Will you be my One Less Lonely Girl?

di 31luglio
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno. ***
Capitolo 2: *** Capitolo due. ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre. ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro. ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque. ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei. ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette. ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto. ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove. ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci. ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici. ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici. ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici. ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici. ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindici. ***
Capitolo 16: *** Capitolo sedici. ***
Capitolo 17: *** Capitolo diciassette. ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciotto. ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciannove. ***
Capitolo 20: *** Capitolo venti. ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno. ***


Capitolo uno
 
«I close my eyes and… pray». Justin finì di cantare la sua canzone preferita, ‘Pray’. Lanciò uno sguardo al pubblico del Madison Square Garden. Come sempre, era formato maggiormente da ragazze, erano sempre poche migliaia i maschi presenti ai suoi concerti. Non che si lamentasse, per carità, era così bello vedere così tante ragazze che piangevano dalla felicità, o che cantavano e ballavano e saltavano con lui. Però non riusciva a capire come mai tanti ragazzi lo odiavano. Lui non aveva fatto nulla di male! Aveva seguito il suo sogno fin da piccolo e, alla fine, si era avverato. Cercava di non pensare spesso ai numerosi haters-di-Justin-Bieber, ma non ci riusciva. Era fiero delle sue Beliebers e dei Bieberboys, ma la maggior parte delle sue preghiere andavano alle persone che lo insultavano, o che gli dicevano cose cattive.
Da quando aveva lasciato Selena, poche settimane prima, la vita era tornata a sorridergli. Con quella ragazza si era trovato bene solo all’inizio della loro storia, durata otto mesi, ma allo scoperto solo da sei. Le prime settimane erano state stupende: baci, coccole, sesso. Qualcuno con cui divertirsi, insomma. Lei non era niente di più che una collega e un’amica e avevano fatto tutto di nascosto. Però, poi, dopo otto settimane, lei non aveva fatto giri di parole. Voleva pubblicità e l’avrebbe avuta tramite lui. Aveva fatto fare un apposito contratto, di otto mesi. Conclusi gli otto mesi, l’avrebbe rinnovato. Da quando aveva firmato quel contratto era stato suo schiavo. ‘Justin, baciami’, ‘Justin, dì che mi ami’, ‘Justin, prendimi per mano e sorridi’, erano frasi ripetute a intervalli regolari di cinque minuti. Justin aveva cominciato ad odiare Selena. Aveva cominciato a volere una vera fidanzata, qualcuna con cui si trovasse davvero bene e ancora non l’aveva trovata. Almeno, però, ora era single e lo sapevano tutti. Aveva rotto con Selena tre settimane prima, a casa di lei. Le aveva urlato in faccia che non voleva più avere niente a che fare con lei, mentre i suoi occhi marroni lo guardavano inespressivi. Finito di farle la sfuriata, aveva anche sbuffato, come per dire ‘smetti di farmi perdere tempo’, poi aveva alzato le spalle e l’aveva accompagnato con indifferenza alla porta, salutandolo con un ‘Ciao, Bieber’.
Lanciò un’ultima occhiata al pubblico, prima di intonare One Less Lonely Girl. Chissà come sarebbe stata la nuova ragazza, si chiese. Aveva già fatto un tour, e in ogni concerto la sua troupe cercava tra il pubblico una ragazza, che diventava la OLLG. Lui le regalava i fiori, la abbracciava e cantava per lei. Era la sua parte preferita dello show, rendere felice una delle sue tante fans. Cantò la canzone, più impaziente del solito di scoprire la nuova ragazza.
Circa a metà della canzone entrò la fanciulla: vestita con un paio di shorts di jeans e una canottiera bianca e lunga con scritto in mezzo ‘Peace’ in grande, in azzurro. Justin la notò subito perché era diversa dalle altre. Non portava nulla di viola, il suo colore preferito, né Supra, le sue scarpe preferite, non aveva scritto da nessuna parte ‘Bieber’ o qualcosa che c’entrasse. E non stava piangendo, urlando, tremando. Anzi, sembrava avesse un’espressione… scocciata? Ci avrebbe giurato.
Il diciassettenne la guardò mentre si sedeva: aveva le gambe lunghe, il fisico slanciato, capelli lunghi, leggermente mossi e di un colore castano chiaro, tendente al biondo. Justin le si avvicinò piano, come per non volerla disturbare. Prese i fiori dalle mani dell’abituale ballerino che glieli porgeva e, ringraziandolo con un leggero movimento delle labbra, si diresse verso la ragazza. Quando le porse le rose, lei le prese, tranquilla. Non aveva mai visto una One Less Lonely Girl come lei. Sembrava completamente indifferente a lui e i suoi occhi verdi non lasciavano trasparire un filo di emozione.
Finita la canzone, prima che la ragazza lasciasse il palco, scostandosi il microfono dalla bocca, le chiese: «Come ti chiami?».
«Abigail», fu la risposta.
«Okay, Abigail, dopo il concerto torna qui, per favore. Porta anche la tua amica, deduco che tu non sia qui da sola.»
Lei annuì seria, poi abbandonò il palco con in mano il mazzo di rose rosse. Justin si rese conto che quella sera, durante quella canzone, aveva dato il meglio di sé, per quella ragazza, quella strana Abigail. Voleva farsi piacere a tutti i costi, ancora di più di quanto già le piacesse. Perché lei era una Belieber… Vero?

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Capitolo 2
*** Capitolo due. ***


Capitolo due
 
A fine concerto, Justin informò il suo staff di non far uscire la OLLG e l’amica, e le attese nella stanza-relax del backstage. Quando fecero capolino dalla porta di mogano verniciata di bianco, Justin era seduto su / affondato dentro una poltroncina ‘puff’ di colore rosso acceso. Impiegò qualche secondo per alzarsi, poi andò incontro alle due ragazze. L’amica di Abigail era meno magra e più bassa di lei, ma era carina. Aveva i capelli lisci, lunghi fino alle spalle e neri, e gli occhi erano di un azzurro cristallino, che diventava scuro avvicinandosi alla pupilla. Lasciavano trasparire la tanta emozione della ragazza, che aveva un sorriso che andava quasi da un orecchio all’altro. Portava una canottiera lunga e viola, con scritto, probabilmente con un pennarello indelebile, ‘Bieber is my fever’, un paio di shorts di jeans neri e le Supra, anch’esse viola.
«Salve, ragazze», le salutò Justin, sorridendo.
«Hey», rispose di rimando Abigail. Il suo tono di voce era più indifferente di quello usato sul palco.
La sua amica le diede una leggera gomitata sul fianco e, timidamente, sorrise al diciassettenne. «Ciao».
«Io sono Justin, lei è Abigail, e tu sei…?»
«Mi chiamo Sheila, piacere», si presentò l’amica, porgendogli la mano.
Justin la strinse. «Piacere mio, Sheila. Vi è piaciuto il concerto?».
«Eh», esordì Abigail.
Sheila la colpì nuovamente. «Sì, ci è piaciuto molto», rispose lei, per tutte e due, sperando che il cantante non avesse sentito la risposta maleducata dell’amica.
Il cuore di Justin era, però, dolorante. Aveva sentito, eccome. E non era triste solo perché Abigail era una sua hater, ormai l’aveva capito, ma c’era dell’altro… Era quasi sicuro di essersene innamorato. E questo era un bel problema, perché se lei lo odiava non si sarebbe mai innamorata di lui.
«Grazie», disse. «Dove abitate?»
«A Stratford, esattamente come te. Siamo vicini», sorrise Sheila.
Gli occhi del ragazzo si illuminarono e ringraziò mentalmente il Signore. «Oh, che coincidenza. Potremmo diventare amici!», scherzò.
«Speriamo».
«Ditemi, quanti anni avete?», chiese, affondando nuovamente nel puff rosso, e facendo segno con la mano alle ragazze di accomodarsi dove volevano e di servirsi pure. In effetti, la stanza del dopo-concerto era provvista di altri quattro puff, tutti di diversi colori e di due divanetti da tre posti ciascuno, di pelle bianca. Lungo le pareti stavano dei tavolini con sopra bibite di tutti i tipi e vassoi pieni di popcorn, pasticcini, caramelle, patatine, pizzette e salatini. Justin amava rifugiarsi in quella stanza, che tutte le arene avevano, per un’oretta abbondante e mangiare, bere, giocare.
«Io ho sedici anni», disse Abigail, «lei ne ha quindici», concluse, indicando Sheila. Sembravano entrambe più rilassate ora, una dentro un puff azzurro e con a fianco un piattino pieno di pizzette e l’altra dentro uno verde, tutta impegnata a mangiare patatine. Abigail prese una pizzetta e la addentò con cura, come se non volesse farle male.
Il giovane annuì. Trascorsero un’altra ora e mezza così, a parlottare del più e del meno. Justin scoprì che il colore favorito di Abigail era l’azzurro, mentre quello dell’amica era il giallo, i loro cibi preferiti erano rispettivamente le patatine fritte e la pizza. Entrambe adoravano viaggiare. Sheila era stata in gran parte dell’Italia, in Giappone e in Gran Bretagna; l’altra aveva visitato la Germania, la California e l’Australia. E, ovviamente, New York.
Prima che le due ragazze lasciassero la stanza e di conseguenza il Madison Square Garden, si scambiarono i numeri di telefono e Justin fece promettere ad entrambe di non dare mai a nessuno il suo. Poi fece un autografo a Sheila e le lasciò tornare a casa, a Stratford, con l’aereo che sarebbe partito di lì a due ore. Anche lui sarebbe tornato a casa, e ci sarebbe restato per qualche mese. Quando sua madre gli aveva chiesto se voleva andare da qualche parte in vacanza, lui aveva risposto di no: voleva passare del tempo nel posto che lui chiamava casa.
«Justin, andiamo? Tra poco partiamo», lo avvisò la sua mamma. La amava: era rimasta incinta di lui a diciotto anni, e quando lui aveva dieci mesi si era separata. Da lì fino ad ora, lo aveva cresciuto lei da sola, con tanta pazienza. Il ragazzo sapeva di essere un terremoto, ma non riusciva a fermarsi.
«Sì, arrivo, mamma. Però devo preparare la valigia…»
Lei sorrise. «Già fatto, tesoro».
Lui si alzò. Entrò nell’atrio e prese le borse-frigo. Circa dal terzo concerto che aveva fatto, il suo staff gli preparava quattro borse-frigo per permettergli di prendere tutte le calorie rimanenti poggiate sui tavolini della stanza-relax e portarle a casa, o mangiarle durante il viaggio. Le riempì con calma, sapendo che l’aereo sarebbe partito tre ore più tardi. Sua madre lo chiama con largo anticipo per non mettergli fretta.
Finite di preparare le provviste, le caricò sul pullman che l’avrebbe portato all’aeroporto e salì. Tutto lo staff e sua madre lo stavano aspettando da svariate decine di minuti. Justin si lasciò cadere sulla sua poltroncina abituale del pullman, abbandonandosi ai pensieri. Come mai Abigail non lo sopportava? Dopo i primi minuti di tensione si era rilassata, certo, ma aveva detto chiaramente che non sarebbe mai stata sua fan, a circa metà della conversazione. Doveva scoprirlo, a tutti i costi. 

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Capitolo 3
*** Capitolo tre. ***


Capitolo tre
 
La mattina seguente, Justin si svegliò nel suo letto. Ricordava poco di quello che era successo da quando era salito sul pullman, a causa della troppa stanchezza. Lanciò uno sguardo all’orologio attaccato alla parete: le undici. Scese le scale che portavano alla sala, la attraversò e si fermò in cucina, davanti al frigo. Sua madre attaccava sempre i biglietti lì, perché era sicura che li avrebbe letti. Anche oggi, come la maggior parte dei giorni, c’era un pezzettino di carta attaccato. ‘Ciao Justin, sarò fuori tutto il giorno per via del lavoro, tesoro, scusami. Ci vediamo stasera, ti chiamo appena ho un attimo di pausa. Fai il bravo :p Ti voglio bene, mamma’. Il ragazzo sorrise. Aprì il frigorifero e afferrò il cartone del latte, poi prese una tazza da uno dei mobiletti grigi sopra i fornelli, un cucchiaio da un cassetto e i cereali dalla credenza. Tornò in sala, si sedette per terra e riempì la tazza con i cornflakes. Poi accese la tv e la sintonizzò su Cartoon Network: la ‘mattina’ i cartoni animati erano d’obbligo. Prese in mano il telefono, indeciso sul scrivere ad Abigail o meno. Da una parte voleva scoprire cosa aveva contro di lui, dall’altra aveva paura. Sì, paura, paura di scoprire che aveva sbagliato qualcosa, paura di essere dalla parte del torto. Sapeva di non aver fatto sempre tutto perfetto, ma non aveva mai sopportato la realtà sputata in faccia. Lo faceva stare male. Ma doveva lottare, per quella ragazza, no?
«Abigail, possiamo vederci? Devo parlarti. Justin», digitò i tasti del suo iPhone così velocemente che non gli sembrò vero, senza nemmeno mancare una lettera o un segno. Non gli era mai successo. Inviò, appoggiando il telefono di fianco a sé e continuando a mangiare.
La risposta arrivò pochi minuti dopo: «Ehm… Okay, porto anche Sheila?».
«No, solo io e te, per piacere».
«Mh, va bene. Solo se mi prepari un buon pranzo però, sono le undici e mezzo e intuisco che non mi libererò presto di te! A tra poco, Bieber».
Justin guardò lo schermo del cellulare con il cuore che gli batteva all’impazzata. Aveva accettato. Stava venendo lì. Non aveva ancora finito di mangiare. Non erano ancora finiti i cartoni animati mattutini. Era a petto nudo. Non sapeva cucinare, se non un piatto di pasta. Abigail. Abigail. Abigail.
Decise che per un giorno avrebbe fatto a meno dei cartoni. Ingurgitò i cereali in pochi bocconi e bevve il latte in un sorso solo. Sparecchiò il tutto in poco tempo e corse in camera a vestirsi, subito dopo essersi dato una sciacquata: t-shirt nera aderente, jeans grigi che cadevano e Supra, non viola, ma nere.
Scese le scale appena in tempo, un secondo prima che la ragazza suonasse. Aprì la porta e se la ritrovò a pochi centimetri di distanza: i suoi capelli castani erano stati piastrati e raccolti in una coda di cavallo, gli occhi verdi apparivano più limpidi, più vivi ed erano contornati da un sottile strato di matita nera, le ciglia ripassate dal mascara. Aveva un sorriso appena accennato e non la solita espressione scocciata. Portava un paio di jeans a sigaretta e una canottiera verde, accompagnati dalle sue immancabili converse, verdi anch’esse.
Justin si morse le labbra. «Buongiorno», la salutò, mangiandosela con gli occhi. La canottiera le risaltava le curve e gli faceva venire voglia di strappargliela… ‘No, Justin’, pensò, tra sé e se, ‘Niente pensieri hot. E poi lei ti odia’.
«Bieber, che dici, mi fai entrare? Tanto, anche se continui a fissarmi così, con me non attacca. Lo sai che non ti sopporto», tagliò corto la ragazza.
Lui si spostò dalla soglia per farla entrare, poi chiuse la porta e la seguì, mentre lei esplorava la casa. Sembrava una bambina che aveva appena scoperto qualcosa di nuovo. Abigail si fermò, arrivata in camera di Justin. Al ragazzo sembrò quasi che lei stesse trattenendo il respiro, mentre guardava attentamente ogni cosa presente nella stanza.
Dopo aver esaminato tutto si buttò soddisfatta sul letto. Prima che arrivasse, Justin aveva avuto il tempo di riordinarlo, per fortuna.
Il ragazzo si accomodò sulla sedia girevole viola alla scrivania. La guardò, con il cuore che batteva. Aveva un’espressione rilassata. Stava guardando il soffitto con gli occhi socchiusi, le ginocchia piegate verso l’alto.
Poco dopo si alzò, mettendosi a sedere. «Allora, che volevi dirmi, Bieber?».
Lui la fulminò con gli occhi. «Per prima cosa, evita di chiamarmi per cognome».
«Ci sono problemi, forse?», chiese lei, con aria di sfida.
Justin sospirò. Perché era così dannatamente bella, e così dannatamente stronza? «Evita e basta, per favore».
La ragazza fece spallucce. «Allora, Justin», iniziò, marcando il nome del ragazzo, «di che volevi parlarmi?», chiese, acida.
Il ragazzo prese fiato. «Volevo sapere perché mi odi».
«Così», tagliò corto.
Lui si alzò dalla sedia girevole ed andò a sedersi vicino a lei. «Non è vero», disse, guardandola negli occhi. «C’è un motivo, lo so. E so anche che, prima di odiarmi, eri mia fan».
«Come lo sai?», chiese, con il respiro mozzato.
Lui le prese una mano. «Bisogna amare qualcosa o qualcuno, prima di poter odiarlo.»

 

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro. ***


Capitolo quattro
 
La ragazza restò per un momento immobilizzata da quella frase e dal tocco di Justin. Poi si schiarì la voce. «Stammi lontano», ringhiò.
Il ragazzo la lasciò e tornò a sedersi sulla sedia girevole. «Allora, Taylor?», la incoraggiò lui, chiamandola per cognome. «Sto aspettando».
Lei gli puntò un dito contro. «Justin Drew Bieber, nato a Stratford il primo marzo del ’94 a mezzanotte e cinquantasei da Patricia Lynn Mallette che aveva solo diciott’anni e Jeremy Jack Bieber, non azzardarti mai più a chiamarmi per cognome!», urlò, alzandosi dal letto ed arrivandogli a due centimetri dal viso.
Lui rise, divertito. «Ti dà così fastidio?».
«Vedi il mio dito?», gli chiese, infastidita, agitandoglielo davanti al naso. «Te lo ficco in un occhio, hai capito bene?».
«Abigail, Dio, ci tengo al mio occhio», le rispose, alzandosi dalla sedia. «Dopotutto, non ci tieni anche tu, al mio occhio color mieeele?», chiese, con voce sensuale, a meno di un centimetro da lei. Sì, stava decisamente cercando di provocarla. Le abbassò il dito.
«Justin, me ne vado ora», lo minacciò.
Sul suo viso apparve un’espressione innocente. «Perché? Sei tu che non mi vuoi dire perché mi odi, mi pare.»
La ragazza lo spinse, facendolo andare a sbattere contro l’armadio, poi si sedette sul letto. «Sei un idiota!», gli gridò, sul punto di piangere. «Ecco perché ti odio, perché sei un cretino!». Si asciugò le lacrime con il dorso della mano e alzò lo sguardo. «Sono stata una Belieber da sempre, ho visto il tuo primo video, la cover With You di Chris Brown, era il 15 febbraio 2008, cinque giorni dopo il suo caricamento e non ho mai dubitato del tuo talento. È uscita One Time, il primo singolo di My World, ed ero sempre più orgogliosa di te, il ragazzo conosciuto come Justin Bieber. Ogni volta che qualcuno ti attaccava su Internet, io ti difendevo. All’inizio le tue fan erano poche, quindi gli haters prevalevano, ma noi davamo loro del filo da torcere ugualmente. Hai fatto tutti i video, sei diventato famoso, sono iniziati i concerti, quello al Madison Square Garden la prima volta, dove hai fatto il duetto con Miley… ed è arrivata lei, la ragazza che ti ha rovinato, l’unica ragazza che odio davvero: Selena Gomez». Pronunciò quel nome con tanta rabbia. «Justin, quella ti ha rovinato! Ti sei messo con lei e da lì sono iniziati i casini. È inutile che scrivi su Twitter che sei ancora Kidrauhl, non è vero, va bene? Lo sappiamo tutti! Tutti l’abbiamo notato, non sei più il ragazzo sempre gentile con le fan, non sei più il ragazzo che non nega autografi o foto a nessuno. Sei diventato Mr. Justin Bieber, Mr. Inchinatevi-Tutti-A-Me. Io ti amavo, Justin. Tu eri tutto per me. Sì, hai capito bene, ti amavo sul serio. E quando è arrivata lei, quando hai cominciato a fare il maleducato e a rispondere male, mi sono sentita tanto delusa da te, dal ragazzo che era tutta la mia vita. Perciò mi sono ripromessa di dimenticarti, di dimenticare il Kidrauhl e di odiare Mr. Bieber. E ora ti odio, odio te e il tuo ego!». Ora la ragazza stava piangendo, sì, piangendo davvero.
Lui la costrinse ad alzarsi e la prese tra le sue braccia. «Non sono più così, Abigail. Non esiste più Selena, ci siamo solo io ed il mio cervello. Non obbedisco più a lei», le sussurrò, cullandola leggermente.
«Il fatto è che è facile da dire, ma meno da dimostrare», ribatté la ragazza, affondata nel petto di Justin.
«Se mi dessi l’opportunità lo farei. Smetti di respingermi, Abigail».
La ragazza lo guardò negli occhi, annuendo. «Lo prometto».

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Capitolo 5
*** Capitolo cinque. ***


Capitolo cinque
 
Sabato sera, quasi due mesi dopo la visita di Abigail, Justin stava sdraiato sul letto sul quale, poche settimane prima, era stata la ragazza che amava. Dopo la sua promessa, lui le aveva cucinato gli spaghetti. Erano stati decisamente i migliori spaghetti della storia… Okay, magari no: erano diventati un pastone e Justin aveva dovuto buttarli via, sotto lo sguardo divertito di Abigail. Aveva dovuto ordinare due pizze che avevano divorato in sala, sul divano. Non avevano acceso la tv, perché il silenzio era occupato dal parlare.
Nelle settimane si erano visti regolarmente, a volte con Sheila, a volte no. Ad ogni modo, ogni volta era Abigail, sola o accompagnata che fosse, che andava da lui. Non era ancora mai successo una volta che il ragazzo andasse da lei, a causa dei paparazzi. Una volta avevano sgamato la ragazza che si dirigeva a casa sua, avevano cercato di farle delle domande e l’avevano fotografata. Non le era piaciuto particolarmente, e lui lo sapeva, anche se lei non lo avrebbe mai detto.
Justin fissava il soffitto, quel sabato, cercando qualcosa da fare. Sua madre aveva una cena di lavoro, suo padre, beh… Lui era con i suoi figli e sua moglie, probabilmente a casa sua.
Esattamente mentre si alzava dal letto, il campanello suonò. Quale essere umano poteva suonare a casa sua, di sabato sera, in gennaio? In quel periodo, in teoria, in Canada, la gente il sabato sera se ne stava a casa. A casa propria, si intende! O per lo più, andava alle feste. Era occupata. Non andava da lui. Soprattutto a mezzanotte.
Justin aprì la porta. «Ciao Ab-WOW». Abigail era sulla soglia della porta e agli occhi del ragazzo appariva ancora più bella. Portava un vestitino a motivo scozzese blu, azzurro e bianco piuttosto corto e un paio di scarpe modello ‘banana’ firmate Christian Louboutin blu con tacco 10, aperte sul davanti. Gli occhi erano contornati di uno spesso strato di eye-liner blu e le ciglia allungate da parecchie passate di mascara. I capelli mossi le cadevano ordinati lungo la schiena e un piccolo boccolo le scendeva sul viso.
«Justin…», cominciò lei, una volta entrata in casa, seduta sul divano. «Justin, un tipo ha cercato di violentarmi», sussurrò, con gli occhi lucidi.
«Cosa?», urlò. Aveva sentito male, doveva aver sentito male. Nessuno poteva violentare, o anche solo toccare la sua Abigail. Nemmeno lontanamente. Pena: Justin Bieber incazzato. Un Justin Bieber che era meglio non vedere.
«Ti giuro, mi dispiace, non volevo. Non volevo che lo sapessi, ma sei l’unico che c’è per me… Dio, Justin, ho paura», disse. Piangeva, piangeva e tremava.
«Abigail, ascoltami». Le andò vicino e le alzò il mento. «Ci sono qui io, okay? Non preoccuparti. Ti sono vicino. Vuoi raccontarmi?» La prese tra le braccia, di nuovo.
Lei annuì debolmente. «Ero a una festa, no? Poi arriva questo tizio, non so nemmeno chi sia, che comincia a toccarmi. E io mi divincolavo, ma lui non mi lasciava andare. Dio, Justin, è stato orribile… Mi ha presa per un braccio e mi ha portata in bagno, e ha cercato di spogliarmi».
Il ragazzo la strinse a sé. «Stai tranquilla, okay?». Le accarezzò i capelli. «Nessuno ti farà mai del male, ci sono io ora».
«Non voglio andare a casa, stanotte, ti prego. Non voglio stare da sola, per favore, fammi restare qui. Ho bisogno di te».
Justin la guardò, stringendola ancora di più. «Non devi nemmeno chiederlo», sorrise. «Vieni, andiamo su».
La prese per mano, conducendola in camera sua.

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Capitolo 6
*** Capitolo sei. ***


Capitolo sei
 
Una volta in camera, la fece sedere sul letto e lui si diresse verso l’armadio, per trovare qualcosa da farle mettere. Non poteva dormire certo con quel vestitino! Esplorò per qualche minuto, poi le diede una sua felpa viola, abbastanza pesante. D’altronde, sapeva che fuori c’era abbastanza freddo e lei era così poco vestita che l’avrebbe apprezzata.
Il ragazzo le porse la felpa, e lei lo guardò, abbozzando un timido sorriso. «Grazie», gli disse. Poi lo guardò imbarazzata, tentando di fargli capire che non poteva dormire in mutande. Cioè, sì che poteva, però sarebbe stato… strano.
Lui si schiarì la voce e, dopo qualche secondo, capì. Tornò dentro il guardaroba e lo esplorò per bene, fino a trovare un paio di pantaloni della tuta neri. Le porse anche questi ultimi e lei li prese, con mano tremante.
«Posso… posso andare in bagno a c-cambiarmi?», chiese la ragazza, piuttosto imbarazzata. Era arrossita leggermente.
«Oh… Sì, certo. Da qui, è la seconda porta a sinistra», la informò. Dopo di che lei uscì dalla stanza, accostando la porta.
Justin si lasciò cadere sul letto. E così, Abigail avrebbe dormito a casa sua. La ragazza che amava. La ragazza che era stata quasi violentata. E lui non era lì con lei, al momento dell’accaduto. Come si sentiva in colpa… Non sarebbe successo, se lui fosse stato con lei, qualche ora prima.
Non poteva picchiare il tizio, anche se avrebbe voluto. Era Justin Bieber, e Justin Bieber non poteva picchiare. La stampa avrebbe saputo, avrebbe chiesto, le fan si sarebbero insospettite. Eppure, lo avrebbe fatto per Abigail. Odiava quel tizio, non gliene fregava se era ubriaco. Non doveva permettersi di toccare una ragazza, men che meno quella che amava. Tuttavia… I guai era meglio risparmiarseli.
Si alzò e si sfilò prima la maglia, poi i jeans, restando in boxer.
«Just…», iniziò Abigail, entrando in camera. «Porco pesce rosso!», esclamò, mentre il ragazzo si girava verso di lei. Lo guardava con gli occhi sbarrati. Lui sentiva lo sguardo della ragazza addosso, prima sul petto, poi sul bacino, infine sulle gambe. «Accidenti… Beeeeeeeeeel fisico», osservò, con gli occhi puntati sugli addominali del ragazzo.
«Ehm, grazie», rispose lui, guardando a terra.
La ragazza uscì dalla stanza, e lui indossò il suo amato pigiama: maglietta bianca aderente e pantaloni della tuta grigi.
«Abigail?», la chiamò. «Puoi venire dentro».
Lei fece capolino dalla porta, con un’espressione impacciata. Justin la guardò: come poteva diventare ogni volta più bella? Un esercito di farfalle impazzite svolazzavano nel suo ventre, e non c’era verso di calmarle. I suoi vestiti le stavano abbastanza larghi, ma era comunque incantevole. I capelli, ora, erano scompigliati.
«Scusa per prima», disse lei, timidamente, andandosi a sedere sul letto. «Non era mia intenzione vederti in… boxer».
Il ragazzo andò a sedersi di fianco a lei. «Non preoccuparti, succede», ribatté, accarezzandole dolcemente un braccio.
«Io… volevo ringraziarti ancora per avermi permesso di stare qui».
Lui sorrise. «Figurati. Se non si fa per gli amici, per chi sennò?».
Lei annuì, tentando un sorriso. Non le riuscì troppo bene.
«Che c’è, Abbs?», le domandò, stringendola.
La ragazzo lo guardò negli occhi. «Continui ad essere un idiota».
«Perché? Che ho fatto, ora?».
«Non capisci nulla».
Lui la guardò confuso. «Cosa dovrei capire?».
«Non voglio essere tua amica, Justin», gli disse, guardandolo negli occhi..
 

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Capitolo 7
*** Capitolo sette. ***


Capitolo sette
 
«Temo di non capire». Il ragazzo spostò lo sguardo dritto davanti a sé, senza riuscire a vedere nulla. Non voleva essere sua amica. Quindi, lui aveva sbagliato nuovamente. Ma non sembrava… Si era perso qualcosa?
«Ho accettato di non respingerti, anche se sapevo che non saremmo potuti essere amici. Io non voglio essere tua amica, e tu non vuoi essere mio amico, Justin».
«Vuoi dire…»
Lei lo interruppe. «Sì, voglio dire che so che sei innamorato di me, come io so di esserlo di te».
Gli occhi del diciassettenne si illuminarono. Si avvicinò piano al suo viso e la baciò dolcemente. Era sparito l’imbarazzo, non c’era più la confusione. C’erano solo loro due, e la felicità. Le farfalle nello stomaco del ragazzo erano più agitate di qualsiasi altra volta, più della sera del concerto, più di quando aveva aperto la porta e se l’era trovata davanti con indosso il vestitino. Si conoscevano da due mesi e lui era ogni giorno più sicuro di amarla. Solo sentire pronunciare il suo nome da lei gli faceva un certo effetto.
Si staccò dalla ragazza e la guardò negli occhi. «Abigail Jamie Taylor, ti piacerebbe essere la mia ragazza?», chiese, mettendosi in ginocchio a terra.
La ragazza gli baciò la punta del naso. «Sembra una proposta di matrimonio», osservò divertita.
Justin aggrottò la fronte. «Mh, no. No, te la farò più avanti, quella».
«L’importante è che tu la faccia», disse, scendendo dal letto e mettendosi per terra, di fianco a lui, seduta. «È preferibile a me, ma chissà». Gli diede un bacio sul collo.
«Mmmh, Abbs, se continui sarò costretto a portarti a letto e…», la guardò malizioso.
«Mmmh, Justin, se continui sarò costretta a», cominciò lei con la stessa espressione sulla faccia, «penderti a ceffoni», concluse, guardandolo male.
Lui la fulminò con lo sguardo. «Non si illude un povero ragazzo innamorato».
«Non si fanno pensieri del genere, piuttosto».
«Ma dddai, Abbs! Lo sai che scherzo», disse, con faccia innocente.
«Sì, certo. Piuttosto, se mi chiami ancora Abbs mi hai in pugno».
«E se ti chiamo ‘orsachiottina della mia vita’?».
Lei ci pensò su. «No, non mi piace». Appoggiò la testa alla spalla del ragazzo. «Piuttosto… Va bene un ‘amore mio’, se devi chiamarmi con nomignoli».
Lui le baciò i capelli. «E ‘amore mio’ sia, piccola».
 
Pochi giorni dopo, mentre stavano passeggiando per il parco mano nella mano, i ragazzi vennero fermati da un paparazzo. Aveva la videocamera, ma la sua faccia era abbastanza simpatica.
«Salve, ragazzi!», li salutò, andandogli incontro.
Entrambi sorrisero. «Salve», risposero di rimando, all’unisono.
«Posso fare quattro chiacchiere con voi?», chiese l’uomo, gentilmente.
«Sicuro».
«Justin, circolano sul web articoli che dicono che non sei più single, altri che dicono che lo sei ancora; noi vogliamo sapere la verità!»
«Mh, no, mi spiace, al momento non sono libero».
«Ah-ha! E la fortunata ragazza è lei?», chiese, indicando Abigail.
«Probabile», rispose lei, sorridendo.
«Siete carini, sapete? Dimmi, come ti chiami?».
«Abigail».
«Spero che tu abbia scelto bene, Abigail».
«Spero anche io!», rispose, divertita.
«Bene, Justin. Ora che sappiamo che tu non sei più disponibile, vogliamo sapere un’altra, ultimissima cosa: Derek è libero?».
«Chi?», chiese il ragazzo.
«Derek Bieber», ripeté il paparazzo.
Justin impiegò un po’ a capire. Evidentemente tutti si ricordavano di quando aveva detto che si chiamava Derek. Sorrise. «Sì, Derek è libero».
Abigail lo colpì in un fianco, fulminandolo con lo sguardo.
«Ehm, cioè, no! No no, nemmeno Derek è libero. Mi spiace».
«Non dimenticherai le Beliebers, anche se c’è lei ora, vero?».
«Io non dimenticherò mai le mie Beliebers e non l’ho mai fatto. Sono grato a tutte loro e le amo», sorrise.
«Saranno felici di saperlo, ora! Grazie Justin, grazie Abigail! Ci vediamo!».
«Arrivederci!»
I ragazzi si allontanarono tranquilli. Justin era fiero di aver lasciato Selena e di aver scelto Abigail. Era una sua fan, prima, e la sua ragazza, ora. La strinse inconsciamente a sé e la baciò sulla guancia. Guardò il cielo, parecchio nuvoloso.  Prometteva, senz’altro, pioggia di lì a breve, ma entrambi non avevano voluto rinunciare a un po’ d’aria fresca. D’altronde, ogni volta che si vedevano stavano in casa. Justin non aveva praticamente visto il cielo dalla sera del suo concerto al Madison Square Garden.
«Justin?». La voce della sua fidanzata lo riportò alla realtà.
«Sì, amore mio?», le sorrise.
Lei esitò un secondo. «Sei la cosa migliore che mi sia mai capitata».

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Capitolo 8
*** Capitolo otto. ***


Capitolo otto
 
Il ragazzo la guardò negli occhi. «Anche tu lo sei, Abigail». Poi si avvicinò piano a lei e la baciò teneramente. Esattamente in quel momento una goccia gli bagnò il viso, facendoli allontanare.
«Torniamo a casa?», chiese Justin, indicando il cielo.
La ragazza ci pensò su. «Nah», rispose, alzando le spalle.
«Abigail, vuoi ammalarti?», domandò nuovamente lui.
«Oh, smettila. Si vede lontano un chilometro che vuoi giocare sotto la pioggia».
Era vero. Justin sperava che lei volesse stare fuori ancora, perché ultimamente non sopportava casa sua. Cioè, era accogliente, ma non era quasi mai uscito da lì in due mesi!
«E va bene, staremo qui fuori», cedette il ragazzo. «Ma non appena hai freddo dimmelo. I tuoi mi ammazzano se ti faccio ammalare».
«Ma tu piaci ai miei. E poi sei sempre così hot… mi riscalderai», gli sussurrò la ragazza, con tono sensuale.
«Mi stai provocando?».
«Mh… Forse».
«Abigail Jamie Taylor, lo sai che io cedo alle provocazioni!», urlò, prendendola e mettendosela su una spalla a mo’ di ‘sacco-di-patate’.
«Justin, mettimi giù!», gridò lei, mentre cominciava a piovere seriamente. No, in verità sembrava che qualcuno da lassù gettasse secchiate d’acqua addosso a tutti.
«Non ci penso nemmeno!», rispose, ridendo.
«Ti prego, amore», ammiccò lei, guardandolo con la faccia da cucciolo.
«N… Okay», si arrese il ragazzo, mettendola giù.
La sedicenne gli buttò le braccia al collo e lo baciò a stampo.
Cominciò a piovere, prima piano, poi sempre più forte. I paparazzi se ne andavano con la pioggia? Probabilmente no. Erano sempre presenti? Probabilmente sì.
Justin si guardò intorno. Sembrava che non ci fosse nessuno al di fuori di loro due, eppure sapeva bene che i fotografi e tutti gli altri si nascondevano dove meno ci si potesse aspettare. Probabilmente l’indomani tutti avrebbero saputo che lui ed Abigail stavano insieme.
Il ragazzo la guardò: aveva adocchiato un cagnolino infreddolito e ora si stava incamminando verso di lui. Era un cane bianco a macchie marroni, forse un bulldog inglese… Oltretutto, ora che anche Justin si stava avvicinando alla piccola creatura, sembrava proprio un cucciolo.

La ragazza si voltò verso il diciassettenne, guardandolo con faccia implorante. «Lo prendiamo?».
Lui sorrise, guardò il cane, poi nuovamente la ragazza. «Va bene, Abbs». Si allungò verso il cucciolo e lo prese in braccio. «Sta tremando», sussurrò. «Ed è tutto bagnato».
«Portiamolo in casa», propose lei, avviandosi verso la villetta del ragazzo.
Lungo il tragitto, nessuno dei ragazzi aveva detto una parola, anche se il cagnolino aveva emesso parecchi guaiti, probabilmente per il freddo.
Arrivati in sala, Justin lo appoggiò ed afferrò il telefono per chiamare un veterinario. Abigail, invece, andò in bagno e prese un telo, per poi asciugare il cucciolo.
Il veterinario arrivò poco dopo. Dopo averlo visitato, disse solo che era un po’ denutrito e che era femmina, del resto tutto era in regola.
Una volta rimasti soli, la ragazza guardò la cagnolina, poi il suo ragazzo. «Come la chiamiamo?».
«Vuoi tenerla?».
«Sì, perché? Tu non vuoi?».
Lui sorrise. «Certo».
«È meglio Heidi o Swami?».
Justin ci pensò su. «Direi Swami. È più originale».
La ragazza annuì, prendendo in braccio la cucciolina. «Come sei bellina», le disse, prendendo in mano una zampina ed agitandola. «Ti chiami Swami, piccola, ti piace?», le chiese, guardandola, sorridendo.
La cagnolina starnutì, poi guardò Abigail e cominciò a leccarle la mano.
Justin le guardò, mentre la ragazza portava Swami al petto, stringendola a sé. Gli ci volle un istante per capire che per lei quel cucciolo era già diventato importante.

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Capitolo 9
*** Capitolo nove. ***


Capitolo nove
 
Sdraiato sul letto con Swami di fianco che gli leccava il fianco, Justin rifletteva sugli avvenimenti degli ultimi giorni. La madre della sua fidanzata non le aveva permesso di tenere la cagnolina a casa sua, quindi ora doveva tenerla lui. Non gli dispiaceva, per carità, era diventata molto affettuosa, riconosceva i rimproveri dagli elogi, ma era piuttosto impegnativa. Doveva alzarsi ogni giorno alle 6 per portarla fuori e, quando aveva finito i bisogni, voleva stare all’aperto più o meno un’altra mezzora, sempre. In gennaio. Cioè inverno. Con, spesso, un freddo allucinante. Stessa cosa la sera, verso le 11 e mezzo.
Tuttavia sapeva di stare facendo il tutto per una buona causa: la sua Abigail, la sua One Less Lonely Girl. Quella ragazza diventava ogni giorno più bella. Ogni giorno il diciassettenne scopriva un lato nuovo di lei. In quasi un mese che stavano insieme non avevano mai litigato. Forse qualche piccola discussione ogni tanto, ma niente di cui preoccuparsi. Insomma, discutere era normale, nelle storie d’amore.
 
La ragazza entrò piangendo in camera, facendo sussultare Swami e Justin, che si alzarono di colpo, andandole incontro. Il diciassettenne la prese tra le sue braccia, mentre il cucciolo girava loro intorno.
«Tesoro, che succede?», chiese lui, allontanandola leggermente.
«Mio padre è morto. E mia madre in condizioni gravissime», urlò, tra i singhiozzi.
Cosa? I genitori della sua ragazza?
«Che gli è successo?», domandò nuovamente, con un filo di voce.
«Loro… hanno fatto un incidente in macchina. Sono andati ad Ottawa a trovare mia zia, questo week-end e mentre stavano tornando un camion che andava in direzione opposta alla loro ha slittato per colpa del ghiaccio, provocando un frontale. Per mio padre… Non c’è stato niente da fare».
Justin la strinse, come per darle conforto. «Non ti preoccupare, Ab…»
Lei lo interruppe. «‘Non ti preoccupare’? Ma dico, hai sentito? Mio padre è morto!», gridò, così forte che Swami guaì, andandosene dalla stanza.
«Ho sentito», ribatté lui, calmo. «Mi dispiace tanto per tuo padre. Ma tua madre si rimetterà, okay? Te lo…»
La ragazza lo interruppe nuovamente. «… Prometto? No, Justin, non puoi promettere niente! Sai di non poter mantenere le promesse! Devi finirla di cercare di convincere tutti per il ‘Never Say Never’, non funziona. Non funzionerà mai. Mettitelo in testa», disse lei, guardandolo fredda.
«Invece il fatto è che tu non credi che funzioni, se no funzionerebbe!», obiettò il ragazzo, alzando la voce. «Accidenti, perché vuoi avere sempre ragione? Non puoi averla sempre tu! Dovresti fidarti un minimo degli altri, ogni tanto».
«Ti odio!», gridò la ragazza. «Non dovresti darmi contro, dovresti starmi vicino, ora che sono più sola che mai! Mi fai schifo». Si asciugò le lacrime con il palmo della mano, avviandosi giù per le scale.
«Abigail», la chiamò lui, inseguendola. «Torna qui, per favore».
«Lasciami in pace!».
Justin la raggiunse e la prese per un braccio.
«Mi fai male!», urlò lei, cercando di liberarsi.
Il ragazzo lasciò la presa, circondandole la vita con le braccia.
«Ascoltami», iniziò, «io ti sono vicino. Io sono qui per te, capito? Tu sei la mia vita, sei la mia ragazza, ed io ti amo. Mi dispiace tanto di aver alzato la voce, soprattutto in questo momento. Ma, senti, io ci sarò sempre per la mia piccola. Sempre. Non puoi tornare a casa tua, ora. Stai con me, okay? Ti va?».
Lei annuì debolmente, guardandolo negli occhi. «Grazie».
Il diciassettenne le asciugò le lacrime, poi le accarezzò una guancia. «Ora calmati. Ci sono io, ora. Non sarai mai sola».

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Capitolo 10
*** Capitolo dieci. ***


Capitolo dieci
 
Abigail dormiva, apparentemente tranquilla; Justin, sdraiato di fianco a lei, era sveglio. Non stava guardando la sua ragazza, non le stava accarezzando i capelli, insomma nulla che i normali ragazzi farebbero. Ma lui, non essendo un ragazzo normale, stava guardano un punto lontano, perso tra i suoi pensieri.
La ragazza gli aveva spiegato tutto dell’incidente. E anche del dopo incidente. L’autista del camion aveva cercato con tutto se stesso di frenare, invano. Il gigantesco mezzo a quattro ruote si era schiantato contro la macchina dei suoi verso la parte del guidatore, schiacciando il signor Taylor. La moglie, invece, era viva, almeno per ora. Si trovava in ospedale con le gambe rotte, che sarebbero sicuramente rimaste paralizzate, con ferite qua e là. La cosa che, tuttavia, le faceva rischiare la vita era la paura. I dottori sostenevano che la donna era in uno stato di shock, e che, nel peggiore – ma tuttavia possibile – dei casi, un infarto avrebbe potuto mettere fine alla sua esistenza.
Justin era rimasto piuttosto in ansia per tutta la sera, anche se cercava di non darlo a vedere. La cosa migliore per la ragazza era non pensarci, divertirsi. Perciò avevano giocato un po’ a Guitar Hero con l’XBOX del ragazzo, poi a Just Dance per la Wii ed, infine, avevano guardato una commedia. Quando Abigail si era addormentata sulle gambe del ragazzo, a circa una ventina di minuti dalla fine del film, lui aveva spento la tv e, prendendola in braccio, l’aveva portata in camera sua. Non l’aveva mai lasciata sola in sei ore, nemmeno per andare in bagno a lavarsi i denti, per paura che potesse svegliarsi per colpa di un incubo trovandosi sola, senza nessuno che la tenesse tra le braccia. In realtà finora la ragazza non si era mai svegliata, né aveva dato impressioni di star facendo incubi, ma la prudenza non era mai troppa.
Justin sapeva che presto lei sarebbe voluta andare da sua madre. E anche se lui avesse provato ad impedirglielo, lei l’avrebbe avuta vinta, perché tanto ‘aveva sedici anni e la patente’. Non era così facile, però. Gli sembrava un pensiero egoista, ma aveva paura di perderla. E non voleva lasciarla sola, nemmeno per un minuto. Sapeva anche che, tuttavia, non era giusto impedirgli di vedere sua madre, anche se questo non l’avrebbe certo rallegrata. Però era da fare, giusto? Come andare al funerale di suo padre, che si sarebbe tenuto a Toronto, dove era accaduto l’incidente, tre giorni dopo. E sapeva che ci sarebbe andato.
Però lui era Justin Bieber. Non doveva sapersi in giro che sarebbe stato in un ospedale, o ad un funerale. Sarebbero accorse migliaia di fan e questo Abigail non gliel’avrebbe mai perdonato, perché un funerale è pur sempre un funerale. Un evento triste. Non poteva trasformarsi in un evento per vedere Justin Bieber.
«Justin? Ti prego, non abbandonarmi», gemette improvvisamente la ragazza. Il cantante si alzò a sedere, spostando lo sguardo su di lei. Delle lacrime le scendevano lungo il viso, sebbene fosse addormentata.
Il biondino la scosse delicatamente, cercando di svegliarla. «Abby, sono qui, non…»
Lei aprì gli occhi, gonfi e rossi a causa delle lacrime. Si sedette di fianco al fidanzato, lasciandosi cullare dalle sue braccia. «È stato orribile, Justin. Io… Io… Tu… Tu stavi per… Tu stavi morendo», disse, scoppiando in un sonoro pianto. Lui la tenne stretta a sé, affondando nei suoi capelli color rame. Nessuno dei due disse una parola per almeno quindici minuti. Bastavano i singhiozzi della  ragazza a rompere il silenzio, che raccontavano più di quanto fosse necessario.

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Capitolo 11
*** Capitolo undici. ***


Capitolo undici
 
La ragazza aveva smesso di piangere da circa cinque minuti. Justin la stava tenendo stretta a sé, cullandola leggermente, per calmarla ulteriormente. Sapeva che era ancora piuttosto scossa, dal sogno e dall’incidente. L’aveva capito da come tremava. Probabilmente la ragazza non aveva mai avuto paura come in quel momento. Perdere un genitore, forse anche l’altro, e sognare di perdere il fidanzato. Sapeva benissimo che lei si stava chiedendo cosa avrebbe fatto se fosse realmente accaduto, quando la sua voce, spezzata ruppe il silenzio: «Justin», lo chiamò. Alzò la testa, per guardarlo bene negli occhi, quegli occhi color miele, poi prese fiato e proseguì. «Io voglio andare a Toronto, ora», sussurrò piano, quasi avesse paura che il ragazzo si arrabbiasse. «Lo so che non vuoi, lo so che pensi che possa mettermi nei guai, ma io devo farlo».
«No», rispose l’altro, piuttosto deciso.
«Ti prego». Lo stava guardando con occhi imploranti.
 «Abigail, tu non andrai fino là da sola», le disse, guardandola negli occhi. «Non ti permetterò di andare a Toronto da sola. Io verrò con te, capito? Io sarò sempre al tuo fianco».
«No, Justin. Non puoi venire, le tue fan verrebbero a saperlo. Il funerale di mio padre con migliaia di persone lì per te non lo voglio», obiettò.
«Amore, non posso lasciarti andare lì, non da sola. È troppo pericoloso».
«Per favore, Justin».
«Niente da fare», concluse il discorso, scuotendo la testa.
 
Il ragazzo si svegliò verso le tre del pomeriggio, con gli occhi impastati e la schiena leggermente dolorante. Guardandosi intorno, si accorse che Abigail non c’era. Scese dal letto ed ispezionò tutte le stanze: niente. Giunto in cucina, vide un biglietto attaccato al frigo. Si avvicinò e, sperando che non fosse accaduto quello che temeva, lesse.
Caro Justin,
mi dispiace tanto di averlo fatto. Davvero, non volevo, giuro, ma mi hai quasi costretta. Non voglio trasformare una cerimonia triste in migliaia di ragazzine urlanti venute lì per te, come ti ho detto prima. Ti amo più della mia stessa vita e spero che mi perdonerai per essere partita senza averti detto niente, per essermi giustificata con un misero bigliettino. Mi scuso tanto, amore mio, ci vediamo al ritorno.
Ti amo, non scordarlo.
La tua Abigail.”
No. Non poteva essere successo davvero. Era partita. Cazzo, era partita senza di lui! Le aveva, seppur involontariamente, permesso di andarsene senza di lui.
Il ragazzo si passò una mano tra i capelli, poi, senza pensarci più di tanto, afferrò qualche maglietta, tre felpe, uno smoking nero, due camicie, due paia di Supra, uno viola e uno nero, e un paio di scarpe da cerimonia, le posizionò distrattamente dentro la prima valigia trovata e, afferrando l’iPhone e il cavo per caricarlo, scese le scale correndo. Una volta di sotto, scrisse un bigliettino a sua madre, scusandosi per essere partito così e, dopo aver caricato tutto nella sua Range Rover, partì, come unica destinazione l’ospedale St. Michael di Toronto.
Dopo 93 miglia percorse in auto, tra camion, auto, spazzaneve e ghiaccio, il canadese arrivò a destinazione. Scese dalla macchina ed entrò in quell’ospedale, dirigendosi verso il centro informazioni.
«Salve, mi scusi, dove posso trovare la signora Taylor?», chiese. Sperò con tutto il cuore di non essere riconosciuto da nessuno, in quanto si fosse coperto come potesse: sciarpa, occhiali da sole e felpa con cappuccio.
«Sì, certo. È nella stanza 147, che si trova al primo piano, nel corridoio di destra», gli sorrise l’impiegata, una bionda tra i 40 e i 45 anni.
Il ragazzo la ringraziò e si diresse verso le scale. Ad ogni gradino che saliva il cuore gli batteva più forte: sapeva che la sua ragazza si trovava lì, ma che cosa avrebbe detto vedendolo?
Arrivato alla stanza 147 bussò. Aspettò dieci secondi davanti alla porta di legno verniciata di bianco ed odorante di medicine, prima di aprire. Abigail e la signora Taylor si voltarono insieme, la prima con un’espressione a metà fra lo sconvolto e l’arrabbiato, e il sorpreso e felice.
Esattamente in quel momento, il ragazzo ringraziò che la stanza 147 fosse singola.

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Capitolo 12
*** Capitolo dodici. ***


Capitolo dodici
 
La ragazza si alzò, con una tale forza da riuscire a far sbattere la sedia su cui era seduta contro il muro, e si diresse verso il diciassettenne. Ora la sua espressione era arrabbiata, decisamente arrabbiata. Lo stava guardando male, così male che al ragazzo si stava gelando il sangue. Aveva paura. Non poteva perderla.
Lei lo spinse fuori dalla stanza, guidandolo nel giardino dell’ospedale. Arrivata in un angolo vuoto, si fermò, girandosi verso di lui. «Cazzo, Justin, ti avevo detto di non venire!», urlò la sedicenne. «Non afferri la parola ‘no’, non è così?».
«Dio, Abigail, l’ho fatto per te», obiettò lui.
«No, merda, non l’hai fatto per me! L’hai fatto solo per te stesso, per avere altri fotografi intorno, per la tua fama! Tu non sei più un comune ragazzo canadese sorridente, sei Justin Bieber e pensi solo a te stesso!».
«Amore, non…»
La ragazza lo interruppe. «E non chiamarmi ‘amore’, okay? Justin, è finita. Non voglio più vederti, né sentirti, capito? Mai più. Non pensavo potessi essere così», disse, per poi lasciarlo lì, sotto gli occhi di decine di persone che lo fissavano, attirate dagli urli.
Si diresse verso la macchina. L’indomani ci sarebbe stato il funerale del signor Taylor e lui voleva partecipare. Era un bravo padre e marito, sempre sorridente. Gli piaceva. Al ragazzo venne in mente la prima volta che era andato a casa della sua fidanzata. Erano gli ultimi giorni di gennaio, e lei doveva andare a cambiarsi perché avevano giocato tutto il giorno sulla neve con Swami, perciò era fradicia. Lui aveva preso in braccio la cagnolina, e si era diretto verso casa di lei.
Arrivati, lei era salita in camera, e lui l’aveva aspettato di sotto, da solo. Da solo finché non era arrivato suo padre. Alto, magro, sulla quarantina, con i capelli castani spruzzati di bianco e la barba perfettamente rasata. Sembrava un perfetto uomo d’affari ed, in effetti, lo era. Faceva l’avvocato e si batteva per la giustizia.
Justin ricordava che gli aveva detto: «Non fare soffrire mia figlia, giovanotto, per piacere».
«Non si preoccupi, non ne ho assolutamente l’intenzione», aveva risposto.
L’uomo era stato in silenzio per qualche secondo. «La ami, ragazzo? La ami davvero?».
Lui aveva annuito. «Sì, signor Taylor. Io amo Abigail».
«Bene», aveva sorriso. «Perché anche lei ama te».
Justin tornò alla realtà mentre saliva in macchina, sforzandosi di non piangere. Doveva andare alla ricerca di un hotel, perché l’indomani doveva essere presente al funerale. Stimava quell’uomo, non poteva non dargli l’ultimo saluto. In fondo, lui sapeva che la cerimonia e la cremazione si sarebbero tenute nel quartiere di St. James, e nessuno poteva proibirglielo.
 
Il ragazzo si svegliò verso le sette, il giorno seguente. La cerimonia sarebbe iniziata alle dieci, e lui doveva farsi la doccia, far colazione e partire. Ovviamente, non ci sarebbe stato un rinfresco dopo il funerale, e comunque non avrebbe potuto partecipare, dopo il litigio con Abigail. Subito dopo aver assistito alla cerimonia sarebbe partito per Stratford.
Si infilò sotto la doccia, il getto bollente che gli riscaldava il corpo lo faceva sentire leggermente meglio. Si lavò con molta calma, poi uscì, si asciugò e si vestì. Erano ormai le nove e mezzo e, dopo aver pagato, partì, senza aver fatto colazione. Tanto aveva lo stomaco chiuso.
Arrivò alla chiesa di St. James verso le 9.45 ed entrò, nascondendosi il più possibile. Iniziata la cerimonia, si sedette nella sedia più vicina possibile alla bara, che non era stata aperta nemmeno per i parenti. Evidentemente, il corpo era davvero messo male.
Abigail fu chiamata sull’altare, per fare un discorso. Indossava un vestito nero lungo fino al ginocchio con un fiocco grigio chiaro in vita e un paio di decolleté nere. I capelli castani e mossi erano sciolti, e una ciocca le ricadeva sul viso. Aveva il trucco leggermente sbavato, e gli occhi verdi gonfi e lucidi. Aveva sentito i suoi singhiozzi, uno più doloroso dell’altro, per tutto il funerale. Aveva dovuto imporsi di non andare da lei e stringerla a sé. Le mancava.
Però evidentemente per lei non era lo stesso. Alla fine del funerale, mentre lui si precipitava fuori per non farsi vedere, lei lo prese per un braccio, costringendolo a voltarsi. Il suo trucco ora stava tutto sulle guance, ma era stupenda anche così.
«Bieber, ti avevo ditto di non farti più vedere. Cosa c’era di difficile da capire?», gli chiese, visibilmente irritata. Il ragazzo aveva notato che aveva dovuto sforzarsi per non urlargli contro.
«Niente», rispose, calmo. «Volevo salutare per l’ultima volta tuo padre», disse, indicando la bara. «Era un gran uomo».
La ragazza abbassò lo sguardo, asciugandosi una lacrima con il palmo della mano. «Ora l’hai salutato, contento? Vattene», ribatté, ricomponendosi.
«Infatti ora me ne vado», confermò. La guardò tristemente per un attimo. «Addio, Abigail», la salutò, attirandola a sé per poi baciarla sulla fronte. Si voltò e si diresse verso l’uscita, lasciandola sola nella chiesa, sentendo i singhiozzi della ragazza colpirlo, come se un pugnale lo stesse ferendo.
In realtà, anche lui aveva le lacrime agli occhi. Ma lui era Justin Bieber. Justin Bieber era forte, Justin Bieber non piangeva. O meglio, Justin Bieber non poteva fare queste cose.
Salì in macchina, sforzandosi di non scoppiare a piangere. Aveva bisogno di passare qualche giorno con Chaz, Ryan e Chris. Da quando c’era Abigail, non li aveva quasi visti. Ovviamente non dava la colpa alla ragazza, solo a se stesso. Ma sapeva che i suoi amici ci sarebbero stati, sempre, anche se si fosse comportato una merda. Erano sempre stati così. Dio, gli mancava anche Caitlin. Non la vedeva, anche lei, da almeno due mesi. Era la sua migliore amica e sapeva, esattamente come i tre ragazzi, come farlo ridere. Peccato che questa volte niente l’avrebbe fatto ridere… Almeno fino all’indomani. La verità era che qualsiasi stupidaggine lo faceva ridere, pur avendo il cuore ridotto in tanti piccoli pezzettini. E questa era una buona distrazione.
Arrivò a casa due ore e quaranta minuti dopo essere partito, dopo aver percorso le stesse 93 miglia che aveva percorso il giorno prima per arrivare a Toronto. Scaricò tutto, aprì la porta e si precipitò in camera, togliendosi lo smoking e indossando una maglietta azzurra e un paio di pantaloncini grigi. Ora le lacrime gli sgorgavano ininterrottamente, bagnando il viso del ragazzo che stava guardando fuori dalla finestra, cercando di vedere qualcosa. Sfortunatamente, i suoi occhi color miele erano totalmente appannati a causa delle lacrime, per vedere anche solo due ragazzi biondi che stavano suonando alla porta della villetta di fronte alla sua. Un altro ragazzo biondo, più piccolo, aveva aperto ed era tornato dentro, ricomparendo sulla soglia un paio di minuti dopo, con a fianco una ragazza dai capelli castani scuri, lunghi e lisci, con gli occhi tra il blu, il marrone e il verde, magra e alta all’incirca 1,66m. I ragazzi ora si stavano dirigendo verso la villa del cantante biondo canadese.
Ma questo lui non lo sapeva.

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Capitolo 13
*** Capitolo tredici. ***


Capitolo tredici
 
Pochi minuti dopo, con gli occhi ancora troppo appannati per vedere qualcosa, ma non con gli occhi troppo stanchi, rossi e gonfi per smettere di piangere come un bambino a cui è stato negato un giocattolo, Justin sentì suonare il campanello. Cercò di asciugare le lacrime, invano. Più le asciugava, più scendevano. Arrivò alla porta ed aprì. Quattro paia di occhi, una ragazza e tre ragazzi, lo stavano guardando. Quattro persone che conosceva bene. Molto bene. Troppo bene.
«Bro, cazzo, che ti succede?», chiese il più alto, andandogli incontro. «Sembra che qualcuno ti abbia ferito parecchio».
La ragazza lo colpì al torace. «Chaz, taci», lo ammonì, sotto gli occhi del biondo, che la stava guardando come per dire ‘Ma che ho fatto?’. «Sta male, non lo vedi? È distrutto», disse, spostando lo sguardo al ragazzo con il viso rigato dalle lacrime. «Niente battute stupide». Dopo di che entrò nella villa, seguita dagli altri tre, e con la cagnolina di Justin che le saltava in braccio con la lingua di fuori. Le venne da sorridere, ma solo per un momento.
«Che hai fatto?», chiese l’unica femmina in mezzo ai quattro ragazzi, rivolta all’unico diventato famoso.
Lui cercò di asciugarsi le lacrime, con lo stesso risultato di pochi minuti prima. «Ho rotto con Abigail», riuscì a dire, dopo vari tentativi mal riusciti. Respirò profondamente, poi continuò, con voce abbastanza tremante: «Suo padre è morto e sua madre in brutte condizioni, perché hanno fatto un incidente a Toronto, pochi giorni fa». Guardò i suoi amici, uno per uno. «Lei è andata in ospedale da sua madre, partendo mentre io dormivo, perché non voleva che la accompagnassi, a causa della… fama. Io ci sono andato lo stesso, riuscendo a non portarmi dietro nessuno, né paparazzi, né fan urlanti, e lei mi ha lasciato. Mi h…»
Chaz lo interruppe nuovamente. «Amico, mai contraddire una ragazza!»
Caitlin lo colpì di nuovo, più forte. «Chaz! Quale lettera non ti è chiara della parola ‘taci’?».
«Mi ha detto che non voleva più vedermi né sentirmi», riprese Justin, tirando su col naso. «Ma io volevo salutare suo padre per l’ultima volta, allora sono andato al funerale, cercando di non farmi notare. Proprio mentre stavo per andarmene, lei mi ha preso per un braccio, poi mi ha cacciato. Lo so che è una cosa banale, Dio, lo so, ma…» Non riuscì a finire la frase, perché le lacrime tornarono prepotentemente a rigargli il viso, senza dargli la possibilità di emettere alcun suono, se non i singhiozzi soffocati.
I suoi quattro amici si guardarono, capendosi al volo. I fratelli Beadles e Chaz uscirono, per andare rispettivamente al supermercato e al videonoleggio, lasciando Ryan e Justin in casa.
«Amico, starai meglio senza di lei, te l’assicuro. Le donne non sono indispensabili», cercò di rassicurarlo l’amico, mettendogli una mano sulla spalla. «Anche io ero disperato quando Kelsey mi ha lasciato, ma ricordi?», sorrise, «Con il vostro aiuto sono riuscito ad andare avanti».
L’altro abbozzò un sorriso. «Ryan, non so proprio come spiegartelo. Non sono nessuno per dire niente contro di te, o degli altri, perché vi voglio bene, allora mi limiterò a dire quello che provo io per lei», disse, guardandolo. «Lei per me è tutto. Cioè, non ho quasi mai passato un giorno senza vederla in più o meno tre mesi. Pensare che ora dovrò cavarmela senza quella ragazza per il resto della mia vita… Non è concepibile, per qualsiasi parte del mio corpo. Accidenti, bro, non credo di potercela fare. Seriamente», confessò. Si passò una mano tra i capelli biondi, consapevole di essersi cacciato in un bel pasticcio, innamorandosi di una ragazza, seriamente, per la seconda volta. La prima era stata Caitlin. La amava da morire, anche se erano piuttosto giovani. Molti siti su Internet dicevano che si erano lasciati perché lei si era montata per via dei futuri soldi di Justin, ma non era vero. Il fatto era che non funzionava più. Sì, si amavano, ma c’era qualcosa che aveva smesso di farli essere così perfetti, insieme. Era stato male per settimane, dopo averla lasciata, e sapeva che per lei era stato lo stesso. Eppure era la sua migliore amica tutt’ora. Era una ragazza stupenda, con una parola di conforto e una battuta per qualsiasi persona.
In realtà, non sapeva come mai erano ancora amici. Un giorno, circa tre mesi dopo essersi lasciati, lei era andata a recuperare suo fratello in palestra, dove stavano giocando a basket e lo aveva salutato, sorridendo. Era tutto ripartito da un misero saluto, che li aveva riappacificati, per così dire. Era stato così felice per intere settimane, e tutt’ora lo era, perché Caitlin era davvero una ragazza speciale. Aveva una risata contagiosa. C’era sempre per chiunque avesse bisogno, anche se era qualcuno che l’aveva fatta soffrire. Infatti era lì per lui, ora che stava piangendo per un’altra ragazza, che l’aveva fatta soffrire. Pur essendo amici, evitavano il più possibile di parlare della loro relazione, perché avrebbero potuto rovinare la loro splendida amicizia. E nessuno dei due lo voleva.
«Bro?», la voce di Ryan lo riportò alla realtà facendolo sussultare.
«Dimmi».
«Io penso che siano arrivati», disse. «Andiamo ad aprirgli la porta, magari?».
«Sì, scusa. Ero perso nei miei pensier…»
L’altro lo interruppe. «Pensavi a Cait», affermò, troppo vicino alla porta d’ingresso.
«Chi mi pensava?». La voce della ragazza veniva da fuori, eppure aveva sentito. Accidenti. Caitlin entrò, squadrandoli, sorridente, con in mano due buste di carta piene di patatine, caramelle, popcorn e altre schifezze varie. «Justin», lo guardò, «mi stavi pensando».
Il ragazzo deglutì. «Non fraintendere», la avvisò, andando all’indietro.
Lei diede le buste a Ryan, poi si mise ad inseguire il famoso biondino per la sala, sotto gli occhi perplessi degli altri tre. Quando ebbe la meglio, circa tre minuti dopo, lo abbracciò forte, affondando la testa nella sua spalla, sussurrandogli un «ti voglio bene». Lui la strinse, sorridendo sinceramente per la prima volta in due giorni. La vita sorrideva anche senza la ragazza che amava, almeno in parte. Si sentiva completo anche solo con i suoi migliori amici. Perché loro erano gli unici che c’erano sempre stati, sempre. Anche quando, in compagnia di Selena, si comportava male. Loro erano lì ad ascoltarlo, anche se a parecchie miglia di distanza. Doveva scegliere gli amici. Sempre. E questo perché quattro amici che conosceva da tantissimi anni non potevano essere sostituiti da una ragazza conosciuta pochi mesi prima.

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Capitolo 14
*** Capitolo quattordici. ***


Capitolo quattordici
 
I cinque ragazzi si sistemarono sul divano, con sul tavolino davanti ad esso varie scodelle piene di varie schifezze e delle bottiglie di bibite. Il ragazzo più piccolo si alzò, incitato dagli altri, e si avviò verso il grande televisore. Prese una piccola scatoletta di plastica rettangolare e ne estrasse fuori un dvd. Lo posizionò dentro il lettore dvd e tornò di fianco ai suoi amici, proprio mentre il film iniziava.
Justin si guardò intorno: aveva Cait di fianco da una parte, che lo stava tenendo per un braccio, e Chaz dall’altra. Tutti i suoi amici erano concentrati sul film, tranne lui. Perché lui stava pensando. Non a qualcosa in particolare, la sua mente vagava. Cosa stava facendo Abigail? Probabilmente stava in ospedale con sua madre, oppure stava prendendo una cioccolata calda con un ragazzo? Oppure stava piangendo?
 
Abigail era in albergo. L’indomani sarebbe tornata a Stratford e non era pronta. Non era più preoccupata per sua madre, perché era fuori pericolo ormai, e qualche settimana più tardi sarebbe potuta tornare a casa. Ora però, doveva pensare a se stessa. A Stratford sarebbe stata sola. Niente Justin, niente Sheila. Aveva litigato con la sua ormai ex migliore amica, circa due settimane prima, perché lei stava solamente con Justin. Aveva ragione ad arrabbiarsi, ma quel ragazzo era diventato troppo importante per lei… Oppure le sembrava solamente?
Guardò il suo Blackberry: nessun messaggio. Non un messaggio da Sheila, da Justin o da Sarah. Oppure da Caitlin, Chaz, Ryan o Chris. Ma a loro che interessava di lei? Loro erano i migliori amici del suo ex ragazzo, e di certo non sarebbero stati dalla sua parte. Certo, non li biasimava. Si era comportata male con lui, aveva visto i suoi occhi color miele lucidi e la sua faccia triste. Aveva tanto voluto stringerlo, ma era arrabbiata. Molto arrabbiata. Troppo arrabbiata. Arrabbiata per qualcosa che lui non aveva fatto. Arrabbiata perché lui era lì. Sì, ma lui era lì per lei. Perché lei era la sua unica ragione. E aveva rovinato tutto.
Il Blackberry vibrò. La ragazza con gli occhi verdi guardò lo schermo. Era Jonah. Non sapeva come descrivere quel ragazzo. Era suo amico, sì, ma non solo. Era di più. Non un fidanzato. Forse un migliore amico. O, per lo meno, quello che si avvicinava di più ad esserlo. Sapeva che lui aveva un debole per lei, e non le dispiaceva. Era alto, magro, moro e con gli occhi azzurri. Era simpatico e poteva chiamarlo anche alle 3 di mattina, e lui sarebbe andato. Ma non l’aveva fatto, perché lei aveva Justin. Finora, almeno, ce l’aveva. Adesso non più.
«Hey, ciao!», rispose, raggiante.
«Abigail, come stai?», chiese lui.
«Meglio, grazie, Jonah. E tu? Stai bene?».
«Sì, però mi manchi».
Le serviva qualcuno con cui stare. «Anche tu, tesoro, mi manchi tanto!».
«Come mai mi chiami ‘tesoro’, donna?».
«Beh, perché tu sei il mio migliore amico…», rispose, «… o, forse, qualcosa di più». Dio, come si sentiva squallida. Lo stava riempiendo di bugie, e tutto questo per avere di nuovo Justin. Sapeva che non l’avrebbe mai più avuto.
«Abigail, non dire cazzate. Lo sai che non sono niente per te».
«No, non è vero, Jonah».
«Smettila, porca troia. Non puoi stare con me. Tu vuoi Justin».
«No, io voglio te».
«Sì?».
«Sì».
«Ma io non voglio te». Il ragazzo chiuse la chiamata, lasciando Abigail di nuovo da sola. Perché lei se lo meritava. Perché lei voleva Justin e non Jonah. Perché lei era una stronza. Perché lei se lo meritava. Perché lei si odiava.
«Ti amo», digitò, sul telefono. Selezionò il destinatario, ed inviò. Anche se sapeva che non l’avrebbe mai più riavuto. Una lacrima, seguita da molte altre, le rigò il viso.

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Capitolo 15
*** Capitolo quindici. ***


Capitolo quindici
 
L’iPhone del ragazzo vibrò, ma lui non lo sentì. Era occupato a ridere come uno stupido, guardando i suoi amici che giocavano con la Wii a Just Dance e, successivamente, a Twister, per terra. Si stavano incastrando l’uno con l’altro e lui, più furbo degli altri, era colui che dava le indicazioni. I tre ragazzi e la ragazza imprecavano ridendo anche a causa di Swami, che girava loro attorno, mentre erano in posizioni difficili da mantenere.
Il suo iPhone rosso era su, in camera, abbandonato, con Abigail come sfondo. Nessuno ci stava pensando, nessuno sapeva del messaggio arrivatogli e, anche se l’avessero saputo, probabilmente non ci avrebbero fatto troppo caso. Avevano bevuto molta Coca-Cola e tutti quanti andavano su di giri solo con quella.
Justin prese una patatina e, ridendo, vide Caitlin cadere, seguita dagli altri tre. «Siete tutti eliminati!», annunciò. Gli erano mancati tanto quei tempi. Non passavano una serata così da quanto, un annetto e mezzo forse? Magari di più. Non voleva più aspettare tanto, prima di passarne un’altra.
«Biondo, ora tocca a te», gli disse la ragazza. «Non puoi goderti gli altri che cadono solo tu. Ora tocca a me».
«No, Cait, non esiste», ribatté.
«E invece sì!» Lo prese per un braccio e lo costrinse ad alzarsi, indicandogli il punto in cui posizionarsi. Successivamente lei si buttò sul divano e prese in mano il cartellone su cui erano disegnate le indicazioni. Colpì la lancetta ed aspettò che si fermasse. Poi gridò: «Mano sinistra sul blu!», ed entrambi obbedirono.
Solo una dozzina di minuti dopo, i quattro maschi erano nelle posizioni più strambe mai potute immaginare, con la cagnolina, ormai cresciuta, che gli ciondolava attorno, facendoli quasi cadere. Poco dopo le braccia di Justin cedettero, facendolo finire per terra, sopra gli altri.
«Oddio devo farvi una foto, sembrate un sandwich!», urlò Caitlin tra le risa, e prese il suo iPhone. I quattro ragazzi si misero in posa quanto potevano, sdraiati uno sopra l’altro, e la ragazza scattò la foto. Dopo di che si alzarono, buttandosi sulla diciassettenne che, prima di essere assalita, riuscì a fare un’altra foto dei quattro che si dirigevano verso di lei. Nemmeno due secondi dopo, si trovò sotto i suoi amici.
 
Le cinque di notte. Caitlin si svegliò, piuttosto assonnata e con la schiena un po’ dolorante. Si guardò intorno: Justin, Chaz, Chris e Ryan stavano dormendo beatamente, uno di fianco all’altro. Lei era di fianco al suo ex fidanzato, nonché migliore amico. Le era mancato tanto, in quegli ultimi tempi. Non ne era più innamorata da molto, ma gli voleva bene e voleva il meglio per lui.
Mentre si dirigeva in camera del ragazzo, pensava ad Abigail. Era stata una fidanzata migliore di lei? Forse sì, sapeva che lo rendeva davvero felice, ma erano stati insieme per poco più di un mese, mentre con lei era stato quasi due anni.
Premette il tasto ‘Home’, sul telefono di Justin e lo sbloccò. L’icona dei messaggi ne segnava uno da leggere. Non avrebbe dovuto impicciarsi, ma fu più forte di lei. Cliccò il quadratino verde e lesse il messaggio. «Ti amo», c’era scritto. Era di Abigail. Il ragazzo non poteva vederlo. Era stato male, e tutt’ora ci stava. Avrebbe sofferto di più, se avesse letto. Perché sapeva che le avrebbe detto di che non voleva più stare con lei. Era un ragazzo intelligente ed avrebbe preso la decisione giusta, ma poi ne avrebbe sofferto troppo. E, se avesse risposto il contrario, sarebbe stato ancora peggio. Prima o poi avrebbero cominciato a litigare su quanto erano stati male per colpa dell’altro, e poi avrebbero sofferto ancora di più.
Agì per il bene di tutti e due. Cancellò il messaggio, promettendo a se stessa che avrebbe fatto il possibile perché si rimettessero insieme. Perché i due stavano bene insieme, e Justin era felice con quella ragazza. E poi le stava simpatica, era gentile, educata e bella. Non erano amiche – si erano viste una volta o due ed Abigail non aveva mostrato una forte simpatia per lei  –, ma le stava comunque simpatica. O almeno, il minimo indispensabile. Se fosse stata la ragazza di suo fratello, non avrebbe avuto problemi a mostrarsi antipatica. Ma era la ragazza del suo migliore amico e sapeva che lui avrebbe scelto Abigail a lei, perciò aveva sopportato il carattere della sedicenne per tutto il pomeriggio, pur non sentendosi a proprio agio.
«Ti sei svegliata anche tu, eh?». Una voce calda sul suo collo la fece sussultare. Si girò di colpo, trovandosi Justin a meno di due centimetri di distanza. Un brivido le percorse la schiena.
«Già», rispose lei. «Laggiù è scomodo».
«Come mai sei venuta in camera mia?», chiese l’altro.
«Dovevo andare in bagno», spiegò lei, «ma non volevo tornare subito a dormire, dopo, perché il pavimento non è troppo comodo». Sorrise imbarazzata. «Quindi sono venuta in camera tua… Mi mancava vederla», disse, guardandosi intorno, «È cambiata».
Il ragazzo annuì. «È da tanto, forse troppo, che non sali qui», confermò. «Da quando ci siamo lasciati, mi pare».
«Sì». Si sedette sul letto, mentre la sua mente esplorava i vecchi ricordi. Il loro primo bacio, loro sulla spiaggia, sul letto, la rottura. Chiuse gli occhi. «Perché abbiamo rotto, Justin?».
Il ragazzo si sedette accanto a lei, stringendola leggermente a sé. «Non lo so, Cait. Forse siamo stati stupidi».
«Già, forse abbiamo ceduto alla prima inutile difficoltà».
«Forse», ripeté lui, sottovoce. Dopo una lunga pausa di silenzio, chiese: «Ti va se ci mettiamo qui, a dormire? È più comodo».
La ragazza annuì. «Certo», rispose. Si alzò e si infilò sotto le coperte, seguita dal ragazzo. «Ti voglio bene, Justin».
«Ti voglio bene, Cait». Le diede un bacio sulla fronte e chiuse gli occhi, tenendola stretta a sé.

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Capitolo 16
*** Capitolo sedici. ***


Capitolo sedici

 
«Justin, finiscila!», gridò la ragazza, dimenandosi sulla spalla del quasi-diciottenne. L’indomani lui avrebbe compiuto diciott’anni di vita e avrebbe festeggiato lì, a Stratford.
Lui continuò a farle il solletico, cercando di evitare di ricevere calci. «Cait, smetti di calciare», le disse, «Vuoi mandarmi all’ospedale?».
«E tu mettimi giù, se non vuoi trovarti con la bocca sfasciata il giorno del tuo compleanno»
, ribatté Caitlin.
«Ciao». Una voce troppo familiare si udì da dietro. Justin prese l’amica e la fece tornare con i piedi per terra, mentre lei si rimetteva a posto i capelli. Entrambi si girarono, guardando la ragazza che si trovava davanti a loro: totalmente diversa da quella che conoscevano. All’incirca tre settimane dopo la loro rottura, Abigail non si era ancora ripresa. Certo, nemmeno Justin non era felice, ma almeno non andava vestito in giro come un barbone. Esatto, perché la sua ex fidanzata era ridotta maluccio. Capelli poco curati, molto arruffati e di un colore spento; le unghie mangiate fino alla carne; jeans e felpa larghi, entrambi scuri, e Converse malandate; il viso non era truccato, nemmeno un po’. Non un velo di matita. Gli occhi erano contornati di viola ed erano gonfi ed arrossati: non aveva ancora esaurito le lacrime; aveva un colorito orribile.
«Abigail», la osservò Justin, dalla testa ai piedi. Quanto avrebbe voluto stringerla a sé? Gli mancava tanto. «Che ti è successo?».
«Niente»
, sussurrò lei, abbassando lo sguardo. Sapeva di essere orribile, ma non aveva potuto resistere al salutarlo, forse perché vederlo sorridere la teneva in vita. Ma ora non stava sorridendo. Né lui, né Caitlin sorridevano. Entrambi la guardavano, preoccupati. «Davvero, niente, sto benone», confermò, sforzando un sorriso. «Beh… Ora vado, eh? Ci si vede», disse, per poi scomparire. La guardavano tutti. Proprio per questo doveva scappare: era sotto lo sguardo di qualsiasi persona, oggetto di derisione, di discorso. Sentiva tante piccole vocine che facevano diversi commenti: ‘Guarda quella, è ridotta maluccio’, ‘guarda quella ragazza, dovrebbe darsi una sistemata’, ‘oddio!, hai visto Abigail? Quel Justin l’ha proprio rovinata, ora è piuttosto bruttina’. Le lacrime cominciarono a scorrerle sul viso.
«Cait, l’hai vista?», chiese Justin alla sua migliore amica, mentre si dirigevano verso casa della ragazza. «Mi ha fatto tanta pena».
«L’ho vista. È sola, ora. Ha solo sua madre, sai? Non un amico, non un fidanzato. Mi sa che gli manchi»
, disse. «Sta piangendo», annunciò, guardando un punto lontano.
«Come lo sai?», domandò il ragazzo, guardando nella stessa direzione nella quale guardava la sua amica. «La vedi?». Lui non vedeva niente. «Dov’è?».
La ragazza lo guardò. «No, non la vedo, ma me lo sento. Non fa altro che piangere. Credimi, rimpiange di averti lasciato».
L’altro si rabbuiò. «Dispiace anche a me, Cait, credimi».
«La ami ancora?»
.
Dopo una lunga pausa, rispose: «Sì. Sì, la amo ancora». Annuì. Guardava in un punto lontano. «Mi manca, Caitlin», disse infine, guardando l'amica.
«Anche tu le manchi. Justin, lei non tocca più cibo».
«COSA?»
, gridò.
«Zitto, che cazzo urli?», lo rimproverò, sussurrando.
«Scusa», rispose lui, di rimando. «Come sai che non mangia?».
«Me l’ha detto lei»
, disse, mostrandogli un messaggio.
«Potevi dirmelo prima, Cait, accidenti», disse. «Vado da lei, va bene?».
«Okay, ma stai attento. Qualsiasi cosa potrebbe ferirla»
, lo avvertì. Dopo essersi abbracciati, lui si diresse verso casa di Abigail. Chissà come sarebbe stata, senza suo padre. Forse uguale, forse più vuota. Ma tanto lui c’era stato solo un paio di volte, lì dentro.
Suonò il campanello. La stessa ragazza che aveva visto pochi minuti prima aprì la porta, rimanendo pietrificata davanti a lui. Pochi secondi dopo, svenne. Il ragazzo la prese tra le braccia in perfetto tempo. Le diede dei piccoli schiaffetti sulle guance, scoprendo, involontariamente, il polso sinistro. Dei tagli. Alcuni freschi, altri più vecchi.
«Abigail!», gridò, nel panico. «Ti prego».
Lei aprì leggermente gli occhi. «Justin», sussurrò.
«Cazzo», farfugliò, tenendola tra le mani. «Ti prego, ti prego, fallo per me, riprenditi».



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Okay, lo so, questo capitolo non è un granché, peeeeeeerò
il prossimo lo sarà. Ve lo giuro, davvero u-u voi fatemi sa-
pere comunque cosa ne pensate, eh v.v più recensioni ci
saranno, più felice sarò io, e prima vi metterò il prossimo
capitolo :D ahahah.
Ringrazio per le recensioni
galaxy e RebeccaOlga *---*

Vi prego tantotanto, inoltre, di recensire e leggere anche

we can't go nowhere but up., mia nuova fanfiction
mooolto promettente, ahahah.
Vi amerò per sempre se lo farete *ç*

Tanti baciiii e tanti dolcetti,
La vostra Andsss.

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Capitolo 17
*** Capitolo diciassette. ***


Capitolo diciassette
 
Il ragazzo la prese in braccio, caricandola in macchina e avviandosi verso l’ospedale. Non era possibile, cazzo, prima sua madre, poi lei. Entrambe in ospedale, entrambe con una vita improvvisamente grigia.
L’aveva lasciata sola. Le parole gli giravano vorticosamente in testa, senza permettergli di ragionare lucidamente. L’aveva lasciata sola. Senza di lui era crollata. Aveva smesso di mangiare, aveva cominciato a tagliarsi. Tenendola tra le braccia, poco prima, si era reso conto che ormai era pelle e ossa. Era dimagrita di quanto, dieci, quindici chili? E quando stava con lui era già magra, pesava all’incirca 55kg ed era alta un metro e sessantasette centimetri.
Frenò di colpo davanti all’ospedale, prese nuovamente Abigail in braccio e la portò dentro il reparto ‘pronto soccorso’. I medici la adagiarono subito su una barella, che scomparve dietro una porta a spinta bianca, accompagnata da più o meno sette camici bianchi. Justin si sedette apparentemente tranquillo su una sedia bianca, di fianco ad una ragazza dai capelli castani e gli occhi azzurri. Avrà avuto massimo diciott’anni.
«Sei Justin Bieber, vero?», gli chiese poco dopo la ragazza di fianco a lui, sottovoce, per non farsi sentire. Sorrise, scoprendo i denti bianchi. «Io mi chiamo Shawnee», disse.
«Sì, sono io», confermò, abbozzando un sorriso. «Hai un bel nome», affermò, sincero. «Come mai sei qui?».
«Mia figlia è caduta dalle scale e si è rotta un labbro», spiegò. «Non mi hanno fatta entrare, purtroppo. Ma lei è molto indipendente, pur avendo solo tre anni». Lo guardò, con un’espressione leggermente triste.
«Figlia?», balbettò il ragazzo. «Ma avrai diciott’anni».
«Lo so, potrebbe essere mia sorella. L’ho avuta a quindici anni, effettivamente. È capitata, e non ho voluto abortire».
«È stato difficile per te?».
«Non immagini quanto», annuì. «E tu, come mai sei qui?».
«La mia… ex fidanzata», cominciò, rabbuiandosi, «si è sentita male ed io ero lì con lei, quindi l’ho accompagnata qui».
«Selena?».
«No, Abigail», sussurrò, trattenendo a stento le lacrime.
«Ah. Vi siete già lasciati? E perc…»
In quel momento arrivò la bambina di Shawnee, con i capelli di un castano quasi biondo, e due occhioni azzurri come quelli della madre. La ragazza la prese in braccio, mentre sua figlia ripeteva la parola «mamma!», per poi cominciare a raccontare quello che i dottori le avevano detto, tutta sorridente. Prima di fermarsi a parlare con il medico che aveva assistito la bambina, Shawnee lasciò il suo numero a Justin, dicendogli di chiamarla se avesse voluto.
Subito dopo la ragazza uscì ed arrivò un infermiere che si diresse verso il ragazzo. «Dobbiamo tenere la signorina Taylor sotto controllo, per almeno un paio di giorni. A causa dei tagli sui polsi ha perso parecchio sangue, perciò le abbiamo fatto una trasfusione. Inoltre, è troppo magra, quindi dobbiamo assicurarci che mangi, sia qui, che fuori».
«È sveglia? Posso vederla?».
L’uomo annuì, indicando il corridoio di sinistra. «Secondo piano, stanza 151», disse.
Justin arrivò davanti alla stanza poco meno di due minuti dopo, fermandosi davanti alla porta. E se fosse stato come più o meno tre settimane prima? Se lei si fosse arrabbiata? Però non poteva abbandonarla, di nuovo. Era sola, stava male. E lui la amava. Non poteva più stare lontano da lei. Era la sua vita, accidenti!
Bussò, una, due, tre, quattro volte. Respirò e spinse in giù la maniglia ed in avanti la porta. La ragazza, che teneva malamente in mano il suo Blackberry, lo posò, guardando il ragazzo. Era pallida. Tuttavia, vedendo Justin, i suoi occhi si illuminarono.
«Ciao», la salutò lui, andandole incontro velocemente. «Mi hai fatto prendere una paura, piccola».
«Non chiamarmi ‘piccola’, ti prego», rispose, mentre una lacrima le scendeva lungo la guancia. «È già stato abbastanza difficile continuare a vivere senza di te, non voglio che mi illudi».
Il diciassettenne le asciugò la lacrima con il dorso della mano. «Hey, non piangere», sorrise, «non voglio vedere la ragazza che am…» Si interruppe. «Non voglio vederti così, Ab».
Abigail tirò su col naso. «Mi manchi, Justin», sussurrò, mentre le lacrime continuavano a scorrerle sul viso. Distolse lo sguardo, girandosi verso la finestra che dava sul giardino dell’ospedale.
«Guardami», le disse. Lei non si mosse, così lui le prese il viso e glielo girò delicatamente verso il suo. «Ora ascoltami. Ti ricordi cosa ti ho detto, quella notte, quando sei venuta in lacrime da me a causa dell’incidente dei tuoi?».
Lei annuì. «Mi hai detto che mi sei vicino, che eri lì per me. Che ero la tua vita, la tua ragazza e… e….» La ragazza scoppiò in lacrime. 
«E che ti amo», concluse il biondo, prendendole la mano. «Non è cambiato niente, sai? Tre settimane non hanno fatto che aumentare quello che provo».
«Tu stai con Cait».
«Non diciamo cazzate, per favore», la rimproverò, dolcemente. «Io non sto con Caitlin. Io amo perdutamente una certa Abigail Jamie Taylor, che a causa mia ha cominciato a tagliarsi e ha smesso di mangiare», la guardò. «Non so se la conosci».
La ragazza arrossì di colpo, tuttavia non parlò. I suoi pensieri le impedivano di aprire bocca, di emettere alcun suono. Appena prima che il biondo dicesse qualcosa, lei sorrise. «Mh, forse e dico forse», cominciò, «potrei amarti anche io». Lo guardò, con il solito sorriso che aveva sempre avuto. Quello non era cambiato, almeno.
Il ragazzo si sedette sul letto, accanto a lei. «Non ci lasceremo più?».
«Lo spero!».
«Mi amerai per sempre?».
«Certo».
«Sarai…»
«Baciami, stupido».
Justin la baciò dolcemente, stringendola a sé. «Mi prometti una cosa, amore mio?». La guardò serio, circondandole la vita con il braccio.
«Che cosa?», chiese lei, curiosa.
«Promettimi che non ti taglierai mai più. E che ricomincerai a mangiare».
Lei affondò il viso nel petto del ragazzo, baciandogli la maglietta. «Te lo prometto. Comincerò a strafogarmi, partendo da domani».
«Perché domani?».
La ragazza sorrise. «In verità, un certo Justin Drew Bieber domani diventerà maggiorenne, non so se lo conosci», disse, imitandolo.
«Hey, Ab, non ti sprecare, sai».
«Provochi?».
«Provoco, e quindi?».
Abigail lo colpì alla spalla. «E quindi non ce l’avrai mai vinta».
Il biondo la baciò di nuovo, prendendole il viso tra le mani. Gli era mancata, oh si se gli era mancata. Era la sua vita, sebbene la conoscesse solo da qualche mese. Era possibile? A quanto pare, eccome. E lui ne era la prova.

 

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Capitolo 18
*** Capitolo diciotto. ***


Capitolo diciotto
 
Il ragazzo prese per mano Abigail, per portarla a casa. L’avevano dimessa prima del previsto, dopo che lei aveva promesso di mangiare e Justin di tenerla sotto controllo. Non avevano fatto altro che baciarsi, e baciarsi, e ancora baciarsi. Era come se volessero recuperare le tre settimane in cui erano stati separati, senza mai essere soddisfatti. In più, Justin era diciottenne già da dieci ore. La prima persona ad avergli fatto gli auguri era stata Abigail, a mezzanotte e cinquantasei. L’aveva svegliato con un bacio, poi gli aveva urlato ‘Buon compleanno!’ per venti minuti. Poi c’erano stati Caitlin, Chris Chaz e Ryan. E dopo, il suo iPhone non aveva più smesso di suonare. Non osava andare su Twitter, né su Facebook, perché sapeva che si sarebbero impallati a causa delle tante mentions. Sua madre gli aveva fatti gli auguri subito dopo Abigail, esattamente come i suoi nonni, e suo padre e i suoi fratellini alle 9 della mattina. Ora stavano andando a casa della sua fidanzata perché lei doveva cambiarsi, prima di stare fuori tutto il giorno. Poi sarebbero tornati di nuovo a casa, ma stavolta di lui, per cambiarsi definitivamente per la sua festa di compleanno che si sarebbe tenuta in casa di Caitlin.
Justin aprì il cancello della villa della sua ragazza con il telecomando, poi entrò nel vialetto. Scesa dalla sua Range Rover e aprì la portiera ad Abigail, porgendole la mano per aiutarla a scendere.
«Hey, Bieber», lo chiamò lei, «Cos’è questa galanteria? Sei tu, o sbaglio, quello che è festeggiato oggi?». Lo guardò, come per capire cosa lo portava a fare tutto ciò, poi lo attirò a se per la maglia e lo baciò. «Auguri, amore mio».
Lui ricambiò il bacio. «Ma grazie, splendore», le disse, baciandola di nuovo, a stampo. «Sì, è il mio compleanno oggi, ma sono molto felice e perciò sono molto gentile».
Lei rise. «Sì, certo», confermò. «Cazzo!», esclamò, «Non ti ho fatto un regalo!», urlò, coprendosi la faccia con le mani. «Che stupida che s…»
Justin la interruppe. «Me l’hai fatto, Abigail, me l’hai fatto eccome», le baciò la fronte, «Quel regalo si chiama Abigail. Mi basta e mi avanza», concluse, divertito.
La ragazza lo spinse via, correndo verso la porta di casa ed entrando, chiudendola subito dopo, per non fare entrare Justin.
«Cazzo, che male!», sentì.
Justin.
Uscì e, vedendolo che si contorceva per terra, si chinò, spaventata. «Che hai fatto?», chiese, nel panico. Il ragazzo non si mosse per qualche secondo, poi la trascinò per terra, stando attento a non farle male. Si mise a cavalcioni sopra di lei e la baciò. «Bieber, vuoi finirla ancora prima di ricominciare?», strillò lei, senza riuscire a stare seria.
«E dai, amore mio stupendo, splendido, fantastico, non ti sarai mica offesa!», replicò, facendo un faccino e una voce dolci. Si sedette sui mattoni grigi del vialetto, facendola sedere sopra di sé.
«Se continui così, purtroppo, no che non mi offendo», disse, fulminandolo con gli occhi. «Smettila di essere così dolce, biondino mio». Gli circondò il collo con le braccia, sorridendogli.
«Ma io sono Justin Bieber, non posso non essere dolce!», obiettò lui. La guardò negli occhi verdi. Dio, erano così belli. Poteva sapere cosa provava, solo guardandola negli occhi. Era felice. Non come il giorno precedente, nel quale, quando l’aveva vista, esprimevano tristezza. Ora era davvero felice, e lo capì guardandola negli occhi. «Qual è la tua canzone preferita, Abigail?».
«Up», rispose lei, in un sussurro.
«We can make the sun shine in the moonlight, we can make the gray clouds to the blue skies. I know it’s hard, but baby, believe me that we can’t go nowhere, but up, from here, my dear», cantò il ragazzo, cullando la sua fidanzata. «Ti amo, Abigail. Ti amo più di qualsiasi altra cosa».
Una lacrima le rigò il viso, seguita da tante altre. Il biondino la abbracciava, in silenzio. Nessuno avrebbe potuto rovinare quel momento, il loro momento. Justin le bacio la guancia, poi la invitò ad alzarsi e, dopo averla presa in braccio, la portò dentro casa. La lasciò sul letto in camera, poi tornò in salotto ed aspettò pazientemente che si cambiasse.
La ragazza scese un’ora e mezzo dopo, più bella che mai. Portava un paio di jeans, la canottiera bianca con il logo di Starbucks e le converse bianche. Il ragazzo si chiese come faceva a tenere così pulite le sue scarpe. Lui le sporcava due minuti dopo averle messe. Sopra, portava una felpa verde pesante.
Aveva i capelli leggermente umidi, piuttosto mossi, e gli occhi contornati dalla solita passata di matita nera. Le ciglia erano nuovamente allungate col mascara. Il suo sorriso, tuttavia, non era cambiato. Quello non cambiava mai. E questo era un bene, eccome.
Il canadese andò incontro alla sua fidanzata e la baciò a lungo, tenendola stretta a sé. Aveva tanta paura di schiacciarla, o di farle male. Era ancora piuttosto debole, anche se aveva ripreso il suo colorito normale.
«Justin», lo chiamò, «voglio un bombolone alla Nutella. Ah, e una cioccolata calda», disse, mostrando i 32 denti.
«Allora, che aspettiamo?», chiese lui, retoricamente, afferrando la giacca e la sciarpa sia propria che della ragazza e prendendola per mano. Le riaprì la portiera, la fece salire ed infine salì lui, per poi dirigersi verso il suo bar preferito. Lì, ordinò due bomboloni alla Nutella e due cioccolate in tazza, pagò e raggiunse Abigail al tavolo, circondato da cinque ragazze di circa quindici anni che le stavano chiedendo l’autografo. Lei le stava guardando sorridendo, ma abbastanza smarrita. Lui prese in mano la situazione e nessuno dei due negò una foto o una firma a nessuna delle fan che gliele chiedevano. Justin non ricordava che fosse così divertente, forse perché quando stava con Selena non l’aveva quasi mai fatto. Ora come ora, si sentiva una merda per aver negato alle sue fan di realizzare il loro sogno. Tutti meritavano di realizzarlo. Tutti. Nessuno escluso.

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Capitolo 19
*** Capitolo diciannove. ***


Capitolo diciannove
 
«Ti devo dire una cosa, piuttosto importante», urlò la ragazza, per farsi ascoltare. Il suo fidanzato stava continuando a parlarle dei suoi progetti futuri. Un altro disco, dopo Believe, e un altro tour mondiale. «Ascoltami, ti prego», lo guardò. Lui si bloccò a metà frase, capendo che lei aveva davvero bisogno di essere ascoltata. Erano passate quattro settimane dal suo compleanno e ormai anche marzo era alla fine. La ragazza aveva quasi ripreso il suo peso iniziale ed era più raggiante di prima.
Il cantante canadese la prese per la vita e la baciò a stampo. «Dimmi tutto, amore mio». La guardò negli occhi, quegli occhi verdi che tanto amava. Le fece un sorriso d’incoraggiamento, ed attese che cominciasse a parlare.
«Sono in… cin… ta», balbettò. Strinse i pugni e chiuse forte gli occhi, come per ripararsi dalla reazione che si aspettava dal suo ragazzo. Era stato difficilissimo rivelargli della sua gravidanza. Sua madre l’aveva accettata, strano ma vero. Era stata felice, dopo un primo momento di smarrimento. Non se l’aspettava, ma forse l’idea di aver perso il marito la faceva sentire talmente sola che il pensiero di tornare ad essere tre in casa la entusiasmava. Specialmente se il terzo era un bambino che la teneva occupata. Oppure una bambina, certo.
Al contrario di quello che si aspettava, anche il ragazzo, come sua madre, ne fu subito entusiasta. Più o meno. La abbracciò in silenzio per due minuti, poi si staccò. Era felice, lo era davvero, ma come Abigail ben sapeva, non poté fare a meno di farsi mille paranoie. «Ti ho rovinato l’adolescenza, cazzo», disse, più tra sé e sé che a qualcuno, passandosi una mano tra i capelli. Dopo una ventina di minuti passata a fare su e giù per il salotto, si sedette di fianco a lei, sul divano e la strinse a sé. «Mi dispiace, Abbs, mi spiace tanto. Avrei dovuto usare il…»
Lei gli impedì di finire la frase, baciandolo. «No», obiettò, «non dirlo nemmeno. Non avevo in programma di diventare madre a diciassette anni, ma sono felice, okay?». Appoggiò la testa al petto di Justin. «Non provare a prenderti la colpa, capito? Andrà tutto bene, orsachiottino della mia vita», disse, imitando lui quando, pochi mesi prima, quando si erano messi insieme, l’aveva chiamata così.
«Ti amo tanto, Abigail», le sussurrò, baciandole i capelli. «Sei quanto di più bello mi sia mai capitato, in tutta la vita».
«Dopo le Beliebers», lo corresse. Per lei era molto importante che lui avesse le sue fan prima di lei. Lo avevano scoperto tanto tempo prima, e anche lei lo aveva fatto, ma l’aveva conosciuto davvero solo nello scorso novembre. Non meritava di essere posizionata prima di loro.
«Ma tu sei la mia vita», replicò, «non posso mettervi tutte al primo posto? Dopo tutto, anche tu sei una Belieber», osservò, sorridendo. La strinse ancora di più a sé, appena prima che sentissero il campanello suonare.
Il biondo si alzò, dirigendosi verso la porta. Aprì, ritrovandosi davanti cinque ragazzi: tre maschi e due femmine. Chaz, Ryan, Chris e Caitlin lo abbracciarono forte, mentre l’altra, Sheila, andava verso Abigail e le saltava addosso. Per i successivi quindici minuti nella casa del cantante canadese risuonarono urletti eccitati e vari «Complimenti!», detti settecento volte da tutti.
Justin guardò confuso la sua fidanzata, in un momento di tranquillità. «Quando gliel’hai detto?», chiese, piano, mentre gli altri organizzavano tutto.
Lei gli sorrise angelicamente. «Mentre tu stavi a non cagarmi», rispose, poi, fulminandolo con lo sguardo. «Se tu mi avessi ascoltata subito, loro avrebbero saputo dopo di te».
«Potrai mai perdonarmi?», domandò, a meno di un centimetro dalla bocca della ragazza. Lei gli circondò il collo con le braccia e lo baciò dolcemente, mentre lui la stringeva forte a sé.
Caitlin tossì. «Ragazzi, un po’ di contegno!», gridò, facendo ridere tutti. Poco dopo, i sette si sistemarono sul divano e cominciarono a parlottare. Il nome, la casa, il matrimonio. Sia Justin che Abigail erano convinti che non si sarebbero sposati ora, sebbene stessero aspettando un bambino. Il matrimonio avrebbe rovinato davvero la loro giovinezza, almeno pensavano così. Per il nome, non ci fu verso di dissuadere i loro amici: volevano per forza deciderlo subito. Si sarebbe chiamato Harry Travis Bieber, se maschio; Destiny Quinn Bieber, se femmina. Nel profondo, Justin desiderava che fosse una bambina. Che fosse stato maschio o femmina, tuttavia, sapeva già che avrebbe avuto un altro figlio. In totale, due. O tre, nel caso fossero capitati due gemelli. In quanto alla casa, non potevano, di punto in bianco, trasferirsi. Primo, lui doveva dirlo a sua madre. E poi Abigail non aveva ancora diciassette anni, avrebbero dovuto aspettare che lei fosse stata maggiorenne, almeno. E poi lui era Justin Bieber, cazzo! Cosa avrebbe fatto? Non poteva lasciare Abigail a Stratford, da sola, ad aspettare loro figlio, ma non voleva nemmeno abbandonare per così tanto la carriera.
Pochi minuti dopo, dopo essersi nuovamente complimentati con i due fidanzati, i loro cinque amici li lasciarono soli.
«Ab», la chiamò il ragazzo, dopo un lungo silenzio.
«Justin, devi continuare la tua carriera», tagliò corto lei.
«Non ti arrabbierai?».
«Certo».
Lui la guardò con aria interrogativa.
«Il rapporto di una coppia è fatto così. Prima uno fa un sacrificio, poi lo fa l’altro, si litiga, ci si dicono cose brutte, ma poi si fa pace».
Il ragazzo abbassò lo sguardo. «Non è sempre così», replicò lui. «E poi non voglio deluderti».
«Ascoltami, Justin», cominciò, sedendosi in braccio a lui e guardandolo. «Tu non sarai mai capace di deludermi, in nessun modo. E io non posso impedirti di continuare a coltivare il tuo sogno, capito? Tu andrai ad Atlanta, sarai Justin Bieber finché non avrai finito e dopo, se vorrai, tornerai qui. Se no, continuerò ad aspettarti. Forse un po’ arrabbiata, ma ricordati una cosa: ti amo più di qualsiasi cosa al mondo e niente e nessuno potrà mai cancellare i miei sentimenti».
Lui la strinse a sé, baciandola sulla guancia. «Che ho fatto per meritarti?».
«Ti sei comportato male».
«Scherzi? Sei stupenda».
«Ti amo, Justin», disse. «Ma ricordati sempre una cosa: non ti amo perché sei Justin Bieber, il cantante odiato da migliaia di persone inutilmente. Io ti amo perché sei Justin Drew Bieber, il biondino di Stratford che mi ha letteralmente rubato il cuore». 

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Capitolo 20
*** Capitolo venti. ***


Capitolo venti
 
- Sei anni dopo.
La ventitreenne camminava avanti e indietro per il salotto. Dove diavolo era Justin? aveva promesso, promesso che sarebbe tornato quella mattina, ed invece niente! Non si era nemmeno degnato di chiamare, o di mandare un messaggio, o di fare un segnale di fumo. Avrebbe dovuto essere in casa con lei già da cinque ore. Erano le tre del pomeriggio, era il compleanno di Destiny e lui aveva promesso, sia a lei che alla bambina, che sarebbe stato presente alla festa. Invece non c’era. Abigail stava guardando sua figlia giocare con i suoi amici. Stava sorridendo ma, da mamma, la ragazza aveva capito che non era felice. Lei voleva il suo papà, come Harry, d’altronde. Il bambino non aveva fatto altro che chiederle dov’era Justin, nell’ultima mezzora, e lei non aveva saputo cosa rispondere. Non poteva di certo dire che non lo sapeva, insomma.
«Dai, Ab, arriverà», la confortò Chaz, il migliore amico di Justin. Il ragazzo teneva in braccio la piccola Helen, di appena quattro mesi. A fianco aveva Amy, la sua fidanzata da ormai quattro anni, dalla quale aveva avuto sua figlia. Abigail ed Amy erano diventate molto amiche, sapevano di poter sempre contare l’una sull’altra, come con Sheila, d’altronde. Lei si era fidanzata un paio di anni prima con Ryan, uno degli altri amici di Justin. Quella coppia era una delle più intelligenti, in quanto non avesse ancora in programma un marmocchio… figuriamoci due. «Avrà avuto un contrattempo in aeroporto», continuò il biondo, mettendo una mano sulla spalla di Abigail.
«Sì, lo so, o meglio, lo spero. E se gli fosse acc…»
Non riuscì a finire la frase, perché sentì qualcuno che infilava la chiave nella toppa e la girava. Destiny, Harry, Abigail e tutti gli invitati si girarono, col fiato sospeso. La porta si aprì, e il biondo tanto atteso urlò, sorridendo: «Dov’è la mia principessa? E il mio campione?».
«Papà!», gridarono i due bambini, correndo incontro al ventiquattrenne e saltandogli in braccio. Abigail si alzò di colpo, senza sapere se essere felice o arrabbiata. Quando Destiny ed Harry tornarono a giocare, si avvicinò a quello che presto sarebbe diventato suo marito. Lui la attirò dolcemente a sé, stampandole un bacio sulle labbra.
«Sei bellissima», le sussurrò. In effetti, nessuno avrebbe potuto dargli contro: portava un vestito un vestito blu acciaio senza spalline lungo fino a poco più su delle ginocchia, con una fascia bianca sotto il seno e decolté dello stesso colore dell’abito, tacco dodici. Aveva piastrato i capelli e gli occhi erano contornati dalla stessa matita nera che aveva sei anni prima.
«Anche tu lo sei, Bieber», rispose lei, stringendolo. Justin non era vestito in maniera elegante. Jeans neri, larghi, t-shirt bianca, giacca viola e Supra nere. Solito abbigliamento, tipico di lui. Eppure, per Abigail lui era sempre stupendo. La mattina, appena sveglio, la sera, prima di andare a dormire. Felice, triste, arrabbiato. Non aveva mai visto un ragazzo più bello di lui e non credeva ne esistessero. Forse perché, oltre lui, aveva avuto solo un altro ragazzo, ma risaliva alla terza media. Da quando lei e Matt, così si chiamava il suo ex, si erano lasciati aveva aspettato un ragazzo che la meritasse davvero. Un ragazzo che la trattasse da principessa, un ragazzo che ci sarebbe stato per lei, anche se fosse stato a migliaia di chilometri di distanza, un ragazzo che avrebbe commesso tante pazzie da poterci scrivere un libro.
E l’aveva trovato, quel ragazzo. Era biondo, con gli occhi color miele, scherzoso, ma che sapeva essere serio. Avrebbe dato la vita per lei e per Destiny ed Harry, Abigail lo sapeva bene. Non avrebbe potuto desiderare di meglio, perché di certo non l’avrebbe trovato. E quel ragazzo ce l’aveva lì, proprio davanti a sé, pronto a proteggerla, a supportarla, ad amarla.

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