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Autore: La neve di aprile    15/05/2007    10 recensioni
Ricordo la prima volta che ti vidi, Izzy.
È una scena che si è stampata nella mia memoria, un marchio che non vuole saperne di sbiadire.
Pioveva da giorni, non c’era stato un attimo di tregua. Nemmeno il più piccolo spiraglio di sole.
Il cielo continuava a vomitare pioggia sulla città, che scintillava.
Le luci dei lampioni, le vetrine, i grattaceli: si rifletteva tutto nelle strade coperte di pozzanghere.
E adesso che gli anni sono passati, che le cose sono cambiate, mi rendo conto che forse la mia vita, la tua vita, sarebbe stata diversa se le cose avessero preso una piega diversa.
Forse ci saremmo risparmiati tante cose, forse saremmo stati persone diversi.
Ma non sarebbe stata la stessa cosa.
REVISIONE IN CORSO.
Genere: Introspettivo, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Hand in glove'
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Disclaimers



Questa fanfiction è il tributo di una fan e non rivendica alcun diritto sull’opera citata, né persegue finalità lucrative. 



Non si ritiene infranto alcun copyright o altro diritto depositato.




L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright dell’autrice (La neve di aprile).


Capitolo revisionato 17 dicembre 2012

 

 

HAND IN GLOVE

#1 JUST A RAINY AFTERNOON…?

 
 

PARLA ROXANNE:
Ricordo la prima volta che ti vidi, Izzy.

È una scena che si è stampata nella mia memoria, un marchio che non vuole saperne di sbiadire.

Pioveva da giorni, non c’era stato un attimo di tregua.

Neppure il più piccolo spiraglio di sole.

Il cielo continuava a vomitare pioggia sulla città, che scintillava.

Le luci dei lampioni, le vetrine, i grattaceli: si rifletteva tutto nelle strade coperte di pozzanghere.

Ricordo che quel giorno non avevo voglia di starmene a casa.
Avevo litigato con Tom, il mio ragazzo all’epoca, e bruciavo di rabbia.

Mi sembrava di andare a fuoco e, stupidamente, pensai che forse camminare sotto la pioggia mi avrebbe fatto bene.

Scesi in strada così, con addosso una felpa sbiadita e un paio di jeans sdruciti, le mie inseparabili all star rosse ai piedi.

Ero giovane, allora, giovane e stupida.

Lo eravamo entrambi, a pensarci bene, pieni di problemi da cui cercavamo in tutti i modi di fuggire.
Fermarci e affrontarli, era l’ultima cosa che ci passava per la testa.
La cosa buffa, è che io non ti riconobbi.

Quando ti sedesti vicino a me, su quei gradini, e mi offristi una sigaretta, io ti vidi solo come un ragazzo carino completamente fradicio che si nascondeva dietro un paio di occhiali da sole.

Non avevi niente a che vedere con l’Izzy dei Guns’n’Roses che conoscevo io, eri una persona come un’altra.
E forse fu proprio per questo che accettai quella sigaretta.

Perché se avessi saputo anche solo minimamente a cosa andavo in contro, è probabile che quel giorno sarei fuggita a gambe legate.

 

 
Can't believe how easily the silences can explain

Some things that always seem so hard to say

I can't believe how hard some things are to say
 

Sophia, I can’t believe the things I can’t believe.

 
 
 
LOS ANGELES, settembre 1987
“E così,” disse dopo un po’ il ragazzo, aspirando un avida boccata di fumo, “ti chiami Roxanne.”

La ragazza annuì, passandosi una mano sul viso per scostare qualche ciocca fradicia scivolatale sugli occhi scuri.
Soffiò fuori il fumo della Malboro che lui le aveva offerto e colse l’occasione per guardarlo di sbieco: per essere bello, era bello.

Nonostante la pioggia avesse inzuppato i suoi vestiti, sformandoli e appendendoli al profilo sporgente di una magrezza eccessiva, aveva in sé il fascino sfacciato di chi non ha riguardo per nessuno, e probabilmente neppure per se stesso.
Quel genere di bellezza sfrontata che tendeva ad evitare con diffidenza, consapevole del fascino che esercitava su di lei.
“Roxy, per gli amici,” aggiunse dopo qualche attimo, rigirando il mozzicone ancora acceso tra le dita con aria distratta, valutandolo silenziosamente. “E tu?”

Il ragazzo fece un sorriso sghembo – gli occhi ridenti dietro le lenti scure degli occhiali –, si concesse un altro tiro e poi le soffiò il fumo in faccia, assieme al suo nome.

“Izzy.”

“Come quello dei Guns,” osservò lei senza sorrisi, abbracciandosi le ginocchia con le braccia.

La felpa, ormai zuppa di acqua, era pesante quasi quanto il suo fardello di pensieri.
“Come quello dei Guns,” le fece da eco lui, regalandole un altro sorriso.
Roxanne si ritrovò ad arrossire, suo malgrado, sentendosi nuda davanti a degli occhi di cui non conosceva neppure il colore.
“E scommetto che magari suoni pure la chitarra.” commentò, cercando di mascherare il disagio dietro un velo ben fitto di sarcasmo tagliente.
“Ci puoi giurare, gioia.” le assicurò lui, con un tono di voce che le fece venire i brividi.
“Anche io.” chiuse gli occhi, reclinando il capo all’indietro.

Sentiva gocce di pioggia scivolarle lungo il collo e poi giù nella schiena.

Sentiva anche il suo sguardo bruciarle addosso, ma non intendeva ricambiarlo.
“E suoni pure in una band?” domandò Izzy, cercando di dare un senso che fossi almeno accettabile ai meccanismi di quell’attrazione che sentiva per quella taciturna ragazza del tutto incurante della pioggia battente.
Quando Roxanne tornò a guardarlo, cercò senza errore i suoi occhi con una sicurezza che lo intimorì. Era la sicurezza delle bestie feroci, che ti saltano alla gola per evitare che tu arrivi alla loro.
“Io no, ma conosco parecchi musicisti. Tu?”
 “Si, suono in una band. Magari...” s’interruppe, senza proseguire.
Rivelarle chi fosse veramente avrebbe sbilanciato a suo favore il sottile duello verbale che stavano combattendo, soppesandosi e valutandosi a vicenda sotto lo sguardo vigile di un temporale estivo cupo come le loro espressioni, greve quando i loro cuori.
Gli piaceva essere considerato esattamente per quel che era, piuttosto che per quel che sembrava essere su un palcoscenico o nelle righe di un’intervista da quattro soldi.
Gli piaceva essere esattamente chi era, senza i filtri luccicanti dello show.
“Magari se mi dici con chi suoni posso anche dirti se li conosco o meno, eh!” lamentò lei, aggrottando la fronte e lanciando via il mozzicone, condannandolo ad affondare in una pozzanghera melmosa ai suoi piedi.
Izzy rimase sorpreso.
Non perché non fosse stato riconosciuto, ma per il vago disinteresse di cui faceva sfoggio senza premure. L’assenza di curiosità trasformata in cortesia spiccia, il riserbo di chi chiede pur di non rivelare.
“Beh? Ti aspettavi che ti riconoscessi?” insistette lei, confermando quella che fino ad un istante prima non era che un’ipotesi appena abbozzata.
Izzy stiracchiò un sorriso sornione, sghembo.
Un taglio su un volto pallido che guizzò elettrico lungo la spina dorsale di lei, scuotendola in un brivido che finse solamente fosse dovuto alla troppa pioggia.
“Diciamo che mi aspettavo tante cose.” Ribatté con una stretta di spalle e un ammiccamento che la fece ritrarre. Aveva una risata sulla punta della lingua, e in punta di dita un formicolio che suggeriva l’urgenza fisica di scostarle i capelli scuri – bende d’ossidiana – dal volto sbiadito.
“Non sei di qui, vero?” le domandò invece, cacciando le mani nelle tasche sdrucite dei jeans che indossava e frugandole alla ricerca di una sigaretta.
Roxanne lo precedette, allungandogli quel che restava del suo pacchetto prima e sporgendosi per accendere poi.
I riflessi caldi della fiamma dell’accendino guizzarono per un attimo sulle minuscole gocce di pioggia che le ricoprivano il viso. Poi, una sottile nuvola di fumo amaro attutì ogni sua consapevolezza in un tonfo soffice.
“Neppure tu,” chiosò abilmente lei, “hai l’accento di qui. Da dove arrivi?”
“Indiana,” sputò fuori Izzy con un astio che credeva dimenticato “LaFayette. Una cazzo di città inutile dove non ho mai trovato niente di buono a parte… Bill.”
Tentennò impercettibilmente e la vide sorridere con delicatezza, distogliendo lo sguardo scuro come a concedergli un istante di riserbo privato.
“Il mio migliore amico,” dovette precisare.
“L’avevo immaginato,” lo rassicura tagliente nel tono, sfilando un sorriso e addolcendo i tratti del volto per il tempo di un battito di ciglia.
Perché il cuore, invece, quel battito l’ha perso per strada, incastrato da qualche parte nella curva delle labbra di lei.
“A giudicare da come te la ridevi, direi che invece avevi immaginato tutt’altro.”
“Non c’è niente di male nell’essere… diversi!”
“Diversi, si dice così qui?”
“No,” fece lei con durezza inaspettata, “si dice deviati nella migliore ipotesi, malati quando non si vuole accettare qualcosa che la natura considera del tutto naturale, e tutta una sequela ignobile di insulti che sono sicura non serva ripeterti.”
“Non sono… gay.”
“Decisamente no, sembri troppo vergine di insulti per esserlo davvero…” lo schernì pronta, la voce calda e abile nel mescolare serietà e sarcasmo sino a rendere troppo labile e confuso il confine tra verità e menzogna.
Quale che fosse la sua idea, Roxanne era straordinariamente brava a nasconderla.
Izzy la fissò in silenzio, soppesandola per l’ennesima volta e rinunciando ancora a capire cosa, di lei, lo attraesse con tanta insistenza.
Da sempre aveva un debole per le bambole bionde, non se lo era mai nascosto e mai si era negato il piacere di una lucida massa color del grano nell’intimità del suo letto; in altre circostanze non avrebbe mai attaccato bottone con quella ragazza che della bambola sciocca e superficiale non aveva proprio niente.

Non seppe trattenere l’impulso di andarle più vicino e chiuse gli occhi, mentre le scivolava incontro di qualche centimetro, pregando silenziosamente che non si scostasse.

Roxanne non fece nulla, continuando a fumare tranquillamente quella Malboro che sembrava non finire mai.

Tutto d’un tratto non aveva più nulla da dire.
Un enorme buco nero gli aveva risucchiato ogni pensiero, ogni idea, qualsiasi cosa.

Al centro della sua testa c’era solo lei.

“Roxy,” la chiamò dopo qualche attimo, mentre il fumo le scappava dalle labbra socchiuse.

“Mh?” gli scoccò un’occhiata pigra, gli occhi socchiusi in due fessure d’indifferente oscurità.
“Perché te ne stai seduta sui gradini di una chiesta, sotto la pioggia?”
“Per lo stesso motivo per cui ci stai tu.” rispose riaprendo gli occhi su di lui e allungando una mano verso il suo viso, dove le dita indugiarono tra la sua guancia e i suoi occhiali, prima di chiudersi a pugno e allontanarsi, senza sfiorare nulla.

“Cioè?” insistette, afferrando quella mano prima che andasse a nascondersi tra le larghe pieghe fradice della felpa.

Lo lasciò fare, osservandolo schiuderle le dita bagnate e lasciar scivolare i polpastrelli sul palmo.
Trattenne un brivido, ma perse la presa sulla sua riservatezza cedendo al bisogno fisico di condivisione che le bruciava il basso ventre con intensità insostenibile.
“Scappo.” capitolò, ritraendo la mano.
Le piaceva il modo che aveva di toccarla – di esplorarla, come, un centimetro di pelle alla volta -, ma non poteva permettersi di lusso di un abbandono totale.
Cosa avrebbe preteso, una volta scoperto ogni palmo di pelle?
Quanto a fondo sarebbe andato?

Non lo conosceva, ma aveva come l’impressione che se non fosse stata attenta abbastanza si sarebbe radicato in lei come un male incurabile, o una gioia irrefrenabile, così a fondo che dimenticarlo o sfuggirgli sarebbe stato impossibile.
Eppure non riusciva a fare a meno di guardarlo.

Di percorrere ogni singolo centimetro del suo viso pallido con gli occhi.

Smaniava per potergli togliere quegli occhiali da sole, ma non aveva il coraggio di farlo, temendo che non sarebbe stata in grado di fermarsi e toglierli solo quelli.

Vederlo e volerlo erano le stesse facce di un unico istinto, lo realizzò con chiarezza quando fu Izzy a raccogliere il suo polso tra le dita e trattenerlo con dolcezza.
Fece per ritrarsi, ma sussultò mentre la stretta si faceva leggermente più intensa, invitandola a rimanere.
“Scappi da cosa, Roxanne?”
A concedersi.
“Te lo dico se dici a me perché tu stai scappando” replicò sulla difensiva, diffidente.

Erano troppe le emozioni che le si aggrovigliavano dentro, e non era sicura di saperle gestire senza esserne sopraffatta. Le aveva credute addormentate troppo a lungo, sopite in attesa di qualcuno o qualcosa che valesse la pena il loro ardente consumarsi in silenzio.
Izzy inspirò a fondo, mentre lei si liberava di una sigaretta fumata lentamente, come se il tempo fosse solo una costante relativa.

Da cosa stesse scappando, non lo sapeva nemmeno lui.

Si era svegliato qualche ora prima, aveva dormito per buona parte della mattinata, in una stanza che non era stato in grado di riconoscere ma il cui disordine era famigliare: bottiglie vuote abbandonate sul pavimento, tra valige piene a metà e vestiti abbandonati come stracci sulla moquette; costellazioni di specchietti su cui rimanevano leggere tracce bianche delle piste che si erano fatti la notte prima, un inconfondibile odore di tabacco, erba e birra che non gli dava più nemmeno fastidio.

Aveva aperto gli occhi e pioveva.

Quell’enorme temporale continuava a ringhiare nel cielo, nonostante urlasse da giorni, la sua impietosa luce grigia aveva illuminato l’intero mosaico del suo squallore e riportato alla mente il sole mite di LaFayette e la purezza del bambino che era stato, la stessa che un adolescente aveva goffamente taciuto sino a diventare un giovane uomo ormai corrotto dalla sua stessa sporcizia.
Ricordava solo l’impulso di andarsene via, di corsa, fuori da quella stanza.
Senza avvertire nessuno, aveva vagato per ore per le strade della città deserte, incurante dell’acqua, degli sguardi, dei commenti.

Aveva fumato, seguendo i suoi pensieri che avevano la stessa opalescente consistenza del fumo che lasciava la sua bocca.

E poi l’aveva vista.

Era arrivata con calma, camminando sotto la pioggia con gli occhi socchiusi.

Si era seduta qualche gradino più in basso, all’ombra imponente di quella chiesa, ed era rimasta immobile a guardare le macchine scorrere nelle strade.
Chiederle come si chiamasse, gli era sembrato naturale quasi quanto offrirle una sigaretta.

E ora erano lì, uno accanto all’altro, talmente vicini che potevano sfiorarsi, potevano ascoltare i loro respiri mescolarsi al chiasso ovattato della metropoli.

“Scappo dai miei fantasmi.” Ammise alla fine, distogliendo brevemente lo sguardo.

Roxanne allungò le gambe davanti a sé, sfiorando con gli occhi le cuciture sdrucite e gli strappi che lasciavano intravedere piccole porzioni di pelle in mezzo ad un mar azzurro chiaro.

“Tu?” chiese di rimando, forzando le barriere del silenzio altrui per costringerla a rivelarsi a sua volta. Le rese il polso, rifuggendo il calore che dalla pelle di lui si raccontava a lui, denso di segreti alla stessa maniera dello sguardo scuro che lo trafiggeva inmpietoso.
“Scappo da una vita che non mi piace” mormorò la ragazza, il tono leggero di chi  racconta sciocchezze di poco conto.
Tornò a calare una coltre di silenzio viscoso, elettrica della tensione che inchiodava entrambi sulla pietra sporca della gradinata oltre ogni buon senso.
“Non male come inizio, ti pare?”
“Inizio di cosa? Stiamo solo parlando.”
Izzy si concesse una risata, bassa e vibrante, reclinando il capo all’indietro in gesto che sembrava tanto una resa quanto una pacata accettazione di un inevitabile non ancora del tutto compreso.
Evidentemente si era sbagliato.

Aveva avuto come l’impressione di un qualcosa di indefinito, tra loro due, un implicito che con un po’ di pazienza avrebbe potuto sperare di fiorire in un di più.
Qualcosa che fosse diverso dallo squallore di una sveltina da niente in un vicolo buio, qualcosa che potesse resistere alla pochezza delle due giornate annebbiate, qualcosa che valesse la pena sognare e sperare.
Ma si conosceva, era buono solo di rovinare ogni cosa buona gli capitasse sotto al naso.
Lo aveva fatto con Desi, sacrificata in nome del contratto che lo aveva reso celebre.
Perché con una sconosciuta dagli occhi bui le cose avrebbero dovuto piegarsi su percorsi inesplorati?
Fu per questo che rimase completamente spiazzato quando sentì le labbra della ragazza premere dolcemente sulle sue.

Un bacio dalla dolcezza dolorosa, un parlarli labbra contro labbra talmente innocente che sentì gli occhi pizzicare dietro le lenti scure degli occhiali.
“Adesso, se vuoi, puoi parlare di inizio,” bisbigliò con le ciglia serrate, “perché solo un bacio segna davvero qualcosa tra due persone.”
Sapeva di pioggia, e tabacco. Sentiva il suo sapore indugiare al confine della sua bocca, così vicino da invogliarlo a raccoglierlo con la lingua, ma sapeva che se l’avesse fatto poi ne avrebbe sentito la mancanza e la fame l’avrebbe distrutto.
“E davvero vuoi che qualcosa inizi?”
“Perché, tu no?”
Roxanne si ritrasse con un movimento brusco, gocciolando acqua che si perse nello scroscio costante della pioggia.
Da qualche parte, in lontananza sullo skyline, un tuono brontolò di ire celesti. Lì, nel ventre della città, Izzy protese una mano verso il suo volto per rabbonirne i tratti tesi in un moto di fastidio.
Aveva la pelle calda, e morbida; e il volto nato per incastrarsi nella curva del suo palmo senza fatica.
“Perché pensi non lo voglia?”
“E allora perché me lo chiedi?”
“Perché stiamo giocando al gioco dei perché?”
Si sorrisero sbiechi, timidi, scoperti.
“Non hai paura possa essere un errore?” riprese lui dopo un istante speso ad imparare la filigrana del viso di Roxanne, rimasta impressa nelle linee dove era segnato tutto il suo destino.
“Dai per scontato che lo sarà?” la sentì ringhiare a denti stretti, gli occhi serrati in due fessure improvvisamente gelide.
Tremava, al punto che dovette scostarsi per non rivelare più di quanto non avesse già svelato.
Lui le piaceva, le piaceva e lo sentiva dove non aveva mai sentito nessuno per troppo tempo: sotto la pelle, nelle vene. Nel palpitare inquieto del cuore che ora le correva disperato in petto, cercando come di sfondare la gabbia di costole che lo condannavano eterno prigioniero.
“Quindi perché rischiare, se deve essere un errore? Perché fare quel passo in più quando è così comodo fumare sigarette su sigarette sotto la pioggia e ignorare di voler fare ben altro?”
“Perché, cosa vorresti fare?”
“Farti smettere con tutti questi perché, ad esempio, potrebbe essere un buon punto di partenza.” sibilò acida, incrociando le braccia al petto in un segno di chiusura che non era difficile cogliere.
Izzy si morse le labbra, non perché non sapesse cosa dire ma per rubare quel che la pioggia ancora non aveva lavato via, i rimasugli di un bacio che gli corse lungo la gola in un desiderio ardente.
“Hai da fare, stasera?” si sentì chiedere prima ancora di realizzare quanto stava facendo.
Lei alzò gli occhi su di lui, poco più che incredula.

“Eh?”

"Hai da fare, questa sera?”
“Ovvia che si. C’è il concerto dei Guns.”

“Bene,” sorrise Izzy, prendendole il mento tra le dita, “allora ci vediamo lì.”

Lei scoppiò a ridere, senza ritrarsi né perderlo di vista.
“Hai idea di quanta gente ci sarà? Tu sei completamente pazzo se pensi che ci incontreremo lì, è praticamente impossibile!”

Lo vide scrollare le spalle con quello che interpretò come disprezzo del fato.

“Tu fai in modo di trovarti alla destra estrema del palco, vicino alla transenna.” le ordinò, scostandole i capelli fradici dal viso con una carezza, “ti troverò io. D’accordo?”

Lei sbattè le palpebre un paio di volte, le ciglia imperlate di gocce di pioggia.

“D’accordo...” accettò, scettica.

Il viso di Izzy si accese di un nuovo sorrido – morbido -, mentre si chinava a darle un bacio che si veloce e dolce non aveva nulla.

Si gettò sulle sue labbra con la stessa veemenza e irruenza di un assetato, suggerendo più un bisogno che non un capriccio, raccontando alla sua lingua ogni singolo grammo di desiderio covasse in petto.

Quando si separò da lei, premette la fronte contro la sua e si rialzò con un movimento goffo, le gambe rigide e doloranti.
Roxanne invece rimase lì, imbambolata, con le dita posate sulle labbra, per qualche minuto del tutto incapace di muoversi.

Quel bacio le aveva strappato ogni pensiero dalla testa, lasciandola galleggiare su una nuvola di nulla.

Quando finalmente tornò in grado di formulare un pensiero coerente, realizzò che non vedeva l’ora arrivasse quella sera per vedere di nuovo quello strano ragazzo.
 

 
PARLA ROXANNE:
Fu dopo quel bacio che capii che con Tom era tutto finito.

Erano bastate le tue labbra avide, il tuo sapore intenso di tabacco e solitudine, le tue mani calde e la tua voce a cancellare cinque mesi di una storia faticosamente costruita passo dopo passo.

Quando arrivai a casa, quel pomeriggio, non avevo altro che te nella testa.

Fantasticavo su chi tu potessi realmente essere, sulla tua vita, sui tuoi amici: l’idea che fossi Izzy Stradlin non mi sfiorava nemmeno per sbaglio.

Mi trascinai attraverso le ore nutrendo i miei sogni ad occhi aperti con piccoli dettagli di quel pomeriggio appena passato, ignorai il resto del mondo e sorrisi come una povera idiota per tutto il tempo, senza riuscire ad abbassare gli angoli delle mie labbra.
Mi sentivo come una liceale al suo primo amore, del tutto incapace di essere razionale.

Io però non volevo essere razionale.

Io volevo essere con te.

Ovunque tu fossi, qualsiasi cosa tu stessi facendo.

Ero succube del tuo ricordo e mi domandavo se fosse lo stesso per te.

Ma ero felice.

Ero davvero felice.

E adesso che gli anni sono passati, che le cose sono cambiate, mi rendo conto che forse la mia vita, la tua vita, sarebbe stata diversa se le cose avessero preso una piega diversa.

Se io non ti avessi baciato, se tu non mi avessi offerto quella famosa sigaretta.

Forse ci saremmo risparmiati tante cose, forse saremmo stati persone diversi.

Ma non sarebbe stata la stessa cosa.

   
 
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