.
E aveva scelto il momento migliore per farle più male.

 

PARLA IZZY:

Tutti capirono che era successo qualcosa di brutto, quando ti videro tornare pallida come un cencio.
Quando poi afferrasti il bicchiere che ti è rifiutata di bere poco prima e lo svuotasti tutto d’un fiato, ne ebbero la confema.
Ma tu sorrisi, un sorriso talmente tirato e poco convincente che solo a pensarci mi vengono le lacrime agli occhi, e dicesti che no, era tutto a posto.
Fummo tutti d’accordo con Axl nel dire che eri una pessima bugiarda.
Ma nessuno di noi riuscì a scucirti nulla: ti rifugiasti in un carcere di silenzio dal quale ti rfiutasti di uscire fino a quando non rimanemmo soli io e te, nella nostra stanza.
Fu allora che ti vidi crollare, per la prima volta in nove mesi.
Scoppiasti in un pianto che mi lacerò il cuore, abbracciasti e affondasti il volto nella mia camicia, stringendomi come se la terra ti stesse cedendo sotto i piedi, facendoti precipitare in un baratro nero, senza fine.
Continuò per ore.
Ogni singhiozzo, ogni gemito, era una stilettata dritta al mio cuore, che piangeva con te e mi biasimava per la mia totale incapacità di riuscire a dire qualcosa che potesse placare quel dolore che ti dilaniava senza sosta.
Il rapporto tra te e tuo fratello era qualcosa che sfuggiva alla mia comprensione, all’epoca: non riuscivo a capire come tu potevi essere tanto legata ad una persona che ti causava così tante sofferenze.
Io avevo tagliato i ponti con il mio passato, quel passato che mi faceva stare sveglio la notte in preda dei pensieri più atroci.
Ma tu ti ci aggrappavi, disperatamente.
Solo adesso ho capito che lo facevi perché, in fondo, vivevi con l’illusione che le cose sarebbe cambiate in meglio e tutto sarebbe finito bene.
Era lo stesso motivo per cui chiudevi un occhio ogni volta che mi facevo o mi ubriacavo, e finivo nei guai.
Avevi bisogno di credere che sarei cambiato, un giorno.
Io questo non l’ho mai capito Roxanne, fino a quando non è stato troppo tardi.

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Capitolo 11
*** Promises, dramas and whisky [part II] ***


HAND IN GLOVE
# 9 PROMISES, DRAMAS AND WHISKY

~ part II



 
PARLA IZZY:
Non abbiamo mai più parlato, di quanto accadde quella notte.
Era un tabù, un argomento che non toccavamo mai direttamente e che, tacitamente, era proibito.
Non che non fossi curioso, lo eravamo un po’ tutti: non capitava spesso di vederti in difficoltà davanti a qualcosa,  ma bastava guardarti, guardare come la tua faccia si trasformasse in una maschera di terrore quando casualmente si sfiorava la questione, per capire che non era il caso di chiederti nulla.
Quel poco che sapevo –e tutt’ora so- di tuo fratello, è quello che mi raccontasti quella notte, tra un singhiozzo e l’altro, mentre cercavi di tenere ferma la voce, in una cantilena che seguiva il ritmo affannoso dei tuoi respiri e ti lasciò stremata, nel corpo e nello spirito.
Nemmeno quando venni al suo funerale, nonostante me lo avessi esplicitamente vietato, seppi qualcosa di nuovo.
Sembrava di assistere ad una rappresentazione teatrale, l’ultimo episodio di una saga nel quale si celebra la scomparsa di un personaggio noto a tutti al punto che non vi è nemmeno bisogno di dire altro che il suo nome per evocarne la memoria.
Quel che è certo, è che la sua dipartita cambiò la tua vita, la rivoltò come un calzino, la stravolse molto più di quanto non feci io, con la mia burrascosa comparsa.
Non sei mai più stata la stessa, da quel giorno.
O meglio, a guardarti eri sempre tu, la solita Roxanne: testarda, caparbia, mai disposta a scendere a compromessi.
Ma i tuoi occhi.
I tuoi occhi si riempirono di una luce triste, il tuo fascino divenne quello di una creatura malinconica, autunnale, che non aveva nulla a che vedere con il raggio di sole che eri stata per me.
Ovvio, non fu questo a spingermi a fare quello che ho fatto.
Se le cose tra noi sono andate così come sono andate, non ha nulla a che vedere con quella notte di maggio.
Ma dire che sei rimasta uguale, sarebbe mentire.
 


 
So far away from life
Close my eyes
Hold me tight.

HIM, Bury me deep inside your heart.

 


 
MALIBU’, 28 maggio 1988
Izzy accarezzò dolcemente il volto di Roxanne, illuminato dai raggi argentati della luna che coloravano la stanza, passando oltre le lunghe tende bianche tirate davanti alle finestre aperte.
Era una splendida notte di maggio, calda e limpida: il cielo, costellato di stelle, splendeva orgoglioso sulla metropoli, sfoggiando i suoi gioielli più belli e più preziosi.
La luna, una perfetta sfera perlacea, era la regina incontrastata di quelle tenebre impreziosite da miriadi di gemme, e vegliava maestosa i sogni della città che tardava a spegnerare il suo mare di neon colorati.
Si chinò su di lei, baciandole gli occhi chiusi e gonfi di pianto.
Dormiva da nemmeno mezz’ora, e il suo respiro era ancora interrotto da singulti che sembravano non avere nessuna intenzione di darle pace.
Le scostò una ciocca castana dal volto, affondando le dita tra i capelli e scendendo fino al collo, massaggiandoglielo dolcemente e tenendo le labbra premute contro la sua fronte, nella vana speranza che in un qualche modo potesse trasmetterle un po’ di tranquillità, almeno per dormire serenamente.
Avrebbe fatto possibile e impossibile per evitare che soffrisse in quel modo, ma c’era ben poco che potesse effettivamente fare davvero.
Starle accanto. Ascoltarla. 
Già cercare di confortarla era difficile, figurarsi riuscirci davvero.
Roxanne mugolò qualcosa nel sonno, nascondendo il viso contro il suo petto.
Izzy la strinse a sé, circondandola con le braccia: lei mormorò qualcos’altro, apparentemente cullata da un sonno finalmente liberatore, sospesa in un mondo dove non era morto nessuno e la vita era un susseguirsi di momenti felici e basta, senza tragedie nel mezzo, a spettare un ritmo di per se perfetto.
Non si era mai sentito così impotente in vita sua.
Quel pianto, quelle vere e proprie urla di dolore.
Era sempre stato convinto che solo nei film o nelle televele alla tv potessero esistere scene tanto strazianti, era cresciuto con la certezza che gli esseri umani non potessero soffrire così tanto in una volta sola.
Ma si era dovuto ricredere.
Non aveva mai visto Roxanne disperarsi prima d’allora.
Piangere si, più di una volta, ma disperarsi mai.
Stupidamente si era quasi convinto che non era tipo da lasciarsi andare al punto di perdere la voce e finire le lacrime. 
E adesso avrebbe preferito morire, piuttosto che guardarla piangere così di nuovo.
Nel corso di mezz’ora, quando ancora erano nel salone, si era scolata un’intera bottiglia di whisky e si era lanciata sulla seconda prima che la fermassero.
“Lasciatemi in pace.” era sbottata ridacchiando, quando sia lui che Steven le avevano chiesto per l’ennesima volta cosa fosse successo.
Alla fine, quando anche l’ilarità causata dall’alcol se ne era andata e l’aveva vista sul punto di esplodere, l’aveva presa in braccio e portata via, nella loro stanza.
Una volta lì, non aveva nemmeno avuto il tempo di chiudere la porta che lei si era accasciata per terra dopo un attimo di pausa, fermandosi a metà di una frase, aveva scagliato via le scarpe che indossava, contro una parete, e aveva iniziato ad ansimare, come se stesse soffocando.
“Tiramelo via, Izzy, TIRAMELO VIA!” aveva gridato, cercando in tutti i modi di liberarsi del vestito come se fosse diventato incandescente e la stesse bruciando viva.
Si era liberata dell’abito, ma le cose non erano migliorate: i rantoli si erano trasformati in singulti, le urla si erano fatte strazianti e gli occhi si erano riempiti di lacrime.
L’aveva abbracciata, l’aveva sentita cadere per terra di nuovo, incapace di reggersi in piedi: si era spaventato come mai in vita sua.
Ma aveva lasciato che si sfogasse, senza capire perché ne avesse un così disperato bisogno; non le aveva chiesto nulla, aveva aspettato che fosse lei ad aprirsi.
Se c’era una cosa che aveva imparato, era che metterle fretta non serviva a nulla.
Poi, d’un tratto, il pianto era finito così come era iniziato.
Si era liberata del suo abbraccio, barcollando leggermente, e l’aveva guardato dritto negli occhi.
Non era mai stata tanto bella come in quel momento.
Con addosso solo una sottoveste rovinata dal tempo, i capelli ingarbugliati, il volto coperto da una maschera di trucco sciolto e gli occhi colmi di una tristezza e una disperazione che lo spaventavano, le spalle curve sotto il peso di qualcosa troppo grande per esser sopportato, lei lo aveva guardato e, con una voce assolutamente ferma, gli aveva posto un’unica domanda.
“Perché è morto, Izzy?”
Lui aveva deglutito. 
Chi era morto?
 Non le aveva detto niente, non aveva saputo cosa dirle e nemmeno adesso, mentre le accarezzava i capelli e vegliava sul suo sonno, sapeva cosa avrebbe potuto dirle. Aveva sbattuto le palpebre, mentre gli occhi le si offuscavano, coperti da una cortina di nuove lacrime.
“Perché mio fratello è morto...?” aveva bisbigliato, reclinando il capo all’indietro, “Perché, adesso che stava andando tutto bene?”
Si era sentito mancare.
L’aveva fatta sedere sul letto, dove era rimasta per un tempo sembratogli infinito, aspettando che si decidesse a proseguire.
Con una voce che non sembrava la sua, gli aveva raccontato di come avessero trovato il suo corpo in un vicolo, dietro casa sua.
Overdose. Eroina tagliata male.
“Stava cercando me, aveva bisogno di me e io non c’ero!” aveva esclamato, persa in un mare di pensieri che iniziava ad essere troppo burrascosi: si stava lasciando trascinare sotto la superficie, senza più aria nei polmoni. S
tava annegando
.
“Non è colpa tua,” era sbottato, scuotendolA, "non-è-colpa-tua!” aveva scandito bene le parole, sicuro che sarebbero rimaste ugualmente inascoltate ma con la certezza che dirle dirle equivale a lanciare un salvagente ad un naufrago, regalare una speranza a chi pensa di non averne più.
Come inebetita, Roxanne lo aveva guardato in silenzio.
“...non morire prima di me, Izzy.” aveva sussurrato, le mani strette in grembo “Non lasciarmi anche tu..”
Il chitarrista si era sentito stringere il cuore e l’aveva abbracciata, giurandole che non avrebbe mai fatto una cosa del genere: aveva continuato a ripetere la stessa identica promessa anche quando lei aveva ricominciato a piangere,  l’aveva fatto fino a quando non si era addormentata, stremata.
Qualcuno bussò timidamente alla porta, facendolo sobbalzare.
Guardò Roxanne: dormiva, pacifica.
Le baciò una guancia, scivolando giù dal letto e rimboccandole le coperte.
La vide stringere il cuscino a se e non seppe trattenersi dal sfiorarle il viso con un’ennesima carezza, prima di raggiungere la porta e socchiuderla.
Fuori, ad aspettarlo, c’erano Steven e Slash, entrambi con l’espressione più tirata e preoccupata che Izzy avesse mai visto sulle loro faccie in tanti anni.
“Sta dormendo” esordì a bassa voce, chiudendosi la porta alle spalle e posandovi la schiena sopra.
“Ma sta bene?” indagò Slash, mescolando le parole al fumo della sigaretta che stringeva tra le labbra.
“Insomma..” si strinse nelle spalle “Ha avuto momenti migliori. Sicuramente sta meglio che non un’ora fa.”
“Che cazzo è successo?” sbottò Steven, dopo un attimo di silenzio. La sua voce riecheggiò nel corridoio deserto, rimabalzando di parete in parete “Chi era al telefono?”
“Abbassa la voce.” sibilarono contemporaneamente i due chitarristi.
“Scusate..” borbottò il batterista.
“Non ti preoccupare, Stevie.” Izzy abbozzò un sorriso, posando una mano sulla spalla dell’amico “Era sua madre, comunque.” i suoi occhi verdi sfilarono inquieti tra i due, senza trovar pace.
“Sua madre?” Slash si agitò, tanto che Izzy si chiese se non avesse intuito qualcosa.
“Si. A quanto pare, suo fratello è morto.”
I due ragazzi davanti a lui ammutolirono, fissandolo in silenzio.
“E come?” chiese Steven cauto, con un filo di voce.
Era la domanda che il ragazzo riccioluto non aveva avuto il coraggio di fare, la risposta che l’altro non voleva dare.
Izzy abbassò lo sguardo, esattamente come quando aveva chiesto la stessa cosa a Roxanne e ne aveva udito la risposta, un soffio disperato che si era trasformato ben presto in un violento singhiozzare.
“Overdose.” sussurrò, senza riuscire ad alzare gli occhi sui due.
Forse era la sua immaginazione, ma sentì pulsare dolorosamente un punto indefinito sull’avambraccio, dove era solito infilare l’ago della siringa.
Si strinse il braccio e, quando finalmente riuscì a guardare nuovamete gli altri due ragazzi, vide che stavano facendo la stessa cosa.
Era la loro colpa, a bruciare come un marchio.
 

 
Tears laid for them
Tears of love, tears of fear
Bury my dreams dig up my sorrows
Oh Lord, why
The angels fall first?

Nightwish, Angels fall first. 

 

 
Roxanne si svegliò con la sgradevole sensazione che qualcosa fosse irrimediabilmente fuori posto, ma rimase distesa sul letto, stringendo al petto un cuscino intriso del profumo di Izzy e fissando la finestra, nascosta dalle lunghe tende color neve, appena appena mosse dal vento che saliva dal mare, ridotto ad un costante e basso ruggito in lontanaza: era in bilico su un mistero, in quella terra di nessuno dove ci si ritrova al risveglio quando sogno e realtà si confondono fino a mescolarsi in un unico grande colore, e stava per scioglierne il velo e vederlo per quel che era.
Sbatté le palpebre, cacciando indietro ogni ricordo e ogni pensiero, astraendosi fino a dimenticare ogni cosa, compreso il suo nome: non sapeva cosa, non sapeva perché, ma sentiva che scostare quel velo avrebbe mostrato qualcosa di orribile che non voleva ancora affrontare.
Si rannicchiò in posizione fetale, sotto le coperte, come quando da bambina non voleva vedere la luce del sole e rassegnarsi all’idea che una nuova giornata fosse cominciata, lottando per riacchiappare gli strascichi di un sogno sbiadito.
Un’abitudine che si portava dietro da sempre, un rituale che l’accompagnava ogni mattina.
Teneva lontana la luce, rimandava il momento in cui avrebbe sentito Izzy alzarsi e andarsene, privandola del suo calore e della sua presenza.
Come si sentiva sola, quando la porta della sua stanza si chiudeva dolcemente.
Come si sentiva abbandonata, ogni volta che i passi del ragazzo si facevano sempre più flebili lungo il corridoio.
Eppure sapeva che se gli avesse parlato, se lo avesse salutato, sarebbe stato mille volte più doloroso il distacco.
Ma come era dolce, sentire  di tanto in tanto quei passi tornare indietro, sentire la porta aprirsi, sentire il peso di Izzy su di sé e le sue labbra calde sul viso.
Il profumo del caffè che invadeva la casa, lo sfrigolio delle frittelle in una padella consumata, il fumo della prima sigaretta, la luce dorata del mattino nella piccola cucina.
Sorrise tra sé e sé, nascondendo il viso contro il cuscino, persa in ricordi che la facevano stare bene al punto da non accorgersi della porta che si apriva, dello spiraglio di luce che cadeva sul pavimento e della figura che si sedeva accanto a lei.
“Amore..”
Izzy: riaprì gli occhi.
Gli sorrise, allungando le mani fino a prendergli il viso e avvicinarlo al suo, per dargli un bacio.
Lui sorrise a sua volta. 
Qualcosa, però. Qualcosa continuava a non quadrare. Gli occhi di Izzy, insolitamente tristi, la misero in allarme.
“Che c’è?” chiese, mettendosi a sedere.
“Nulla.” il ragazzo le sorrise, allungandosi accanto a lei “Mi mancava la tua voce.”
“Ehi...” Roxanne incurvò le labbra verso l’alto, attirandolo a sé, “non mi rubare le battute.” mormorò, nascondendo il viso nell’incavo della sua spalla.
Automaticamente, una mano di Izzy salì ai suoi capelli, dove affondò in un mare di onde scure e calde.
“E come fai a ricordare una cosa che mi hai detto una vita fa?” indagò il chitarrista, sorpreso.
Enigmatica, lei sorrise.
“Io ricordo tutto quello che ti riguarda, Izzy Stradlin.” rispose con un soffio, abbracciandolo stretto.
Non le rispose, assaporando la deliziosa sensazione di quel piccolo corpo premuto contro il suo, avvertendone il calore farsi strada oltre i suoi vestiti e confluire dritto al suo cuore.
“Stai meglio?” le domandò dopo qualche attimo, continuando ad accarezzarle i capelli.
Roxanne non disse nulla, ma smise di respirare.
Simile a doccia ghiacciata, tutto ciò che era accaduto nelle ultime ore le piombò addosso, paralizzandola completamente.
Una serie di immagini, di istantanee della serata, le sfrecciò davanti agli occhi, mescolandosi a vecchi ricordi un po’ più sbiaditi.
Il sorriso di Duff, l’abito di Erin, una risata di Izzy, la fetta di torta in un piattino di ceramica bianca, un nastro bianco contro il cielo azzurro, il rumore della doccia, sua madre in cucina e suo fratello coperto di farina dalla testa ai piedi, Slash e il suo cilindro, la pista da ballo gremita, un vicolo soleggiato di Los Angeles e la sua vecchia bicicletta rossa appoggiata ad un muro, il Jack Daniel’s, la telefonata.
Quando riprese a respirare, si sentì più vecchia di vent’anni.
“..non lo so.” ammise alla fine, rotolando sulla schiena e fissando il soffitto della stanza.
Aveva l’impressione che fosse il braccio di Izzy, allungato sulla sua pancia, a tratterla lì.
“Posso fare qualcosa?”
“No, a meno che tu non possa farmi tornare indietro nel tempo.” un sorriso amaro le incurvò le labbra, mentre voltava il capo verso il ragazzo.
Era tranquillo, gli occhi di quell’indecifrabile verde scuro traboccavano amore e nient’altro.
“Ma sei un tesoro a chiedermelo,” aggiunse, prima di tornare a guardare il soffitto.
Nessuno dei due aggiunse altro, mentre la notte si consumava sopra una delle tante città che non dormono mai, sbiadendo ad est, là dove il sole avrebbe fatto capolino tra i grattacieli e i casermoni popolari, dimenticati dal mondo: sembrava non esserci nulla da dire.
Stava quasi albeggiando, quando Roxanne sentì le parole risalirle la gola spontaneamente, le avvertì stuzzicare le corde vocali e reclamare il loro spazio nel mondo.
Per quanto male potesse farle, sapeva di doverle lasciare andare, di non essere in grado di soffocarle né tantomeno di poterle sopportare a lungo.
E se c’era qualcuno con cui poterle condividere, questo qualcuno era accanto a lei e la guardava come se fosse la cosa più preziosa e bella di questo mondo, nonostante fosse ridotta a uno straccio.
“Sai, quando eravamo piccoli, io e Matty eravamo inseparabili.” iniziò a raccontare, sentendo gli occhi pizzicare nel pronunciare il nomignolo del fratello “Pur non sopportandoci, eravamo sempre appiccicati. O meglio, io ero appiccicata a lui.”
“Era più grande di te?” Izzy la tirò vicino a se, intuendo quanto le costasse parlare. 
Non aveva mai amato nessuno così come amava lei in quel preciso momento.
“Matthew? Aveva tra anni più di me.” chiuse gli occhi, intrecciando le dita con quelle del ragazzo.
“Quando ero alle elementari, mi cacciavo sempre nei guai e lui doveva correre in mio soccorso, ogni maledetta volta. Ero un caso umano, sai? Ovunque andassi, rompevo qualcosa o combinavo disastri.”
“Faccio fatica ad immaginarti con addosso vestitini rosa di pizzo, in effetti.” commentò Izzy, strappandole una breve risata.
“Matty era il mio angelo custode,” riprese pacata, immergendosi nelle acque insidiose dei ricordi senza seguire una meta precisa, “e piaceva a tutti, aveva un cuore d’oro. Era l’orgoglio di mia madre, avresti dovuto vedere come le brillavano gli occhi quando era accanto a lei! Il primo della classe, amico di tutti. Ai miei occhi, poi, era bellissimo: aveva una marea di riccioli biondi e gli occhi blu, non mi somigliava per niente.” fece una smorfia “Avrei pagato per essere come lui, per sentirmi fare i complimenti che lui riceveva. Spesso mi vergognavo dei miei capelli e del mio viso, del mio aspetto ordinario che non aveva nulla a che spartire con la sua bellezza.” rise, senza troppa convinzione.
Un nodo le stringeva la gola, ma non riusciva a fermarsi.
“Nessuno di noi ha mai capito perché abbia iniziato a drogarsi. Sembrava andasse tutto bene, sembrava non ci fossero problemi! Era una persona con la testa sulle spalle, tra me e lui era lui quello respondabile: non fumava nemmeno! Era a lui che presentavo i miei ragazzi, non a mio padre. Mi fidavo ciecamente del suo giudizio, molto più che non di quello dei miei genitori. Non eravamo esattamente quella che si può definire una famiglia felice, i miei si ammazzavano di lavoro per avere qualcosa da mettere sotto i denti e proprio perché eravamo sempre soli, io e Matthew ci siamo presi cura l’uno dell’altra. O meglio, lui si prendeva cura di me, io non ero capace di fare altro che combinare disastri su disastri.. Ma comunque. Ha iniziato rubacchiando pasticche dall’armadietto dei medicinali, per quello che ne so, poi le pastiglie si sono trasformate in una sniffata di coca al sabato sera e alla fine, come succede quasi a tutti, è diventato eroinomane. Ho sempre voluto creduto che fosse tutto a posto, fino a quando un giorno non l’ho trovato in camera mia, a frugare tra le mie cose: ‘Hai qualche spicciolo, Rox?’ mi disse ‘Sono un po’ a secco, ma te li restituisco, giuro!’. Fu orribile, non sai quanto. Mi fece paura tale che quando provò a toccarmi urlai. Non era mio fratello, quel fantasma con gli occhi infossati, non era il Matty che mi tirava sempre fuori dai guai.” si morse le labbra, stringendo la mano di Izzy, che l’ascoltava in silenzio secondo le regole di un ballo che avrebbe preferito non esser costretto ad imparare.
Roxanne inspirò a fondo, dominando il tremore della voce.
“In ogni caso, fu solo quando lo arrestarono la prima volta che le cose precipitarono: sapere che l’angelo di casa era diventato uno dei tanti spacciatori della città, fu una cosa troppo grossa per essere ignorata. I miei iniziarono a litigare, mio padre perse il lavoro e l’avvocato prosciugò tutti i nostri soldi. Quello che era un brutto sogno si trasformò nel peggiore degli incubi. Ogni scusa era buona, pur di non restare tra quelle quattro mura: fu in quel periodo che capitai all’Underpass e Alec mi accolse sotto la sua ala protettrice, diventando una sorta di secondo padre per me.  Fu lui a costringermi a finire il liceo. All’epoca ero convinta che studiare non mi servisse a niente, che il mio destino era quello di lavorare e basta, per mantenere mia madre. Il college era un miraggio, poco via che un’utopia, non mi facevo illusioni a riguardo. Laurearmi.. e dove avrei trovato i soldi per mantenermi? No, fosse stato per me avrei mollato baracca e burattini, buttandomi nel lavoro. Amai subito l’Underpass, ma Alec fu perentorio: non mi avrebbe assunta a meno che non avessi continuato a studiare. Mi diplomai, non so nemmeno come, e solo allora cominciai a lavorare seriarmente al locale, andai a vivere sola. La mia vita cominciò ad avere un senso degno di questo nome. Certo, non era la favola a lieto fine su cui fantasticavo prima di addormentarmi quando avevo cinque anni, ma era quanto di meglio potessi sperare di ottenere.” s’interruppe, voltandosi a guardarlo “Poi sei arrivato tu, Mr. Stradlin. E il resto è storia nota.” abbozzò un sorriso, senza riuscire a frenare una lacrima che rotolò solitaria lungo una sua guancia.
“...sei incredibile, lo sai?” Izzy la guardò negli occhi, senza paura di sprofondare in quel mare color cioccolata, agitato dalle tempeste del dolore.
“Non dire così, semplicemente mi arrangio.” arricciò il naso con una smorfia “Certe volte non c’è altro da fare.”
“No, non intendevo questo.” si rizzò a sedere, abbracciandosi le ginocchia “Io ho iniziato a bere e a farmi di erba per molto meno, Roxanne, non sono mai stato capace di arrangiarmi da solo.”
“Ognuno affronta i propri problemi come può, Izzy, non credere che i tuoi fossero meno gravi dei miei.” si inginocchiò sul letto, andando dietro al ragazzo e posando il viso tra le sue scapole.
“Resta il fatto che avrei dovuto smettere. Che dovrei smettere, perché non c’è motivo di continuare adesso che le cose vanno così bene.”
“Ci abbiamo già provato, ne abbiamo già parlato.” la voce della ragazza era sfumata di stanchezza “Lo sai come la penso, no? Non posso obbligarti smettere, si tratta di te e di quello che vuoi. Posso solo starti accanto, non obbligarti. È tutto questione di volontà, quando sarai pronto lo saprai.”
Izzy tacque. Si abbandonò contro la ragazza, che gli circondò il collo con la braccia, baciandogli i capelli.
“Sai di buono, Izzy” mormorò sottovoce “Sei buono. Io so che sei buono e che un giorno tutto questo non sarà altro che un vecchio ricordo, so che niente è per sempre e che il domani nasconde sorprese che possono fare paura. Ma quello che sei adesso, in questo preciso momento, in questa stanza, io lo ricorderò per sempre come uno dei momenti più dolci di tutta la mia vita.”
“Io preferisco pensare che il domani invece nasconde cose che potrebbero diventare ricordi molto più belli di questo.” si voltò, posando le mani su suoi fianchi.
“Non era questo che intendevo..” protestò lei, mentre lui si sporgeva in avanti.
“..lo so.” la schernì, prima di chiuderle la bocca con un bacio “Lo so che non era questo che intendevi.”
“E’ solo che.. Izzy, io so di non essere la ragazza perfetta per il tuo genere di vita, non posso andarmene da L.A. troppo spesso e seguirti in giro per il mondo. Certe volte ho paura che tu ti stufi di tutto questo, delle attese, delle telefonate...”
“Hai paura che ti lasci per questo?” il chitarrista posò le mani sulle sue braccia.
“Un po’.” ammise la ragazza, dopo qualche attimo di silenzio.
La risata di Izzy la colse di sorpresa, facendola sobbalzare e, quando il ragazzo si voltò e le prese il viso tra le mani, senza smettere di ridere, aveva ancora gli occhi sgranati.
“Certo che sei veramente assurda, amore mio.” le disse, sfiorandole la fronte con la labbra, scendendo al naso e fermandosi sulle sue labbra.
“Semmai sono io che devo aver paura che tu incontri qualcuno migliore di me che ti faccia capire quello che realmente meriti!”
Roxanne sorrise, accantonando lo smarrimento, e si lasciò cadere sulla schiena, tirando giù Izzy con se.
“Ognuno merita ciò che sceglie.” sussurrò, semplicemente, con un mezzo sorriso.
 


I saw you the other day
I just wanted to sit and talk a while.

Sophia, Lat night I had a dream.

 

 
LOS ANGELES, giugno 1988
Un vento teso e fresco spazzava il prato verde smeraldo, costellato di lapidi bianche e grigie.
Qualche tomba era completamente avvolta dalle foglie lucide e scure di un’edera, qualcun’altra era nascosta dai colori sgargianti dei fiori portati da chissà chi e chissà quando, in un tripudio gioioso in netto contrasto con il religioso silenzio che abbracciava il cimitero.
Izzy affondò il volto nella sciarpa scura che portava attorno al collo, lasciando lo sguardo spaziare sul quel piccolo prato, nascosto da una minuscola chiesetta nella periferia della città, una parte della metropoli dimenticata dai grattacieli e dai casermoni.
Roxanne, piccola e minuta nel vestito nero, se ne stava ben dritta accanto alla madre, una donnina minuscola dagli occhi azzurri e lunghi capelli biondi, nascosti da una discreta retina nera.
Entrambe continuava a stringere mani ed elargire abbracci, accompagnando i gesti con brevi frasi appena mormorate e sorrisi tirati, che riempivano di lacrime gli occhi di Izzy.
“Sigaretta?”
Si voltò di scatto, nel sentire la voce: alle sue spalle: Christopher gli offriva una Malboro, con un sorriso gentile.
Lo riconobbe subito, solo guardando i suoi incredibili occhi acquamarina.
“Grazie.” ne sfilò una dal pacchetto, facendosela accendere dal ragazzo che gli si affiancò.
“Sono incredibili.” commentò questi, affondando le mani nelle tasche dei pantaloni scuri, sdruciti.
“Non hanno scelta.” replicò Izzy, inspirando una generosa boccata di fumo.
“Oh, c’è sempre una seconda scelta.” sorrise il biondo cantante dei Kinslayer “Avrebbero potuto disperarsi e riufiutarsi di andare avanti. Oppure avrebbero potuto non fare nulla, e questa è già una terza scelta.”
“Roxanne non avrebbe mai fatto qualcosa del genere, non è da lei.” il chitarrista soffiò fuori il fumo solo quando sentì i polmoni bruciare per la mancanza di ossigeno “E non credo che sua madre sia poi tanto diversa.”
“Sbagli.” Christopher si sedette nell’erba, allungando le gambe davanti a se. Izzy lo imitò, inclinando il capo di lato, incuriosito “Mi sorprende che sua madre sua qui.”
“Che vuoi dire?” domandò, tornando a guardare le due donne, una accanto all’altra, che continuavano quel rituale scambio di abbracci e parole.
“Elizabeth non è mai stata una donna di carattere, ha sempre preferito fuggire dai problemi e dai dolori, piuttosto che affrontarli.” inspirò a fondo l’aria fresca d’inizio estate, i capelli biondi agitati dalle mani invisibili del vento “Probabilmente Roxanne ha dovuto fare i salti mortali per buttarla giù dal letto, questa mattina.”
Izzy abbassò lo sguardo, seguendo l’ondeggiare di una piccola margherita bianca.
“Questo non lo sapevo.”
“Oh, credimi, Roxanne non ama parlare della sua famiglia, non credere che non te l’abbia detto perché non si fida di te.” rise il biondino, posandogli una mano sulla schiena, con fare consolante “Se io ti dico questo è perché la conosco da una vita e so che aria tirava in casa sua, tutto qui.”
“Già.” il chitarrista inspirò a fondo, senza prendersela “Quando sua madre ha chiamato, è stato dura scucirle di bocca quello che era successo. È molto riservata, per quanto riguarda la sua vita privata.”
“Eri con lei?” gli occhi color acquamatina seguirono Roxanne sul prato, mentre si voltava brevemente verso la lapide del fratello.
Izzy annuì, imitandolo.
Moriva dalla voglia di correre da lei e abbracciarla forte, ma al tempo stesso aveva paura di un confronto: era stata lapidaria, molto più che chiara, quando aveva detto che non voleva nessuno al funerale, che preferiva andarci sola.
Ma non aveva il cuore di obbedirle, qualcosa gl diceva che non era una buona idea lasciarla sola.
“Ci saranno state sette persone minimo vicino a lei, quando ha chiamato.” disse, soffiando fuori una nuvola di fumo che il vento disperse immediatamente “Eravamo al matrimonio di Duff.”
“Nessuno in casa sua è mai stato un mago in quanto a tempismo.” la voce di Christopher suonò amara, per nulla ingentilita dal timbro naturalmente morbido.
“Le vuoi molto bene, vero?”
“E’ la sorella che non ho mai avuto.” sorrise pigramente al sole, alzando il volto al cielo “Le devo molto.”
“Mi ha raccontato che vi ha scovati lei.” commentò il chitarrista, rubando un ultimo tiro alla Malboro prima di spegnerla e lanciarla lontano.
“Ah-ah.” Christopher annuì “E’ stata la prima a credere in noi. Ha un fiuto da paura, per quanto riguarda la musica: tutto quello che a lei piace sfonda nel giro di qualche mese al massimo. Noi siamo l’eccezione che conferma la regola.” rise, per nulla impensierito.
“Per essere bravi siete bravi.” osservò Izzy “Non capisco cosa vi manchi.”
“Fondamentalmente niente. A noi va bene così, ci piace suonare per il gusto di farlo e non perché un contratto ci obbliga.”
Il chitarrista annuì, chiudendo gli occhi.
Condivideva in pieno il pensiero di Christopher, lui per primo odiava esibirsi solo perché un pezzo di carta lo stabiliva.
“Così è!” sospiro il biondino, passandosi una mano tra i capelli “Piuttosto, direi che siamo un tantino nella merda, Stradlin.”
“Perché?” Izzy riaprì gli occhi, perplesso.
“Roxanne aveva vietato anche a te di venire oggi, vero?”
“Si, ma non...oh cazzo!”
Roxanne li aveva visti.
E stava marciando su di loro con un’epressione che non prometteva nulla di buono.
“L’hai detto.” sospirò il cantante.
 

 
Don't ya think that you need somebody?
Don't ya think that you need someone?
Everybody needs somebody
You're not the only one
You're not the only one.

Guns N’ Roses, November Rain.

 

 
“Cosa-diavolo-ci-fate-voi-due-qui?” sbottò la ragazza, piazzandosi davanti a loro con le gambe larghe e le mani sui fianchi.
I due ragazzi si guardarono, stringendosi nelle spalle.
Titubante, Izzy le sfiorò il viso con una carezza.
Lei lo fulminò, ritraendosi impercettibilmente.
“Ero... eravamo preoccupati per te.”
“Puoi fare la dura quanto ti pare, ma non ce la dai a bere.” continuò Christopher, sorridendole affettuosamente.
Con un cenno del capo, indicò la madre della ragazza, da sola davanti alla lapide del figlio “Come sta?”
Il volto di Roxanne conservò un cipiglio irritato per qualche attimo ancora, prima di perdere ogni espressione.
Scrollò le spalle, tirando le labbra in una linea sottile.
“Un genitore non dovrebbe mai seppellire il figlio.” rispose semplicemente “E’ a pezzi. Mio padre non si è fatto vedere nemmeno per sbaglio e io non so più che pesci pigliare. Vorrei prenderla a schiaffi, ma mi rendo conto che non è la cosa più indicata da fare, al momento.”
“Ci parlo io.” decretò il ragazzo con gli occhi azzurri, sorridendo alla mora “Tu prendi un po’ di fiato, d’accordo? Hai l’aria stravolta. La riporto a casa e la tengo d’occhio per un po’.”
“Grazie Chris, sei un angelo.” abbracciò l’amico, prima di lasciarlo andare  e voltarsi verso Izzy, che raramente l’aveva vista così sbattuta.
Due borse violacee le cerchiavano gli occhi e sembrava dimagrita: nulla a che vedere con la ragazza che aveva lasciato qualche giorno prima, quella che sembrava una diva degli anni ’50 in uno splendido abito blu.
“Mi sei mancato,” sussurrò, abbracciandolo stretto, “mi sei mancato da morire, Izzy”
Il chitarrista sorrise, accarezzandole la schiena.
“Mai quanto tu a me.” ribatté, allontanandosi per guardarla negli occhi. 
Occhi stanchi, senza nemmeno la forza di piangere un altro po’.
“Se avessi saputo che ti saresti ridotta così, non ti avrei lasciata venire sola.” protestò, seguendola lungo il dolce pendio della collina.
“Lo so.” la vide abbozzare un sorriso “Per questo ti ho detto di non venire, cosa credi?”
“Ma ti avrei dato una mano!”
“Era una cosa che dovevo fare da sola, e lo sai. Mia madre... non è una persona facile, ti avrebbe reso la vita un inferno, molto più di quanto non sia riuscita a fare con me. Mancava poco che mi picchiasse, quando le ho detto che dovrebbe liberarsi delle cose di Matty.” sospirò, posando il capo sulla spalla di Izzy “Ringrazio il cielo sia tutto finito.”
“Dovevi chiamarmi, se le cose erano davvero così terribili! Sei un essere umano, non una macchina, anche tu hai bisogno di respirare ogni tanto. Non devi essere sempre perfetta, Roxanne, tantomeno con me. Potevi dirmelo.”
“Lo so, Izzy, lo so!” La ragazza sospirò “E’ che non è facile lasciarsi andare dopo che per anni non si ha mai abbassato la guardia. Per tutti sono sempre stata quella che non molla mai, quella che sorride sempre e sa sempre quale è la cosa giusta da fare. Ma la verità è che io non so sempre cosa fare, anche io vorrei ogni tanto lasciare che qualcuno decidesse per me.”
“Facciamo un patto, vuoi?” propose, dopo qualche attimo, Izzy “Tu la smetti con questa tua brutta abitudine di voler sempre fare tutto sola e io ti prometto che farò il possibile per rimanerti accanto ogni volta che vorrai e che ne avrai bisogno.”
“Sul serio?” la ragazza sembrava dubbiosa. Si fermò, tirando il braccio del chitarrista affinché facesse lo stesso.
“Sul serio.” le sorrise di rimando, pizzicandole scherzosamente il naso.
“Affare fatto, allora.” si sciolse in un sorriso, alzandosi in punta di piedi per dargli un breve bacio “C’è ultima cosa da fare, allora.”
“Cosa?” Izzy le passò un braccio oltre la vita, tirandola a sé.
Roxanne inspirò a fondo, mentre il vento giocava distrattamente con i suoi capelli.
Ai suoi piedi, una lapide bianca e liscia si ergeva davanti ad un rettangolo di terra fresca, dal profumo intenso.
Sul marmo, solo un nome e due date.
Matthew May
13 gennaio 1962 – 28 maggio 1988
 
“Matty, ti presento Izzy” iniziò a dire con un mezzo sorriso “È il mio ragazzo, una persona meravigliosa che amo da morire. È un po’ timido, ma vedrai, ti piacerà.”
 


PARLA IZZY:
La tua faccia, mentre parlavi alla tomba di tuo fratello.
È stampata nella mia mente e, per quanto abbia provato a dimenticarla, non ci sono mai riuscito.
Non piangevi e nemmeno sorridevi, ma i tuoi lineamenti erano pregni di una dolcezza sconvolgente.
Rimanemmo lì per ore, anche quando il sole appiccò un incendio al cielo e iniziò a cadere tra le colline, colorandole con i suoi raggi infuocati.
Parlavamo, ogni tanto, ma per lo più restavamo in silenzio ad ascoltare il fruscio del vento.
Era quasi buio, quando finalmente ti decidesti ad andartene: mi presi per mano e ci incamminammo verso la notte che avanzava.
Che io sappia, non sei mai più tornata in quel cimitero né hai mai più parlato di Matthew.
 Lo hai chiuso in un angolo del tuo cuore, dove il tempo e l’oblio non possono toccarne il ricordo e alterarlo in un qualche modo.
Non lo hai dimenticato, come ti accusò tua madre qualche anno dopo, mentre per l’ennesima volta ti rifiutavi di accompagnarla a cambiare i fiori davanti alla tomba.
Non potresti mai: tu non dimentichi nulla.
E’ tutto dentro di te, anche il più stupido dei ricordi tu lo conservi come se fosse fondamentale.
Tuo fratello prima, tua madre poi.
Potrei chiederti qualsiasi cosa e tu la ricorderesti.
Ma al tempo stesso, se qualcosa ti faceva soffrire non esitavi un attimo a dimenticarla.
Quello che mi chiedo io, adesso, è se hai dimenticato anche me.
O se sono diventato uno dei tanti nomi che non pronunci mai e custodisce gelosamente.
Se devo essere sincero, non so quale sia la migliore tra le due alternative.


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Capitolo 12
*** What I've done ***


HAND IN GLOVE
# 10 WHAT I’VE DONE

 

 

PARLA ROXANNE:

L’altro giorno ho incontrato Charlie.
Era in città per lavoro e, in memoria dei vecchi tempi, è venuta al locale.
Dovresti vederla, Izzy, la splendida donna che ha passato qualche ora come me a spolverare vecchi ricordi non ha nulla a che vedere con la ragazzina timida e impacciata che vent’anni fa sgobbava al mio fianco.
È cresciuta, come tutti noi.
Si è fatta una vita che l’ha portata via dal sole caldo e dall’oceano gelido della città degli angeli.
Di fatto, siamo diventate due perfette estranee che non hanno nulla in comune, a parte un passato fin troppo vivido: è sempre buffo vedere quali strade il destino sceglie per noi.
È tutta questione di linee, di sentieri, di confini: sta a noi scegliere quali oltrepassare e quali trasformare in muri che escluderanno, nel bene e nel male, qualcosa o qualcuno dalla nostra vita.
Certe volte è necessario innalzare vere e proprie muraglie, escludendo quelle persone che sai capaci di ferirti senza provare alcun rimorso.
Certe volte è necessario tracciare delle linee nella sabbia e pregare intensamente che nessuno le attraversi, lasciandoti vivere la tua vita come hai sempre fatto, al sicuro nel tuo bozzolo di affetti e certezze.
Altre volte, invece, è necessario lasciare che non ci sia nulla, nemmeno il più piccolo dei veli, tra te e le persone.
L’ottantanove fu l’anno in cui tra me e te sparirono tutti i veli.
Un uragano dai chiari e troppo dolorosi rimandi ad una storia che sembrava destinata a ripetersi li spazzò via, lasciando solo me e te, uno di fronte all’altro.
Doloroso, ma estremamente necessario.
Ci costrinse ad aprire gli occhi su una realtà che ci spaventava: tu eri molto più di un tossico occasionale e io mi stavo esaurendo a forza di passare oltre le tue dipendenze.
Era arrivato il momento di cambiare.

 

 

In this farewell
There’s no blood
There’s no alibi
‘Cause I’ve drawn regret
From the truth
Of a thousand lies
 

Linkin Park, What I’ve done.

  

NEW YORK – La Guardia airport, 27 agosto 1989

Izzy era di cattivo umore.
Non solo il suo volo aveva qualcosa come cinque ore di ritardo a causa del maltempo – e si era dovuto svegliare alle sei e mezza per arrivare in aereoporto in tempo -, adesso ci si metteva pure uno stupido barista che si rifiutava di dargli un bicchiere di Jack Daniel’s.
“Senta signore,” gli stava infatti dicendo lo sventurato ragazzo, “non posso proprio servirle super-alcolici, non prima delle cinque del pomeriggio.”
“Me ne fotto delle tue stupide regole!” sbottò Izzy, guardandolo torvo “Io pago, tu mi dai quello che chiedo. Non è così che funziona in questo paese?” sbatté una banconota da venti dollari sul bancone, battendo nervosamente un piede a terra.
Il barista deglutì, visibilmente a disagio, e si guardò attorno senza più sapere cosa fare.
Pur essendo molto presto, il terminal dell’aereoporto era gremito di uomini in giacca e cravatta e donne in bilico su sottilissimi tacchi a spillo: nessuno di loro sembrava gradire il triste spettacolino.

“Sono spiacente, ma proprio non posso.” pigolò il ragazzo “Il regolamento parla chiaro e...”
“Fanculo tu e il tuo fottuto regolamento.” lo interruppe Izzy, irritato “Fanculo tutti!” gridò, recuperando la banconota e infilandola in una tasca del giubbotto jeans, prima di voltarsi e andarsene, borbottando tra se e se frasi incomprensibili alle sue stesse orecchie.
“Giornata di merda.” sibilò irritato, lanciando il suo borsone a terra, davanti ad un telefono pubblico.
“Giornata del cazzo.” infilò qualche monetina, dopo aver sollevato la cornetta, e compose un numero.

"Pronto?" gli rispose Roxanne, quattro squilli dopo.
“Ciao, sono io” cupo, guardò male una donna che gli sfilava accanto.
"Izzy..." la voce della ragazza si ammorbidì, colorandosi di un sorriso che non poteva vedere "Dove sei?"
“New York,” laconico, il ragazzo sbuffò, “parto tra un’ora.
"E...?"
“E cosa? Niente!”
"Bugiardo!" rise la ragazza "Hai la voce di uno che vuole dire tutto, tranne niente."
“Hai ragione.” ammise il ragazzo, con un mezzo sorriso “E’ che un cretino giù al bar non vuole farmi un...” si bloccò, per nulla sicuro di voler raccontare alla sua ragazza di volere disperatamente un bicchiere di whisky alle sette del mattino.
“Un... come cazzo si chiama quel caffé corretto che mi hai preparato l’ultima volta?” mentì spudoratamente, sentendosi un verme.
Un verme senza scelta, si ricordò.

"Irish Coffee!" rispose prontamente la ragazza "Forse non te lo fanno perché... aspetta, che ore sono lì? Le sette e qualcosa, vero?"
“Mh-mh” Izzy annuì.
"Eh, è un po’ presto in effetti," osservò Roxanne, "forse è meglio se chiedi un caffé normale, ti pare? Comunque non sapevo che non si potesse servire l’Irish Coffee prima delle cinque del pomeriggio, strano..."
“Amore, sai che New York è una città strana, no?” commentò, sperando che lei lasciasse correre il discorso.
"Boh, non lo so, l’ultima volta che ci sono stata avevo altro per la testa." replicò lei, esaudendo la sua silenzio preghiera e cambiando argomento "Non vedo l’ora che arrivi, amore."
“Anche io.. mi sei mancata da morire, Roxy.” sorrise “Anche ai ragazzi. Steven dice che appena ha un attimo libero sale a farti  un salutino, non ne può più di starsene qui, dovresti vedere come si agita.” ridacchiò.
"Oh, povero Stevie.." la ragazza sospirò "Mi spiace che Stella lo abbia lasciato, non meritava un’altra delusione..."
“Sapeva come sarebbe andata a finire, lo sapevamo tutti...”
"Già.." Roxanne sospirò ancora "Amore, scusami ma devo scappare al lavoro, stasera suona un nuovo gruppo al locale e pare che ci sarà una marea di gente, Alec mi uccide se arrivo tardi!"
“D’accordo. Vieni a prendermi all’aereoporto?”
"Mh, non lo so.. non credo però.”
“Allora ci vediamo a casa”
"Okay. Un bacio, Izzy, ti amo."
Non ebbe nemmeno il tempo di dirle ‘anche io’, che lei aveva già riattaccato.
Ascoltò il freddo e metallico tuuu tuuu del telefono per un po’.

Si sentiva sempre uno schifo, quando mentiva a Roxanne, ma c’era qualcosa in lei che gli impediva di dirgli la verità.
Specie se farlo implicava confidarle che aveva una voglia matta di ubriacarsi o farsi.
Era più forte di lui: nonostante stessero insieme da quasi due anni, era uno scoglio invalicabile che non affrontava mai.

Lei sapeva che lui continuava a drogarsi e lui era fin troppo consapevole che questo la spaventava da morire, ma nessuno dei due faceva o diceva nulla per cambiare la situazione, smuovere le acque che andavano sempre più trasformandosi in un pantano.
Era un gioco di cui entrambi conoscevano le regole e, pur non condividendole, le seguivano ciecamente.
Recuperò il suo borsone e si mise a vagare per il terminal, senza avere la più pallida di dove stesse andando.
Sapeva solo di volere disperatamente qualcosa da bere.
Qualcosa che lo stordisse, facendogli dimenticare il suo senso di colpa e la giornata iniziata male.
Un’edicola, un negozio di vestiti, una pelletteria, una libreria... sembrava esserci tutto.
Tutto tranne quello che cercava.

Quasi urlò di gioia quando intravide un minuscolo negozio di alimentari.
Con un sorriso stampato sul volto magro e scavato salutò un anziano commesso dall’aria un po’ imbambolata e si mise a girovagare tra gli scaffali, facendo scorrere gli occhi tra file di pacchetti di patatine, biscotti, pacchi di pasta e lattine di coca-cola.
Fino a quando non la vide.
Un’intera mensola dedicata agli alcolici.
D’un tratto si sentì colmare il cuore di gratitudine nei confronti di quel vecchietto addormentato che presidiava la cassa: gongolando felice, arraffò due bottiglie di vodka e, fischiettando, tornò all’ingresso del minuscolo negozietto.
Le due bottiglie tintinnarono, quando le posò sotto il naso del vecchietto assieme a una banconota da cinquanta dollari.

Certo, non era Jack Daniel’s, ma non si poteva ottenere tutto dalla vita, no?
“Tenga pure il resto.” sorrise allegramente, recuperando il sacchetto di carta marrone che l’uomo gli porgeva inespressivo.
Se c’era un lato positivo nella notorietà, pensò, erano i soldi che si portava dietro.

Fischiettando scansò un paio di uomini d’affari intenti a chiacchierare fitto fitto, che non persero l’occasione di squadrarlo da capo a piedi e guardarlo malissimo: il chitarrista rivolse loro un sorriso smagliante.
Lo guardavano male? Liberissimi di farlo, non aveva nulla in contrario.
In fondo, quello che voleva lo aveva ottenuto, il resto del mondo poteva tranquillamente fottersi.

“Contenti loro.” bonficchiò incrociando due splendide hostess che storsero la bocca vedendolo arrancare “Contenti loro di farsi inquadrare in un sistema di merda.”
Con un calcio spalancò la porta del bagno e si chiuse dentro un cubicolo minuscolo; lasciò cadere con un tonfo il borsone sulle piastrelle azzurrine, lucide, e si accoccolò sulla tazza del water, dopo aver abbassato la tavoletta.
Stringendo una bottiglia al petto, buttò giù una generosa sorsata dall’altra.

Il liquore trasparente scivolò veloce giù, lasciandosi alle spalle un famigliare e rassicurante bruciore presto cancellato da altre sorsate che arrivarono in fretta, una dopo l’altra, iniziando ad annebbiare i suoi pensieri e rendendogli testa molto più leggera.
Inspirò a fondo, dopo essersi fatto fuori tre quarti di bottiglia: adesso si che le cose iniziavano a risistemarsi.
Ora che al suo sangue si stava mescolando un’adeguata quantità di alcol, ora che le preoccupazioni diventavano assurdamente ridicole, al punto da causargli un eccesso di risatine idiote, poteva dire di stare meglio, al punto di sentirsi quasi felice.
Guardò quel restava della bottiglia che teneva in mano, pensieroso: aveva davanti a se un volo lungo, aveva senso rischiare che si trasformasse in un incubo?

Sbatté le palpebre, intontito.
L’ultima cosa di cui aveva bisogno era proprio trascorrere una manciata di ore lucido a rimuginare su un problema che sapeva perfettamente come risolvere, pur rifiutandosi di ammetterlo.
Aveva il terrore degli ospedali, figurarsi delle case di riabilitazione.

Rabbrividendo all’idea di far parte di un programma di recupero anche solo per un’ora, finì la vodka rimasta sul fondo della bottiglia, con una smorfia, prima di posarla a terra e frugare nel suo borsone.
Qualche imprecazione più tardi, ne estrasse vittorioso una bottiglietta d’acqua vuota: svitò il tappo di plastica azzurra e, stando attento a non sprecare nemmeno una goccia di alcol, vi versò dentro la vodka, fino a rimpire la bottiglietta fino all’orlo.
Trattenendo il respiro, si scolò quello che restava nella bottiglia di vetro, prima di appoggiarla accanto alla sorella, sul pavimento, e inspirare a fondo.

Fissò la porta del bagno e ridacchiò: perfetto, si disse alzandosi in piedi a fatica, ubriaco come una merda.
Stupidamente sorrise, barcollando davanti a una fila di lavandini talmente puliti da brillare nella luce della sala.
Adesso poteva stare tranquillo che per tutto il viaggio non avrebbe pensato a un bel niente. E, nella sfortunata ipotesi l’avesse fatto, non avrebbe comunque ricordato un tubo, una volta arrivato a Los Angeles da Roxanne. Roxanne.
Il volto della ragazza gli tornò alla mente, accompagnato da una vaga sensazione di disagio.
Senza pensarci un attimo sopra, buttò giù un altro sorso di vodka, stringendo forte la bottiglietta che aveva in mano.

Inspirò a fondo, mentre una voce metallica ma indubbiamente femminile informava lui e i viaggiatori del suo stesso volo di affrettarsi a raggiungere l’uscita di imbarco tre e completare il check-in prima di salire a bordo, e con un sorriso stampato sulla faccia si incamminò verso il gate.
Stava finalmente tornando a casa.

 

I love your skin, oh so white                                                  
I love your touch cold as ice                                                                  
And I love every single tear you cry                                       
I just love the way you're losing your life.
 

HIM, Gone with the sin.

 

LOS ANGELES, 27 agosto 1989

Roxanne non avrebbe potuto essere più felice.
Finalmente, dopo tre mesi che le erano sembrati eterni, avrebbe avuto Izzy tutto per se senza che qualche concerto o qualche altro avvenimento lo catapultasse dall’altra parte del paese. 
Afferrò le chiavi di casa e della macchina e, dopo aver chiuso a chiave la porta, scese le scale di corsa, sistemandosi una sciarpa di seta attorno al collo.
Si sentiva euforica solo al pensare che stava andando all’aereoporto, un posto che generalmente odiava con tutta se stessa perché era da lì che Izzy la salutava, risucchiato da una vita che capiva solo in parte, il posto dove lo vedeva andare via, voltandosi mille e più volte solo per soffiarle un bacio, farle un cenno con la mano o semplicemente guardarla, come se avesse bisogno di imprimersi una volta ancora il suo viso nella mente.
E adesso quel posto le sembrava un paradiso.

Si accese una sigaretta e inspirò a fondo il fumo amaro, lasciando che le riempisse i polmoni e soffocasse parte di quella felicità che altrimenti l’avrebbe fatta saltare in mezzo alla strada.
Era tesa come una corda di violino, tutto quello che vedeva la faceva sorridere e non riusciva a fare a meno di tendere le labbra e curvarle verso l’altro, una risata trattenuta in gola.

Era una bella giornata di sole, il cielo somigliava ad un’enorme distesa d’azzurro screziata qua e là di nuvole bianche, soffici montagne di zucchero filato che le portavano alla mente le lunghe giornate che passava, da piccola, in un minuscolo parco giochi dietro casa, su un vecchio scivolo arrugginito e altalene mezze rotte.
Si regalò un’altra boccata di fumo, scacciando ogni pensiero dalla testa e concentrandosi per ritrovare il punto esatto dove aveva parcheggiato la macchina, qualche giorno prima.

Superò due ragazze intente a chiacchierare tra loro, nell’esatto istante in cui quella a destra scoppiava a ridere, reclinando il capo all’indietro.
Trattenne l’impulso di imitarla, continuando a scandagliare il marciapiede.

Una macchina.
Ancora stentava a crederci, non aveva mai nemmeno preso in considerazione l’idea di averne una, e non solo per l’enorme quantità di soldi che le sarebbe venuta a costare: era contraria all’idea, per principio.
Preferiva di gran lunga camminare o andare in autobus, di una macchina non avrebbe saputo cosa farsene, specie se considerava il fatto che abitava a un tiro di schioppo dall’Underpass e dal centro.
Era stato Izzy ad insistere che se ne comprasse una, così puoi venire a vedermi quando suono attorno a L.A, no?
Le aveva detto con un enorme sorriso, mentre l’accompagnava da un rivenditore di macchine usate.
Su questo punto, Roxanne era stata inflessibile: non avrebbe buttato via migliaia di dollari per una macchina nuova, la preferiva di gran lunga usata.
In un certo senso, aveva un po’ l’impressione di andare un po’ meno contro i suoi principi.

Fece dietro-front, dopo essersi accorta di aver passato la macchina da un bel po’.
Con un sospirò si sedette, infilò la chiave nel quadro, dopo aver lanciato la borsa sul sedile posteriore, e mise in moto, immettendosi nel traffico di metà mattina canticchiando il ritornello di una canzone degli Europe che le era rimasto in testa per tutta la mattina.
It’s the final countdown!” intonò imboccando l’autostrada “Parararaaa parapappappà!” riavviò una ciocca di capelli, che l’aria che entrava dai finestrini abbassati le aveva fatto finire davanti agli occhi, tamburellando le dita sul volante.
Tutto sommato, aveva dovuto ammettere, guidare le piaceva abbastanza.
Era bello sentire la strada correre sotto le ruote, il vento tra i capelli e tutto il resto, quell’impressione di indipendenza e libertà assoluta di cui parlavano tutti nei film era effettivamente reale.
Inforcò gli occhiali da sole, un paio di Ray-ban che aveva preso a Izzy durante la sua ultima visita, e si rilassò sul sedile, dopo aver superato una lunga fila di macchine.
Non stava più bella pelle all’idea di rivederlo.

Un sorriso le illuminò il volto, mentre metteva la freccia e superava una vecchia jeep militare, imboccando l’uscita per il parcheggio dell’aereoporto. Si, sarebbero state giornate grandiose.
Finalmente lo avrebbe avuto davanti quando le parlava, e non sarebbe stato necessario immaginare i suoi occhi verdi brillare mentre sorrideva.
Non avrebbe dovuto chiudere gli occhi e fingere che la sua voce non fosse filtrata dalla cornetta del telefono, che le toglieva tutte quelle sfumature altrimenti capaci di farla rabbrividire.
Avrebbe potuto baciarlo davvero.
Avrebbe potuto stringergli le mani, affondare le dita tra i suoi capelli, nascondere il viso nell’incavo del suo collo e perdersi nel suo profumo, quel profumo che non aveva mai trovato in nessun altro, un miscuglio di tabacco, muschio e tristezza che le faceva venire le lacrime agli occhi.
Avrebbe sentito il calore della pelle liscia sotto le sue dita, il sapore sulle labbra, i gemiti nella bocca.
Arrossendo, si crogiolò al pensiero di tutto quello che avrebbe potuto fare con Izzy stando semplicemente sui sedili posteriori della macchina.
Decisamente tre mesi senza sesso sono troppi, ammise parcheggiando tra due gigantesche utilitarie ultimo modello, larghe al punto da lasciarle dieci centimetri scarsi per aprire la portiera ed esibirsi in una serie di complicate contorsioni per riuscire ad uscire dalla macchina.
Sbuffò, tirando un calcio ad una delle due utilitarie.

Ma era troppo felice per poter rimanere irritata, non in una giornata che si prospettava semplicemente favolosa: quando entrò nel gigantesco terminal dell’aereoporto, il sorriso era già tornato ad illuminarle il volto.
Gironzolò senza meta per negozietti dimenticati dal mondo, toccando oggetti su cui la polvere si era depositata formando un delicato strato di velluto grigio, sfogliò riviste senza nemmeno vederne i colori, si prese un caffè di cui non avverti altro che il calore scivolarle lungo la gola, comprò un mazzo di margherite colorate di cui non sentiva il profumo, fumò cinque sigarette senza assaporarne neanche una.
Ogni singola cellula del suo corpo era protesa verso l’uscita da cui Izzy sarebbe comparso, riportando i colori, i suoni, i sapori e gli odori nel suo mondo.
Si sentiva come se fosse nata unicamente con quello scopo: aspettare Izzy.
Null’altro aveva senso.
Voleva solamente che lui comparisse tra quelle due porte aperte con il suo eterno borsone e un sorriso stanco solo per lei.

Forse fu anche per questo che non notò i tre poliziotti che stazionavano accanto a lei con un’espressione torva stampata sul viso.
Non li notò nemmeno quando un fiume di gente proruppe dall’uscita del gate, accompagnato da un brusio costante e visibilmente irritato.
Ma non vi prestò troppa attenzione: si alzò in punta di piede, cercando di scorgere Izzy in mezzo alla ressa.

Il cuore di Roxanne fece una capriola, quando lo vide venire avanti.
E, un istante dopo, smise di battere quando lo vide barcollare e lo sentì imprecare a gran voce.
Il mazzo di margherite le cadde di mano, quello che in relatà fu un delicato tonfo si trasformò in una cannonata nella sua mente quando lo identificò come completamente ubriaco.
Tutto attorno a lei divenne improvvisamente muto e grigio, mentre i tre poliziotti iniziarono a muoversi lenti, come a rallentatore, verso il chitarrista.

Fu quando i loro sguardi si incrociarono, attraverso una giungla di teste dai colori più disparati, mentre le manette scattavano attorno ai polsi del ragazzo e i suoi occhi verdi si riempivano di un mare di emozioni che nessuno dei due avrebbe saputo definire, che Roxanne sentì qualcosa di piccolo piccolo fare crack in un punto non ben definito del suo petto ed ebbe la sensazione che era quello, quello e nessun altro, il preciso momento in cui la sua vita cambiava.
Fu solo un attimo, un brevissimo scherzo del destino, una goccia nell’oceano dell’eternità, ma la sensazione di essere davanti ad una svolta tanto radicale da non poter esser definita a parole fu talmente netta di farla boccheggiare.
Se qualcuno le avesse stesso cosa stesse guardando, non avrebbe risposto il mio ragazzo.
Stava guardando il destino. Il suo.
Era lì, davanti a lei, un placido fiume di eventi in attesa di realizzarsi che scorreva sotto i suoi occhi.

E nell’esatto istante in cui se ne rese conto, era già passato, un ricordo cancellato da una mano invisibile impietosita o dalla sua stessa mente, spaventata dall’enormità di quanto era accaduto.
Il mondo prese a correre come sempre, i colori tornarono, più abbacinanti che mai, i suoni proruppeto impetuosi e turbolenti e i poliziotti portarono via Izzy, senza che lei potesse o riuscisse a dire nulla.
Era stato un attimo.
E come tale, se ne era andato in un battito di ciglia.
Quando riprese coscenza della realtà che la circondava, di Izzy e dei poliziotti non c’era più traccia.
L’aereoporto era pieno di persone, ma lei non si era mai sentita così sola e persa in vita sua.

 

PARLA ROXANNE:

Intimità.
È una parola, di quattro sillabe, che potrebbe tranquillamente essere parafrasata con qualcosa che suona vagamente come “Ecco, qui ci sono il mio cuore e la mia anima: prego, sbattili dentro un hamburger e buon appetito”.
Terribile, temuta, agognata fino alla spasimo, l’intimità è un qualcosa di cui sembra impossibile riuscire a fare a meno.
Indispensabile, nelle tre colonne portanti della vita: famiglia, amici e amore.
Cose che si devono per forza sapere, altre che forse sarebbe meglio non conoscere affatto.. non esiste, un manuale su cui siano scritte le regole dell’intimità.
Sarebbe troppo facile, non credi?
Trovare tutte le risposte già scritte, stampate nero su bianco dentro una bella copertina rosa antico, pubblicizzate da un titolo accattivante.
No, non è proprio possibile: sono un qualcosa che si deve scrivere da se.
Spingersi fino al limite estremo e rimanere lì il più possibile, lottando contro tutto e tutti in nome della bandiera colorata della felicità, l’obbiettivo è questo.
Come arrivarci, nessuno può insegnartelo.
Fanculo, a queste dannate regole: probabilmente nemmeno esistono.
O forse, noi le abbiamo ignorate e basta, sfidando la sorte e sovvertendo ogni logica.
Forse abbiamo continuato a farci del male, portandoci fino allo sfinimento, sputando sangue per una storia che avrebbe potuto essere dieci volte più semplice.
Del resto, com’è che fa quel vecchio detto?
Continuo a farmi del male perché è meraviglioso quanto smetto, è qualcosa del genere vero?
L’ottantanove fu un anno difficile, si.
Ma fu anche l’anno in cui riscoprimmo il piacere delle piccole cose e imparammo che non era necessario scontare le pene dell’inferno per poi godere al meglio del tempo assieme.
E questo, per me, significò moltissimo.

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Capitolo 13
*** Carry on ***


HAND IN GLOVE
#
11 CARRY ON

 

 




PARLA IZZY:

 

 

La dipendenza è sempre stata la mia droga.

Iniziai a sperimentarla quando arrivai a L.A, molto tempo fa, e da allora ho sempre fatto molta fatica a disintissicarmene.

E' parte di me, parte di quel complicato groviglio di pensieri e emozioni che sono.

E' più forte di me, il richiamo a cui non riesco a resistere.

All'inizio, il suo nome era Desi.

Aveva il volto di una spogliarellista minorenne, grandi occhi castani e lunghi capelli scuri, pelle di porcellana e il corpo di un angelo.

Poi si sbriciolò in polvere bianca.

Piste tirare su specchietti opachi, sporchi. Dollari buttati al vento, banconote arrotolate, la droga era la mia nuova migliore amica.

Si sciolse in liquori ambrati, dal sapore forte e deciso.

L'alcool, nelle vene, bruciava molto più del sangue e del mio buon senso: il tunnel sfocato in cui caddi mi privò di ogni inibizioni, di dignità, di umanità.

Caddi, si.

E nello sprofondare nella mia melma di inadeguatezza mi resi conto che di nuovo, dipendevo da qualcosa.

Dipendevo da te, Roxanne.

Quando i legami fisici con polveri chimiche e liquidi infiammabili vennero recisi, in quel caldo agosto del 1989, io mi resi conto della mia debolezza.
La tua assenza bruciava più della presenza di chiunque altro, avevo
 bisogno di sentire la tua voce, di vedere il tuo viso, di avvertire le tue dita fredde sul mio corpo e il tuo sapore sulla bocca.
Avevo disperato bisogno di te e nulla, NULLA, sembrava in grado di lenire la sofferenza che sentivo o riempire anche solo minimamente il buco che minacciava di divorarmi dall'interno, consumandomi giorno dopo giorno, settimana dopo settimana.

Le ore si dilatavano in minuti eterni, i secondi si fermavano nel loro scorrere.

Il mondo intero perdeva i suoi colori, quando tu non eri con me.

 


 

 


Each night within his prison cell

 

 

he looks out through the bars

He reads the letters that she wrote

One day he'll know the taste of freedom.
 

Nightwish, Over the hills and far away.


 

 

MALIBU',  dicembre 1989

Izzy affondò le mani tra i capelli, chiudendo gli occhi.

L’impressione era quella che la testa stesse per scoppiargli tra le dita da un momento all’altro e a giudicare dalla dolorosa rapidità con cui la sentiva pulsare, era quasi certo che fosse un momento particolarmente vicino.

Alla fine era successo.

La cosa che più aveva temuto, quello che poteva definire il suo incubo più nascosto: era finito in una casa di riabilitazione.
Una fottuta rehab, come aveva sottolineato Axl quando lo aveva chiamato, dopo il processo.
Il processo... piegò la bocca in una smorfia, ripensando al miracolosamente assalto mediatico evitato. Immaginò la folla di giornalisti chelo avrebbe assediato giorno e notte, immaginò la stessa ressa famelica e impietosa stringersi attorno a Roxanne.
Rabbrividì, nonostante l’aria fosse quasi bollente.

Si alzò in piedi, camminando nervosamente lungo la stanza: era datre mesi esatti che non aveva più notizie di Roxanne, che non si era fatta viva al processo, che non aveva risposto alle sue telefonate.
Era letteralmente scomparsa nel nulla.
Sentì un nodo stringergli la gola, la sola idea di averla persa per una cazzata del genere lo faceva sprofondare nella depressione più cupa e la sua voglia di vivere calava spaventosamente a rasentare lo zero assoluto.

Si alzò in piedi, raggiungendo la finestra aperta che dava sul giardino sottostante, un tripudio di colori e profumi che gli erano completamente indifferenti. Ogni mattina, nella sua stanza, compariva un mazzo di margherite.

Non aveva mai capito il perché della loro presenza, quando lo aveva chiesto ad un’infermiera la risposta era stata lapidaria.
Perché qualcuno te li manda.
Non sapeva chi, non c’erano mai bigliettini, e non aveva la più pallida idea di chi potesse avere tanto a cuore l'arredamento della sua camera, una sorta di cella minuscola che lo aveva sentito gridare mentre il suo corpo di contraeva in spasmi di dolore lancinanti

E adesso che la dipendenza fisica era stata spezzata, adesso che lottava con la sua stessa volontà, tutto ciò che voleva era Roxanne al suo fianco, e non uno stupido mazzo di fiori.
Già una volta si era arrabbiato al punto da prenderlo e scagliarlo con una parete, ritrovando a fissare un mucchietto di petali vellutati e frammenti trasparenti, illuminati dalla luce rossastra di un tramonto.
Quando poi si era reso conto del perché lo aveva fatto, aveva sentito l'irrefrenabile impulso di piangere ma, come aveva poi raccontato allo psicologo la mattina dopo, i suoi canali lacrimali erano troppo orgogliosi per farlo.

Incrociò le braccia al petto, guardando il parco della casa di cura allungarsi pigramente sotto di lui, fino ad un cancello accuratamente sorvegliato e verniciato di bianco.

Una prigione di lusso, ecco dove era finito.

"Signor Stradlin, c'è una visita per lei." gli annunciò una graziosa infermiera bionda, facendo capolino sulla sua porta e ragalandogli un sorriso fin troppo eccessivo.

E i carcerieri si mascherano da angeli, aggiunse silenziosamente tra se e se, gratificando la biondina con un cenno del capo dopo aver indugiato qualche altro attimo sul giardino.
Si voltò, lasciando la stanza dopo aver recuperato le sigarette e un accendino, percorrenda senza fretta un corridoio dalle pareti dipinte di quel verde sbiadito che nei negozi viene proposto come "verde primaverile".

La sala d'aspetto dove l'infermeria lo portò non era molto grande, un rettangolo dove erano ammassati con grazia divanetti, poltroncine, tavolini e una quantità spropositata di posacenere era deserta, fatta eccezione per una folta chioma riccioluta che riconobbe all'istante.

"Slash!" esclamò, avanzando verso l'amico, che gli rivolse un sorriso sghembo, "vecchio cazzone, come stai?" ghignò, dandogli una manata amichevole sulla spalla.

Il chitarrista ricambiò il gesto, stringendolo in un mezzo abbraccio impacciato, per poi lasciarsi di nuovo cadere sul divanetto e allungare le gambe sul tavolino lì di fronte.
Izzy si accoccolò su una poltroncina, accendendosi una sigaretta.

"Impegnato il doppio del solito," rispose il riccioluto, "ma quantomeno libero di andare dove mi pare."

"Spiritoso..." lo liquidò il primo, soffiando fuori una nuvola di fumo che si perse nei colori ovattati della stanza.
"Manca ancora un mese e poi posso tornare."

"E' quello che hai detto un mese fa," osservò Slash, inarcando le sopracciglia.

"Cosa vuoi insinuare?" indagò cauto Izzy, gli occhi verdi accesi dal dubbio e dalla diffidenza.
Quelli nerissimi dell'altro ragazzo rimasero impassibili, mentre si faceva allungare una sigaretta e si concedeva qualche tiro, prima di rispondere.

"Nulla, Stradlin, nulla." sorrise "Rilassati! Ti porto notizie dalla tua bella." aggiunse dopo qualche attimo, stringendo la Malboro tra le labbra e frugandosi nelle tasche dei pantaloni, alla ricerca di qualcosa.

Sforzandosi di rimanere tranquillo e non dare a vedere del salto che il suo cuore aveva fatto, raddrizzò la schiena.

"Ah." commentò semplicemente.
Ma quella che avrebbe dovuto essere un'esclamazione quasi indifferente gli uscì come un gemito strozzato.

"Lo sai, vero, che non hai bisogno di fingere di essere il grand'uomo che non sei, vero?" lo stuzzicò il chitarrista, porgendogli una busta un po' spiegazzata che l'altro prese con dita tremanti.

"Mh." mugolò lui, guardandola come se al suo interno fosse rivelato il mistero della vita.

"Sta bene, comunque." proseguì Slash, come se nulla fosse "E' un po' provata, certo, ma tira avanti."

"L'importante è che stia bene." commentò a denti stretti, torturando le dita strette in una morsa nervosa.

"Tu piuttosto?" riprese il chitarrista riccioluto, il volto nascosto a metà dalla folta chioma corvina "Come stai?"

"Come vuoi che stia?" ringhiò Izzy, scattando in avanti e contraendo i muscoli del collo "Una merda. Sono rinchiuso in una gabbia dorata, ma pur sempre una gabbia."

"Potresti andartene quando vuoi, lo sai vero?" Slash si accese un'altra sigaretta, rigirandosela tra le dita e trattenendo il fumo in bocca a lungo.

"Si, lo so..." il moretto affondò il viso tra le mani, con aria stanca "Ma non sono forte abbastanza. Voglio tornare da lei con la sicurezza di esserlo abbastanza da evitare che una cosa del genere si ripeta."

"E allora rimani, non c'è altro da dire." si alzò in piedi, imitato da Izzy, e gli posò una mano sulla spalla "Tanto noi tutti ti aspettiamo. Tu pensa a rimetteri a posto, d'accordo?"

"Non mancherò." bisbigliò Izzy, stringendo forte la busta con dentro la lettera di Roxanne con un'impazienza che non sapeva di poter provare, una sorta di urgenza fisica che gli suggeriva di girare sui tacchi e correre a chiudersi in camera per poterla finalmente leggere.

 

 

 

All my life has been a battle

 

 

Fought within me with myself

You always know what the truth is
But the trick is to know yourself
I looked around me in the darkness
And you found me when there was no one else.

 

Ben’s Brother, Carry on.

 

 

 

 

 

 

 

 

La notte lo colse mentre rileggeva per la ventitreesima volta la lettera di Roxanne.

Ormai era quasi in grado di recitarla a memoria da capo a fine, sarebbe stato in grado di snocciolare persino tutte le cancellature che costellavano il foglio a righe, strappato da un quaderno qualunque: eppure non riusciva a fare a meno di correre con lo sguardo lungo la grafia famigliare della ragazza, cercando di immaginarla mentre riversava il suo cuore e i suoi pensieri sulla carta, per mandarli a lui.
Poteva vederla mentre si mordicchiava le labbra, con il capo inclinato, baciata dalla luce dorata di un tramonto e appollaiata su uno sgabello nel suo minuscolo cucinino.
Oppure distesa a pancia in giù sul letto, nelle grigie ore che precedono l'alba, di ritorno da un turno particolarmente lungo al lavoro. Con il trucco un po' sciolto dal caldo, i capelli scompigliati e una sigaretta tra le labbra.

Dio, come avrebbe voluto poter correre da lei subito, in quel preciso momento!

Leggere che lei non aveva smesso di amarlo un solo istante gli aveva riempito il cuore di gioia e impazienza, ogni singola fibra del suo essere reclamava il calore di Roxanne, il suo odore, il suo tocco.
La desiderava tanto da impazzire, mai come allora l'aveva voluta al suo fianco.

La distanza, la reclusione forzata.

Tutto, ogni singola cose, sembrava accentuare e ingrandire quel desiderio che gli bruciava in petto.

Si agitò inquieto nel letto, gli occhi verdi che saltavano di parola in parola, senza più leggere, fissi su un'immagine che esisteva solo nella sua mente.

Ricordava una mattina d'inizio marzo.
Una giornata limpida, prima di nuvole, solo cielo azzurro e sole, loro due distesi su un prato costellato di fiori, su una grande bandiera inglese stesa a terra.
Ricordava la consistenza serica dei capelli di Roxanne tra le sue dita e il loro profumo, un alone appena percettibile di mandorle e albicocche.
Il sorriso della ragazza mentre cantavano a squarciagola una canzone di Cindy Lauper senza preoccuparsi di stonare o andare fuori tempo, cantando solo per il gusto di farlo.

Era così che voleva ricordarla quando erano separati: un raggio di sole nelle sue giornate più buie.

Posò i fogli sul comodino, lasciandosi cadere di schiena sul materasso.
Doveva resistere, doveva resistere solamente un mese, doveva farlo per lei che, solo ora se ne rendeva conto, era tutta la sua vita.

 

 
 

 

Bitter apple take my life

It's kind of wonderful

If I close my eyes you're mine tonight

Tonight.
 

Dave Gaham, Bitter Apple

 

 

 

 

 

 

 

 

LOS ANGELES, gennaio 1990

Izzy sbadigliò, accoccolato sul sedile posteriore della macchina che era venuto a prenderlo all'uscita dell'albergo.

La notte era silenziosa, la città nulla più di un bagliore sfuocato che sfrecciava al di là del freddo vetro che lo portava via da quella gabbia di lusso in cui si era rintanato appena finita la riabilitazione in preda ad una assurda follia da arrivo del nuovo anno.
Per la prima volta, dopo tanti anni di veglioni passati sotto l'effetto dell'alcol e delle droghe, aveva salutato l'inizio di un nuovo anno sobrio.
Ma, soprattutto, solo. Non aveva voluto nessuno, accanto a lui. Nemmeno Roxanne.

Non era stato facile dire di no all'unica persona al mondo che avrebbe voluto con lui, anzi.
Probabilmente non aveva mai preso una decisione così difficile in tutta la sua vita, ma sapeva di non poter rischiare.
Sapeva di non aver scelta, sapeva di ritrovarsi in una situazione tale che il minimo errore, il minimo sgarro, gli avrebbe fatto perdere tutto.

Per questo era rimasto in albergo, buono e tranquillo, in compagnia delle chiacchiere inutili della televisione. Incazzato, certo.
Incazzato come poche volte nella sua vita.

La frustrazione, la solitudine, la rabbia e, perché no, la tristezza mescolata alla consapevolezza che si ritrovata in una situazione del genere era solamente a causa sua, si erano riversate in lui trovandolo senza difese.
Il 1990 lo aveva accolto con un caloroso "vaffanculo, cazzo, vaffanculo".

Ma era passata.

La notte più lunga della sua vita era passata e adesso lui guardava alla notte limpida con occhi nuovi.

La macchina accostò dolcemente e l'autista, con un sorriso, gli comunicò che erano arrivati.

"Grazie," biascicò Izzy, uscendo dalla vettura e precipitandosi verso il portone dalla vernice scrostata che non vedeva da mesi.
Lo trovò aperto, come al solito, e senza smettere di correre si lanciò sulle scale, masticando rampe su rampe in barba al dolore atroce che gli attanagliava la milza.
Aveva aspettato fin troppo, non aveva nessuna intenzione di permettere ai suoi limiti fisici di ritardare ancora quel momento.

Riconobbe subito il pianerottolo del settimo piano, pur non avendo contato tutti quelli che aveva superato, dal grande graffito colorato che ne ricopriva interamente le pareti. Non si accorse nemmeno che altri se ne erano aggiunto, trasformando le mura in chiazze di colore senza senso, al limite della psichedelia.
La porta dietro cui si nascondeva Roxanne era proprio davanti a lui. Si fermò, concedendosi un attimo di tempo per inspirare a fondo.

Ma nell'esatto istante in cui alzò la mano per bussare, la porta si spalancò e un ciclone rosso lo investì in piena, schiantandosi contro il suo petto.
Izzy la riconobbe.
Il suo corpo la riconobbe, ancora prima che la mente formulasse il pensiero, e le braccia si mossero da sole, per trattenere Roxanne.
Lei, però, si scostò bruscamente, dandogli le spalle e nascondendosi il volto tra le mani; qualcosa in lei rifiutava di credere a quelle che, ne era sicuro, il suo corpo le urlava addosso.

"Non è possibile." la sentì sussurrare tra le dita.

"Perché no?" chiese, con un filo di voce.

"Perché non può essere vero, è troppo bello per essere vero." curvò la schiena, tremando quanto la sua voce.

"Roxanne.." la chiamò allora Izzy, dolcemente "guardami."

"No."

"Perché no?"

"Perché se io mi volto e tu non sei davvero lì io.. io non.."

"Roxanne, posso.. posso avvicinarmi?" proseguì il chitarrista.

La ragazza rimase immobile, abbracciandosi la vita come se da quello dipendesse la sua vita.
Il moro avanzò di un passo, fece per sfiorarle la schiena, ma lei lo bloccò, riprendendo a parlare.

"Se tu non.. se io adesso mi voltassi e tu non... se tu non sei qui... io... io impazzirei, Izzy..." scosse il capo, rifiutando la possibilità.

Izzy allungò la mano, posandogliela sulla schiena.
Prima i polpastrelli, poi le dita e alla fine il palmo, sentendo il calore della carne passare attraverso la felpa rossa, la sporgenza più dura delle scapole e delle vertebre.
Lei sussultò visibilmente, ma non si scostò: reclinò il capo all'indietro.

"Sei.. sei davvero tu." disse. E questa volta non era una domanda.

Il chitarrista non parlò, facendole pressione sulla schiena per farla voltare, per poi prenderle il mento tra le dita e costringerla a guardarlo.

"Guardami," sussurrò, "ti prego, Roxanne, guardami. Ne ho bisogno."

Era passato tanto tempo dall'ultima volta che aveva avuto la possibilità di perdersi negli incredibili occhi scuri della ragazza, troppo da quando l'aveva fatto sobrio: l'effetto fu mille più sconvolgente di quanto potesse sperare.
Nell'esatto istante in cui lei sollevò le palpebre, ricambiando il suo sguardo smeraldino, aveva sentito la terra vacillargli sotto i piedi.
Aveva istintivamente stretto le dita sulle spalle di Roxanne, spingendosi al limite del dolore fisico e cercando in quel contatto un appiglio che gli permettesse di non scivolare a terra.

Non si dissero nulla.
Il tempo smise di avere importanza, le parole persero il loro significato, il mondo sbiadì.
Tutto ciò che contava, era negli occhi.

La lontananza, quei lunghi mesi che li aveva tenuti separati rendendoli simili a belve in cattività. Ogni cosa, si perse in quell'unico sguardo.

"...mi sei mancata." riuscì a dire a fatica Izzy, sforzandosi di non sbattere le palpebre. Non voleva perdere nulla, nemmeno la più insignificante frazione di secondo.

"Anche tu," replicò lei, come fosse senza fiato.

"Da morire."

Roxanne inspirò a fondo, stringendo le dita attorno ai polsi ossuti del ragazzo.

"Ma sei qui."

"Si, siamo qui."

 

 

 

Let me count the ways that I love you

 

 

Let me count the days that we have known

Show me a place to be with you

‘Cause I can't do this on my own, on my own.
 

Ben’s Brother, Carry on.

 

 

 

 

 

 

 

 

Izzy rimase ad occhi chiusi, accoccolato contro Roxanne.

Era notte fonda, eppure non c’era neanche un briciolo di silenzio: dalle finestre aperte sentiva un gran vociare salire dalla strada, una sirena che correva in lontananza, il pianto di un bambino e la ninna nanna di una madre.
Non riusciva a dormire.

Aveva dimenticato cosa volesse dire passare la notte nella città degli angeli, nei suoi mille rumori senza pace; abituato com’era al silenzio assoluto che aveva accompagnato la riabilitazione.
Roxanne, al contrario, sembrava essere del tutto indifferente a tutto quel chiasso: si era addormentata subito, dopo essersi rannicchiata contro di lui come se non si fossero mai separati per così tanto tempo, e non si era più mossa.

Le accarezzò la schiena nuda, baciandole una spalla.

“Ehi,” la sentì sussurrare, la voce impastata dal sonno, “va tutto bene?”

“Si,” la strinse più forte, sorridendo.

“Non riesci a dormire?” si rigirò tra le sue braccia, cercando i suoi occhi.

“No.” ammise, scrollando le spalle “E non riesco a capire come tu ci riesca, con questo fottuto casino.”

Lei ridacchiò, debolmente, trattenendo uno sbadiglio.

“Ci farai l’abitudine, amore, vedrai. Arriverai ad un certo punto in cui non ti accorgerai nemmeno delle macchine che passano per strada.”

“Oh, non lo so.. è tutto così strano.”

“Strano?” si raddrizzò, mettendosi a sedere.
I capelli, molto più lunghi di quanto non ricordasse, le sfioravano le vita, arricciandosi in onde stanche.
Allungò una mano, stringendone una ciocca tra le dita e avvicinandola al volto: il familiare odore di albicocca lo fece sorridere.

“Si.”

“Strano in negativo o in positivo?” indagò cauta, mentre Izzy abbandonavo il capo nel suo grembo.
Roxanne prese ad accarezzargli i capelli, in attesa.

“.. non lo so.” ammise il chitarrista alla fine, rinunciando a trovare la risposta e chiudendo gli occhi “Una parte di me la vede in negativo e non vorrebbe altro che tornarsene in clinica anche se non ce ne è bisogno.”

“E’ normale avere paura.” commentò dolcemente la ragazza, chinandosi per baciarlo.
I folti capelli scuri le ricaddero ai lati del volto, chiudendosi come una tenda attorno alle loro facce.
“Ma non sei solo. Non lo sarai mai.”

Izzy soppesò le parole, guardandola. Era così tanto, che non lo faceva, che quasi si stupiva dell’effetto che quei lineamenti, quegli occhi, quelle labbra, suscitavano in lui.

“C’è stato un momento in cui ho temuto te ne saresti andata.” sussurrò, senza distogliere lo sguardo.
Lei mantenne il contatto, mostrandosi tranquilla.
“Quando ti ho vista, all’aereoporto, ho davvero creduto di averti persa. Cazzo se ho avuto paura, in quel momento,” lei abbozzò un sorriso, “probabilmente non sarei sopravvissuto, non avrei resistito più di due giorni in quel posto senza sapere che c’eri tu lì fuori.”

“Ma tu non sapevi se c’ero o meno.”

“Vero,” fece un pausa, “ma avevo bisogno di crederlo.”

Roxanne tacque.

In realtà avrebbe voluto dire tante cose, ma temeva che se avesse aperto la bocca non sarebbe più riuscita a chiuderla.
Aveva paura che se davvero non si fosse trattenuta, avrebbe finito col gridare che si, avrebbe potuto non esserci davvero.
Che non sapeva se un cuore infranto potesse rompersi ancora prima di quel fottuto giorno, in quel fottuto terminal.
Che la piaga lasciata dalla morte di suo fratello faceva ancora male, ma si stava richiudendo, fino a quando lui non ci aveva infilato dentro la lama di un coltello e aveva fatto uno strazio di quella che non sarebbe mai diventata una cicatrice.
Ma che anche lei non aveva scelta.
Che arrivata a quel punto non sarebbe più stata capace di vivere anche solo un giorno senza sapere di avere Izzy.
Che si sentiva un mostro, un’egoista, ma non poteva fare a meno di volerlo tutto per sé. Perché così come lui non aveva altri che lei, lei non aveva altri che lui.

Però.

Però sapeva che lui avrebbe reagito male, nel sentire una cosa del genere.
Dopo così tanto tempo assieme, aveva imparato che Izzy era fragile, vulnerabile, ma che non lo avrebbe mai ammesso né tanto meno accettato di buon grado.
Doveva fare buon viso a cattivo gioco, scendere a un compromesso con se stessa, scendere a patti con se stessa.

E per questo non parlò.
Rimase in silenzio, ignorò quel nodo che le stringeva la cosa e strinse forte le dita tra i capelli corvini del chitarrista, chinandosi per baciarlo.

In fondo, si disse, avevano tempo.

Tempo per parlare, tempo per chiarire.

Tempo per i giudizi, tempo per le confessioni; tempo per accettare le più grandi delle paure e le più amare verità.

Avevano tempo.

Aveva bisogno di credere che fosse così.

 


 

 

PARLA IZZY:

 

 

Il brutto delle dipendenze, è che non finiscono mai bene.

Specie se la tua dipendenza è la dipendenza stessa.

Perché arriva sempre quel momento in cui quello che ti faceva star bene, che ti faceva andar su di giri, che ti regalava parvenze di felicità, smette di farti bene e inizia a farti male.

Desi l’ho lasciata io, si.

La scusa ufficiale era la sua età che avrebbe potuto stroncare il mio futuro sul nascere.

Con la droga ho dovuto smettere perché alla fine mi avrebbe ucciso.

Con te, invece, è stato diverso, ma non so spiegare perché nemmeno adesso.

Se guardo indietro negli anni, quelli che ho passato con te sono tra i più felici della mia vita.

Nonostante i problemi, nonostante tutto.

Sei un punto luminoso in un mare di tenebre rischiarato da tenui fuochi fatui.

Eppure spezzai il legame che mi legava a te.

Fisicamente.

Psicologicamente, ancora oggi dubito di avercela davvero fatta.

E comunque, dicono che sia impossibile liberarsi dei vizi finché non si tocca il fondo.

Ma come si fa a capire quando l'hai toccato?

Perché non importa quanto una cosa ci faccia male.

A volte smettere e' ancora più doloroso.

 

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Capitolo 14
*** The end of an era ***


HAND IN GLOVE
# 12 THE END OF AN ERA

PARLA ROXANNE:
Le cose cambiano.
A volte ci mettono una vita intera, altre volte basta molto meno.
Si cambia, ecco tutto.
Nel carattere, nelle idee, nelle opinioni.
È un processo automatico che qualcuno ha cercato di imbrigliare in una legge che cerca spiegare come le cose cambino per adattarsi meglio al mondo.
Tuttavia non si può mai sapere quando ci sarà, un cambiamento.
È l’incognita che non si può determinare, il salto nel vuoto che non si può prevedere e che si rivela solo come assenza di terreno sotto i piedi: tempo che te ne accorgi ed è già finito.
I cambiamenti puoi solo sentirli nell’aria.
Sono impalpabili, niente più di una presenza che ci fa stare all’erta, con i nervi a fior di pelle e i sensi tesi a captare il momento esatto in cui la scintilla esploderà, restando sospesa nel vuoto giusto per dar tempo all’adrenalina di scorrerci nelle vene e elettrizzarci.
Il cambiamento è tutto.
Non c’è modo di sfuggirgli, o ci si adatta o si rimane indietro.
Il tuo errore fu quello di adeguarti subito.
Il mio, quello di restare indietro.
Mentre la corrente degli eventi ti portava via, io scelsi di restare nella mia piccola oasi di felicità in attesa della scintilla che avrebbe convinto anche me.
Peccato che, quando arrivò, era ormai troppo tardi per correrti dietro.


 

I know nobody knows
where it comes and where it goes
I know it's everybody's sin
you got to lose to know how to win.

 

Aerosmith, Dream on.



LOS ANGELES, febbraio 1990
Steven imprecò.
“Che cazzo è?” ringhiò, voltandosi di scatto verso la porta contro cui qualcuno continuava a bussare, insistentemente, da almeno cinque minuti.
La voce che risposto lo colse alla sprovvista.
“Roxy,” rispose, “E
efammi il favore di aprire questa fottuta porta.”
Nulla, nel tono che lei aveva usato, faceva presagire una visita di cortesia.
Sentendo un brivido scivolare lungo la schiena, il batterista si mise a sedere e, combattendo una feroce emicrania, barcollò fino alla porta della suite dove si era rintanato. Inspirò a fondo, stampandosi un sorriso sulla faccia prima di aprire la porta.
“Ciao Roxy, cosa..”
Non ebbe tempo di finire la frase che la ragazza lo investì, precipitandosi nella camera senza aprire bocca.
“…ci fai qui.” Concluse, fissando il corridoio deserto.
“Sono venuta a strozzarti.” sibilò lei, aggirandosi tra i cumuli di vestiti abbandonati sul pavimento e le bottiglie vuote con estrema cautela.
Ah ecco, pensò il biondo, ci siamo.
Senza replicare, tornò ad accasciarsi sul letto sfatto, guardandola da sotto i folti riccioli dorati.
Roxanne sembrava non trovare pace, muovendosi tra quelle quattro ampie mura come una bestia in gabbia.
“Roxanne, siediti, mi fai girare la testa.” mormorò, prendendosi la testa tra le mani.
Tremavano.
“Oh, non credo che quello sia causa mia.” replicò scontrosa, andando però a sedersi accanto a lui.
Rimase in silenzio per qualche attimo, prima inspirare a fondo e voltarsi verso di lui.
Quello che vide, però, la fece desistere.
Il volto di Steven era quello di un teschio: la pelle tirata sugli zigomi, gli occhi azzurri spenti e infossati, circondati da scure occhiaie violacee, le labbra piegate in una smorfia. Sentì gli occhi pizzicare e si morse le labbra, allungando una mano per accarezzargli una guancia.
“Stevie,” sussurrò, “cosa ti è successo? Cosa hai fatto per ridurti così?”
Il batterista non rispose, scrollando le spalle. Lei proseguì.
“Non puoi andare avanti così, ti stai uccidendo,” sentiva le parole ingarbugliarsi tra loro, nel profondo della gola, e salire stentatamente, come se non fosse capace di pronunciarle.
“Roxanne, io..”
Lei scosse il capo, incapace di proseguire.
Il nodo era risalito, privandola di ogni capacità di comunicare.
Senza poter fare altro, si allungò verso il ragazzo, abbracciandolo.
“Stevie, non farlo. Non lasciare che vinca, non…”
Il batterista trattenne il respiro, cercando di dominare il tremore alle mani per ricambiare l’abbraccio.
Ma era talmente fatto da non rendersi conto che non erano solo quelle ad agitarsi, come impazzite: tutto il suo corpo era assolutamente incapace di starsene fermo.
La cocaina non gli dava tregua, constatò vergognandosi come un cane.
Era ormai un mese che Izzy era tornato dal rehab, pulito come se gli avessero fatto fare un ciclo ad alta temperatura in lavatrice; da settimane Slash stava tentando di tirarsene fuori e, sebbene a fatica, riusciva ad essere lucido almeno per suonare.
E lo stesso dicasi per Duff. Solo lui era in completa balia delle sue dipendenze, incapace di staccarsene.
“Roxanne, io non ce la faccio,” singhiozzò, affondando la faccia tra i capelli scuri della ragazza, che lo strinse più forte.
“Non dirlo nemmeno per scherzo,” sibilò, sforzandosi per trattenere le lacrime, “devi ficcarti in questa tua testa annebbiata che non esiste, che tu puoi e devi”.
Non ho intenzione di perdere anche te. Non ho più intenzione di perdere nessuno, pensò, aggrappandosi disperatamente alla schiena magra del batterista.
Sentiva le costole premere contro la pelle, le scapole sporgere come ali mutilate.
Si scostò, incapace di sopportare oltre. Sin da quando lo aveva conosciuto, aveva rivisto in Stevie il fratello che non aveva mai avuto.
Somiglianza fisica a parte, scorgeva nel batterista lo stesso animo gentile di Matthew, lo stesso animo che le droghe avevano cancellato, sradicato e fatto dimenticare.
Stupidamente il suo inconscio aveva fatto si che all’immagine di Steven Adler si sovrapponesse quella di Matthew May al punto che non c’era più confine tra le due, al punto che si erano fuse l’una con l’altra trasformandosi in un qualcosa di inscindibile.
Roxanne inspirò a fondo, scacciando parte dei brutti pensieri e lottando per recuperare un po’ di lucidità.
Non era da lei. Non era per questo che aveva attraversato la città, rinunciando al suo unico pomeriggio libero.
“Steven, seriamente,” riprese, “non puoi andare avanti così”.
“Lo so,” replicò lui, fissando il pavimento, “ma non ho scelta”.
“C’è sempre una scelta,” lo corresse lei, inflessibile.
“Ma io sto bene!” protestò, senza troppa convinzione.
“Oh si, certo,” roteò gli occhi, sentendo le lacrime bruciare di nuovo, “non è certo ignorandoli, che i problemi si risolvono”.
“E chi ti dice che io abbia un problema?” l’aggredì lui, prima di potersi trattenere.
Come se le avesse tirato uno schiaffo, Roxanne si ritrasse.
“Sai chi diceva sempre così?” sussurrò, abbassando lo sguardo sulle sue mani e curvando le spalle.
Si sentiva stanca. Vecchia e stanca.
Steven scosse il capo, ma trattenne il respiro.
“Izzy diceva così. E poi guarda tu come è finito, nella merda fino al collo e anche sopra. Matty diceva così, e adesso riposa sotto terra. Nessuno di loro era disposto ad ammettere di avere un problema, sono stati i problemi a trovare loro. E credimi, non hanno avuto scelta. Izzy è stato fortunato, non passa giorno senza che ringrazi il cielo per avermelo lasciato qui, Matty no. Io non.. io non voglio che tu faccia la fine di Matty. Non posso perdere un’altra persona, non così. Capisci, Steven? Capisci cosa intendo dire?”
Il batterista si morse le labbra, preso in trappola.
Ovvio che capiva.
Ovvio che sapeva che lei aveva dannatamente ragione.
Ovvio che non voleva finire nei guai né tanto meno morire.
Però.
Però sapeva di essere debole.
Sapeva che era stupido, ma non ne aveva voglia.
Soffrire per cosa? Per poi ricaderci?
Perché era così che sarebbe finita, ne era certo.
Sarebbe rimasto pulito per una settimana, due al massimo.
E poi paf! Ricaduta assicurata.
Con il genere di vita che facevano, erano inevitabile, e non era sicuramente forte come Izzy.
Non aveva nessuno a cui appigliarsi, la sua ultima ragazza risaliva a mesi prima e da allora si era limitato a scappatelle di una notte.
A questo si era ridotto. Droga e sesso facile.
“Non posso, Roxanne,” mormorò, senza trovare il coraggio di guardarla in faccia. La sentì ritrarsi, come se l’avesse colpita, ma non disse nulla.
“Steven, no. No, non lo accetto. Mai. Non esiste, non sta né in cielo né in terra. Non ci sto, no!” sbottò, tutto d’un colpo, prendendogli il volto tra le mani e guardandolo fisso negli occhi.
Lui ricambiò lo sguardo, vacuo.
Roxanne si morse le labbra, inspirando a fondo.
Sapeva che sarebbe stato difficile, sapeva che non sarebbe stata una passeggiata e Izzy era stato fin troppo parsimonioso nel descrivere lo stato in cui Steven si trovava, ma faceva ugualmente fatica ad accettarlo.
Non era il suo amico, lo spettro che aveva sotto gli occhi.
“Stevie,” ripese, parlando sottovoce, “perderai tutto. Ogni cosa. Tutto ciò che più ami, ti verrà strappato via,” scandì lentamente, senza mai distogliere lo sguardo dall’azzurro spento del batterista, “gli amici, la voglia di ridere, le uscite. La musica.”
“La musica no!” esclamò lui, le parole strozzate dal terrore.
“E invece si. Sta già succedendo, la stai già perdendo, possibile che non te ne renda conto? Tremi al punto da non riuscire a tenere le bacchette in mano, come speri di poter suonare?”
Non ottenne risposta.
Una coltre di silenzio scivolò tra di loro e lì rimase, senza permettere ai loro troppo deboli pensieri di spezzare le più tenaci barriere umane, orgoglio e caparbietà.
Roxanne sospirò, inghiottendo il nodo che le serrava la gola.
Aveva come l’impressione che quel silenzio mascherasse qualcosa di molto più grande, che riusciva ad identificare solo come allontanamento.
Lasciò il batterista con il vago presentimento che niente sarebbe stato più come prima, tra loro due.


 

Fools said I you do not know,
silence like a cancer grows,
hear my words that I might teach you
take my arms that I might reach you
but my words, like silent raindrops fell
and echoed the will of silence.

Simon & Gurfunkel, Sound of silence.


 

LOS ANGELES, febbraio 1990.
Axl sbuffò.
Era la terza volta nel giro di dieci secondi, tutti sapevano che qualcosa non andava.
“Steven,” sospirò il cantante, massaggiandosi le tempie, “cosa non ti è chiaro, di preciso?”
Il biondo sollevò il capo, sentendosi chiamare in causa.
“Eh?”
“Ti ho chiesto cosa non hai capito, di preciso, perché sono ore che ti ripeto sempre la stessa identica cosa e tu continui a sbagliare”.
Duff sfilò la tracolla del basso, posandolo contro una parete, e si sedette accanto ad Izzy, su un tavolo di plastica nera.
Questi lo guardò, prima di tornare a pizzicare delicatamente le corde della sua chitarra; sentiva tensione nell’aria e non aveva intenzione di aprir bocca e accendere inavvertitamente la miccia che li avrebbe fatti saltare per aria.
“Uno, due, tre. Un-due. Uno, due, tre!” sbraitò Axl, battendo le mani per scandire il ritmo delle parole “Non è difficile, cazzo!”
“E non urlare!” si lamentò Steven “Non sono stupido!”
“Ah no? Io invece credo di si, perché continui a dire che hai capito e a fare l’esatto opposto,” velenoso, il rosso si sporse in avanti, minaccioso.
“Axl, datti una calmata,” intervenne Slash, facendosi avanti, “non c’è bisogno di fare gli stronzi”.
“Hudson, stanne fuori,” sibilò il front-man, “non sono cose che ti riguardano”
“Oh si che mi riguardano, invece,” ribatté l’altro, “fino a prova contraria faccio ancora parte di questa band”.
“Ragazzi, non c’è bisogno di discutere,” intervenne Duff, saltando a terra.
Izzy lo seguì con lo sguardo, senza muoversi.
“Piuttosto rimettiamoci al lavoro, non abbiamo tempo da buttare”.
“E invece si, è proprio ora di discutere un po’, perché il tempo lo stiamo allegramente mandando a farsi fottere,” ringhiò Axl, voltandosi verso il bassista, “non possiamo andare avanti così, non è possibile!”
“Non urlare,” lo ammonì Slash.
“Io faccio quel cazzo che mi pare!”
Izzy chiuse gli occhi, frugando nelle tasche dei pantaloni alla ricerca di una sigaretta.
Era in momenti come quelli che rimpiangeva amaramente l’oblio regalatogli dalle droghe in passato, rimpianto che mitigava con massicce dosi di nicotina.
L’accendino scattò, la fiamma guizzò rapida e subito dopo l’acre sapore del fumo inondò i suoi polmoni.
Rilassò le dita della mano attorno alla chitarra, sentendole crocchiare dolorosamente.
La lucidità gli aveva regalato una subdola e più acuta percezione della realtà, che comprendeva tutta una serie di piccoli dolori di cui prima ignorava allegramente l’esistenza. Per quanto si sforzasse, non riusciva a capire da dove sbucassero fuori.
Scosse il capo, riavviandosi i capelli corvini e balzando a terra a sua volta.
Mentre Axl, Slash e Duff continuavano a discutere animatamente, Steven si limitava a fissare le bacchette, abbandonate tra le mani, con le spalle curvate sotto il peso di qualcosa che ancora non riusciva ad identificare.
Izzy si sentì stringere il cuore, provando compassione per lo stato in cui l’amico si era ridotto.
C’era ben poco da fare, per lui.
Nemmeno Roxanne era riuscita a smuoverlo dall’apatia più totale in cui era scivolare; cosa potevano sperare di fare loro?
Sin da quando aveva conosciuto la ragazza, all’Underpass, tra i due era nato un innegabile feeling che li aveva avvicinati come fratello e sorella, sentimento di cui il chitarrista era stato geloso: se persino lei aveva fallito, cosa potevano sperare di combinare loro?
Nulla riusciva a scalfire il bozzolo di stordimento attorno al batterista.
“Ragazzi,” esordì il moro, “non parlate di Steven come se non fosse qui”.
“Ma lui non è qui,” osservò tristemente Duff.
“Duff..” Slash gli scoccò un’occhiataccia, incrociando le braccia al petto.
“Guardalo, Isbell,” Axl puntò un dito contro il ragazzo biondo, “è fatto come una merda, non riesce nemmeno a tenere in mano quelle cazzo di bacchette! Come puoi pretendere che suoni?”
“Cosa vorresti dire?” si inalberò il bassista “Che dobbiamo cacciarlo?”
“E’ un’ipotesi da prendere in considerazione,” sibilò il cantante, iroso, “abbiamo una tourneé da fare, non posso permettere che un drogato del cazzo la mandi a puttane”.
Izzy soffiò fuori una boccata di fumo, con deliberata lentezza.
“Come dire che se non si ripulisce, se ne deve andare,” osservò, guardando dritto negli occhi l’amico.
Amico.
Poteva poi davvero considerarlo come tale? Del ragazzino con cui marinava la scuola per fumare e suonare c’era rimasto ben poco, oramai.
Condividevano cosa? Soldi, fama, gloria.
Ma quand’era stata l’ultima volta che avevano seriamente parlato, loro due?
Per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare.
“Esattamente,” il rosso annuì, prima di voltarsi verso il batterista e afferrarlo per il bavero della maglietta sdrucita che indossava, “mi hai capito, Adler? Se non ti ripulisci, e alla svelta, se fuori. Fine dei giochi. Per sempre”.
Il batterista non fiatò, fissando il cantante senza realmente vederlo.
Svuotato. Un guscio senza più anima.
“Non sei nemmeno in grado di difendere la tua musica,” gli alitò addosso Axl, carico di disprezzo, prima di girare sui tacchi e lasciare il piccolo studio, sbattendo la porta.
Izzy spense la sigaretta, prima di guardare gli altri ragazzi presenti.
Ma nessuno sembrava più avere nulla da dire.

 

The girl can't help it, she really can't help it now
It's like a highschool, highschool confidential
Teenage brandos stalk her in the halls
They tease her with cat calls

Alphaville, Highschool Confidential.

 

“Coglione,” soffiò Roxanne, “stronzo e coglione”
Izzy allungò le braccia, prendendola per i fianchi e costringendola a restare ferma.
Era da dieci minuti buoni che continuava ad andare su e giù per la stanza, senza fermarsi un attimo.
Esattamente da quando lui aveva terminato di raccontarle cosa era successo allo studio, nel pomeriggio.
“Amore,” cercò di rabbonirla, “fermati un secondo, ti prego”.
“Non posso!” protestò lei “Dio, quanto mi fa incazzare quel supponente uomo del cazzo!” sbottò, stringendo le mani a pugno fino a far sbiancare le nocche.
“Ti ha sempre fatta incazzare,” le ricordò.
“Beh, questa volta ha passato il limite. Ma chi cazzo si crede di essere per poter trattare Stevie così? Manco fosse un estraneo, qui si parla di un suo amico!”
Raramente Izzy aveva visto la sua ragazza così indignata e furibonda al punto da ripetere la parola ‘cazzo’ almeno una volta per frase.
Affondò le dita tra i suoi capelli, accarezzandole il collo: immediatamente lei si immobilizzò, rabbrividendo appena, per poi scartare via.
“E non ci provare nemmeno, tu!” lo accusò “Non ti azzardare a corrompermi con la promessa di un po’ di sesso solo per farmi stare buona, sono troppo arrabbiata!”
Il chitarrista si alzò in piedi, raggiungendola.
“Roxanne” disse “Steven deve ripulirsi. Lo sai anche tu, questo, lo sai meglio di me. Ma non vuole ascoltare nessuno, non vuole sentire ragioni! Lo hai visto tu stessa, no?”
La ragazza annuì, suo malgrado, accendendosi una sigaretta con un gesto nervoso.
“Non è una buona ragione per ricattarlo!”
“Non venire a fare la moralista, adesso,” la rimproverò Izzy, “da quando in qua ti preoccupi del mezzo e non del fine? Le buone fino ad adesso non hanno funzionato, per il bene di Steven dobbiamo tentare con le cattive. Sarà immorale, sarà scorretto da parte Axl fare quello che fa, ma se questo vuol dire fargli aprire gli occhi seriamente, allora ben venga. Sono il primo che rivuole indietro l’amico di un tempo, quello con cui si poteva fare a botte quando si divertiva a farmi ingelosire. Hai notato che non lo fa più? Non si accorge nemmeno di chi gli è vicino, l’altro giorno ha scambiato una puttanella da due soldi per Adriana. Adriana, ti rendi conto? Quella che sembrava essere l’amore della sua vita!”
Roxanne abbassò lo sguardo, soffiando fuori una boccata di fumo.
Ma la nicotina non la stava affatto aiutando, anzi. Il fumo entrava e usciva dai suoi polmoni senza che nemmeno se ne accorgesse.
Si lasciò cadere sulla sua vecchia poltrona, rannicchiandosi contro lo schienale imbottito.
Izzy la raggiunse, sedendosi su un bracciolo.
“Tesoro, non fare così,” si chinò a baciarle la fronte, “dono d’accordo con te nel dire che Axl l’ha sparata grossa e l’ha fatto con un tono che non è piaciuto a nessuno, ma ha ragione. Togli il batterista e i Guns perdono l’anima. Abbiamo bisogno di lui per essere quello che siamo, abbiamo bisogno di lui perché non possiamo farne a meno, e allo stesso modo lui ha bisogno di noi. Di me. Di te. Non credere che non lo sappia, lui dipende da noi esattamente come noi dipendiamo da lui. E non si tratta solamente di una questione di affari e musica, no. È qualcosa che va al di là; dopo tanti anni passati assieme siamo uno parte dell’altro. Steven si sta uccidendo e così facendo uccide parte di noi”.
Roxanne si morse le labbra, trattenendo un singhiozzo.
“Axl vuole che torni il vecchio Steven e lo dice nell’unico modo in cui sa dirlo, ecco tutto,” concluse Izzy.
La ragazza alzò lo sguardo, cercando conferma negli occhi verdi del chitarrista, che si impose di sorriderle.
Non era sicuro che le cose stessero effettivamente così, non era sicuro di nulla.
Ma aveva bisogno di crederci, così come aveva bisogno di credere che era solo un momento di crisi, un acquazzone estivo che presto si sarebbe esaurito lasciando spazio al nuovo sole.
Effettivamente, erano tante le cose in cui aveva bisogno di credere, forse troppe.
Che fine avevano fatto tutte le sue certezze?
Da quando le sue fondamenta di cemento si erano rivelate fatte di polistirolo?
“E’ tutto nelle mani di Steven,” sospirò dopo qualche attimo, accogliendola in un abbraccio, “non puoi aiutarlo, adesso”.


 

Yes, 'n' how many times can a man turn his head,
Pretending he just doesn't see?
The answer, my friend, is blowin' in the wind,
The answer is blowin' in the wind.

Bob Dylan, Blowin’ in the wind.


 

INDIANAPOLIS, 7 aprile 1990
Steven era nervoso.
Camminava inquieto nel minuscolo camerino, tormentandosi le mani pallide e magre.
I tendini erano tesi sotto la pelle , le unghie mangiucchiate; ma ciò che più spiccava era l’inquietante magrezza del volto, così scavato da sembrare un vero e proprio teschio incorniciato da una soffice nuvola di capelli biondi.
Ironia della sorte, si era trasformato nello Steven che troneggiava sulla copertina di Appetite for Destruction, titolo che si era rivelato profetico per la maggior parte di loro.
Slash sbirciò il batterista da sotto la tesa del cilindro nero, mordendosi le labbra piene, gesto che esprimeva tutta la sua preoccupazione.
Non era da Steven essere così teso per un concerto, non più almeno.
La sua incapacità di rimanere fermo era data da qualcos’altro, qualcosa che non era difficile intuire.
Izzy si fece portavoce dei pensieri degli altri membri della band, afferrò un braccio al biondo e lo sbatté contro una parete.
Nessuno parve stupirsi del gesto iroso, nessuno aprì bocca per commentare. Steven compreso.
“Di che ti sei fatto?” gli alitò in faccia, irato.
“Che?” fece finta di non capire l’altro, evitando il suo sguardo.
Ma Izzy non era dell’umore adatto per far finta di niente a sua volta, stavano per salire su un palco importante e per suonare una nuova canzone, non potevano permettersi una perfomance mediocre.
“Eroina?” insistette “Anfetamine? Cocaina?”
Un lieve sussulto, all’ultima parola. Il moro lo lasciò andare, con un gesto che esprimeva tutta la sua stizza e delusione.
“Avevi detto che ci avresti dato un taglio!” sbottò dopo qualche istante, dandogli le spalle.
“L’ho fatto!” protestò il batterista, portando una mano alla fronte e premendovela contro con forza, tra riccioli sbiaditi “L’ho fatto, cazzo!”
Duff, che fino a quel momento si era dedicato interamente a ripulire le punte dei suoi stivali bianchi da minuscole macchioline, alzò gli occhi per scambiarsi un’occhiata angosciata con Slash: il chitarrista strinse le labbra in una linea stretta, senza fiatare, ma si voltò a guardare Axl.
Il cantante era seduto su una sedia, la caviglia destra abbandonata sul ginocchio sinistro e le braccia conserte al petto.
Impossibile dire cosa stesse guardando, gli di occhiali con lenti a specchio che indossava si limitavano a riflettere cheti lo stanzino in cui erano costretti ad aspettare.
Izzy fremette, impercettibilmente, e si trattenne dal colpire il batterista con un pugno diretto al centro di quel visino che faceva ancora impazzire migliaia di fan nonostante l’aspetto tutto fuorché sano.
“Steven,” intervenne Slash, alzandosi per andare a fermare l’amico da rompere il naso al biondo, “quanta roba?”
“Io non mi sono fatto, cazzo!” urlò questi in risposta, spalancando le braccia esasperato.
“Stevie…” mormorò Duff, preoccupato dall’eccessivo silenzio di Axl.
Dopo mesi passati ad ascoltare le sue urla e le sue minacce, dopo aver visto Steven alternare tra la lucidità e l’oblio più totale, si rendeva conto più di tutti dell’equilibrio precario su cui erano in stallo.
Sarebbe bastato un niente e sarebbero potuti precipitare nel nulla.
Guardò di sottecchi il rosso, ancora immobile, e raggiunse il batterista, posandogli le mani sulle spalle.
“Stai calmo, non fa niente,” lo rassicurò, con un sorriso nervoso, “va tutto bene, non succede nulla se per una volta..” s’interruppe, sentendo l’amico crollare in avanti e posare la fonte contro la sua spalla. Non svenuto, ma libero da un peso che non poteva comprendere.
“Ci sto provando, davvero,” biascicò, masticando parola dopo parola a fatica, “giuro, io ci provo, ci provo, ci provo e sembra sempre che ci stia riuscendo, ma poi succede sempre che vedo qualcuno o penso che potrei farmi e…”
Duff rimase immobile per qualche attimo, prima di posare una mano sui capelli di Steven, che sembrava sul punto di scoppiare a piangere.
Izzy si sentì improvvisamente più vecchi di vent’anni e desiderò ardentemente che Roxanne fosse li con loro, in quel momento, e non assieme ad Erin e ai loro tecnici, dietro al palco.
Nessuno di loro era pronto ad affrontare – né tantomeno arginare - la crisi in cui Steven stava lentamente sprofondando, risucchiato verso il fondo di un baratro da cui era sempre più difficile risalire.
“Io non ho un problema, davvero,” continuò Steven, aggrappandosi a Duff come se fosse l’unica cosa che lo tenesse ancorato alla realtà, “è solo che non so cosa fare, cosa dire quando…”
“Quanto,” ripeté, pacifico, Slash, la voce decisamente più morbida e confortante.
“Una striscia, solo una,” confessò il batterista, scostandosi dal bassista e guardandoli uno per uno in faccia, “io non ho un problema, davvero, ce la sto facendo, una striscia non ha mai ucciso nessuno e non cambia niente”.
Izzy abbassò lo sguardo, incapace di sopportare gli occhi azzurri dell’amico colmi di paura e al tempo stesso luminosi della speranza di chi spera perché sa che non può fare altro. La stessa luce che illuminava i suoi, un tempo, la sua stessa colpa.
“Izzy, ti giuro, è solo una striscia, solo per stasera e poi basta!” abbozzò un sorriso, simile a un bambino che si rialza dopo una caduta e ride con gli occhi ancora colmi di lacrime. “Izzy, vecchio mio, tu lo sai quanto è difficile!”
“Oh, se lo so…” sussurrò il chitarrista, le spalle curve e un’espressione amara dipinta sul viso pallido.
Era difficile dire di no a una striscia di coca così come al più banale degli spinelli.
Era difficile dire di no all’alcol quando uscivano, era difficile fare finta di non sapere cosa succedesse in bagno quando a gruppi di due vedeva conoscenti rinchiudercisi dentro. Sentirsi piccolo, fragile, debole.
“Non è mai facile,” riprese, “ma non è un buon motivo per gettare la spugna, Steven”.
Se non fosse stato impossibile, avrebbe giurato di vedere il labbro inferiore dell’amico tremare, mentre chinava il capo.
Ma probabilmente era stato lo sfarfallio di una lampadina, l’ombra di un ricciolo inquieto.
Perché lo sguardo di Steven si fece vacuo, remoto, e un sorriso gli si stiracchiò sulle labbra, lentamente.
“Hai ragione, scusami. Scusatemi,” si passò una mano tra i capelli, prima di stringersi nelle spalle, “è stata l’ultima volta. Non lo farò più”.
Slash infilò le mani nelle tasche dei jeans, annuendo pensoso; Duff gli sorrise e gli strinse una mano sulla spalla con fare comprensivo.
Izzy rimase immobile per qualche attimo, prima di voltarsi e sospirare silenziosamente.
“Lo spero bene,” commentò semplicemente.
Axl non fece né disse nulla.
Si limitò a contemplare qualcosa che nessuno di loro poteva intuire o immaginare, perso nei suoi pensieri, fino a quando non si alzò in piedi e camminò fino alla porta, aprendola.
“E’ ora,” annunciò alla fine, senza guardarli, “muovetevi”.
E senza aspettare risposta, uscì dallo stanzino e si chiuse la porta alle spalle.

 

This is the end
Beautiful friend
This is the end
My only friend, the end.

The Doors, The end.

 

LOS ANGELES, 11 luglio 1990
Il vento caldo investì il volto dei due ragazzi non appena misero piede fuori dallo studio di registrazione e fu solo un caso se il cilindro di Slash non volò via, nel cielo gravido di nubi candide.
Duff si accese una sigaretta, incapace di commentare quanto era accaduto qualche minuti prima, all’interno di quello che sembrava un edificio come tanti altri nel cuore di Los Angeles.
“Ti tremano le mani,” osservò Slash, inarcando le sopracciglia.
Al sicuro tra le sue labbra, una Malboro disperdeva una rete di fumo acre nell’aria.
“Cristo santissimo!” fu tutto ciò che il bassista riuscì a dire, accasciandosi su un gradino e affondando la fronte nei palmi delle mani.
“Puoi ben dirlo.”
Il volto del chitarrista era completamente nascosto dai folti riccioli scuri e dall’ombra della tesa del cilindro, ma la sfumatura amara delle sue parole non lascia dubbi sul suo reale stato d’animo.
La svolta che tutti loro avevano fiutato e temuto, rifiutandola con tutte le loro forze, era piombata su di loro senza che potessero fare nulla per evitarla.
Dopo mesi di silenzio, Axl aveva finalmente parlato.
Si era alzato dal suo sgabello, all’ennesima interruzione, si era tolto le cuffie e le aveva posate sul leggio; poi, con una calma agghiacciante, si era avvicinato a Steven e gli aveva preso le bacchette di mano.
Basta, si era limitato a dire, sei fuori.
Tredici lettere.
Tre parole.
Tre misere parole che avevano avuto il potere si svuotarli completamente, privarli della loro linfa vitale e della capacità di parlare, perché mentre Axl decideva di cacciare l’anima del gruppo loro non erano stati capaci di fare altro che guardare.
Steven si era alzato, sotto i loro occhi, aveva biascicato qualcosa di assolutamente incomprensibile e se ne era andato.
Senza dire niente.
Troppo fatto per capire, troppo fatto per protestare.
“Ne è uscito sconfitto su tutta la linea,” sussurrò Duff.
Slash inalò una profonda boccata, rigirandosi poi la sigaretta tra le dita.
“E noi con lui,” soffiò alla fine, mescolando fumo e parole.

 

Of our elaborate plans, the end
Of everything that stands, the end
No safety or surprise, the end.

The Doors, The end.

 

“Tu sei pazzo,” ringhiò Izzy, alzandosi in piedi di scatto, “tu ti sei fottuto il cervello, ecco cosa è successo”.
Axl aprì gli occhi con calma, piantandoli in quelli del chitarrista.
Verde muschio e verde foglia si sfidarono, silenziosamente, si combatterono fin quando il sipario non si serrò su quelli più chiari.
Axl spense la sigaretta che stava fumando nel posacenere, si alzò in piedi e se ne accese un’altra.
“Sei tu quello che è fatto, sei un cattivo trip per caso? Che ti sei calato, acidi?” chiese sprezzante il moro, incapace di rimanere zitto.
Aveva l’assurda speranza che forse, sommergendo il vocalist di parole, questi avrebbe cambiato idea e avrebbe richiamato Steven.
“Hai finito?” il rosso lo guardò di nuovo, la sigaretta pigramente abbandonata tra le labbra mentre si sistemava la bandana attorno alla fronte.
Ciocche di capelli rossastri gli ricadevano scomposte ai lati del viso, indurito in una smorfia severa.
“Perché sai, non possiamo permetterci di perdere altro tempo. Dobbiamo sostituire Steven in fretta”.
“Sostituire…” Izzy boccheggiò, incredulo.
La sedia di Steven era ancora calda e già parlava di piazzarci sopra qualcun altro.
“Stai scherzando, spero”.
“Assolutamente no,” candido, il cantante si alzò in piedi e gli si piazzò davanti, guardandolo dritto negli occhi.
“Axl,” gli posò le mani sulle spalle, cercando di rimanere il più calmo possibile, “non puoi essere serio”.
“Izzy, smettila di blaterare stronzate, connetti quel poco di cervello che ti è rimasto e prova a riflettere un attimo. Abbiamo scelta, forse?”
“Certo che si!” esplose il moro “Rimandiamo la tourneé fino a quando Steven non sarà pronto a raggiungerci”.
“No”.
“Perché?”
“Ci sono troppe cose in ballo, è una cosa troppo importante,” Axl scelse con cura le parole, ma Izzy non ebbe difficoltà ad interpretarle.
“Troppi soldi, vorrai dire,” commentò amaramente, affondando le mani nelle tasche dei pantaloni.
“Beh, si,” ammise l’altro, “che ci vuoi fare, io non faccio musica per gloria, come Slash, o per amore, come te. Io ci penso, ai soldi. Ci si fanno tante belle cose, cose che altrimenti non potremmo nemmeno sognare la notte, non ci vedo nulla di male in questo, se permetti”.
Axl incrociò le braccia al petto, senza mai distogliere lo sguardo, e Izzy si chiese dove fosse finito il suo vecchio amico, quello con cui aveva condiviso gioie e dolori.
Ma soprattutto.
Da quanto tempo portava avanti questi ragionamenti?
Una domanda gli premeva sulla punta della lingua, ma la risposta che avrebbe ricevuto lo terrorizzava al punto da gelargli il sangue nelle vene.
Eppure doveva sapere.
“William,” chiamò piano, “avresti rimpiazzato anche me, vero? Se non fossi tornato per tempo, avresti rimpiazzato anche me”.
Il cantante si irrigidì, per un attimo, e gli diede le spalle.
“Abbi almeno il coraggio di guardarmi negli mentre lo dici,” lo rimproverò, la voce carica di gelido disprezzo.
Ma sotto quello, la delusione era un oceano di lava che ribolliva inquieto, incontrollabile.
Il rosso di voltò, lentamente, e fece quello che gli era stato chiesto.
“Si Jeff,” rispose “Avrei sostituito anche te”.
Izzy accusò il colpo senza darlo a vedere.
Continuò a guardare il volto che aveva davanti, un volto che non riconosceva più, trasfigurato dagli anni sulla cresta dell’onda.
Un volto a cui doveva tutto e che gli doveva tutto, che era stato la sua ancora e che adesso aveva reciso la corda e lo lasciava andare a fondo, in un baratro che gli si era aperto sotto i piedi.
Lo vide vacillare impercettibilmente, combattuto tra il desiderio di parlare e quello di non dire nulla.
Non aveva dubbi sul fatto che lo strappo era netto, a questo punto.
“Hai scordato tante cose, William,” sorrise amaramente, muovendo qualche passo verso l’uscita, “forse faresti meglio a ricordarle, se non vuoi perdere tutto”.
“Io non ho perso nulla, ho solo allontanato un pessimo batterista,” ribatté il rosso, orgogliosamente.
“No, fidati,” gli scivolò accanto, fermandosi con la mano stretta attorno alla maniglia, “avrai allontanato un pessimo musicista, ma hai perso due amici”.
“Jeff…” Axl provò a trattenerlo, ma il chitarrista lo bloccò prima che potesse aggiungere altro.
“No, Axl. Jeff non esiste più, ormai,” oltrepassò la soglia e, prima di chiudersi la porta alle spalle, aggiunse, “non per te”.

 

Ch-ch-ch-ch-Changes
(Turn and face the strain)
Ch-ch-Changes
Oh, look out you rock 'n rollers
Ch-ch-ch-ch-Changes
(Turn and face the strain)

David Bowie, Changes.

 

Roxanne canticchiava, lavando i piatti nel suo minuscolo cucinino.
Affondava le mani di buona lena nella schiuma al profumo di limone, ondeggiando a ritmo con la musica che una piccola radioline suonava dal suo angolo.
“Lady Madonna lying on the bed, listen to the music playing in your head!” intonò sottovoce, strizzando la spugnetta per poi passarla su un piatto “Tuesday afternoon is never ending, wedn'sday morning papers didn't come”.
Era di buon umore.
Izzy sarebbe arrivato a minuti e poi sarebbero andati a fare un giro in macchina, approfittando della bella giornata estiva.
Non stava più nella pelle, erano giorni che aspettava di poter passare un intero pomeriggio con lui, che era sempre più spesso impegnato nella registrazione di nuovi brani con gli altri ragazzi.
Si gettò di buona lena di una pentola incrostata, dimenticata da giorni assieme al mucchio di stoviglie che aveva deciso di ripulire una buona volta.
“Thursday night your stockings needed mending: see how they'll run.”
Le cose sembravano essere finalmente stabilizzate e sebbene fosse fermamente convinta che era un equilibrio estremamente delicate, sembrava durare più del previsto.
Ormai erano passati mesi da quando Axl aveva minacciato Steven di cacciarlo se non si fosse ripulito, e sebbene il batterista alternava periodi di ludicità a tremente ricadute, il cantante non aveva mai detto nulla.
Izzy le aveva confidato di interpretare l’assenza di commenti come un segnale positivo, conosceva troppo bene Axl per sapere che quando diceva una cosa, era quella e basta e Roxanne aveva dovuto dargli ragione.
Il campanello suonò, distogliendola dai suoi pensieri.
Lanciò la spugnetta nell’acqua, si asciugò le mani su un vecchio canovaccio azzurro e si avviò alla porta, continuando a canticchiare assieme ai Beatles.
“Lady Madonna children at your feet,” senza chiedere chi fosse – era quasi certa fosse Izzy -, spalancò la porta e cantò l’ultimo verso, con un gran sorriso stampato sulla faccia “Wonder how you manage to make ends meet”.
Il sorriso si congelò all’istante quando, dopo aver riconosciuto il suo ragazzo, si accorse della presenza di un’altra persona.
Steven era in piedi accanto al chitarrista, le mani affondate in un paio di vecchi jeans e il viso nascosto da una cascata di riccioli biondi.
L’occhiata che le rivolse non aveva bisogno di commenti.
“Cazzo,” commentò solamente, facendosi da parte per far entrare i due.
“Ciao amore,” Izzy si sforzò di sorriderle e si chinò a darle un rapido bacio.
Lei gli sfiorò il volto con una carezza, tornando immediatamente su Steven, chi fissava il pavimento.
Sentì gli occhi bruciare, intuendo cosa fosse successo: l’equilibrio si era rotto. Axl aveva calato le sue carte, alla fine, e la mano del batterista era stata sfortunata.
Represse le lacrime che già premevano per uscire e abbracciò l’amico, senza parlare.
Il tempo delle parole, oramai, era finito.


 

PARLA ROXANNE:
Quei giorni sono rimasti impressi in noi come cicatrici, una fitta mappa stradale di vecchie ferite che percorre il nostro corpo e il nostro spirito tracciando le linee della nostra storia, di ciò che siamo.
Sono vivide, dolorose, mai del tutto scomparse.
Il cambiamento era inevitabile, ma all’epoca nessuno di noi era pronto ad accettarlo.
Troppo acerbi, troppo saldi nelle nostre convinzioni, vivevamo all’ombra di una speranza che non esisteva.
Le ferite di allora non si sono mai del tutto richiuse.
Sono rimaste lì, in attesa, vecchi fantasmi di un mondo che ha smesso di esistere.
Ma cosa è peggio?
Una nuova, sanguinante ferita, o il dolore di una che non è mai guarita?
Forse c’è un motivo se rimangono.
Forse sono lì, monito di vecchi errori per stronzate future.
Eppure non basta mai.
Ci sono lezioni che vanno imparate di nuovo, ancora e ancora e ancora.
Lezioni che per quanto terribili possano essere, sono necessarie.
Ci sono mattine in cui un dolore acuto al petto mi sveglia prima dell’alba e mi lascia lì, a guardare il sole che sorge, e a pensare alla più grande delle mie cicatrici.
È profonda, dolorosa, orribile.
Porta il tuo inconfondibile marchio, l’incapacità di scomparire del tutto; fa riaffiorare parti di me che tengo costantemente imbrigliate e sepolte sotto cumoli di oblio.
È una melodia a cui è stato privato il finale, un accordo talmente triste da far spuntare le lacrime.
È in quelle mattina che penso a te.
Dove sei, adesso, Izzy?

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Capitolo 15
*** The one that got away/baby please come home ***


HAND IN GLOVE
#13 THE ONE THAT GOT AWAY/BABY PLEASE COME HOME



PARLA IZZY:
Ogni tanto mi ritrovo a pensare che di te avevo capito ben poco, in tutti gli anni che abbiamo passato assieme.
Ti vedevo come una delle persone migliori che avessi mai conosciuto, eri la ragazza con cui avrei voluto passare il resto della vita e poi l'eternità, per te avrei rinunciato ad ogni cosa pur di metterti un anello al dito e saperti mia in ogni istante.
Avrei venduto l'anima al diavolo per poter vedere un tuo sorriso, ero convinto che la pace dell'anima potesse esistere solo nel momento in cui ero seduto sul tuo vecchio divano sfondato, la chitarra tra le braccia e la tua voce che arrivava fioca dalla cucina, coperta dallo sfrigolare di qualche piatto precotto.
Quell’appartamento.
Ho sempre fatto fatica a capire perché ti ostinassi a voler rimanere a vivere in quel buco arroccato in un enorme palazzone fatiscente, quando invece avremmo potuto trasferirci in una casa molto più grande e molto più bella, sulle colline soleggiate di Holliwood.
Ricordo che addirittura rifiutavi di affrontare l’argomento, trincerandoti dietro risposte brevi e velenose che, alla lunga, mi facevano passare la voglia di discutere.
Ora, invece, forse riesco a capire.
Al di sotto della tua facciata di giovane donna indipendente, dietro lo spirito libero, dietro la Roxanne che era scappata di casa alla prima occasione e si era costruita una vita con le sue mani, che non lasciava al destino il tempo di decidere per lei ma si prendeva ciò che voleva, c’era ancora la bambina che eri stata.
Sepolto sotto strati di coscienza tanto fitti da ingannare persino il più severo dei tuoi giudici, persino te stessa, il tuo io di bambina aveva un disperato bisogno di punti fissi che non se ne sarebbero mai andati, un rifugio dove tutto fosse sempre a posto, dove sbarrare la porta sui demoni e i fantasmi che cercavano di sfondarla.
C’è stato un tempo in cui credevo di essere io, il tuo punto fisso, ma la verità è che tu non hai mai dimenticato che l’uomo è fondamentalmente una creatura stronza e profondamente egoista e già sapevi che ti avrei abbandonata.

 


So now you feel rusty
You're bored and bemused
You wanna do someone else
So you should be by yourself.

 

Skunk Anansie, Secretly.



NEW YORK,  marzo 1991
Izzy aggrottò la fronte, guardando la chitarra che teneva tra le braccia come se la vedesse per la prima volta.
Era da un paio d’ore che tentava di trovare una melodia per una nuova canzone, ma tutto quello che era riuscito a tirar fuori non era altro che un ammasso informe di accordi e stecche, disposti in rapida successione sino a formare una cacofonia dissonante di suoni inascoltabile e piuttosto sgradevole.
Qualcosa, decisamente, non stava funzionando come avrebbe invece dovuto.
Qualcuno bussò delicatamente alla porta della stanza, interrompendo le sue considerazioni già sul punto di arrivare ad un punto morto e il chitarrista accolse l’interruzione con un sorriso.
“Avanti”.
I riccioli neri di Slash fecero capolino in un sottile spiraglio, seguiti da un’immancabile sigaretta e da un sorriso irriverente.
“Interrompo?” domandò il nuovo venuto, richiudendosi la porta alle spalle e poggiandovi sopra la schiena.
Izzy scosse il capo, passandosi una mano tra lunghi capelli neri in un tintinnare di braccialetti metallici.
“No,” rispose, “stavo provando a scriver qualcosa, ma non c’è verso che questa merda funzioni”.
“Stradlin, è perché non sei nel mood giusto,” lo prese in giro l’amico, attraversando rapidamente la stanza per lasciarsi cadere a terra, al suo fianco.
“Oh, per l’amor del cielo!” roteò gli occhi al cielo “Questo mood ha proprio rotto il cazzo”.
"Izzy Stradlin, non ti permettere di sfottere la filosofia di vita del grande capo!" lo ammonì scherzosamente Slash, aggrottando le sopracciglia in una smorfia indignata.
"Guarda che se ti venisse a sentire ci sono ottime possibilità che ti sbatta fuori senza possibilità di appello".

"Ha del miracoloso che non lo abbia già fatto," fu la replica, per niente ironica, del primo.
L'altro schioccò la lingua, chinandosi verso il blocco che stava tra di loro, studiando attentamente quello che Izzy vi aveva scritto sopra.

"Non è male..." commentò dopo aver canticchiato brevemente gli accordi, "ma hai ragione, ancora non funziona. Hai provato a farla in una chiave diversa?" l'occhiata che ricevette in risposta non ebbe bisogno di essere commentata, così riprese a parlare.
"Mh. Se vuoi possiamo lavorarci tutti assieme più tardi. Magari Duff riesce a tirar fuori qualcosa di decente e Matt ha una qualche idea."

"Tanto puoi star certo che qualsiasi cosa venga fuori Axl dirà che è una merda e che non siamo nel mood giusto".
"Probabile," convenne Slash, "ma tentar non nuoce. Non buttarti così giù, Stradlin," abbozzò un sorriso, rialzandosi in piedi, "potrei pensare che tu stia pensando di mollare e sai, vero, che non puoi farci una cosa del genere?"
"Si, lo so".
"Bene," il chitarrista gli scompigliò i capelli affettuosamente, soffiando fuori una generosa boccata di fumo, "guarda che ti aspetto di là, più tardi!" lo ammonì, prima di varcare nuovamente la soglia e sparire dietro quattro centimetri di legno scuro, silenziosamente chiuso.
Vide la maniglia risollevarsi, nell'attimo in cui Slash la lasciò andare, e sospirò.
Odiava mentire a quel ragazzo che, nel suo silenzio e nella sua stravaganza, aveva capito così tanto di lui, ma proprio non riusciva a dare una forma a quel pensiero che ormai da tanto tempo gli ronzava per la testa suggerendogli di fare qualcosa che avrebbe cambiato tutto quanto, inevitabilmente, e per sempre.
Lasciare i Guns.
La sola idea gli faceva accapponare la pelle e suonava come qualcosa di blasfemo, una bestemmia della peggior specie per lui che della chitarra aveva fatto la sua ragione di vita.
I Guns 'N Roses erano la Mecca pagana di tutti gli amanti dello strumento e lui e Slash si erano meritati, con gli anni, il titolo di Sacerdoti; come poteva anche solo azzardarsi a pensare una cosa del genere?
Migliaia di persone avrebbe ucciso per prendere il suo posto e sapeva perfettamente che al minimo errore Axl avrebbe schioccato le dita e qualcun altro si sarebbe trovato ad occupare la sua posizione.
E poi amava troppo la loro musica per poterla tradire così.
Però.
Tu non sei uno qualunque, gli aveva detto Roxanne, tu sei Izzy Stradlin.
E aveva ragione.
Lui era quel nome e tutto quello che comportava, era qualcuno da cui aspettarsi sempre il meglio, era un'icona, uno dei chitarristi più noti sulla scena musicale, ma non solo, perché prima di essere questo era anche una persona, un uomo con un passato, un presente e presumibilmente pure un futuro.
E davvero voleva che il suo futuro fosse una copia speculare del suo presente?
Un ammasso di ore perse a cercare di comporre qualcosa che lui sentiva come suo ma che poi, senza possibilità di appello, veniva scartato da Axl?
Non ne era affatto sicuro.

 


No
I don't know why you bother.
Nothing's ever good enough for you.

 

Radiohead, A Punchup at a Wedding.


Esattamente con Slash aveva predetto, Axl storse il naso e le labbra in una smorfia di disappunto quando Izzy gli fece sentire quello su cui aveva lavorato l'intera mattinata.
Scosse il capo, facendo danzare i capelli rossi nella penombra dello studio e decretò il verdetto.
"No."
Non aggiunse altro, lasciò la sillaba libera di riecheggiare nell'improvviso silenzio piombato nella stanza, dove altre quattro persone guardavano con il fiato sospeso tra volute lente di fumo di sigarette strette tra dita magre.
Duff sospirò, Slash chinò il capo nascondendosi nell'ombra della tesa del suo eterno cilindro.
Matt corrugò la fronte, perplesso.
Izzy, invece, non disse nulla.
Si limitò a fissare il volto di quello che un tempo era stato il suo migliore amico, senza riuscire a riconoscerlo.
Non c'è nulla in quei lineamenti induriti dall'età, dalla fama e dagli stravizi che gli ricordasse il ragazzino magro e spigoloso che con lui bigiava le lezioni per fumare e bere vicino ai binari della ferrovia, sognando il giorno in cui anche loro sarebbero saliti su quei treni che correvano via, verso un mondo nuovo.
Ripensò al giorno in cui si erano reincontrati, a L.A., tanti anni prima. Ripensò alla colossale sbronza di vodka e whisky che si erano presi per festeggiare l'evento, ripensò a un sacco di cose che adesso non avevano più alcun valore.
L'amarezza gli riempì la bocca di un sapore acido, tanto che dovette infilare una mano in tasca e prendere un'ennesima sigaretta, in modo che il fumo lo coprisse almeno in parte.
"Perché?" chiese il batterista, alla fine, con il tono più indifferente che gli riuscisse di tirar fuori.
Era nuovo, le dinamiche tra quei quattro amici erano qualcosa che sfuggiva ancora alla sua compresione e in particolar modo il rapporto tra Axl e Izzy.
Sapeva che erano stati grandi amici, glielo aveva raccontato Duff una sera, sapeva che si conoscevano da una vita e sapeva che qualcosa si era incrinato -anche se per questo bastava semplicemente guardarli. Eppure non riusciva a capire.
Nessuno di loro ci riusciva, era da troppo tempo che continuavano a proporre nuovi pezzi ad Axl e ogni volta lui li rifiutava, senza mai dare una spiegazione, senza mai dire niente di più di un no secco, senza possibilità di appello.
I perché non appartenevano al cantante che, evidentemente, aveva deciso di arrogarsi il diritto di decidere senza più coinvolgere nessuno, limitandosi a dire che
"I Guns sono una mia creazione e questa canzone non è adatta."
Appunto, si disse Izzy, sbuffando una nuvola di fumo acre.
Il copione rimaneva invariato, senza cambiare di una sola virgola.
Questa volta, però, non aveva nessuna intenzione di lasciare che Axel rovinava quanto di più caro avesse il mondo: si alzo in piedi e, senza dire una parola, raccolse la chitarra che aveva posato contro il muro, raggiungendo la porta.
"Dove vai?" cercò di fermarlo Duff, sollevando stancamente il viso smagrito e rovinato. Gli occhi verdastri erano cerchiati da due aloni violacei e gli zigomi premevano contro la pelle, facendo somigliare ad un teschio il volto del bassista.
Il chitarrista rimase in silenzio un attimo, mentre la consapevolezza di faceva largo dentro di lui, liberandolo dai veli del dubbio e del timore che lo avevano costretto a subire in silenzio per così tanto tempo.
Era tutto così chiaro, realizzò mentre fissava l'amico con compassione.
Non era obbligato a rimanere.
Non era obbligato a subire, era ancora padrone della sua vita. La sua musica era ancora sua, fin tanto che la chitarra avesse avuto corde e il suo cuore fosse stato in grado di pompare sangue, lui avrebbe potuto scrivere e comporre.
Fino alla nausea, fino alla morte, senza che nessuno gli dicesse che no, non andava bene, non era abbastanza.
Sorrise, sentendosi leggero come non gli capitava da molto tempo.
"Me ne vado".

 


I hear the ticking of the clock
I'm lying here the room's pitch dark
I wonder where you are tonight
No answer on the telephone.

 

Heart, Alone.



LOS ANGELES, marzo 1991
Roxanne non si sentiva tranquilla.
Erano giorni che non riusciva a mettersi in contatto con Izzy e la cosa non le piaceva.
Certo, non era nemmeno la prima volta che succedeva - essere la ragazza di un chitarrista famoso aveva dei lati negativi insospettabili, come il non potergli telefonare tutte le volte che aveva semplicemente voglia di sentire la sua voce - ma questa volta non riusciva proprio a controllare quel nodo che le bloccava la gola e le impediva di mangiare anche solo un boccone del piatto che aveva davanti.
Spinse lontano da sé la bistecca che aveva bruciacchiato accidentalmente, distratta dai troppi pensieri, affondando il viso tra le braccia incrociate sulla tavola.
Sovrapensiero, iniziò a tracciare cerchi sconnessi con la punta delle dita sulla plastica del tavolo, cercando di ricordare in quale punto d'America potesse trovarsi il suo ragazzo, quale città ci fosse sotto il cielo che abbracciava la Città degli Angeli in un azzurro talmente nitido da sembrare di smalto, quanto tempo mancasse al momento in cui i suoi passi lo avrebbero portato a varcare la porta di casa e le sue braccia l'avrebbero stretta forte, fino a farle mancare il respiro.
L'incendio che le esplodeva dentro, torcendole le viscere in una morsa dolcemente dolorosa.
Le sue mani sottili, le dita nervose che indugiavano brevemente sull'orlo di una maglietta scolorita e poi si perdevano tra i suoi capelli, affondando nei riccioli scuri come cioccolata, tirandole il capo all'indietro per farle scoprire il collo, docile come un cucciolo, e rubarle quel primo, unico, bacio.
Sospirò, mordendosi le labbra.
Non potevano essere a Boston, erano stati la settimana scorsa, non aveva dubbi a riguardo.
E nemmeno a Chicago, Duff l'aveva chiamata per raccontarle del tempo perso davanti al grosso fagiolo nero, enorme e lucido, correndo avanti e indietro e fermandosi lì davanti giusto il tempo necessario a vedere le loro facce deformarsi, ridendo come bambini in un negozio di caramelle.
New York?
Forse, non ne era sicura.
Non sono mai sicura di nulla, realizzò in un attimo di terrore cieco, raddrizzando la schiena e soffiando via una ciocca di capelli finitale davanti agli occhi.
La superficie lucida di un mobiletto di metallo da quattro soldi le restituì il suo sguardo atterrito.
Era cambiata, negli ultimi quattro anni.
Il suo corpo si era fatto pieno, nelle curve morbide della giovane donna che era diventata.
I suoi occhi erano sempre due pozze d'oscurità, ma erano incorniciate dalle prime, sottile, rughe d'espressione che avevano fatto la comparsa gradualmente, senza che potesse nemmeno accorgersene: il suo sguardo, però, aveva perso parte della durezza ostinata dell'adolescente sfumata via e si era fatto distante a tratti, congelato dalle prove che la vita le aveva presentato davanti giorno dopo giorno, senza mai risparmiarle nulla.
Aveva le stesse mani sottili di un tempo, sulle dita continuava a portare lo stesso numero spropositato di anelli, ma i polpastrelli iniziavano ad ingiallire per il troppo fumo e l'odore di albicocca dei suoi capelli si era perso nelle brume di un'infanzia strappata, sostituito dall'amore intenso del tabacco e quello più dolce della sua crema idratante, dal vago sapore di frutta e fiori di campo.
Quando sorrideva, riusciva a percepire una malinconia latente affiorare in superficie, viscosa come miele e altrettanto insidiosa per le mosche delle emozioni che non sapere ancora tenere a bada.
A tratti si sentiva una bambina perduta, a tratti aveva l'impressione di aver vissute sette vite di fila senza mai prendere il fiato tra una e l'altra.
“Probabilmente sono solo paranoica all'idea di invecchiare,” si disse, alzandosi in piedi e recuperando il piatto per posarlo accanto al lavadino ricolmo di pentole in attesa di essere lavate.
Senza nemmeno prendere in considerazione l'idea di pulire o riordinare, agguantò il pacchetto di sigarette e dopo il click dell'accendino inspirò a fondo la prima boccata avida di fumo, lanciando un'occhiata distratta all'orologio appeso sopra il frigo colorato di calamite.
C'erano souvenir che arrivavano da ogni parte degli Stati Uniti, sul quel bianco sporco di ditate, una mappa che ricostruiva tutte gli attimi in cui non erano stati assieme in quegli anni, un disegno così fitti che solo il vederlo le stringeva il cuore in una morsa tenace, lasciandola incredula a chiedersi come avessero fatto a resistere per così tanto, vedendosi così poco.
Ma era tardi per indugiare su pensieri troppi pericolosi, doveva andare al lavoro e negli anni Alec aveva cambiato quasi tutte le cameriere tranne lei, ma non la sua politica di gestione dei ritardi.

 

Qualche ora più tardi, stringeva tra le mani il manico di un boccale di birra ed era assorta al punto da non accorgersi della schiuma che le colava giù da un polso, gocciolando copiosamente sul bancone di mogano scuro del locale.
“Cristo santo, Roxy, che diavolo stai facendo?” la rimproverò Alec, passandole accanto con gli occhi fuori dalle orbite.
L'immancabile dragone tatuato sul suo braccio aveva perso il vigore della gioventù quando i muscoli si erano ammorbiditi in grasso e i colori erano sbiaditi in macchie confuse dentro contorni non più nerissimi.
“Vedi di darti una regola, oggi fai più danni che altro,” proseguì imperterrito il vecchio, strappandole il boccale di mano in malo modo, “tremo al pensiero di mandarti a sistemare le apparecchiature per il gruppo di stasera”.
“Stasera?” cadde letteralmente dalle nuvole “Cazzo, non dirmi che c'è serata oggi!”
“Come ogni mercoledì sera,” le venne fatto presente.
Alex posò un secondo boccale sul bancone, si asciugò le mani su uno straccio dal colore indefinito e si voltò a guardarla, con aria preoccupata.
“Tesoro, cosa sta succedendo?” le chiese, tirando rumorosamente su con il naso.
“Non lo so,” scrollò le spalle lei, “ho la testa tra le nuvole”.
“E' più di una settimana che hai la testa tra le nuvole,” la corresse l'uomo, strizzando gli occhi chiarissimi in due fessure penetranti.
Aveva uno sguardo talmente azzurro che a Roxanne faceva male guardarlo, aveva come l'impressione che potesse andare oltre tutte le sue difese per arrivare al buco silenzioso dove nascondeva i suoi pensieri più segreti, quelli che non aveva il coraggio di bisbigliare nemmeno a se stessa.
“Mh,” borbottò il proprietario dell'Underpass, “vedi di darti una svegliata o la prossima settimana sarò costretto a chiederti di non presentarti proprio.”
Eccola lì, il classicissimo preludio di un benservito che generalmente si presentava puntuale il lunedì della settimana dopo, restituendo alle strade di Los Angeles un'ennesima aspirante stellina del cinema barra modella barra qualsiasi altra cosa fosse dovuto al miraggio di una fama facile e veloce, accompagnata da un uragano di soldi.
Roxy l'avrebbe preso persino sul serio, se non fosse stato che conosceva Alec da quasi metà della sua vita e che l'uomo, nel superarla per servire personalmente al tavolo i due boccali di birra, non le avesse stretto con fare paterno una mano grassoccia sull'avambraccio, bonficchiando qualcosa tra i baffi sempre più bianchi e sempre più folti.
Sapeva, per contro, che se mai avesse voluto smettere di fare la cameriera lì dentro, avrebbe dovuto andarsene via con le sue gambe, dando prova di non essere più la ragazzina spaventata che prendeva meticolosamente nota di tutte le ordinazioni diffidando persino della propria memoria, lo scricciolo magrolino che doveva controllare la propria voce quando parlava con i clienti, per non farla tremare troppo.
Eppure era ancora lì, con un grembiule più moderno in vita e una confusione in testa come non ne aveva da anni, da quando era - per l'appunto - la cosetta timorata del mondo che ancora non aveva mai fumato una sigaretta.
Sapeva persino quale fosse la causa di tanti timori, ma non riusciva a capacitarsi del perché.
Non era la prima volta che succedeva, era capitato che restassero separati per molto più tempo.
Altre volte non si erano proprio parlati di proposito.
Non c'era nulla di strano, nulla che potesse giustificare uno stato d'allarme simile, si disse mentre la porta del magazzino - una fatiscente stanzetta dimenticata da dio che non aveva nulla a che vedere con gli ampi spazi che la parola evocava - cigolava e si apriva docilmente sotto la spinta della sua mano.
Si fece largo tra scatoloni imballati alla meno peggio e pile precarie di lattine di coca-cola per arrivare sul fondo, dove su una serie di scaffali religiosamente ordinati facevano bella mostra di sé cavi arrotolati su se stessi, un sintetizzatore, un paio di amplificatori e i tamburi di una vecchia batteria.
Non è proprio il caso di perdere la ragione o la calma, continuò a ripetersi caricandosi su una spalla il primo amplificatore e una bobina di cavi neri.
Tutto quello che doveva fare era prendere un grosso respiro, rinchiudere Izzy dentro un cassettino e concentrarsi su quello che aveva da fare per evitare che l'intero quartiere finisse in un black-out totale a causa di un suo errore nel collegare le apparecchiature della band ospite.
“Roxy, telefono!”
La voce di Annabeth, aspirante soubrette dal fisico notevole e il quoziente intellettivo di un cucchiaino, le fecero balzare il cuore in gola: rischiando di inciampare su una cassetta di bottiglie di liquore corse fuori dal magazzino e, senza fiato, si fiondò sulla cornetta che l'indubbiamente carina ragazza le porgeva con aria annoiata.
“Un tale dal nome impronunciabile,” annunciò la biondina, masticando rumorosamente una gomma.
Roxanne non la guardò nemmeno, strappandole il telefono di mano e scacciandola con un cenno brusco della mano, incurante delle proteste neanche tanto silenziose che le veniva rivolte.
“Pronto?” esclamò, quasi soffocandosi nelle sue stesse parole.
"Roxy.." la voce di Slash le fece curvare le spalle sotto il peso della delusione.
“Oh, sei tu,” si lasciò scappare, senza nessun entusiasmo, appoggiandosi contro la parete alle sue spalle.
Per un attimo, un attimo soltanto, aveva davvero creduto di sentire il tono roco e sottile di Izzy, si era immaginata il sorriso che avrebbe sentito nelle sue parole e il sollievo era stato tale che la realtà, manifestandosi in tutta la sua crudeltà, si era rivelata insostenibile, una stilettata letale che l'aveva lacerata a metà.
"Merda." fu la risposta del tutto inaspettata del chitarrista, l'ultima che avrebbe voluto sentire.
Si tirò su con uno scatto violento, facendo tintinnare in protesta le bottiglie sistemate in doppia fila sugli scaffali alla sua destra e guadagnandosi un'occhiataccia pericolosa da parte di Alec.
Quasi non si rese conto, però, di come l'espressione dell'uomo cambiò all'istante nell'incrociare il suo sguardo: limitandosi a qualche mugolio stentato, tutto il suo mondo sembrava ridursi unicamente alle parole che Slash continuava a ripetere, una dopo l'altra, con un tatto che - anni dopo, ripensandoci - era una premura che non aveva mai riservato per nessuno, una delicatezza così importante da riempirle gli occhi di lacrime di commozione.
Non seppe mai per quanto tempo rimase al telefono, il tempo era qualcosa di così assolutamente irrilevante che nel momento in cui riuscì a biascicare un ciao stentato potevano benissimo essere passate ore così come solo una manciata di minuti.
Si scosse solo nel momento in cui Alec le venne vicino e le posò un braccio sulle spalle, costringendola a seguirlo via dal bancone, dagli sguardi  stupiti e incuriositi dei pochi clienti del tardi pomeriggio, verso l'ombra e il silenzio della piccola stanza in cui poco prima di pranzo si era cambiata, appena arrivata, puntuale come sempre.
Lì, seduta su una vecchia sedia sgangherata, riuscì finalmente a guardare il suo vecchio amico e bisbigliare con il respiro che già si affannava.
“Se ne è andato, Alec, Izzy se ne è andato.”



PARLA IZZY:
La verità è che non lo so perché me ne andai così, senza dire una parola.
Lasciare i Guns era stato difficile, ma riuscivo a scorgere una certa logica dietro quell'abbandono improvviso.
Lasciare te, invece, non aveva alcun senso.
Sul momento non me ne resi conto, mi dissi che sarei tornata da te quando sarei stato in grado di spiegarti a parole il sollievo che mi riempiva il petto, la sensazione di assoluta libertà che mi faceva sentire come se -dopo anni- fossi di nuovo in grado di essere semplicemente me stesso.
Libero di comporre la mia musica, libero di scrivere senza che sentire sul collo il fiato di giudizio che sapevo sarebbe stato negativo a priori, libero di fare quello che volevo.
Mi sembrava di essere dio e per una volta era così bello abbandonarsi all'arroganza e credere di essere padrone della mia vita al punto da non aver più bisogno di nessuno.
Nemmeno di te.
Non avevo il coraggio di ammetterlo, ma volevo sentirmi libero per un po'.
Per questo me ne andai senza dirti nulla, senza cercarti: credevo che non ci fosse nulla di sbagliato nell'inseguire il capriccio del momento.
Ero così egoista da non rendermi conto che tutta la mia vita si basava su capricci del momento, che non sapevo cosa significasse alzarsi al mattino alle sette e andare al lavoro per dodici ore.
Non avevo mai avuto il problema della mancanza di soldi a fine mese, tutto quello che avevo sempre voluto lo avevo sempre ottenuto senza il minimo sforzo e gli anni in cui davvero era stato difficile, prima di sfondare, erano stati compensati da un periodo d'oro che sembrava destinato a non finire mai.
Mi presi il tempo che credevo di non aver mai avuto e quando finalmente mi sentii pronto a tornare da te era troppo tardi.
Era stato stupido da parte mia credere che mi avresti aspettata, che avresti messo in pausa la tua vita in attesa del mio ritorno e che mi avresti accolto con il tuo sorriso più luminoso, come se nulla fosse.
Fui così arrogante da credere che l'amore avrebbe vinto su tutto, che avrebbe messo a tacere la tua dignità e il tuo orgoglio, che avrebbe zittito ogni cosa.
Fu per questo che quando tornai da te, quasi un anno più tardi, e venni a bussare alla porta del nostro vecchio appartamento trovandomi davanti ad una anziana signora che non conosceva neppure il tuo nome, mi resi conto del mio errore e non trovai più il coraggio di venire a cercarti.
Fino ad oggi.


 

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Capitolo 16
*** Keep holding on ***


HAND IN GLOVE
# KEEP HOLDING ON




Ci sono ferite che non si possono rimarginare.
La prima persona a noi cara che muore, il primo amore non corrisposto, la prima vera grande delusione.
La vita è fatta di prove che o le superiamo o ci sbattiamo contro, o si vince o si perde, ma non ci è concesso abbandonare il campo di gioco.
Si tira avanti, nascondendo le ferite di guerra come meglio si può, fingendo di stare bene, credendolo con tanta forza che diventa difficile persino credere il contrario fino a quando qualcosa non solleva i lembi delle nostre sicurezze e non ci mostra quelle cicatrici che vanno via via suppurandosi, infettandosi, espandendosi come un cancro maledetto.
E non c'è terapia che possa servire.
Si può imparare a sopportarle, si può imparare a convincerci e, con l'età, a sopportarle come vecchie amiche un po' bisbetiche e malinconiche, di quelle fastidiose che nemmeno lo sai perché ci parli ancora.
Ci si può assuefare a tutto, persino ai grandi dolori.
Gli esseri umani sono creature straordinarie.
Così fragili e così resistenti, si spezzano per una caduta ma sopravvivono a dolori infinitamente più grandi senza mai scendere dalla giostra infinita della vita.
Capaci di sopravvivere alla malattie più crudeli senza mai cedere, eppure del tutto disorientati davanti ad un sentimento troppo forte o troppo intenso.
Gli uomini più cinici si sciolgono in lacrime davanti al visetto paffuto del loro primogenito, le donne più lacrimevoli si caricano sulle spalle il peso di famiglie intere e tirano avanti senza guardare in faccia nessuno e senza mai scordare di raccontare la fiaba della buona notte ai propri pargoli assonnati.
Eppure persino il più stoico degli esseri viventi si porta addosso il marchio di un dolore troppo grande da poter esser ignorato.
Non c'è scampo da queste ferite, non esistono chirurghi che possano ricucirle armati di ago, filo e buona volontà.
E ci sono momenti in cui l'unica cosa da fare è smettere di rifiutarle, abbandonandosi alla marea dei ricordi, facendosi portare al largo per non tornare più.
Perché alle volte può capitare che quello che si trova dall'altra parte è proprio quello di cui avevamo bisogno per tornare a sorridere.





ROXANNE
1991 - 1995




The fairy tale life wasn't for me
I don't wanna be like Cinderella
Sitting in a dark old dusty cellar
Waiting for somebody
To come and set me free.

Play, Cinderella.


LOS ANGELES.
Riprendersi non fu  facile.
L'abbandono, la delusione, il rifiuto, l'orgoglio.
Le bruciavano così tanto in gola che non aveva saputo come fare per riuscire a buttar giù un singolo respiro - c'erano persino notti in cui temeva il momento in cui sarebbe andata dormire, convinta che il suo inconscio le avrebbe tirato qualche brutto scherzo mentre era a piede libero e si sarebbe arreso, facendola smettere di respirare per placare il mostro che le lacerava il cuore.
Si era crogiolata nel confortevole calore dell'autocommiserazione, chiedendosi dove avesse sbagliato, perché mai le persone scappassero da lei senza dirle nemmeno addio, aveva odiato Izzy con tutta se stessa senza però accorgersi di non riuscire nemmeno a pronunciare il suo nome.
Se ne è andato, se ne è andato e non esiste che io lo vada a cercare aveva strillato con gli occhi rossi di pianto e la voce stravolta di chi non è in sé, dritto in faccia ad un attonito Christopher che le aveva suggerito di andare a prendersi la spiegazione che cercava.
Non essere stupida, l'aveva rimproverata lui alzandosi e accendendosi una sigaretta che gli era stata prontamente rubata di mano, tu hai solo paura di sentirti dire qualcosa che non ti piacerà.
Ed era vero.
Era terrorizzata al pensiero di sentirsi dire che avrebbe potuto fare di più, che si era abbandonata alle comodità di una routine che, per quanto insolita potesse essere, era pur sempre una routine.
Si sentiva la testa scoppiare e per un mese non aveva fatto altro che piangere come una donnicciola qualunque, senza poter dormire più di tre ore per notte, tormentata da sogni così dolci e crudele da portarla a sfiorare la pazzia.
Era stata nervosa, intrattabile, irascibile, scontrosa.
Aveva litigato con tre quarti delle persone che conosceva e cancellato radicalmente dalla sua vita l'altro quarto, di tutti gli amici che aveva Christopher era l'unico che non temesse per la propria incolumità nell'andare a trovarla.
Ed era stato sempre lui, in una luminosa mattina di maggio, a costringerla ad affrontare la realtà: qualunque fosse il motivo, Izzy l'aveva lasciata e non sarebbe tornato.
Punto.
O lo accettava o avrebbe finito col consumarsi nel suo dolore fino a morirne.
Le aveva ricordato con l'infinita pazienza che solo i grandi amori mancati sanno avere della sua vita prima di Izzy, del tipo di persona che era e le aveva sbattuto in faccia quello che era diventata, meno che un'ombra di se stessa.
Le aveva lavato i capelli mentre piangeva rannicchiata nella vasca da bagno, in un lago di acqua bollente e luce dorata, massaggiandole le spalle smagrite e canticchiando per lei canzoncine che non sapeva nemmeno di ricordare.
Con la delicatezza di una piuma le aveva pulito il viso dal trucco sciolto dalle lacrime, aveva districato i nodi tra i suoi riccioli e quelli che si portava nell'anima, per poi raccontarle una favola e rimboccarle le coperte, guardandola cedere al sonno disperato di chi ha bisogno di dimenticare ad ogni costo.
Quasi settantadue ore, otto spuntini, cinque corse al bagno più tardi Roxanne aveva riaperto gli occhi ed era rinata.
Con una determinazione feroce aveva ripreso in mano le redini della sua vita e, prima ancora di aver fumato la prima sigaretta della giornata, aveva deciso di vendere il suo appartamento.
“Voglio una fottuta casa sulla spiaggia,” aveva detto sbattendo le palpebre nella luce di un'abbacinante giornata quasi estiva, seduta su una sedia sgangherata del suo minuscolo cucinino, lo stesso che aveva assistito, quattro anni prima, al primo confronto con la realtà e il mondo estraneo del chitarrista.
Il biondo l'aveva guardato, gli occhi del colore del mari tropicali baciati dai primi raggi dell'alba, e senza dire niente l'aveva abbracciata sorridendo.
“Andiamo a comprare una fottuta casa sulla spiaggia!” aveva esclamato, prendendola a braccetto e trascinandola in una sorta di danza irlandese inventata sul momento, che aveva finito col farli ruzzolare a terra in un groviglio di gambe e braccia magre e pallide e un fracasso infernale di pentole e coperchi caduti a terra.
Una volta scoperto quanti soldi ci volessero per la famigerata, fottuta casa sulla spiaggia, Roxanne aveva ripiegato su un più modesto appartamento a solo trenta fottuti chilometri dal mare, poco più di un monolocale che la costringeva a cambiare almeno tre autobus per arrivare al lavoro e riuscire a raccimolare a malapena gli spiccioli necessari a coprire l'esorbitante affitto del suo nuovo buco e comprare qualcosa per non morire di fame.
Il secondo passo della sua nuova vita era stato quello di cambiare lavoro.
Armata più di buona volontà che di effettive referenze, aveva varcato la soglia di tutte le case discografiche che era stato in grado di trovare e aveva mentito, si era inventata lavori che non aveva fatto, aveva supplicato e aveva sfidato chiunque le capitasse a tiro di mettere alla prova il suo incredibile orecchio musicale.
La maggior parte delle volte era stata accompagnata alla porta con un sorriso di cortesia e la promessa di una telefonata che non era arrivata: a tre mesi dal giorno in cui - e lei non lo avrebbe mai saputo - Izzy sarebbe tornato a cercarla, si ritrovò ad ammettere che forse cambiare vita non era stato poi così semplice come aveva creduto.
Ma invece di abbandonarsi al confortevole tepore dello sconforto si rimboccò le maniche e nelle pause tra un turno e l'altro all'Underpass continuò a insistere, a chiedere, a proporsi e a reinventarsi sotto lo sguardo perplesso di un sempre più grasso e stanco Alec.
Soffiandogli in faccia nuvole di fumo acre - malboro rosse, l'unico vizio a cui non sapeva rinunciare - aveva commentato che per lo meno l'adrenalina dell'attesa la teneva in piedi e la faceva andare avanti nonostante alle volte si sentisse un buco al posto del cuore.
Un anno e mezzo più tardi, allo scoccare del 1993, mentre nel cielo esplodevano i fuochi di artificio più esagerati che avesse mai visto e alla radio passava un'orrenda canzone di cui non avrebbe mai più saputo il titolo, un ragazzo aveva provato a baciarla, ci era riuscito, e poi si era beccato lo schiaffo sonoro che lei gli rifilò più per un riflesso condizionato che per altro.
Era ingrassata ed era dimagrita, si era tinta i capelli di un'improbabile arancione ed era tornata del suo colore naturale mangiandosi tutto lo stipendio nel giro di tre giorni, ricoprendo il parrucchiere di cui aveva deciso di fidarsi di insulti e maledizioni, tirando avanti a suon di carote sgranocchiate per strada e patatine mangiucchiate di soppiatto al lavoro - ma nonostante tutti i suoi tentativi non c'era stato modo di salvare le sue onde dall'impietosa opera dell'ammoniaca e aveva visto i suoi capelli diventare improvvisamente così corti da lasciarle scoperta la nuca in un improbabile caschetto asimmetrico che era stato l'orgoglio e la gioia di Christopher.
C'erano momenti in cui si chiedeva se sarebbe mai stata in grado di uscire con un ragazzo senza che il paragone con Izzy la riportasse a casa con un magone e un'insostenibile voglia di affogarsi di gelato fino a scoppiare.
Si era sentita sola come non mai e aveva passato momenti in cui non riusciva a far altro che chiedersi come fosse riuscita a diventare così assolutamente mediocre e ordinaria, incapace di lasciarsi andare anche per una sola, prevenuta nei confronti di ogni essere di sesso maschile che trovasse il coraggio di avvicinarsi e bussare al portone nelle mure delle sue difese.
Morirai sola, acida e zitella la prendevano in giro senza troppi scrupoli nelle serata del suo giorno libero, scatenando una pioggia di improperi pronunciati solo per nascondere il dolore che quelle parole le scavano in petto, così sincere e così maledettamente vere.
Ma non smise di lottare.
Si affidò alla più preziosa delle cure, il tempo che scorre implacabile e guarisce da ogni male, confidando nel fatto che ogni giorno passato era un giorno a cui era sopravvissuta, un giorno che l'aveva resa più forte, un giorno che la portava sempre più vicina al momento in cui avrebbe ripreso a sentirsi come una persona normale e come una menomata, qualcuno a cui aveva strappato via un pezzo del corpo a forza.
Il cuore, nel suo caso.
Venne anche il '94, e dopo il '94 fu il turno del '95 in cui una casa discografica di nicchia decise di assumerla per farle passare le giornate dietro il bancone di plastica bianca e lucida della reception, a rispondere al telefono e raccogliere demo di giovani in cerca di speranze, a guardare i sorrisi plastificati dei signori dei piani alti.
Non era ciò che aveva sperato, ma era un passo avanti verso un suo sogno e per la prima volta nella vita ebbe l'onore di sedere ad un tavolo dell'Underpass, un mercoledì sera in cui suonava un gruppo grunge ancora sconvolto dalla morte di Kurt Cobain, come una cliente servita da Alec in persona.
Ficcatelo bene in testa ragazzina, aveva borbottato sbattendole sotto il naso un piatto di patatine bollenti e unte, questa è la prima e ultima volta che prendi i tuoi maledetti ordini.
Lei aveva sorriso, lo aveva ringraziato e aveva intasato le sue vene di colesterolo abbuffandosi senza ritegno.
Fu quella sera che iniziò ad avere la sensazione di aver ritrovato un compromesso con se stessa, un punto di equilibrio così precario che non voleva neppure pensare a cosa sarebbe successo se fosse inciampati nei suoi stessi passi.
Probabilmente si sarebbe spaccata in frammenti così piccoli che non ci sarebbe stato modo i rimetterla insieme.
I suoi capelli erano di nuovo lunghi abbastanza da arrivarle poco sotto le spalle, a sfiorarle le scapole sempre sporgenti sotto la pelle chiara, quando conobbe Zack.
Era il 13 giugno 1995.



IZZY
1995 - 2000



I close my eyes
only for a moment
and the moment's gone.

Kansas, Dust in the wind.


LAFAYETTE.
Il giorno in cui Roxanne inciampò -letteralmente- nei piedi di Zack Hamilton, Izzy Stradlin era steso a pancia in giù su un letto sfatto, perso nei meandri di un sogno in cui poteva rivederne il volto mentre rideva e ingarbugliava le parole raccontandogli qualcosa che non riusciva ad afferrare.
Aspetta, non ti sento cercava di dirle lottando contro le brume viscose del sogno che lo trascinavano via.
Ma lei finiva di parlare, si illuminava in un sorriso così radioso da fargli male agli occhi e poi gli dava le spalle, correndo via e sciogliendosi in un mare bianco e caldo.
Sbattè le palpebre, faticando nel mettere a fuoco le pareti bianche della stanza.
Il sole si riversava a fiotti sul pavimento in legno chiaro, bagnando la stanza di un riverbero dorato, le grandi vetrate a parete si aprivano su un giardino rigoglioso, colmo di fiori in boccio.
Riusciva a percepire il suono soffocato della radio in cucina e la voce secca di Annika che cercava di fare del suo meglio per seguire i pochi accordi della vecchia canzone che suonava, c'era nell'aria l'odore intenso del caffé appena tostato e quello più dolce delle brioches messe a scaldare nel formo.
Ma aveva come l'impressione di essere ancora addormentato, che ciò che il suo corpo percepiva non fosse la realtà ma la percezione che il suo inconscio aveva di essere.
Erano anni che non sognava Roxanne.
Nei primi periodi temeva la notte perché il sonno gli avrebbe mostrato ciò a cui aveva rinunciato, ma con il passare del tempo il dolore e la mancanza si erano attenuate, specie dopo il fallimentare tentativo di ritrovarla.
Si rigirò sulla pancia, mentre le parole di Alec gli frullavano per la testa nitide come le aveva sentite, esattamente quattro anno prima.
Lei non ha bisogno di vederti, Izzy.
Lei ha bisogno di continuare a credere che te ne sei andato e che non tornerai mai più, perché non può permettersi il lusso di andare in pezzi una volta ancora e non lo merita, non merita di soffrire così tanto per il capriccio di un momento.
Non aveva avuto il cuore di dargli torto, non lo avrebbe avuto neppure in quel momento, mentre rigirava la sottile fede dorata che gli fasciava l'anulare sinistro.
Aveva trovato beffardo il tiro che il destino gli aveva tirato, facendolo incappare nell'unica svedese di tutta Los Angeles: la prima cosa a cui aveva pensato era stata quella volta in cui Roxanne aveva esclamato che l'avrebbe lasciato proprio per una stangona bionda nata nel cuore del più gettonato paese del nord Europa.
Assurdo quasi quanto il loro matrimonio, una fuga dal mondo che avevano girato senza mai fermarsi se non per incidere quell'unico album ignorato dal mondo proprio per evitare di ricadere nel tran tran da cui era fuggito a gambe levate.
Izzy Stradlin and the Ju Ju Hounds, solo perché aveva scelto di continuare a seguirlo.
Aveva cancellato il suo passato, aveva finto di essere un'altra persona e alla fine lo era diventato, fino a sentirsi nuovamente in pace con se stesso.
L'immagine di Roxanne era sbiadita e il suo ricordo era diventato uno dei tanti della sua assurda gioventù, tanto che era in grado di parlarne senza sentire alcuna fitta al petto o chissà dove.
L'aveva superata, si era innamorato di nuovo.
E allora perché quel sogno?
Più tardi, mentre si rifletteva negli occhi di ghiaccio di sua moglie, si sentì uno stupido ad aver dato così importanza ad un sogno: Roxanne era il passato e, per quanto potesse solo che augurarle ogni bene, era un capitolo che aveva chiuso -bruscamente- e che non intendeva riaprire.
Stava bene così.
Aveva un disperato bisogno di crederlo.
Si sentì stupido molte altre volte, negli anni a venire.
Certi giorni, certe date che tornavano a bussare alla sua porta con perfida costanza ogni trecentosessantacinque giorni erano così dolorosi che poteva percepire fisicamente il velo di tristezza che gli calava sul viso come una maschera, resistente persino ai sorrisi più smaglianti e alle risate più luminose.
Era in quei momenti che si fermava, indipendentemente da quello che stava facendo, e fumava una sigaretta raccontando a Roxanne quella che era diventata la sua vita, di come guardava l'inevitabile scontro rimandato per troppo tempo con i suoi problemi raggrumati all'orizzonte in un fronte così scuro da non promettere nulla di buono.
Si perdeva nei meandri dei suoi pensieri e li lasciava correre a briglia sciolta, un fiume di parole che non sapeva raccontare a nessun altro, che non riusciva ad esprimere se non in quegli attimi rubati ad un matrimonio che iniziava a perdere splendore o in una canzone che poi sentiva come troppo privata per provare seriamente ad incidere.
Quando il rapporto con Annika si incrinò definitivamente, al punto che risanare le ferite era qualcosa che andava al di là delle loro possibilità, il desiderio di rivedere Roxanne lo logorava.
Si sentiva soffocare dai suoi capricci, sentendosi un bambino piccolo che si lagna davanti alla vetrina scintillante di un negozio di giocattoli, pestando i piedi e strillando fino a perdere il fiato, ma per contro non sapeva neppure come affrontare la separazione che in parte aveva causato, scegliendo di sposare una perfetta estranea.
Il 1997 fu l'anno in cui iniziò a detestare gli infiniti cavilli legali che erano la fortuna di fior fior di avvocati, pescecani della peggior specie pronti a divorare anche il più minuscolo brandello di carne.
Se credeva che Axl fosse un mostro senza cuore, attratto solo dal frusciare delle banconote e dal tintinnare delle monete, dovette ricredersi.
Ferita nell'orgoglio più che nell'animo, Annika lo consumò in ogni sua fibra, imprimendogli sulla pelle il marchio della sua leggerezza e condannandolo ad un assegno mensile che lo avrebbe perseguitato per molto tempo -e che se non fosse stato per la ferocia inaudita del suo avvocato avrebbe avuto qualche zero in più.
Che cosa se ne farà poi di tutti quei soldi! Protestò esasperato con Duff, una sera d'inverno.
Si farà ricostruire l'orgoglio a suon di borse e scarpe, fu la risposta disincantata del bassista, dall'altro capo del filo.
Se poi il pronostico del suo vecchio amico si era avverato o meno, non l'aveva mai saputo.
Nel momento in cui si era ritrovato libero da ogni vincolo, tutto ciò che aveva voluto era abbracciare l'unica donna che non l'avrebbe mai tradito: la sua chitarra.
Si era gettato cuore e anima nella musica, cercando di esplorare mondi che fino ad allora non aveva neppure mai considerato, ripromettendosi che nel momento in cui avrebbe avuto qualcosa di veramente buono da mostrare al mondo, allora avrebbe affrontato i suoi demoni e sarebbe tornato da lei.
Lavorò sodò, a tratti perdendo la cognizione del tempo e a tratti passando ore intere a fissare il soffito della sala d'incisione senza che un solo pensiero riuscisse a scalfire la bolla di apatia che si era costruito attorno.
Il tempo divenne qualcosa di relativo, scandito dal ritmo di pasti senza orario e sogni senza incubi; il mondo si rinchiuse tra le mura della sua nuova, piccola casetta e quelle del pub dove andava di tanto in tanto la sera ad ascoltare qualche ragazzino coraggioso strimpellare la chitarra e abbozzare i primi tentativi di canzoni.
Ebbe qualche avventura di una notte, ragazze troppo ubriache o troppo giovani per poter sapere cosa si nascondesse dietro il suo nome e poco interessate alla conversazione -cosa che del resto per lui andava più che bene, impegnarsi in qualcosa che potenzialmente avrebbe potuto prosciugare tutte le sue energie sia fisiche che mentali era qualcosa che tentava di evitare con tutte le sue forze.
Sentiva che lo strato di cemento con cui aveva tentato di uccidere i suoi stessi sentimenti andava crepandosi inesorabilmente e tremava al pensiero di poterne sentire i lamenti strazianti una volta ancora.
La verità era che aveva soffocato la Chernobyl del suo cuore e ignorato le sue radiazioni che invece di affiorare in superficie avevano iniziato a scendere più in profondità, infettandolo al punto che non sarebbe mai più stata la stessa persona.
Ma non era ancora pronto ad abbandonarsi alla corrente e affrontare il dolore che lo lacerava, per rimettere assieme i pezzi di quel muscolo incredibile che lo teneva vivo e batteva piano nel suo petto, non era pronto a leggervi sopra, tra la carne e il sangue, che tutto quel tempo non aveva soffocato nulla, che voltare le spalle al problema non lo aveva reso più piccolo o meno importante.
Con una tenacia insospettabile svaporò gli strati più lucidi della sua coscienza e mise a tacere tutte le remore che affioravano in superficie nel momento in cui abbassava la guardia guardando vecchie fotografie, fu talmente bravo da arrivare a convincersi che andava bene così, che la sua vita senza sorprese, senza stravolgimenti, senza amore andava bene così.
Gli piaceva la torbida routine in cui era caduto, gli piaceva alzarsi con il sole e andare a correre con il suo cane, fare colazione con una tazza di caffé e una sigaretta, abbracciare la chitarra e a volte far solo finta di comporre qualcosa, aspettando che la fame lo liberasse da ogni impegno per concedergli il tempo di un pranzo solitario e poi un pisolino sul divano, prima di un giro in moto nel pomeriggio e una birra al pub dopo una cena comprata al cinese take-away sulla via di casa.
Era diventato così bravo a farsi piacere ogni cosa che per un po' quasi non si accorse di come il troppo uso stava finendo col logorare la stessa maschera dietro cui si era nascosto.
Quando finalmente gli strappi sul suo costume divennero troppo grandi per essere rattoppati ancora, di fatto, non seppe più cosa fare per nascondere ciò che la realtà riuscì a sbattergli finalmente davanti agli occhi.




ROXANNE
2000  - 2007



Smokin' around
It's within me somehow
I'll carry to what I am bound
The truth that I have found.

Bon Ivor, The Whippgrass.


LOS ANGELES
Alzò gli occhi al cielo, pozze di oscurità che fissarono con ostinazione i grossi nuvoloni grigi aggrovigliati sulla linea dell'orizzonte, nella placida attesa di quel qualcosa che avrebbe fatto scoppiare il temporale, annegando la città in un improbabile acquazzone primaverile.
Era in ritardo -o se non lo era ancora, presto lo sarebbe stata- ma non aveva voglia di infilarsi nel gelido bozzolo di aria condizionata dell'ufficio del suo avvocato quando fuori il sole le scaldava le braccia nude con una carezza così delicata e tiepida che rinunciarvi sarebbe stato un crimine imperdonabile.
Sistemò la borsa a tracolla, realizzando che il giorno in cui Zack le aveva chiesto di sposarlo il cielo era di quella stessa sfumatura, azzurro ceramica che sfumava in un grigio livido, rabbioso, dove lo sguardo si perdeva in lontananza, oltre i profili delle colline di Hollywood.
Avevano finalmente terminato l'interminabile trasloco in una casetta affacciata su uno dei tanti canali di Venice, dopo quasi un anno dall'inizio dei lavori e almeno sette di convivenza più o meno ufficiale tra l'appartamento di lui, un monolocale affacciato sul Sunset Boulevard, e il suo maledetto a solo trenta chilometri dal mare.
E lui si era inginocchiato, in mezzo a un mare di candele, e le aveva detto io e te dovremmo sposarci, vuoi sposarmi Roxanne?
Erano stati anni felice, alla fine dei conti, anni in cui aveva sempre saputo dove fosse il suo ragazzo, anni in cui aveva potuto telefonargli in qualsiasi momento sapendo perfettamente che al terzo squillo al massimo lui avrebbe alzato la cornetta, anni in cui non si erano mai trovati in due diversi fusi orari e in cui uscire la sera a fare una passeggiata non richiedeva di indossare né occhiali da sole né enormi cappelli sotto cui nascondersi.
La normalità, ecco cosa l'aveva affascinata di Zack.
L'assoluta regolarità della sua vita, la banalità di un posto da impiegato in una ditta di spedizioni, la confortante sicurezza di una storia senza eccessi o follie.
Aveva amato la tiepida noia delle loro uscite, si era adattata alle chiacchiere sul lavoro e sugli amici che si sposavano così in fretta da far credere qualcuno stesse puntando loro una pistola alla tempia minacciando di premere il grilletto se non fosse comparso un anello al loro anulare.
Chiacchiere che avevano finito col farle provare la stessa inconcepibile urgenza, placata solo dal miraggio di una promozione sul lavoro che avrebbe messo fine alla sensazione di acqua alla gola ogni volta che la fine del mese si avvicinava.
E se l'era sudata, aveva conquistato una scrivania in una stanza con sette persone, poi un'altra un piano più in alto e quattro colleghi in meno, poi un'altra ancora in una stanza tutta sua dove le finestre si spalancavano sopra la città e allora l'aveva saputo, la sensazione le si era infilata nelle ossa e la certezza di essere arrivata -senza sapere dove, senza sapere come- si era radicata in lei intrecciandosi alla normalità della sua vita.
Ai vecchi amici di sempre se ne erano sostituiti di nuovi, facce pulite e camicie immacolate da portare con le maniche arrotolate alla fine della giornata, davanti ad un bicchiere di vino  dopo il lavoro, tutte persone che non avrebbero mai potuto immaginare che dietro un trucco sapiente e pantaloni dal taglio impeccabile si nascondeva l'ex cameriera di un pub che una sera a settimana tornava dietro il bancone per amore di un Alec invecchiato in fretta e male, burbero e incapace di tenere una cameriera per più di una settimana.
Tu sei l'unica che sappia fare questo sporco lavoro, le diceva ogni volta, sputando tabacco nel retro del locale. E lei gli sorrideva, così come si sorride ai vecchi invecchiati male, assecondando i loro capricci con una gentilezza che non scade mai in compassione, senza neppure immaginare che nemmeno dieci anni più tardi si sarebbe ritrovata a camminare per strada, tenendo tra le mani dei documenti in attesa solo di una sua firma per mettere bene in chiaro come lei avesse ereditato l'Underpass, il locale che le aveva letteralmente salvato la vita.
Ascoltò il ticchettare dei tacchi sull'asfalto, riflettendo sul fatto che se Zack fosse stato ancora suo marito non le avrebbe reso così facile scrivere con inchiostro blu il suo nome su quelle linee tratteggiate.
Nella sua assoluta e totale normalità, così faticosamente conquistata, non era concepibile che un vecchio datore di lavoro lasciasse ad una delle sue cameriere il locale; la sua assoluta semplicità di velava di torbido al primo accenno di svolta da un percorso programmato una volta finita la scuola.
Eppure per questo lo aveva sposato e lo aveva amato, sentendosi rimproverare di esser scesa a compromessi con se stessa.
Però solo lei poteva sapere cosa significasse vivere con una persona che rientra a casa ogni sera alla stessa ora, che si accontenta di mangiare un arrosto con patate la domenica a pranzo e che l'alcol lo vede solo per una birra con gli amici, il sabato sera. Una birra che rimane sempre una e non sfocia negli eccessi.
Zack Hamilton, così noioso e così rassicurante.
Le ci erano voluti anni per capire quanto in profondità di spingessero le ferite che la storia con Izzy le aveva lasciato addosso, tagli così profondi da perforarle le ossa di un dolore sordo ad ogni cura, intenso da mozzarle il fiato in gola e gelarle il sangue nelle vene.
Solo la noia era stata in grado di anestetizzarle l'anima e impedirle di sentire il male delle fratture che si ricomponevano, della pelle che si tendeva e calava come un sipario a nascondere le cicatrici del suo cuore e Zack era la sua iniezione quotidiana, lo zucchero che indorava la pillola.
Solo che un giorno era guarita.
Si era alzata al mattino e aveva finalmente sentito che era tutto a posto, che per quanto brutti potessero essere, i solchi del passato avevano smesso di bruciare e la realtà le era piombata addosso vorace, implacabile, insostenibile: lei non era innamorata di suo marito come avrebbe dovuto essere.
Gli voleva bene, gli era grata per il tiepido bozzolo di sicurezze che in cui l'aveva stretta per tutto quel tempo, ma era tempo di andare avanti: il divorzio era stato discreto, normale, banale. Come il loro matrimonio.
Non aveva festeggiato la ritrovata libertà, aveva passato la notte nel suo vecchio appartamento rimasto invenduto, tra pareti da ritinteggiare e mobili coperti da lenzuola, una valigia di vestiti e un vecchio materasso polveroso sui cui dormire un sonno pesante, il sonno dei bambini, senza sogni né incubi.
E il tempo era scivolato via, leggero come una carezza, portandosi via sua madre e poi Alec, lasciandole accanto solo Christopher che adesso l'aspettava paziente, davanti ad un elegante palazzo vicino a Rodeo Drive, probabilmente fumando una delle sue solite sigarette.
Non aveva mai più sentito nessuno, di loro.
Aveva smesso di rispondere alle telefonate di Steven e lui piano piano aveva smesso di chiamare, Slash e Duff erano scomparsi dopo qualche stentata cartolina di Natale e Axl.. Axl aveva avuto la decenza di non farsi mai vedere né sentire, abbandonandosi ad un declino che ora, a vent'anni dall'uscita del loro primo e storico album, lo rendeva uno scherzo della natura con troppo botulino in faccia imbarazzante al punto da renderle impossibile persino l'associazione di quella faccia con il ragazzino magro come un chiodo che l'aveva odiata senza motivo.
In un angolo del suo appartamento c'era uno scatolone, nascosto sotto cappotti troppo pesanti e vestiti troppo stretti o troppo vecchi per essere indossati, dove conservava gelosamente album e album di fotografie, vecchi video e magliette strappate, lettere e bigliettini che bisbigliavano ammalianti di anni così epici e incredibili da non sembrare veri.
Non li guardava mai, li teneva lì per il giorno in cui si sarebbe trovata vecchia e rugosa, con un nipotino un po' arrogante e convinto di aver davanti una vecchia rimbecillita dall'età, per potergli raccontare delle persone che aveva conosciuto e dei posti in cui era stata a vent'anni suonati o giù di lì, quando fumare non faceva poi così male e le ragazze scappavano di casa per vivere nella Città degli Angeli facendo le spogliarelliste, frequentando musicisti spannati e vivendo di niente, giusto i soldi per pagare un affitto assurdo e comprarsi da bere alla sera.
“Roxy, sei in ritardo!”
La voce di Christopher la colse di sorpresa, strappandole un sorriso malinconico.
Come tutti, anche il suo amico era cambiato: gli anni non lo avevano risparmiato e attorno ai suoi occhi acquamarina poteva riconoscere un reticolo di rughe sottili come fili di ragnatela.
I bei capelli biondi erano corti, i vestiti ingombranti e appariscenti della gioventù sostituiti da un paio di jeans e una camicia azzurrina, giusto una giacca di pelle a sdrammatizzare l'uomo che più di chiunque altro le era stato vicino.
Ma era l'unico che ancora continuasse a chiamarla Roxy, come se fossero ancora i due ventenni in attesa di conquistare in mondo, senza una sola preoccupazione a velare i loro sguardi limpidi.
Nel riflesso dei ray-ban infilati nello scollo della camicia, poté vedersi mentre si avvicinava, una donna nel fiore della maturità con addosso un paio di jeans scuri, stivali con un tacco che una volta non avrebbe mai indossato e una camicia bianca; le labbra dipinte di rosso e un sorriso mite a incurvarle.
“C'era traffico, mi spiace, il taxi è rimasto bloccato”.
Lo salutò con un bacio sulla guancia, prendendolo a braccetto e aspettando che il portiere aprisse loro la grande porta, nel riflesso di uno specchio scorgeva già il bancone lucido di un bar di lusso: non ci sarebbe stato un bicchiere di birra ad aspettarli, quanto piuttosto un calice di vino e la voce fumosa dello stesso avvocato che aveva gestito il suo divorzio.
Con il senno di poi, aveva ammesso che se la storia con Izzy era andata come era andata, non è stata sicuramente solo colpa di un ragazzino diventato famoso senza nemmeno sapere perché; una fetta di errori portavano il suo nome scritto sopra a caratteri cubitali e se fosse stata più attenta, più matura, allora forse le non cose non sarebbero andate così.
Ma aveva anche imparato che rimuginare sul passato non serviva a nulla se non a diventare nostalgici e la nostalgia portava a nostalgiche sbronze a base di margarita e mal di testa che non era più in grado di gestire al mattino dopo.
Era andata avanti, come tutti.
Non c'era stato nient'altro da fare.


 

Non c'è una regola d'ora per sopravvivere alle storie d'amore.
C'è chi si lascia perché non c'è poesia e chi perché ne ha troppa e non riesce a sopportarne le implicazioni.C'è chi tradisce e chi è tradito, chi perdona e chi è perdonato.
Ci sono bambini di mezzo o proposte di matrimonio, c'è la noia, c'è la paura, c'è il troppo amore e l'incompatibilità -le storie a volte semplicemente si spengono, perdono la loro brillantezza e muoiono silenziosamente senza poter esser salvate e alle loro spalle rimangono due persone improvvisamente divise, alle prese con ciò che rimane di loro.
Si possono leggere tutti i manuali di questo mondo e formulare comunque un'ipotesi che possa spiegare certi comportamenti e certe frasi, con la sicurezza che prima o poi arriverà una nuova storia che stravolgerà il nostro precario sistema di certezze con una rivoluzione scientifica senza pari.
Non c'è una regola, per uscirne senza ferite.
Non c'è un modo per smettere di piangere, un modo per non sentire il dolore.
Si può maledire l'amore, si può rifuggerlo, si può evitarlo e negarlo con tutte le proprie forze, ma lui è sempre lì.
Veglia sui nostri passi, aspetta il momento che più ritiene opportuno e viene a bussare alla tua porta: e che tu lo voglia o meno, ti investe con la sua irruenza luminosa e ti fa dimenticare di tutto il dolore che potresti provare, di tutte le delusioni che potresti incontrare. È talmente luminoso che l'unica cosa che puoi fare è abbandonarti alla speranza e farti trascinare via.
L'amore è ciò che rende gli uomini grandi, l'amore è ciò che li rende piccoli piccoli e li colora di vergogne nuove, insospettate, per poi riscattarli quando tutto sembra perduto; amare è un atto di fede in un'altra persona, il gesto più coraggioso che un essere umano possa compiere in tutta la sua vita e quello che presumibilmente gli farà più male.
È l'unico fulmine che cade più volte nello stesso punto -al centro esatto dell'anima.
Può ustionarti, bruciarti, accecarti o farti cadere in un stato di shock, accade tutto in una frazione di secondo, così rapido che è impossibile accorgersene: l'attimo in cui si comincia veramente ad amare una persona cambia la tua vita per sempre.
Le persone cambiano, in nome dell'amore, e nemmeno se ne rendono conto.
Si rimane feriti, dei relitti sentimentali, a volte persino ci si crede impotenti tanto profondi sono gli squarci che si nascono dietro sorrisi di cortesia e banalità quotidiane, ed è inutile cercare una cura.
Semplicemente non esiste.
Non esiste una regola d'oro per guarire dal mal d'amore: puoi solo aspettare che se ne vada da se, che l'animo inizi a guarire piano piano e che i pezzi di un cuore in frantumi si rimettano assieme, attorno il fulcro esatto dove si è schiantato il colpo iniziale e la prima crepa è nata.
Si sopravvive e la vita va avanti, si incontrano altre persone, si incontrano vecchi amici e per quanto un cuore rotto porterà per sempre i segni e il ricordo dell'attimo in cui si è sbriciolato in mille pezzi, succederà di nuovo.
Ci sarà sempre un posto giusto e un momento giusto, in cui il fulmine cadrà di nuovo.


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Capitolo 17
*** Epilogo ***


HAND IN GLOVE
EPILOGO



 

LOS ANGELES, luglio 2007
Il chiacchiericcio nel pub era al limite del sopportabile, un brusio continuo che riempiva le orecchie di Izzy e rimbalzava di parete in parete, sui mattoni a vista, tra le cornici chiuse attorno a vecchi LP dalle etichette sbiadite.
La pinta di birra davanti a lui era ormai mezza vuota e tutto quello che era riuscito a scoprire dalle chiacchiere strascicate della giovane cameriera bionda dietro al bancone era che Alec era morto, qualche tempo fa, e che la nuova proprietaria era una grandissima stronza con un gran bisogno di scopare.
Chi fosse quella fantomatica proprietaria ancora non l'aveva scoperto e per riuscire a saperlo, l'unica cosa che poteva fare era restare lì ad aspettare che si presentasse.
“Guarda che potresti dover aspettare tutta la sera,” l'avvisò la biondina, masticando rumorosamente una gomma.
“Stai cercando di dirmi che disturbo e devo lasciare il posto?” ribatté Izzy svogliatamente, rigirandosi il bicchiere mezzo vuoto tra le dita.
Non aveva voglia di star lì a discutere con una ragazzetta stufa di lavorare, era lì per vedere Roxanne.
Per provarci, almeno.
Prendere la decisione era stato più facile del previsto, gli era bastato alzarsi al mattino e decidere: da lì, comprare un biglietto aereo e infilare due cose al volo in valigia era stata solo una naturale conseguenza dell'impazienza che si era accesa dentro di lui, un fuoco quasi insopportabile nella sua improvvisa smania di calpestare le strade asfaltate e sovraffollate della città degli angeli.
Il tempo si era diluito in una macchia confusa, non avrebbe saputo dire quanto effettivamente ci avesse impiegato l'aereo a far la spola tra le due città, se c'erano stati scali o ritardo: un attimo prima era a LaFayette e un attimo dopo a Los Angeles -nel mezzo neppure il tempo necessario a capire se il suo era un capriccio, un errore o la cosa giusta da fare.
Vent'anni.
Li sentiva tutti, uno per uno, cadergli addosso come macigni.
Vent'anni prima aveva inciso il suo primo cd e incontrato l'amore della sua vita.
Vent'anni prima era giovane e vivo ma troppo spaventato da entrambe le cose al punto da preferire un'esistenza annebbiata da fiumi di alcool e droghe sempre più pesanti, pennellante di confusione su una lucidità che l'avrebbe spiazzato e costretto a crescere.
Vent'anni prima era circondato da persone di cui adesso ricordava a malapena i nomi, nascondeva la solitudine dietro grandi occhiali da sole e li toglieva solo per rivelarsi a una creatura ancora più sola di quanto non fosse lui ma infinitamente più forte e più fragile.
Aveva capito così poco, di Roxanne..!
In quei quattro anni passati assieme si era costruito un'immagine perfetta al cui centro c'erano due occhi scuri, profondi e silenziosi, a sorridergli dolcemente e perdonargli ogni errore, ogni passo falso.
Ma non era solo indulgenza, non era comprensione o il desiderio di apparire perfetta: lei gli era rimasta accanto quando si era rivelata la cosa più dolorosa in assoluto da sopportare per amore.
Un amore così grande da non poter essere quantificato, un sentimento così immenso da vincere il dolore e la paura solo per poter sentire la sua voce al telefono, uno slancio così coraggioso che non era stato in grado di reggere tutto quell'impeto e aveva finito col lasciarla cadere a terra, di faccia, contro la dura superficie della realtà.
Aveva sbagliato tutto, non aveva capito niente.
Ma piangere sul latte versato non serve, si disse buttando giù un sorso di birra e riconoscendoci nel retrogusto lo stesso aroma dolciastro di quella che beveva sempre lei.

 

-Izzy, questa birra fa schifo!
-Mi prendi in giro?
-No, è troppo amara.

 

Ricordava così bene la smorfia che le increspava le labbra, il tono irritato della sua voce che lo rimproverava silenziosamente e il sorriso che un attimo dopo si delineava morbido sulla curva delle sue labbra.
Era come se in quel momento tutto l'amore che conteneva in corpo affiorasse in superficie, il suono della risacca per l'onda gigantesca di emozioni che si sollevava dietro quel gesto e poi lo investiva, senza dargli il tempo di prendere fiato, trascinandolo via nell'impeto della corrente, nei suoi flussi sottomarini in cui poteva lasciarsi galleggiare, conscio che nulla gli avrebbe mai potuto far più male della perdita di quei momenti.
Scosse il capo, ripensando a quella sera ormai lontana in cui aveva sbagliato ad ordinare.
Non era mai stato bravo in quelle cose, troppo distratto e troppo fatto per poter ricordare la differenza tra due birre fondamentalmente identiche tra di loro se non nel nome.
I dettagli, le cose più piccole.. era difficile afferrarli in condizioni normali, figurarsi quando il suo mondo era un inseguirsi sfocato di colori, emozioni, suoni smorzati o accentuati dai cocktail chimici che si sparava in vena per scampare ai primi bagliori del sole, troppo intensi per i suoi occhi chiari e spaventati.
Non si era mai accorto di come fosse la paura ad inquinare e uccidere i sentimenti.
Sospirò silenziosamente, evitando lo sguardo della biondina e sentendosi stupido come non mai.
Cosa diavolo sperava di ottenere, dopo vent'anni?


 

Roxanne si era svegliata quella mattina con una sensazione insolita a stringerle la bocca dello stomaco, un'apprensione che allungava le sue dita gelide facendo riaffiorare vecchi ricordi e vecchi fantasmi sepolti sotto cumuli di oblio polveroso.
Aveva incrociato il suo sguardo nel riflesso dello specchio all'ingresso e aveva aggrottato al fronte, perplessa senza conoscerne il motivo.
Oh, certo, sapeva perfettamente che giorno era.
Non avrebbe potuto dimenticarlo, cadeva il ventennale dall'uscita di Appetite for Destruction e sentiva nell'aria il profumo friabile di una nostalgia latente che cresceva lenta e inesorabile, come una marea.
Quante sciocchezze, si rimproverò cinicamente riavviando una ciocca di capelli con un gesto brusco.
Non aveva più diciott'anni, era una donna adulta con un'attività commerciale ben avviata e una carriera di successo alle spalle, non era da lei lasciarsi incupire da una ricorrenza di questo tipo: non era l'anniversario del suo incontro con Izzy o del loro primo bacio, all'alba dopo quel concerto pazzesco, o della loro rottura. Quelli li aveva festeggiati, ogni tanto.
In segreto, senza che nessuno la vedesse, negli ultimi anni dedicava quelle giornate a mettere ordine nella sua memoria, appiccicando vecchie fotografie su album anonimi e alzando un bicchiere alla salute di Izzy, senza mai azzardarsi a fantasticare su come sarebbe stato rivedersi e cosa avrebbe potuto significare incrociare di nuovo il suo sguardo.
Non aveva il coraggio di chiedersi se i suoi occhi avevano la stessa sfumatura di cupa malinconia a screziare il verde limpido, se il sorriso era ancora un taglio obliquo sul volto sempre troppo magro. Semplicemente non poteva, non l'avrebbe sopportato.
Frugò nella borsa alla ricerca delle chiavi di casa e, una volta assicuratasi di non correre il rischio di dover chiamare il fabbro o Christopher per rientrare, uscì nel caldo sole estivo al tramonto e nascose i suoi pensieri dietro le lenti scure di un paio di occhiali da sole.
Perché tormentarsi così, del resto.
Era stupido persino il pensiero di potersi sentir toccare dal ricordo di Izzy, dopo tutti quegli anni, non sarebbe stata in grado di spiegare a parole quel nodo che d'un tratto le stringeva la gola senza passare per una quindicenne alla sua prima cotta.
Eppure... eppure non poteva fare a meno di chiederselo.
Dopo tutti quegli anni, dopo tutto quel tempo, come sarebbe stato rivederlo per davvero?
Posare gli occhi su qualcosa di reale e non su un ricordo sbiadito, quasi in bianco e nero.
Respirare un odore vero e non cercarne l'eco confuso.
Ascoltare una voce e non tentare di immaginarne il suono.
L'ondata di dolore risalì acre dal suo stomaco, un conato di sentimenti inespressi che si costrinse a reprimere per non soffocare: era un mostro che non andava stuzzicato, il suo cuore.
Ecco cosa aveva imparato negli anni, sulla sua pelle.
Lo scatto metallico dell'accendino precedette la fiammata e fu con sollievo che inalò la prima boccata di fumo, sbattendo le palpebre e stringendo le labbra in una linea sottile, severa.
Era in ritardo ed era quasi sicura che Gemma, la biondina svampita che aveva assunto qualche mese prima, non si fosse avvicinata al bagno che le aveva caldamente raccomandato di pulire neppure per sbaglio, approfittandone per restarsene dietro al bancone per giocare alla padrona del locale.

 

Nell'attimo in cui Roxanne varcò la soglia del locale, il sorso della terza birra che aveva ordinato andò di traverso ad Izzy.
D'un tratto fu come se il sole fosse precipitato dal cielo schiantandosi contro di lui, una sensazione di calore così abbacinante da coglierlo totalmente di sorpresa -aveva dimenticato, negli anni, come il suo corpo reagisse alla sua semplice presenza fisica, reclamando la sua attenzione, ogni singola cellula intenta a inseguire lo stesso, identico, scopo: trovarla.
Sbiancò, il suo volto si tinse di una sfumature di verde così allarmante che la biondina lo guardò storto senza avere il tempo di dirgli niente.
“Gemma”
La sua voce.
La parola risuonò nitida nelle sue orecchie, una nota così acre e fumosa che quasi non la riconobbe. Eppure era lei, lo sapeva, non aveva alcun bisogno di voltarsi a controllare. Era Roxy, la sua Roxy.
Abbassò lo sguardo, aggrappandosi al boccale di birra con tutte le sue forze, senza aver il coraggio di guardare.
“Gemma, fammi indovinare,” proseguì intanto la voce, con una sfumatura così terribilmente sarcastica da farlo rabbrividire, “non hai fatto quello che ti ho detto ieri, vero?”
Si perse la risposta della ragazza, nel tentativo di non morire di crepacuore su quel tavolino in disparte.
Non aveva più l'età per nascondersi dietro una maschera di indifferenza, aveva soffocato parti di sé per troppo tempo rinunciando a poterle controllare in un futuro creduto lontano, un futuro che si era fatto presente con il passare degli anni e reclamava la sua vittoria senza un briciolo di pietà nei suoi confronti.
Tutto quello che poteva fare era rimanere lì in silenzio, pregando silenziosamente ogni singola divinità gli riuscisse di ricordare per sperare di passare inosservato.
Non si sentiva pronto, non lo sarebbe mai stato.
Come molto tempo prima, si ritrovò solo e terrorizzato oltre ogni immaginazione, incapace di andare fino in fondo e raggiungere un obbiettivo, l'unico che avesse desiderato e inseguito con così tanta tenacia e per così tanto tempo.
I suoi occhi, fino a qualche attimo prima assorti nei disegni sbilenchi delle venature del tavolo lucido, si sollevarono con apparente casualità e inseguirono l'eco di un rimprovero sibilato più avanti: Roxanne era lì, le mani sui fianchi e un paio di grossi occhiali scuri troppo lucidi per lasciar intravedere qualcosa oltre il riflesso dello sgomento di Gemma.
Strinse le mani con così tanta forza da far sbiancare le nocche, nel tentativo di tenersi stretta una frase che fosse dotata di un qualche senso logico -gli sarebbe bastato trovare la forza di alzarsi in piedi, batterle un mano sulla spalla e dirle “Cristo santo, ma sei davvero tu?” senza cedere all'impulso di scappare via e tornare ad infilare la testa nel buco di sabbia di un'indifferenza che era stanco di provare.
Assorto nei suoi pensieri, non si accorse dello sguardo della donna che saliva a catturare la sua immagine riflessa sul vetro lucido di una foto incorniciata.
Non la vide socchiudere le labbra ed esalare un rantolo silenzioso, soffocato dal grumo di emozioni che le aveva stretto la gola, non si accorse del petto completamente svuotato che faticava a riempirsi d'aria né del leggero indietreggiare che la portò a sbattere contro l'imbottitura di uno sgabello: fu solo il fracasso del legno contro il pavimento, mentre questo cadeva a terra e rotolava desolato vicino ai tacchi degli stivali di lei, a scuoterlo.
Sentendosi come se stesse osservando la scena al di fuori dal suo corpo, si alzò in piedi e il rumore della sedia che strusciava sul pavimento scuro risuonò acre come uno strappo dentro l'anima.
Incrociò il suo sguardo nell'esatto momento in cui lei sollevò gli occhiali da sole a trattenere le onde disordinate dei capelli che minacciavano di caderle sul volto, inermi come la curva intristita che andava disegnandosi sulle sulle sue spalle -una debolezza effimera come un sospiro, una concessione troppo preziosa per non essere percepita prima di scomparire in un battito di ciglia.
Lo sguardo di Roxanne si staccò da lui, tornando a Gemma.
E se non l'avesse conosciuta troppo a fondo, avrebbe potuto tranquillamente sostenere che non era successo nulla, che lo sgabello era caduto per caso e che la sua sedia aveva strusciato sul pavimento in un bizzarro gioco di coincidenze dai suoni aspri. Ma la conosceva, e sapeva che in quell'istante il suo mondo si era fermato e aveva ripreso a girare all'incontrario.
Non a caso, per lui era stato lo stesso.

 

Roxanne finse di non aver notato come gli occhi di Izzy fossero ancora terribilmente verdi, di una sfumatura così preziosa e particolare da chiuderle lo stomaco in un nodo feroce, e di come conservassero l'ombra di un'ironia sferzante pronta a schioccare come una frusta, nella cornice di rughe sottili che il tempo e la vita avevano scavato tutt'attorno.
Finse di non aver intuito come il suo corpo fosse ancora sottile e slanciato nonostante l'età, sotto le pieghe disordinate di una camicia stropicciata e pantaloni scuri troppo larghi - né tantomeno di come il suo, di corpo, avesse reagito ad una carezza invisibile tendendosi come una corda in uno spasmo quasi doloroso, insostenibile.
Finse persino di non aver seguito i passi di lui cercare e trovare l'uscita dal locale, spiandolo nello stesso riflesso dove l'aveva visto la prima volta solo un attimo prima, rimproverando Gemma più aspramente di quanto avrebbe voluto.
Nel guardare la ragazza allontanarsi in fretta e furia con una bestemmia stretta tra i denti, si disse che semplicemente era stata la sorpresa a farla reagire così e non un'ondata di emozioni che per un attimo l'aveva quasi sopraffatta.
Erano due persone diverse, due estranei con un passato in comune, si rimproverò silenziosamente, frapponendo tra sé stessa e la porta smerigliata dietro la quale Izzy era scomparso l'esigua barriera del bancone lucido, argine fin troppo fragile per poter trattenere i suoi pensieri.
Li sentiva montare, inesorabili come una marea, premendo contro i confini della sua anima con un'intensità tale da farle credere sarebbero stati in grado di mandare in frantumi ogni sua volontà e ogni resistenza. E se era bastata un'occhiata, a scatenare quel putiferio, non osava pensare a cosa sarebbe successo se si fossero parlati.
“Non sarebbe successo proprio niente” sbottò seccata, acciuffando uno straccio e caso e sfogando la tensione su una serie di sfortunati bicchieri appena lavati.
Era da quando aveva iniziato a lavorare lì che asciugare pinte l'aiutava a svagarsi: il lavoro fisico, la sensazione sfiancante dei muscoli e affaticati e mai fermi, riuscivano in un qualche modo a darle pace dall'ennesimo casino di Matty o dalle litigate tra i suoi genitori.
Era per questo che lavorare le piaceva.
Sbuffò, cogliendo con la coda dell'occhio la testolina bionda di Gemma fare capolino oltre uno spigolo.
“Si?” le chiese, sforzandosi di non suonare troppo acida.
“Ho finitom” rispose l'altra, sforzandosi a sua volta di suonare molto più offesa che spaventata.
L'arroganza della cameriera era qualcosa che riconosceva anche come suo, un muro di difesa tra se stessa e il resto del mondo -sorrise, gentilmente, facendole segno che andava bene, nonostante l'istinto le suggerisse piuttosto di licenziarla in tronco.
Eppure, molto tempo prima, era stata anche lei così: si impose di ricordarselo, mentre concedeva venti minuti di pausa alla ragazza che la guardò sconvolta come se le avesse appena detto di passare il resto della serata a scrostare vecchi graffiti dal retro dell'edificio armata solo di uno spazzolino da denti.
“Solo venti minuti?” protestò, puntualissima, dopo un attimo.
“Si, Gemma, solo venti minuti. E che siano venti!” le raccomandò gelida, posando un boccale su una mensola piena a metà “Non come l'altro giorno, che ci hai messo tre quarti d'ora per mangiare un hamburger..”
L'altra brontolò qualcosa, un insulto prigioniero dietro la linea strafottente delle labbra, prima di annuire e slacciarsi il grembiule che le cingeva i fianchi. Stava già per scomparire nel retro, quando invece si voltò e aggrottò la fronte.
“Ah... il tizio al tavolo, quello che ha rovesciato la sedia”
Il cuore di Roxanne perse un battito e, suo malgrado, la donna si scoprì intenta a penzolare dalle labbra della cameriera come un cucciolo bisognoso d'affetto.
“Mh?” mugolò, cercando di mantenere una vaga parvenza di autocontrollo.
“Ti cercava, ma non mi ha detto il suo nome.”
“Non ha bisogno di farlo..” commentò sottovoce lei, mentre l'altra si dileguava dietro una porta chiusa “Sa che lo riconoscerei ovunque.”

 

Izzy si svuotò, soffiando in un'unica nuvoletta disordinata il fumo dell'ultima sigaretta.
Vent'anni.
Vent'anni e sembrava solo ieri l'ultima volta che aveva tenuto Roxanne per mano, che l'aveva spogliata prima di fare l'amore, che aveva vegliato i suoi sogni inquieti nei barbagli di luce di un giorno nascente, incapace di addormentarsi.
Vent'anni e solo a rivederla, solo a sentire il suono della sua voce, si era reso conto di quanto tutto fosse rimasto uguale e di quanto tutto fosse invece terribilmente diverso.
Era passato così tanto tempo che persino l'ombra di quella chiesa, la stessa che aveva vegliato il loro primo incontro, sembrava non essere più la stessa: il rosone era scolorito, gli intarsi erosi dal tempo e sporchi s'incuria - era lo specchio impietoso del suo cuore, un campo di battaglia abbandonato senza onore in una ritirata frettolosa, i gradini cosparsi di immondizia e gli angoli neri di inquinamento.
Rimase seduto, in silenzio, ascoltano il chiasso della notte crescere in lontananza sotto la luce tremula dei neon che oscurava quella delle stelle. Non ce ne erano, a sbirciare la tristezza che gli colorava gli occhi. Non si intravedeva neppure un misero spicchio di Luna, oltre il chiarore artificiale imposto dalla città.
Era tutto diverso dall'ultima volta che era stato lì: quella rosticeria cinese due edifici più in là una volta era un negozio di libri usati, e al posto dello strip club dall'insegna vistosa c'era la minuscola merceria di un vecchio donnone dall'aria invincibile.
Nel corso degli anni, si disse, anche lei dev'esser stata sconfitta.

Erano tutti stati sconfitti, in un modo o nell'altro.
Chi dall'avarizia, chi dalle dipendenze, chi dalla paura e chi dalla vita.
Dei suoi vecchi amici erano almeno in cinque quelli morti prima di vedere i trent'anni, e degli altri aveva perso le tracce molto tempo prima senza neppure sapere il perché.
Si erano bruciati, ecco cos'era successo: avevano scelto di vivere pochi anni oltre ogni limite di sopportazione, senza mai risparmiarsi nulla e accettando ogni ostacolo come una sfida da superare -avevano avuto molto, tutti loro, ma quando era stato loro presentato il colpo si erano trovati con le tasche vuote o bucate, perdendo ogni cosa.
Sospirò, frugando nelle tasche della camicia per trovare un'altra sigaretta.
Mentre la fiamma dell'accendino allungava una carezza di calore alle sue labbra, scorse una sagoma ferma qualche metro più in là: appoggiata con una spalla allo stelo metallico di un lampione, Roxanne premeva con forza le mani nelle tasche dei pantaloni, guardando verso di lui con un'ostinazione tale da farlo sorridere.
“Perché ridi?” chiese lei, troppo fulminea per non essere prevedibile, troppo attenta per sembrare disinteressata.
“Perché non sembri cambiata affatto” rispose lui dopo un'avida boccata di fumo, abbandonando gli avambracci sulle ginocchia.
La vide seguirne la linea con attenzione, indugiando sui polsi colorati da una moltitudine di braccialetti di stoffa, adagiandosi tra i tendini del dorso e poi scivolando lungo le dita ancora sottili, senza trovare appiglio sui polpastrelli e schiantandosi a terra, gli occhi puntati su una macchia del cemento tra le sue scarpe.
“Invece sono cambiata!” si arrabbiò lei, raddrizzando la schiena e irrigidendo la mascella in una veemente e tutt'altro che tacita ribellione.
Per niente stupito, Izzy si limitò a inalare un altro tiro, senza toglierle gli occhi di dosso.
Un minuto scivolò via, nel silenzio più assoluto, e poi un altro.
Tra di loro sfilò una coppia mal assortita - una giovane prostituta in bilico su tacchi troppo sottili e un vecchio grassone dall'aria volgare - che non li degnò di un'occhiata, e una macchina della polizia sfilò ululando nella via accanto.
Ma non si mossero.

Rimasero immobili, vecchi guerrieri di una guerra mai conclusa, viaggiatori colti alla sprovvista da un terreno troppo fragile per essere attraversato senza lasciare in pegno qualche dolorosa cicatrice.
Fu Roxanne a cedere, con un sospiro silenzioso che sembrò svuotarla di ogni energia. Frugò nervosamente nella borsa, avvicinandosi ai gradini.
“Sei in ritardo di vent'anni” lo rimproverò senza asprezza, sedendosi accanto a lui.
Vicina abbastanza da poter percepire il suo calore sulla pelle, lontana abbastanza da non soffrire poi quando si sarebbero inevitabilmente divisi, vinta dal desiderio di respirare una volta ancora il brivido dell'appartenenza feroce che li aveva uniti e che sanguinava ancora, spezzata senza ragioni, nell'animo di entrambi.
“Non sono mai stato puntuale” le ricordò lui, lottando contro l'impulso di stringerla a sé e cancellare quei cinquanta centimetri scarsi che li separavano.
Nel delicato gioco di equilibri che stavano costruendo, sarebbe bastato un passo falso per farli precipitare in un vortice di rovina senza fine: consapevoli come non mai della delicatezza di quei secondi preziosissimi, indugiarono entrambi nel sapore ovattato di una sigaretta, un lasso di tempo troppo breve per permettere loro di trovare una soluzione, ma ampio abbastanza da poter riempire le loro labbra del sapore dolce amaro dei ricordi più cari.
“Non sei mai stato il tipo che avvisa, del resto..”
Roxanne sbirciò verso di lui, cercandone lo sguardo come assetato cerca ristoro in un bicchiere d'acqua.
“No, hai ragione” sorrise lui “Non sono mai stato un bravo fidanzato”
“No, non lo sei stato.” annuì, pensierosa, e dopo un attimo si strinse nelle spalle “E io non ti ho mai reso la vita facile” gli concesse con un'occhiata vaga e un sorriso che non seppe dire se fosse dispiaciuto o semplicemente rassegnato nel rivangare gli strascichi di un passato tanto remoto.
Rimasero in silenzio, di nuovo, lasciando che fossero i loro respiri a dialogare tra loro, ritrovando ritmi perduti in un affiatamento discreto che nessuno dei due ebbe il cuore di negare.
Erano stati qualcosa di troppo grande per poter fingere che i loro corpi, al di là dei loro desideri, non ricordassero cosa significasse stare così vicini senza potersi sfiorare: era una tortura troppo dolce per poterla fermare, un dolore così delicato e insopportabile da non poter essere ignorato.
Izzy la spiò di sottecchi. Era vero, era cambiata: da ragazza acerba e minuta si era trasformata in una donna dal piglio deciso, i lineamenti induriti dal tempo e da una determinazione che non aveva mai smesso di bruciarle negli occhi scuri, dal colore così denso da farlo sentire prigioniero.
Come una falena che danza attorno alla fiamma, consapevole che un volteggio sbagliato potrebbe ridurla in un un grumo di cenere spazzato via dal vento, allungò istintivamente una mano per riavviarle i capelli dietro un'orecchia, rivelando una serie di piercing lungo tutto il lobo, una catenella di minuscoli anelli argentati che non ricordava di aver mai visto.
Si chiese cos'altro fosse cambiato, su quel corpo che un tempo aveva conosciuto in ogni sua piega e curva, e sotto l'impeto dello sguardo di lei si scoprì impaziente nel desiderio di scoprirlo, di far scivolare via la stoffa della camicia bianca lungo la curva delle spalle di lei per rivelare centimetro dopo centimetro la pelle dove un tempo indugiava in baci bollenti e distratti.
“A cosa pensi?” le chiese invece, ritraendo la mano nel momento in cui la vide irrigidirsi.
Roxanne tacque, per qualche istante.
Avrebbe voluto dirgli che si sentiva di nuovo una ragazzina confusa e spaventata, che la giovane donna distrutta dal dolore che aveva seppellito dentro di sé negli anni stava di nuovo urlando la sua frustrazione, che nonostante tutto stava iniziando a pensare che avrebbe potuto tranquillamente mandare a puttane ogni suo buon proposito e fare qualcosa di estremamente stupido se lui solo gliel'avesse chiesto.
Si abbracciò le ginocchia, posandovi sopra il volto.
Realizzò che non le importava. Aveva sofferto molto, oltre ogni immaginazione e oltre ogni sopportazione, eppure ora capiva perfettamente che stare senza di lui era infinitamente peggio che non scrollare le spalle su vent'anni di vita passati separati per lanciarsi a capofitto in qualcosa che continuava a far parte di lei.
Non voglio che tu te ne vada di nuovo dalla mia vita, pensò nascondendo una fitta di dolore al petto.

“Penso che potresti almeno offrirmi una sigaretta, Izzy Stradlin,” disse invece con un sorriso.

 

Più tardi, stringendo tra le dita un foglietto di carta con su scritto un numero di telefono assieme alla certezza che quel “ti chiamo” non fosse semplicemente una frase di circostanza, si chiesero entrambi perché ci era voluto così tanto tempo per capire la vastità del sentimento che li aveva legati.
Anni e anni di bugie, anni e anni in cui avevano finto di stare bene, di essere liberi, di poter andare avanti da soli -tutto sembrava invece averli spinti in una direzione ben precisa per farli ritrovare in quel giorno preciso.
Il destino, si sarebbero detti qualche giorno più tardi seduti al tavolo di un ristorante, era qualcosa che andava oltre la loro comprensione.
Forse erano nati per stare assieme, forse erano nati per trovarsi, amarsi e, nella perdita, comprendere come non potessero più stare l'uno senza l'altra. Forse era vero, avevano qualcosa che gli altri non avrebbero mai avuto.
Forse, invece, non era niente di tutto questo.
Quello di cui erano certi, seduti sotto il cielo senza stelle di Los Angeles all'ombra di quella chiesa, era che per il momento era abbastanza.
Il resto lo avrebbero scoperto poco alla volta, semplicemente vivendolo.





 

The sun shines out of our behind
Yes, we may be hidden by rags
But we've something they'll never have.


FINE



 

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