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Signore e signori,
benvenuti nella mia vita. Entrateci piano, in punta di piedi, ed osservate le
meraviglie che la mia mente è riuscita a concepire. Un mondo simile al vostro,
con tutte le similitudini del mondo reale: case, palazzi, uffici, automobili,
strade… tante persone comuni e qualche persona speciale;
in questo caso, le
persone speciali sono i miei personaggi. Loro sono creature della mia mente,
amici che mi sussurrano all’orecchio ciò che hanno da dire, ed io prendo i loro
racconti, e come in uno psicodramma, li faccio recitare nei ruoli che si sono
scelti. Non uso una cinepresa, né una macchina per scrivere, bensì mi basta una
matita.
Oh, perdonate la
maleducazione, non mi sono ancora presentato. Mi chiamo Donatello, ho
ventiquattro anni e ho la passione per il disegno. Disegno fin da quando ero
bambino, fin da quando ho imparato a tenere la matita in mano. Inizialmente i
miei erano solo disegni senza capo né coda, ma poi hanno iniziato a prender
forma, e a diventare quello che io chiamo “il mio piccolo mondo di carta”,
appropriandomi di una definizione abbastanza sfruttata, ma che comunque
conserva il suo bel perché. Disegnare per me è un atto di liberazione, di
dolcezza. L’unica dolcezza che mi è concessa, dal momento che la mia vita non è
tanto dolce come potrebbe sembrare.
Sono gay, (eh sì…) e
questo è un motivo di disagio per me, non tanto per ciò che sono, quanto perché
non riesco ad essere felice. Tutto ciò che vorrei sarebbe un ragazzo al mio
fianco, ma più che amici non riesco ad ottenere. Fiorella (la mia psicologa)
dice che anche gli amici sono parte della vita, e non è da sottovalutare una
persona che possiede degli amici. Io le rispondo che vorrei affetto fisico, ma
lei mi risponde, sempre tranquilla e serafica, che certe cose arriveranno col
tempo. Direi che a forza di aspettare e provare, sono arrivato a ventiquattro
anni, ma senza concludere molto. Solo una lunga lista di persone che mi hanno
deluso.
Sì, avete ragione,
trovare l’anima gemella è difficile, poi quando la si trova bisogna saperla
tenere ed averne cura, ma … secondo voi, può essere tanto difficile prendersi
cura di una persona che si ama? È davvero un peso come può sembrare? Spero di
no, altrimenti non avrebbe nemmeno senso mettersi insieme ad una persona, se il
tutto si riducesse ad un mero impegno formale…
Tuttavia, tra la
sfilza di delusioni, mi sforzo di cercare il lato positivo che ciascuna
conoscenza ha, e quasi sempre lo trovo nell’aver coccolato o baciato per una
volta dei bei ragazzi (sì, devo ammetterlo. Io non sono un adone, ma, per la
miseria, non ho mai avuto delle avventure con ragazzi che fossero più brutti di
me. Solo ragazzi bellissimi. Una carezza alla fioca fiamma della mia vanità) ed
essermi sentito desiderato, per quel poco tempo.
Ognuno di loro ha
lasciato un’impronta nella mia anima, ed una forma precisa nella mia mente, che
ho provveduto a ricopiare su carta. Così sono nati i miei personaggi… E così
inizia questa storia, che adesso vado a narrarvi…
Sulle note de Arrivano i superboys, un vecchissimo
cartone animato giapponese, creavo i miei scenari. Il ritmo incalzante della
sigla, accompagnata dal gentile fruscio del giradischi della mia stanza,
generava in me una carica di creatività che forse era il mio piccolo segreto
per creare ciò che creavo. Ovviamente non solo le musiche allegre erano per me
fonte di ispirazione; anche le note di una classica sonata di Beethoven o una
canzone di Fabrizio De André potevano essere ispiratrici di nuove visioni, che
prontamente trasferivo sui grandi fogli A3. Ed ogni volta era una sensazione
diversa, uno scenario allegro o triste, a seconda della colonna sonora che mi
sceglievo.
La musica mi diceva
qualcosa, ed io creavo in funzione di essa.
Quando c’era
silenzio, creavo lo stesso, ma cose più asettiche, tipo nuovi personaggi.
Non ricordo come
nacque Dandy Landy, ricordo soltanto che stavo ascoltando una canzone di Ronan
Keating, When you say nothing at all.
Mi venne fuori un ragazzotto di circa ventisei anni, alto e slanciato
(calcolavo nella mia mente che potesse essere alto circa un metro e novanta, ma
non ne ero mai sicuro del tutto), bello come il peccato che non avresti mai
commesso e talvolta anche un po’ stronzo. Come la gran parte dei belli che
popolano questo piccolo, strano mondo. A tutt’oggi non so nemmeno perché avesse
scelto di chiamarsi così, con un nome al tempo stesso spaccone ma buffo. So
solo che come personaggio mi piaceva, e non solo perché l’avevo creato io.
Questa
volta lui e i suoi compari stavano esplorando un mondo magico. Una foresta
incantata, per dirla tutta, dove dagli alberi multicolori pendevano stranissimi
frutti di forme diverse. Chissà perché erano giunti là? Sembravano chiedersi i
personaggi stessi, con le loro espressioni tormentate. La verità era che non lo
sapevo nemmeno io. Non pianificavo mai una storia seria, vale a dire con sceneggiature
e story-board. Mi mettevo al tavolo da disegno e creavo, senza una direzione
precisa, più o meno come un regista che filma qualcosa, poi prende dei pezzi a
caso e poi li incolla creando dei videoclip.
Inquadratura
di tre quarti sul suo viso. Una ciocca di capelli biondi gli solleticava la
guancia, i suoi occhi guardavano verso l’obiettivo. Per un attimo ci fissammo,
io dal mondo reale, lui dal suo mondo di cartone. Fui quasi ipnotizzato da quel
sorriso, tanto che rimasi a guardarlo un bel po’. Lentamente, il quadro
incominciò ad ingrandirsi, poco alla volta, ma sempre di più. Mi sembrava quasi
di poterci entrare dentro, ed effettivamente fu così. Mi ritrovai nel mondo di
Dandy Landy, una foresta tutta bianca (non avevo ancora colorato quelle sequenze)
e nera, dove Dandy Landy era lì e mi tendeva la mano. Sorrideva, e anche dopo
che mi fui rialzato continuò a tenermi la mano, facendomi il gesto di seguirlo.
Non sarei comunque andato da nessuna parte, quindi perché cavolo continuava a
tenermi la mano? La cosa non mi infastidiva, anzi…
Giungemmo
ad un ruscello, questo era colorato. E anche Dandy Landy acquistò colore man
mano che avanzavamo. Sempre spigliato ed allegro, si tolse le scarpe
calciandole via, poi fu la volta della maglietta (che lasciava intravedere un
fisico magro ma definito) e dei pantaloni. Sotto era totalmente nudo.
L’ultima
volta che ero stato con un ragazzo, questi mi aveva pregato di girarmi e non
guardarlo mentre si spogliava, quindi capirete l’imbarazzo che provai nel
vedermi un pezzo di adone come Dandy Landy spogliarmisi davanti agli occhi. Mi
girai imbarazzato e rosso come un peperone, ma lui mi venne gentilmente vicino
e mi tolse la mano dagli occhi, offrendomi ancora una volta in visione quegli
occhi azzurri che io stesso avevo colorato.
Gli
sorrisi gentilmente, e lui interpretò questo mio sorriso come un “via libera”
allo spogliarmi. Mi sbottonò la camicia, ed io la riabbottonai, lui la sbottonò
di nuovo. Io di nuovo la riabbottonai. Sbuffando, mise le mani sui fianchi e mi
guardò stufato.
- Non … Non capisco,
che cosa…? – ebbi solo il tempo di proferire, prima che Dandy mi spingesse
nelle fresche acque sorgive, bagnandomi da capo a piedi. Quando riemersi, vidi
lui che se la rideva come un bambino.
- Ah sì, eh? Non è
divertente! – dissi, alzando il tono della voce. Ma fu come acqua fresca contro
un mal di testa, in quanto lui spiccò un balzo e mi raggiunse in acqua.
Intanto, i compari di Dandy si erano riuniti, e ridevano di mute risate. Erano
tutti ragazzi molto carini, e divertenti proprio come lui. I loro sorrisi non
tradivano la benché minima ombra di invidia, ma solo felicità. Intanto Dandy mi
era sopraggiunto da dietro e mi si aggrappò al collo, a mo’ di koala.
Mentre tutti gli
altri si spogliavano ed entravano in acqua anch’essi, giocando e scherzando tra
di loro, Dandy, ormai calmo, mi baciò la guancia e mi sussurrò all’orecchio le
sue prime parole.
Vieni
a giocare con me.
Non era una domanda.
Era un ordine in
piena regola.
Per farmi capire che
non scherzava, girò intorno a me fino a che non fummo faccia a faccia, si
riagganciò a me come un koala e mi strinse forte, tanto forte che potei sentire
le sue caviglie contro la mia schiena, e le sue braccia che quasi mi
strizzavano. Impossibilitato a muovere le gambe per mantenermi a galla, finimmo
a fondo, e lì…
Bussarono alla porta
della mia stanza. Sicuramente era il mio coinquilino, con il quale dividevo
l’appartamento dei miei genitori. Con molto acume constatai che mi ero
addormentato sul tavolo da disegno, e per una sfiga del destino avevo versato
il colore blu su tutte le tavole.
- Porca vacca! –
strepitai, prendendo in tutta fretta un bel po’ di fogli di carta assorbente,
con la quale tamponare il disastro che avevo combinato.
- Donatello? Tutto
bene? – domandò Francesco dall’altro lato. Io imprecai sottovoce, rispondendo –
Sì, sì… va tutto bene! – e poi aggiunsi, di nuovo sottovoce – Porca puttana… -
mentre asciugavo tutti i fogli dal colore semidenso che aveva rovinato tutte le
mie tavole, l’intero lavoro di due giorni.
- Dimmi – dissi,
brusco, appena mi trovai davanti il mio coinquilino. Era tutto in tiro, ed io
sapevo già che cosa mi avrebbe chiesto.
- Ehi, che bella
maglietta – disse, ridacchiando. – quest’anno vanno di moda le macchie blu su
fondo bianco? –
- Spiritoso… -
risposi io – Ho soltanto combinato un pasticcio coi colori. –
- Certo. – tagliò
corto lui, lanciandomi poi la sua proposta. – Io sto andando al Red, ti va di
venire? –
Francesco era più
piccolo di me di cinque anni. Nonostante il bell’aspetto, si circondava di
“brutti” come me. Ancora oggi non capisco se lo facesse per non avere rivali di
bellezza, o perché si sentisse veramente a suo agio con i brutti, ma dopotutto
a me importava che mi bonificasse i trecentocinquanta euro che mi doveva ogni
mese, ed ero a posto. Di quello che pensasse o facesse, poco m’importava.
Il che non era del
tutto vero, perché sentivo che lui ogni sera tornava a casa con un ragazzo
diverso, mentre io… o mi chiudevo in camera ad ascoltare musica oppure mi
sfogavo disegnando o dandomi alla lettura. Chi lo voleva, un grassone creativo?
I suoi incontri a casa mia erano per me motivo di invidia, grandissima invidia.
- Hai di nuovo
problemi di auto, vero? – domandai, per punzecchiarlo un po’. Francesco mi
sorrise e annuì mestamente, allargando le braccia in una comica espressione di mi dispiace signora, non si può fare
altrimenti.
- Ok – concessi,
guardando l’orologio a muro della mia stanza da letto – Se mi dai tre quarti
d’ora, un’oretta al massimo, ce la faccio. Non hai fretta, vero? –
- Assolutamente no.
Fai con calma, basta che non dimentichi che entro le 11 dobbiamo essere là. –
- Cazzo, bello
sforzo. Sono le nove e mezza. Hai qualcuno che ti aspetta, lì? –
Francesco scrollò le
spalle – I soliti – concluse, allontanandosi dalla porta. Il suo sedere era
definito da tutte le ore di palestra che faceva quando non studiava. – Ti
aspetto. –
Chiusi la porta,
mormorando – E certo che mi aspetti, se non ci sono io rimani a casa anche tu…
-
Mi fermai a guardare
il casino che c’era sul tavolo da disegno, sospirando. Adesso come avrei fatto
a riprodurre tutte le tavole che avevo irrimediabilmente rovinato?
Decisi di non
pensarci, e le lasciai lì fino a nuova decisione.
C’era solo una cosa
oltre alla mia casa, che mi teneva legato ai miei genitori. La mia vecchia
auto. Una scassata Audi A4 Avant del ’96 o giù di lì, che mi portava però dove
volevo io senza particolari problemi. Soprattutto piaceva a Francesco per la
comodità dei sedili, dato che immancabilmente, tutte le volte che andavo con
lui a ballare, si portava dietro qualche ragazzino. Se pensate che ero
invidioso? Eccome, se lo ero.
- Questo qui è nuovo.
Ha appena diciotto anni, ma mi sembra abbastanza intelligente. – disse
Francesco, accomodandosi sul sedile passeggero con la stessa grazia di un
imprenditore che s’accende un sigaro in limousine.
- Come si chiama? –
domandai io, guardando la strada per dare la precedenza. Passarono una
Cinquecento nuova ed una Lancia Ypsilon.
- Si chiama Simone. È
molto carino, sai? – lo disse con una nota di felicità. Era incredibile come
Francesco riusciva a sembrare innamorato quando invece non lo era per niente.
Lui aveva appena vent’anni, io venticinque, e mentre io di esperienze sul curriculum
ne vantavo poche e fallimentari, lui poteva vantare un’esperienza consolidata e
testimoniata dal sottoscritto, che quasi ogni sera si vedeva arrivare in casa
ragazzi sconosciuti, a volte anche molto belli. Questi suoi compagni di giochi
mi guardavano e mi schifavano dentro di loro, solo perché ero un po’
sovrappeso. Solo una volta ricordo che uno di loro, incuriosito forse dal
tavolo da disegno, entrò in camera mia e si mise a guardare con me i disegni
che stavo facendo.
- Che fai? – mi
chiese, gentilmente.
Con la matita ancora
in mano, mi girai e lo guardai (non ricordo come si chiamasse, forse
Mattia...), quindi con molta calma risposi – Oh, niente. Stavo solo preparando
i nuovi disegni… -
- E lo chiami niente?
– disse “Mattia”. – Questi disegni sono favolosi – dichiarò, prendendone un
foglio in mano senza che io gli avessi nemmeno dato il permesso esplicito. Come
previsto, le sue dita macchiarono le tavole di grafite, ed io dentro di me
bestemmiai perché avrei dovuto toglierle prima dell’inchiostrazione a china.
- Sei un fumettista?
– mi chiese ancora Mattia.
- No… non
ufficialmente, almeno. Diciamo che è una passione. I miei mi vorrebbero
avvocato. – e mentre dicevo quelle parole, feci un cenno con il sopracciglio ai
miei libri di diritto sullo scaffale alto della libreria.
- Ah capisco… - disse
annuendo Mattia, poi mi sorrise – Senti, il tuo amico è di là con il mio amico…
che ne dici se io resto un po’ qui? –
Non sapendo bene cosa
dire, mi strinsi nelle spalle. Era un ragazzo molto carino, biondo chiaro e
dagli occhi celesti e curiosi. Lui interpretò il mio stringermi nelle spalle
come un cenno affermativo, quindi si mise comodo sul letto, si tolse le scarpe
e mi sorrise.
Io lo guardai, e gli
sorrisi.
Ma quella notte non
ci fu niente. Mattia si addormentò nel mio letto, ed io andai a dormire sul
divano dell’altra stanza, quella che di solito rimaneva sfitta. Chiamatemi
fesso, ma proprio non ce l’avrei fatta. È più forte di me, quando ho
un’occasione tra le mani, non riesco a prenderla al volo. Davvero, chiamatemi
fesso.
- Sai cosa penso? –
la voce di Francesco interruppe il corso dei miei pensieri mentre guidavo. –
Cosa? – domandai io, spingendo la frizione e cambiando marcia.
- Pensavo di
presentarti un mio amico. A lui piacciono gli orsi, e magari… -
- Fra, ma devi per
forza vedermi accasato, per essere felice? – lo presi in contropiede. Per la
verità non mi piaceva l’idea che un ragazzo potesse provare dei sentimenti per
me solo in base al mio fisico. Io ero qualcosa di più di un semplice ragazzo
gay. Cazzo, ero un fumettista! Dilettante, ma pur sempre un fumettista.
Contrariamente alle
mie aspettative, il buon Fra (che era un tipo parecchio alla mano), si mise a
ridere.
- Eh ma come sei
orso. Bravo, così mi piaci! E comunque no, non mi serve vederti accasato per
essere felice – disse, con un tono un po’ più serio – voglio solo sdebitarmi
con te per tutti i ragazzi che mi porto nel tuo letto. –
- Non sapevo ci fosse
una clausola nel contratto che prevedesse che mi devi procurare da scopare per
appianare i tuoi affitti… - dissi, sarcasticamente. Questa volta Francesco non
rise.
- Dio, che palle di
uomo sei. Ma hai idea di quanti nelle tue condizioni farebbero a gara per avere
un amico come me, che gli presenta persone e porta a casa gente? Cavolo, non
sei riuscito ad impapocchiare nulla nemmeno con Mattia, che è tanto un bel
ragazzo! –
Evitai di
rispondergli, non già perché la mia risposta sarebbe stata un sonoro
“vaffanculo”, o perché nonostante la mole fossi un ragazzo pacifico, quanto
perché sarebbe stato meglio non demolirgli la faccia a pugni proprio in quel
momento. Eravamo arrivati.
Mi credereste se vi
dicessi che posti come quello non fanno per me? La discoteca gay ha un qualcosa
di strano, un’aura che soltanto quelli grossi come me riescono a percepire. Ti
guardi intorno e ti senti guardato da tutti, per come sei vestito, per come ti
muovi, per quanto pesi. Credete che sia facile per me entrare in un posto come
quello senza essere preso dalle smanie di confronto? Come ho detto tante volte
a Fiorella (la mia psicologa), in discoteca io mi sento un alieno!
- Ciaaaaao Fra! –
sento dire all’improvviso. Questo era un ragazzetto sui ventitré, con i capelli
castani sparati su con il gel ed un piercing a pallino al labbro inferiore, che
si aggrappò a Francesco e lo baciò tre volte sulle guance.
- Ma ciao, puttanona
– replicò Francesco, ridacchiando. Un altro ragazzo sopraggiunse, questo era
più chiaro di carnagione e portava i capelli biondi pettinati alla moda Emo,
ovvero con un frangione che copriva tutto l’occhio sinistro. Francesco salutò
anche l’altro e poi, come per magia, si ricordò di me, dato che nemmeno le sue
due “amiche” si erano degnate di salutarmi. Funziona così, nel mondo gay: se
non sei attraente, puoi anche andare all’Eni, cospargerti di benzina e poi
accenderti una sigaretta, che tanto non ti vedranno mai.
- Questo è il mio
padrone di casa, Donatello. Donatello, i miei amici, Andrea e Gabriele. –
questi ultimi mi guardarono con quella tetra indifferenza che una ricca signora
userebbe quando passa un euro di elemosina ad un povero marocchino, e mi
porsero la mano allo stesso modo. La stretta di mano era poco convinta, come al
solito… Piacere, piacere… ed ecco che si erano di nuovo dimenticati di me, per
concentrarsi sul vero bocconcino della serata: Francesco.
Secondo voi, è
possibile che un ragazzo di vent’anni riesca a farsi tante avventure, senza che
nessuna di esse possa influenzarlo a tal punto da fargli perdere la testa?
Teoricamente è possibile, specie se questo ragazzo di vent’anni è carino e
tutti lo vogliono. Se proprio dovesse entrare in crisi per via di uno che ama
ma senza essere ricambiato, saprebbe di sicuro come consolarsi. Avanti un altro
e via andare. Osservavo Francesco ballare dal cantuccio che mi ero scelto, su
un divano nero di pelle. Tracannavo il mio drink e vedevo ogni scena
strutturata come in uno dei miei fumetti. Francesco che ballava con questi due,
questi che gli dicevano corbellerie in uno strano alfabeto muto, e lui che
baciava prima uno e poi l’altro. Scossi la testa, sospirando. Per non cedere
allo sconforto, spostai l’inquadratura più a desta, dove torme di uomini
ultraquarantenni ballavano… soli. Oppure in gruppi di età omogenea. Mentre li
guardavo, mi venne in mente che non sapevo disegnare bene le persone avanti con
gli anni. Ero più portato alla perfezione, e le imperfezioni che sono
patrimonio dell’età non mi appartenevano. Questo mio piccolo difetto mi
spaventava non poco. E se un giorno fossi stato contattato da un grande
editore, mi sarebbe stata sottoposta una storia da disegnare in cui c’erano
degli uomini anziani? Cos’avrei potuto fare? Cercai di non pensarci,
ripromettendomi ancora una volta di provare e riprovare a disegnare più persone
anziane.
E un altro gruppetto
che mi guardava.
Beh, e allora? Sono
seduto, che c’è di strano. Non avete mai visto un ragazzo seduto su un divano?
Mi chiesi che
cos’avrebbero mai fatto tutti questi qui se adesso ci fosse stato Dandy Landy
al mio fianco. Avrebbero sorriso? Avrebbero riso? O forse sarebbero schiattati
d’invidia?
Ho sempre pensato che
nella vita i problemi li avevo soltanto io. Con l’andare degli anni, mi sono
accorto che i problemi ce li hanno tutti, veri o immaginari che siano, e che
ogni giorno ci combattiamo, perché è quello che dobbiamo fare se vogliamo vivere.
Francesco, ad
esempio, (che in questo momento potevo vedere in bagno mentre si lavava i
denti, con indosso le braghe a righe del pigiama, a torso nudo come un rude
soldato) era ossessionato dall’apparire. Quando si andava in giro insieme, le
poche volte che ancora uscivo con lui, si cercava nel riflesso delle vetrine,
stava sempre ad aggiustarsi i capelli, a controllare il bianco dei suoi denti,
i fianchi sopra la vita dei pantaloni… Capirete da soli che averlo vicino mi
procurava un leggerissimo fastidio, più o meno pari al fastidio che si ha
quando ti schiacciano i pollici con un martello.
Altri invece, come i
vari fidanzatini di Francesco, erano ossessionati ciascuno dalle manie più
diverse. La più comune era quella della pelle, che per loro doveva essere
sempre perfettamente in ordine e liscia come quella di un bebè. In secondo
posto nella hit parade delle preoccupazioni c’era l’esigenza di fare sesso
tutte le sere con qualcuno diverso, oppure con sempre lo stesso, che
puntualmente non inviava il tanto sospirato sms.
Insomma, ognuno nella
vita ha la sua croce. Per i giovani obesi come me, la nostra croce era tutto
ciò che avesse avuto a che vedere col cibo. Cibo, mangiare, bilancia, dieta… ed
una di queste preoccupazioni era proprio lì, sempre ai piedi del mio letto,
come una silenziosa guardiana.
- D’accordo, te lo
ripeterò ancora una volta. Io non piaccio a te, tu non piaci a me. Ma se
dobbiamo convivere in questo piccolo strano mondo, vediamo di rispettarci
reciprocamente – le dissi, guardandola dall’alto in basso, anche se l’inversione
dei ruoli era palese. – Coraggio – dissi di nuovo, salendo sulla pedana – Dammi
buone notizie. –
Dopo un breve
tentennamento, che nella mia testa suonava sempre come il bip ripetuto di un gioco televisivo a premi dove si faceva girare
una ruota e doveva uscire il numero più alto, la bilancia finalmente diede il
suo responso.
Centonove chili e
trenta grammi.
Mitico, per un giorno
sono sotto i centodieci!
Fate
largo, arriva sua maestà il principe dei belli! Ciambellano, inizi ad
organizzare i cartellini con il turno, uscirò con ognuno di questi baldi giovani
a cui piaccio tanto pensai, ridendo amaramente.
Dal bagno, ancora con
lo spazzolino ficcato in bocca ed un rivolo di dentifricio liquido che colava
da un angolo della bocca, Francesco mi guardava sghignazzare. Arrossii
istantaneamente e mi precipitai a chiudere la porta, togliendo a Francesco il
gusto dello spettacolo che quasi ogni mattina si godeva.
Mi guardai intorno.
La mattinata si prospettava interessante, e dato il mio abbigliamento (portavo
solo il mio paio di boxer neri con il teschio bianco sulla patta), avevo già in
mente quale sarebbe stato il programma. I miei programmi furono però
brillantemente sconvolti dalle tavole che avevo imbrattato ieri. Dandy Landy ed
i suoi amici erano praticamente diventati blu, irrimediabilmente macchiati. Con
un dito carezzai l’immagine del bel ragazzo che io stesso avevo creato, allo
stesso modo in cui una madre carezzerebbe il suo bambino che si è sporcato… e
lo guardai. Ancora una volta, anche se macchiato, Dandy riusciva ad essere
splendido come quando usciva dalla mia matita. Tempo fa avevo letto un romanzo,
di cui non ricordo il nome dell’autore, in cui c’era uno scrittore che aveva
creato questo personaggio talmente bene, ma talmente bene… che se ne innamorò. Nel
libro era anche descritto come lo scrittore fosse stato talmente abile nel
caratterizzare il personaggio, che ogni volta che pensava a lui, lo vedeva come
una persona vera. Ora, non pensate che io sia pazzo o cosa, e nemmeno che sia
così bravo a caratterizzare i miei personaggi… però, diamine, devo dire che
quel Dandy sembrava vero anch’egli. Talmente vero che… che…
Un momento.
Guardai meglio le
tavole imbrattate di colore blu.
Avrei messo la mano
sul fuoco che ieri avevo disegnato una sequenza che li vedeva in una specie di
foresta amazzonica, mentre oggi la foresta amazzonica sembrava essersi dissolta
nel nulla. Guardai anche le pagine precedenti. C’erano soltanto gli amici di
Dandy, che scherzavano e giocavano, ma dello sfondo… nessuna traccia.
Distorsi le labbra in
una smorfia di incertezza, poi mi voltai verso la porta, pensando a Francesco.
Immediatamente scartai l’ipotesi.
Ma
no, che cosa vai a pensare. Ti sembrerebbe possibile che entrasse in camera tua
solo per cancellare i tuoi disegni? E poi come cavolo ha fatto a cancellare
così bene il background senza intaccare i personaggi? Per fare una cosa del
genere ci vuole Photoshop, e tu lo sai benissimo…
- In più, era con me
ieri sera… - mormorai, quasi senza accorgermene. Quei fogli erano stati
defraudati del background, quindi i soli personaggi in quel contesto non erano
altro che delle mere fotografie, come quelle che si fanno quando si intraprende
la carriera fumettistica, lo studio del corpo umano e delle proporzioni.
E c’era dell’altro.
Guardai meglio anche
Dandy Landy, per non tralasciare nulla.
La sua espressione
era cambiata. Non era più sorridente come lo era stata ieri.
Ora era più sul
preoccupato.
Incredulo, mollai
lentamente i disegni sul tavolo inclinato, spensi la luce della stanza e
afferrai due stracci da mettermi addosso. Quella mattina non sarei rimasto in
casa.
Fiorella ed io ci
conoscevamo da circa un annetto, ovvero da quando decisi di intraprendere la
terapia psicologica. I motivi che mi portarono su questa via furono tanti.
Primo fra tutti, il mio eccessivo attaccamento al virtuale in favore del reale,
che non mi consentiva di vivere appieno le relazioni reali.
È vero, sono un
disegnatore, so disegnare bene e forse potrei conquistare chiunque soltanto
presentando un disegno, ma (ahimé) sono piuttosto burbero e timido, e
relazionarmi con qualcuno per qualcosa che vada al di fuori di una semplice
chiacchierata mi riesce veramente difficile. Tante volte ho constatato che la
gente mi gira al largo, con la differenza che se prima questa era una cosa che
mi straziava il cuore, adesso ho imparato a viverla, se non bene,
discretamente, e a cercare delle soluzioni nella mia mente, con l’aiuto appunto
di Fiorella.
- Cara dottoressa,
rieccoci – le dissi, accomodandomi sulla mia sedia. Era un rito che facevo
ormai da molti mesi, ma ogni volta che lo facevo, mi sembrava sempre la prima volta.
Lei sorrise e rispose
– Bentrovato, Donatello. Allora, di cosa parliamo oggi? –
Le nostre
conversazioni incominciavano così. Oggi le avrei parlato di quanto ero
invidioso di Francesco che riusciva ad intrattenere così facilmente rapporti
con le persone, di come lo vedevo ed avevo voglia di spaccargli la faccia, di
quanto sarebbe piaciuto anche a me poter avere, ogni sera, un ragazzo nuovo da
coccolare e baciare.
- …E perché ogni sera
uno diverso? – chiese Fiorella. Io scrollai le spalle, scuotendo la testa.
- Per sentirmi
attraente. Sentirmi desiderato da qualcuno, dottoressa. C’è chi si sente
desiderato ogni sera e chi invece mendica lo sguardo di un’altra persona… -
risposi io, lentamente. Agli altri potevo apparire burbero, ma Fiorella
conosceva il mio vero lato oscuro, fatto di sogni e desideri infranti. A quella
mia risposta, Fiorella fece una pausa, stando in silenzio.
- Ma lei, Donatello,
ha davvero bisogno di sentirsi attraente? –
- Io…? Sì. Ne ho un
bisogno smodato, quasi quanto respirare. –
- Non pensa che
essendo un artista, lei sia già di per sé molto attraente? – mi domandò. La
domanda mi lasciò un po’ interdetto. C’era del vero.
Ci pensai.
Un po’ di tempo fa,
quando avevo diciassette anni, ero solito impartire lezioni di disegno ad un
ragazzo un po’ più giovane di me, di circa dieci anni. Si chiamava Vittorio, e
grazie al mio aiuto riuscì a diventare abbastanza bravo da non spaventarsi più
dei suoi disegni e buttare via i suoi fogli (anche perché io gli insegnai che non
bisogna mai buttar via nulla, anche se non ci piace. Quel che non piace a noi,
potrebbe piacere a qualcun altro!). Inoltre, questo soldo di cacio di
ragazzino, penso si fosse preso una cotta per me. Di tanto in tanto mi scriveva
degli sms, in cui mi chiedeva molto spesso dell’amore, di come fanno ad
innamorarsi due persone. Poi mi chiedeva se avessi mai baciato una ragazza, o
se l’avessi mai fatto (ci siamo capiti)… il tutto nello stile timido ma allo
stesso tempo diretto di un decenne che non sa ancora nulla della vita. Meno di
lui ne sapevo io, che a diciassette anni l’unica esperienza era stata
trastullarmi… Sms a parte, nonostante l’età, il buon Vittorio voleva sempre
sedersi sulle mie gambe mentre disegnava. Diceva che stava più comodo, e che
gli sembrava che i disegni gli riuscissero meglio.
Questa specie di
rapporto durò circa fino alla fine delle mie scuole superiori e l’inizio delle
sue scuole medie. Da lì in poi ci perdemmo di vista, con grande dispiacere da
parte della madre perché suo figlio era caduto in una specie di catatonia dopo
che me ne fui andato io. Seppi soltanto che si risollevò grazie alla vicinanza
dei suoi amici, tra una partita di calcio e qualche ora di studio insieme.
- Forse ha ragione,
dottoressa. – ripresi, dopo la lunga riflessione – In fondo, anche saper
disegnare bene è essere attraenti, in un modo o nell’altro. –
Lei annuì,
sorridendo. Poi mi guardò negli occhi e decretò – Ci dobbiamo fermare qui per
oggi, il tempo è scaduto. La aspetto la prossima settimana. –
- Certo. Grazie
dottoressa. Arrivederci. – salutai, alzandomi dalla sedia e dirigendomi verso
la porta d’ingresso, per uscire anche per quella settimana.
La situazione in
Italia è differente rispetto ad ogni altra parte del mondo. Nel resto del
mondo, se vuoi conoscere gente, basta che ti rechi in un locale specializzato e
ti metti a chiacchierare con uno. In Italia, andando in un locale sei fortunato
se riesci a beccare qualcuno che ti dia retta, se non ti conosce e se non fai
parte del suo gruppo in maniera diretta o per derivazioni successive. Se poi
sei come me, decisamente fuori dallo standard, puoi anche essere amico di Rocco
Siffredi che non riuscirai mai a conoscere nessuno.
Così, per cercarmi un
po’ di compagnia al di fuori di quella della carta disegnata, io usavo
connettermi ai siti internet “di settore”. Non che la situazione fosse
migliore, ma l’intermediazione di uno schermo era quasi un passaggio obbligato,
una sorta di esame preliminare che i due si facevano.
E quanti esami avevo
passato io nel corso di questi anni… avevo conosciuto un sacco di ragazzi, di
un po’ tutte le età. Quando era proprio andata bene ero riuscito ad andare a
casa con loro e fare qualcosa di serio, salvo poi in qualche occasione non
riuscire a funzionare bene per l’atto sessuale vero e proprio, ovvero la
penetrazione: Inspiegabilmente, c’era sempre qualcosa che riusciva a farmi
perdere la voglia… una frase detta al posto sbagliato, una coccola fatta male,
o un bacio mal dato. Ciò la diceva lunga sul fatto che io non fossi un animale
da copula ma una persona vera, con sentimenti veri che prescindevano dal sesso.
Il più giovane dei miei amanti aveva avuto diciotto anni, mentre il più vecchio
trentadue. Con tutti avevo fatto qualcosa, tutti loro avevano lasciato in me
un’impronta piacevole alle prime battute della nostra conoscenza, salvo poi
trasformarsi in perfetti sconosciuti dopo che avevano ottenuto ciò che
volevano. Il gioco si era ripetuto tante volte, nonostante mi fossi sempre
ripromesso di non cascarci più, ma era più forte di me: non riuscivo a sedermi
senza provare a darmi da fare.
Il nuovo candidato
amante si chiamava Ritchie85. Più grande di me di qualche mese, carino ma non
troppo, e molto dolce. Di me aveva visto un bel po’ di fotografie, e fino ad
allora non mi aveva ancora chiuso i ponti. Io rispondevo alle sue moine con
molto distacco, senza tuttavia lasciar trapelare che mantenevo le distanze.
Eppure, in questa strenua difesa di me stesso, lentamente cominciavo ad
affezionarmi.
Che
hai fatto oggi?
Niente,
ho girovagato. Senza lavoro, puoi fare quello che vuoi!
Scrissi, rispondendo
alla sua domanda. Lui mi piazzò un’emoticon che sorrideva.
Questa
sera cosa farai?
Mi domandò di nuovo
Ritchie85. Io risposi che non lo sapevo.
Ti
andrebbe di venire a bere qualcosa da me? Mi sento solo, e vorrei un po’ di
compagnia.
Un po’ incerto,
fissai lo schermo del mio Acer per un bel po’ di secondi. Non trovando
risposta, mi misi a fissare il poster di Dandy Landy che mi ero fatto da solo.
Come sempre, lui era lì, con quella posa plastica che voleva imitare James
Bond, solo che al posto della pistola teneva spianate le sue dita e guardava il
mondo esterno con aria truce, rotta soltanto dal sorriso sbarazzino che gli
avevo dato.
Che
debbo fare? Pensai, rivolgendomi a lui. Ovviamente
lui non rispose, ma penso che se avesse potuto, mi avrebbe detto di no.
Va
bene.
Quella fu la mia
risposta a Ritchie85.
Riccardo (così si
chiamava) abitava in una zona abbastanza fuori città. Risvegliata la mia Audi
dal suo sonno meccanico, partii alla volta di casa sua, e in circa mezz’ora
arrivai.
Quando si aprì la
porta di quell’appartamento al terzo piano, mi si presentò un bel ragazzo,
moro, occhi chiari e fisicamente perfetto. Mi sorrise, ed io gli sorrisi di
rimando, peccato che fossi più imbarazzato che altro, a quella vista.
Devo dire che la
serata fu piacevole. Guardammo un film in DVD e poi, dopo una breve
chiacchierata, lui mi saltò letteralmente addosso. I suoi baci furono di fuoco,
così come le sue carezze. Non ci mise troppo a spogliarsi e a mostrarmi quanto
il suo corpo fosse perfetto, mentre io esitante restai ben chiuso nella mia
camicia nera.
- Sai cosa mi piace
di te…? – mi disse ad un certo punto.
- Cosa…? –
- I tuoi capelli … -
rispose Riccardo, arruffandomeli – sono così attraenti. Secchi e modellabili a
piacimento. – e così fece, con le mani, giocando con i miei capelli, e
continuando a baciarmi.
- mmm… anche i tuoi
sono belli… - risposi io, carezzandoglieli. Lui si irrigidì, fermandosi un
attimo. Per un momento ci guardammo negli occhi, entrambi con espressione
neutra. In quegli occhi chiari c’erano un sacco di parole che potevano essere
brutte o belle, ma io non riuscivo a coglierle. Quanto avrei voluto saper leggere
negli occhi, in quell’istante… se avessi saputo allora ciò che so adesso,
sicuramente avrei preso e me ne sarei andato a gambe levate. Ma purtroppo così
non feci, e lasciai che quell’attimo svanisse, cacciato in malo modo da un
altro bacio di Riccardo.
Quando la serata
finì, mi misi alla porta di Riccardo.
- Ci vediamo domani?
–
Lui sorrise e mi fece
l’occhiolino, senza tuttavia rispondere. Feci per dire qualcos’altro, ma lui
molto simpaticamente, mi sbatté la porta in faccia.
Il giorno dopo, avrei
voluto vederlo sul messenger per capire dove avessi sbagliato. Era l’orario in
cui di solito si connetteva, ma quel giorno non si fece vivo.
Ma
io, esattamente, che cosa voglio da un ragazzo…?
Farsi domande è parte
della vita di ognuno di noi. C’è chi se ne fa troppe, chi se ne fa troppo
poche, e chi non se ne fa per nulla. Io appartenevo alla prima categoria, ero
uno che non smetteva mai di chiedersi che cosa vedesse il cielo da lassù.
Le domande
scaturiscono dall’esperienza, e io di esperienze ne avevo avute anche troppe,
soprattutto brutte. Nel mare di merda in cui naviga la mia vita, spesso mi
capita di trovare dei pozzi d’acqua chiara, dove io mi ci tuffo a pesce,
cercando di recuperare e fermare quanto possibile i momenti felici che hanno
segnato la mia vita. Uno dei ricordi più belli fu l’estate del 1997…
Quando ero piccolo mi
innamoravo di ragazze che non mi corrispondevano, nonostante fossi corteggiato
da tante altre. Ricordo un’estate, avrò avuto dodici anni, in cui andai in
viaggio con i miei genitori e mio fratello in un villaggio vacanze. Il buon
vecchio Herman (mio fratello Ermanno, che adesso vive a Milano con la sua
compagna) ed io giocavamo sempre insieme, forti di una parentela che, non lo
sapevo, ma con gli anni si sarebbe erosa fino a scomparire e a trasformarci in
due perfetti sconosciuti. Da sempre lui era stato diversissimo da me: lui era
carino, spigliato e frizzante, però non sapeva fare molto di più di garini in
motorino e fare lo spaccone con tutti i suoi amici, mentre io ero quello più
studioso, riflessivo, timido e morigerato. Talmente morigerato che rispettavo i
corpi che non erano il mio in maniera quasi maniacale.
Durante questa
vacanza, conobbi una bambina. Bellissima, dodici anni come me e molto dolce. Io
me ne innamorai subito appena la vidi, ma desistetti immediatamente perché,
forte dell’esperienza scolastica, sapevo che le belle ragazze non guardavano i
cicciottelli come me. Indi per cui, preferii lasciarla alle “cure” di mio fratello,
tornando ai miei album da disegno ed ai miei colori.
E lui, sapete cosa
fece?
Da diciassettenne in
pieno tumulto ormonale, ci provò subito senza pensarci due volte (mio fratello
fa parte di quella terza categoria che di domande non se ne pone per niente), causando
non poco imbarazzo nella povera ragazzina.
Venni a sapere ciò
che ora so grazie a lei: il giorno dopo che rimase sola con mio fratello, venne
a confidarsi con me in spiaggia. La mattina era il tempo più bello per mettersi
a disegnare, per me. Mi mettevo sul portico del bar chiuso, seduto su un
tavolo, e lasciavo che la mia mano fosse guidata dall’estro della vacanza.
Disegnai per un bel pezzo, immerso nel vortice creativo, e solo quando alzai
gli occhi dal foglio, mi accorsi che non ero più solo.
Elisabetta (così si
chiamava), era lì appoggiata al parapetto che mi guardava attentamente,
studiando i movimenti della mia mano sul foglio e le figure che scaturivano da
tali movenze, affascinata ed estasiata. Lì per lì mi diventai rosso, e feci un
mezzo sorriso a cui lei rispose con una risatina. Senza nemmeno che io glielo
chiedessi, si avvicinò e si sedette accanto a me. Io ero rosso come un
peperone, e forse lei l’aveva sempre saputo che mi piaceva, ma il pensiero non
la turbava più di tanto.
- Cosa stai
disegnando? – mi disse, appoggiata con il mento sul dorso della mano.
- Oh, sto disegnando
i cartoni giapponesi. Ti piacciono? – risposi io, cercando di dominare la
balbuzie dettata dall’emozione.
Lei si sporse a
guardare ed io ritrassi la mano, per darle modo di vedere meglio. Sgranando gli
occhi per lo stupore, lei aprì la bocca e rispose – Sono … sono veramente
bellissimi! Congratulazioni! –
- G…grazie. – dissi
io, balbettando e sentendomi le guance in fiamme. È incredibile cosa si prova
quando si è innamorati di una persona… sensazioni bellissime che forse smisi di
provare quando mi accorsi che mi piacevano i ragazzi.
Dopo questo
complimento, restammo in silenzio per un po’, a guardarci negli occhi. Lei poi
sospirò e disse che doveva confidarmi una cosa.
- Prometti che non ti
arrabbi se te la dico? –
- Prometto. – Ma era
inutile dirlo, le avrei promesso di tutto. Ero cotto di lei.
- Bene. Devi sapere
che… tuo fratello… -
- Sì…? –
- Beh… tuo fratello…
- disse, torcendo le gambe snelle quanto più poté, chiaramente imbarazzata. Io
la esortai a continuare, spalancando gli occhi per cercare di farla parlare.
- Tuo… tuo fratello
ha cercato di mettermi le mani addosso! – disse, tutto d’un fiato, che a
momenti non riuscivo a capirci niente. Io non risposi per un attimo, ma ne fui
più o meno sconvolto. Non litigai con Ermanno, ma in compenso diventai amico di
Elisabetta, mentre mio fratello si consolò con altre ragazzine più giovani ma
anche più facili.
Io invece passai
quelle tre settimane insieme ad Elisabetta. Ogni giorno mi cercava, e se non mi
trovava al tavolino del bar, veniva a cercarmi a casa, dove mia madre
l’accoglieva a braccia aperte, mio fratello le strizzava l’occhio cercando di
intortarla e mio padre le diceva che era sempre più bella ogni giorno.
Insieme, facevamo il
bagno, esploravamo ogni angolo dell’isola, fantasticando di essere degli
avventurieri a caccia di chissà quali tesori… Io la amavo, e lei…
L’isola era composta
da un villaggio vacanze immerso nel verde di una collina. Se si conoscevano
bene i sentieri, si poteva raggiungere un posto panoramico, da dove si poteva
osservare tutto. Di solito io ed Elisabetta ci mettevamo a guardare il mare,
parlando di come la scuola fosse una noia e giocando a rincorrerci. Poi quando
ci stancavamo, semplicemente ci sedevamo.
E fu là che accadde.
- Donatello…? –
Io voltai la testa,
disteso com’ero. La mia pancetta mi impediva di vedere bene il mare, potevo
soltanto vedere le fronde degli alberi. – Hm? – mugugnai, in segno di
attenzione.
- Secondo te, io…
posso piacere a qualcuno? – mi chiese. Io arrossii, ma cercai di non darlo a
vedere. Era più un rossore di paura, il mio.
- Che domanda. Certo
che sì! Penso che… che piaceresti a tutti. – risposi io, cercando di assumere
la voce più spavalda e arrogante possibile. In realtà, dentro di me stavo
vacillando. – Perché? – la incalzai.
- Beh, perché … - fu
lei ad arrossire. – perché… - tirava fuori le parole come una donna che non
riesce a trovare il cellulare nella borsa mentre squilla, e deve tirare fuori
gli oggetti uno alla volta.
- Perché … perché mi
sono innamorata, ecco! – disse, tutto d’un fiato. Proprio come quando mi
confessò che Ermanno le aveva messo le mani addosso. Io stavo morendo. In cuor
mio sapevo che mi avrebbe detto che si era innamorata di un ragazzo che forse
vedevano tutti i giorni al villaggio, dato che le scelte non mancavano. Già
allora notavo i ragazzi carini, e nonostante avessero tutti la mia età o poco
più, sembravano molto più adulti e sicuramente più uomini di me. Più
abbordabili, diciamo.
Io deglutii, non
avendo cuore di chiederle chi fosse. Eppure c’era una parte di me, una parte
profonda, che voleva sapere chi fosse quel ragazzo. E come per magia, quella
parte prese prepotentemente il sopravvento, passando dal cuore al cervello fino
a schizzare fuori dalla lingua.
- Chi è? Di chi ti
sei innamorata? – domandai, preparandomi al colpo che, lo sapevo, mi avrebbe
ucciso.
Come un condannato
alla fucilazione si tapperebbe le orecchie per non sentire il botto mortale, io
chiusi gli occhi, aspettando gli spari. Eppure non ci furono, perché Elisabetta
stette zitta per un bel po’ di tempo, prima di abbassarsi su di me e
sussurrarmi all’orecchio …
- Di te. Di te,
Donatello. Sono innamorata di te. –
Mai sussurro fu più
gradito. La piramide di carte che era la mia anima crollò istantaneamente, ma
questa volta sotto un soffio di gioia anziché di dolore. Ora che il castello di
carte era andato, e con lui tutte le mura di cinta, io dissi la mia.
- Anch’io,
Elisabetta. Sono innamorato pazzo di te. Ti ho amata fin dal primo momento che
ti ho vista… -
Lei sorrise e sospirò
di sollievo, quindi ci guardammo… ed iniziammo ad abbracciarci. Di lì a poco le
coccole si trasformarono in baci, ed alla fine ci sdraiammo, lei sopra di me,
io disteso a terra con il profumo di vaniglia che spandevano i suoi capelli
lisci, i suoi occhi azzurri ed il suo viso perfetto, che io carezzai per tutto
quel pomeriggio… ci baciammo così tanto che per quel giorno io mi sentii un
eroe, uno che avrebbe potuto tutto, anche spaccare il mondo in due. Per una
volta, mi era andata bene con una ragazza che mi piaceva. Fu un pomeriggio
bellissimo, e la serata non fu da meno… mentre i nostri genitori ballavano, ed
i fratelli maggiori facevano altro, io e lei ci nascondevamo in ogni posto e ci
baciavamo. Come due amanti segreti, che hanno da proteggere solo il loro amore
appena sbocciato.
Durò tutto una
settimana. L’ultima settimana di vacanza, per essere precisi. Per due settimane
non mi ero azzardato a sfiorarla con un dito, mentre l’ultima lei fu così dolce
e disponibile con me… un ragazzo cicciottello che lei amava con tutto il suo
cuore.
Non
ti scordar di me…
Non
ti scordar di me…
…Ma
nooon ti scordaaar, mai di meee…
…della
più incantevole… fiaba che abbiam vissuto insiemeee..
..E
nooon ti scordar mai di meee… Questa era Giusy Ferreri e la sua “Non ti scordar
mai di me”, a concludere la puntata! sono le dieci del mattino, il nostro
programma finisce qui, ringraziamo tutti i nostri fedelissimi ascoltatori per
averci accompagnato durante la mattinata. Continuate a seguirci, eh! Siamo
sempre qui, su Erre Centouno! Ciao, ciao.. ciaoooo!
Il bumper sonoro poi
chiuse definitivamente la trasmissione, facendo partire contestualmente la
pubblicità. Io ero nella mia auto, seduto al posto di guida. Evidentemente mi
ero addormentato con la radio accesa, mentre aspettavo che Francesco finisse di
fare una visita all’ospedale. Sarei andato anch’io con lui, ma lasciare la
macchina incustodita nella mia città senza aver pagato il ticket significava
andare a recuperarla poi al deposito veicoli rimossi. Poco dopo lo sportello si
aprì, ed entrò Francesco.
- Eccomi – esordì,
sbuffando. – Ho fatto tante di quelle scale, perché l’ascensore era rotto e… -
s’interruppe, guardandomi in faccia. – cos’hai? – domandò.
- Io…? Niente…
perché? –
Mi guardò con
scetticismo. – Mi era sembrato che tu… -
Senza nemmeno
lasciargli finire la frase, misi in moto e partii. Lui si zittì, sicuramente
poco interessato al mio stato d’animo. Comunque, gli avessi fatto terminare la
frase, avrebbe avuto ragione: dai miei occhi stavano uscendo calde lacrime.
Fortuna che con gli occhiali da sole lui non poté vederle chiaramente.
Perché
piangevo? Forse perché, alla luce di questi bellissimi ricordi, sapevo che un
ragazzo non sarebbe mai stato in grado di regalarmi certe emozioni. Non mi era
mai successo, perché i ragazzi hanno in mente solo la fisicità di un rapporto,
non l’emozione ed il coinvolgimento. Vi pare possibile che un uomo come me si
metta a soffrire perché gli mancano certe cose?!? Ecco che cosa volevo da un
ragazzo. Volevo passare del tempo insieme a lui, fare tante cose… crescere
insieme!
Di nuovo chiuso nella
mia stanza, questa volta in compagnia di foglio e matita anziché del portatile,
continuavo a disegnare. Questa volta però non più sequenze, ma quadri.
In gergo tecnico, un
“quadro” è la vignetta in sé e per sé. Tanti quadri formano una striscia, tante
strisce formano un albo. Semplice, no?
La mia matita correva
sul foglio, delineando i tratti di un personaggio. Poi un altro, e un altro
ancora. Alla fine del lavoro, tutti i personaggi erano uno soltanto.
Dandy.
Dandy che mandava
baci.
Dandy che guardava
l’obiettivo seduto a gambe incrociate su uno sgabello.
Dandy di spalle, che
teneva le mani sui fianchi e sfoggiava il suo bel ciuffo biondo. Tutte le “fotografie”
lo mostravano in abiti differenti, ma generalmente erano in stile molto
giovanile.
Mi soffermai a
guardarlo. Ancora una volta, ebbi la sensazione di aver creato un personaggio
quasi vivo, tra quelle pagine… c’è chi direbbe che era soltanto un bel ragazzo
con cui fare sesso, ma io penso che lui avesse di più. Molto di più.
Aveva una sua
statura, una sua vitalità tutta particolare, ma che forse soltanto io riuscivo
a sentire, perché lui era mio.
Ed
io sono tuo.
Trasalii sulla sedia.
Chi aveva parlato? Avevo udito distintamente una voce, ma in camera con me non
c’era nessuno. Mi alzai, guardai sotto il letto, ma non c’era nessuno.
La porta era chiusa,
dunque si poteva escludere uno scherzo di Francesco, che peraltro era occupato
in casa con chissà quale altro ragazzetto raccattato in discoteca.
Dunque, chi era
stato?
Sono
stato io.
Io non risposi. Era
come se una voce mi stesse sussurrando, ma non era la mia! Era una voce che
veniva da qualche parte, nella stanza. Non riuscivo a capire da dove.
- Chi… chi sei? –
domandai, sottovoce.
Però la voce non
rispose più.
Tornai a sedermi al
piano di lavoro, riprendendo la matita in mano senza troppo entusiasmo.
Sospirai, pensando di stare impazzendo… non sapevo nemmeno io cosa volevo,
eppure lo volevo così ardentemente.
Un ragazzo che mi
tenesse un po’ di compagnia, proprio come un altro stava ora tenendo compagnia
a Francesco. Il pensiero mi rattristò ancora, e dovetti reprimere l’impulso di
piangere. Però, più reprimevo, più non ci riuscivo, e alla fine una lacrimuccia
sgorgò dai miei occhi. Poi un’altra… e un’altra ancora.
Piansi sommessamente
per quasi due minuti, abbandonandomi al dolore di sentirmi un ragazzo diverso
fra i diversi, che non poteva godere delle gioie della compagnia solo per colpa
di qualche chilo di troppo… e di una testa troppo romantica.
Quando aprii gli
occhi dopo quello sfogo, mi accorsi di aver imbrattato i disegni. A giudicare
da come li avevo bagnati, sembrava che li avessi passati sotto un rubinetto
aperto.
Osservai di nuovo l’espressione
di Dandy.
Non so se fosse
perché le mie lacrime avevano deformato il tratto, eppure avrei giurato che il
buon Dandy avesse cambiato espressione.
Ora la sua
espressione non era più gaia e festosa, ma piuttosto era dispiaciuta.
- A… anche tu ti
senti solo, vero? Sì… Allora… io ti disegnerò un compagno. Che ne dici? –
Ovviamente non
rispose. Ma io provai ugualmente a disegnare un compagno per Dandy.
E accadde qualcosa
che non mi era mai successo prima di allora.
Prendevo la matita in
mano, cercavo il punto di prospettiva che avrebbe avvolto tutto il disegno, lo
trovavo, disegnavo Dandy e…
…non mi riusciva per
niente di disegnargli un compagno.
Eppure di idee ne
avevo tante: dapprima avevo pensato ad un ragazzo un po’ simile a lui,
magrolino, alto e con un bellissimo viso. Ma già quando provavo a dargli un
nome, non sentivo nulla. Il nuovo personaggio si dava alla fuga un po’ come i
ragazzi che contattavo sui portali gay.
Accadeva più o meno
in questo modo: provavo a disegnare questo fantomatico ragazzo di Dandy, ma
quando provavo a stendere lo scheletro del suo disegno, mi bloccavo, preso
dall’incertezza. Una cosa così succede soltanto ad un allievo fumettista alla
prima lezione sullo schema del corpo umano, non ad un veterano come me, forte
di corsi su corsi di alto livello!
Se vi dicessi che la
cosa non mi preoccupava neanche un po’ , mentirei. Ero preoccupatissimo per
questo, e non sapevo cosa fare.
- Perché non riesco a
darti un compagno? – mormorai, alle tavole disegnate che vedevano il mio Dandy
Landy seduto su una scalinata.
Silenzio.
- Perché? –
Ancora silenzio.
Questa volta nessuna voce mi degnò di una risposta, e di questo ne fui
contento. Non riuscire a disegnare un personaggio era un conto, sentire le voci
era un altro.
Si chiamava Steve. Ma
il suo vero nome era Stefano. Ventun anni, molto carino e gentile. Ci eravamo
dati appuntamento in centro, vicino alla fontana del Nettuno (già una volta
avevo incontrato un ragazzo là, e non era andata bene). Da bravo uomo d’onore
quale ero, mi presentai all’orario stabilito senza sgarrare di un nanosecondo,
certo che arrivare in orario fosse una cosa che ancora facesse colpo sui
ragazzi. Lui arrivò circa venti minuti dopo, accampando scuse sul fatto che
aveva perso l’autobus e amenità varie che, unite al suo sguardo, non mi
piacquero nemmeno un po’.
Voi forse direte che
sono un po’ prevenuto, ma in generale i ragazzi carini sono tutti dei gran
bastardi: credono di avere un ragazzo in pugno, fanno i fenomeni e poi lo
lasciano con un palmo di naso quando si tratta di concludere. Nonostante io
continuassi a tenere gli occhi aperti (li tenevo talmente aperti che mi
sembrava di avere un terzo occhio sulla fronte, proprio come un noto
personaggio di un altrettanto noto manga giapponese), mi fregavano sempre. Piantala di lamentarti sempre! D’accordo,
ancora non hai trovato l’uomo della tua vita alla veneranda età di ventiquattro
anni, ma che vuoi farci?! Purtroppo siamo in Italia, ed è inutile che ce la
meniamo tanto; la presenza del Vaticano è soltanto una scusa per quelli come i
ragazzi che hai incontrato, per divertirsi senza mai fermarsi. Quindi cerca di
prendere ciò che di buono ha da offrire questa vita e tira dritto! Mi
rimproverai. E va bene, pensai, vediamo dove mi porta questo qui.
- Ci mettiamo qui? –
chiesi gentilmente a Steve, spostando la sedia per farlo accomodare per primo.
Lui mi guardò con un sopracciglio perplesso, come per dire “ma cosa fai, esimia testa di cazzo? Mi sposti la sedia come ad una
damigella?” poi rispose – No, mettiamoci là. Mi sembra più fresco. – non
finì nemmeno la risposta, che si era già fiondato sul tavolo in ombra, senza
bisogno di nessun aiuto.
Una mezzoretta più
tardi, avevamo parlato di quasi tutto. O meglio, aveva parlato soltanto lui, e
di tutti i ragazzi che gli andavano dietro o che lo corteggiavano. Complice una
leggera colite che avevo sempre avuto, mi sentii lo stomaco bruciare, anche per
la marea di cavolate che questo ragazzino diceva. Ma erano tutti così, questi
ragazzi? Oppure si comportavano così soltanto con me? Quando arrivò il momento
di andare, lui molto educatamente disse – Per me si è fatto tardi, dovrei
tornare a casa o il mio coinquilino mi rompe. –
- D’accordo – dissi
soltanto, prendendo il portafogli. Automaticamente andai a pagare, ma lui mi
porse la sua parte.
- Tieni. – disse,
senza sorridere.
- Non c’è bisogno. –
ribattei io – Offro io. –
- Non se ne parla.
Voglio pagare la mia parte, è più giusto così. – rispose lui, mettendomi
letteralmente tre euro nella mano.
Io li guardai e non
dissi nulla, non protestai. Mi alzai e andai a pagare, ben sapendo che neanche
quell’incontro avrebbe avuto un seguito.
La luce diafana che
preludeva ad un temporale con i fiocchi, si stava facendo sempre più scura con
il passare dei minuti. Da piccolo mi faceva paura quel tipo di luce così scura
e minacciosa, così come mi facevano paura i fulmini. Ricordo che in pomeriggi
come quelli, quando mio fratello Ermanno tornava da scuola, mi prendeva con sé
e giocavamo insieme con il Nintendo, ed io mi sentivo felice di avere un
fratello maggiore così protettivo e dolce. Oppure quando il temporale scoppiava
di notte, ed io avevo paura da solo nella mia stanza, andavo da lui e senza
dire nulla mi rifugiavo nel suo letto a due piazze. Senza nemmeno svegliarsi,
lui allungava il braccio e mi offriva la sua protezione, ed io tutto contento
mi abbarbicavo a lui, felice e contento.
Ma adesso avevo 24
anni, vivevo ancora a Bologna e lui era a Milano con sua moglie; io ero ancora
single e disperatamente alla ricerca di
(me
stesso)
di un ragazzo che mi
amasse e mi accettasse così com’ero; lui lontano chilometri ed io qui solo. Dal
mio letto ad una piazza e mezza si poteva vedere il muro dove tenevo appese
tutte le fotografie che mi ero portato da casa: molte raffiguravano me ed
Ermanno, oppure me in braccio a mia madre o insieme a mio padre. La mia
preferita restava tuttavia quella dove io, due anni, ero al posto di guida del
vecchio maggiolino giallo a batteria di mio fratello: io che tenevo il volante
con quelle manine grassocce e lui accanto a me che salutava con un sorriso
sdentato di bimbo di sette anni. Sorrisi.
Poi lo sguardo mi
cadde su Dandy, che nonostante non fosse uno con cui mi ero visto, continuava a
darmi dei bei grattacapi. Lo fissai a lungo, in quella sua posa alla James
Bond, con l’unica differenza che James Bond non sorrideva gioiosamente come
Dandy.
- Tu che sai vedere
il bello in ogni cosa, dimmi: che cosa posso fare? – sussurrai, con la testa
sul cuscino e gli occhi fissi sul manifesto che io stesso avevo disegnato e
fatto poi creare in un negozio di grafica. Ancora una volta non ci fu risposta,
ma per la prima volta mi diedi del cretino per aver parlato con un’immagine
disegnata.
Sentii dei rumori
dietro la porta.
- Dò? Posso entrare?
– chiamò Francesco dall’uscio.
- Se proprio non puoi
farne a meno… - risposi io, non considerando minimamente che Francesco era un
amico abbastanza fidato, che se fosse stato un altro mi avrebbe sicuramente
preso a male parole. Come se non avesse sentito, aprì la porta ed entrò
sorridendo. Quando però mi vide disteso sul letto sfatto, come una balena in
spiaggiamento, il sorriso gli morì sulla faccia.
- Che hai? – domandò,
con quell’espressione da mammina preoccupata che poche volte gli avevo visto
dipinta in volto.
- Nulla – bofonchiai
– solo un po’ di stanchezza. Sai, ho disegnato tutta la notte… -
Avvicinandosi al mio
tavolo di lavoro, e sedendosi sul mio sgabello (il suo sederino magro sembrava
un pallone da calcetto a confronto dell’enorme scranno, che tuttavia era un po’
grande anche per il mio, di sedere) prese in mano alcune tavole, posizionando
le dita ai lati dei fogli, stando bene attento a non pastrocchiare la grafite
con le mani sudate.
- Scarabocchi? –
domandò, flemmatico.
- Già. Questa notte è
andata così… - sospirai.
Lui girò con la
schiena e lo sgabello girevole fece lo stesso sotto di lui. – Sicuro che sia
soltanto stanchezza? –
- Certo, perché non
dovrebbe? –
- Hm. – mormorò
Francesco, piegando la bocca in un’espressione dubbiosa. Capii che si
preoccupava per me, e sospirando mi decisi a vuotare il sacco.
- Perché i ragazzi
sono tutti così stupidi? – domandai, con un filo di voce mentre lui mi
guardava. Io osservavo le nuvole fuori dalla finestra, uno dei pochi pensieri
ancora felici che mi rimanevano dopo anni di frustrazioni.
- Domanda
interessante, Dò. Penso che molti dei ragazzi che ho conosciuto se la stanno
facendo proprio in questo momento. – disse, ridacchiando.
- Eh già. Suppongo
che se la facciano tutti quelli che in qualche modo vengono delusi… -
- La delusione –
incominciò Francesco prendendo a giocare con una delle mie matite – nasce
quando ci si aspetta qualcosa. – sintetizzò. Se avesse avuto un taccuino in
mano, una barba posticcia ed un paio di occhialini sul naso, avrebbe potuto
somigliare ad uno psichiatra. Ed io al suo paziente. – Tu che cosa ti aspetti
da un ragazzo? –
Con la testa
affondata nel cuscino, presi un po’ di tempo. Non era una domanda facile,
sapete? Molti risponderebbero che una cosa che ci si aspetta da un altro essere
umano sia la fisicità, il sesso (cosa scontata), oppure una botta e via. – Non
lo so – cominciai – suppongo che vorrei soltanto un po’ di pace. Qualcuno con
cui condividere qualcosa in pace, poterci parlare tranquillamente… ma anche
qualcuno da stringere a me, da baciare, da coccolare… - in quel momento sentivo
di non essere io a parlare, ma un altro Donatello, che in qualche modo si era
messo in contatto con la mia lingua. Non avrei mai rivelato certe cose a
nessuno, eppure l’avevo fatto con Francesco, che conoscevo sì e no da meno di
un anno.
Posando la matita nel
portapenne, Francesco sospirò. – Non è una cosa facile da trovare – rispose –
soprattutto nel nostro ambiente, dove la maggior parte della gente è come me.
Una botta e via. – disse quest’ultima espressione facendo un gesto della mano
accompagnato da un’alzata di sopracciglia, come se con la mano avesse appena
scacciato una grossa zanzara. Parole piuttosto forti, le sue, soprattutto
perché lui era uno di quelli che usavano e gettavano ragazzi che per me averli
avuti anche soltanto per una notte sarebbe stata una conquista più che
lodevole. La maggior parte della gente è
come me, nel nostro ambiente… quella frase mi lasciò con l’amaro in bocca –
Perché, Francesco? – domandai. – Perché lo fai? –
La domanda lo prese
in contropiede. Evidentemente nemmeno lui conosceva la risposta ai molti
aspetti della sua vita, e la sua espressione dubbiosa, con quella bocca piegata
sotto il naso dritto e gli occhi castani luminosi d’incertezza, ne fornivano un
quadro abbastanza chiaro.
- Non so. – si morse
il labbro, come se io avessi premuto l’interruttore di un detonatore collegato
a delle cariche di esplosivo piazzate direttamente sui pilastri delle sue
strutture mentali, non abbastanza dannose da distruggerle ma abbastanza potenti
da farle vacillare. – è… è che… - tentennò. – E’ che così fan tutti. Si vive
alla giornata, durante la settimana non si studia ma si incontrano ragazzi
oppure si va a far shopping, e il sesso diventa come un “bisognino” da
espletare quando ci si trova accanto un bel ragazzo. – mentre parlava
gesticolava, come se non fosse certo nemmeno lui di quello che stava dicendo.
Io me ne stetti lì buono e ascoltai la sua giustificazione, ma non fu
abbastanza.
- Perché succede
questo? – domandai, non pago della sua risposta superficiale.
Lui sbuffò, e scese
dallo sgabello. – Senti, non mi va di dare risposte ad un comportamento
generalizzato. Sarebbe come chiedere perché gli italiani, ogni volta che votano
un nuovo governo, non sono mai contenti. Io sono contento della mia vita, ho
tutto quello che voglio e non mi occorre altro. – tagliò corto, poi aggiunse –
A te cosa serve nella tua vita? – domandò, ma non era una domanda. – Chieditelo,
riflettici e poi risponditi. – concluse, e se ne andò dalla mia stanza.
- Ehi aspetta! – lo
fermai, mettendomi a sedere sul letto. – Perché eri entrato in camera mia? –
- Avevo solo bisogno
di chiederti una proroga per il pagamento dell’affitto. – rispose, dandomi le
spalle e appoggiandosi allo stipite della porta. – Ma suppongo che dopo questa
mia sfuriata, tu non… -
- Oh no – lo bloccai
– Ti concedo una proroga, basta che non sia di un mese. Comunque questo
dimostra una cosa, caro Francesco. –
- E cosa? – rispose
lui, con un tono di voce neutro, probabilmente rabbonito dalla proroga
concessa.
- Che qualche cosa ti
manca.- risposi io. – Pensaci, mentre racimoli i soldi per pagarmi l’affitto. –
- Ah. – disse –
Grazie, comunque. –
- Prego, non c’è di
che. – risposi, e lì finì il nostro colloquio.
Quando ebbe lasciato
la stanza e chiuso la porta dietro di sé, pensai che forse era tutta apparenza.
La sua ostentata sicurezza nella vita, la sua aria spaccona, il suo portafogli
gonfio quando usciva la sera… tutti elementi che tradivano un’insicurezza di
fondo, insicurezza che forse non soltanto lui aveva, ma che avevano tutti. O
forse…
…
O forse sei solo uno stupido.
Di nuovo una voce
alle mie spalle. Questa volta mi spaventai, trasalendo dalla mia posizione
seduta sul letto. Mi voltai. Dietro di me c’era un altro manifesto di Dandy
Landy, che mi guardava severo a braccia conserte, vestito con un bel pullover a
“V” ispirato a quelli che si usano a Hogwarts, in Harry Potter.
Non risposi,
inghiottendo il rospo per ciò che Dandy (o chi per lui) mi aveva detto.
- Non capisco,
Fiorella… mentre disegno, ogni tanto sento delle voci. – dissi, non senza
vergogna. Credo che le mie guance rosse si sarebbero viste lontano un miglio,
anche se Fiorella tradì di non essersene accorta.
- Che cosa senti,
Donatello? – mi domandò, in quel suo tono calmo e misurato.
- Io… sento Dandy che
mi parla. – risposi – Sì, lo sento che mi riprende, che cerca di darmi delle
risposte… -
Ci fu un attimo di
silenzio tra noi, come se per la prima volta in quasi un anno di sedute, avessi
rivelato qualcosa di veramente scioccante a quella ragazza che non si
impressionava mai, nemmeno quando dicevo di sentire un bisogno istintivo di
coccolare e fare sesso con un ragazzo.
- Che risposte ti da,
Donatello? – domandò Fiorella, nel tono in cui una sorella maggiore cercherebbe
di cavar fuori dalla bocca del fratellino un segreto troppo sconvolgente.
- Rispostacce. –
dissi, senza pensarci. – Mi chiama stupido, pirla, e quant’altro… Perché? –
Sollevando entrambe
le sopracciglia, Fiorella rispose – Non lo so. Forse è solo la tua
immaginazione che ti fa sentire certe cose, magari tu vorresti parlargli e
invece al posto della sua parola, agisce il tuo pensiero. –
- Cosa? Non ti ho
nemmeno raccontato di quella volta che … - ma mi bloccai. Era troppo assurdo,
talmente assurdo che non ci credevo nemmeno io.
- Di quale volta? –
- Oh? Niente – mi
affrettai a chiudere – Niente, nulla di importante… -
Tornando a casa, mi
accorsi che Francesco era uscito. Non mi aveva lasciato nessun biglietto sul
tavolo, quindi me ne andai in camera e mi sedetti al mio tavolo da lavoro. I
fogli disegnati imbrattati di colore blu erano ancora lì, non li avevo buttati
perché di solito non buttavo mai nessuno dei miei disegni, ma avrei dovuto archiviarli
già da un bel po’. Li presi in mano, toccando la loro superficie, resa ruvida
dal colore. Mi morsicai le labbra, quindi cercai con gli occhi un posto dove
metterli. Optai per infilarli in uno dei raccoglitori che tenevo sullo scaffale
in alto e dopodiché mi misi al tavolo da disegno, finalmente pulito. Presi la
matita in mano ed incominciai a fare quello che sapevo fare meglio. Disegnare.
Mi misi davanti al
foglio bianco, e tamburellai con la matita per un bel po’ di tempo, cercando
l’ispirazione. Modo buffo, non trovate? Cosa posso dirvi, noi artisti siamo
così. Abbiamo le manie più strane, ad esempio quella di un mio amico scrittore:
non si metteva mai a scrivere prima che avesse starnutito. Diceva che lo
starnuto erano i suoi personaggi che lo sollecitavano a farli parlare, le idee
che schizzavano fuori dalla sua testa. Almeno io mi limitavo solo a
tamburellare con la matita, e non riuscivo nemmeno a trovare l’ispirazione, se
dovevo dirvela tutta.
La scena mi ricordava
un po’ quei film strani in cui il protagonista cerca di mettersi in contatto
con qualcuno. Ricordavo di aver letto qualcosa di simile, forse era un romanzo
horror: il protagonista era uno scrittore famoso che aveva in un certo senso
“ucciso” il suo pseudonimo, e questi anziché essere una persona di fantasia era
una persona viva, reale e pericolosa. Tra le altre caratteristiche, ricordo che
il protagonista ed il suo alter ego riuscivano a comunicare telepaticamente,
scrivendo. Uno scriveva qualcosa, e l’altro se si concentrava riusciva a
captare i suoi pensieri e li riportava su carta sotto forma di scrittura.
Piuttosto
inquietante, ma ricordare quel romanzo mi diede un’idea per cominciare: il
primo disegno fu Dandy, che quel giorno non avevo ancora visto se non nel
manifesto che tenevo nella mia stanza. – Vogliamo parlare, Dandy? E va bene.
Parliamo. – dissi sottovoce, continuando a tratteggiare i suoi lineamenti.
Conclusi, e venne fuori un Dandy con le mani in tasca, che stazionava in uno
spazio vuoto.
- Uhm – mormorai – Si
parla meglio da seduti. Che ne dici? –
Prontamente, cambiai
quadro e lo disegnai seduto su un divano.
- Dove potrebbe
essere questo divano? Un modernissimo loft? O una tenuta di caccia inglese?
Oppure…? –
Non so perché, ma mi
venne da disegnare il nostro appartamento. Nel disegnare le figure umane ero
bravo, ma non lo ero altrettanto a disegnare ambienti e componenti d’arredo.
Figuriamoci, se fossi stato bravo a disegnare componenti d’arredo ed ambienti,
sicuramente a quest’ora frequenterei la facoltà di architettura, e non di
giurisprudenza. Tuttavia, il nostro appartamento venne bene. Disegnai qualche
inquadratura della mia stanza e di quella di Francesco (ovviamente vuote) per
rendere viva l’idea che Dandy quel giorno si trovasse in un ambiente familiare
piuttosto che in uno dei tanti luoghi che la mia mente gli confezionava ogni
volta che doveva agire.
- Ti piace? –
domandai. Trasferii la mia domanda su un baloon a lato della vignetta, e
disegnai Dandy che si girava sorpreso dalla voce che aveva parlato. Ora mancava
un’ultima cosa.
Il suo interlocutore.
Francesco, ogni volta
che si preparava per andare in discoteca, stava ore ed ore a prepararsi:
controllava che i capelli fossero a posto, che i trucchi avessero fatto il loro
effetto sul suo viso, che i suoi vestiti fossero perfetti ed immacolati. A
questo proposito teneva in camera uno specchio a figura intera. Lo odiavo,
quello specchio. Ogni volta a causa della mia mole, non riuscivo a vedermi i
fianchi. Era uno specchio troppo chiaro, imparziale. Ma quella volta avrei
dovuto superare la mia antipatia verso di lui ed usarlo. Entrato nella sua
stanza, ignorando tutti i ritagli di immagini di ragazzi appiccicati sul suo
armadio per paura di perdere la concentrazione (dovevo parlare con Dandy nel
fumetto e non volevo assolutamente che nulla interferisse con questa operazione),
mi apprestai a spostarlo. Purtroppo non aveva le ruote ed era abbastanza
pesante, quindi dovetti fare molta attenzione a non romperlo. Se l’avessi
rotto, come minimo Francesco mi avrebbe spellato vivo.
Ultimato il
trasferimento da stanza a stanza, lo misi proprio accanto al mio tavolo da
disegno. Mi allontanai un po’, con le braccia incrociate sul petto. La mia
immagine riflessa era terribile, e feci una smorfia di disappunto cercando di
superare l’antipatia di vedermi così imperfetto. Studiai la mia espressione, la
mia linea e le mie proporzioni rispetto a Dandy. Calcolavo da sempre che Dandy
fosse un po’ più alto di me e non troppo magro; sì, insomma, un ragazzo che per
baciarmi la fronte avrebbe dovuto chinarsi un po’. Senza staccare gli occhi dallo
specchio, presi il mio Schizza e strappa,
il block notes che usavo appositamente per le bozze, ed abbozzai un mio
autoritratto, in piedi. Venni fuori come un individuo un po’ rotondetto, con
l’espressione seria (qualcuno avrebbe detto imbronciata), ma molto dolce.
Guardai il disegno e guardai me stesso. Approvai il lavoro e mi rimisi a
disegnare.
Dandy se ne stava lì
seduto come lo avevo lasciato. Guardava fuori dalla finestra, con
un’espressione pensierosa che mai gli avevo visto dipinta sul volto. Mi
avvicinai lentamente, come timoroso di rompere un incantesimo che erano i suoi
pensieri mentre osservava Bologna fuori dalla finestra. Improvvisamente si
accorse di non essere più solo, e lentamente voltò lo sguardo.
- Ciao – mi disse,
con un lieve sorriso sul volto.
- Ciao. – risposi io,
neutro. – Ti piace casa mia? – domandai.
Lui fece spallucce –
Sono abituato a posti ben più emozionanti, e tu lo sai. – disse – Ma mi piace
abbastanza. –
Sospirando, ritornai
a guardarlo. Lui era lì che mi guardava. I suoi occhi mi studiavano, ed il suo
sorrisetto era un sorrisetto di rimprovero.
Con la mano destra
toccò il divano, invitandomi a sedermi accanto a lui. Ragazzi, se c’era una
cosa che mai nessuno aveva fatto in venticinque anni di vita ed in cinque che
frequentavo il mondo omosessuale, era di invitarmi a sedere così garbatamente.
Mi sedetti, e dopo un iniziale silenzio, fu Dandy a rompere il ghiaccio.
- Che cosa stai
cercando di fare? – mi chiese. Io lo guardai come trasognato.
- Cosa vuoi dire? –
- Voglio dire… ma che
cosa stai cercando di fare? – domandò, ridacchiando. – Cerchi in tutti i modi
di disegnarmi un fidanzatino, non ci riesci e poi vai dalla psicologa a dire
che senti le voci? – rise.
Quelle parole mi
colpirono come dieci pallottole al cuore. Non mi piacque per niente il tono che
il mio Dandy usò contro di me, così schernitore e impudente. Se non mi alzai da
quel divano per andare chissà dove, fu soltanto perché sapevo com’era fatto
Dandy; lui era così, un insieme di assoluti: impudente, dolce, cinico,
romantico, faccia da schiaffi, sensuale, e tante altre cose. Così l’avevo
creato io.
- Non rispondi? –
rise ancora. – Lo vedi che sei uno stupido, allora? –
- Piantala. Non sei
divertente. – risposi io, tagliente. Lui stette zitto per un po’, poi ritornò a
schernirmi.
- Se ti dico che sei
stupido, vorrà dire che un motivo ci sarà. – rise ancora. Io mi voltai e gli
presi il polso, alzando la mano per dargli uno schiaffo. Sorprendentemente, lui
mi tirò a sé con l’altra mano e mi appioppò una sberla bella forte sulla
guancia destra, tanto che io gemetti più per la sorpresa che per il dolore.
- Ahio… -
- Così impari a provare
di colpirmi. – era ritornato serio. Accidenti, non avrei mai creduto che Dandy
si sarebbe comportato così con la persona che in linea teorica era suo padre.
- Tu non sei mio
padre, ricordatelo. – disse, come leggendo i miei pensieri – Tu sei soltanto un
ragazzo che mi ha evocato dalla tua fantasia – mi si avvicinò lentamente sul
divano, prendendomi sottobraccio mentre io mi massaggiavo la guancia colpita.
Gentilmente lui tirò via la mia mano e al suo posto vi mise la sua bocca. Mi
baciò dolcemente la guancia, accoccolandosi a me. Quel gesto ebbe un effetto
calmante sul mio sistema nervoso, ma pensai che forse era un trucco per farmi
un altro scherzo.
- Nessun trucco –
disse lui – E smettila di pensare. Piuttosto parla, dì tutto quello che ti
passa per la testa, non farmi parlare da solo. E soprattutto non pensare che
soltanto Fiorella possa capire ciò che dici. Anche altre persone possono
riuscirci, ma sopra tutti ci riesco io. Quindi avanti. Parla. –
- Perché mi tratti
così? –
Ci fu un minuto di
silenzio, in cui cercai di non pensare a nulla ma solo di godermi l’attimo con
lui. - Non lo so. Forse perché credo che tu mi stia troppo addosso… O forse
perché non voglio che tu ti preoccupi per me più del necessario. – rispose lui,
accarezzandomi dolcemente i capelli. I suoi capelli biondi odoravano di buono,
ed erano morbidi e lucenti. Chiusi gli occhi, annusandoglieli. Docilmente, lui
si lasciò andare e mi lasciò fare quello che volevo. Senza aggressività, senza
smania di fare qualcosa subito. Con calma, lasciando che il tempo facesse il
suo corso.
Nessuno ci avrebbe
disturbati, io lo sapevo. Non sapevo quanto tempo avevamo, né se quello era
veramente un sogno oppure realtà. Fatto sta che mi piacque moltissimo il
contatto con il “mio” Dandy.
- Penso di non volere
un fidanzato disegnato da te – sussurrò. – Non sono sicuro di volere nessuno al
mio fianco, almeno per il momento. – concluse, dandomi una stilettata al cuore.
- Ma… ma allora… che
cosa vuoi? – chiesi io, sul punto di piangere.
Lui sbuffò a questa
mia domanda – Uffa, come sei noioso. Devo per forza volere qualcosa, dalla
vita? Non posso viverla e basta? Tu che cosa vuoi dalla tua vita? Un
fidanzatino che ti stia accanto come fa Fiorella in veste di psicologa oppure
qualcuno che completi la tua vita, indipendentemente dal fatto che te lo porti
a letto oppure no? –
Ci pensai. Nonostante
il tono arrogante e scocciato, la domanda era parecchio profonda, e non penso
che quelli che avevo conosciuto nella realtà prima di Dandy se l’erano mai
sentita porre o anche domandata.
Che
cosa vuoi dalla tua vita?
- Vedi che non lo sai
neanche tu? E vorresti provvedere alla mia, di vita? – mormorò Dandy, fra le
mie braccia. In questo, mi sembrò simile a tanti ragazzi che dicevano di non
volere ragazzi che avessero problemi con la loro identità sessuale. – Lasciami
vivere. – concluse lui, continuando però a carezzarmi i capelli.
- Dovrei…
abbandonarti, allora? –
- No. – disse,
seriamente – Se tu mi abbandoni, io non potrò più vivere, lo capisci? –
Io annuii. La mia
espressione neutra tradì un certo sconforto che provavo in quel momento, ovvero
quello di non essere utile più di tanto nemmeno ad un personaggio della mia
fantasia.
- Donatello. –
- Cosa? –
- Non essere
precipitoso… sii calmo. Abbi pazienza. Continua a disegnare, a farmi vivere… -
- Non … non ce la
faccio, Dandy. Io non sono felice. Non riesco più a disegnare cose felici… -
quella confessione mi esplose dal cuore e deflagrò fino a farmi parlare, ma non
fu abbastanza forte da farmi uscire qualche lacrimuccia. Sospirai ampiamente,
cercando di controllarmi.
Di contro, lui mi
accarezzò i capelli e con le labbra si avvicinò all’angolo della mia bocca. –
Che cosa ti rende triste, cucciolone? –
Un altro dei suoi
assoluti si fece vivo. Questo era il Dandy romantico.
- Mi rende triste… il
mondo dove vivo. Non so quale sia il mio posto in quel mondo, non so che fare.
Incontro tanti ragazzi ed è sempre la stessa storia. Francesco invece incontra
tanti bei ragazzi e… e la sua storia finisce sempre meglio. Perché succede questo,
Dandy, perché? –
Continuò a
stringermi, mentre io continuavo ad annusare il profumo dei suoi capelli. Era
veramente più alto di me, ma in quella posizione riuscivo benissimo a mettere
il naso tra i suoi capelli dorati, beandomi nel loro profumo.
- Tu vorresti essere
come Francesco? Passare da un fiore all’altro, senza sentimento, ma solo con
una sistematicità degna di un campo di concentramento? – il paragone di un
ragazzo viveur che cambia ragazzo ogni sera con la sistematicità con cui si
sterminavano i prigionieri di un lager nazista mi provocò un brivido di freddo
lungo la schiena.
- Io … vorrei solo un
po’ di dolcezza. Perché non posso averla? – mormorai, disperato.
- Perché loro sono
tutti degli stupidi… Credono che una persona bella fuori sia bella anche
dentro. Invece spesso queste due caratteristiche non coincidono. Soltanto io
sono bello fuori… e bello dentro. – mi rispose, ed io pensai che era vero, che
Dandy fosse veramente bello dentro, prima che fuori.
- Tu invece… Sei
bello dentro… Ma anche un pochino fuori. – Sorrise. – E’ questo che vorresti
sentirti dire da un ragazzo, non è vero? –
- Beh, io… -
tentennai. Era come se mi leggesse nell’anima, e lo faceva senza inorridirsi
dei contenuti grigi che erano dentro di me. Avrei voluto continuare quel
colloquio all’infinito, lasciare che Dandy investigasse dentro di me e alla
fine decidesse che ero io il ragazzo della sua vita, quindi mi sarebbe piaciuto
restare nel mio mondo di carta, dov’ero io a comandare e a decidere tutto,
diversamente da quello schifo di mondo reale, dove io non ero nulla se non un
ragazzo triste che era bravo a disegnare. – Sì. Forse sì. –
Dandy sorrise, e mi
carezzò entrambe le guance con le sue mani. Cavoli, sembrava un ragazzo vero e
reale, in quel momento. Invece era soltanto un disegno, ed io ero dentro questo
disegno insieme a lui.
- E’ tardi – dichiarò
sospirando – Direi di sciogliere qui la nostra seduta… - Si alzò e mi porse la
mano – Vieni. –
Io gli porsi la mano
e lui me la prese nella sua, facendomi alzare e conducendomi verso la porta che
dava sul corridoio. Quando la aprì, vidi me stesso che dormivo appoggiato al
tavolo da disegno con la matita in mano... Un’immagine piuttosto inquietante. Rimasi
a bocca aperta, ma Dandy mi riscosse dal mio stato salutandomi velocemente con
un “Ciao ci vediamo”, dunque mi spinse via.
- Ahhhhh!!! –
Urlai. Mi resi conto
di essere tornato a casa mia, svegliato da una specie di sogno ad occhi aperti.
Una scia di saliva era rimasta sul tavolo da disegno. Pochissimo dopo Francesco
accorse nella mia stanza.
- Donatello! Che
succede? –
Io mi voltai e lo
guardai stralunato, strofinandomi gli occhi. Mi veniva voglia di mandarlo a
quel paese perché non aveva bussato la porta, ma mi trattenni.
- Eh? Perché? –
domandai.
- Ti abbiamo sentito
urlare. – disse lui, e contemporaneamente sulla mia porta comparve un ragazzino
moro con i capelli sparati all’insù, vestito con un bel gilet ed una camicia
bianca. – Va tutto bene? –
- Io… sì… Tutto bene.
Devo essermi appisolato mentre disegnavo ed ho avuto un incubo. Tutto qui. –
risposi con nonchalance. Il ragazzino mi guardò con una punta di orrore
nell’espressione, espressione a cui ero abituato da troppo tempo e che da
troppo tempo mi teneva lontano dai locali. Francesco scosse la testa, cercando
di ricomporsi, quindi voltò le spalle ed andò verso la porta, dove il ragazzino
lo stava aspettando. Non si disturbò nemmeno a presentarmelo, quella volta.
Chissà cosa frullava in testa al mio amico, da un po’ di tempo a quella parte.
- Io vado in camera –
disse, evitando volutamente di usare il pronome “noi”, credendo che non mi
fossi accorto che si era portato della compagnia a casa un’altra volta – Se hai
bisogno di qualcosa, chiama. Ok? –
- Ricevuto. Ciao. –
dissi, congedandolo immediatamente. Lui chiuse la porta e poco dopo sentii la
porta della stanza di fronte che si chiudeva. In quel momento, capii che c’era
qualcosa che non quadrava.
- Lo specchio! –
esclamai con orrore. Mi guardai intorno cercandolo nella mia stanza, ma era
come volatilizzato. – Dove cazzo è andato a fin…? – mi alzai di scatto dalla
sedia, e così facendo urtai con il ginocchio contro il tavolo da disegno.
Caddero alcuni fogli, per la precisione quelli che stavo iniziando a disegnare
prima di cadere addormentato. Li presi in mano e li guardai.
C’era disegnata tutta
la nostra conversazione, vignetta per vignetta, parola per parola, inquadratura
per inquadratura. Tutte le vignette erano una scena statica, ovvero me e Dandy
che sedevamo avvinghiati sul divano a parlare. Visti da quella prospettiva,
sembravamo due fidanzatini. Nell’ultima vignetta, c’era Dandy che mi spingeva
in una porta dalla quale fuoriusciva una luce, e dopo averlo fatto, spostava lo
specchio che avevo preso nella stanza da letto di Francesco. Un brivido mi
corse lungo la schiena. Posai i miei disegni e mi avviai verso l’uscita,
incerto sul da farsi.
Approfittando del
periodo di ferie estive del servizio di aiuto psicologico, e per cercare di
svagarmi un po’, decisi di andare a trovare mio fratello a Milano. L’idea non
venne a me di persona, ma bensì fu lui ad invitarmi: mi telefonò circa tre
giorni dopo che avevo parlato (sognato) con Dandy, proprio mentre cercavo di
occultare le vignette che descrivevano il nostro colloquio.
- Oh buongiorno, il
principino s’è svegliato, eh? – mi salutò allegramente Ermanno.
- Buongiorno a lei,
marchese. Come se la passa nella sua tenuta di Mediolanum? – l’avevo canzonato
io.
- Direi molto bene.
Però fa un caldo d’inferno… Per questo io e mia moglie avevamo avuto un’idea. –
- Sono tutt’orecchi.
–
- Vedi, pensavamo di
andarcene a fare un giretto sul lago di Garda, in Trentino. Lì c’è un sacco
d’aria buona, e soprattutto fa un freschetto niente male! C’è un’amica di mia
moglie che da una festa… se ti va di venire… - mi disse, con il tono tranquillo
di chi ha sa già la risposta.
Da quando Ermanno si
era sposato, solo due anni prima, avevamo smesso di frequentarci. Il suo
trasferimento a Milano era stato un colpo duro per i miei e anche per me, che
avevo perso l’unico essere umano che parlava con me di tanto in tanto
(escludendo Francesco, che comunque non aveva la stessa importanza di mio
fratello) e con cui uscivo senza problemi. Mio padre e mia madre andavano a
trovarlo qualche volta, ma ce l’avevano comunque con lui per averli
abbandonati.
Inutile dire che
avevo risposto sì alla proposta di Ermanno. Staccare un po’ da Bologna era
l’ideale, soprattutto alla luce degli ultimi eventi. Ero partito di buon
mattino, calcolando che per le dieci e mezza sarei stato a Milano senza troppi
guai. Dopodiché, un giorno di sosta in casa di Ermanno e Chiara, e poi via
verso il Trentino Alto Adige. Se non altro non avrei patito il caldo come a
Bologna.
La mia auto ronfava
rumorosamente sull’autostrada che portava nella città ambrosiana, e sapevo già
che mio fratello me ne avrebbe dette tante vedendomi arrivare su di essa: “Sei
impazzito! Ma hai idea di quanto sia pericolosa quest’auto? E se ti si ferma in
mezzo all’autostrada, cosa fai?”
Ed io immancabilmente
gli avrei risposto “Semplice, chiamo il carro attrezzi e la faccio riparare.”
Con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia. Sorrisi, ma il mio sorriso
si spense quando mi resi conto che un viaggio da solo, anche se di poche ore,
era abbastanza noioso. L’autoradio trasmetteva le notizie sul traffico e
qualche canzone di quelle vecchie, ma non era eguagliabile alla compagnia di un
essere umano. Pensai e ripensai a tutti i possibili scenari che sarebbero
potuti esserci con un probabile fidanzato.
- Cambia stazione,
questa non mi piace. – mi sentii dire. Tenendo il volante con la mano sinistra,
allungai l’indice per cambiare stazione.
- Neanche questa mi
piace. – disse la voce accanto a me. Era un ragazzo molto carino, sulla
ventina. Il suo nome?
- Paolo, è la
trentacinquesima volta che cambio stazione. Ci sono soltanto un centinaio di
stazioni radio in Italia. Dimmi, vuoi che le passi tutte, per farti contento???
– sbottai, con una punta d’irritazione.
- Ma che stronzo
permaloso! Vai a fare in culo, allora! – e mi spense la radio.
Tra di noi regnò il
silenzio per un po’, fino a che lui non riaccese la radio e la mantenne su un
canale dove trasmettevano preghiere.
- Se volevi andare a
messa, uscivo a Reggio Emilia e ne trovavamo una… -
- Tappati quel cesso!
Coglione… -
Un fidanzato
aggressivo. Proprio quello che mi ci voleva. E se invece fosse stato uno dolce?
- Amore, ti sei
ricordato di portare la crema abbronzante?- mi domandò il ragazzo al mio fianco, mentre guidavo. Un’auto mi aveva
appena sorpassato con un insistente lampeggio di fari abbaglianti.
- Sì… - risposi io.
- Perché lo sai che
non voglio che il mio patatone si prenda una scottatura, non è veeeeero? –
- Sì amore. – risposi
di nuovo io, distrattamente.
- Che c’è? – mi
domandò lui con un’espressione triste dipinta sul volto. – Sembra che … che ti
annoi a parlare con me. –
- No amore, è solo
che… - cercai una scusa lì per lì. – Sto guidando, ecco. –
- Non è vero… -
rispose lui tenendomi il broncio e mettendosi a braccia conserte. – Hai un
altro, non è vero? –
- Cos…? Ma … ma no,
amore. Ti giuro che … -
- Invece sì, hai un altro
e stai pensando a lui invece che a me! Dillo! Dillo! Dillo! Diiiiiiiilloooooo! – e così dicendo, si
mise a piangere. – E pensare che io faccio di tutto per te… -
Io sbuffai, non
sapendo bene cosa rispondere. Ma sì, in fondo, chi se ne importava? Era solo
uno scenario elaborato dalla mia mente creativa, non c’era nulla di vero. Però,
c’era un’altra cosa che mi inquietava: possibile che tutti questi scenari
finissero nel male?
Una volta, tanto
tempo fa (non esageriamo, saranno stati due o tre anni fa), frequentavo una
compagnia di ragazzi gay. Non ricordo nemmeno come c’ero approdato, so soltanto
che avevo un solo ragazzo che stravedeva per me e tutti gli altri non mi
potevano vedere. Il sentimento era ricambiato da me, dato che non mi piaceva la
loro meschinità, la loro arroganza… il loro egoismo. Ciascuno di loro aveva
caratteri diversi, ma ognuno di questi teneva con la manina un sottile filo
rosso, che era la cattiveria. In quel breve anno e mezzo di frequentazione di
questo gruppo avevo visto coppie sfasciarsi per tradimenti o tresche
clandestine, baci dati al momento sbagliato o alla persona sbagliata, oppure
ancora peggio per il pettegolezzo. E cosa non si dicevano tra di loro! Quando
si era in tanti erano sempre baci carezze ed abbracci, mentre se qualcuno
mancava, era l’occasione buona per sparlargli dietro.
Nulla da fare, avevo
un po’ di pregiudizio verso il mondo gay, e non già verso il mondo in sé,
quanto nei loro atteggiamenti. Atteggiamenti che con l’andare del tempo avevano
fortemente influenzato la mia fantasia, spingendomi a creare Dandy ed i suoi
amici, facendomi ogni volta aiutare dalla musica per cercare di non pensare
alle brutture di ciò che avevo visto con questi occhi e disegnare un mondo
bello e senza cattiveria.
Mi venne da pensare a
Dandy ed al nostro colloquio. Che cosa mi avrebbe detto, se avesse percepito i
miei pensieri in quel momento?
I
fumetti sono mondi paralleli, evocati da una mente superiore, che dovrebbe
essere in grado di resistere alle brutture del mondo, oppure di trasformarle in
cose divertenti. A te manca quella funzione. Non è forse vero, Donatello? Tu
non riesci a vedere una cosa brutta in altro modo che quello. Per te una cosa
brutta è brutta e basta. Ma prova a pensare lateralmente… per esempio, se c’è
un tradimento, ci può anche essere un motivo di ilarità, una situazione
divertente… Insomma, il mondo non è solo bianco o nero.
Pensare alla sua voce
vellutata ed al suo tono tranquillo, mi mise di buon umore. Le parole che
avrebbe potuto dire in quel momento mi risuonarono in testa come un mantra, di
cui io avrei dovuto cercare di coglierne il significato profondo.
Ci pensai.
Continuavo a guidare,
con gli occhi fissi sulla strada. Le uniche cose che avevo in mente erano non
andare troppo veloce, guardare bene i cartelloni stradali per non perdermi, e
tutte le regole del codice della strada riguardo alle autostrade.
Sospirai.
- Non ci riesco,
Dandy… Non ci riesco. – mormorai, mentre mettevo la freccia e mi fermavo in una
piazzola di sosta. Scesi in fretta dalla mia auto, mi sporsi sul guard-rail e vomitai
nella fossa adiacente.
Dietro di me,
intanto, gli altri veicoli sfrecciavano.
Mio fratello Ermanno
e mia cognata Chiara si erano sposati l’otto settembre del 2009. Al matrimonio,
mentre i due sposini erano sull’altare ed io ero lì accanto in veste di
testimone dello sposo, ricordo che pensai una cattiveria. Ermanno era sempre
stato un viveur, un single incallito. Da sempre. Ai tempi della scuola lo
volevano tutte, e lui andava con quasi tutte (ovviamente scartava le più
brutte). Si fidanzava con loro per una settimana o due, e poi quando le ragazze
chiedevano qualcosa di più consistente di un rapporto fatto solo di uscite in
discoteca e di visite al parco per guardare la luna, lui le lasciava. Conoscevo
Ermanno talmente bene che avrei potuto dire che era un figlio di buona donna,
ma non l’avevo mai detto, non l’avrei neanche mai ammesso con me stesso. Perché
dico questo? Seguitemi, e capirete.
Il prete era lì che
pronunciava la formula di rito, Vuoi tu
Ermanno Tarasconi, prendere in sposa la qui presente Chiara Accorsi come tua
legittima sposa…, mentre io me ne stavo lì con uno sguardo perso nel vuoto
a pensare a tutto il nostro passato, a pensare a come mio fratello lasciava le
ragazze quando si azzardavano a chiedere la cosa proibita.
Non c’era giro di
parole che tenesse, data l’esperienza di Ermanno. Sapeva fiutare lontano un
miglio quando una ragazza stava per iniziare un “discorso di intrappolamento”,
la denominazione che aveva affibbiato a quel tipo di discorsi. Quando una ragazza comincia a farti un
discorso di intrappolamento, diceva, è
finita. Puoi soltanto augurarti che non si incazzi troppo quando le dici che tu
sei ancora giovane e che vuoi vivere la tua vita. Le donne sono esseri
particolari. Si innamorano subito, se dimostri loro un po’ di attenzione. Ascoltami
bene fratellino, e fai tesoro di ciò che ti sto per dire. Queste furono le
sue parole quando, a quindici anni, mi spiegò il suo metodo per fuggire pulito
da una trappola.
Tante ragazze per un
solo uomo significano come minimo una risonanza di comunicazione pari a cento
elevato un milione. Ergo, se lasci una ragazza, quella come minimo si
confronterà con le amiche, che si confronteranno con altre amiche, che si
coalizzeranno tutte contro quel porco di uomo che ha lasciato la loro amica.
Questo era il problema principale, ovvero non sembrare uno schifoso maschio che
usa le donne.
Come fare?
Vi ho già detto che
mio fratello era un figlio di buona donna, ma il metodo che utilizzava, unito
alla poca memoria delle ragazze innamorate, era davvero raffinato: forte di
tante amicizie compiacenti (mio fratello era da sempre la star di tutti i
gruppi di ragazzi), convinceva qualcuno dei suoi amiconi a provarci con la
sventurata di turno, che immancabilmente, dato che da parte di Ermanno non
c’era risposta sul discorso “Ci mettiamo insieme oppure no”, cadeva nella
trappola dell’amico che ci provava. Naturalmente, la ragazza di turno non
doveva sapere che il ragazzo che la stava rimorchiando era un amico di Ermanno,
altrimenti avrebbe potuto mangiare la foglia; detto questo, l’amico di Ermanno
ci provava, loro ci stavano, e al momento giusto, scattava la trappola.
Uno dei
“rimorchiatori” di fiducia di mio fratello si chiamava Lucio. Lucio era un bel
ragazzo, frequentava la palestra, aveva l’aria da spaccone ma non troppo, e con
le ragazze era dolce il giusto per irretirle prima del colpo di grazia.
La trappola
consisteva in questo: una volta irretite abbastanza le ragazze, Lucio le
portava alla biblioteca della scuola (io e mio fratello non frequentammo lo
stesso istituto, ma una volta mi portò e mi fece vedere tutto quanto), parlava
un po’ con loro, poi le seduceva lì, baciandole e abbracciandole. A quel punto,
irrompeva mio fratello nella stanza, e li scopriva entrambi. Sgualdrina! Che cos’hai fatto??? Mi hai
tradito con questo qui?!? Non voglio più vederti!!! Recitata questa piccola
parte, tutto era in discesa. Le ragazze credevano di aver sbagliato, mio
fratello scompariva dalla loro rubrica telefonica, l’amico non correva alcun
rischio perché scappava via al momento giusto, e così mio fratello poteva
dedicarsi ad una nuova avventura (mentre scrivo queste righe, mi viene da
sorridere. Era o non era un figlio di buona donna, quel disgraziato?).
Con questo giochino
di recitazione, andò avanti un bel po’ di tempo, fino a che una ragazza
intelligente e più lungimirante di tutte quelle che aveva incontrato prima, non
gli rese pan per focaccia, sabotando quel meccanismo perfetto che Ermanno si
era costruito con l’esperienza.
A ventisette anni,
mio fratello stava per terminare gli studi universitari e laurearsi in
informatica. Purtroppo, il tempo passa per tutti, e lui sentiva già che
nonostante l’età non troppo avanzata, non fosse più tanto bravo come lo era un
tempo, con le ragazze. Queste sembravano molto prese dagli studi, così tanto
che non sembravano essere attratte dalla prospettiva di avere un “compagno di
giochi” con cui fare sesso. Eppure, nel suo peregrinare tra le possibilità, mio
fratello finalmente sembrava averne trovata una. Lei era bella, sensuale, dolce
al punto giusto. Tanto dolce che mio fratello all’epoca sembrava rincoglionito.
Non lo riconoscevo più, sembrava navigare in un’altra dimensione
spazio-temporale, lontano da me, da mio padre, da mia madre, da tutto il mondo
che lo circondava. Era la prima volta che lo vedevo così diverso, e la cosa mi
faceva inquietare. Con questa ragazza mio fratello andò avanti per un mese, poi
due, poi tre, poi quattro, poi cinque… fino ad arrivare ad un anno. Io
aspettavo con ansia di vederlo arrivare una sera e farmi raccontare ciò che mi
raccontava sempre, ovvero che aveva sviato una trappola e si era trovato una
nuova avventura. Invece, le mie aspettative furono deluse.
Una sera, io ero in
camera mia a studiare per l’esame di diritto privato (in realtà stavo solo
riempiendo il libro di disegnini). All’improvviso, sentii la porta di casa aprirsi
con un gran fragore di chiavi, come se qualcuno avesse avuto fretta di entrare
in casa, per poi sentirla richiudere subito dopo. Udii mia madre dire Ermy, che succede? Senza ricevere
risposta, udii mio padre che faceva un verso inarticolato, ed infine udii le
falcate frettolose di mio fratello e la porta della stanza accanto alla mia che
si chiudeva con un gran rumore. Ehi, in
casa mia non si sbattono le porte! Chiaro??? Urlò mio padre. A quel punto,
decisi che c’era qualcosa che non andava. Mi avvicinai alla porta della stanza
di mio fratello, e timidamente bussai. Non
ci sono per nessuno, rispose mio fratello dall’altra parte. Io insistetti,
fino a che lui non aprì la porta e mi aggredì tirandomi per la felpa. Mi
ritrassi, quindi scappai in camera mia e chiusi la porta, cercando di dominare
le lacrime.
Poco dopo, qualcuno
bussò alla mia porta.
- Scusami – mi disse
Ermanno, entrando senza permesso.
- Fottiti – gli
risposi io – Chi ti ha dato il permesso di … -
- Non rompere,
mostro. – disse lui. – Non sto bene, è successa una cosa. –
Io mi calmai, sapendo
che mio fratello non pensava davvero certe cose di me. – Ti va di parlarne? –
gli proposi. Lui accettò.
Mi raccontò che la
ragazza l’aveva lasciato, solo perché lui si era azzardato a chiederle di
fidanzarsi ufficialmente. Poi un’altra ragazza l’aveva sedotto e lei l’aveva
colto in flagrante. Lui era disperato, talmente disperato che mi abbracciò e
pianse sulla mia spalla per tutta la serata. Ricordo che pensai stai raccogliendo quello che hai seminato,
te lo meriti, brutto figlio di… poi mi bloccai, pensando che quell’essere
che mi piangeva sulla spalla era pur sempre mio fratello Ermanno, sangue del
mio sangue.
Restò in stato di
catatonia per un bel po’ di tempo, circa due settimane. Saltò un turno per la
laurea per restare in casa a dormire tutto il giorno, finché…
Un giorno il telefono
di casa squillò. Dato che era vicino alla mia stanza, mi alzai e andai a
rispondere. Era la ragazza che aveva fatto piangere mio fratello. Dovetti
dominare l’istinto di mandarla a quel paese, ma fu davvero difficile, mentre
bussavo alla porta della stanza di mio fratello e gli annunciavo che c’era una
telefonata per lui. Mentre mio fratello prendeva la cornetta in mano, io ritornai
in camera mia. Della conversazione riuscii ad udire soltanto poche parole che
disse Ermanno, ma non ricordo bene cosa disse. So soltanto che quando la
conversazione terminò, mio fratello era cambiato. Entrò in camera con le
lacrime agli occhi, mi guardò… si avvicinò e mi abbracciò talmente forte da
togliermi il fiato.
- Mi ha perdonato. Mi
ha perdonato! – esclamò, stringendomi e girandomi come fossi stato un pupazzo –
Mi ha perdonato!!! Ed io sono il ragazzo più felice di questo mondo!!! –
Stretto dalle sue
braccia, io sorrisi e lo abbracciai a mia volta, battendogli delle pacche sulla
spalla e dicendogli “Grande fratellone!” per incoraggiarlo.
Sapete come si
chiamava quella ragazza?
- Chiara – aveva poi
detto mio fratello sull’altare – ricevi questo anello come simbolo del mio
amore per te… -
E sì, era proprio
lei.
La cattiveria che
pensai quel giorno fu: adesso sì che sei
intrappolato ben bene, eh, fratellone?
Quando arrivai,
Ermanno era lì che mi aspettava nel cortile del complesso residenziale dove
abitava, un gigante di venticinque piani con un giardino interno che sembrava
il parco di un albergo ed un giardino esterno non molto diverso, con abbastanza
panchine per tutti i condomini che avessero voluto passare un pomeriggio diverso
dallo stare chiusi nei loro appartamenti. Con il tubo dell’innaffiatoio, stava
spruzzando d’acqua le piante (immaginai fossero di Chiara, non sue… non era
buono nemmeno a tenere in vita una pianta grassa). Quando mi vide mi sorrise e
scherzosamente spruzzò un po’ d’acqua col tubo sul mio parabrezza. Io azionai i
tergicristalli e lui si mise a ridere.
- Sempre il solito,
eh? – dissi, mentre il finestrino si abbassava.
- Eh sì. Mi sa tanto
che devi tenermi così, fratellino. – rise, e continuò a dirigere il getto verso
le piante. – Vai a parcheggiare, va’. –
Obbedii, e quando
scesi dall’auto lui era già lì ad accogliermi. Portava una maglietta bianca con
un disegno di Snoopy che dormiva sulla sua cuccia, ed una didascalia che diceva
Ogni artista comincia così un suo lavoro.
Me la ricordavo, era una maglietta che gli aveva regalato nostra madre alcuni
anni fa; un paio di pantaloni corti e ai piedi le infradito bianche.
- Come sta il mio
fratellino adorato? – cinguettò, abbracciandomi e baciandomi le guance.
- Bene direi. A parte
il viaggio in solitudine… -
- Ma perché non ti
sei portato della compagnia? – mi domandò, battendomi una mano sulla spalla. Da
sotto la maglietta vedevo che era bianco come un cencio. Evidentemente non
aveva ancora preso la sua dose di sole, nonostante la bella stagione.
- Non sapevo chi
portare… - buttai lì. Ermanno non sapeva che a me piacevano i ragazzi.
- Potevi portare il
tuo coinquilino. Lì ci sarebbe stata molta topa anche per lui! – disse, e rise
di nuovo. Io con lui, ma non tanto per la battuta che aveva fatto, quanto
perché immaginai Francesco e la sua vita, piena di ragazzi con cui faceva
sesso. Francesco era gay come me, e più che farsi le donne, gli piaceva fare la
donna. Pensando a lui, digrignai i denti pensando a come si sarebbe sbizzarrito
durante questi giorni che io non sarei stato in casa. Fortuna che avevo chiuso
a chiave la mia camera da letto.
- Meglio di no.
Almeno però la compagnia che trovo qui è gradevole – dissi, ed Ermanno sorrise.
Si vedeva che era felice di vedermi, ed io… stranamente mi sentii male.
Non mi era mai
successo prima d’ora, forse perché quando io presi coscienza di ciò che ero,
lui era ormai andato via di casa ed io mi apprestavo a farlo, eppure… questa
giustificazione non bastava: Mi sentivo male per non essermi rivelato a lui
come un ragazzo a cui piacevano i ragazzi.
Chiara non era
cambiata dai tempi in cui fece piangere Ermanno. La osservai entrando in casa
loro e poi quando consumammo la cena. Aveva solo ventinove anni, ma sembrava
più giovane di almeno nove anni senza usare ausili come trucchi o cosmetici.
Era naturalmente bella, con i suoi capelli castani raccolti in un fermaglio
sulla sommità della testa, una canottiera bianca giromanica che lasciava
intravedere le sue forme regolari ma allo stesso tempo generose ed un paio di
jeans scuciti sulle ginocchia, che intuii essere quelli che si metteva di
solito in casa.
Un bellissimo
appartamento, il loro nido d’amore. Ben tenuto, arredato con gusto e con tanti
quadri. Mio fratello poteva considerarsi un ragazzo fortunato: a trent’anni
lavorava già per una grossa società di informatica che progettava di inserirsi
nelle telecomunicazioni come gestore di telefonia fissa e mobile, aveva una
moglie servizievole e devota ed un appartamento che fra una decina d’anni
sarebbe stato tutto suo, quando c’erano molti suoi coetanei (o addirittura più
grandi) che faticavano anche solo a trovare lavoro come postini. Misi in
comparazione me e lui, pensando che io ero arrivato a ventiquattro anni senza
nemmeno dare in tempo i miei esami di giurisprudenza, e probabilmente non sarei
mai diventato un operatore informatico giuridico in tempi brevi… A parte
quello, io che cos’avevo nella mia vita?
Degli amici?
Una casa tutta mia?
Un lavoro?
Un fidanzato…?
Niente di tutto ciò.
Avevo soltanto la mia
fantasia.
…e tanti nodi da
sciogliere.
- Finalmente ti sei
deciso a venirci a trovare, eh? – disse Chiara, servendomi il piatto con un
sorriso. – Tuo fratello qui non vedeva l’ora. Ti ha sistemato anche la stanza…
non sarai un neonato, ma sarà come avere un figlio. – E rise. Ed io con lei.
Mio fratello Ermanno si limitò ad una risatina e scosse la testa.
- Non è vero che non
vedevo l’ora. Non darle retta, Dody… - lei esagera sempre.
- Che c’è di male?
Vuoi o non vuoi bene a tuo fratello, scusa? –
- Sì ma… che c’entra?
– Ermanno arrossì, ed io feci una risatina di contentezza. – Sempre a mettere
zizzania, tu… - concluse poi, inforcando un tortellino e ficcandoselo in bocca.
Lei rise e smise di
stuzzicarlo. – Allora Donatello, come vanno le cose giù nella dotta e grassa?
Ti diverti? –
- Diciamo di sì –
dissi, masticando due tortellini alla panna. Erano veramente buoni, tanto che
per un po’ dimenticai di essere a dieta e li mangiai con gusto - …faccio le
solite cose, studio… vado in giro per i locali con i miei amici… niente di
particolare. –
- La vecchia chioccia
esce dal guscio, eh? – sentenziò Ermanno ridacchiando. Sapeva che ero sempre
stato un tipo casalingo, e ciò che dissi stonava abbastanza con la mia
personalità.
- Ogni tanto, Ermy.
Ogni tanto. – risposi io, tagliando corto. – Voi invece come ve la passate
quassù? – domandai.
- Boh, solita vita.
Di mattina io vado a lavorare, lei invece studia… poi la sera andiamo a fare
due passi o ce ne restiamo in casa. – rispose mio fratello. Chiara annuì
mestamente quando Ermanno disse che lei studiava.
- Studi per cosa,
Chiara? – domandai di nuovo.
Lei si portò la
forchetta alla bocca e masticò un altro tortellino, quindi alzò le spalle e
rispose – Concorsi di lavoro. Questi stronzi politici sembrano non avere a
simpatia gli insegnanti. Sono costretta a fare supplenze su supplenze, e ancora
niente impiego fisso. Perciò ogni volta che fanno un concorso, io ci vado e
spero di avere fortuna – sospirò. Povera Chiara, sapevo che fin da bambina
voleva fare la maestra elementare, quando ancora le scuole non erano state
mutilate dai tagli dei vari governi avvicendatisi negli anni, costringendo gli
insegnanti a lavorare solo sulle supplenze. E ora davanti a me avevo l’immagine
di una maestra moderna, che si era laureata con il massimo dei voti ma che non
riusciva a trovare il suo sbocco lavorativo… provai tristezza per lei.
- Dai amore, su…
tanto adesso è estate, dovresti riposarti. – le disse Ermanno, cingendole
delicatamente le spalle con il braccio. Io provai un moto di tenerezza nel
vederli così innamorati, così immersi in una dimensione che soltanto poche persone
conoscevano: la dimensione dell’amore. Mi si strinse il cuore, mentre facevo
finta di niente e masticavo un altro tortellino… per non rovinare la loro
intimità di coppia.
Mi sistemarono nella
terza stanza da letto, uno stanzone ben arredato, dove c’erano la scrivania con
il computer ed i libri di Chiara e la poltrona ergonomica di mio fratello
accanto ad un mobile con sopra uno di quei vecchi giradischi che andavano negli
anni ’70. Mio fratello era un grande appassionato di musica, e nonostante l’istruzione
tecnica informatica, non riusciva a fare a meno dei vecchi dischi in vinile
ereditati da mio padre. Diceva che il suono era un suono vero, palpabile, che
sapeva di passato. Non ascoltava musica su altri supporti, fatta eccezione
quando ascoltava la radio o i cd audio di nuovi artisti, che ovviamente non
potevano incidere su vinile.
Il mio letto
consisteva nel divano apribile accanto alla portafinestra che dava sul balcone.
La vista non era particolarmente apprezzabile da lassù, per lo più si vedevano
gli altri palazzi come un intrico labirintico di costruzioni, antenne e
comignoli, che proprio non lasciavano spazio all’immaginazione. L’unica cosa
bella quella sera era la luna, così piena e gialla che invogliava… la guardai
fisso, perdendomi nei ricordi, quando con mio padre e mia madre eravamo ospiti
di amici in collina e la sera si affacciava la luna. Io che chiedevo “Mamma,
Papà, ma la luna è fatta di formaggio?” e mio padre rispondeva, ridendo “Sì,
certo. E ogni notte, gli Atlanti, ovvero i tre giganti che sorreggono la Terra,
ne mangiano uno spicchio. Per questo la luna ogni tanto si rimpicciolisce”,
mentre mia madre scuoteva la testa e ridacchiava, per poi prendere mio padre in
disparte e richiamarlo all’ordine con il suo classico “Se continui così lo
farai diventare scemo, il nostro bambino”. Che bei ricordi…
- Sempre a pensare al
passato, eh? Sei solo un nostalgico del cazzo. – una risata sommessa esplose
accanto a me. Nel posto accanto al mio sul divano letto si era materializzato
Dandy.
- Ah, sei tu… -
dissi, con nonchalance. Ero felice di vederlo in quanto mio personaggio, ma ero
un po’ meno felice quando faceva queste entrate da maleducato.
Lui annuì, sorridendo
felice – Sì, sono proprio io. Allora, cosa ci fai in questa ridente cittadina
del Nord? Mi porti a fare shopping alla Galleria? –
- Certo. Quando
apriranno un negozio di cappotti di legno. – risposi io, cercando di fargli
capire che mi dava fastidio quando lui si comportava da gattina viziata.
- Uff – borbottò –
sei troppo serio per i miei gusti, lo sai? – poi riprese la domanda – Che cosa
ci fai qui? –
- Sono venuto a
trovare mio fratello e sua moglie – risposi, senza staccare gli occhi dalla
luna – domani andiamo in Trentino, ad una festa. –
- Adoro le feste! –
cinguettò Dandy, salvo poi ritornare serio due secondi dopo – Peccato che non
puoi portarmi con te. Dopotutto io non esisto se non nella tua fantasia. –
La precisazione mi
fece sospirare di disperazione. Adesso ero arrivato anche al punto di avere le
allucinazioni? Mi stava passando la voglia di disegnare.
- Se sei venuto qui
per sfruculiare, ti avverto che sono le due del mattino, ed io vorrei dormire.
– dichiarai, abbassandomi sotto la coperta leggera e girandomi dall’altra
parte.
- Come vuoi. Ma sappi
che per un po’ posso starti vicino come un ragazzo vero. – rispose Dandy. Lo
sentii rannicchiarsi in sé stesso.
Mi girai verso di
lui.
- Cosa vuoi dire? –
gli domandai. Teneva la testa appoggiata alle ginocchia, ed era vestito con
solo un paio di jeans ed una camicia bianca semiaperta, che mi lasciava
intravedere il suo petto glabro e tonico.
Per tutta risposta,
lui mi sorrise.
- Non posso dirti
molto – esordì – ma sappi che di questo passo ti servirà qualcuno che ti
consoli – dichiarò.
- Molto poetico, ma…
continuo a non capire. Cosa volevi dire con “posso starti vicino come un
ragazzo vero”? Tu eri, sei e sarai solo un personaggio della mia fantasia. –
Velocemente, senza
quasi che me ne accorgessi, Dandy si tuffò nelle coperte insieme a me. Dapprima
ci guardammo negli occhi, un lungo, lunghissimo istante. Dentro quegli occhi
chiari riuscivo a vedere tutti i miei pensieri che avevano ispirato la sua
nascita, seppur confusi ed intricati. Ma era una bella sensazione, era come
specchiarsi in un pozzo che faceva vedere il passato da mille prospettive
diverse.
Mi prese la mano, ed
iniziò a stringerla. Poi mi venne vicino, abbracciandomi ed abbarbicandosi a
me. Le sue labbra erano molto vicine al mio orecchio sinistro.
- Voglio che tu
sappia – mi sussurrò lentamente all’orecchio – che anche i personaggi inventati
possono prendere vita. In un modo o nell’altro. In un modo … o nell’altro. –
concluse, e mi baciò la guancia con una dolcezza che quasi mi sciolsi.
- Non posso restare
più tanto tempo. Non ancora. Ma se le cose stanno come penso, allora … - non
concluse la frase, come se avesse avuto paura di finirla. Mi guardò ancora una
volta negli occhi, ed io lo guardai interrogativo. Con le sue lunghe dita prese
a carezzarmi i capelli, sempre guardandomi negli occhi. – Sei terribilmente …
un cucciolone. – mi disse, interpretando uno dei miei desideri di sempre:
essere chiamato cucciolone da un amante. Io arrossii, e lui… avvicinò le sue
labbra alle mie, e mi baciò dolcemente.
Le sue labbra erano
calde ed umide, tanto che io non riuscii a resistere. Continuai a baciarlo,
finché lui non si decise che era giunto il momento di smetterla di fare gli
innocenti ed aprì la bocca, offrendola alla mia lingua. Esplorai la sua bocca
con attenzione, mentre lui si lasciava coinvolgere dai miei baci appassionati,
dei quali sembrava non essere mai sazio.
Fu un lunghissimo ed
appassionato bacio, che mi vide confuso e quasi delirante, il mattino dopo,
mentre mi sorpresi allo specchio a baciare un cuscino.
Il viaggio doveva
avermi stancato molto, se mi ero messo a sognare Dandy che veniva nel mio letto
e mi baciava… Anche se la qualità del sogno era piuttosto realistica?
Sospirai, non
capendoci molto. A farmi dimenticare i miei problemi almeno in parte, fu la
colazione a base di brioches che Chiara stava preparando di sotto. Ne annusai
il profumo, mi vestii ed andai giù, affamato come un lupo.
Eravamo fermi ad una
stazione di servizio nei pressi di Verona, quando ad un certo punto, squillò il
mio cellulare.
Guardai il display.
Francesco mi stava chiamando da casa, nonostante gli avessi detto mille volte
che il telefono costava. Premetti il pulsante verde che accettava la chiamata e
risposi.
- Ti avrò detto mille
e una volta di non chiamare col telefono di casa, Fra.. – esordii.
- Eh, ma che burbero
sei oggi. – mi rispose lui con una risatina. Scossi la testa, non troppo
entusiasta di sentirlo. Se avesse cominciato a sparare cavolate sui suoi
amanti, gli avrei chiuso la comunicazione seduta stante.
- Che c’è? – tagliai
corto io.
- Ah niente, volevo
avvisarti che è arrivata una raccomandata con ricevuta di ritorno. L’ho firmata
io per te… -
Mi si gelò il sangue
nelle vene. Non ero mai stato un tipo che aveva problemi con la legge, ma
ricevere delle raccomandate se non richieste non era una cosa troppo allegra.
Lanciai un’occhiata a mio fratello e a Chiara. L’uno stava mettendo gasolio
nell’auto e l’altra stava guardando la vetrina delle chincaglierie con aria
molto interessata.
- Chi la manda? –
domandai, con voce tremante.
- Ah, è praticamente
un’associazione culturale di Roma… - sentii un frusciare di carte dall’altra
parte. Forse Francesco stava rovistando per vedere dove l’aveva messa. Così
distratto com’era, mi spaventai che avesse anche potuto perderla. – Aspetta
che… la trovo. – Altro frusciare di carte. Io mi tenni la fronte con la mano
destra, chiudendo gli occhi e trattenendo le parole grosse che avrei voluto
urlargli.
- Eccola! – esclamò
lui, trionfante – Si tratta della Fondazione Privata Rambaldi, scuola di arti
visive e cinema d’animazione. – il tono della sua voce era perplesso, come
quando si legge una cosa che non si capisce. Io ero ancora più perplesso di
lui, se possibile, e cercai di ricordare in che occasione ero entrato in
contatto con quella Fondazione.
Trovare uno sbocco
per un disegnatore di fumetti è una cosa veramente difficile. Se a ciò si
aggiunge che io non ero nemmeno assistito da uno scrittore che inventasse le
trame, il quadro diventava davvero nero. Le mie storie erano piuttosto
incentrate sull’amicizia, sull’amore… sull’amore omosessuale. Com’è ben noto,
l’omosessualità in Italia è ancora vista con un occhio abbastanza freddo,
quindi per trovare uno sbocco ci voleva davvero un miracolo.
Di base io mandavo i
miei lavori alle case editrici, firmandomi con il mio nome. Preparavo i file in
formato pdf (oppure mi recavo in copisteria e facevo le varie stampe di presentazione),
scrivevo delle sinossi brevi ma dettagliate, e spedivo tutto ai vari indirizzi
che si occupavano di visionare i materiali degli artisti. Non avevo mai avuto
fortuna, ma un giorno mi imbattei in una cosa nuova.
Concorso
per aspiranti insegnanti di scuola di fumetto e cinema d’animazione.
Lessi su una mail.
Andai a vedere.
Il concorso era un
bando di reclutamento per un anno in una scuola di disegno ed animazione, della
quale non venivano specificate le generalità. Valutavano la bravura degli insegnanti
dai loro disegni e non dai loro studi scolastici (la cosa giocava a mio favore
in quanto io avevo frequentato l’istituto tecnico commerciale ed ero iscritto
ad un corso di giurisprudenza, due percorsi scolastici totalmente avulsi dalla
nobile materia dell’arte figurativa) ed offrivano un fisso mensile abbastanza
allettante (ma cos’era il denaro in confronto alla gioia di insegnare il
disegno ad un gruppo di appassionati?).
Galvanizzato dalla
mail, mi misi al lavoro per creare una nuova storia, presi ancora una volta
matita, pennini e china e creai un’altra storia di venti pagine con
protagonista Dandy ed i suoi amici. Siccome per questo concorso non erano
accettate le e-mail, feci preparare un albo rilegato dalla copisteria, di cui
non ne conservai alcuna copia (avevo letto in un libro di Stephen King che fare
copie dei propri lavori portava scalogna, ed io seguivo abbastanza fedelmente
quella regola), e spedii il tutto all’indirizzo che mi era stato fornito. Una
volta che la busta fu imbucata, mi dimenticai di tutto.
- Qui c’è scritto che
hanno gradito molto il tuo lavoro inviato due anni fa – rispose Francesco per
telefono – e che avrebbero piacere di vederti in Settembre per discutere i
dettagli di un’eventuale assunzione. – concluse Francesco, leggendo
testualmente.
Io non sapevo cosa
dire. Era una bella gatta da pelare. – C’è una data che fissa il colloquio? –
domandai.
- Venti Settembre. –
rispose Francesco.
Eravamo solo a metà
Giugno, e loro mi convocavano così presto? Se non fosse sembrato strano, avrei
detto che volevano assicurarsi che io non prendessi impegni con nessun altro
editore, ma fu un pensiero che scacciai via più per scaramanzia che per altro.
Per quella data avrei dovuto dare un esame, ma ero convinto che l’avrei saltato
anche quella volta. La proposta di lavoro era davvero una bella notizia.
- Cavolo, sono… sono
strafelice, Francesco. – dissi, sorridendo di gioia. Lui rise, e mi incoraggiò
a non lasciarmi scappare la ghiotta occasione. Dopodiché ci salutammo e chiusi
la comunicazione, andando a raggiungere mio fratello e mia cognata. Riflettei
sul problema se avessi dovuto comunicare a loro la lieta novella, ma dopo
un’attenta analisi, convenni con me stesso che era meglio non dire nulla,
ancora… Dopotutto, non ero ancora stato assunto. Era tutto ancora da vedere, ed
avrei saputo tutto soltanto fra due mesi.
Giungemmo a
destinazione circa alle 4 del pomeriggio seguente. Le montagne erano davvero
belle in estate, con quelle cime verdi che terminavano in bianco. Il Trentino
Alto Adige era forse uno degli spettacoli più belli che l’Italia aveva da
offrire, con quell’aura di purezza mista a sconfinatezza che tanto mi facevano
stare bene. Quando arrivammo, pensai che questi amici di mio fratello erano
proprio fortunati: abitavano in una villa immersa nel verde, quasi in
eremitaggio, dalla quale si potevano vedere le montagne e le nuvole basse che
ogni tanto sostavano, creando una nebbia fitta che solo poche volte nella vita
avevo avuto occasione di vedere.
Io e Chiara sgranammo
gli occhi quando, in auto, varcammo il grande cancello che conduceva alla
tenuta. Già da lontano si poteva vedere il lusso che imperava, da una vasca con
fontana che zampillava festosamente acqua, posta proprio davanti alla casa.
Quest’ultima era un maestoso palazzo di quattro piani, con tante decorazioni
alle finestre, in stile montanaro. Più che una casa privata sembrava un
albergo.
Fuori, ad aspettarci,
un nutrito gruppo di ragazzi, che appena videro la Renault di Ermanno e lui al
volante, si misero a fargli le feste e a sorridergli allegri. Qualcuno fece
anche finta di farsi mettere sotto, salvo poi scappare via sotto le risate
degli altri.
- Che dementi – disse
mio fratello ridendo.
- Non sono cambiati
neanche di una virgola! – esclamò Chiara, ridendo a sua volta. Io non li
conoscevo, per me erano tutti volti nuovi, quindi mi limitai ad un mezzo
sorriso. Ermanno parcheggiò accanto ad altre auto (c’erano due SUV ed una
Cinquecento, il che mi fece supporre che gli altri ospiti sarebbero dovuti
arrivare).
- Oh, ce ne avete
messo di tempo, eh! – disse un ragazzo con un maglione a collo alto. –
Cominciavamo a stare in pensiero! –
- Flavio… vedi di non
rompere va’ che è meglio. – lo canzonò mio fratello ridendo, prima di
abbracciarlo con un’amichevole pacca sulla spalla.
- Come state? Non mi
presenti? – disse Flavio.
- Ah sì… Questa è
Chiara, mia moglie… - Chiara allungò la mano e Flavio gliela strinse
amichevole, sorridendole.
- …Mentre lui è il
prodigio della mia famiglia. Il mio fratellino. – concluse Ermanno, e Flavio
diede una stretta di mano anche a me.
- Ah sì me ne avevi
accennato, mi pare – disse Flavio. Il fatto che Ermanno avesse soltanto
“accennato” di avere un fratello minore mi mise un po’ in agitazione. Ero
veramente così poco importante, per lui? Sorrisi a Flavio, recitando il
classico “piacere di conoscerti”, che di lì a poco avrei dovuto dire a tutti
gli altri ospiti.
- Un brindisi a
questa nuova casa ed ai miei genitori che hanno appena finito di pagare il
mutuo! – esclamò Flavio, alzando in alto un calice pieno di spumante. Tutti
quanti applaudirono, qualcuno disse “Usurpatore di case genitoriali!” ridendo,
mentre io me ne restai in disparte a guardare fuori dalla finestra, certo che
il mio applauso non sarebbe servito a nulla.
Ermanno era lì,
accanto a Chiara, che osservava la stanza dove eravamo, un grande salone
addobbato con parecchi quadri, mobili antichi ed illuminato in una maniera
piuttosto strana: non c’erano lampadari ai soffitti, bensì dei faretti che
gettavano una luce soffusa prima, mentre altre fonti di luce (probabilmente
occultate agli angoli delle pareti) davano una sensazione di luminosità che mi
fece pensare ad uno studio televisivo.
Tanto sfarzo per
nulla, pensai, mentre mi aggiravo per i corridoi della casa, a cui Flavio aveva
dato libero accesso a tutti gli ospiti (nel frattempo ne erano arrivato tanti altri
che sarebbe stato superfluo fare le presentazioni). Mi chiesi quanti avrebbero
potuto dormire in quella specie di reggia, e quante stanze da letto fossero
state disponibili. Svoltai per un altro corridoio, dove c’era una stanza piena
di trofei e coppe. Mi sarei aspettato di trovare una stanza così nella casa di
un uomo anziano, non certo in una casa di un giovanotto dell’età di mio
fratello. Sollevai lo sguardo, nel vedere tutte quelle coppe lucide e ben
tenute. Probabilmente non appartenevano tutte a Flavio, e questo pensiero fu
confermato dalle iscrizioni. Torneo
interregionale di tiro con l’arco – 2° classificato diceva una coppa. Poi
ce n’erano altre dedicate ad altre specialità sportive e sociali. Oltre a
quello, c’erano alcune fotografie. Mi avvicinai per osservarle meglio.
In una era ritratto
Flavio, vestito in pompa magna che stringeva la mano ad alcuni uomini in giacca
e cravatta. Una fotografia della sua laurea. Poco più in là, c’era sempre
Flavio, in una foto di gruppo, e accanto a lui c’erano mio fratello Ermanno e
Chiara, oltre ad altre persone che non conoscevo, ma che forse erano state
invitate a passare questa settimana nella reggia dove eravamo ora. La figura di
questo ragazzo, Flavio, mi era del tutto sconosciuta. Né Ermanno mi aveva mai
detto di essere stato alla laurea di questo suo amico, dove io non ero peraltro
stato invitato. Un leggerissimo alone di tristezza mi pervase, pensando che mio
fratello avesse potuto escludermi; cercai di non darci peso più di tanto,
mentre mi avviavo verso il salone principale per non fare la figura
dell’asociale.
Lì, ritrovai tutti
gli invitati che si erano riuniti in gruppetti, Flavio che passava tra di loro
da bravo padrone di casa a parlare un po’ con l’uno, un po’ con l’altro, e
infine… vidi mio fratello che chiacchierava con un ragazzo.
Sulla ventina,
capelli pettinati a spazzola e un fisico asciutto che mi suscitò invidia. Tra
tutti gli altri sembrava brillare, non già a causa del suo aspetto fisico molto
carino, quanto per i suoi vestiti, che non erano eleganti come quelli degli
altri invitati: erano un casual molto particolare, che mi fece pensare che il
ragazzo fosse uno studente universitario o addirittura un artista, proprio come
me.
- Ah allora come
state in quella città, voialtri? C’è davvero tanto smog come si dice?!? – disse
il ragazzo a mio fratello. Ermanno gli rispose con una risatina, aggiungendo
che no, non era davvero tanto come la gente diceva, ma era molto di più. Quando
Ermanno si accorse che ero apparso, si illuminò e agitò la mano, invitandomi ad
avvicinarmi.
- Ehi guarda chi c’è.
Il mio fratellino. – disse Ermanno, mentre io mi avvicinavo. Il ragazzo mi
sorrise. – Simone, questo è mio fratello Donatello. –
Amichevole, il
ragazzo mi porse la mano e me la strinse dolcemente. – Ah, molto lieto di
conoscerti, Donatello – disse – Tuo fratello qui è un vero mascalzone, mi ha
tenuto nascosto di avere un fratello con una faccia così simpatica! – Concluse,
ridendo. Ermanno rise con lui, ed io mi limitai ad una risatina imbarazzata. Nessuno
mi aveva mai detto che avevo una faccia simpatica. Abbozzai un sorriso, mentre
Ermanno mi dava una pacca sulla spalla. Molto in fondo, nei recessi della mia
coscienza, sapevo che Simone, con quel complimento, aveva smosso in me dei
meccanismi che per codardia non volevo accettare. Continuavo a ripetermi che un
complimento non è nulla, che non dovevo farmi troppe illusioni e che dovevo
godermi la vacanza. Continuammo la conversazione noi tre, poi si unirono anche
Chiara e Flavio, e parlammo di come avremmo trascorso la settimana che ci
aspettava.
La serata stava
trascorrendo bene, avevo contato gli invitati ed ero giunto alla conclusione
che eravamo in trentadue, me compreso. Una bella brigata, ma mi rallegrai
nell’apprendere che non tutti avrebbero dormito qui. Molti sarebbero andati via
in quanto residenti nelle vicinanze (nonostante Flavio avesse insistito
affinché restassero), quindi in casa saremmo rimasti una quindicina, forse
venti al massimo. Adesso tutti gli invitati erano nel salone a ballare, ed io
mi ero trasferito ai piani superiori, dove c’era una grande terrazza, a
guardare fuori.
A chi avesse avuto la
bella idea di dire che ero un asociale, avrei risposto con l’unica cosa che
sentivo di dire: che essendo in un posto così bello, non volevo perdermi per
nulla al mondo di vedere la luna così da vicino. Sdraiato su quella sdraio da
giardino, io e la luna eravamo in contemplazione, a guardarci l’uno con
l’altro. Era stupenda, in quella sua luce diafana.
Pensai e ripensai a
tante cose. Ai miei sogni
(allucinazioni)
che ogni tanto facevo
su Dandy ed i miei fumetti.
Ai ragazzi che avevo
incontrato fino a quel momento, ciascuno diverso dall’altro ma tutti
tristemente uniti nel non volermi frequentare… Pensai a Francesco, che solo nel
mio appartamento chissà cosa stava facendo e con chi era. Mi sarebbe piaciuto
chiamarlo e dirgli che stavo bene su quella terrazza a guardare la luna, che lo
pensavo e che gli volevo bene, ma in quel momento ero talmente egoista da non
voler dividere con nessuno il mio benessere, per cui rinunciai strenuamente a chiamare
il mio buon coinquilino Francesco, con la scusa che a quell’ora era sicuramente
in full-immersion con un altro ragazzo preso da una discoteca.
Per la prima volta
nella mia vita mi ritrovai non ad invidiare Francesco, ma a domandarmi come
facesse a gestire così tanti ragazzi e ad essere sempre così tranquillo. La
domanda era: come può un ragazzo che sicuramente ha avuto come amanti
praticamente tutta la popolazione gay bolognese dai vent’anni ai trenta, andare
in giro tranquillamente nei locali senza pericolo che qualcuno dei suoi amanti
attuasse delle rappresaglie contro di lui?
Domanda di difficile
risposta, se consideravo il fatto che Francesco non si era mai sbottonato più
di tanto con me, e che comunque era sempre così tranquillo e disinvolto che
sembrava non avere problemi. Optai per la risposta più semplice, ovvero che lui
ed i suoi amanti operavano in base ad un tacito accordo di “do ut des”, dare
per avere, in forza del quale ci si vedeva una sera e poi amici come prima,
senza alcun coinvolgimento sentimentale. Era un po’ la formula che vigeva in
quasi tutto il mondo gay, che io sapessi, e la trovavo abbastanza strana: come
si poteva andare a letto con qualcuno e poi non avere la sensibilità dopo di
passarci del tempo insieme? Non riuscivo proprio a spiegarmelo. Forse perché
per me le relazioni interpersonali erano qualcosa di più profondo, forse perché
io stesso ero troppo profondo…
Sì, un mare troppo
profondo dove chiunque non avesse saputo nuotare, sarebbe annegato. Ma era
forse un difetto essere così?
- Ciao! – mi salutò
una voce allegramente. Mi voltai sulla sedia a sdraio, e vidi l’immagine di
Simone illuminata dalla luna.
- Ciao – risposi,
tranquillamente, cercando di nascondere un po’ di emozione – Cosa ci fai qui? –
- Avevo bisogno di un
po’ d’aria. – rispose, sorridendo e sdraiandosi sulla sdraio accanto alla mia. La
sua visita fu una cosa parecchio inaspettata per me, ma cercai di mantenere la
calma. – Tu invece, cosa ci fai qui? – mi domandò.
- Volevo… volevo solo
vedere la luna. – risposi, senza pensarci due volte – Non è magnifica? –
- Sì, molto. –
rispose lui, tirando fuori un pacchetto di sigarette. Ne prese fuori una e se
l’accese, dando un tiro. – Lo sai, anche a me piace guardare la luna. –
- Davvero? –
- Sì. – disse lui, cacciando
fuori il fumo e sorridendomi.
- Beh… effettivamente
è bella, e poi da qui… si vede molto vicina. – risposi io lì per lì. Con le
dita stavo torturando la plastica della sdraio.
- Già. – fece lui,
continuando a fumare. – Toglimi una curiosità. Tu studi a Bologna, vero? –
- Sì. Come lo sai? –
- Me l’ha detto tuo
fratello. – rispose, con un altro sorriso. Simone sembrava un ragazzo sempre
allegro e solare, e la dimostrazione erano quei sorrisi che largiva forse a
chiunque gli rivolgesse la parola. Mi domandai se un ragazzo così fosse
fidanzato oppure no. – Dice che sai disegnare benissimo, che sei quasi un
artista. – continuò Simone – è vero? –
Io annuii. – Sì, è
vero. Disegno per passione. – dissi, con un po’ di autocompiacimento.
- Che forte. Mi
piacerebbe vedere qualcosa dei tuoi disegni, sai? – disse lui, certo di un
qualcosa che gli avrei sicuramente fatto vedere i miei disegni.
Per contro, io mi
trovai un po’ spiazzato. Non avevo portato nessuno strumento da disegno con me,
e chiedere carta ed una matita in una situazione come quella mi sembrava
piuttosto inopportuno.
- Beh… piacerebbe
anche a me, ma vedi… non ho portato nulla per disegnare qui. –
- Oh, per quello non
c’è problema! – esclamò lui – Seguimi. – mi impose, e quasi mi prese per mano
intimandomi di seguirlo.
In sottofondo, la
musica continuava.
Mi condusse nella
stanza che Flavio gli aveva assegnato. Lì c’era un letto matrimoniale (mi
domandai quanto erano ricchi i genitori di Flavio per permettersi così tante
camere da letto?!?), una scrivania ed una poltrona, dove c’erano tutti i
bagagli di Simone.
- Ti hanno assegnato
questa stanza, quindi. –
- Sì. – rispose lui –
Siamo quasi vicini, a quanto pare. Di fronte ho la stanza di tuo fratello e
Chiara. – disse. Io non sapevo nemmeno dov’ero stato piazzato io, ma sapevo
sicuramente che il mio borsone era lì tra i bagagli di Ermanno. Mancava solo la
stanza.
- Allora – disse,
prendendo uno zaino da cui tirò fuori alcuni testi universitari ed un quaderno
a spirale – Questo è il mio quaderno. – me lo porse, sorridendomi. Poi prese un
astuccio a forma di scarpa e mi porse anche quello. – E qui c’è il materiale
per disegnare. – concluse, con un sorriso a trentadue denti.
- Ah – mormorai io,
sorpreso. Nessun ragazzo prima d’ora si era interessato che io disegnassi o
meno. A qualcuno in chat avevo mostrato i miei disegni, e non avevo ottenuto
nulla di più che un “sei bravo” senza alcun sentimento, ma detto solo per farmi
piacere. – Cosa vorresti che ti disegnassi? – domandai.
Lui si allontanò un
po’, e poi allargò le braccia, mostrandomi il suo corpo magro ed il suo fisico
definito. I suoi capelli ricci si mossero.
- Sono un ragazzo
molto ambizioso, io. Vorrei che tu provassi a disegnare me. –
A quella richiesta,
sgranai gli occhi sorpreso. Non ero per niente abituato a fare ritratti alle
persone, anche perché il mio stile di disegno era più sul manga, quindi non ci
sarebbe stato alcun collegamento tra il ritratto canonico e la realtà. Al
massimo poteva sembrare una caricatura. Tuttavia, cercai di non perdermi
d’animo. Se Simone voleva essere ritratto da me per qualche motivo, decisi che
avrebbe avuto il suo autoritratto.
- D’accordo – dissi –
Ma devi promettermi di non metterti a ridere quando lo vedrai, okay? –
- Affare fatto,
Maestro. – Disse lui, e mi strizzò l’occhio. Voltandomi, quando non mi vide, io
arrossii.
Mi misi al lavoro,
mentre lui era seduto sul bordo del letto. Ogni tanto gli lanciavo delle
occhiate guardandolo nello specchio dell’armadio. Era veramente molto carino,
con quell’aspetto giovanile e quel corpo tonico e quel viso dai tratti efebici.
Accavallò le gambe, e notai che ai piedi portava un paio di scarpe colorate, ed
alla caviglia una specie di cavigliera arcobaleno. Ho capito tutto, pensai io. Anche
tu sei gay come me. Un mezzo sorriso si formò sulla mia faccia.
Lui se ne accorse. -
Perché ridi? – mi domandò, sorridendo.
- Niente. Una cosa
buffa che mi era successa… non molto importante. – tagliai corto, continuando a
disegnare. Stava venendo davvero molto bene, peccato che una volta finito il
disegno sarebbe diventato suo, ed io non potevo riprodurne un altro. Come primo
tentativo di ritrarre una persona, avrei potuto dire che me la stavo cavando davvero
niente male. Lui se ne stava lì tranquillo a guardare il soffitto, con quegli
occhi chiari e dolci, dondolando la gamba accavallata con fare annoiato.
- Ho quasi finito –
lo rassicurai. Lui sembrò aver capito perché avevo detto ciò e arrossì.
Dopo qualche minuto,
il lavoro era terminato. Glielo consegnai, con tutto il blocco a spirale.
Osservai attentamente
la sua espressione che osservava il disegno di sé stesso seduto su un letto
immaginario, con un sorriso dolce stampato in volto e un paio d’occhi in stile
manga. Forse i capelli non erano venuti molto bene, perché non ero abituato
alle acconciature ricce, ma a lui piacque lo stesso.
- E’… è….
Straordinario, Donatello. – disse lui, a bocca aperta. – Sei … sei veramente
bravissimo. –
Io feci una risatina
imbarazzata. – Grazie. Sono contento che ti piaccia. –
Ma che cos’era quella
cosa che sentivo dentro di me? Era come se il mio corpo si stesse alleggerendo
lentamente di tutti i chili di troppo che avevo acquistato durante la mia vita,
come se nuvoloni neri all’orizzonte stessero minacciando un misterioso
temporale mentre io mi trovavo assettato nel deserto, come una nave in
lontananza se io mi fossi trovato naufrago su un’isola deserta. Sollievo,
speranza.
Paura.
- D… devo andare,
ora. – dissi, allontanandomi verso la porta.
- Andare? E dove? –
domandò Simone, con ancora il suo quaderno in mano.
- Credo… credo di
aver bisogno di un po’ d’aria. Mi perdoni? –
- Oh. Certo. –
rispose lui, visibilmente deluso dalla mia decisione improvvisa.
- Grazie. Scu…
scusami. –
Un’oretta e mezza
dopo ero andato ad ubriacarmi al buffet che era stato imbastito. Bevvi qualcosa
come una ventina di bicchieri di Martini dry, avvertendo quel sapore acre prima
sulla lingua e poi che mi bruciava nello stomaco, minacciandomi di sfondarmi lo
stomaco se non fossi corso immediatamente a rigettare tutto quanto. La testa mi
girava, mi girava come una trottola impazzita. Barcollavo anch’io allo stesso
modo, per fortuna che metà degli invitati se n’era già andata, dandomi modo di
sgattaiolare in un posto al sicuro, lontano da sguardi indiscreti e soprattutto
da mio fratello.
Già poco prima mi
aveva beccato a bere un martini, e mi aveva guardato male, ma non aveva
aggiunto altro. Io mi ero girato per la vergogna, ma poi mi ero scolato più del
doppio di quel bicchiere.
Poco dopo ero in
bagno. La mia vista offuscata mi permise di vedere che il bagno era anch’esso
molto raffinato e grande, pulito fino alla perfezione. Guardai il casino che
avevo combinato rigettando, e mi accorsi che non c’erano poi più che tante
macchie. Ero a stomaco vuoto, per cui avevo rigettato soltanto alcool.
Mi sciacquai la
faccia più e più volte sotto il getto del rubinetto, cercando di farmi passare
quella sbornia che mi ero preso dopo essere scappato da Simone…
- Se io … fossi
veramente bello… non avrei bisogno di ubriacarmi… - dissi, guardando la mia
immagine riflessa nello specchio. C’era un bel ragazzo che mi guardava, dai
capelli scuri e gli occhi dello stesso colore. Visto da quella prospettiva non
sembrava nemmeno così grasso… Gli sorrisi.
Scossi la testa.
- Ma tanto, cosa
cambierebbe? – biascicai. – I belli non se la passano meglio. –
- Perché non sei
felice…? –
Una voce dietro di
me. Era Simone.
- Va’ via. – gli
ordinai – Non sono un bello spettacolo, in questo momento. –
- Per me invece lo
sei. – disse lui, per quel poco che riuscii a capire. Nella mia ubriachezza, mi
parve quasi di vivere in un sogno.
Mi sentii toccare le
spalle. Simone pose le sue mani sulle mie spalle, guardandomi dolcemente negli
occhi.
Io sbattei più volte
le palpebre, cercando di limitare quella visione distorta che l’alcool mi aveva
provocato, come una telecamera che non riesce ad inquadrare un punto fisso ma
si sposta impercettibilmente da una parte o dall’altra. La mia testa che girava
forte.
Lui con la sua mano
mi carezzò una guancia, e fu l’unica cosa che riuscii a percepire con i miei
sensi offuscati dall’ebbrezza. Fu talmente tanto forte che mi sentii mancare.
- No… - mormorò lui,
sorreggendomi. Una bella forza, per sorreggere un vitellone come me. Cercai di
mantenermi in piedi, finché lui disse – Vieni con me. Ti accompagno dove tu
possa sederti. –
Il tragitto fu breve,
o così mi sembrò. Doveva essere molto amico di Flavio se poteva girare
liberamente per la sua casa. Finito il tragitto, entrammo in una stanza.
- Ma… ma questa è
camera tua… - dissi, confusamente, mentre lui mi adagiava sul letto ed io
mollemente mi ci stendevo sopra. – Perché mi hai portato qui? –
- Niente – rispose
lui – Voglio solo vedere che effetto fa approfittare di un disegnatore. –
concluse, ridacchiando. Poi si chinò su di me ad osservarmi. Io mi misi a
ridere.
- Cosa c’è da ridere?
– disse lui con un sorriso.
- …è… è troppo buffo.
Sai che in questo preciso momento mi sembra di essere in uno dei miei fumetti?
Dove c’è uno bello ed uno brutto… ed il bello corteggia il brutto? – Risi di
nuovo, questa volta più compostamente.
- E chi ti dice che
io ti stia corteggiando? – domandò Simone, carezzandomi dolcemente i capelli. A
quella domanda, io mi sentii preso in contropiede e non risposi subito.
- I… io… non … non lo
so? Non… non si fa … così, di solito? – balbettai, sempre più confuso
dall’alcool.
Simone si avvicinò
con lo sguardo e socchiuse gli occhi. – Non lo so…. Perché non giudichi tu…? –
domandò sottovoce, poi sentii le sue labbra unirsi alle mie. Fu un bacio caldo,
bagnato, passionale. Simone continuò a baciarmi e mi montò sopra, con una
passione che mai avevo provato.
Restammo lì a
baciarci per un bel po’ di tempo, che a me parve quasi infinito… Ero sicuro che
accettando questo viaggio insieme a mio fratello mi sarei distratto, ma non
pensavo fino a questo punto.
- Tu stanotte dormi
con me. – disse Simone, in un momento di pausa in cui mi carezzò ancora una
volta i capelli. Adesso potevo sentire meglio il suo dolce profumo, un’essenza
maschile ma dolce al tempo stesso, che mi inebriò come una calda carezza. –
Questo è un ordine. – Concluse, strizzandomi l’occhio.
Cos’avrebbe potuto
fare un ubriacone come me a quel punto?
Accettai.
Tanto
domattina mi sveglierò e non sarà successo nulla,
mi dissi, prima di cadere in un sonno profondo tra le braccia di Simone.
Il mattino dopo fui
svegliato dal trambusto del viavai di persone che erano nella casa. Mi sentivo
la testa che ancora mi girava, ed un mal di testa martellante che, ne ero
sicuro, non sarebbe andato via tanto facilmente. Guardai a sinistra. Accanto a
me c’era ancora Simone, vestito solo degli slip, che mi circondava il grasso
ventre con il suo braccio magro. Gentilmente glielo scostai, e lo osservai
dormire. Con quei capelli ricci sembrava veramente un angioletto, un cherubino
venuto dal paradiso. Mi fece molta tenerezza. Ancora preso dai postumi della
sbronza, gli posai un bacio sulla tempia, e feci il più piano possibile per non
svegliarlo. Lentamente raccolsi i miei vestiti (non ricordavo di essermi
spogliato. Forse ci aveva pensato Simone) e li indossai, sbuffando ancora una
volta perché il bottone dei pantaloni sembrava non allacciarsi. Infine uscii
dalla stanza, ed uscii in corridoio senza sapere bene dov’ero diretto.
Non feci neanche tre
passi, che subito fui chiamato.
- Ah! Dov’eri finito,
Donatello? –
Era Chiara, che mi
aveva notato e mi correva incontro. Mi sorrise ed io feci altrettanto, cercando
di dissimulare il mio cerchio alla testa.
- Mi sono appena
svegliato – dichiarai – Dove sono tutti? –
Lei mi sorrise ancora
– Sono giù a fare colazione. Ermanno mi ha mandato a chiamarti, sa che sei un
dormiglione, ma devo dire che questa volta si è sbagliato. –concluse, avviandosi verso le scale.
- Grazie, Chiara. Oh…
Chiara…? – la chiamai.
Lei si voltò,
guardandomi preoccupata.
- Sì? –
- Non avresti per
caso una pastiglia per il mal di testa? Credo di aver bevuto un po’ troppo,
ieri sera… -
Lei ci pensò su, poi
annuì ed entrò nella stanza che divideva insieme ad Ermanno. Da lì ne uscii con
un blister di due pastiglie.
- Prendile entrambe
con un poco d’acqua. – e mi sorrise, prima di voltarsi ed avviarsi per le
scale.
- Grazie – mormorai
io, mettendomi in tasca i medicinali.
Per tutta la durata
della colazione, mio fratello mi squadrò severo. D’accordo, non ero stato molto
saggio a scolarmi tutti quei drink, ma avevo bisogno di scuotermi un po’.
Soltanto adesso mi rendevo conto che non era servito a nulla, che Simone era
comunque riuscito a venire a letto con me ed in più avevo mio fratello
incazzato nei miei riguardi. Perché faccio sempre le cose sbagliate?
Fu un pensiero a
risollevarmi, mentre ero in bagno a sciacquarmi le mani. Tutto quell’alcool mi
aveva tolto un bel po’ della mia sensibilità al piacere ed al sentimento, tanto
che pensavo che se Simone mi avrebbe girato al largo per i giorni a venire, non
me ne sarebbe importato niente. Mentre ridacchiavo e mi ficcavo in bocca le
pastiglie, progettai di ubriacarmi un po’ prima di un altro appuntamento
capestro, per il futuro. Risi ancora, mentre mandavo giù un bicchiere d’acqua.
Era troppo divertente il pensiero di andare agli appuntamenti in preda ai fumi
dell’alcool. Eppure, se ciò serviva per non soffrire…
Ehi, ma possibile che
ogni appuntamento dovesse essere come una pillola amara, per me? Andavo lì,
incontravo, succedeva qualcosa, non succedeva niente, e alla fine mi ritrovavo
sempre vuoto. Quindi, se i miei appuntamenti somigliavano più ad una sgradita
visita dal dentista, che cosa potevo fare? O non ci andavo, oppure… mi
anestetizzavo in qualche modo.
- Ehi, sembra che
questo sia il posto più indicato dove incontrarci! – mi voltai. Era Simone, che
era entrato in bagno. Era vestito con una maglietta a maniche corte verde, ed
un paio di jeans strappati. Ai piedi portava delle scarpe da trekking, che
stonavano con l’abbigliamento casual.
- Ehi. Che ci fai
qui? – domandai. Lui si avvicinò al lavabo e si sciacquò la faccia, frizionando
le mani sul viso leggermente, tanto che i suoi capelli ricci si mossero in una
nuvola chiara.
- Che domanda –
rispose lui – Mi preparo per andare alla passeggiata. Tu che fai, non vieni? –
- Certo che vengo. –
Lui sorrise. Sembrava
contento. – Bene. Allora facciamola insieme. – disse, e lentamente portò le sue
braccia sulle mie spalle, guardandomi negli occhi. Mi sorrise.
- Perché sorridi
sempre, quando mi guardi? – domandai io, facendo un mezzo sorriso a mia volta,
e incominciando a cingere i suoi fianchi con le mie braccia.
- Perché mi fai tanta
tenerezza. – rispose lui, e mi schioccò un bacio sulle labbra.
Io arrossii, ma mi
preparai a dargliene un altro, più passionale. Le sue dita mi bloccarono nel
mio intento.
- Hmm – mugugnai io,
visibilmente scocciato. – E va bene. – Lo sciolsi dall’abbraccio e lui fece
altrettanto, avviandosi verso la porta. Era rischioso scambiarsi effusioni
così, anche perché mio fratello non sapeva nulla di me. Chissà cos’avrebbe
detto se l’avesse scoperto.
Preferii non
pensarci, e godermi la camminata che mi aspettava.
A quell’altitudine,
l’aria era frizzante anche in quel mese. Flavio si era raccomandato con tutti
di portarsi un giubbotto leggero, perché poteva capitare che la temperatura
fosse più bassa rispetto alla media stagionale. Difatti, a causa
dell’ubriachezza non me n’ero accorto, ma avevo dormito sotto una trapunta di
quelle che si usano ad inizio autunno, senza soffrire il caldo. Pensai ancora
una volta a Francesco e mi feci una risata, immaginando come stesse
boccheggiando, preda del caldo torrido bolognese. Prevedevo che avrebbe passato
i pomeriggi in biblioteca a studiare, o in altri luoghi dove c’era l’aria
condizionata che io non avevo mai fatto installare in casa mia, un po’ perché
costava troppo e un po’ perché non volevo che i miei ospiti si affezionassero
troppo alla casa. Non dimentichiamoci che ero il padrone di casa, ed avere
inquilini per lunghissimo tempo non mi piaceva. Faceva eccezione Francesco, che
nonostante l’invidia che provavo per lui, si era dimostrato una persona dolce e
alla mano, qualità rare da trovare. Soltanto lui era riuscito a diventare mio
amico e a rimanere nel mio appartamento per più di un anno, nonostante non
fosse mai puntuale nel pagarmi le mensilità.
- Cosa ti è venuto in
mente di bere così tanto…? E davanti a tutti poi? Me lo spieghi? – sottovoce,
mio fratello Ermanno aveva iniziato il suo interrogatorio. Bloccata da un po’
di paura delle vipere, Chiara non era venuta con noi, preferendo restare in
casa con alcuni altri che si sarebbero poi messi a giocare a carte o a guardare
dei film.
- Così. Avevo bisogno
di rilassarmi. –
- Beh, non bere
troppo. Sai che fa male. – mi disse Ermanno, severo.
- Ok… - dissi io,
distrattamente. Stavo osservando Simone, che, più in là rispetto a me ed
Ermanno, si era unito ad un gruppetto di ragazze e camminava parlando con loro.
Era bellissimo, accidenti… E pensare che ci eravamo baciati ed avevamo passato
la notte insieme. Adesso invece faceva finta di niente, com’era naturale, ma io
sentivo che ogni tanto si voltava per guardarmi. Ad un certo punto, mio
fratello si allontanò, per raggiungere Flavio ed una ragazza, che erano alla
testa del corteo. Io raccolsi un bastone dal sentiero e lo usai come
scaccia-vipere, battendolo sul terreno più volte mentre mi muovevo.
Il gruppo era un po’
troppo chiacchierone, quindi mi tenni un po’ lontano per ascoltare i rumori
della natura. Quando mi fui allontanato abbastanza, potei sentire il canto
degli uccellini che cinguettavano allegramente, o qualche rara cicala che
friniva e poi smetteva. La cosa più dolce che vidi fu uno scoiattolo, che si
arrampicava su un albero e poi prendeva una ghianda per rosicchiarla. Sorrisi a
quella vista.
Poco più in là, ai
piedi di un albero, faceva capolino una bella famigliola di funghi. Erano dei
veri porcini, grassi e succulenti. Ebbi la voglia di raccoglierli, ma erano
così belli così com’erano, che mi accontentai di scattare loro una fotografia
col mio cellulare.
Ne trovai altri,
alcuni anche velenosi, stando alle mie poche nozioni di scienze naturali
imparate alle superiori: Erano quei funghi tipo le case dei puffi, ovvero rossi
e maculati di bianco. Ricordai il loro nome scientifico, amanita muscaria. Anche questi finirono nell’album di fotografie
del mio cellulare.
Com’era bella la
natura incontaminata. Per un momento dimenticai di essere solo, tutti i miei
problemi e desideri, per entrare in contatto con i profumi ed i suoni che
soltanto in un bosco si potevano trovare.
Da bambino ero solito
andare insieme a mio padre a raccogliere i funghi sui colli bolognesi. Mi
piaceva quella pace che regnava sovrana in quegli spazi verdi, capace di farti
dimenticare tutto… Allora ero solo un bambino che sapeva disegnare bene, pieno
di fantasia e gioia di vivere, e spesso i miei disegni vedevano quei boschi
popolati di creature incantate: fate, elfi, farfalle dai colori cangianti. Ora
che ero cresciuto ed avevo visto “Il signore degli Anelli” al cinema,
desideravo incontrare un elfo e toccargli le orecchie a punta.
Ma
quale elfo? Adesso concentrati su Simone, non stare sempre a pensare al mondo
dei sogni, stupido!
Mi rimproverai.
Ulteriore richiamo alla realtà, fu un rumore di passi molto lieve in
lontananza. Strizzai i miei occhi miopi (erano anni che dovevo mettere gli
occhiali, e ne avevo anche comprati un paio, che tuttavia usavo soltanto quando
frequentavo le lezioni all’università. In poche parole quasi mai) per vedere
chi si stesse avvicinando.
C’erano mio fratello
Ermanno ed una ragazza. Non parlavano, si guardavano intorno con circospezione,
quasi come due ladri in procinto di svaligiare una banca. Non avrei mai ringraziato
abbastanza il mio intuito in futuro, che mi fece nascondere dietro un albero
bello grosso, in modo da osservare indisturbato i loro movimenti.
- Siamo soli? –
domandò la ragazza di cui non conoscevo il nome.
- Sì – rispose mio
fratello, cominciando a toccarla. Lei si ritrasse un po’, spaventata.
- Cos’hai?
…Rilassati. Non ci vede nessuno. Il gruppo è andato avanti, fra poco li
raggiungeremo. –
- Non.. non sono
tranquilla. E se noteranno la nostra mancanza? – era una bella ragazza bionda,
di corporatura perfetta e proporzionata, che indossava una maglietta ed un paio
di jeans. Una ragazza davvero carina, del tipo che piacevano a mio fratello.
- Nessuno si
accorgerà che manchiamo. Flavio sarà troppo impegnato a passeggiare, e comunque
già alcuni del gruppo si sono dispersi. –
- Sì ma… -
Senza lasciarle
concludere la frase, mio fratello la prese e la baciò con passione, tanto che
lei si avvinghiò a lui allo stesso modo. In pochi secondi il bacio degenerò in
un bacio dato con foga, nella tipica concitazione che si ha quando si fa una
cosa non troppo legale.
Oh
mio dio, pensai, allora
Ermanno non ha perso il vizio… mi misi una mano nei capelli, continuando a
guardare la scena.
Loro continuarono a
baciarsi, ignorando che ci fossi io a guardarli, silenzioso testimone di un
tradimento…
- Abbiamo poco tempo,
Marika – mio fratello pronunciò il nome della sua amante. Marika. Lei annuì, e
baciandogli il collo scese lentamente fino al suo ventre, baciandoglielo allo
stesso modo. Con le mani armeggiò un po’ con la patta dei pantaloni di Ermanno,
per sentire se era pronto al “punto giusto”. Mio fratello si appoggiò ad un
albero lì vicino, e lasciò Marika fare tutto quanto. Da quel punto in poi, io
non ebbi più il coraggio di guardare, e mi acquattai silenziosamente, spingendo
forte la schiena su quel tronco, quasi desiderando di voler scomparire e non
aver mai voluto vedere ciò che avevo visto.
Mi salì un groppo in
gola, al pensiero che mio fratello tradisse sua moglie, ma dovetti trattenere
l’impulso di piangere. Vedere un familiare che tradisce una persona a cui
dovrebbe essere fedele, non è cosa che si veda tutti i giorni… Aspettai lì con
il cuore in gola che i due amanti avessero finito, quindi li sentii muoversi
con più calma finché quando buttai nuovamente uno sguardo erano scomparsi.
Decisi che me ne
sarei stato in disparte ancora per un po’, per assorbire i fotogrammi del
tradimento di mio fratello… La natura mi avrebbe aiutato, o almeno così
speravo.
Nei giorni a venire
cercai di dimenticare quanto avevo visto nel bosco, anche se con mio fratello
sempre lì intorno, era veramente arduo. Gli sfuggivo in tutte le maniere. A
pranzo cercavo di mettermi il più lontano possibile da lui (in questo fui
aiutato da Simone, con cui parlavo spesso e volentieri), nel pomeriggio andavo
a chiudermi in camera a disegnare un po’, e la sera andavo in giro qua e là
senza farmi vedere né da lui né da Chiara, che durante tutta la vacanza
sorrideva ed era felice, motivo in più per me per starmene alla larga. Non
volevo che mi vedesse in quello stato, ma soprattutto non volevo che sapesse
ciò che io sapevo.
Penso che Ermanno
sospettasse qualcosa, ma il più delle volte non lo vedevo; combinazione, anche
Marika spariva in alcuni momenti, ed io sospettavo ciò che non volevo dire
nemmeno sottovoce. Chiara, che soltanto alcuni anni prima era stata
lungimirante e severa, sembrava non sospettare nulla.
Prendere i giorni
come sarebbero venuti, era diventato il mio imperativo. Finché non sarebbe
venuto il momento di tornarsene a Bologna…
- Come mai mi lasci
sempre da solo? –
Simone mi aveva
beccato mentre me ne stavo tranquillo e beato a guardare il cielo, sulla solita
terrazza. Lo squadrai da capo a piedi, sembrava sinceramente triste. Non
sapendo cosa dire, mi guardai intorno più volte, come cercando la risposta
negli arredi da giardino che mi circondavano. Non trovandola, il mio sguardo si
posò nuovamente su di lui.
- Eh? – biascicai io,
sgranando gli occhi.
Senza che io l’avessi
invitato, lui si sedette accanto a me. Il suo profumo era inebriante, ma
l’espressione del suo viso non mi piaceva. Non mi piaceva vederlo triste, anche
se stavo facendo di tutto per tenermi lontano da lui… per non affezionarmi
troppo.
Lui mi avvolse con un
braccio, accoccolandosi a me. Io mi irrigidii, un brivido di freddo mi percorse
la schiena.
- Cos’hai? – sussurrò
lui, dolcemente.
- Non … non vorrei
che ci vedessero. – risposi io, mormorando. Lui fece una risatina, in risposta.
Sembrava sinceramente felice di quel poco di contatto, tanto che la sua
espressione non era più triste, ma era ritornata quella di sempre, un ritratto
di felicità e spensieratezza. Il pensiero che fossi stato io a fargli tornare
il sorriso, fu una carezza per il mio ego.
- Tranquillo. Sono tutti
di sotto, a giocare a carte, a guardare film… - rispose – e poi c’è una persona
qui che sa di me. – concluse lui, facendomi l’occhiolino.
- Ah – risposi io,
senza troppo interesse – E chi sarebbe questa persona? –
- Non la conosci, è
inutile che ti dica il suo nome. – disse lui.
- Ah no…? – la mia
mano si mosse a carezzargli le cosce toniche sotto gli shorts che portava.
Credevo che quel genere di abbigliamento fosse tipicamente femminile, ma dovevo
ammettere che Simone ci stava veramente bene. Lui fece le fusa come un gatto,
avvinghiandosi ancora di più a me. – Dimmi chi è … - mormorai, e tirando fuori
tutta l’anima da latin lover che c’era in me, gli baciai il collo. Profumava di
buono, ed era lì solo per me. Lui non rispose, godendosi quella tortura… gli
massaggiai ancora i glutei, mentre lui mi baciava sulla guancia. Ora le mie
mani erano prossime ad entrargli nei pantaloni. Sentivo con le dita l’elastico
degli slip, che sembrarono aprirsi al mio contatto…
- Me lo vuoi dire…? –
ripetei io. Lui scosse la testa, mugolando di piacere. Sentii i suoi talloni
premermi contro la schiena. Si stava aggrappando a me e con il suo sederino
stava strofinando contro la mia patta, dove il mio sesso già turgido, stretto
nei jeans, mi stava facendo male.
- No. – rispose lui,
secco. – Voglio che tu mi prenda, prima. – concluse, baciandomi le orecchie e
succhiandomi leggermente i lobi.
Improvvisamente,
aprii gli occhi.
- No. – dissi io –
Non possiamo farlo. Non qui. –
Simone sbuffò,
allentando leggermente la presa su di me e scendendo dal mio grembo. Proprio
come un gatto, che non avendo ottenuto ciò che voleva, se ne va sdegnoso.
- Cerca di capire –
lo esortai io – Qualcuno potrebbe vederci. –
- Sei solo un
codardo. Uno stupido codardo. Non voglio più vederti. – rispose, continuando a
darmi la schiena, quindi se ne andò prendendo la porta della veranda. Io cercai
di fermarlo, ma riuscii a pronunciare soltanto il suo nome.
- Simon… - e la porta
della veranda si chiuse con uno schiocco secco.
Mi portai la mano
destra dietro la nuca, e pensai Forse ho
fatto una cazzata. Se da una parte ero tranquillo perché avevo scongiurato
una possibile condanna per atti osceni in domicilio non di proprietà (come si
vedeva che frequentavo giurisprudenza), dall’altra ero un po’ triste che Simone
se ne fosse andato in quel modo, dandomi addirittura del codardo.
Mi risvegliai nella
mia stanza, nel mio appartamento a Bologna. Sentii Francesco che amoreggiava
con qualcuno, e poi che m’invitava ad entrare in camera sua. Lì c’erano lui ed
un altro ragazzo, che forse avevo già visto, ma di cui mi sfuggiva il nome.
Ce
lo facciamo, eh, Donatello? Lo so che ti piace, che vorresti essere al mio
posto… e allora dai, facciamocelo. Tira fuori il tuo mostriciattolo amico che
lui vuole assaggiartelo gli piaci tanto tanto da morire ah ah ah ah ah!
Controvoglia, mi unii
al terzetto, io e Francesco in ginocchio, di fronte al ragazzino che già stava
prendendo in mano i nostri falli. Io e Francesco che ci guardavamo negli occhi,
Francesco che mi faceva l’occhiolino e poi iniziava a godere…
Poi tutto spariva, ed
il ragazzo disteso diventava Simone che mi implorava di baciarlo e fare l’amore
con lui.
Mi
piaci così, rotondo e morbido come un bel cuscinone da abbracciare mi sento
tanto solo i ragazzi mi usano ma con te mi sento sicuro mi sento sicuro mi
sento amato mi sento desiderato.
Parole confuse, che
alle mie orecchie assunsero quel senso, ma che non riuscivo a comprendere fino
in fondo. Fammi l’amore, cazzo non riesci
a capire che ti amo brutto coglione testa di cazzo imbecille stupido deficiente
che cosa ne capisci tu dei ragazzi sei solo una palla di lardo schifosa …
Anche Simone se n’era
andato, ed io ero rimasto solo in balia di tanti esseri incappucciati che
parlavano all’unisono, dicendomi che ero brutto, grasso, ripugnante. Non potevo
continuare così, non potevo, desideravo soltanto morire.
- Aaah! – urlai nel
sonno, provocandomi un risveglio istantaneo.
Non ero a Bologna, in
camera mia, bensì a molti chilometri più a Nord. Ero ancora lì in Trentino,
nella casa di Flavio. Mi rigirai nel letto, ero madido di sudore e con il cuore
in preda ad una tachicardia spaventosa. Guardai il display del mio cellulare,
che segnava le tre e mezza del mattino e… che in alto a destra aveva una
bustina gialla. Un messaggio.
Simone.
<>
L’aveva mandato
proprio un minuto prima. Forse era stato quello a svegliarmi, in concomitanza
con la fine del mio incubo. Qualunque cosa avesse voluto Simone, avrei dovuto
ringraziarlo più e più volte per avermi svegliato.
- Scusami per essermi
comportato così, oggi pomeriggio… - mormorò Simone, seduto su una sponda del
letto. Io mi ero accomodato su una poltrona lì accanto, e lo osservavo allo
stesso modo in cui Fiorella osservava me durante le nostre sedute.
- Non fa niente –
risposi io, assumendo il tono più imparziale che potei – Cose che capitano. –
Non era per niente vero. Mai nessun ragazzo si era comportato così con me,
prima d’ora. In genere evitavano anche di toccarmi, e comunque i miei rapporti
erano sempre molto superficiali. Trattenni per me il fatto che provavo un po’
di piacere nel fatto che Simone si fosse stizzito nei miei confronti.
- Il fatto è che io…
quando provo qualcosa per qualcuno… divento così. – sorrise, timidamente. –
Scusami… scusami ancora. – mormorò, la voce rotta dall’emozione.
- Non riuscivo a
dormire. Avevo questo peso sulla coscienza, di averti trattato male. Ho anche
fatto un incubo. – dichiarò. Io annuii. Feci anche per aggiungere che avevo
avuto un incubo anch’io, ma mi trattenni, per lasciargli tutto lo spazio che
voleva per parlare.
- C’ero io … e c’eri
tu. Eravamo in una stazione ferroviaria, entrambi. Lontani l’uno dall’altro… -
incominciò. Io aguzzai l’udito per non perdermi nemmeno una parola di ciò che
stava dicendo.
- …Eravamo lontani.
Ed io ti cercavo. Eppure tu eri lì, non eri invisibile. Ti cercavo.. ti
cercavo… ma tu continuavi ad allontanarti. – Fece una pausa, sospirando - ..Ad
un certo punto, la stazione si riempiva di gente… tanta gente, un mare di
persone, una folla che sembrava quasi di essere in un concerto... E tu
scomparivi dalla mia vista. – I suoi occhi chiari guardavano un punto
indefinito nel vuoto. Io lo ascoltai, sempre più rapito dalla narrazione… E
sempre più preso da quel ragazzo incontrato per caso, durante quella gita
estemporanea con mio fratello.
- E quando tu sparivi
dalla mia vista, io mi accorgevo di essere sui binari. Ed il capotreno
fischiava la partenza di un altro convoglio. – A quel punto chiuse gli occhi.
Una lacrimuccia sgorgò fuori dall’angolo del suo occhio sinistro, che subito si
coprì con la mano, per non dare a vedere ciò che stava facendo.
- Simone – dissi io,
avvicinandomi – è stato solo un brutto sogno. Io sono qui, come vedi. –
- Paura di perderti. La
paura si manifesta in questi sogni, che sono un po’ inquietanti. – dichiarò,
accoccolandosi a me. Non feci resistenza, lo presi a me e lo cullai come se
fosse stato un bambino, benché sapevo che eravamo quasi coetanei, anzi forse
lui era più grande rispetto a me di qualche mese. Gli baciai la fronte, ed i
suoi riccioli dorati mi fecero il solletico sotto il naso.
Ma
perché mi sento così intenerito da questo ragazzo che nemmeno conosco? E cos’è
questa commistione di sentimenti, paura e amore insieme? Perché quando non lo
vedo non penso a lui con serenità, come farebbe un vero innamorato? Ho tanta
paura, ma faccio bene ad averne? In fondo che cosa voglio io…? Che cosa vuole
lui da me…? Pensieri mi si accavallarono nella
mente, in quel lunghissimo spazio di silenzio che si creò tra noi, mentre io lo
cullavo e lui docilmente rimetteva la sua testa sulla mia spalla, quasi in
procinto di addormentarsi nuovamente. Quanti ragazzi si erano comportati così
con me? Quanti mi avevano mostrato veramente il loro lato dolce, quello che
soltanto poche persone potevano vedere…? Ben pochi, anzi quasi nessuno. E
adesso che avevo un ragazzo così, mi permettevo ancora di avere dei dubbi.
Perché?
La
terra straniera. La convinzione che forse dopo questa vacanza non vi vedrete
più, o che comunque vi vedrete ma sporadicamente, mentre tu Donatello vuoi un
rapporto continuativo. Non asfissiante, ma continuativo. Simone ti piace?
Diglielo apertamente, e prendete una decisione. Non puoi mai sapere, magari lui
è più confuso di te in questo momento…
Ad interrompere la
mia catena di pensieri, fu Simone.
- Mi credono etero. –
mormorò lui ad un certo punto.
- Cosa? – domandai
io.
- Mi credono
eterosessuale – ripeté lui, un po’ più forte. Io continuai a stringerlo fra le
mie braccia, mentre lui teneva le mani in grembo, come un bimbo spaventato che
confessa qualcosa di brutto ad un genitore.
Non dissi nulla a
quella confessione. Nulla che potesse sembrare un giudizio, ma soltanto
un’esortazione a parlare.
- Vai avanti – lo
incitai.
- …All’università
vado sempre in giro con una ragazza. Una diversa ogni giorno. Ogni tanto ne
bacio qualcuna, ma … mi fa schifo. E poi non riesco mai ad andare oltre. Perché
io non sono così. Io sono gay, mi piacciono i ragazzi, non le ragazze… - Fu
l’inizio di un’esondazione.
- Mi piacciono i
ragazzi, ma non quelli carini. Quelli un po’ in carne, come te… - disse,
toccandomi il ventre generoso – sono molto … - si schiarì la voce, si morse le
labbra; forse per paura di dire quella parola che lo catalogava come un ragazzo
bisognoso di protezione -…passivo. Ma non nel senso strettamente sessuale del
termine. Sono un ragazzo che ha bisogno di coccole, che ha bisogno di… di essere
ascoltato… Di essere considerato una persona di cui un’altra non può fare a
meno. – mi strinse un po’ più forte, ed io non feci nulla per allentare la sua
presa. Lo coccolai dolcemente, provando un po’ di pena per lui. Chissà quanto
doveva faticare per fingere, per mantenere una facciata di rispettabilità di
fronte ai familiari, colleghi dell’università e simili… Io almeno non avevo di
questi problemi: passavo inosservato quanto bastava, e potevo discretamente
fare quello che volevo… nonostante anch’io mi nascondessi.
- Io sono qui – gli
sussurrai, accarezzandogli i capelli d’angelo – Quando vuoi, quando avrai
bisogno di parlare, quando vorrai un po’ di calore… -
- Ti prego – mormorò
lui – Non lasciarmi. Resta qui con me questa notte… - Con quella voce
implorante e dopo tutto quello che aveva detto, l’immagine che io avevo di lui
di ragazzo frizzante e spigliato cambiò.
Succede sempre così
con le persone, non è vero? Ne vediamo soltanto una parte, quella esterna… Se
poi ci accorgiamo che questa persona ci invita, ha fiducia in noi e vuole
aprirsi, ecco che vediamo ciò che si nasconde in lei, le sue ansie, paure, i
suoi dubbi… e generalmente, quando vediamo ciò che una persona tiene dentro,
abbiamo paura. Scappiamo, ci autoconvinciamo che non potremmo mai fare nulla
per cambiare una situazione, quando invece basterebbe un po’ di coraggio e di voglia
di mettersi in gioco. Che una persona si scoprisse dei suoi crucci di fronte a
me, poche volte mi era successo nella mia vita, e non ero stato per nulla
contento di sapere ciò che mi era stato rivelato. Ora, con Simone, l’interesse
era ricambiato, e toccava soltanto a me aprirmi a lui.
Ma sarebbe stato
abbastanza coraggioso da nuotare nel mare della mia vita?
Senza
fretta, Donatello… Senza fretta. Ricordati che le cose vanno fatte con calma. Ripetei
a me stesso delle parole usate da Fiorella durante uno dei nostri incontri.
- Rimani con me –
ripeté nuovamente Simone, distendendosi sul letto.
- Rimarrò con te,
Simone. –
- Chiamami… cucciolo.
– chiese lui – Cucciolo. Voglio essere il tuo cucciolo. –
- Va bene… Cucciolo.
– risposi io, coccolandolo dolcemente mentre mi stendevo insieme a lui.
Lui mi baciò le
labbra dolcemente, quindi disse un’ultima cosa.
- Chiunque
desidererebbe di stare con me, in un letto… Ma io voglio soltanto te, adesso…
Soltanto te… - mormorò, sulle mie labbra. Io sentii il profumo del suo alito.
Un sapore di menta piperita molto dolce.
- …E voglio farti
vedere la mia parte sensuale… sexy… - concluse. Tirò fuori la lingua e
leggermente leccò le mie labbra, per poi mordicchiarle provocatoriamente.
Per tutta risposta,
io lo baciai dolcemente, carezzandogli i capelli e le guance.
- Dormi ora. È tardi,
e fra poche ore abbiamo un’altra escursione. – gli strizzai l’occhio, e lui mi
sorrise.
- Buonanotte – disse
– padroncino. –
- Buonanotte
cucciolo… - conclusi io, chiudendo gli occhi. Morfeo mi riammise quasi subito
nel suo mondo, mentre sul mio cellulare il display segnava le cinque e un
quarto.
I giorni seguenti
allo sfogo di Simone di quella notte passarono relativamente bene. Passavamo
molto tempo insieme, in cui lui mi raccontava tante cose, con una verve
frizzante e simpatica che non gli avevo visto soltanto in una notte. Per gli
altri ospiti della casa eravamo abbastanza estranei, ma né Flavio né Ermanno se
ne facevano un problema… Soprattutto mio fratello, occupato com’era a mettere
le mani addosso a quella ragazza di nome Marika. Avrei voluto parlarne con
Simone, ma sentivo che era meglio di no.
- Ho in mente di
trasferirmi a Bologna, sai? –
In fondo al bosco
c’era anche un ruscello, dove scorreva dell’acqua limpida e fresca,
perfettamente potabile. Ci eravamo andati da soli, io e Simone, per godere un
po’ dell’intimità, circondati dalla natura.
- Eh? Cos’hai detto?
– domandai io, sorpreso. Mi era sembrato di sentire che Simone volesse
trasferirsi a Bologna.
- Hai capito bene.
Voglio trasferirmi a Bologna. – disse lui, senza la minima esitazione.
Siccome eravamo
seduti su due massi separati, io gli andai vicino e mi sedetti accanto a lui,
prendendolo sottobraccio.
- Ne sei proprio
sicuro? – mormorai. Lui annuì, e poi mi guardò con quegli espressivi occhi di
ghiaccio.
- Sicurissimo. Faccio
un cambio di università e vedo cosa mi valgono i crediti accumulati a Padova. –
- Ma… perché? –
domandai io, senza parole.
Lui sbuffò, e mi
respinse via – A volte non so se sei scemo oppure se lo fai apposta – il suo
sguardo si posò di nuovo su di me, e dopo un attimo di silenzio disse – Per
stare con te, Donatello. Solo per stare con te. – rispose, secco.
Non immaginerete mai
come mi sentii in quel momento. No, non ero felice. Ero molto sorpreso che un
ragazzo volesse addirittura cambiare università per stare con me, ma al tempo
stesso ero spaventato dalle conseguenze. Mille dubbi aleggiarono nella mia
testa come un vespaio impazzito, ma ad ogni modo trovai le parole giuste per
non ferirlo.
- Ma… ma è stupendo…
- mormorai, con un’espressione a metà tra lo stupito ed il frastornato.
- Potremmo fare tante
cose. Passare tanto tempo insieme. – Simone sorrise, e dimentico di avermi
respinto solo pochi secondi prima, mi abbracciò forte e mi baciò dietro
l’orecchio. – Ci pensi??? Sarà bellissimo! –
Mentre non mi vedeva,
perso nell’abbraccio, io abbozzai un sorriso. Un sorriso che si tramutò in un
sorrisone. Non fare finta di niente,
Mister Tamburino… lo so benissimo che tu ti sei preso una cotta per questo
ragazzino pazzerello, e non vedi l’ora di mostrarlo a Francesco e poi fartelo
per ogni notte. Allora avanti, non essere timido, e gioisci alla vita.
- Sì… sarà
bellissimo. Amore mio. –
Mi sembrò che Simone
si fosse irrigidito a sentire quelle ultime due parole, ma mi rallegrai che
fosse solo un’impressione sbagliata, perché mi sorrise e mi baciò
appassionatamente.
Restammo lì per tutto
il pomeriggio a baciarci, fino all’imbrunire.
Finalmente anch’io
avevo trovato un fidanzato. Potevo dire questo dopo la miriade di progetti che
Simone mi aveva esposto quel pomeriggio mentre eravamo al ruscello. Quello era
l’ultimo giorno che ci vedevamo, almeno per un po’. La nostra vacanza sarebbe
finita l’indomani.
Tutto sommato, ero
stato fortunato. Una settimana e mezza passata a pomiciare con un bel ragazzo
biondo e riccioluto non era cosa di tutti i giorni (almeno per me), in più
avevo respirato tanta aria buona e visto tanti bellissimi luoghi, che di sicuro
mi sarebbero stati d’ispirazione per i prossimi disegni. Ma soprattutto… ero
contento del fatto che ci fosse una persona, nella mia vita.
Tuttavia, la mattina
del nostro ultimo giorno di vacanze, accadde.
Simone entrò in
camera mia mentre stavo preparando il mio bagaglio. La sua faccia non era
radiosa come sempre, anzi appariva abbastanza tormentata. Sollevando un
sopracciglio perplesso, gli chiesi cosa ci fosse che non andava.
- Dody… Io e te…
dobbiamo parlare. –
Chiamatela
prevenzione, chiamatela sconsideratezza, chiamatela ansia anticipatoria, ma
quando un ragazzo mi diceva quelle due parole, io me la facevo addosso.
- Sì…? Di cosa
vogliamo parlare, Simo? –
Senza che io l’avessi
invitato, e come se le gambe non fossero più in grado di reggerlo, andò a
sedersi sul mio letto, ed incrociò le braccia sospirando. Subito, io andai
accanto a lui a consolarlo, passandogli un braccio attorno alla spalla.
- Amore… cos’hai? C’è
qualcosa che non va? – domandai.
Lui si morse le
labbra, guardando da più parti. – Non … non so davvero come dirtelo… è una cosa
troppo forte. – rispose lui.
- Che cosa? Coraggio,
non aver paura. –
Comprendendo che
l’epilogo sarebbe stato ad ogni modo ineluttabile, Simone aprì la bocca e
pronunciò la sua sentenza.
- Io… ho un ex
ragazzo – cominciò -… Ci siamo lasciati circa cinque settimane fa. L’ho
lasciato io. E lui ha sofferto tantissimo. Credevo di venire qui e
dimenticarlo, e invece… - non concluse la frase.
Io reagii con una
posa che a chiunque sarebbe apparsa fredda. Simone incominciò a piangere,
grossi lacrimoni sgorgarono dai suoi occhi. Dai miei, nulla.
Si aggrappò a me, ma
io ero diventato come una colonna di marmo bianco. Eppure tremavo, la mia
lingua si era come incollata al palato e sentivo un dolore lancinante salirmi
dal fondo della gola.
- S… Scusami… Io non
… -
Non dissi nulla, mi
limitai soltanto a guardare fuori dalla finestra, con occhio catatonico… Poi mi
alzai e mi diressi in quella direzione, lasciando Simone sul letto, che
frignava come un vitello. Cos’avrei potuto fare? Gettarmi ai suoi piedi e
implorarlo di non pensare al suo ex? Riempirlo di sberle fino a farlo rinsavire
e dirgli che ero io il ragazzo perfetto per lui? Cosa, in nome di Dio, cosa?
Niente.
- Parla, Dody. Dì
qualcosa. – mi incitò lui – Parla, ti prego… mi sento una merda in questo
momento… -
Non riuscii a
proferire parola. Ma non per cattiveria, solo perché la mia mente non era
abbastanza lucida da riuscire ad articolare qualcosa.
Non dissi nulla. Non
ce la facevo. Per tutta risposta, ammucchiai i miei bagagli e chiusi la valigia
come se Simone non ci fosse stato, come se non mi avesse mai detto nulla, come
se non avesse mai attraversato quello schifo che era la mia vita.
- Parla Dody, non
farmi incazzare! – Proruppe lui ad un certo punto, alzandosi in piedi. Io
restai fermo accanto al letto, guardandolo fisso negli occhi come un cagnolino
che guarda impaurito il suo padrone perché vuole picchiarlo. Piangeva. Piangeva
come una fontana, eppure sentivo che da me cercava soltanto rassegnazione, o
approvazione. Quello che tutti loro si aspettano quando aprono i rubinetti.
Vogliono che tu dica loro Ma no, ma cosa
vuoi che sia? Nulla… In fondo non sei il primo e non sarai l’ultimo che mi
manda a fare in culo dopo aver fatto tanti progetti e poi averli mandati
bellamente all’aria, per colpa di un ex o perché non sono abbastanza bello…
Il mio coraggio, insieme alla mia dignità, mi imposero il silenzio.
La tristezza di
Simone si tramutò in rabbia, tanto che continuò a piangere, ma uscì dalla stanza
sbattendo la porta. Io restai lì, a guardare un punto indefinito della stanza.
Lo stesso punto
indefinito fissai durante il viaggio di ritorno a Milano, con la differenza che
i miei occhi erano chiusi per via del sonno. Dormii quasi ininterrottamente per
tutto il tempo, mentre mio fratello Ermanno guidava e Chiara accanto a lui gli
parlava di tante cose. Parlava a bassa voce, e la sentii dire che sembravo
veramente un bimbo, mentre dormivo, e che presto o tardi avrebbe desiderato
anche lei cullare tra le braccia un cucciolo d’uomo. Nel dormiveglia, sentii
mio fratello mormorare che sì, avrebbero avuto anche loro un figlio, ma
avrebbero prima dovuto sistemarsi per bene, in quanto il suo stipendio di
impiegato tecnico alla società di informatica non sarebbe stato abbastanza
congruo per coprire tutte le spese che sarebbero sopravvenute.
Messi da parte per un
attimo i miei crucci riguardanti la dichiarazione espressa di Simone, pensai
“che figlio di…” in riferimento a mio fratello, che avevo visto benissimo
infrattarsi con quella bella ragazza bionda. Successivamente, durante una
fermata in una stazione di servizio, mentre Chiara era in bagno, l’avevo
chiaramente visto al telefono, tutto ingobbito che guardava per terra, come
facevo io quando ero ancora a casa e chiamavo dei ragazzi… Patetico. Mi venne
voglia di vomitare, ma dovetti resistere e continuare a recitare. Non potevo
dire nulla a mio fratello, ma il colpo che avevo ricevuto faceva abbastanza
male.
Cercai di pensare a
Francesco, che ero sicuro, quando sarei tornato mi avrebbe accolto a braccia
aperte e mi avrebbe raccontato di quanti bei ragazzi si era fatto durante la
mia assenza, posto che non fosse in uno dei suoi periodi di stallo in cui si
chiudeva in camera e chattava solamente… Il pensiero non mi rallegrò, ma fu
comunque una distrazione.
A distrarmi
ulteriormente, ci pensò il mio corpo. La mia vescica stava letteralmente
esplodendo, essendo io stato per troppo tempo in stato catatonico da non
riuscire a liberarmene…
Sostammo in un’area
di servizio poco lontana da Bergamo, dove io scesi dall’auto e corsi in bagno.
Mi rinchiusi in un gabinetto, mi slacciai la patta e tirai fuori il mio pene
eretto non dall’eccitazione, bensì dal troppo trattenere l’urina. Strizzai gli
occhi sforzandomi di espellere l’urina, che sprizzò fuori senza problemi dopo
pochi secondi. Mi sentii molto sollevato.
Uscito, trovai di
fronte a me la persona che meno mi aspettavo di trovare.
- Simone?!? –
esclamai.
- Ciao – disse lui,
neutro. – Come stai? –
Senza degnarlo di una
risposta, lo scavalcai e andai al lavandino a sensori per lavarmi le mani. Misi
le mani sotto il getto e le insaponai, mentre Simone mi guardava dallo
specchio.
- Scusami. Non volevo
dire quelle parole. Sono pentito. –
Io ancora non
risposi, continuando a lavarmi le mani e ad infischiarmene delle sue parole.
Ad un tratto, lui
scattò accanto a me e mi prese per il braccio, tirandomi via dalla mia pratica
igienica.
-Ah! Simone cosa
stai… - accennai, ma lui non mi lasciò il tempo di finire.
Mi trascinò di forza
in un gabinetto, quindi mi sbatté sul muro e si avventò su di me, baciandomi le
labbra con foga, come se l’indomani il mondo sarebbe dovuto finire.
- Mmmf! – mugugnai
io, impossibilitato a proferire parola. Non sapevo se gioire o meno, ma lui mi
zittì prontamente, sostituendo la sua bocca alla sua mano, che mi tappò le
labbra.
- Shh. – sibilò lui -
… Voglio chiederti scusa per essermi comportato da idiota. Voglio venire con
te, il mio ex non conta più nulla, voglio venire con te a Bologna e restarci
per sempre. Per sempre. Per sempre. –
Zittito com’ero dalla
sua bocca, l’unico mezzo per comunicare con lui erano i miei occhi. Erano
sgranati di sorpresa, come una vittima che ha paura del suo carnefice, ed erano
gonfi di lacrime. Paura o felicità? Era forse l’ultimo sentimento quello
preponderante.
- Lascia che io
ripari al mio errore – disse poi Simone toccandomi la patta, dove il mio pene
appena svuotato dall’urina era ancora un po’ inturgidito.
Sempre impedendomi di
parlare, ma questa volta tornando a baciarmi, iniziò ad armeggiare con la zip
dei miei pantaloni, fino a che non l’abbassò completamente e tirò fuori il mio
membro ormai definitivamente turgido. Guardandomi poi negli occhi, si abbassò
lentamente, e lo prese in bocca. Mi guardò ancora una volta, quindi si
concentrò su quello che stava facendo.
Io chiusi gli occhi,
e finalmente…
- Donatello? – una
voce mi chiamò. Era una voce femminile. Socchiusi gli occhi. Nella penombra,
riuscii a distinguere il visino dolce di mia cognata.
- Chiara…? Hmmm… Che
… Che ore sono? – domandai, stiracchiandomi. Ero letteralmente anchilosato.
Nonostante l’auto di mio fratello fosse una familiare molto comoda, dormire per
così tanto tempo in una posizione innaturale, mi aveva causato un po’ di
intorpidimento.
- E’ mezzanotte meno
un quarto. Siamo arrivati in anticipo di un’oretta buona. – rispose lei
sorridendo.
Io le sorrisi di
rimando, ma fu un sorriso artato, in quanto ero consapevole di aver fatto un
sogno. Un sogno molto realistico, ma pur sempre un sogno. Mio fratello era
dietro l’auto, a scaricare i bagagli.
- Oh, si è svegliato
il principino – esordì, scherzosamente. Io lo salutai con la mano, abbozzando
un sorriso.
- Ciao bello – lo
salutai – scusate se non vi ho tenuto compagnia durante il viaggio. –
- Figurati. Anche
Chiara ti ha dato man forte, comunque… ha dormito come una marmotta in letargo
anche lei! – rispose mio fratello ridacchiando, mentre Chiara gli mollava un
buffetto sul braccio.
Io ridacchiai,
dirigendomi verso il bagagliaio per prendere le mie cose. Mentre Ermanno si
allontanava con la loro parte di bagagli, io mi toccai la patta. Mi accorsi che
ero letteralmente bagnato. Il sogno che avevo fatto era stato molto più
realistico di quanto avevo pensato, infatti il rapporto orale onirico che
Simone mi aveva generosamente largito era bastato per farmi venire nelle
mutande.
Arrossii, quindi
presi di fretta le mie cose e chiusi il portellone della Laguna di mio
fratello, che lampeggiò due volte e si chiuse ermeticamente. Raggiunsi Ermanno
e Chiara che stavano già salendo al loro appartamento.
Quella notte non
dormii, frastornato com’ero. Soltanto poche ore prima avevo ricevuto l’ennesimo
calcio nei denti della mia vita, e ancora non riuscivo a capacitarmene. In più,
Fiorella era in ferie, ed avrei dovuto aspettare fino a Settembre per poter
parlare con lei. Settembre, di nuovo lui.
Quand’ero piccolo
Settembre significava per me scuola, quindi dolore, compagni idioti e
cattiveria assortita. Ora che ero adulto, sembrava che i ruoli del tempo si
fossero invertiti: mai come ora bramavo l’arrivo di Settembre, che avrebbe
fatto tornare Fiorella e che mi avrebbe detto come sarebbe andato il colloquio
con quella Fondazione Rambaldi che mi aveva inviato l’invito a comparire per un
colloquio. Un lavoro. Altra fonte di gioia… e di dubbi. Sarei mai stato un bravo
insegnante? Oppure avrei fatto schifo come facevo schifo a tutti i ragazzi che
incontravo? Decisi di non pensarci, e di pensare che in fondo Settembre non era
poi così lontano. Restavano soltanto Luglio e Agosto da passare, ma per me che
ero un ragazzo in gamba, sarebbero passati in fretta.
E come fare per far
passare questi mesi?
Un obiettivo. Dovevo
avere un obiettivo, qualcosa da fare che mi tenesse occupato per almeno due
mesi. Dunque, cosa potevo fare…?
Ma era così ovvio,
no? A Settembre avrei avuto quel colloquio, giusto? Giusto. E lì come minimo mi
avrebbero richiesto di presentare qualcosa di mio, giusto? Giusto. Bene! Allora
perché dannarsi tanto a cercare una soluzione?
Seguendo questo
ragionamento avevo previsto che una volta tornato a Bologna avrei subito
ricominciato a lavorare sui miei disegni, per presentare dei disegni di tal
nome al colloquio. Sarebbe stata dura, ma in due mesi potevo farcela, se
contavo sul mio impegno commisto alla mia bravura di disegnatore.
Sì. Li avrei stupiti.
Ne ero sicuro.
Il progetto mi
stuzzicò abbastanza, ma non abbastanza da farmi dimenticare Simone. Infatti,
passai la notte insonne a ricordare tutti i bei momenti passati con lui.
Momenti nei quali io ero stato, anche se per poco, il fidanzato di qualcuno.
La mattina, il sole
mi svegliò dolcemente, con la sua luce diafana filtrata dallo smog di Milano. Poi
arrivò Ermanno. Era un po’ scuro in volto, come mai l’avevo visto. Io lo
guardai sollevando un sopracciglio perplesso, ma lui si era già allontanato. Un
po’ titubante, scesi dal letto e mi vestii, pronto a raggiungerlo.
- Ti sei divertito,
allora? – mi domandò Ermanno. Stava spalmando del burro su una fetta
biscottata.
Io posai la tazza di
caffellatte che mi ero preparato e annuii, sorridendogli. Tuttavia il mio
sorriso si spense subito dopo quando ripensai a Simone.
- Sai, ho notato che
sei stato molto vicino a quel ragazzo… com’è che si chiama…? Ah sì. Simone… -
in quel momento, le parole di mio fratello mi colpirono come una fucilata.
Annuii, non sapendo bene cosa dire.
- Qualcuno dice che
sia gay. – disse mio fratello, masticando la sua fetta biscottata imburrata e
condita con marmellata di ciliegie.
Non sapendo cosa
rispondere, io feci spallucce. Non era il tono di voce di mio fratello,
prettamente indagatorio, a farmi impressione, quanto il pensiero di Simone, che
mi aveva fatto così male.
Ermanno mi guardò
attentamente, mentre con la mano destra prendeva un’altra fetta da imburrare e
spalmare di marmellata – Dì la verità, ti sei divertito…? – mi chiese, con un
tono abbastanza secco. Notai che aveva alzato un sopracciglio.
Per la prima volta in
tanti anni che parlavo con mio fratello, mi sentii male. Sentivo il suo sguardo
sopra di me, così carico di un sentimento che io non capivo… O forse la mia era
solo paura, paura di ciò che avrebbe potuto dirmi se avesse saputo che…
- S… sì… - balbettai.
Le mani mi tremavano, tanto che bevvi un ultimo sorso di caffellatte e allungai
la mano verso il sacchetto dei biscotti. Ne presi uno, e me lo portai alla
bocca, guardando verso la finestra. – E’… è veramente bello, quassù… si riesce
a vedere tutto… proprio come… -
- Donatello. Non
cambiare discorso. Ti sei divertito, oppure no? – disse Ermanno.
E fu in quel momento
che il mondo mi crollò addosso. Non ce la feci più, ingollai il biscotto e mi
alzai dalla tavola, andando verso la veranda. Lì mi portai le mani al viso ed
incominciai a singhiozzare.
Immediatamente,
Ermanno si alzò, venendomi vicino. Anziché consolarmi, mi prese per il braccio,
e mi guardò intensamente negli occhi. Io faticai a sopportare il suo sguardo,
le labbra mi tremavano, e così anche le ginocchia. Temevo che da un momento
all’altro sarei potuto crollare.
- Devi dirmi
qualcosa, Donatello?!? – disse lui alzando la voce.
- Io.. io sto.. sto
male, Ermanno. Sto male. Sto molto male! –
- E non piangere come
una femminuccia! L’ho capito che cosa hai combinato lassù con quel frocio, sai?
– mi urlò in faccia. Io scoppiai a piangere, e lui per tutta risposta mi
scacciò via.
Non capendo, io ebbi
soltanto la forza di domandare – C… cosa…? Che vuoi … che vuoi dire? –
- Mi hanno
telefonato. Una persona che conosce Simone, mi ha detto tutto. Ed io sono molto
incazzato con te, Donatello. Parecchio. –
Sentire che una
persona era incazzata con me, mi faceva male. Deglutii, ma la gola mi faceva
male. Tutto mi faceva male, tutto il mio corpo. Ermanno si appoggiò al marmo
della cucina, dandomi le spalle.
- Non puoi essere tu,
mio fratello – disse, sibilando – non esiste che tu mi abbia fatto certe cose
con… con un ragazzo! – Si portò una mano alla fronte, disperato.
A quel punto, io
sbottai.
- Q… qual è il tuo
problema? C… Che a me piaccia f…farmi i - i.. i.. ragazzi anziché le ragazze???
– balbettavo per il dolore e la tristezza. Ermanno non rispose, ma si limitò a
voltarsi di scatto, come un cane rabbioso, e a venire verso di me, per
prendermi per il colletto della camicia.
- Allora lo ammetti
pure, eh? – mi sibilò contro il naso. Il suo alito sapeva di marmellata – Mi
fai schifo. Mi fai solo schifo. – mi mollò di nuovo con veemenza, e lì io
raccolsi i pezzi di me stesso e singhiozzando mi diressi verso la mia camera.
Chiusi la porta e raccolsi le mie cose, piangendo e singhiozzando.
Giù nel cortile,
buttai tutte le mie cose nella mia Audi che era rimasta lì ad aspettarmi per
tutto quel tempo. Mi misi al posto di guida e girai la chiave nel quadro. Nella
fretta, non mi accorsi che la marcia era inserita, quindi l’auto fece un balzo
in avanti. Imprecai ad altissimo volume, e i condomini che mi videro si
girarono stupefatti.
Mi diressi verso
l’uscita, che era chiusa dal cancello. Imprecai nuovamente, presi il cellulare
e composi il numero di mio fratello.
Uno squillo.
Due squilli.
Tre.
Quattro.
Cinque.
Alla fine chiusi la
comunicazione, e, furente ed amareggiato, mi attaccai al clacson.
Peeeee!
Peeeeeeeeeeeeeeeeeeee! Squillò la mia auto. Anche se al
settimo piano, Ermanno avrebbe dovuto sentire ed aprirmi il cancello. Aspettai
cinque secondi, poi altri cinque, poi riprovai.
Peeeeeeeeeeeeeeeeeee!
Peeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee! Suonai nuovamente, e
questa volta si affacciarono un bel po’ di condomini.
- La vuoi finire di
scassare il cazzo??? Sono le otto del mattino, porca puttana! – mi apostrofò
una donna sulla quarantina.
- Basta!!! Se non la
piantate, chiamo i carabinieri!!! – disse un uomo da un balcone.
- E allora apritemi
questo cazzo di cancello!!! – sbraitai io, e come per magia, il cancello si
aprì. Guardai verso l’appartamento di mio fratello, e lui era lì, alla
finestra, a guardare con occhio vitreo ciò che stava succedendo. Il suo sguardo
era truce.
Io gli restituii lo
stesso sguardo, finché lui non si voltò e non scomparve dietro la finestra che
dava sulla veranda.
- Fanculo! –
esclamai, sbattendo una mano sul volante e provocando un altro squillo di
clacson.
Una volta che il
cancello fu aperto del tutto, io schiacciai l’acceleratore e mollai la frizione
tanto repentinamente che l’auto partii in sgommata. Tornavo a casa, ma ci
tornavo più ferito di quanto già non fossi.
Se esisteva un dio,
ero sicuro che mi avrebbe mandato all’inferno senza appello, dopo tutte le
bestemmie che avevo tirato giù nel cercare l’accesso dell’autostrada in
quell’intrico di strade che era la periferia ovest di Milano. Per un colpo di
fortuna, trovai un cartello verde che indicava la direzione da seguire, e per
fortuna dopo molte peripezie riuscii a varcare la barriera e ad immettermi
nello stradone a quattro corsie. Destinazione: Bologna.
Ero frustrato,
incazzato, ma soprattutto… triste. Con le mani strette sul volante, piangevo a
dirotto, urlando e disperandomi. Andare fino lì non era stata una buona idea,
per non dire che era stata un’idea di merda, dal momento che ero stato deluso
un’altra volta e mio fratello aveva scoperto che ero gay. Ma come aveva fatto a
scoprirlo…?
Feci due più due, e
ricostruii le possibili ipotesi.
Illuminazione divina?
Spiata?
Ecco, sì. Forse
quest’ultima era la più probabile.
Per come la vedevo
io, Simone doveva aver spifferato tutto alla sua amica del cuore che era lì con
noi nella tenuta di Flavio… Siccome non aveva voluto dirmi chi era questa
fantomatica amica, avevo dovuto arrivarci da solo, giungendo alla conclusione
che la sua amica era Marika, la stessa che aveva intortato mio fratello quel
giorno nel bosco e chissà quante altre volte alle quali io non ero stato
testimone.
Ehi, ma perché stavo
piangendo? Io avevo in mano una bomba che poteva esplodere, tra le mani.
Sarebbe bastato fare una telefonata a Chiara, raccontarle tutto, esortarla a
fare qualche controllo accurato sul cellulare di mio fratello, e tac! Avrei avuto la mia vendetta.
Ma no, non avrebbe
potuto funzionare. Prima di tutto perché se io spifferavo tutto quanto a
Chiara, mio fratello come minimo sarebbe venuto a cercarmi per strangolarmi;
poi perché sicuramente sarebbe corso dai miei a raccontare tutto ciò che io
avevo fatto con Simone e, poco ma sicuro, mi avrebbero tolto l’appartamento e
quindi anche Francesco, l’unica mia fonte di sostentamento dato che non avevo
un lavoro.
Mi toccava soltanto
sperare che una volta tornato, non fossero già lì, allertati da Ermanno.
- Cazzo, cazzo …
cazzo. – sibilai tra i denti, in preda ad un forte senso di smarrimento. Misi
la freccia e mi fermai su una piazzola di sosta, accendendo i lampeggianti.
L’atmosfera era calma, anche se le auto che sfrecciavano mi impedivano una
concentrazione ottimale. Chiusi gli occhi, e cercai di rilassare braccia e
mani… Rispondi, Dandy… lo so che ci sei.
Rispondi, vieni da me, vieni a consolarmi… Ti prego… ti prego. Invocai mentalmente
questa preghiera, ma ovviamente Dandy non apparve. Ci provai e riprovai per un
bel po’ di minuti, ma non accadde nulla. Sconfitto, scossi la testa e sospirai.
Rimisi in moto la mia auto e ripartii, ancor più disperato di prima.
Un rombo di tuono.
Guardai fuori dal finestrino, e vidi che il tempo si era oscurato parecchio.
Grossi nuvoloni neri nel cielo sopra l’autostrada minacciavano di scaricare
tanta acqua.
Pigiai più forte
sull’acceleratore, e vidi il tachimetro spostarsi dalla tacca dei 130, poi quella dei 140, e infine 160. Non mi importava se mi avrebbero mandato una
multa a casa, non mi importava se questa mia bravata fosse finita in tragedia.
O arrivavo a casa mia, o sarei morto nel tentativo.
Il motore diesel
della mia bellissima Audi ronzava potente, a quella velocità che non aveva
forse mai toccato, nemmeno quando era stata di mio padre, accusato da mia madre
di correre troppo quando era in autostrada. Ecco, forse avrebbero potuto
togliermi la casa, forse mio fratello avrebbe potuto smettere di parlarmi… ma
se mi avessero tolto la mia bella macchinina, mi sarebbe veramente dispiaciuto.
- Vai bella, vai…
portami a Bologna. Portami a casa. A casa mia. –
Quel giorno
sull’autostrada c’erano parecchi camion. Da quando avevo lasciato Milano avevo
incontrato si e no due auto, un’utilitaria ed un SUV. Per il resto del
tragitto, soltanto autotreni e autoarticolati. La cosa mi inquietò un po’, ma
cercai di non darci peso più di tanto.
Un cartello mi indicò
che l’uscita di Lodi era vicina, e che le vicine Pavia e Piacenza erano
prossime. Bene, significava che ero quasi arrivato al confine tra Lombardia ed
Emilia Romagna.
Nel frattempo, aveva
incominciato a piovere.
- Bene, benissimo.
Adesso appena torno a casa, una bella doccia… un bel libro… e poi dormo fino a
domani. E affanculo questa vacanza di merda. Poi deciderò sul da farsi. –
Mi avevano rotto i
coglioni, tutti. Ero parecchio frustrato, e questa volta non me la sarei cavata
tanto facilmente. Una volta tornata, Fiorella avrebbe dovuto sorbirsi un sacco
di lamentele da parte mia, per come questa vacanza era andata, per come mi ero
stufato di questa vita, per come …
…Perso nelle mie
elucubrazioni mentali, non mi accorsi che ero in corsia centrale. Ai miei lati,
un TIR ed un autotreno, che viaggiavano quasi alla mia stessa velocità. Era
ovviamente impossibile, a meno che io non avessi rallentato involontariamente.
Ed era effettivamente così. Pigiai di nuovo più forte, per togliermi dalle
scatole, quando all’improvviso…
L’autotreno alla mia
destra fece una manovra repentina e saltò in corsia centrale mentre io ero lì. Aprii
la bocca dal terrore, mollai immediatamente l’acceleratore ed il mio piede
schiacciò potentemente il freno, provocando uno stridore di pneumatici sull’asfalto.
Il TIR alla mia sinistra suonò il suo clacson potentemente, mentre la mia auto
slittava sull’asfalto bagnato.
- Ahhhh!! – urlai,
pazzo di terrore di schiantarmi contro le barriere. Se era vero che tempo fa
avevo desiderato la morte, ora che avevo rischiato veramente di morire, ero più
terrorizzato che mai.
La mia auto fece
testacoda, e alla fine si posizionò di traverso tra le corsie. Con le mani
ancora sul volante, che tremavano dalla paura, gli occhi spalancati che
guardarono prima a destra e poi a sinistra, lentamente rimisi la marcia e mi
riposizionai su una corsia, riprendendo la marcia.
- Mamma mia… che
spavento. – mormorai. Il mio respiro era affannoso ed il mio battito cardiaco
accelerato.
- Sono quattro euro e
cinquanta. – mi disse la cassiera dell’autogrill dove mi ero fermato. Avevo
preso un cappuccino e due brioches, bisognoso come non mai di darmi una calmata
dopo quanto mi era accaduto. Ero sopravvissuto ad un incidente che mi avrebbe
seccato sul colpo, non so se mi spiego. Pagai e mi diressi frettolosamente ad
un tavolo, con il vassoietto in mano che minacciava di cadere, da quanto stavo
ancora tremando.
Una signora lì vicino
vide che avevo qualcosa di strano. Mi guardò per un po’ di secondi, fino a che
io non incrociai il suo sguardo e lei lo distolse, per discrezione. Sospirai,
ed iniziai a sorseggiare il mio cappuccino. Addentai anche una brioche, ma mi
resi subito conto di aver buttato via tre euro e mezzo. Non avevo fame, mi
sentivo lo stomaco totalmente chiuso. Posai la brioche e tornai a bere il
cappuccino. Se non altro, mi stava calmando un po’.
Mentre ero lì che
sorseggiavo il liquido caldo, una mano mi si posò sulla spalla. Io mi voltai,
ma quando vidi di chi era, rimasi stupefatto.
- Beh? Non mi saluti?
– disse Dandy, con quell’aria sbarazzina che riconoscevo.
Completamente
rincoglionito da tale visione, non tanto per la bellezza quanto per la sorpresa
di trovarmi davanti un personaggio creato da me in carne ed ossa, aprii la
bocca, ma non ne uscì alcun suono.
- E… e… -
- Oh, uffa, come sei
rompipalle. Un po’ di allegria, su! – rispose lui, sorridendomi a trentadue
denti. I suoi occhi azzurri mi guardavano, ed i suoi capelli biondi
scintillavano nonostante la luce povera del locale. La signora di poco prima
sembrava non accorgersi di nulla, così come tutti i pochi viaggiatori presenti.
- Che cos’è, uno
scherzo? Guarda che io… -
- Nessuno scherzo –
rispose Dandy, serio. – Mi hai chiamato, ed eccomi qui. Ci sono altre domande?
–
- Ma … ma tu sei un …
- come intuendo ciò che stavo per dire, Dandy mi si avvicinò e mi posò tre dita
sulle labbra.
- Shhh. – disse lui,
facendomi l’occhiolino. – Usciamo di qui, prima, va bene? -
Non chiedetemi cosa
mi convinse a portare Dandy (o quel ragazzo che somigliava così tanto a Dandy)
in macchina con me. Mentirei se vi dicessi che lo conoscevo meglio di chiunque
altro in quanto mio personaggio. La verità era che non lo conoscevo per niente,
se si escludevano tutte le avventure che aveva avuto e che io avevo disegnato…
ma soprattutto… lui era un personaggio
dei miei fumetti! Quindi praticamente inesistente nella realtà!
- A cosa pensi? – mi
chiese, con un sorriso a trentadue denti.
Io lo guardai con la
coda dell’occhio, per non distrarmi alla guida – Penso… penso che … che sia
impossibile che tu sia qui. Ma sto sognando? È un sogno? –
Lui scosse la testa.
– No no. Benvenuto nella realtà, tesoro. Ed io sono vivo e reale. Te l’avevo
pur detto che sarei arrivato alla vita, no? – concluse, con un sorriso
smagliante dei suoi ed una provocatoria alzata di sopracciglia.
- Sì ma… - non
trovavo le parole per descrivere un avvenimento di tale portata. – Ma come…? –
- Ti hanno già detto
che sei un rompiscatole? Ti fai troppe domande! – rise lui, sbarazzino e
frizzante. – Sii più rilassato, più free!
– lentamente portò il braccio dietro la mia nuca, ed iniziò a solleticarmi la
guancia con le sue mani perfette. Io non dissi nulla, ma ero visibilmente
eccitato ed al tempo stesso pieno di domande. Una fra le tante era la più
inquietante: che cacchio ci facevo in quella stazione di servizio, e da dove
partivo per tornare a Bologna?
Mi sforzavo di
ricordare, ma era come cercare di ricordarsi un bellissimo sogno proprio dopo
essersi svegliati. Inutile ed impossibile. Sapevo come mi chiamavo, sapevo dove
stavo andando, sapevo anche che stavo per finire spiaccicato in mezzo a due
camion, eppure non sapevo perché quel giorno mi trovavo in autostrada.
Continuavo a guidare,
con Dandy che mi accarezzava dietro la nuca, proprio come avrebbe fatto un
fidanzatino mentre l’altro guidava. Accese anche la radio, ed io vidi che le
trasmissioni erano le solite, che la data era quella e che non c’era nulla
fuori posto.
Neppure quando
giungemmo a Bologna, a mezzogiorno, nulla era cambiato. Causa il periodo estivo
c’erano poche auto in circolazione, però era tutto in ordine.
Ma al di là della
formale apparenza della realtà oggettiva, dentro di me c’era un istinto che mi
diceva che qualcosa non andava per il verso giusto. C’era qualcosa di strano,
inspiegabile, nella luce che aveva Bologna quel giorno. Era troppo
luminescente. Talmente troppo luminescente e ben tratteggiata che sembrava
quasi… un quadro dipinto.
Cercai di ignorare
quella sensazione, ma più percorrevo le strade che portavano a casa mia, più mi
riusciva difficile far finta di nulla.
- Dove stai andando?
– domandò ad un certo punto Dandy.
- A casa. Dove vuoi
che vada, sennò? –
- Pensavo avresti
voluto farmi vedere la città. – rispose lui, con un sorriso a trentadue denti.
Quel sorriso artefatto che soltanto i personaggi dei fumetti potevano avere.
- Dì un po’ – esordii
io – ma tu sorridi sempre, oppure soltanto quando vuoi ottenere qualcosa? –
Mi fece una linguaccia,
e rispose- Soltanto quando una persona
mi è simpatica e mi piace. Tu mi sei simpatico … e mi piaci! – esclamò,
aggrappandosi al mio collo e impedendomi la visuale mentre guidavo.
- Ehi!! Non fare lo
scemo! Sto guidando! – lo respinsi, prima di finire addosso ad un’auto ferma ad
un semaforo.
Lui ridacchiò
allegramente, divertito. – Sei carino quando ti arrabbi. – disse, tornando a
sedersi.
- Hmp. – bofonchiai
io, ritornando a concentrarmi sulla guida. – Allora, dov’è che vorresti andare?
–
- Non lo so! Fammi un
po’ vedere in giro, no? Sei tu che vivi qui, non io. Io vivo in un mondo di
carta, lo sai benissimo. –
- Ah già… certo. Me
n’ero scordato. – risposi, secco. Avrei dovuto essere felice e radioso di avere
un personaggio dei fumetti così bello e così dolce, invece mi sentivo
stranamente inquieto.
A sedare i miei dubbi
come una fucilata, intervenne la mia voce interiore, quella del
Donatello-sarcastico-e-cinico.
Che
ti prende, Old Boy? Non sai più riconoscere la realtà dalla fantasia? Adesso
hai un bel ragazzo al tuo fianco, almeno fai finta di comportarti bene, no?
Portalo a vedere San Luca, portalo in Piazza Maggiore… Portalo dove ti pare, ma
non preoccuparti. Non ti mangerà mica.
- E’ proprio di
quello che mi preoccupo. – mormorai.
- Cos’hai detto? –
domandò Dandy.
- Niente. Non
importa. – risposi.
E continuai a
guidare, diretto verso il Centro di Bologna.
- Uhhh, ma è stupeeendo! – esclamò Dandy, mentre
saltellando si godeva la vista di Piazza Maggiore. Io ero lì con le mani in
tasca ad osservarlo mentre si divertiva come un bambino, appagato ma al tempo
stesso inquieto. Possibile che Dandy Landy, il personaggio dei miei fumetti,
fosse diventato una persona umana? E com’era successo?
Mi guardai intorno,
come per cercare la risposta a questi interrogativi. Ciò che vidi fu la
normalissima gente che a quell’ora si intratteneva in Piazza Maggiore, ovvero
studenti, turisti, qualche coppietta che passeggiava… anche loro però, mi sembravano
strani. Era come se seguissero uno schema preciso nei movimenti, nel parlare,
nell’interagire con l’ambiente circostante. Le poche volte che uscivo di casa e
andavo in centro, vedevo parecchia tranquillità. Adesso mi sembrava di stare
sul set di un film, tanto che mi allontanai e mi andai a mettere in un angolo,
come per paura di essere nel bel mezzo del campo della cinepresa che stava
riprendendo tutto l’evento.
Proprio mentre mi
stavo allontanando, sopraggiunse Dandy che mi prese per il braccio e mi tirò a
sé.
- Amore! Dove vai? –
disse, schioccandomi un bacio sulla guancia. Io rimasi paralizzato
dall’imbarazzo nel venire baciato in quel modo da un ragazzo, e soprattutto con
un’esclamazione del genere, detta ad alta voce.
- Ngh! – esclamai io
dalla sorpresa, quindi mi voltai e lui mi abbracciò forte, mentre io cercavo di
divincolarmi.
- Che c’è? – mi
chiese, guardandomi con quei suoi occhi azzurri ed il suo solito sorriso
pulito.
- Cosa c’è? Ma … ma
dico, ti rendi conto di dove siamo? –
- A Bologna – rispose
lui, serafico. – E quindi? Non posso farti le coccole in pubblico? –
- No! – risposi io,
piuttosto imbarazzato. Ero rosso come un peperone.
Lui fece una faccia sconsolata,
come un cucciolo bastonato. – Perché? –
- P… perché… -
iniziai, senza trovare le parole giuste – P… perché … tu vedi forse qualcuno
qui in giro che fa come noi? –
Annuendo, lui rispose
– Certo! Guarda dietro di te. –
Lo guardai
sconcertato, come se fossi certo che mi stesse prendendo in giro. Con un’alzata
di spalle e gli occhi spalancati come per dire “prova se non ci credi”, Dandy
mi incitò a voltarmi.
Lentamente, mi
voltai, e vidi che dietro di me c’erano una, due, tre, quattro, almeno dieci
coppiette di bei ragazzi omosessuali. Camminavano tranquilli, si baciavano, si
tenevano mano nella mano, si scambiavano effusioni. Il tutto di fronte a coppie
etero e persone anziane e perfino bambini!
Inutile dire che
restai a bocca aperta a tale visione, non tanto per la visione in sé, quanto
per l’insolita concentrazione di ragazzi omosessuali senza che ci fosse un gay
pride.
- Allora, scetticone?
Sei soddisfatto? –
- C… C… c… - ebbi
solo la forza di spiccicare tre sillabe sconnesse.
Approfittando del mio
momento di temporanea incoscienza, Dandy mi prese e mi abbracciò forte, schioccandomi
un bacio sulle labbra talmente tanto forte da farmi quasi perdere i sensi.
Vedendo che non c’era nulla da temere, io mi sottomisi a tale scherzetto,
sentendo che pian piano il mio imbarazzo svaniva per lasciar posto ad una
bellissima sensazione. Quella di essere baciato da un bel ragazzo. Dopo qualche
secondo, Dandy si staccò e mi guardò negli occhi con quel suo sguardo
magnetico.
- Allora? –
- Possiamo… possiamo
davvero…? –
Lui annuì con un
sorriso.
- E’… è incredibile.
Mi sembra di vivere in un altro mondo. – dissi io, guardandomi intorno. Bologna
era nota per essere una città molto tollerante verso i gay, ma non pensavo fino
a questo punto.
- Dai, andiamo a fare
un altro giro. Questa volta voglio guidare io! – disse Dandy, prendendomi per
mano ed iniziando a saltellare verso Piazza San Petronio, dove c’erano ancora
più coppiette. Indubbiamente qualcosa di strano c’era, però se questa stranezza
era così bella, perché cercare risposte?
Mentre Dandy mi
tirava, sentii una mano toccarmi la spalla. Come qualcuno che mi chiamava. Mi
voltai. La mano che mi aveva toccato era un individuo in impermeabile nero,
tutto intabarrato nonostante il caldo, con un cappellino nero ed uno sguardo
penetrante, proprio come quello di Dandy. Vederlo mi inquietò un po’, ma mi
sarebbe bastato interpellare Dandy per aiutarmi.
- Dandy… D… - lo
chiamai, ma lui sembrò non ascoltarmi. Nel frattempo, il figuro in impermeabile
nero era scomparso.
Chi
era quello…? Domandai a me stesso, certo di non
conoscere la risposta. Intanto Dandy continuava a tirarmi per continuare il
giro turistico in quella città che già conoscevo ma che per lui era del tutto
nuova.
Casa mia era situata
nella zona di Borgo Panigale, alla periferia nord ovest di Bologna. Siccome ero
abbastanza stanco e persino affamato, interruppi prima del tempo la visita di
Bologna insieme a Dandy. Avevo voglia di farmi una bella doccia, mangiare un boccone
e finalmente stendermi sul mio letto per rilassarmi, benché non ricordassi
nulla di ciò che stavo facendo su quell’autostrada. Decisi che avrei chiamato
mio fratello, per ricostruire i miei movimenti di ieri. Prima però volevo
riposarmi.
- No, no. – mi fermò
Dandy, mentre eravamo ad un semaforo – Non devi andare a casa tua. –
Io lo guardai come si
guarderebbe un bambino che ha appena detto una parolaccia. – Come sarebbe a
dire? – domandai. – Io voglio andare a casa mia. Ho bisogno di mangiare e riposarmi.
Tu piuttosto dimmi dove vuoi che ti lasci, e ti accompagno. –
Lui fece una faccia
sconsolata. – Pensavo… speravo che… tu venissi a stare un po’ da me. – disse
lui, e contemporaneamente abbassò gli occhi, sconsolato. La sua capacità di
passare da uno stato d’animo all’altro, da un carattere all’altro, aveva un che
di sorprendente.
- Uff… - sbuffai io –
Dandy, non è per… insomma, ma … - Non trovavo le parole. Effettivamente era
difficile ripetere un concetto già detto, ovvero che lui non esisteva. –
…Volevo dire che mi sento molto confuso in questo momento. Ho bisogno di…
restare solo. D’accordo? –
- Ecco! – esclamò
lui, cambiando di nuovo carattere – Ti lamenti tanto che vuoi il fidanzato, e
poi quando lo trovi… dici “sono confuso, sono confuso!” – fece una smorfia di
disappunto. – Idiota. – concluse lui. Io mi sentii ferito dalle sue parole,
tanto che cedetti subito.
- E va bene, va bene…
vengo da te. – dichiarai, in segno di resa. – Dove dobbiamo andare? –
Lui sorrise e mi
schioccò un bacio sulla guancia, proprio mentre guidavo.
- Segui le mie
istruzioni, e arriveremo a casa mia. – disse, ed io annuii.
Seguendo le sue
istruzioni, arrivai sui colli, dove c’era la zona delle ville.
- Uao… - mormorai –
tu vivi qui? –
- Eh sì. – rispose
lui – Ho acquistato una villetta qui vicino. È quella. – concluse, ed indicò
con il dito un cancello in ferro battuto.
Fermai la mia auto
davanti al cancello, lui scese dall’auto e andò ad aprirlo.
Entrato, mi ritrovai
in una bellissima e grande villa, forse anche un po’ più grande di quanto non
sembrasse da fuori. Il pavimento era lucido e pulitissimo, alle pareti erano
appesi molti quadri dalle tinte accese, per lo più raffiguranti periodi del
futurismo e delle neoavanguardie. Stesso discorso valeva per i mobili, che
erano modernissimi e prestigiosi allo stesso tempo.
- Allora? – domandò
Dandy. – Ti piace? –
Fischiai dallo
stupore. – Ti tratti bene, vedo. –
Lui mi sorrise.
- Abiti qui da solo?
–
- Oh no – rispose lui
– ogni tanto vengono a trovarmi i miei amici, quelli che hai disegnato tu. –
Io sgranai gli occhi.
– Vuoi dire che tutta la brigata ogni tanto viene a trovarti? –
Lui annuì. – Sì sì
caro. – si avvicinò – so anche che ti piacciono molto anche loro, li consideri
come tuoi figli… - disse, toccandomi il generoso ventre. Io arrossii, però lo
lasciai fare e anzi al tempo stesso portai una mano attorno i suoi fianchi.
Aveva un corpo magnifico, così bello e proporzionato. Mi stupii io stesso di
aver disegnato un ragazzo così, e forse mi stavo lentamente abituando all’idea
che fosse un ragazzo vivo e reale, non soltanto un disegno scaturito dalla mia
fantasia.
- Seguendo questa
teoria… allora dovrei considerare anche te come mio figlio… sbaglio? –
Lui ridacchiò. – Mmm…
non puoi considerarmi un amico, invece? – disse, con una voce sensuale e
provocatoria. Intanto le sue mani si erano posate sulle mie spalle, e le sue
labbra erano molto prossime alle mie. Tuttavia rimasi rigido. Una parte dentro
di me era ancora restia ad accettare l’idea che Dandy potesse non esistere.
A sedare questo mio
dubbio, intervenne Dandy, che incominciò a sfiorarmi le labbra con la sua
lingua. Io chiusi gli occhi, impossibilitato a dire o fare qualunque cosa. Lui
andò avanti, con quella lingua che profumava di fragola e quelle mani così
belle che mi carezzavano i capelli…
Chi
se ne frega se è soltanto un allucinazione. Gli vado bene, e lui va bene a me.
È un figo da primato, e mi ha pure invitato a casa sua. Avanti, allora…
Pensai, e lasciai
andare le mie mani a toccare i suoi fianchi. Lui mugolò di piacere, ed
incominciò a baciarmi. Da uno scaffale prese un telecomando e pigiò un tasto.
Subito dopo sentimmo una bellissima musica venire fuori dagli speakers.
*** Met you by surprise
I didn't realize that my life would change forever
Saw you standing there didn't know I care
there was something special in the air…***
- Ma questa è… -
incominciai. Lui annuì, e continuò a ballarla con me.
- E’ stupenda. La mia
preferita. – sussurrò, baciandomi dolcemente le labbra. Mentre la musica
continuava, noi ballavamo, ed era proprio come se quel salone fosse stata la
nostra pista da ballo. Io ero di nuovo felice, fra le braccia di Dandy. Per lo
meno ero sicuro che un personaggio di carta non avrebbe mai potuto farmi
soffrire come quelli in carne ed ossa che avevo incontrato… Avrei potuto
ribellarmi al suo invito, prendere e andarmene a casa, ma cosa vi avrei
trovato…? Forse Francesco che pomiciava con qualche altro bel ragazzo ed io che
dovevo chiudermi in camera per non pensarci… No no… qualunque cosa fosse, era
meglio stare con Dandy. E decisi che ci sarei rimasto per un po’. Non sapevo
nemmeno io perché.
*** …If you do exsist, honey don't resist
show me a new way of loving
Tell me that it's true, show me what to do
I feel something special about you. ***
Ad un certo punto, lui mi sorrise. Io
gli chiesi perché.
- Perché sei tanto tenero, Donatello…
- rispose, facendomi gli occhi dolci.
- Anche tu – risposi io, di rimando.
- So anche essere molto selvatico, se
voglio… - disse, e mi mostrò una fila di denti bianchi, prima di mordermi
scherzosamente il collo.
Io risi, ma era chiaro che il bel
Dandy aveva intenzioni serie. A confermare questa mia sensazione, ci pensò lui.
- Andiamo di sopra…? – chiese,
facendomi l’occhiolino.
Io sorrisi. – Certo. –
Mi prese per mano e andammo verso le
stanze da letto.
*** …Dreams are my reality, a wondrous world where I
like to be
I dream of holding you all night
and holding you seems right
perhaps that's my reality. ***
Dormii
ininterrottamente per un bel po’ di ore. Fu un sonno senza sogni, sereno e
tranquillo. Quando aprii gli occhi mi ritrovai in una casa che non era la mia,
quindi dovetti fare uno sforzo di memoria per ricordarmi dove fossi. Poi
ricordai che ero ospite di Dandy. Il letto dove avevo dormito era sfatto,
quindi dedussi che Dandy mi aveva fatto compagnia per un po’, per poi andarsene
chissà dove. Ripensai ai suoi baci ed al suo corpo sodo e atletico sotto il
mio. Certo che l’avevo disegnato bene… e per essere un personaggio che non
esisteva, dovevo ammettere che ci sapeva fare a letto.
In breve tempo mi
rivestii, e decisi di andare a cercarlo, quantomeno per dirgli che stavo per
andarmene a casa mia.
Scesi nel salone
principale, e lo chiamai.
- Dandy? –
Nessuna risposta.
- Dandy, ci sei? –
ripetei.
Niente, sembrava non
esserci.
- Buongiorno,
Donatello. – mi salutò una voce. Io trasalii dalla sorpresa. Mi voltai, e
dietro di me c’era un bel ragazzo dai lineamenti asiatici, alto quasi come me.
Indossava un kimono rosso a pantaloni, e ai piedi un paio di infradito bianche.
- C.. ciao. –
salutai. – Tu sei…? –
Lui sorrise. – Io
sono Izumi, per servirti. Dandy mi ha detto di occuparmi di te finché non
tornerà. Puoi chiedermi tutto quello che vuoi. – concluse, facendo un inchino.
La cosa mi sorprese un po’, non essendo abituato a ricevere tanta attenzione da
un ragazzo solo. Chissà cosa avrei potuto chiedere al bel ragazzo giapponese,
che mi guardava con quegli occhietti da cerbiatto aspettando un mio cenno. Mi
venne in mente che a me piacevano i ragazzi asiatici, ma adesso che avevo
Dandy, non volevo usufruire di un altro ragazzo così facilmente.
- D… dov’è andato
Dandy? – domandai.
- Questo non ha
importanza, adesso. – rispose gentilmente ma in tono fermo Izumi.
- Se mi permetti – disse
poi venendomi vicino – ti consiglierei di fare un bel bagno rilassante e poi
potrei farti un massaggio. – concluse, passandomi una mano sulla spalla.
- Ehm, veramente… -
attaccai io, titubante – veramente vorrei prima andare a casa mia ad avvisare
il mio coinquilino e posare i bagagli che ho in auto. Sai, magari è in
pensiero… non mi ha visto per una settimana intera, e poi … -
- Ci sarà tempo di
avvisarlo – mi interruppe Izumi con un sorriso, e con gentilezza mi prese il
braccio e mi trascinò con lui. Io mi lasciai trasportare un po’ controvoglia.
Per un momento sospettai che lui ed il suo padrone Dandy volessero tenermi
volutamente lontano da casa mia.
E
non staresti sbagliando di molto, amico.
- Cos’hai detto? –
domandai a Izumi. Lui si fermò e mi guardò con aria interrogativa.
- Io? Io non ho detto
nulla. – disse il giapponese.
- Ah – tagliai corto
io, facendo finta di niente – Non importa, credevo di aver sentito qualcuno che
mi chiamava. –
Izumi mi sorrise e mi
trascinò con ancor più convinzione – Sarai stanco. Lascia che io mi occupi di
te, per un po’. Ti assicuro che non te ne pentirai. – concluse, con un
occhiolino.
Io arrossii, e
contemporaneamente mi sorsero parecchi interrogativi nella mia testa. Per
esempio, dove fosse scomparso Dandy, perché non mi aveva salutato mentre
usciva, se fosse d’accordo che io passassi del tempo con il suo “maggiordomo”.
Cercai di non
pensarci, mentre Izumi mi conduceva verso le aree di rilassamento.
Il bell’Izumi ci
provò più volte con me, ma io mi sottrassi a tutti i suoi tentativi di
abbordaggio. D’accordo che per un ragazzo un po’ in sovrappeso e sfortunato
nella vita sessuale come in quella sentimentale come me avere un ragazzo carino
che vuole fare sesso con lui è come acqua nel deserto per un assetato, però
c’erano sfere nella mia persona che non mi permettevano di essere libero come
volevo, ad esempio quella in forza della quale se stavo frequentando qualcuno,
non avevo interesse a fare nulla con nessun altro.
- Ma… ma sei sicuro
che Dandy sia d’accordo…? – domandai io.
Rettificando di
parecchio le parole che aveva detto prima, Izumi, sopra di me, mi carezzò
l’addome morbido, sorridendo malizioso – Veramente non sarebbe proprio
d’accordissimo, ma… tu mi piaci, sai? Mi piaci molto, Donatello… E anche se sei
del mio padrone, vorrei provarti… - disse, leccandosi le labbra.
Io feci per
svicolare, ma era veramente difficile, anche perché ero bloccato da Izumi, che
nonostante l’apparenza esile, era muscoloso. Non mi era poi piaciuto come Izumi
avesse detto voglio provarti. Ehi, ma
con chi o cosa si credeva di avere a che fare?!? Con un giocattolo, forse?
Bruscamente,
approfittando di un momento in cui una mano di Izumi era impegnata con i miei
boxer, scivolai via da sotto il suo corpo, trascinandomi fino alla piscina. Lui
mi guardò ma non disse nulla. Fu la luce nei suoi occhi a farmi un po’
impressione: mi guardava come una madre severa guarderebbe il figlio che ha
appena combinato un grosso guaio. Più che guardarmi però, non spiccicò parola.
Prese e se ne andò, come se non mi avesse nemmeno conosciuto prima.
Io mi guardai intorno
e vidi che la casa era veramente silenziosa. A pensarci bene, anche mentre
dormivo, di sopra, non avevo sentito Izumi che sfaccendava o altre presenze che
avrebbero fatto supporre la presenza di personale stabile nel luogo. Dico,
tenere in ordine quella specie di reggia sulle colline bolognesi doveva essere
abbastanza laborioso, no?
Mi rivestii in
fretta, se c’era una cosa che Dandy ancora non mi aveva dato erano degli abiti
nuovi. Risi dentro di me al pensiero, pensando che forse nemmeno lui aveva dei
vestiti adatti ad un grassone come me.
Piantala
di dire che sei grasso. Poi non stupirti se la gente ti gira al largo. Sei tu
il primo a sottovalutarti!
E dopo le risate,
l’auto ammonizione. Una volta rivestito dei miei abiti, mi diressi verso
l’uscita.
La mia piccola Audi
era ancora lì dove l’avevo parcheggiata, tranquilla e paciosa in attesa del suo
padroncino, ovvero io. Solo che questa volta era in un bel parcheggio, diverso
dai soliti postacci in cui di solito alloggiava. Il parcheggio della villa di
Dandy era molto ben curato, abbellito da piante esotiche dai colori sgargianti,
e talmente verde da provocare gioia dell’occhio e addirittura da dare
l’impressione di non essere in Italia bensì ad Hollywood. Tuttavia, la mia Audi
grigia era troppo bella per sfigurare in mezzo a tanta grazia.
Aprii lo sportello e
mi accomodai al posto di guida. Per abitudine, abbassai la sicura della mia portiera,
chiudendo le altre quattro. Non ero mai stato un tipo tranquillo, e da quando
da bambino avevo assistito alla scena di un’auto che svoltava e le si apriva lo
sportello facendo cadere un ragazzino, in auto viaggiavo sempre con la sicura
abbassata.
Infilai la chiave nel
quadro di accensione, e quasi per un momento, mi aspettai che l’auto non si
sarebbe messa in moto, forse perché qualcuno le aveva tagliato i fili
dell’alimentazione. Invece, come girai la chiave, il motore diesel si accese
ronfando tranquillamente.
Accesi i fari e
ingranai la retro, e percorsi il breve tratto asfaltato che conduceva al
cancello. Lì, c’era un altro ragazzo ad attendermi. Questi era un bel
giovanottello di circa ventidue anni, con i capelli rossi e ricci e la pelle
bianca come la luna, chiazzata qua e là da lentiggini. Tuttavia, era bellissimo
e molto ben tenuto fisicamente. Anche con il buio, lui stava lucidando curando
il giardino con attenzione, spruzzando del liquido che faceva brillare le
foglie degli arbusti. Come vide la mia auto, si avvicinò al finestrino.
- Ciao, Donatello. –
mi salutò, con un sorriso gentile. Era un’altra cosa che m’inquietava, il fatto
che tutti questi conoscessero il mio nome, oltre al fatto che sembravano
sbucare dal nulla come funghi.
- Ciao… ehm… -
tentennai io.
- Thomas. – mi aiutò
lui – Sono il giardiniere, qui. Lavoro fino a tardi, come puoi vedere. – condì
la frase con un sorriso ammiccante. Eh sì, non c’era proprio dubbio. Dovevo
essere finito nel set di un qualche telefilm americano made-in-Italy. Dallas, forse, oppure nella versione gay
di Beautiful.
- Già, già. – tagliai
corto io – Senti, potresti aprirmi questo cancello? – dissi, indicando con il
mento il cancello che si stagliava di fronte a noi con tutta la sua maestosità
in ferro battuto.
- Certo. – rispose
lui sorridendo, con mia grande sorpesa. Mi aspettavo che mi avrebbe detto Badrone non Buole che zuo Ozpite ezca fuori
a guesd’ora di nodde. Ma mi astenni dal pensare anche solo per un momento
che potessi essere trattenuto lì contro la mia volontà.
Vidi Thomas che
infilava una chiave in una serratura, la girava e faceva aprire il cancello.
Questo si aprì silenzioso davanti ai miei occhi, lasciandomi campo per uscire.
- Vado a posare i
miei bagagli a casa. E ad avvisare il mio amico Francesco, che vive con me. –
- Va bene – disse
Thomas, annuendo. Dal suo viso era scomparsa ogni ombra di sorriso. – C’è
altro? – mi domandò di nuovo, come fosse un segretario che prendeva ordini dal
direttore generale.
- Beh, non saprei… -
In realtà non sapevo cosa dire. – Ringrazia Dandy da parte mia per
l’ospitalità, magari. Digli che tornerò a trovarlo. – buttai lì, ma non ne ero
convinto nemmeno io.
Thomas annuì di
nuovo, senza sorridere. – Come desideri. – disse, e salutandomi si avviò verso
il giardino, scomparendo dietro una siepe.
- Che tipo. – dissi
io, ingranando la marcia e scuotendo la testa. Uscii dal cancello e lasciai la
villa, inoltrandomi nelle stradine collinari che portavano giù a Bologna.
Percorrendo le strade
che portavano a Borgo Panigale, non trovai molta gente in giro. Se non avete
mai visto Bologna d’estate, fatelo. È uno spettacolo a dir poco singolare:
nessuno in giro, né la mattina né di sera, tanto che sembra di stare in una
città abbandonata. Quella sensazione mi coccolò per un attimo, pensare che la mia
bella e tranquilla Bologna si fosse liberata dal solito tran tran tranquillo di
cittadini che intasavano le strade, ma fui assalito da un’altra sensazione,
ovvero quella stessa che avevo provato mentre rientravo, che tutto fosse finto
come un quadro.
Francesco
mi riderà in faccia quando gli chiederò dove sono stato. Ma non m’importa. Gli
dirò che ho battuto la testa e che ho avuto un’amnesia. Anzi no. Non gli dirò
nulla, gli dirò soltanto di rispondere alle mie domande e farmi un po’ di luce
nella memoria. Sperai vivamente che Francesco fosse
in casa. Di solito a quell’ora preserale, si rilassava giocando alla
playstation o facendo esercizi (avete capito come) con un altro ragazzo. In
entrambi i casi, qualunque cosa fosse stato intento a fare, l’avrei interrotto
e ci avrei fatto una chiacchierata. Ne avevo veramente bisogno.
Durante il tragitto,
mi accorsi di non essere proprio solo. Nello specchietto retrovisore vidi
un’auto, posizionatasi ad una distanza tale da non destare sospetti, ma che non
sfuggì al mio senso di appassionato di automobili. Era una Opel Meriva con i
vetri oscurati, tanto che non riuscivo a vedere chi c’era alla guida, anche a
causa del buio. Me ne accorsi a metà viaggio, ma sulle prime battute non feci
nulla per cercare di seminarla. Era lì, a distanza discreta, e non dava
fastidio. Arrivando verso casa, mi accorsi che forse era meglio non far vedere
dove abitavo.
C’era un semaforo
soltanto prima di un incrocio dove svoltare a destra e percorrere una strada
che portava al palazzo dove abitavo io. Più in là si andava verso un centro
commerciale, e più in là ancora c’era la Via Emilia che portava a Modena e in
tante altre città del Nord. Calcolando bene, pensai che avrei potuto seminarlo
se invece di svoltare a destra avessi tirato dritto fino ad un certo punto, per
poi spegnere i fari e ficcarmi in una stradina per lasciar passare la Meriva, e
poi tornarmene indietro indisturbato.
Fermo al semaforo
cruciale, buttai un’occhiata allo specchietto retrovisore sinistro. La Meriva
era separata da me da altre quattro auto, posizionata dietro una Grande Punto
blu ed una Smart. Io ero il primo della fila. Per smorzare un po’ la tensione,
accesi il lettore CD. La musica dei Meganoidi iniziò a cantare dagli speakers.
*** Preso con
l’ultimo invito di un progetto
Che si presenta nel nome della verità
You know, falling in illusion
Catturati nel sonno della nostra età
Un messaggio ripete che il mio posto è qui
Mostra tutti i vantaggi e le comodità
Rag-doll dimmi se ci sei anche tu
In un lago di sangue detto libertà… ***
Scattò il verde. Io
ingranai la marcia e sollevai con calma il piede dalla frizione.
- E adesso vediamo se
mi stai ancora incollato al culo. – mormorai io, accelerando bruscamente.
Raggiunsi la velocità
di 80 chilometri orari, che era già troppo in un centro abitato, anche se
semideserto come in quel periodo. Percorsi velocemente tutto il rettilineo che
mi separava dal centro commerciale, di tanto in tanto buttando uno sguardo agli
specchietti. La Meriva era ancora dietro, sebbene avesse appena sorpassato la
Punto blu che le stava davanti ed ora si apprestava a fare lo stesso con la
Smart. Non c’erano più dubbi. Quell’auto voleva me, ma io non volevo farmi
prendere.
Clacsonai tre volte
ad un pedone che si apprestava a passare fuori dalle strisce, intimandogli di
non passare perché avevo fretta. Accelerai ancora, questa volta portando l’auto
a novanta chilometri orari. In lontananza, si vedeva un altro semaforo,
l’ultimo in zona Borgo Panigale, dove la strada rettilinea diventava Via
Emilia. Stava anche diventando giallo.
- Adesso ti fotto,
stronzo. – dissi, con un sorrisetto.
Il semaforo, da
giallo diventò rosso. Anziché fare onore al codice della strada, accelerai a
tavoletta e passai il semaforo proprio mentre le altre auto si stavano per
muovere, con tanti saluti alla Meriva che invece era stata costretta a
fermarsi. Immaginai la scena del guidatore misterioso che si mangiava le mani
per non essere riuscito a prendermi, mentre il mio piede affondava sull’acceleratore.
- Ah-haaa!! Te l’ho
fatta sotto il naso, eh? – risi di gusto. Camminai dritto per qualche
chilometro, poi imboccai una corsia di decelerazione e uscii a Lavino di Mezzo.
Da lì, tornai indietro fino a Borgo Panigale, senza altri inconvenienti.
Anche se avevo
seminato il pedinatore, non mi sentivo tranquillo. Troppe emozioni in un giorno
solo mi avevano causato questo effetto. Immaginai che la vita di un ragazzo
carino potesse essere così, costellata di ragazzi che lo pedinavano e avventure
d’ogni sorta, ma per me che ero sempre stato abituato ad una vita tranquilla e
senza emozioni, era davvero troppo. Così, seguendo il mio istinto, parcheggiai
la mia auto nel parcheggio condominiale, chiudendo velocemente il cancello
elettrico.
Scaricai i bagagli
guardandomi intorno con circospezione, ma fu una precauzione inutile. Ero
praticamente solo. Nemmeno nel mio palazzo c’era più nessuno. Tutti in vacanza,
tranne forse i signori Zavattini, moglie e marito anziani che vivevano due
piani sotto il mio appartamento. Infatti la loro Panda gialla era ancora lì
ferma, e la loro finestra era illuminata dalla luce fioca del televisore.
Portando i bagagli a mano, raggiunsi il portone e sgattaiolai nell’ascensore,
schiacciando forsennatamente il tasto “7”, fino a che le porte non si chiusero.
Arrivato di fronte
alla porta del mio appartamento, sussurrai un casa, dolce casa. Infilai la chiave nella toppa e girai, aprendo la
porta.
- Francesco? –
chiamai. Nessuna risposta. Entrai nell’ingresso, che odorava di chiuso. Subito
mi venne il sangue alla testa. Gli avrò
detto mille volte di aprire un po’ le finestre per far cambiare l’aria, ma è
più sordo di una campana, quell’idiota… pensai, mentre mi avviavo verso la
sua stanza. Come c’era da aspettarsi, era chiusa. Bussai.
Nessuna risposta.
- Francesco, sono io.
Ci sei? – attesi altri tre secondi, poi aprii la porta. Francesco non era lì.
In compenso, il suo letto era fatto e la sua scrivania era pulita. Sopra il
piano, che di solito era polveroso, spiccava un foglietto, posato sulla
tastiera del suo portatile. Incuriosito, andai a vedere. Era una stampa fatta
dal sito di Trenitalia, che indicava orari di partenza e treni per raggiungere
Pavia.
- Pavia? – mormorai –
Cos’è, Francesco si è stancato di giocare a “piglialo e dallo” con i bolognesi?
Adesso va a farsi i pavesi? Forse ha scoperto che i bolognesi fanno ingrassare
ed ha deciso di cominciare una dieta a base di Pavesini. – Risi di gusto a
quella mia battuta, tanto che mi vennero le lacrime agli occhi.
- Non riderei tanto
se fossi in te. – disse una voce alle mie spalle. Trasalii impaurito, mi
tremarono le gambe. Quasi non caddi contro la scrivania di Francesco, mentre mi
voltavo per vedere chi era stato a parlare. Mi affacciai alla porta, che dava
sul corridoio.
Il figuro intabarrato
con l’impermeabile nero mi scrutava dal fondo del corridoio, vicino alla porta
e poco lontano dalla porta della mia stanza da letto. Le mani in tasca, se ne
stava nell’ombra nella sua mise inquietante, come un’apparizione spettrale. Ebbi
paura. Tanta paura, ma cercai di mantenermi freddo.
- Chi… chi sei tu? E
cosa ci fai a casa mia? – domandai, cercando di dare un’impronta più severa che
potei alla mia voce che tremava.
- Non importa chi o
cosa sono. Ti basti solo sapere che non sono un tuo nemico. Adesso importa solo
che tu devi svegliarti. – disse, secco. Poi aggiunse - Scappare. –
Incredulo, lo fissai.
- Ma di che cosa vai
farneticando? Sono già sveglio, e da chi o cosa dovrei scappare?!? – risposi.
Lui si avvicinò lentamente, da quella sua posizione nell’ombra.
- Stammi a sentire –
attaccò lui, ma non ebbe il tempo di dire ciò che voleva dirmi.
Improvvisamente, la
porta del mio appartamento si aprì con uno scatto secco, sfondata con un solo
calcio da un energumeno. Il figuro intabarrato si girò di scatto, mentre
l’energumeno lo sorprendeva da dietro. Entrarono altri due ragazzi, che
cercarono di immobilizzarlo. Lui schizzò nella mia direzione, scansandomi
improvvisamente e facendomi finire in bagno, dove atterrai col sedere sul pavimento.
- Ahia! – gemetti,
mentre i due energumeni seguivano il figuro. Sentii rumori di colluttazione e
una finestra che si rompeva.
- E’ scappato dalla
finestra! – urlò uno di questi due, ripercorrendo il corridoio. – Andiamo a
prenderlo fuori! – esclamarono insieme, e sotto i miei occhi attoniti,
percorsero il corridoio verso l’uscita dal mio appartamento. Sembrava di stare
in un film, nella scena dove i buoni (o i
cattivi? Pensai) fanno irruzione in una casa per prendere di sorpresa una
preda, e dove c’è un individuo che è del tutto estraneo alla situazione.
Ebbene, in quel momento l’individuo estraneo ero io.
Feci per rialzarmi,
quando all’improvviso, sulla soglia comparve Dandy. Il suo volto era
terrorizzato ma allo stesso tempo dolce. Mi venne vicino frettolosamente, ed io
fui travolto dal suo profumo maschile.
- Donatello. Amore,
cosa ti hanno fatto? –
Mi rialzai,
avvertendo un leggero dolore ai lombi. La botta che avevo preso era stata
forte, se poi si contava anche il mio peso, era comprensibile che sentissi
male.
- Ahio – gemetti di
nuovo. – Quel tizio… l’ho già visto. –
Scuotendo la testa,
Dandy mi guardò con quei suoi occhi azzurri. – Vuoi spiegarmi che cosa sta
succedendo? – mi domandò, con la voce più candida del mondo. Eppure sentivo che
c’era qualcosa di falso, nel modo in cui me l’aveva posta.
- Ne so meno di te. –
dissi, uscendo dal bagno e massaggiandomi la schiena. Mi appoggiai allo
stipite, e Dandy fu lesto a prendermi il braccio ed accompagnarmi all’uscita.
- Chi sono quei due
che hanno sfondato la mia porta? –
- Amici. – disse lui,
tagliando corto. – Che cosa eri venuto a fare qui? – domandò Dandy, come se non
fossi nemmeno libero di andare a casa mia.
- Ero venuto a posare
i bagagli. – risposi, che era poi la verità. Tranne per il fatto che ora i
bagagli giacevano scomposti in fondo al corridoio, sbalzati via dall’impeto con
cui la porta era stata sfondata da quei due bisonti. – Cos’è, adesso non sono
più libero di rientrare a casa mia? – dissi a Dandy.
- Certo che sei
libero, amore. Ma… - incominciò, salvo poi bloccarsi.
- “Ma” cosa, Dandy? –
mi voltai, e lo guardai. Lui non disse nulla, i suoi occhi azzurri erano fissi
nei miei. La sensazione che ci fosse qualcosa di strano aumentò
esponenzialmente, complice il silenzio tra noi.
- Niente. – rispose
lui, secco. – Torniamo a casa mia. Qui non sei sicuro. –
- Aspetta. Almeno
chiamiamo i carabinieri, no? Quel tipo lì è entrato in casa mia senza il mio
permesso, ha sfondato addirittura un vetro, poi i tuoi due “amici” hanno
sfondato la porta! Come credi che io possa … -
Lui si avvicinò a me,
tese una mano e mi carezzò i capelli. Piuttosto scosso, io mi ritrassi,
guardandolo negli occhi impaurito.
- Non avere paura di
me. Io ti sono amico, lo sai. – disse, sorridendo. In un certo senso, quando mi
sorrideva le mie difese psicologiche iniziavano a cedere. Io stesso l’avevo
creato così, e non essendoci al momento nessuno di cui mi potessi fidare
(ripensai a Francesco, che chissà dove se n’era andato senza avvisarmi per
telefono), decisi di affidarmi a lui.
- Vieni… cucciolone.
– disse Dandy, tendendomi le braccia e abbracciandomi dolcemente. Io chiusi gli
occhi, aspirando il suo profumo. Lui mi baciò le labbra, dapprima dolcemente,
poi sempre con più passione, tanto che avrei voluto poter restare lì in casa
mia con lui. Abbassai le mie mani verso il suo sedere, eccitato e preoccupato
al tempo stesso.
Lui passò a baciarmi
il collo, dolcemente. E fu lì che mi sentii pungere.
- Ahi! – dissi. –
Qualcosa mi ha punto! – ebbi solo il tempo di dire, prima che la mia vista si
annebbiasse. Dandy era lì che mi baciava il collo, anche se fermo come un
manichino. La testa incominciò a girarmi, e ad un certo punto volli andare in
camera mia a rilassarmi. Tentai di sottrarmi a Dandy, ma lui mi tenne stretto a
sé con le sue forti braccia.
- D… Dandy… ho…
sonno…….. – mugugnai, mentre la mia vista si annebbiava ancora di più. –
Voglio… andare……. A letto…. – dissi.
Sentii lui che mi
parlava all’orecchio. – Tra poco, amore mio. Tra poco. – era lì che mi stringeva,
ma la sua voce mi giunse come se lui fosse stato distante chilometri da me.
- V… voglio… voglio
fare… sesso. – dichiarai, in un totale stato d’incoscienza. Le gambe già non mi
reggevano più, tanto che m’inginocchiai a terra. La cosa che mi stupii fu che
Dandy mi lasciò andare. Posai la testa sulle ginocchia di Dandy, che mi
accarezzò dolcemente i capelli.
- Tra poco. – ripeté
Dandy, sempre da lontanissimo. – Tra poco faremo tutto quello che vorrai. –
concluse poi. Quelle furono le ultime parole che udii, prima di perdere i sensi
del tutto e crollare ai suoi piedi. L’ultima cosa che vidi furono le sue scarpe
All Stars che scavalcavano il mio
corpo, mentre lui se ne andava.
Mi risvegliai la
mattina dopo, placidamente disteso su un posto che già conoscevo: il letto
matrimoniale di Dandy.
Mugugnai per il
dolore al sedere, che non era ancora passato… mi accomodai a sedere, avvertendo
una pesantezza alla testa come quella che si provava dopo una notte passata ad
ubriacarsi. Sentii canticchiare nel bagno adiacente.
- Dandy…? – chiamai.
– Dandy? – ripetei.
- Sono qui, tesoro –
mi rispose lui dal bagno. – Ti sei svegliato, finalmente. –
Roteai gli occhi.
Oltre alla sensazione di ubriachezza, avvertii anche un altro vuoto di memoria.
Che giorno era? Che ore erano? La mia testa era un casino totale, ma al tempo
stesso era un nirvana: non riuscivo a pensare a nulla. Nel frattempo, lui
comparve dalla porta del bagno, vestito anche lui di un kimono, forse dello
stesso tipo che possedeva Izumi. Mi sorrise.
- Ti piaccio, così? –
mi domandò. Io ero praticamente frastornato, ma conservavo ancora lievissimi
ricordi di qualcosa che era successo nelle ore precedenti.
- Che cosa è…
successo? – gli chiesi. Lui si limitò ad alzare le spalle.
- Allora? Come mi
sta? – girò su se stesso, mostrandomi quanto fosse sensuale e carino anche con
un abito orientale.
Leggermente alterato,
lo incalzai a rispondere – Non cambiare discorso! Ti ho chiesto cos’è successo!
– mi venne da alzare la voce, ma un improvvisa emicrania mi costrinse ad
abbassarla di colpo, quindi gli ultimi suoni della domanda vennero fuori un po’
sottotono. Come se nulla fosse successo, Dandy si sedette sul letto, dalla
parte opposta alla mia, a gambe incrociate. Mi fissava attentamente, senza
proferire parola.
- Allora? – lo
incalzai nuovamente.
Con molta calma,
Dandy rispose – Non c’è bisogno che ti scaldi tanto. Non è successo niente, hai
soltanto battuto la testa mentre ti tuffavi dalla mia piscina. –
- Stronzate! –
esclama io, ricordando un figuro intabarrato che mi parlava, e mi diceva di
svegliarmi e scappare, anche se non ricordavo bene dove né quando l’avevo
visto.
Placidamente, Dandy
distese le gambe, facendo arrivare i suoi piedi ai miei fianchi. Continuò a
squadrarmi attentamente, mentre io sentivo di voler scendere da quel letto,
prendere e andarmene da quella casa maledetta.
- Rilassati, amore –
disse lui per calmarmi. Io ero furente.
- Rilassarmi? Cristo,
tu non mi stai a sentire! Come faccio a rilassarmi con questa sensazione di… E
poi non chiamarmi amore! Io non sono il tuo…-
- Ieri sera hai
bevuto troppo, alla festa che ho dato. C’erano molti miei amici, e ti ho
presentato a loro come il mio ragazzo. – sorrise. Non dimenticavo che lui era
soltanto un mio personaggio, un personaggio che io avevo inventato in un
momento di sconforto. Tuttavia ero inquieto. La sua scusa che avevo alzato un
po’ troppo il gomito avrebbe anche potuto reggere, se non ci fosse stato quel
piccolo, infimo lume di lucidità che ancora viveva nel mio intelletto e mi
faceva subodorare molte, troppe stranezze. Se ero ubriaco, allora perché lui
era ancora lì a farmi da crocerossina? Perché non mi lasciava andare a casa, in
nome di Dio?!
- Francesco. – dissi
– Voglio telefonargli. – feci per alzarmi, ma Dandy mi bloccò mettendomi un
piede sull’inguine.
- Stai giù. Cadresti
come una pera matura. Hai bevuto più di una spugna, ieri sera, non voglio che
ti accada altro. – disse, in tono gentile ma fermo.
In pochi secondi, la
mia rabbia si trasformò in frustrazione. – Voglio… voglio andare… a casa … -
sospirai, sull’orlo di piangere. Mi trattenni, ma solo perché non volevo che un
bel ragazzo come Dandy mi vedesse piangere. Lui sorrise amorevole, ed
incominciò a strusciarmi il piede sull’inguine. Anche se io ero completamente
rimbambito, il mio mostriciattolo in mezzo alle gambe sembrava non aver
riportato danni. Guizzò sull’attenti a quel contatto da me non ricercato, e
questo fece molto piacere a Dandy, che continuò a stuzzicarlo.
- Ne sei proprio
sicuro…? – domandò, continuando con quel giochetto. – A me non sembra. – disse,
secco, guardandomi con desiderio.
- Smettila – dissi
io, e Dandy si bloccò. Ritirò le sue gambe, e ritornò a guardarmi.
- Cucciolo… che c’è?
Non hai più voglia di…? –
- No! Non è il
momento! Voglio andare a casa, voglio chiamare Francesco, voglio… -
Non ebbi il tempo di
finire la frase, che Dandy strisciò sopra di me e mi baciò con passione. Che
cos’avrei potuto fare? Era evidente che non voleva lasciarmi andare. Allora
decisi che non potevo fare altro che aspettare.
E aspettai.
Lo coccolai a mia
volta, per dargli l’impressione di essermi calmato. Anche se non ce n’era
veramente bisogno, dato il torpore che provavo.
A quel punto, non
c’erano più dubbi. Dandy non voleva lasciarmi andare. In un certo senso, ero
diventato suo prigioniero. Sospirai sconsolato, mentre nel bagno mi sciacquavo
il viso. Mi guardai nello specchio.
Il mio viso era
sempre a posto, pienotto e gonfio come sempre, ma nei miei occhi c’era
rassegnazione, paura, incertezza generalizzata. Non sapevo cosa fare, come
comportarmi di fronte a questa situazione contingente. Avrei potuto scappare,
sì… ma non credo che Dandy ed i suoi scagnozzi mi avrebbero lasciato libero di
andare. E poi eravamo confinati sui colli bolognesi, ed ero più che sicuro che
la mia auto era rimasta lì nel parcheggio del mio condominio, magari a farsi
una chiacchierata con la Panda dei signori Zavattini, mentre io ne avevo
bisogno per scappare. Mi venne da ridere al pensiero che le due auto potessero
avere difficoltà di lingua, in quanto una era tedesca e l’altra italiana. E
risi. Prima fu un riso leggero, intervallato da singhiozzi, poi andò avanti in
crescendo, trasformandosi in un riso isterico, forte e schiamazzato. Risi tanto
da farmi venire le lacrime agli occhi, e per una stupidata come quella! Neanche
su quello c’erano dubbi: stavo impazzendo.
Prima, nel
pomeriggio, Dandy mi aveva annunciato che ci sarebbe stata un’altra festa
quella sera.
- Voglio andare a
casa… - avevo risposto io.
- Uh, quanto sei
noioso! Ti dirò una cosa. Tu sei già a casa. – disse lui, mentre si preparava
all’evento mettendosi un bellissimo vestito di gala di colore bianco panna.
Io alzai un
sopracciglio perplesso, e assunsi nuovamente un’espressione sconsolata. Mi
voltai e feci per andarmene, quando lui mi fermò.
- Donatello. – mi
chiamò.
Io mi voltai, e vidi
la sua e la mia immagine riflesse nello specchio dove lui si stava guardando. –
Sì? –
- Quante delusioni
hai avuto nella vita? – mi domandò, sistemandosi il cravattino con una maestria
che non gli avrei mai attribuito.
La domanda era un po’
strana e fuori luogo, ma risposi ugualmente. – Più di una decina, da che sono
entrato nel mondo gay. Se poi vogliamo contare anche quelle del mondo etero, si
arriva ad una bella cifra… -
Lui finì di
sistemarsi il cravattino e si voltò. Lentamente, venne avanti. Io ero lì fermo,
incapace di muovermi o di fare qualsiasi cosa. Lui mi prese il braccio, e
gentilmente mi mise a sedere su quel letto matrimoniale dove già due volte mi
ero risvegliato, e dove una volta avevamo fatto l’amore.
Mi guardò negli
occhi, e mi prese le mani nelle sue. Erano morbide e curate, ed iniziò ad
accarezzarmi. - Ascoltami, Donatello. – disse lui, con un tono amorevole da
madre comprensiva – Quello che c’è là fuori, è soltanto brutto. Il mondo ti ha
trattato male, per tutto questo tempo, e tu hai sfogato i tuoi dolori con il
disegno. Ciò ti ha aiutato moltissimo, e sei stato veramente bravo a creare
tutti noi. Ma adesso noi siamo in debito con te.
- Sappiamo che
l’unica cosa che vuoi è smettere di soffrire. – concluse Dandy, e questo mi
fece trasalire. Vedendo la mia reazione, Dandy mandò una risatina dolce. – Ma
no, stupido. Non in quel senso. Smetterai di soffrire soltanto se starai qui
con noi. Con me, con Izumi, con Thomas… e con tanti altri che ancora non hai
conosciuto, ma che conoscerai al party di stasera. –
A quelle parole, io
mi zittii. Come sempre, quando ci troviamo di fronte a parole così importanti,
non sappiamo cosa dire o come reagire. Io mi limitai a pensare a tutti i miei
affetti, ad Ermanno, a Francesco, ai miei genitori… e a tutto ciò che avevo
lasciato lì, in quella città che forse non mi aveva voluto veramente bene, ma
che mi aveva lasciato tanto a cui badare.
Come leggendomi nel
pensiero, Dandy mi disse – Tu vuoi veramente tornare da tuo fratello, che ti ha
ripudiato solo perché ti piacciono i ragazzi…? – disse, e questo mi fece
trasalire ancor di più.
- Che vuoi dire
esattamente? – gli domandai, con gli occhi fuori dalle orbite per lo stupore.
- Quando ci siamo
incontrati – incominciò Dandy – Tu stavi tornando da Milano. Tuo fratello ti
aveva appena ripudiato perché ha scoperto che ti piacciono i ragazzi. Non so
nemmeno io come abbia fatto, ma credo che c’entri qualcosa con la sua storiella
passeggera con quella ragazza bionda… Marika, mi pare che si chiami. –
Improvvisamente, tutto mi fu più chiaro.
- Poi hai avuto quel
mezzo incidente stradale, da dove ne sei uscito illeso. Tuttavia lo shock è
stato grande, per cui ti sei addirittura dimenticato da dove provenivi, su
quell’autostrada. Ecco in soldoni cos’è successo. – concluse Dandy. Io stavo
per sentirmi male. Tuttavia, Dandy continuò con il suo discorso.
- E adesso Donatello,
dimmi… Vuoi veramente tornare dal tuo coinquilino Francesco, che ogni volta che
si porta un ragazzo a casa ti fa diventare verde d’invidia…? Vuoi veramente
tornare dai tuoi genitori, così occupati a preoccuparsi di risparmiare sulle
bollette e che non ti hanno mai parlato, nemmeno quando ne avevi bisogno…? –
concluse. I suoi occhi azzurri mi guardarono con attenzione. Erano severi e
dolci, scrutatori ed espressivi, amorevoli e cattivi, tutto allo stesso tempo.
Occhi che avrebbero ammaliato chiunque, me compreso. – Lo vuoi veramente…? –
ripeté Dandy, continuando ad accarezzarmi le mani.
Io lo guardai negli
occhi, e non sapendo cosa dire, incominciai a piangere. Non ce la facevo più,
ero distrutto. E quelle erano lacrime serbate da troppo tempo. Invece di
fermarsi, lui continuò.
- Vuoi veramente
tornare ad una vita fatta di ozio, rancore e malinconia, dove la giornata più
bella per te significa trovare su uno di quegli squallidi portali che
frequenti, un messaggio insignificante da parte di un ragazzino cretino che non
sa cosa vuole ma sa benissimo dove lo
vuole? – qui era chiara l’allusione sessuale, ma non servì a farmi ridere, anzi
mi provocò ancora di più l’accesso di pianto che stavo avendo.
Dandy si alzò in
piedi, ed io osservai come i suoi capelli biondi, che formavano un insieme di
punte perfette, lo facessero sembrare ancora più alto di quanto già fosse. – E
dimmi, Donatello… Vuoi veramente tornare in quel mondo che consideri la tua
vita, fatto di dispiacere e mestizia, di poche, pochissime, anzi nessune gioie, che tu tanto cerchi ma
che non arrivano mai? – iniziò a girare attorno, mentre io scuotevo la testa e
piangevo di più.
- E rispondi a
questo, Donatello… vuoi veramente tornare là, dove non ti basta una vita per
raccogliere e mettere insieme i cocci del tuo cuore dopo che un idiota te l’ha
spezzato, senza una ragione precisa, ma solo perché ha deciso che sei troppo
grosso per i suoi gusti ma perché in realtà è lui a non sapere cosa vuole? –
alzò la voce, guardando intensamente con quegli occhi azzurri, nei miei occhi
gonfi di lacrime - vuoi veramente tutto
questo?!? –
-
N… no
… - biascicai io, singhiozzante e definitivamente minato in quella piccola,
fragile parte di me che fino a quel momento era stata soltanto danneggiata da
attacchi blandi di delusioni amorose… quella parte che dentro di me prendeva il
nome di volontà. E piansi, piansi più forte, latrando come un cane sciancato,
mentre Dandy mi veniva vicino e s’inginocchiava di fronte a me.
Di nuovo, mi prese le
mani nelle sue, come un uomo che dichiara il suo amore ad una donna e le chiede
di sposarla per la prima volta. Io mi accasciai accanto a lui, che mi prese e
mi abbracciò.
- Shh… - mi sussurrò
all’orecchio, carezzandomi i capelli – Questa sera ci sarà la festa, poi ce ne
andremo da questa Italia malata e dalle sue molte, troppe contraddizioni.
Andremo a vivere ovunque… il mondo sarà la nostra casa, e non soltanto questo.
Mondi infiniti e sconosciuti, dove non esiste il dolore, ma c’è soltanto gioia
e dolcezza. E tu rimarrai al mio fianco. Al mio fianco e con tutti i nostri
amici. – concluse. Ci fu un minuto di silenzio in cui Dandy mi coccolò, mentre
io mi ero calmato. Le mie guance erano ancora solcate da lacrime calde, e Dandy
se ne accorse. Dolcemente, prese a baciarmi le guance umide, asciugandomi le
lacrime. Io chiusi gli occhi, lasciandolo fare… mi sentivo distrutto, ma allo
stesso tempo sapevo che Dandy era venuto al mondo per una sola ragione:
salvarmi. Annusai il suo dolce profumo maschile. Un profumo che avevo sentito
addosso a molti di quei ragazzi che avevo incontrato, a volte solo come una
traccia, altre perché li avevo baciati sul collo. E lo aspirai a fondo,
perdendomi nei ricordi, mentre Dandy mi cullava. Ben presto, anche la mia vita
di prima sarebbe stata soltanto un ricordo.
- Un brutto ricordo
che cancelleremo assieme, amore mio… - disse Dandy, continuando a baciarmi le
guance, fino a baciarmi poi le labbra. Di nuovo mi guardò negli occhi, dolce
come mai prima di allora.
- Io ti amo. Tu mi
hai creato, ed io ho il complesso di Elettra. Sì, sono innamorato di mio
“padre”, che sei tu. Anche se abbiamo la stessa età. – mi sorrise dolcemente,
baciandomi ancora le labbra.
- Ed… ed io… Io amo
te, Dandy. – risposi, balbettando un po’ a causa del pianto. Lui mi sorrise.
- Vai a sciacquarti
il viso. Gli ospiti stanno per arrivare. – Io annuii, e ci alzammo entrambi dal
pavimento foderato di moquette. Io diretto verso il bagno, Dandy diretto verso
il salone.
- Che la festa
cominci – dichiarò Dandy, in tono quasi trionfale. vuoi veramentevvvvvvvvvvvv
Altro che aspettare
l’uomo con l’impermeabile. Dopo il discorsetto di Dandy, ero persuaso, se non
del tutto deciso, a rimanere lì con lui ed abbandonare l’Italia, come mi aveva
promesso. Qualunque cosa fosse ciò che stavo vivendo, era sicuramente meglio della
vita che facevo prima, se ci si abituava a non pensare più a genitori,
fratello, amici e incombenze varie. Sì, si sarebbe trattato soltanto di abituarmi all’idea che da quella sera in
poi, avrei fatto parte per sempre della vita di Dandy. Sarei scomparso dalla
vista della mia famiglia per sempre, Ermanno (che secondo le parole di Dandy mi
aveva ripudiato perché ero gay) si sarebbe occupato dell’affitto di Francesco,
sempre che quest’ultimo non si fosse deciso ad andare a cercarsi un altro
appartamento, ed i genitori avrebbero pianto una scomparsa.
A tutto questo
pensavo, mentre mi aggiravo tra gli invitati alla festa: contrariamente alle
mie aspettative, non erano tutti maschi. C’era anche qualche ragazza, a detta
di Dandy erano le sue segretarie (e lì mi balenò nella mente il dubbio che
Dandy fosse bisessuale, non soltanto gay) ed amministratrici del patrimonio (quale patrimonio? Non avevo mai venduto
un albo a nessuno, erano tutti di produzione privata, e mai avevo accennato al
fatto che Dandy fosse un riccone, ma solo un ragazzo dolce che passava un sacco
di avventure). Di solito le feste mi mettevano malinconia. Avevo persino smesso
di accettare gli inviti di Francesco ad accompagnarlo in discoteca, perché
sapevo benissimo che tutti quei bei ragazzi non mi avrebbero mai calcolato, a
causa del mio aspetto troppo ordinario. Invece qui… qui insieme a Dandy era
tutto diverso. I ragazzi mi parlavano, mi ascoltavano… dicevano cose sensate.
Non mi guardavano con disprezzo come facevano i ragazzi in discoteca della mia
vita precedente, ma con un’aria di sincera felicità, forse riconoscendo in me
il loro creatore, colui che li aveva portati alla vita dalle nebbie dell’idea,
aveva conferito loro un volto ed un corpo, continuando laddove la fantasia si
era fermata.
Quanto mi sarebbe
costato, in termini di tempo, dimenticare famiglia e affetti? E quanto, questi
miei personaggi, avrebbero saputo compensare la loro mancanza? Continuavo a
chiedermelo, e queste domande mi stringevano lo stomaco, nonostante avessi
consumato tonnellate di tartine solo perché i ragazzi me le offrivano, e
ammiravano divertiti come io le gustassi con piacere.
Sì, forse il mio
posto era lì, in mezzo ai miei amici di carta.
Non altrove.
- Donatello!
Donatello! – mi chiamò un altro gruppetto di ragazzi – Vieni a fare una foto
con noi? –
Erano tutti
bellissimi, senza la minima imperfezione. Ed erano gentili, come forse li avevo
sempre e solo visti nei miei sogni. Ragazzi così carini ed affabili allo stesso
tempo, nella realtà non esistevano. Mi avvicinai a loro, con la mia flϋte di champagne in mano, e mi
misi in mezzo al gruppo di quattro. Loro erano bellissimi, ma io mi vedevo il
goffo grassone di sempre, anche se vestito di un costosissimo smoking da sera
con cravattino bianco.
Uno di questi, quasi
leggendomi nel pensiero, mi disse – Donatello, se vuoi potremmo andare a fare
jogging ogni tanto, sai? In due viene meglio. – condì la frase con una
strizzata d’occhio finale. Il suo ciuffo moro si mosse, facendo scintillare i
suoi occhi gialli.
- Volentieri, grazie,
Will. – ringraziai, aggiungendo che mi avrebbe trovato sempre qui d’ora in poi.
A casa di Dandy. Lui ringraziò e se ne andò.
Poco dopo mi
avvicinai ad un altro ragazzo che sembrava lì solo, per offrirgli un po’ di
champagne. Lui accettò di buon grado, e per ricambiare, mi invitò a ballare con
lui al prossimo ballo.
Guardai Dandy. Lui
era lì che parlava con altri ragazzi, compresi quelli con cui avevo fatto la
foto poco prima. Era bellissimo, e chissà per quanti irraggiungibile.
Ed era il mio
ragazzo.
L’orchestrina suonò
un minuetto di quelli che si usavano alla corte di Luigi XVI, il classico
minuetto francese che tanto era apprezzato nell’alta società. Danzai con il
ragazzo sconosciuto per un tempo indefinito, scambiando con lui sorrisi e
parole, raccontandogli di quanto la mia vita di prima fosse sconvolgente, di
quanta invidia mi faceva il mio amico Francesco, di quanti esami avevo da fare
prima di laurearmi. Discorsi in libertà, che forse prima mi erano preclusi, ora
fluivano dalla mia bocca liberamente, con la certezza di venire ascoltato e
capito. Il ragazzo ad un certo punto mi disse – Chiamami Alvin. Il mio nome è
questo. – disse, dolcemente.
Io gli sorrisi, e lo
esortai a parlare un po’.
Venne fuori che Alvin
conosceva Dandy da un sacco di tempo, che avevano studiato insieme
all’università e diviso un sacco di gioie e dolori… Si autodefinì il suo
migliore amico di sempre, forse perché il più vecchio. Guardandolo, mi sembrò
che anche lui fosse uno che avevo già visto da qualche parte, nella mia vita
precedente.
- Siamo tutti
personaggi creati da te – disse Alvin, quasi leggendomi nel pensiero – ci hai
creati prendendo spunto da molti ragazzi della tua vita precedente, per questo
ti sembra di conoscermi già. L’unica differenza è che noi non ci potremmo mai
comportare male con te. Tu sei come nostro padre, ed un figlio che si ribella
al proprio padre non è degno di essere un figlio. – concluse con un sorriso.
Già…
io sono loro padre. Pensai con un sorriso amaro. Questa è la mia famiglia. Questa, e
nessun’altra.
Finito il minuetto,
io ed Alvin ci fermammo, scambiandoci un inchino (sembrava quasi che il ragazzo
intuisse ciò che io volevo fare) e ringraziandoci l’uno con l’altro per il
ballo. Intanto, sul palcoscenico, Dandy fece la sua entrata in scena. Il suo
smoking bianco, alla luce della luna, lo rendeva molto affascinante, tanto che
sembrava brillare di luce propria. Gentilmente, prese un microfono dal
palcoscenico, e senza nemmeno bisogno di richiamare su di sé l’attenzione, tutti
gli invitati alla festa si voltarono.
- Ciao a tutti, amici
– disse Dandy, tenendo il microfono come una rockstar. Si vedeva che lo faceva
per mera coreografia, ma ugualmente aveva un che di affascinante. - …vi ho
invitati qui anche stasera perché queste serate d’estate sono veramente noiose
e calde. – questa frase provocò l’ilarità generale di tutti. Me compreso, che
me ne stavo lì a braccia incrociate. Accanto a me c’era sempre Alvin.
Rise anche Dandy, ma
si calmò subito - Scherzi a parte, vi ho invitati qui questa sera perché è
bello sapere che un ragazzo può contare su tanti amici. Ed io sono veramente
felice di avere voi, ragazzi… -
- Grande Dandy!!! –
disse un ragazzo con i capelli blu, pieno di piercing.
- Amore, sei
stupendo!!! – questa era una voce femminile, a cui Dandy rispose con un
occhiolino.
Ci fu un applauso,
che Dandy prese come se niente fosse, tranquillamente, sorridendo e
inchinandosi. Dopo pochi secondi riprese la parola.
- Inoltre a questo,
volevo anche dirvi (ma sicuramente lo saprete già) che stasera è presente qui
con noi la persona che io amo forse più di tutti. – Allungò il collo per
cercare di scorgere qualcuno, finché non lo vide. – Donatello. – chiamò il mio
nome, e con la mano mi fece segno di raggiungerlo.
Tutti applaudirono, e
quelli che mi erano davanti mi lasciarono passare, formando una specie di
sentiero. Mi sentii come il Papa in visita in una città nuova, con tutti i
fedeli che lo salutavano e volevano stringergli la mano. Io sorrisi a tutti,
fui accarezzato, fui addirittura baciato (mi domandai se Dandy l’avesse presa
bene, o se mi sarei dovuto sorbire una ramanzina più tardi), da un bellissimo
ragazzo con i capelli verdi, un visino bellissimo che indossava soltanto un gilet
ed un paio di pantaloni bianchi, ed ai piedi un paio di infradito nere. Mi fece
l’occhiolino, ed io non seppi cosa fare, se non tirare avanti per raggiungere
Dandy fino al palco.
- Krys, lascialo
stare, lui è mio! – rimbrottò scherzosamente Dandy dal palco. Il ragazzo con i
capelli verdi, Krys, gli rispose per le rime – Sarà anche tuo, però la sua
bellezza e bontà dovrebbero essere di dominio pubblico! – e tutti applaudirono
di nuovo. Diversamente, io mi sentivo imbarazzato e contento allo stesso tempo.
Rosso come un
peperone, raggiunsi il palcoscenico, salutando tutti con dei cenni del capo, e
alzando brevemente la mano destra.
- Donatello! – mi
richiamò all’ordine Dandy – Ma cos’è quest’aria dimessa, da Ragionier Fantozzi?
Coraggio! Apriti un po’, mostrati per come sei… non vedi che tutti questi bei
ragazzi ti vogliono bene? – non sapevo cosa dire. Dandy cercò di incalzarmi
prendendomi sottobraccio. In mezzo a noi, c’era solo il microfono che lui
teneva nella mano destra.
- Che cosa c’è,
amore? – sussurrò. – Non sei contento di essere qui? –
Io feci un sorriso.
Ero rosso come un peperone. – S… sì. Sono contento. – dissi – E sono contento
di … di sapere che… - non ero mai stato bravo a parlare quanto ero bravo nel
disegno - …che c’è gente che mi consideri come una persona stimabile,
addirittura da amare. Davvero, non … non mi era mai capitato prima d’ora. –
Sentendo che mi stavo un po’ sciogliendo, Dandy mi porse il microfono, ed i
suoi occhi azzurri mi dicevano Vai
avanti, tesoro, ce la puoi fare.
Con il microfono in
mano, iniziai a dire tutto ciò che mi passava per la testa in quel momento.
- Sapete, io… io ho
sempre pensato che un ragazzo, per essere felice, ha bisogno di tre cose:
serenità, stabilità, sicurezza. Io l’ho sempre chiamata la regola delle “Tre
Esse”, ma non l’ho mai messa in pratica. Vedete, io sono un tipo terribilmente
insicuro, troppo instabile mentalmente, e di certo non sono sereno per come la
vita mi scodelli su percorsi che talvolta sono difficili da percorrere. – feci
una pausa, grattandomi la testa.
- Non ho mai pensato
che la vita fosse facile, ma nemmeno che sarebbe stata così crudele nei miei
confronti. Guardatemi, non sono un adone, ho qualche chilo di troppo e questo
basta a far scappare tutti quanti… -
- Hoo! Sei bellissimo, Donatello!!!- disse
Krys, il ragazzo che mi aveva baciato.
- Uno schianto!- la
voce di un ragazzo palestrato con un ciuffo stile emo che faceva impazzire.
- Ma chi sono questi
coglioni che non ti vogliono? Dai, facceli conoscere che li legniamo per bene!
Mi ti farei subito senza aspettare! – disse un ragazzetto con i capelli rosso
fuoco.
Io arrossii ancora di
più. Lanciai un’occhiata a Dandy, che scuoteva la testa, sorridendo divertito.
- Ehm, ecco… grazie
per apprezzarmi, ragazzi. Siete tutti bellissimi anche voi. E gentili,
soprattutto… Ecco, io volevo dire che… Che ne ho passate di tutti i colori,
ragazzi. Voi non sapete cosa sia la vita di un ragazzo gay un po’ sovrappeso –
dissi, iniziando a gesticolare come un politicante. – Voi non sapete nemmeno
cosa significhi dover fronteggiare persone che non ti rispondono solo perché
hai qualche chilo di troppo, o che ti evitano, o che ti mollano, perché non
sanno bene cosa vogliono. Tu ti alzi ogni mattina, ti vesti, fai le tue cose…
tutto con la speranza che un giorno o l’altro arriverà quel qualcuno di
speciale che tanto aspetti… E nel frattempo ti proponi, provi a mandare qualche
messaggio, fai qualche complimento… - Sospirai, abbassando la mano in modo
molto teatrale - …ma non arrivi a capo di nulla. Perché? Perché con i tuoi
chili di troppo, non appartieni più al loro mondo! il loro mondo fatto di merda e modelli, a cui importa solo apparire
e non essere! – preso dalla foga del discorso, alzai un po’ la voce. Non
era una conferenza. Non c’erano sedie, e sicuramente qualcuno dei partecipanti
stava già sbadigliando, o desiderava sedersi. Invece nessuno sbadigliò, anzi
tutti annuirono ed applaudirono a quel mio sfogo.
- Bravo Donatello! –
la voce di Alvin, da lontano.
- Dovevamo fare un
collegamento nazionale… anzi in mondovisione, tanto sono sagge le parole che
sta dicendo! – Questo invece era uno che non conoscevo, ma ugualmente carino.
Come tutti, del resto.
- Per concludere –
ripresi – Voglio dire che io sono veramente contento di essere qui insieme a
voi questa sera. Ma soprattutto, sono contento di essere insieme a colui che
più mi ha aiutato nei momenti bui, colui che è stato sempre lì a spendere una
parola di conforto quando mi sentivo giù… E che quando mi ha visto proprio in
difficoltà… - Feci una lunga pausa, voltandomi per guardare Dandy, poi ripresi
- …è arrivato per salvarmi. Ragazzi e ragazze, un caloroso applauso per il
vostro amico Dandy Landy, nonché mio fidanzato ufficiale. –
Ci fu un grandissimo
applauso. Dandy si avvicinò, mi tolse il microfono di mano e mi baciò
appassionatamente sulle labbra. Fu il bacio più bello che avessi mai ricevuto.
Mentre fuori la festa
continuava, io mi rintanai in bagno. Ero leggermente sbronzo, e per evitare di
dover correre a letto per la stanchezza, mi sciacquai ancora la faccia. Lo
specchio dava sul giardino esterno, completamente deserto, dal momento che la festa
si stava svolgendo nel giardino interno. Mi guardai allo specchio. A sentire le
mie parole di poco fa, ci sarebbe stato da domandarsi se non fossi diventato
completamente matto. Forse sì, o forse no. Francamente non m’importava più
nulla di cosa stesse succedendo, l’importante era che per una volta mi sentissi
veramente a casa.
A proposito di casa,
in ogni caso sentivo che Dandy mi aveva mentito. Sebbene avesse ripetuto che
c’era stata un’altra festa, ieri sera, allora perché credevo di essere stato a casa
mia, e di aver contattato un ragazzo con l’impermeabile?
- Forse perché ci sei
stato veramente, ed il tuo “Fidanzatino” è un figlio di puttana che vuole
tenerti prigioniero. –
Mi voltai di scatto.
Appoggiato alla finestra c’era il ragazzo con l’impermeabile, ancora tutto
intabarrato.
- Sei ancora tu?! –
dissi – Ma si può sapere cosa vuoi?!? –
- Aiutarti – disse
quello, secco. Mi venne vicino con fare aggressivo, tanto che io andai alla
porta, cercando di sfuggirgli. Non feci in tempo a guadagnare la maniglia, che
lui mi bloccò, tappandomi la bocca con una mano.
- Shh. – mi intimò. –
Vieni con me. Voglio aiutarti. – ripeté. Ma io non mi volli convincere. Sentivo
il suo fiato alitarmi sul collo, nonostante la sua sciarpa fosse ben spessa.
Era molto forte, tanto che mi trascinò fino alla finestra, dove controllò bene
che non ci fosse nessuno.
- Adesso stammi a
sentire, bamboccio – disse, con voce ferma – Quello che ti dirò non ti piacerà,
ma è mio preciso dovere dirtelo. Apri bene le orecchie, perché non ripeterò.
Okay? –
Io scossi la testa,
ma lui mi scosse violentemente, per richiamarmi all’ordine. A quel punto io
annuii.
- Bene. Allora, devi
sapere che … -
Ed incominciò a
parlare, lentamente, affinché io potessi capire. E quello che sentii mi fece crollare
le gambe dallo stupore.
Con l’ausilio di un
i-Pad, il ragazzo misterioso mi fece vedere ciò che mi era successo. Osservammo
entrambi in silenzio.
La scena si apriva
con una visione laterale di me che guidavo la mia auto, percorrendo
l’autostrada ad alta velocità. Ad un certo punto, ero prossimo a sorpassare due
mezzi, ovvero l’autotreno e l’autoarticolato. Il primo andava qua e là, come se
il conducente fosse stato ubriaco. Vidi me stesso mettere una mano al centro
del volante e mandare un prolungato squillo di clacson, nel tentativo di
riportare la situazione alla normalità.
E fu allora che
accadde.
L’autotreno virò
bruscamente a sinistra, proprio nella corsia dove stavo sopraggiungendo io. Il
vagone che trasportava dietro speronò pericolosamente la mia auto, nonostante
io avessi tentato di frenare. Vidi il veicolo sbattere contro il guard-rail, e
la mia macchinina che andava a sbatterci contro, fracassandosi e contorcendosi.
Avvertii un moto di dispiacere nel vedere la mia Audi fare una fine così
orribile, e non volli vedere oltre. Non volevo vedere com’ero ridotto.
- Non importa, non è
necessario – disse il ragazzo con l’impermeabile, facendo scomparire l’i-Pad in
una tasca del giaccone – Sei entrato in coma. Adesso ciò che conta è che tu
devi tornare nella tua realtà. Tutto questo è il nulla. Non siamo veramente a
Bologna, e Dandy non esiste. Non è mai esistito, se non nella tua fantasia. Se
vogliamo, unica artefice di tutto questo… -
- A me piace stare
qui – dichiarai, sottovoce.
Freddo come una
macchina, l’individuo rispose – Non puoi stare qui per sempre. Ciò che vedi
oggi, domani potrebbe non esserci. Tutto dipende da cosa succederà al tuo corpo
materiale. Se muori, tutto questo scomparirà. Lo capisci? Dimmi, cos’è meglio?
Risvegliarsi e sperare che le cose cambino, oppure dormire e sognare un mondo
vuoto e sterile, che da un momento all’altro potrebbe scomparire? –
- Non… non lo so… il
mondo … fuori… è … è ostile, con me. – dissi, parlando piano.
Il ragazzo mi mise
una mano sulla spalla. – Donatello… il mondo non è buono con nessuno, credimi.
Non credere che qualche chilo in meno ti faciliterebbe la vita. Quel che conta
è riuscire a resistere alla cattiveria dilagante. Ma non è rinchiudendosi in un
mondo di carta, che lo farai. – disse, grave. In un certo senso, mi inquietava
parlare con una persona che era tutta camuffata. Ormai pensavo di capire
perché: non voleva farsi riconoscere da me.
- Allora, cos’hai
deciso? – mi chiese.
Mi guardai intorno.
Potenza della mente! Tutto ciò che c’era lì era talmente realistico da sembrare
vero! Ed io l’avevo creato. Era così
bello, così accogliente… così dolce, stare a contatto con tutti quei personaggi,
con Dandy… il mio Dandy. Ma questo era un mondo che si reggeva su un
fiammifero. Un fiammifero sottile che era forse la fiamma di vita che ancora mi
era rimasta. Chiusi gli occhi, pensando a tante cose.
Poi, finalmente,
decisi.
- D’accordo. Andiamo.
–
L’individuo annuì.
Ebbi l’impressione che stesse anche sorridendo.
Era ancora notte
fonda, ma la festa continuava. Nessuno degli ospiti stava ancora iniziando ad
andarsene, così io ed il ragazzo potemmo sgattaiolare indisturbati nel giardino
antistante la casa.
- Come facciamo ad
uscire? – domandai.
- Di là – mi indicò
un punto dove c’era un albero – c’è un albero abbastanza robusto. Ci
arrampicheremo e ci caleremo dall’altra parte tranquilli. Io sono entrato così.
– mi disse.
- Ok. – risposi io,
fidandomi. Ci avvicinammo a quell’albero.
- Prima tu – disse
lui. Io annuii.
Mi arrampicai
velocemente su quei rami. Nonostante il peso, da ragazzino ero stato ottimo
arrampicatore di alberi, e certe cose non si dimenticano. Giunto in prossimità
del ramo un po’ più robusto, sentii una voce.
- Ehi, ma che cosa….?
– era la voce di Thomas, il ragazzo che stava curando il giardino quando io
feci la mia prima uscita con l’auto.
- Zitto! – gli intimò
il ragazzo in impermeabile, tirandogli un pugno. Thomas andò giù senza tanti
problemi. Intanto lui si arrampicò in fretta, quasi scavalcandomi. Io scesi giù
in strada, avvertendo un po’ di dolore alle ginocchia.
- Svelto! Non ci
metteranno molto a capire che sei fuggito! – mi intimò, e corse via.
- Ehi, aspetta! –
Iniziai a corrergli
dietro. Corse per un bel po’ di metri, prima di fermarsi in un angolino della
strada. Lì premette un tasto ed io riconobbi le luci lampeggianti e la forma
della sua Opel Meriva.
- Monta su, forza. –
Senza farmelo
ripetere due volte, io aprii lo sportello e mi accomodai al posto passeggero.
Improvvisamente però, sentimmo il rombo di un motore.
In lontananza, vidi
il cancello della villa di Dandy che si apriva, ed un grosso macchinone blu
scuro che ne veniva fuori.
- Cazzo! Se ne sono
accorti! Filiamocela! –
Velocemente, il
ragazzo si mise al posto di guida, accese il motore e partì molto velocemente
su quelle stradine collinari. Dietro, l’auto ci inseguiva.
- Ci sono addosso! –
esclamai terrorizzato, mentre Humphrey (avevo deciso di chiamarlo così, il tipo
con l’impermeabile, come l’indimenticabile Humphrey Bogart, non conoscendo il
suo nome) guidava la Meriva con l’agilità di un felino ma senza scomporsi.
Evidentemente era abituato a destreggiarsi in inseguimenti come quello, anche
data la sua tendenza all’anonimato. Io dovetti tenermi stretto alla maniglia
per il passeggero, dato che la cintura di sicurezza funzionava per quel poco, e
non di certo contro le improvvise sterzate.
Humphrey sterzò
bruscamente scendendo ancora giù, mentre il macchinone si incagliò nel fosso.
Io osservavo i movimenti, certo che, se avessero per caso sparato (ma ne
dubitavo fortemente), non mi avrebbero visto attraverso i vetri oscurati della
Meriva di Humphrey.
Un’auto arrivò dalla
corsia opposta, e noi avevamo invaso il suo spazio. Questa ci lampeggiò
furiosamente, suonando anche il clacson. Humphrey sfruttò la situazione a suo
favore: l’auto di Dandy ci era dietro, e proprio mentre l’auto in senso
contrario si stava avvicinando, Humphrey sterzò bruscamente a destra, saltando
nella corsia giusta. Il grosso macchinone degli uomini di Dandy finì a sbattere
contro l’altra auto, in un gran botto.
- Ah-hah! Li ho
fottuti! – esclamò Humphrey, forse nell’unico momento in cui lasciò trasparire
le sue emozioni, attraverso quel pesante camuffamento. Riconobbi in
quell’entusiasmo un qualcosa di familiare.
La Meriva viaggiò per
un bel po’ di chilometri. Attraversò un pezzo del centro di Bologna, così
sonnacchioso e silente, talmente tanto che addirittura i ragazzi seduti ai
tavolini dei bar sembravano dormire, nonostante le loro gaie espressioni che a
me risultavano senza voce, chiuso nell’abitacolo dell’auto di Humphrey…
Sembravano così felici e spensierati, e pensare che erano soltanto frutto di
una mia allucinazione. O forse no? Forse erano veri, ed io ero un fantasma che
ora stava percorrendo Bologna a bordo di un’auto, insieme ad un misterioso
individuo che poteva essere chiunque… Un amico, un nemico… forse la Morte in
persona, così oltraggiata all’idea che una sua creatura potesse far parte di un
mondo di carta dove non si muore mai, che era venuta a strapparmi via dalle
braccia di Dandy proprio quando io mi sentivo felice…
Perso in quei
pensieri, pensai che forse dovevo dare un ultimo saluto a Bologna. La città
dov’ero nato, cresciuto, vissuto fino a che la vita non aveva iniziato
lentamente a cedere, sotto il peso dell’età… E del mio orientamento sessuale.
Guardai gli accessi al centro storico che erano le Porte. Mi era sempre
piaciuto pensare che, ai tempi di Carlo Magno, Bologna era molto più piccola di
come lo era adesso, e che i viali tutt’attorno prima non esistessero, ma
fossero soltanto dei fossati o dei battuti di terra, forse nemmeno buoni per
coltivarci nulla, ma che in un futuro inimmaginabile sarebbero diventati strade
asfaltate… Sotto quei portici avevo dato il mio primo bacio.
Si chiamava Daniele,
lui. Aveva due anni più di me, non era bellissimo, ma ci parlavamo
tranquillamente. Era appassionato di informatica, quando io ancora non sapevo
nemmeno da che parte si accendesse un computer, né cosa fosse internet. Mi
iniziò lui, a questa grande meraviglia che avrebbe cambiato il mondo (nonché le
mie abitudini), così come mi iniziò al mondo gay. Dapprima erano solo locali
pieni di gente strana, che lui chiamava “Amici”, che io vedevo come persone
stravaganti dalle acconciature e dall’abbigliamento totalmente strano... senza
rendermi conto che essi erano quelli che venivano chiamati, in maniera
affettuosa, “Froci” sui muri della scuola. E anche Daniele, lo era, un
“Frocio”, non era forse vero? Sì che lo era. Me lo confessò un giorno di
pioggia, e mi propose di provare a baciarci. E così successe. A Porta San
Vitale.
Da allora, le cose
non erano più state le stesse, tra di noi.
(devi svegliarti!
Devi scappare!)
E da allora, cominciò
la sfilza delle delusioni, per me.
Sospirai, perso nei
ricordi. Intanto, l’auto viaggiava, sul Ponte Stalingrado, diretta chissà dove.
Non ebbi il coraggio di chiedere nulla. Non volevo sentire più nulla da
nessuno. Volevo soltanto che questa storia si risolvesse, in un modo o
nell’altro. Volevo smettere di soffrire.
- Sei triste? – mi
domandò Humphrey. Anche se non lo vidi, intuii che mi aveva lanciato
un’occhiata.
- Non lo so – risposi
io, frastornato. Giocherellavo con il cravattino del vestito da sera, così
bello e setoso… - Il problema è che non so se ho fatto la cosa giusta, a
seguirti. –
Humphrey inchiodò
l’auto di botto, forte e sicuro che non ci fosse nessuno dietro a protestare.
Si fermò all’altezza dell’incrocio con Via del Lavoro, nonostante il semaforo
fosse verde. Attivò i lampeggianti di emergenza e si voltò verso di me. Io ero
bianco dal terrore.
- Dove vuoi che ti
porti? Indietro, dal tuo amato personaggio di carta? Dimmelo subito. Anziché
andare dritto e portarti dove devo, posso svoltare a destra, fare il giro
dell’isolato e riportarti indietro nella zona collinare. – mi disse. Il suo
tono era vagamente stizzito. – Possiamo fare così, se è questo che vuoi
veramente. –
Non avevo fiato in
gola per protestare. Avevo già sentito quel tipo di discorso da Dandy, ed era
stato abbastanza persuasivo. Ora venivo messo di fronte ad un’altra scelta.
- P… perché mi … mi
stai dicendo questo? Tu non… -
E fu a quel punto che
Humphrey sbottò. – Perché mi sono rotto le scatole, ecco perché! Cazzo, ma hai
idea di quanti anni hai? No? Bè, se non ce l’hai, te la do io: hai ventiquattro
anni suonati, e ancora ti rifugi nei sogni per guarire dal dolore che ti da il
mondo reale? E dire che lo sai meglio di me, che un mondo virtuale non ha le
stesse attrattive di quello reale! Hai passato anni, su quel dannato computer
ad innamorarti di persone che poi ti abbandonavano, e adesso vorresti dirmi che
un mondo a fumetti è migliore del
mondo reale? –
A quel punto, fui io
a rispondergli, alterato – Ed io ti ricordo che in quel bellissimo posto che si
chiama Mondo Reale, io sono in coma, perché ho avuto un incidente del cazzo su
quella fottutissima autostrada, tutto per colpa di uno stramaledettissimo,
l’ennesimo imbecille che mi ha preso ed usato, secondo le sue fregole di gatto
in amore! Allora? è un reato rifugiarsi
nei sogni? rispondi! –
Con una calma che
prima non c’era, Humphrey mi rispose – Non è un reato. E nemmeno una cosa
brutta. Ma va usata con cautela. D’accordo, forse non è colpa tua… magari è il
tuo subconscio che ha proiettato tutto questo, solo per il dolore di… -
- Oh, fantastico! –
esclamai io, ancora incazzato – Adesso mi staresti anche dicendo che ho bisogno
di uno psichiatra perché la mia mente fa vivere dei personaggi che esistono
soltanto nella mia mente, vero? –
- Non ho
assolutamente detto questo – ribatté lui, sempre calmo. – Sto solo dicendo che…
là fuori tu hai una famiglia, che ti vuole bene. Un fratello, che stravede per
te. –
- Davvero? Ah, che
bello! Questa è proprio la madre di tutte le stronzate!
Se non lo sai, mio fratello mi ha scacciato da casa sua, perché ha
saputo da quella puttanella di Marika, che ci scommetto i coglioni è un’amica
di Simone, che io sono gay! – conclusi, e con uno scatto uscii dall’auto,
camminando velocemente in direzione di Via Stalingrado. Incredibilmente, non
c’era nessuna auto in transito. Ero furioso, e al tempo stesso parecchio
amareggiato. Non sapevo dove andare né cosa fare, ma a questo ci pensò
Humphrey, che rimise in moto l’auto e mi raggiunse.
- Sali. – disse.
- No. – risposi io,
continuando a camminare.
- Se non sali, ti
corro dietro. E so che non ti piace. –
Mi fermai. In un
recesso, in fondo alla mia mente, sentivo di dover andare con lui. Era troppa
la curiosità, commista a dispiacere, che mi spingeva.
Lui sospirò. Anche se
era intabarrato nel cappello, ed il suo viso era coperto dalla sciarpa, potevo
leggere, in un’ipotetica faccia che avrebbe potuto avere, la disperazione. La
stessa disperazione che ora stavo provando io.
Sospirai anch’io,
guardandolo. Infine, mi convinsi che era meglio andare con lui.
Humphrey guidò fino
alla tangenziale, anch’essa così sonnacchiosa e semivuota da sembrare un set
cinematografico. Nell’attraversarla, io e Humphrey non scambiammo più alcuna
parola, certi di aver stabilito un punto comune. Dopo la litigata di poco
prima, la sensazione che in lui ci fosse qualcosa di familiare, si fece sempre
più concreta. Era come se, prima di dire le cose, io sapessi già cosa Humphrey
voleva dirmi. Una sensazione inquietante e straordinaria che non avevo mai
provato con nessuno se non si contavano i miei amici immaginari. In ogni caso,
se in quel mondo non potevo stare perché ne sarebbe andato dell’integrità
spirituale di qualcuno che mi amava, là fuori, d’accordo, sarei uscito e tornato
alla mia vita di sempre.
Vidi che la
tangenziale ormai stava per finire, e c’erano solo due direzioni possibili:
Milano o Firenze. Con la sicurezza di chi sapeva dove andare, Humphrey passò le
barriere e prese la direzione per Milano. In un certo senso, capivo cosa voleva
fare. E non mi piaceva.
- Spero solo di
ricordarmi il punto esatto. – disse, ad un certo punto. Io lo guardai, e lui
capii che avevo intuito cosa aveva in mente.
- Non aver paura –
disse – Non succederà nulla, e comunque sarà soltanto per il tuo bene. –
concluse, laconico.
- Se lo dici tu… -
- Lo dico io. –
ribatté lui, severo. – Fidati di me. –
Viaggiammo per un
altro paio d’ore buone, fino a giungere ad un cavalcavia. Poco più in là,
sorgeva una stazione di servizio. Humphrey mise la freccia e si inoltrò lì
dentro.
Il posto sembrava abbandonato.
Dove avrebbero dovuto esserci auto parcheggiate, sulle strisce bianche, c’erano
spazi vuoti. Sui marciapiedi, che a quanto ricordavo erano sempre pieni di
gente, non c’era nessuno. Perfino il ristorante, che anch’esso avrebbe dovuto
essere gremito, appariva spento e desolato. Un monumento all’abbandono bello e
buono, che mi attivò ben più di un allarme in testa.
- Humphrey – dissi
io, senza ricordarmi che lui non sapeva che l’avevo ribattezzato così – Sei
sicuro di volerti fermare qui? –
- Sicuro – rispose
lui, come se nulla gli importasse che gli avessi affibbiato quel nomignolo –
Tanto siamo arrivati. –
- Cosa? E come fai a
… - domandai. Ma Humphrey mi interruppe.
- Seguimi. – mi
ordinò, e scese dall’auto. Io lo seguii.
Dietro la stazione di
servizio, si aprivano i campi. Erba alta e umidiccia di rugiada si ergeva, come
un immenso mare verde. Io e Humphrey nuotammo in quella distesa, facendoci
largo tra le piante. Mi aspettai di vedere anche delle case in lontananza, ma
non ce n’erano. Anche questo mi suonò molto strano, ma non me ne preoccupai più
di tanto.
Camminammo in un
silenzio quasi mistico, rotto soltanto dai normali rumori della campagna (fra i
quali anche dei fruscii molto sospetti; forse delle vipere, e lì cacciai un
balzo di sorpresa). Annusai l’odore dell’aria con tutto me stesso, ricordando
cose che credevo di aver dimenticato. Quando ero piccolo, mio padre era solito
portarci a fare escursioni sulle colline intorno a Bologna, alla ricerca di
funghi e selvaggina. Cominciava tutto a fine estate, verso Settembre inoltrato,
quando le piogge che cadevano dopo aver atteso durante l’estate, favorivano la
crescita dei funghi più belli e succosi che la terra riusciva a creare. E la
stessa pioggia che faceva nascere i funghi, spandeva nell’aria un odore di
sottobosco che io, mio padre e mio fratello amavamo annusare. Odore di casa.
Odore di famiglia. Odore di felicità.
Sospirai, ricordando
quei bei ricordi che appartenevano ad un mio passato ormai lontano, e mi fermai
quando mi accorsi che io e Humphrey eravamo giunti sull’orlo di un precipizio.
Sotto di noi, un
baratro si apriva. E nonostante fosse quasi giorno, non si riusciva a vedere
cosa ci fosse alla fine di esso. Sembrava un pozzo senza fondo, una voragine
infinita apertasi all’improvviso sul pianeta terra.
- E adesso…? –
domandai, titubante.
Humphrey non rispose,
ma in compenso, successe qualcosa.
Dall’erba alta
sbucarono fuori nell’ordine: Dandy, Thomas, Krys, e tutti gli altri invitati
della festa, ancora vestiti per l’occasione. Io guardai tutti quanti a bocca
aperta, sorpreso. Humphrey si voltò, assumendo una posa di guardia. Io mi misi
le mani nei capelli dalla sorpresa mista a paura.
- Vieni con noi,
Donatello. Lascia andare lui. È cattivo. – disse Dandy, venendo avanti.
- C… cos…? –
balbettai io.
- Balle! Non
ascoltarlo, Donatello! Sta mentendo! – disse Humphrey, rivolgendosi a me ma
tenendo lo sguardo fisso su Dandy e la sua ghenga. Mi domandai se da un momento
all’altro avesse tirato fuori una pistola e fatto fuoco su tutti quanti.
Dandy rise – Se tu
fossi soltanto un po’ più comprensivo – attaccò Dandy – forse capiresti che
Donatello non vuole veramente tornare alla sua vita di sempre, ma vuole restare
qui. Insieme a noi. La sua vera ed unica famiglia. –
- Voi non c’eravate
quando lui era nato. Io sì. Voi non c’eravate quando al suo decimo compleanno
lui restò solo perché suo padre si era dimenticato di andare a prenderlo da
scuola. Io sì. E potrei elencartene centomila altre, di occasioni in cui io
c’ero e voi no! – rispose Humphrey, combattivo. Improvvisamente, iniziai a
capire chi era quel ragazzo.
Tutti i presenti si
misero a ridere, Dandy compreso. – Devi sapere che tu non hai nessun potere di
attrazione sessuale su Donatello. Proprio nessuno. Invece noi… Beh… - E qui
Dandy spostò lo sguardo su di me. Io arrossii di botto. - …Noi glielo facciamo
venire più duro di una colonna. Chiedigli cosa prova, quando ci disegna, uno
per uno. E chiedigli cosa va a fare dopo, in bagno, con le tavole dei suoi
stessi disegni. –
Humphrey mi guardò,
ed io mi sentii stranamente umiliato e offeso, come se per me Dandy e gli altri
non fossero altro che materiale per soddisfare i miei capricci sessuali
solitari…
- Avanti, amore,
diglielo. Io e tutti questi bei ragazzi ti piacciamo tanto, non è così? – mi
domandò Dandy. Humphrey continuava a guardarmi, aspettandosi forse che io
avessi detto qualcosa di intelligente, ma non era così. Abbassai lo sguardo, e
ripensai al discorso che Dandy mi aveva fatto la sera prima.
Un mondo d’amore, di
rispetto, di dolcezza, che avevo creato io stesso, si era rivelato soltanto un
mero strumento per soddisfare i miei appetiti sessuali. Ma era veramente
questo, ciò che volevo…?
(è
questo che vuoi veramente, Donatello?)
Non chiedetemi come,
non chiedetemi perché, ma l’unica cosa che mi venne in mente in quel momento,
guidato da una strana forza che mi stava letteralmente richiamando a sé, fu la
frase di un film con Keanu Reeves e Al Pacino.
- Libero Arbitrio. –
dissi, sollevando lentamente lo sguardo e guardando poi tutti i presenti.
E in una frazione di
secondo, mi lasciai cadere a corpo morto nel crepaccio oscuro.
Nooooooooooooooooooooo!
Donatellooooooooooooo!
Era la voce di Dandy.
Ah, mio caro, dolce, sensuale Dandy. Non c’era più nulla che tu avresti potuto
fare per me, adesso. Stavo precipitando nel vuoto, e né tu, né Humphrey, né
nessun altro avrebbe potuto aiutarmi.
Mentre cadevo, mi
sembrò di vedere una cosa. Come in una moviola, vidi Humphrey che si toglieva
il camuffamento, gettando via il cappello e la sciarpa.
Sotto di essi, si
profilò l’immagine di me stesso, Donatello, che mi sorrideva.
Hai
fatto la cosa giusta. Sembrava volesse dirmi, con quel
sorriso stampato in faccia. Poi lui e gli altri diventarono sempre più piccoli,
fino a che per me non ci fu nient’altro che tenebra.
Erano
circa le sei e mezzo del mattino quando Ermanno Tarasconi si svegliò. Anche
quel giorno gli sarebbe toccato un viaggio, e se le cose non fossero cambiate,
stava pensando, si sarebbe fatto trasferire lì dalla sua azienda, alla quale
aveva richiesto un numero impressionante di giorni di ferie, per stare accanto
a suo fratello, che giaceva in stato comatoso in un letto del reparto
rianimazione all’Ospedale di Pavia.
-
Vai…? – gli domandò Chiara, mentre al suo fianco, apriva gli occhi e lo
salutava.
-
Sì, amore. Vado. – disse, e la baciò dolcemente sulle labbra.
In
capo ad un’ora, Ermanno era già arrivato a Pavia. A quell’ora del mattino la
città lombarda era tranquilla, sonnacchiosa, ancora in dormiveglia. Guidò per
un pezzo di strada in rettilineo, svoltò in una via laterale ed arrivò in una
piazza dove in lontananza si riusciva a scorgere l’imponente edificio che era
l’ospedale. Guardò l’orologio, scuotendo la testa. Le visite sarebbero scattate
soltanto dalle otto in poi, ma a lui non importava andare in ospedale a fare la
bella statuina per un’ora in sala d’aspetto. Quella mattina aveva deciso di
fare qualcosa di più. Qualcosa che non faceva più da molto, troppo tempo.
Parcheggiò
l’auto in uno spiazzo antistante un luogo di culto; la Chiesa di Nostra Signora
della Misericordia. Nonostante l’ora, nel cortile interno scorse il sacrestano
che stava spazzando le foglie morte ed una fioca luce nella canonica. La chiesa
era aperta.
Varcò
la soglia d’ingresso, si bagnò le dita nella piccola vasca di marmo e si fece
il segno della croce guardando verso l’altare. Almeno questo lo ricordava.
Le
panche della platea erano vuote. Nemmeno un’anziana signora a recitare rosari
sottovoce. C’era soltanto lui.
Lui
e Dio.
Si
accomodò su una di queste panchine, in ginocchio. Congiunse le mani e aspettò.
-
Signore… - iniziò, a bassa voce - …se esisti veramente, ti prego, aiutami. Non
so più quanto tempo è che penso soltanto a mio fratello Donatello, da quando ha
avuto l’incidente. È ancora lì che dorme, ed io comincio a temere che non ci
saranno più speranze. – gli venne da piangere.
Grosse
lacrime calde rigarono il volto di Ermanno, che si portò le mani giunte alla
bocca ed iniziò a singhiozzare. – Se esisti veramente – ripeté – Ti prego,
perdonami. Perdonami per aver tradito mia moglie, per essere stato un cattivo
cristiano… ma soprattutto… perdonami per aver trattato male mio fratello. Non
serve che tu lo prenda a te per punirmi. Ho capito la lezione. Ma ti prego,
basta. Sveglia mio fratello, riportalo tra noi. Prendi me, non lui. – disse,
quasi sibilando.
In
quel mentre, si sentì toccare la spalla, e trasalì leggermente. La mano era
quella curata e piena di anelli di Francesco.
-
Ciao – lo salutò Francesco. Il suo volto era scavato, come se non dormisse da
secoli. Se Ermanno avesse saputo quanto ci teneva all’immagine quanto lo sapeva
Donatello, sicuramente gli avrebbe detto “Che brutta cera, stamane”.
-
Ciao Francesco – disse Ermanno, asciugandosi le lacrime con una manica della
giacca. – Come… come sapevi che ero qui? –
Francesco
guardò verso l’altare – Il mio albergo è poco distante da questa chiesa. Mi
stavo facendo una passeggiata, ho visto la tua auto e sono entrato. – rispose
il ragazzo, riportando poi lo sguardo su Ermanno.
Ermanno
assentì, sospirando ed asciugandosi le ultime lacrime – Scu…scusami.
– disse, soffocando un colpo di tosse e sedendosi sulla panca.
-
E di cosa? Penso che piangere sia la cosa più normale, in questi casi… -
Francesco sospirò, sedendosi accanto ad Ermanno. Per molti minuti fu silenzio
tra di loro. Nonostante fossero in un certo modo affini, in quanto Francesco
era il migliore (se non il migliore, l’unico) amico di Donatello e si
conoscessero per vie traverse, Ermanno e Francesco non avevano nulla da dirsi.
Ad
un certo punto, fu Ermanno a rompere il silenzio.
-
Com’è successo? – domandò Ermanno.
-
Un autotreno gli è andato addosso. Conducente ubriaco. – rispose laconicamente
Francesco.
-
No, io… intendevo… com’è successo che mio fratello sia diventato gay. – disse
Ermanno, guardando un punto imprecisato della cattedrale.
Francesco
alzò le spalle, incrociando le braccia. – Non c’è una ragione precisa, quando
accade, Ermanno… Lo si è, e basta. Alcuni dicono che sia una scelta di vita, ma
io non sono d’accordo. Gay si nasce, secondo me. –
Ermanno
ascoltava, tenendo lo sguardo fisso avanti a sé.
-
…Quando ero piccolo – continuò Francesco – ero attratto dal mio maestro di
educazione fisica. Per me lui era bellissimo, fortissimo… ed aveva una cosa che
gli altri non avevano: un carisma molto forte. – Francesco sorrise, ricordando
i bei tempi passati alle scuole elementari – Riusciva a farci fare tutti gli
esercizi che diceva, riuscendo ad essere fermo ed al tempo stesso dolce. Lui
era l’unico insegnante uomo. Le altre, le donne, non riuscivano a farmi
appassionare ad una materia nemmeno se mi puntavano un coltello alla gola. –
fece una risatina amara – si chiamava Giacomo. Era veramente un bell’uomo. –
Poi guardò Ermanno, che lo stava fissando, come se non avesse mai sentito nulla
di simile prima d’ora.
-
E… e perché mi stai dicendo queste cose? – domandò Ermanno.
Gli
occhi di Francesco scintillarono dietro il ciuffo di capelli neri. – Per
spiegarti che gay si nasce, e non si diventa facilmente. –
Per
attimi interminabili, Ermanno si domandò quale potesse essere stato il primo
ragazzo finito sotto gli occhi di suo fratello. Avrebbe potuto essere Claudio,
il suo ex migliore amico? Oppure uno dei compagni di scuola?
Poteva
esser stato chiunque.
-
Francesco? – chiamò Ermanno.
-
Sì? –
-
Mi racconteresti di quando tu e mio fratello vi siete conosciuti? –
Introdotta
la domanda, Francesco ci pensò un attimo su. Roteò gli occhi lentamente, come
se stesse guardando nei cassetti della sua memoria, alla voce “Donatello
Tarasconi”.
-
Ci siamo conosciuti due anni fa, nel 2008. Allora io avevo diciotto anni, ed
ero appena arrivato a Bologna. Mi ero fatto un sacco di amici qui,
all’università… Ma non riuscivo a stare in un appartamento per più di due mesi.
Con gli etero non mi trovavo bene perché erano disturbati dal mio continuo
ospitare ragazzi, mentre con i gay non mi ci trovavo perché ogni volta che
portavo qualcuno di nuovo, c’era il rischio che i miei coinquilini l’avessero
già frequentato, quindi di conseguenza si generavano parecchi alterchi… - fece
una pausa, annuendo. Lo sguardo perso nel vuoto, intento a guardare tra le
nebbie dei ricordi.
-
…Non avrei mai immaginato che Bologna fosse una città così piccola… - scosse la
testa – O forse ero io che mi concedevo un po’ troppa libertà. – fece una
risata amara.
-
Ad ogni modo – proseguì – Stavo già pensando di andarmene da quella città.
Cambiare università, prospettive, amicizie. Quando all’improvviso… -
-
Un giorno ero nei pressi della facoltà di Giurisprudenza. E lì c’era un ragazzo
un po’ pienotto, intento ad appiccicare un foglietto su una bacheca. Beh,
accadde che a questo ragazzo bello pienotto caddero tutte le puntine da
disegno, mentre cercava di attaccare il foglietto. Nessuno si mosse. Soltanto
io andai ad aiutarlo. –
-
“Grazie” mi disse lui, timidamente. E mi sorrise. Io gli sorrisi di rimando, e
nel frattempo vidi che cosa stava cercando di pubblicizzare. Una stanza in
affitto. Il ragazzo pienotto era tuo fratello Donatello… e la stanza in
affitto, è quella che tuttora pago regolarmente. –
-
Donatello è stato per me… come un’ancora di salvezza. Stavo per andarmene da
qui, ma lui mi ha dato un alloggio… e qualcosa di più. –
Ermanno
fece un’espressione sconvolta. Francesco rise piano.
-
Ma no, cos’hai capito? Donatello mi ha dato qualcosa che non ho mai trovato in
nessuno dei miei amanti: l’ascolto. L’amicizia. Mi ascoltava ogni volta che
avevo bisogno di lui, mi accompagnava dappertutto con quella sua macchina
vecchia che amava forse più di ogni altra cosa… -
-
La vecchia Audi di papà – lo interruppe Ermanno – Donatello è praticamente
perso per quell’auto. Le vuole un bene dell’anima … - si interruppe, sentendo
un nuovo accesso di pianto. Se suo fratello era a rischio di vita, la sua
povera auto non c’era nemmeno più. Dopo l’incidente era diventata
irrecuperabile: il motore era praticamente entrato nell’abitacolo, sventrando
la plancia e distruggendo buona parte della scocca... Ermanno ebbe una fitta al
cuore, pensando a come l’avrebbe presa Donatello nell’apprendere la notizia, un
giorno o l’altro.
-
…già. – riprese Francesco, annuendo. – Mi teneva lontani i pretendenti
“scomodi”… - disse, con una risata – Praticamente mi faceva da segretario. –
rise ancora, ed Ermanno rise leggermente.
-
E’ tipico di lui. Se non lo conoscessi, non te lo direi. –
-
Donatello è un ragazzo straordinario. Dovresti essere fiero di avere un
fratello così, Ermanno. –
Ermanno
sospirò. Gli occhi erano pieni di lacrime. – E invece… l’ho scacciato, appena
ho saputo che gli piacciono i ragazzi. E se ora è su quel letto addormentato… è
soltanto colpa mia. – si portò le mani agli occhi, piangendo ancora un po’.
Francesco,
che stava facendo di tutto per non piangere, sapendo cos’era successo perché
Ermanno gliel’aveva raccontato, si fece coraggio e mise una mano sulla spalla
di Ermanno. – No, Ermanno. Non è stata colpa tua. Credimi. E sono sicuro che
Donatello in cuor suo ti ha già perdonato. Avrete modo di riparlarne, in ogni
caso. –
Ermanno
continuò a piangere, e Francesco gli batté un leggero colpo sulla spalla.
Improvvisamente, Ermanno si voltò e abbracciò Francesco, piangendogli sulla
spalla. Lui non lo respinse, anzi prese a battergli la schiena per consolarlo.
Mai come in quel momento, si sentì in dovere di trattenere le lacrime.
A
rompere quell’attimo di tranquillità, fu il cellulare di Ermanno. Velocemente,
Ermanno si alzò dalla panca, mormorò uno “scusa” rivolto a Francesco ed andò
fuori a rispondere. Rimasto solo, Francesco si fece il segno della croce. Era
da quando si era cresimato che non entrava in una chiesa. Congiunse le mani ed
espresse solo un desiderio.
“O
Dio misericordioso e clemente, ti prego, risveglia il mio amico Donatello.”
Come
per magia, la porta si riaprì con un tonfo. Passi veloci si avvicinavano a
Francesco. Era Ermanno. Sorrideva e piangeva, col telefono ancora in mano.
- Francesco! …Andiamo, presto! Donatello… si è
risvegliato! –
Francesco
restò a bocca aperta. Ermanno corse verso l’uscita dalla chiesa, e come una
calamita, Francesco si alzò e lo seguì. Una lacrima scese dai suoi occhi a
rigargli una guancia.
Mi trovavo in un
posto che non conoscevo, una specie di grande salone dal soffitto molto alto e
dalle grandi vetrate dalle quali filtrava moltissima luce. A giudicare dalle
due file di colonne, pensai di essere in una cattedrale. Se così era, io mi
trovavo proprio nella navata centrale. Camminavo, senza sapere bene dove
andare.
- E così… - disse una
voce alle mie spalle – vuoi lasciarmi solo? –
Mi voltai. Dietro di
me c’era Dandy, vestito ancora degli abiti da sera della festa. Lo guardai
fisso negli occhi, mentre le mie labbra si piegavano in un sorriso stanco.
- Lascia che te lo
dica, Dandy… – attaccai - ...non è stato bello farmi credere che io ti
considerassi soltanto come uno sfogo dei miei appetiti sessuali – dissi, senza
alcuna esitazione – perché credimi, io sono tutto fuorché un animale in calore.
–
Portandosi una mano
al petto, Dandy trasalì. I suoi occhi da cucciolo smarrito però non avevano più
alcun effetto su di me. Nel poco tempo in cui ero stato a contatto con lui, mi
ero reso conto di che razza di personaggio lui fosse all’infuori della striscia
disegnata. Ammesso e non concesso che esistesse, un altro mondo, oltre a quello
della fantasia, dove i personaggi inventati vivevano.
- Non… non l’ho fatto
apposta. Credimi. – disse, con gli occhi gonfi di dispiacere. Devo ammettere
che per una frazione di secondo riuscì ad intenerirmi, ma mi guardai bene dal
concedermi ancora una volta a lui.
- Perché… - continuò
Dandy - …perché non resti qui con me, con noi? Noi ti vogliamo bene, ti
consideriamo nostro padre… ti consideriamo un amante formidabile… Che cosa
speri di trovare nella vita reale, che sia meglio di noi? –
Mi misi le mani in
tasca. Le scarpe in coordinato con il completo avevano dei tacchi molto duri,
che ad ogni mio passo risuonavano in un chiaro toc-toc, che fecero mentre mi avvicinavo a Dandy. Lo guardai negli
occhi, e di nuovo senza esitazione, gli risposi.
- Tutto. Ho tutto di
meglio da trovare, di voi, che altro non siete che me stesso, o meglio, parti
di me stesso. Frammentate… raccolte… rielaborate… e plasmate in personaggi. –
feci una pausa, sempre tenendo le mani in tasca e gli occhi fissi nei suoi. -
Questo mondo… I ragazzi… la Bologna che tollera gli omosessuali più di quanto
già non faccia… Addirittura tu… è tutto troppo bello per essere vero. E non lo
è. – conclusi. Dire che ce l’avevo con Dandy sarebbe stata un’esagerazione. In
realtà non ce l’avevo con lui, non lo odiavo né l’avrei voluto morto. Avrei
soltanto voluto che capisse le mie parole.
Esse furono pesanti
per Dandy, che scoppiò a piangere. Mi si gettò addosso, piangendomi sulla
spalla. Credeteci o no, quella fu l’unica volta che lo vidi piangere. Mai prima
d’ora l’avevo immaginato, che anche lui possedesse questo dono che ci distingue
dalle macchine. Mi dispiaceva soltanto che mi avesse dimostrato di averlo in
una circostanza come quella.
Paternamente, gli
misi una mano sulla spalla e lo allontanai. Ci guardammo negli occhi un solo,
lunghissimo istante, in cui lui sembrò calmarsi. Singhiozzava, ma con minore
intensità rispetto a prima. Io gli sorrisi.
- Allora… questo è un
… un addio? –
Io storsi la bocca. –
Non essere così drastico. Diciamo che è un… “Ci becchiamo dopo, baby”. – conclusi, facendogli
l’occhiolino. Lui pianse di nuovo, ma io mi ero già allontanato.
- Ti… ti rivedrò…? –
disse Dandy, singhiozzando. Non prendetemi per sadico, ma per una volta, vedere
che era un altro a piangere e non io, mi fece stare bene. Fu una piccola
carezza alla mia poca autostima.
Annuendo, io risposi
– Mi rivedrai, Dandy. Te lo prometto. – e mi allontanai ancora di più, levando
in alto la mano per salutarlo. Anche se non lo vedevo, sapevo che era
distrutto. Quando fui abbastanza lontano da lui, tirai un sospirone, quindi
proseguii per la mia strada.
Li vidi entrare
trafelati e col viso bagnato da lacrime che si erano prontamente asciugati
prima di entrare. Il mio fratellone ed il mio inquilino/amico erano lì. Mio
padre e mia madre sarebbero arrivati a momenti, ma per adesso ero contento che
ci fossero almeno loro ad accogliermi. Nonostante fossi fasciato alla testa ed
il mio braccio destro fosse ingessato, loro non persero tempo: mi abbracciarono
una, due, tre volte, ripetendo il mio nome all’infinito.
- Donatello!
Donatello! Donatello! Il mio Dodò! Sei vivo! –
- Sì, sono vivo –
dissi, lentamente – Ma non stringere troppo, fratellone! –
Francesco si
abbandonò ad effusioni un po’ meno innocenti. Mi baciò entrambe le guance e poi
mi baciò le labbra. Io non chiusi gli occhi, anzi li spalancai nel momento in
cui le sue labbra entrarono in contatto con le mie. Quando ci staccammo, lui
arrossì violentemente. Io guardai Ermanno, preoccupato. Lui mi guardò di
rimando, assumendo un’espressione truce. Guardai anche Francesco, che sorrideva
come un deficiente. Non vi dico che voglia avrei avuto di strozzarlo, dopo
quello che aveva fatto per dimostrarmi il suo affetto.
Riportai lo sguardo
su Ermanno. La sua espressione truce si sciolse, divenendo un sorriso. Infine,
esplose in una fragorosa risata. Non comprendendo, io sorrisi timidamente e
guardai Francesco. Lui sollevò il pollice, come per dire è tutto a posto, adesso e mi sorrise.
Nel pomeriggio,
Francesco tornò al suo albergo a fare i bagagli. Gli avevo detto di tornare a
Bologna, a sorvegliare la casa. Lui obbedì, forte del fatto che non c’era più
nulla da fare, lì a Pavia. Ormai mi aveva visto, salutato, omaggiato… baciato
di fronte a mio fratello (per quello scherzo gli dissi che ne avremmo riparlato
a quattr’occhi e lui si fece piccolo dalla paura, arrossendo violentemente),
per cui poteva tornarsene da dov’era venuto. Con tutta la mia felicità per
averlo rivisto.
- Non so bene perché
sei finito qui – spiegò Ermanno, mentre io mangiavo – immagino che a Lodi non
avessero posto, o che non ci fosse il reparto adatto. – scosse la testa – Ad
ogni modo, non è più un problema. – Concluse, con un sorriso.
Io gli sorrisi di
rimando. – E… e la mia macchina? – gli domandai.
Un’espressione amara
si dipinse sul volto di mio fratello. – Eh… - cominciò – Purtroppo lei non …
non ce l’ha fatta. – disse – l’autotreno che le è venuto addosso, l’ha
completamente distrutta. Mi dispiace. – concluse Ermanno, ed io annuii grave,
sospirando dal dispiacere. Così adesso non avevo nemmeno più la mia amata
macchinina.
- Senti ma … - iniziò
mio fratello. Io deglutii un boccone di carne e lo guardai.
- Cosa? – gli chiesi.
- E… io… - fece per
incominciare, ma poi si bloccò e alzò una mano – Niente. Non importa. Lascia
stare. –
- No dai, dimmi.
Voglio rispondere alla tua domanda, fratellone. – Era da tempo che non lo
chiamavo così. Lui alzò lentamente lo sguardo verso di me, e infine mi sorrise.
- Ecco, io… mi stavo
chiedendo. Che cosa si prova quando si è in coma? –
Una domanda,
innocentissima quanto ricca di possibili risposte. Alzai un po’ la spalla
(quella che non era ingessata), in un gesto di incertezza.
- E’ come dormire. Io
… ho sognato. –
Ermanno si sporse un
po’, incuriosito. – Cosa hai sognato? –
- Ho sognato… i
personaggi dei miei fumetti, per esempio. Erano lì, che mi volevano far
rimanere nel mondo di carta. E c’era il protagonista che avevo creato io
stesso, che voleva essere il mio… - non trovai la parola, forse perché in parte
non sapevo se Ermanno era d’accordo a conoscere i miei retroscena gay.
- Coraggio, dillo
pure – mi esortò Ermanno – ho parlato con Francesco, questa mattina. Mi ha
aperto gli occhi su molte cose. – concluse, sorridendo stancamente.
Io gli sorrisi
timidamente, quindi continuai - …Voleva essere il mio fidanzato. Ad un certo
punto però ho dovuto decidere se restare con loro o tornare qui. Ed ho deciso.
– conclusi, sorridendo.
A mio fratello gli si
inumidirono gli occhi di lacrime. Si avvicinò ancora una volta e mi abbracciò,
piangendomi sulla spalla. Io in quell’abbraccio sentii tutto il suo amore, tutto
il bene che mi voleva. E ne fui commosso, tanto che versai anch’io qualche
lacrimuccia.
- Grazie, Donatello…
Grazie. Ti voglio bene, fratellino. –
- Ti voglio bene,
fratellone. – gli sussurrai, e lo baciai sulla guancia.
Scoprii di aver
dormito ben più di due giorni. In quel letto ero rimasto circa un mese e mezzo,
raggiungendo la metà di Agosto. Mi ero svegliato proprio due giorni dopo
Ferragosto, e da lì a un mese, avrei avuto il colloquio con la Fondazione
Rambaldi, che mi aveva inviato quella proposta di lavoro a seguito della mia
vincita del concorso. In ospedale avrei dovuto rimanerci fino alla fine di
Agosto, quindi i tempi per presentare un buon lavoro al colloquio si riducevano
drasticamente rispetto a ciò che avevo preventivato prima di andare in vacanza
con mio fratello e Chiara.
A proposito, lei non
aveva mai scoperto che Ermanno l’aveva tradita, quel giorno nei boschi. Il
giorno in cui mi scacciò di casa ed io ebbi l’incidente, Ermanno si tirò
addosso tutti i sensi di colpa disponibili nella psiche umana. Di conseguenza,
troncò immediatamente il rapporto clandestino con Marika (“Tanto lei abita a
Como… Se proprio voglio fare sesso, lo farò con mia moglie Chiara” mi aveva
detto mio fratello, provocandomi un po’ di fastidio che tuttavia non diedi a
vedere, perché ero solo contento che avesse ritrovato i binari) e cambiò
frettolosamente la SIM del cellulare, per non essere più raggiunto. Inutile
dire che così facendo si era anche allontanato da Flavio. Non che Marika fosse
la sua ragazza, ma pensava che sarebbe stato saggio scomparire dalla
circolazione per un po’. Si sarebbe dedicato soltanto al lavoro… e alla persona
con cui aveva scelto di dividere la vita. Chiara.
Per quanto mi
riguardava, i pomeriggi in ospedale passavano lenti. All’oziosa pigrizia
caratterizzata dalla mia vita precedente, dove non avevo un orario fisso di
risveglio, si contrappose la vita monotona e schematica dell’ospedale: sveglia
alle otto. Pranzo a mezzogiorno. Pisolino pomeridiano dalle due alle quattro. Televisione
nel pomeriggio e nanna alle dieci di sera. Finché il ciclo ricominciava per un
altro giorno. Le uniche variazioni sul tema delle mie giornate erano le visite
di Ermanno e Chiara, le telefonate con Francesco (a proposito, sembrava che il
mio buon amico si fosse fidanzato, con un ragazzo di diciotto anni di nome
Nicholas) e le visite dei medici, che continuavano a cercare punti di rottura
nella mia testa, salvo poi decretare, immancabilmente “Figliolo, hai la testa dura come il marmo” ed ottenere in risposta un
mio timido “Sciocchezze… sono stato solo
molto fortunato”. Una notte sognai addirittura di essere improvvisamente
invecchiato e costretto a passare il resto dei miei giorni in un ospizio, solo,
rincoglionito e abbandonato da tutti perché non avevo mai avuto un compagno,
Ermanno era morto e Francesco chissà dov’era sparito con il suo nuovo
boyfriend. Quella fu una notte che non avrei dimenticato facilmente.
Dio,
fa che arrivi presto fine mese… Non ne posso più di stare qui.
E finalmente, come
per magia, la fine del mese arrivò.
Dell’ospedale
conservai soltanto l’ingessatura al braccio destro. Per fortuna ero mancino,
quindi disegnare non sarebbe stato un problema. Il giorno del mio colloquio con
la Fondazione si avvicinava, dunque dovevo avere qualcosa di pronto da mostrare
a chi mi avrebbe fatto il colloquio. Mi misi in testa di lavorare sodo e così
feci. Nei giorni che separavano il mio colloquio, disegnai come un matto,
facendo correre la matita su e giù per i fogli, ore ed ore ogni giorno. Fu
quasi una liberazione per me tornare a disegnare così bene. Dopo
quell’avventura onirica, Dandy era ormai un personaggio che rimaneva solo sulla
carta, e rigorosamente in secondo piano: avevo infatti sviluppato una nuova
storia, che vedeva lui come co-protagonista. E proprio quella storia avrei
presentato al colloquio che mi attendeva nei giorni successivi.
Presi in mano i
fogli, stando bene attento a non sporcare i quadri di grafite. La mia mano
sinistra teneva il lavoro su, illuminato dalla luce che filtrava dalla finestra
alle mie spalle; l’altra mano, quella ingessata, sembrava come un’inferma che
osserva il lavoro compiuto dalla sorella gemella. Sorrisi, compiacendomi con me
stesso per l’impegno che ci avevo messo.
Misi la tavola in un
raccoglitore plastificato, dove erano contenute le altre sequenze, e lo chiusi
accuratamente. Professionalità e fantasia sarebbero state le mie parole
d’ordine, quel giorno al colloquio. Volevo assolutamente ottenere quel posto, e
nessuno mi avrebbe fermato.
Fui soddisfatto dei
miei lavori solo a due giorni dalla partenza. In quei due giorni mi dedicai a
frequentare un po’ di più Francesco, che nonostante si fosse fidanzato con
Nicholas, voleva a tutti i costi mantenermi come amico. Scoprii che Francesco
da fidanzato mi piaceva moltissimo, così innamorato e gentile. Per contro,
scoprii anche che il suo ragazzo mi era un po’ antipatico.
Nicholas aveva
diciotto anni, un corpicino mozzafiato da atleta, capelli biondi e riccioli
come un angioletto, e occhi azzurri che ti attiravano a guardarlo. Purtroppo,
come molti belli, aveva il disprezzo per quelli come me, un po’ in sovrappeso.
Faceva battute sconvenienti sul mio corpo, a volte era maleducato, e in
generale non è che si comportasse proprio bene con me, nonostante quando
venisse a trovarci, era al cospetto del padrone di casa ogni giorno.
- E’ fatto così,
Donatello… Ha diciotto anni, è giovane… insomma, chi non è stato come lui, a
diciotto anni? –
- Io! – ribattei,
stizzito – Io a diciotto anni avevo già dato tutti gli esami del mio anno di
corso, e prendendo solo voti accettabili. E di certo non andavo a dire ai magri
che erano patiti o che sarebbe stato meglio se avessero fatto un po’ di palestra!
–
Imbarazzato,
Francesco rispose – Sono d’accordo con te, i belli credono sempre di avere il
mondo un po’ sottomano. Forse… forse i suoi attacchi sono un tentativo di
difesa. –
Camminando sotto il
portico, diedi un calcio ad una lattina che stava lì, facendola finire proprio
sotto il cassonetto adiacente, pensando Goal!
- Difendersi? Da me?
– sbuffai – Ah, questa è proprio bella. Ma chi se lo fila, quel coglioncello?
Cosa crede, che solo perché ha diciotto anni, può essere considerato carne
fresca da tutti? Se sapesse che a me i bimbiminchia
non piacciono, farebbe una retromarcia paurosa e… e… - mi bloccai, per un
momento non sapendo cosa dire. Francesco mi guardò alzando un sopracciglio.
- … e beccherebbe
dritto il tuo pene nel buco del culo! Sì, così almeno godrebbe un po’! –
esclamai.
Francesco si fermò e
mi guardò con occhio sconcertato, tanto che per un attimo ebbi la sensazione di
averlo offeso, e che dopo avermi guardato così, avrebbe girato i tacchi e
sarebbe tornato indietro. Ci guardammo un lungo istante, poi Francesco piegò
gli angoli della bocca verso il basso e…
- Ah! Ah! Ah! Ah! Ah! –
…e scoppiò in una
risata fragorosa, talmente forte che i pochi passanti che attraversavano il
portico di fronte alla stazione di Bologna si girarono incuriositi. Di rimando,
mi misi a ridere anch’io con lui, ancora più forte. Ci mettemmo le mani sulle
spalle, ridendo e ridendo. Mi sembrava di essere tornato bambino, quando una
risata così era all’ordine del giorno. Ridemmo per un bel po’, fino a raggiungere
le lacrime. Riprendendo fiato, annunciai – Si sta facendo tardi… non vorrei
perdere il treno. –
- Hai ragione – disse
Francesco guardando l’orologio sul display del cellulare – Andiamo. –
La stazione risuonava
di tutti i rumori tipici di un luogo di transito: lo speaker che annunciava gli
arrivi e le partenze, il rumore dei trolley che trullavano sulle piastrelle, la
gente che parlava. Un frastuono inebriante che a me era sempre piaciuto, ma che
oggi mi piaceva particolarmente. Stavo andando a Roma. A scommettere sul mio
talento.
- Sai già dove
andare, una volta là? – domandò Francesco.
- Sì, ho preso tutte
le informazioni. – con un cenno della mano indicai il mio trolley con attaccata
la mia cartella per le tavole, dove c’era forse la cosa più preziosa di tutte:
il mio lavoro.
- Sei sicuro che ce
la farai, con quel braccio ingessato? – Francesco sembrava in apprensione,
quasi come mia madre.
- Certo, perché non
dovrei? Se proprio non ce la faccio, mi farò aiutare da qualcuno, no? – Gli
sorrisi, cercando di tranquillizzarlo un po’. Lui annuì, e mi sorrise a sua
volta.
Di nuovo ci guardammo
per un lungo istante. Ah Francesco,
Francesco… quanto ti invidiavo. E quanto ancora t’invidio, tu non lo saprai
mai. Nonostante tu sia il mio migliore amico, sei la dimostrazione di come un
proverbio sia così vero: a chi troppo e a chi niente.
Ad un certo punto, ad
interrompere la nostra conversazione telepatica, fu lo speaker.
- Treno intercity per
Roma delle dieci e quarantacinque in partenza sul binario due. Ferma a … -
Io sospirai. Il
momento era giunto. Francesco mi guardò, e annuì.
- Beh… ciao,
Francesco. Telefonami, se dovesse servirti qualcosa. –
- Certo. Anche tu. –
- E ricordati di
farmi il bonifico per l’affitto, eh! –
Francesco sbuffò –
Uffa, non cambierai mai. – e sorrise.
Io gli strizzai
l’occhio, salutandolo di nuovo mentre mi avviavo al sottopassaggio. Arrivato,
lo vidi che si dirigeva verso l’uscita della stazione. Lo seguii con lo
sguardo, finché non si confuse tra la folla e scomparve alla mia vista.
Un sorriso sulle
labbra. La sensazione di essere ascoltato e capito. L’ebbrezza di trasferire
conoscenze da me ad altre persone.
Insegnare i rudimenti
del fumetto, dal disegno della figura fino all’impaginazione finale, passando
per le inquadrature, il disegno degli ambienti, la caratterizzazione dei
personaggi. Tutte cose che un buon disegnatore dovrebbe sapere a menadito, ma
che io, purtroppo, a volte non sapevo. Così, tra un ciclo di lezione e l’altro,
studiavo le tecniche di disegno cercando di integrarle al mio insegnamento, in
modo tale che prima imparavo, e poi insegnavo.
Il colloquio andò
bene. Il responsabile della selezione, appena mise occhio sui miei lavori, fece
un salto sulla sedia.
- Mai visto niente di
più bello, perfetto, preciso! E non c’è neanche un canovaccio di sceneggiatura!
Tutto rigorosamente a cervello! –
l’uomo, che si chiamava Gianfranco Paolucci, mise l’accento su quella parola, cervello, ribadendo successivamente Donatello, ragazzo mio, sei un ragazzo che
ha cervello! Ed io non ti lascerò scappare!
E così fece. Non mi
lasciò scappare.
La maggior parte del
mio tempo libero, la trascorrevo alla caffetteria del Centro, in solitudine.
Roma era anche una bella città, ma per girarla tutta ci voleva una voglia che
io, francamente, non avevo. Passavo le ore a leggere o scrivere, nonché ad
osservare, di tanto in tanto, i ragazzi che frequentavano i corsi. Se avessi
dovuto descriverli in una parola, Alternatività
sarebbe stata senz’altro quella adatta; potevo imbattermi in creste
multicolori, abbigliamenti strani e misteriosi di ogni colore possibile
(travestimenti inclusi), nonché atteggiamenti che ricordavano molto il mondo
dei fumetti. Il tutto perpetrato da ragazzi dai diciotto anni ai cinquanta, che
frequentavano la scuola.
Ogni pomeriggio che
passavo là (a volte anche qualche mattina), mi sembrava di entrare in una
fabbrica dei sogni, dove io non ero più Donatello Tarasconi, terzo insegnante
del corso di Tecniche di illustrazione fumettistica, bensì un normale
visitatore che si affacciava timidamente in un mondo parallelo. E avrei sfidato
chiunque a controbattere a questa mia convinzione, una volta varcati i cancelli
antistanti all’edificio.
L’edificio era stato
ricavato da una vecchia scuola privata, ceduta ad un certo sig. Rambaldi, il
quale, nella sua infinita magnanimità ed amore per il mondo del cinema
d’animazione, l’aveva adibita ad una piccola fabbrica dei sogni, affidandola
all’estro ed alla creatività dei migliori cervelli in circolazione del duemila.
Molti anni erano passati da allora, e tanti erano stati i fumettisti ad aver
dato il loro contributo, facendo sì che il Centro fosse ancora vivo, vegeto e
pieno di energia creativa.
Solo ricordando la
vita che facevo prima, mi venivano i dolori di stomaco. Come avevo potuto
essere così cieco, così statico da fermarmi alla vita dietro allo schermo del
computer? Anche se esso mi aveva fatto trovare questa grande occasione, il
tempo che io ci avevo perso dietro per tanti anni era ancora una macchia nel
mio cuore.
Di bei ragazzi lì ce
n’erano a iosa, e un giorno fui addirittura sorpreso di ricevere sulla mia
casella di posta elettronica, dei messaggi di ammirazione molto dolci da parte
di studentesse ed addirittura studenti. Non mi era però ben chiaro che cosa
ammirassero più di me, se il mio corpo ancora un po’ deforme (nonostante stessi
perdendo qualche chilo), oppure la mia capacità di insegnare loro come creare
mondi dal nulla. Sorridevo, ogni volta che ricevevo una di quelle mail, e ne
ero anche contento. Tuttavia, le mie risposte si limitavano a laconici
ringraziamenti e timide osservazioni.
Le mie ferite in
campo amoroso erano ancora aperte, e ci sarebbe voluto un miracolo, per
rimarginarle.
Come ho già
accennato, di ragazzi e ragazze omosessuali tra i frequentanti i corsi ce
n’erano a bizzeffe. Forse la quota superava di poco il 50% più uno. Qualche
dubbio lo avevo sugli insegnanti.
I miei colleghi erano
tutti molto taciturni. Con le loro classi parlavano e discutevano, ma tra di
loro sembravano non scambiarsi una parola. Logicamente perché i corsi non erano
interdisciplinari (salvo alcuni casi come il mio, che oltre alle tecniche di
disegno prevedeva l’insegnamento della progettazione di una storia, il che mi
portò a stringere amicizia con il mio collega, Antonello Scaravalli), bensì
ciascuno aveva solo gli insegnamenti previsti, senza incroci con altri corsi.
Antonello “Lello”
Scaravalli era un giovanotto di trent’anni. Bello, atletico, proporzionato, con
la sua carnagione scura ed i suoi capelli ed occhi neri da somigliare così
tanto ad Antonio Banderas, faceva impazzire quasi tutti i frequentanti il
Centro, soprattutto le ragazze. Era bisex, e non ne faceva mistero con nessuno.
Forse era questa la cosa che amavano tutti, in lui: che si concedesse a
chiunque. Uomo o donna che fosse. Quando me lo disse, dovetti trattenere una
risatina nervosa, che esplosi successivamente in bagno.
Nonostante la sua
propensione per il sesso, era un ragazzo molto attento e soprattutto
amichevole. Laureato al DAMS di Bologna, era esperto in sceneggiature e
soggetti, ma, diceva, sapeva riconoscere le belle cose quando le vedeva, e
quando vide i miei lavori… Beh, s’inchinò al mio cospetto. Una cosa che mi fece
un po’ rabbia fu che era preso in particolare dal personaggio di Dandy. Cazzo!
Avevo fatto di tutto per tenerlo lontano dalle scene principali, ed un
bietolone come Lello si faceva incantare? Se fosse stato una persona vera,
avrei cercato in tutti i modi di liquidarlo, quell’invadente di Dandy.
- E’ proprio un bel
personaggio! Ma perché lo tieni in secondo piano? Non sarebbe meglio farlo
agire da protagonista? – disse Lello, guardando con attenzione le mie tavole,
mentre sorseggiava un caffè, a gambe incrociate al tavolo della caffetteria.
- Beh… Sai Lello –
cominciai, sorseggiando un po’ della mia Sprite - …ritengo che la bellezza non
debba essere condizione primaria per essere protagonisti. –
Lui alzò un dito e mi
lodò – Giustissimo, Dodò – anche lui
usava quel nomignolo che usavano tutti – Ma io credo che sia un bel
personaggio, non solo perché è bello fisicamente, anche perché dimostra di
avere una statura. Sembra quasi… vivo!
–
Quel commento mi fece
andare la bibita di traverso. Tossii, e Lello accorse subito in mio aiuto,
battendomi una mano sulla spalla.
- Cazzo! E bevi un
po’ più piano, testa di condominio! – commentò lui, allegramente.
Io tossii una volta
ancora, scuotendo la mano a segnalargli che andava tutto bene. In realtà ero
scosso perché io l’avevo conosciuto, il mio Dandy. E per come l’avevo
conosciuto io, non mi aveva trasmesso nulla di buono, deludendo le mie
aspettative.
- Ci penserò. – dissi
io, tra un colpo di tosse e l’altro, chiudendo l’argomento.
A mettere un sigillo
definitivo a quella conversazione su Dandy fu la comparsa di una persona nuova
all’interno della caffetteria.
Camminava a passo
sostenuto e sicuro di sé, passando tra i tavoli come un modello ad una sfilata
di moda. E sì che avrebbe potuto esserlo, dati gli abiti che indossava: una
giacca di jeans con le maniche rimboccate a metà, pantaloni bianchi molto
raffinati, ed una camicia a quadri. I suoi capelli biondi e morbidi
ondeggiavano ad ogni suo passo, nello stile di un ciuffo alla moda EMO che
lasciava trasparire i suoi occhi azzurri ed un orecchio costellato di piercing
a forma di perla dai colori cangianti. Ad una spalla teneva uno zaino piuttosto
malandato, pieno di scritte e intarsiato di spille. Quello zaino, pensai, come
minimo deve aver visto i tempi in cui a scuola si ascoltava ancora la musica
con il walkman.
Lo seguii con lo
sguardo, finché non si fermò alla cassa, attese un secondo e prese un panino,
raggiungendo un gruppo di ragazzi che lo salutarono sorridendo.
- E chi è…? Non mi
sembra di averlo mai visto prima… - dissi io, bevendo ancora un altro sorso
della mia bibita. Questa volta per calmare uno strano senso di
non-sapevo-nemmeno-io-cosa che mi era venuto a guardarlo.
- Lui è il nuovo
insegnante di tecniche di cinematografia d’animazione. Un genio. Per quelli
come me, invece, il più bello, carino, incredibile, incommensurabile,
indiscutibile, inculabile….
Inarrivabile pezzo di figo che abbia mai messo piede su questa infelice terra.
– arrossi imbarazzato al penultimo aggettivo usato da Lello, non tanto perché
l’avesse quasi urlato provocando l’interesse di molti avventori, quanto perché
forse avevo capito cos’era quel certo nonsoché da cui ero stato assalito prima.
Arrossi ancora di più, e Lello se ne accorse.
- Bè, che ti prende?
Ti sarai mica strozzato un’altra volta? –
- No, no. – risposi
io. – E’ solo che… - volli dire qualcosa, ma mi bloccai, quindi buttai lì una
domanda a caso. – Ma tu lo conosci bene? –
- Se lo conosco?
Cazzo! Ho provato a fargli il filo da quando è arrivato al centro. Ma non c’è
stato nulla fare. Più incorruttibile di un macigno, il cucciolotto. – Ridacchiò
divertito – Fortunatamente non tutti sono come lui. – disse, strizzandomi
l’occhio.
Io abbozzai un
sorriso, pensando da un lato che talvolta Lello esagerava con le sue smanie di
portarsi a letto qualunque cosa fosse accettabile fisicamente e dall’altro che
se Lello non aveva avuto speranze con Manuel, allora io mi sarei dovuto
rassegnare all’istante, magari sotterrandomi sotto due metri di terra ogni
volta che avrei incrociato la sua strada.
Lo osservai da
lontano. Parlava amabilmente con tutti quei ragazzi e ragazze al suo tavolo,
ascoltando e talvolta ridendo… Era un bel ragazzo, senza dubbio. Ma perché non
riuscivo a staccargli gli occhi di dosso? Perché non riuscivo a dire a me
stesso che, non essendoci speranza, non avrei dovuto nemmeno guardarlo?
Perché?
Sospirai, pensando
che forse il mio periodo felice a Roma stava per finire, un’altra volta
stroncato da problemi di cuore.
In
quei giorni il lavoro mi aiutò moltissimo. Alla poca fatica di spiegare le
lezioni, si aggiungeva lo studio di altre nozioni sul disegno e la colorazione,
nonché (non potevo dimenticarlo) lo studio delle mie materie universitarie.
Benché
avessi abbandonato le lezioni alla facoltà di Giurisprudenza, ero ancora
formalmente iscritto, e quindi, in obbligo di dare gli esami se non volevo
sperperare inutilmente i pochi soldi che ogni tanto comparivano sul mio conto
corrente da mio padre. Mi restavano solo cinque esami da dare, e giurai che
entro il 2011 li avrei dati tutti, finalmente laureandomi.
Ogni
tanto Lello cercava di convincermi ad uscire, venendomi a trovare nel mio
appartamento senza nemmeno avvisare (all’inizio le sue visite a sorpresa mi
piacevano, ma dopo un po’ iniziai a stancarmi), ma senza mai riuscire a
smuovermi. Non che fossi stanco. Tutt’altro: solo non mi sentivo di uscire. Non
era un buon periodo.
Vedevo
Manuel tutti i giorni al Centro. Lui insegnava nell’aula in fondo a destra, io
nella prima a sinistra. Anche in quella destinazione di luoghi c’era un certo
Karma. Le due aule erano esattamente agli antipodi, proprio come me e lui. Per
contro, io non facevo nulla per cercare di avvicinarlo. A volte capitava che io
guardassi una bacheca per vedere se mi avevano spostato gli orari o se c’erano
novità da comunicare ai corsisti, e poco dopo Manuel si avvicinava anche lui;
Nel parcheggio, quando io camminavo per andare alla fermata dell’autobus, lui
camminava accanto a me per raggiungere la sua auto (Una Fiat Multipla targata
Torino); Alla caffetteria, mentre stazionavo al bancone per prendere un caffè,
lui appariva lì a due passi, ordinando un succo di frutta o una coca cola; Persino
nei bagni! Mi sembrava di vederlo dappertutto. In tutti i casi mi limitavo a
lanciare una fugace occhiata con la coda dell’occhio e poi fuggivo via,
stringendo i miei libri sottobraccio con una presunzione di sicurezza e
snobismo che sicuramente ogni regista avrebbe lodato per l’intensa
realisticità, quando in realtà dentro soffrivo perché sapevo che se un
belloccio come Lello non ce l’aveva fatta a conquistarla, io avevo ancor meno
speranze, fisicamente ridotto com’ero.
Continuai
con quella tiritera di fughe pianificate per due mesetti buoni. Passò ottobre,
con le sue giornate uggiose ed i pomeriggi che andavano accorciandosi;
Novembre, con il suo preannuncio di freddo e le foglie morte nel parco che
assumevano quei colori rossi e gialli che mi piacevano così tanto; e arrivò
Dicembre, freddo e ventoso, dai pomeriggi che non si distinguevano più dalla
sera.
-
Dov’è che vorresti andare, tu? – domandai a Lello, che mi aveva fermato accanto
alla bacheca degli annunci. Quel giorno mi ero deciso a mettere gli occhiali,
perché a furia di studiare, sentivo che la mia vista era calata un po’,
abbastanza da non permettermi più di vedere bene le lettere scritte in piccolo
sugli annunci. Meditai di andare a fare una visita da un oculista, per vedere
di quanto avevo peggiorato la mia situazione oftalmica con la mia pessima
abitudine di non mettere mai gli occhiali.
-
In discoteca! Qui a Roma ce n’è una (gay, ovviamente) piena di un certo tipo di
fauna che a Bologna ve la sognate! – il fatto che Lello descrivesse i ragazzi
come fauna, mi dava il voltastomaco.
Feci una smorfia di disappunto, prima di dire – Ci penserò. –
-
Eddaaai,
non farti pregare come al solito! – mi incitò lui, sorridendo a trentadue
denti. Il fatto era che non mi andava di andare lì e magari vedere lui che
riusciva a beccare gente mentre io avrei dovuto passare la serata seduto su un
divanetto a guardare la gente divertirsi. La odiavo, la discoteca. Se c’era una
cosa che avrei evitato nel mio soggiorno a Roma, era proprio la discoteca.
-
Ma… Lello, io devo… - accennai timidamente una risposta, prima che Lello mi
interrompesse, mettendomi entrambe le mani sulle spalle. Il mio braccio ora non
era più ingessato, ma se mi si spingeva troppo forte, mi faceva ancora un po’
male.
-
Ahi! – gemetti – Fai più piano! Ti ricordo che ho avuto una frattura, a questo
braccio! –
Lui
sembrò non curarsene, e rispose – Scusami. Lo so che devi studiare, ma almeno
un sabato potresti venire a farmi compagnia, no? E poi… quest’aria natalizia,
questa frizzantina e dispettosa bimba… Ma non ti viene voglia di sperare che
possa colpire anche qualcuno che ti guarda, facendogli venire voglia di
conoscerti? – Assunse un tono così teatrale che per poco non mi misi a ridere.
Cercai di calmarlo, ma ormai era partito.
-
Non ti viene voglia di prendere a te un ragazzo e di stringerlo a te, magari
sussurrandogli – e qui cambiò tono di voce, abbassandolo di almeno tre ottave,
in una goffa imitazione del cantante Barry White – Baby, I love you, let’s
go to f… - Si interruppe, proprio mentre le sue labbra andavano verso il
mio orecchio. Un bel po’ di ragazzi si erano fermati ad osservare quella
sceneggiata che aveva messo su Lello, ridacchiando divertiti. Molti di loro lo
conoscevano, e lui si affrettò a togliermi le mani di dosso e ad assumere la
posa più innocente possibile. Era un farfallone, ma capiva quando esagerava.
-
Tutto a posto, ragazzi! – li rassicurò – Stavo solo cercando di intortare il
mio buon amico Donatello, l’incredibile insegnante di tecniche di fumetto! –
rise. Ed i ragazzini risero con lui.
-
Certo che potresti intortare qualcosa di meglio, eh? – disse uno di loro, ad un
certo punto. Un ragazzo con una cresta viola ed un piercing nero sul labbro
inferiore. Avrei avuto voglia di prenderlo a schiaffi.
In
quel preciso momento passò Manuel. Camminò nel mezzo. Alla sua sinistra
c’eravamo io e Lello, alla sua destra il gruppetto di ragazzini. Io guardai in
basso, mentre Lello lo salutò allegramente.
-
Ehi Manuel! – attaccò – Che tempo fa lassù? – domandò, alludendo non tanto
all’altezza di Manuel (contavo che superasse abbondantemente il metro e
ottantotto), quanto alla sua altezzosità.
Questi
si fermò e si voltò verso di lui, rivolgendogli un sorriso di circostanza.
-
Non lo so , Lello. Ma quando mi installeranno una centralina meteorologica
sulla testa, sarai tu il primo a saperlo. Ciao. – tagliò corto, andandosene.
-
Anche oggi di ottimo umore, vedo! Evviva la vita! – gli urlò dietro Lello,
ridacchiando.
-
Sempre evviva. – rispose Manuel, e la sua voce apparve come un mormorio, alla
distanza che aveva raggiunto allontanandosi. I ragazzi di fronte a noi fecero
delle facce di circostanza, dalle quali io potevo leggere chiare frasi: quanto se la tira, quello… oppure ma chi si crede di essere, la Granduchessa
di Bulgaria? Oppure ancora quella che mi sembrò la più crudele, che avevo
già sentito negli ambienti bolognesi: non
ha ancora trovato il pisello giusto da infilare nel suo culo esigente.
Mentre
io, in quel preciso momento, desiderai che la terra mi inghiottisse, ma non lo
fece.
La
prima cosa che pensai quando varcai le porte della discoteca, scendendo le
scale che portavano alla pista, fu che la discoteca di Bologna nulla aveva da
invidiare a quella di Roma. Forse un po’ lo spazio, ma per quanto riguardava la
cosiddetta fauna, il logotipo era
sempre lo stesso. Ragazzi bellissimi, tiratissimi, che si imbellettavano il
sabato ed anche gli altri giorni. Come sempre in discoteca mi sentii gli occhi
addosso per il mio peso, ma questa volta immaginai anche come potesse essere la
vita di ognuno di questi. Cosa facessero quando non si divertivano, se
studiavano, se erano fuori corso all’università, se fossero felici o tristi
della loro vita.
In
un certo senso in una discoteca non c’era molto da capire. Si andava lì, si
vedeva di racimolare qualcuno da portare a letto, si faceva bim bum bam e poi grazie e a non rivederci.
Quindi era normale che un individuo come me, già fisicamente inadatto, si
sentisse particolarmente a disagio anche per ciò che aveva in testa. Guardavo i
ragazzi con occhio diverso da come li guardavano tutti, e anche questo mi
precludeva molte strade. Inutile dire che il senso di oppressione generato
dalla smania di confronto mi scattò immancabilmente anche quella volta, e
ripensai a Fiorella (con cui avevo avuto l’ultimo colloquio circa una settimana
prima di partire per Roma, in Settembre. Il
mio lavoro termina qui, ma solo in termini di tempo, Donatello. Invece il suo
lavoro continua. Mi creda, vorrei tanto poterla accompagnare ancora, seguire i
suoi notevoli progressi che in un anno ha fatto… ma non mi è concesso. Perciò
mi limiterò a dirle che è stato un piacere lavorare con lei. Così mi disse,
e ci lasciammo), a quella volta in cui mi chiese se era veramente necessario
per me essere attraente. Sospirai tra me e me. Se quella volta con lei avevo
risposto sicuro che sì, avevo bisogno di sentirmi attraente, quella volta in
discoteca non ne ero più tanto sicuro, avendo provato l’ebbrezza di sentirmi
attraente per delle creature che non esistevano. I miei personaggi.
-
Vieni – mi disse Lello all’orecchio, cercando di farsi sentire nonostante il
frastuono della musica. – Ti presento i miei amici! –
A
dire la verità non ci sarebbe stato nemmeno bisogno di fare le presentazioni.
Metà dei ragazzi del suo gruppo erano del Centro, quindi li conoscevo bene di
viso ma quella sera imparai i loro nomi. Nonostante l’apparenza, sembravano
ragazzi simpatici, se non altro con loro ebbi degli argomenti di discussione:
disegno, tecnica di disegno, impaginazione… Per un momento mi sembrò addirittura
di essere in pace con me stesso.
Guardai
verso Lello, che aveva già fatto serata: era lì in pista che ballava con un
ragazzo un po’ più basso di lui, con i capelli argentati, vestito come un
importante figlio di papà. Le uniche due cose alternative che si era concesso
erano un braccialetto multicolori, ed un brillantino fosforescente al naso. E
come al solito, la storia si ripeté.
Lello
che guardava negli occhi il ragazzo, lui che ricambiava lo sguardo. Ballavano
avvinghiati per un po’ di tempo, finché non cominciavano a baciarsi teneramente
le labbra. E come loro, tante altre coppie. Un girotondo di fisicità travestita
da affetto, tra ragazzi bellissimi ed irraggiungibili.
Ma
anch’io avevo avuto la mia parte, non era forse così? Con tutti quei ragazzi
che avevo incontrato, con quelli che avevo baciato, con quelli con cui ero
stato a letto… con Simone… con Dandy.
Dandy,
già. Per la prima volta dopo sei mesi, ripensai a lui e a come ero stato bene
nel mondo di sogno in cui io stesso mi ero ficcato e dal quale io stesso avevo
deciso di uscire. Forse sarebbe stato meglio se non ne fossi mai uscito. Sarei
rimasto lì, in quell’ospedale a Pavia, tenuto in vita solo da una macchina,
fino a che il mio corpo non fosse diventato deforme e definitivamente infermo,
magro ma brutto. Mentre io continuavo a spassarmela nel mondo dei sogni.
Ripensai
a quello che mi aveva detto Humphrey. Che in questo mondo avevo una vita. A
questo proposito, pensai a mio padre e mia madre. Essi erano venuti a trovarmi
più volte all’ospedale. Mia madre era al colmo della gioia quando mi vide
sveglio e cosciente, e mio padre altrettanto. Per il resto, da quando mi ero
svegliato, non mi avevano fatto nemmeno una telefonata, non si erano fatti
sentire prima della mia partenza per augurarmi che tutto andasse bene, né mi
avevano chiesto cosa andavo a fare. Erano o no, poco interessati a me?
Un po’ meglio era stato mio fratello. Aveva
accettato che fossi gay e, prima della mia partenza, mentre stavo facendo i
bagagli, mi fece una lunga telefonata in cui alternammo allegria e gioia,
tristezza e comprensione… Ermanno aveva accettato che io fossi gay, ma più che
accettare ciò, altro non poteva fare. Non poteva certo provvedere al mio
bisogno di dare affetto ad un ragazzo. Figurarsi… Non riuscivo da solo con le
mie forze, figuriamoci se ci sarebbe riuscito mio fratello.
Francesco?
Lui era stato addentro al mondo gay per anni, addirittura prima di diventare
maggiorenne. Di ragazzi ne aveva conosciuti di tutti i tipi, che addirittura
avevano avuto l’intenzione di allacciare rapporti con lui. Ma lui si era
fermato con il simpaticissimo Nicholas, che mi aveva in antipatia per com’ero
fatto fisicamente. Anche lui, avrebbe mai potuto presentarmi un ragazzo, se
tutti quelli che incontrava erano come Nicholas?
Ad
aggiungere dolore al dolore, arrivò anche, con un colpo di clacson, il pensiero
della mia povera Audi, la mia povera piccola macchinina schiacciata dal camion
e mai più rivista se non accartocciata su sé stessa, in un trafiletto di
giornale che annunciava il mio incidente. A che serviva vivere se non c’era
nemmeno più lei?
In
questo girotondo di pensieri, sentii che non riuscivo più a reggere. Facendomi
velocemente strada tra i ragazzi presenti nel locale, raggiunsi la porta del
bagno. Entrai, era incredibilmente vuoto. Immaginavo che fosse perché il locale
aveva una spaziosissima dark room un piano più sotto, quindi il bagno serviva
solo per la sua funzione istituzionale. Nel mio caso servì al mio sfogo.
Mi
chiusi dentro e iniziai a piangere. E piansi, piansi tutte le lacrime che avevo
trattenuto fino ad allora, per tutti i ragazzi che mi avevano deluso, per ciò
che avevo perso, per come la vita era cambiata almeno in parte, ma per l’altra
parte restava ancora un inferno di piattezza…
I
miei singhiozzi erano intervallati dal tunz-tunzdella
musica, tanto che il mio pianto assunse addirittura un qualcosa di stranamente
ritmico.
Quando
fui sicuro di essermi scaricato, almeno per un po’ dei miei dolori, uscii dal
bagno e mi diressi ai lavandini. Mi guardai nello specchio. Dietro le lenti
degli occhiali, i miei occhi erano gonfi e rossi. Sospirai, cercando di
calmarmi un po’. Nella mia testa, un pensiero ricorrente: Lo sapevo che dovevo dirgli di no, lo sapevo, lo sapevo, lo sapevo.
Mentre
pensavo, aprii il rubinetto. Un getto d’acqua gelida uscì dalla bocchetta, io
vi misi le mani a coppa sotto e mi sciacquai il viso. Quando li riaprii, una
persona era comparsa alle mie spalle, allo specchio.
Era
Dandy, che mi guardava con espressione neutra. In quei suoi occhi c’era tutto
il dispiacere, unito al desiderio di consolarmi, in un’incredibile carica
emotiva che mi paralizzò per un istante. Strabuzzai gli occhi, rendendomi conto
soltanto dopo che quella persona riflessa nello specchio non era Dandy, ma
bensì ...
-
Ciao – mi salutò Manuel – Perché piangi? – mi domandò.
Io
mi voltai lentamente, e lo guardai per un secondo. Indossava un paio di jeans
grigio scuro, un’elegantissima camicia bianca e sopra di essa un gilet nero. I
capelli erano biondissimi, quasi di platino, e mi accorsi anche di un’altra
cosa: i suoi occhi azzurri erano ora circondati da un paio di occhialini neri.
Non potei esimermi dal pensare che l’aveva fatto per seguire me: anch’io mi ero
messo gli occhiali soltanto quella mattina.
Non
sapendo cosa dire, mi limitai soltanto a dire – Scusami! Adesso devo andare! –
e feci per avviarmi, quando lui mi fermò.
-
Eh no – disse – da qui non te ne vai se prima non mi dici cosa c’è che non va.
Me ne sono accorto di come ti dilegui quando ci sono io. Allora? Cosa devo
pensare, di esserti antipatico? –
La
sua voce era bella, velata di un leggerissimo accento romanesco, che di per sé
era parecchio affascinante. Lo guardai dal basso verso l’alto, avendo voglia di
rispondergli che no, non mi era antipatico. Anzi, tutt’altro. Avrei voluto
passare la serata con lui, parlargli e conoscerlo.
-
No, è solo che … - scossi la testa, evitando di continuare la frase. – Io non
ti conosco. Come faccio a stabilire se mi sei simpatico oppure no? –
-
E allora, conosciamoci. – disse lui, alzando le spalle. – Io sono Manuel. Ma
sicuramente conosci già il mio nome, se hai come amico quello sgallettato di
Lello. Tu come ti chiami? –
-
D… Donatello. – feci io, balbettando un po’ per l’emozione. Lui annuì, e rise.
-
“D… Donatello?” – ripeté. – Sei balbuziente oppure l’impiegato dell’anagrafe
era uno stronzo? – e rise. Io lo guardai un po’ sorpreso, ma senza tuttavia
darlo a vedere. Feci una risatina anch’io, rimettendomi gli occhiali. Adesso
che lo vedevo meglio, era veramente, ma veramente carino.
-
Eh-eh – farfugliai – Molto divertente. –
Lui
mi guardò e mi strizzò l’occhio. – Allora, hai visto che non mangio nessuno? –
Io
non risposi. Tuttavia, lui fu lesto a riprendere il discorso.
-
Senti – mi disse – Ho un problema. –
Io
lo guardai sollevando un sopracciglio, perplesso.
-
Di che si tratta? –
-
Mi vedi? – fece un gesto con le mani, indicando sé stesso – Ogni volta che
vengo in discoteca, attiro sempre dei bavosi che vogliono provarci. Non riesco
ad avere un attimo di pace. Pensavo che tu… - disse, e poi mi guardò con aria
furbetta.
-
Io… cosa? – gli chiesi, incrociando le braccia sul petto.
-
Mi chiedevo se tu potevi farmi da … cavaliere, per questa sera. – disse, senza
paura. Ovviamente, carino com’era, avrebbe potuto ottenere tutto ciò che
voleva.
Imbarazzato,
e con il cuore che mi martellava nel petto, gli domandai – E perché proprio io?
–
Lui
sbuffò. Tipico dei ragazzi carini, che sono quasi sempre un po’ capricciosi. –
Perché sei un gran figo e anche se sembri Fantozzi ringiovanito penso che tu
sia un ragazzo a posto. Ti va bene come risposta o devo tornare fuori a
cercarmi un altro accompagnatore? –
-
No, no! – risposi prontamente io – Ti faccio io da accompagnatore. –
Lui
fece un sorriso artefatto. – Grazie. Non te ne pentirai, te lo assicuro. –
Non
vi dico la faccia che fece Lello quando mi vide uscire dal bagno a braccetto
con Manuel. Il mio buon amico era sconvolto, quasi che avesse visto la Regina
Elisabetta alzarsi il vestito e mostrarla a tutto il Regno Unito, ed il suo
stato d’animo era sottolineato dalla sua mascella: ancora un po’ e sarebbe
cascata sul pavimento. Il ragazzino che era con lui provò a scuoterlo un po’,
ma immaginai che dopo quel giro di ballo, se ne sarebbe andato in bagno anche
lui come avevo fatto io prima. A piangere, forse, o a chiedersi che cos’avessi
io più di lui.
Fui
solo contento quando non lo vidi più per tutta la serata, perché tutto quel
tempo lo passai insieme a Manuel. Chiacchierammo parecchio, io e lui. Scoprii
che anche lui aveva vinto lo stesso concorso che avevo vinto io, ed era stato
destinato ad insegnare cinematografia d’animazione, presentando un
cortometraggio sulla guerra in Iraq in formato animato. Non era pagato
abbastanza, ma il lavoro gli piaceva. E comunque, poteva contare su una
famiglia molto ricca.
Dopo
i convenevoli, arrivammo alle note dolenti: mi disse che lui era ambito da un
sacco di ragazzi, che purtroppo volevano soltanto portarselo a letto, mentre
lui desiderava qualcosa di più. Lui desiderava trovarsi con una persona. Ma finora, non era mai successo.
-
Ci tenevi ad Antonello, come amico? – mi domandò, ad un certo punto della
serata.
-
In che senso? – gli domandai io, di rimando. Eravamo fuori nel giardino, a
fumarci una sigaretta. Raramente io fumavo. Spesso Francesco lo faceva, fumando
addirittura spinelli, e mi invitava a partecipare. Non avevo mai incominciato e
in ogni caso rifiutavo sempre quando mi veniva offerto. Eppure sentii di dover
accettare la sigaretta che mi porse Manuel. Aspirai con piacere il suo fumo,
immaginando che quella sigaretta fosse stata il tramite tra le mie labbra e le
sue.
Lui
fece un tiro dalla sua Marlboro – Nel senso che – cacciò fuori il fumo – ci
tenevi come persona, ti piaceva stare in sua compagnia? –
Mi
strinsi nelle spalle – Beh, è un bravo ragazzo, anche se è un po’ troppo
farfallone. Nel complesso mi trovo bene… ma… perché usi il verbo al passato? –
Manuel
rise. – Perché ho idea che dopo averti visto con me, non vorrà più parlarti per
almeno un decennio, se lo conosco bene. – rise un po’ più forte, ed io, dopo un
iniziale sconforto, lo accompagnai nelle risate. Ridemmo per un bel pezzo, come
due ragazzini che avevano fatto una marachella. Poi ci guardammo negli occhi.
Lui mi sorrise. Ed io distolsi lo sguardo.
Ballammo
e chiacchierammo ancora un po’, ed io fui felice che lui si fosse avvicinato a
me. Ballammo addirittura un lento, abbracciati. Stare vicino a lui confermò ciò
che avevo stimato: che fosse più alto di me. Infatti mentre ci guardavamo negli
occhi dovevo alzare un pochino lo sguardo, ma ciò che vedevo bastava a
ripagarmi.
Cavallerescamente,
cercai sempre di evitare di mettergli le mani sul sedere, tenendogli soltanto i
fianchi. Le sue mani, grandi e con qualche anello al dito, erano intrecciate
dietro la mia nuca. Mi sorrise.
-
Grazie – mi disse all’orecchio.
-
Per cosa? – domandai io.
-
Sei l’unico che non mi tocca il sedere mentre balla con me. Grazie. – rispose,
ed io mi sentii di nuovo in imbarazzo.
Uscimmo
insieme dalla discoteca. Io feci per salutarlo, dichiarando che dovevo prendere
l’autobus (Manuel ci aveva azzeccato, Antonello si era dileguato in fretta,
sicuramente per ciò che aveva visto. Il pensiero mi fece ridere, ma gliene
avrei dette quattro non appena l’avessi visto), o rischiavo di rimanere a
piedi.
-
Nemmeno per scherzo. – disse Manuel – Tu vieni con me. Ti accompagno io. –
disse.
-
Beh, non vorrei disturbare. Mi sentirei in debito, dopo… -
-
Quanto la fai lunga! Va bene, se vuoi andare a piedi vai pure! – esclamò,
girando i tacchi e andandosene.
-
Ehi, aspetta! – gli corsi dietro, ma lui non sembrò fermarsi. Lo afferrai per
un polso, ed i suoi braccialetti tintinnarono. – Vengo con te. – dichiarai. Lui
fece un mezzo sorriso.
Salii
sulla sua Multipla, e lui si accomodò al posto di guida.
Di
solito ero sempre stato io ad accompagnare le persone. Un gesto così non me
l’aveva mai offerto nessuno. Se non altro nessuno che avevo conosciuto in una
serata. Sentivo di potermi fidare di Manuel, non soltanto perché lavoravamo
nello stesso posto, ma anche perché mi piaceva. Mi piaceva da morire.
Vacci piano,
idiota… non farti prendere troppo la mano. Altrimenti va a finire che anche qui
ti becchi la solita delusione, e dopo chi ti consola più? Disse
la mia vocina interna.
Finito
il viaggio, feci per scendere. – Bè, io sono arrivato. È stata una bella
serata, grazie. Anche per il passaggio. –
-
Tu dici troppi “Grazie” – mi disse, facendomi l’occhiolino. Io feci una
risatina nervosa, quindi aprii lo sportello e misi un piede all’esterno.
-
Aspetta – mi fermò lui – non mi dai il tuo numero di cellulare? Almeno così se
Lello ti lascia di nuovo a piedi, puoi chiamare me. –
-
Mi faresti da tassista, dunque? E cosa vorresti in cambio per il servizio? –
scherzai.
Lui
si strinse nelle spalle e roteò gli occhi – Chissà. Potrei chiederti di farmi
di nuovo da accompagnatore, oppure potrei volere qualcos’altro… -
Io
arrossii leggermente, quindi gli dettai il mio numero. Lui lo salvò. Mi dettò
il suo, e lo salvai.
-
Grazie – disse – Adesso sarà meglio che me ne vada a nanna anch’io. Sono quasi
le cinque del mattino. –
-
Già – dissi io – Meno male che è domenica. –
-
Già… - rispose lui – Che noia, la domenica. – sbuffò – non so mai cosa fare.
Specialmente in questo periodo. –
-
Qualcosa da fare la troverai – gli dissi, e senza accorgermene gli misi una
mano sulla spalla. Lui la guardò per un secondo, ed io fui lesto a ritirarla.
-
Beh – dissi – Vado. Ci… ci vediamo, Manuel. –
-
Ciao bello. Ci vediamo presto. – mi rispose. Io scesi dall’auto e andai verso
il cancello che accedeva al palazzo dove alloggiavo. Chiusa la porta, mi
nascosi dietro una siepe e lo osservai. Se ne andò dopo pochi secondi, ed io
tirai un sospiro di sollievo. Corsi in casa mia, al decimo piano, e mi buttai
sul letto.
Dormii
per quasi dieci minuti, quando sentii il mio telefono squillare.
Un
sms. Manuel.
“Andiamo
a fare una passeggiata, domani?” diceva il testo. Io feci un sorriso e gli
risposi.
La
domenica insieme a Manuel andò benone. Per la prima volta in tre mesi, feci un
bel giro turistico di Roma, dov’ero stato soltanto da piccolissimo, con la mia
famiglia. Da allora erano cambiate molte cose, ma le bellezze architettoniche
restavano sempre quelle.
Il
Colosseo ad esempio non aveva più le impalcature del restauro. Era di nuovo in
ottima forma, nonostante i secoli che si portasse addosso.
In
Piazza San Pietro incrociammo un gruppo di giapponesi che ci chiesero
informazioni. Sorprendentemente, scoprii che Manuel parlava giapponese. Lo
osservai stupefatto parlare così bene con i nipponici (che a suo confronto
sembravano dei patetici omuncoli bassi, e lui un gigante, con quelle sue gambe
lunghe e slanciate).
-
Dove hai imparato il giapponese? – gli domandai ad un certo punto.
-
In Giappone. Ho fatto un viaggio lì quando avevo sedici anni, e ho soggiornato
lì dopo la laurea, per un perfezionamento sulle tecniche di animazione. E non
sono nemmeno tanto bravo. –
-
Scherzi? Cavoli! – esclamai – Sembrava di sentire un giapponese purosangue! –
Lui
ridacchiò, mentre camminava – Perché tu non lo conosci, e ti sembra che io lo
parli perfettamente. – non solo parlava bene come un giapponese, ma era anche
bravo a non parlare troppo e non lodarsi tanto.
Continuammo
il giro, ormai stava già diventando buio. Erano solo i primi di dicembre, ma il
pomeriggio era già sera da molti giorni.
-
Andiamo a farci una cioccolata calda? Offro io. – proposi ad un certo punto.
Sorridendo,
lui annuì.
Scegliemmo
un locale in centro, gremito di gente ma abbastanza gradevole. Mentre ero in
fila per pagare, mi soffermai a guardare meglio Manuel.
Sedeva
lì al tavolino, le lunghe gambe incrociate, a guardare fuori dal vetro. Era un
bellissimo ragazzo, ma non solo: sembrava anche avere la testa sulle spalle.
Mentre passeggiavamo mi aveva raccontato di tanti viaggi che aveva fatto, di
tutte le passioni che coltivava… era in particolare un collezionista di fumetti
manga e di macchinine. Non solo: adorava fare dei diorami, ovvero riproduzioni
in scala di luoghi reali o fantastici. Dopo il suo diploma d’istituto d’arte
era andato a studiare cinema alla Sapienza di Roma, specializzandosi in
cinematografia d’animazione. Il suo sogno era di andare a vivere in Giappone e
lavorare allo Studio Ghibli, la fortunata casa
di produzione messa in piedi da HayaoMiyazaki, il creatore de “La città incantata” ed “Il
Castello errante di Howl”. Manuel andava pazzo per
tutti i suoi lavori, e mi confessò di aver pianto dopo aver visto “Il Castello
errante di Howl”… così com’era stato toccato da tanti
altri suoi film d’animazione. Un genio, un vero genio. Il tutto in soli
ventisei anni.
-
Eccomi – dissi, avvicinandomi al tavolino reggendo due tazze di cioccolata
calda e fumante. Lui mi sorrise. Sinceramente, i suoi sorrisi erano i più belli
che io avessi mai visto.
Continuammo
a frequentarci nei giorni a seguire. Ci vedevamo al Centro e ci salutavamo come
dei buoni amici, andavamo a pranzo insieme alla caffetteria e passavamo gran
parte del tempo libero insieme.
-
Sei sicuro che non vuoi stare da solo? – gli domandai, mentre raggiungevamo
casa sua in auto. Guidavo io, e lui era il mio passeggero. Prima di darmi il
volante, mi confessò che non lasciava mai guidare la sua Multipla a nessuno,
nemmeno ai suoi amichetti del Centro, nonostante li conoscesse da un bel po’ di
tempo. Aveva paura della loro troppa esuberanza, e che quindi gliela
rovinassero. La sua auto non era nuovissima, aveva appena quattro anni, però
Manuel voleva bene alla sua macchinina, un po’ come io avevo voluto bene alla
mia Audi, prima che finisse distrutta nell’incidente in cui ero stato
coinvolto. Sapendo anche questo, si era fidato lo stesso. Mi aveva visto con il
braccio ingessato, i primi giorni in cui giunsi alla Fondazione, ed aveva
intuito che io ero stato vittima di un incidente, però, per tutti i diavoli,
s’era fidato. Non avrei saputo dire quanto la cosa mi lusingava.
-
Sicuro – rispose lui, tranquillamente – E poi voglio farti vedere la mia casa.
– Mi guardò, alzando un sopracciglio. – Non ti starai mica annoiando di me, no?
–
Cambiando
marcia, io sgranai gli occhi. Guardavo la strada, ma in realtà stavo parlando
con lui – Ci mancherebbe! No che non mi sono annoiato di te, Manuel. Solo non
vorrei risultarti troppo… appiccicoso, ecco. – conclusi.
A
quella mia confessione, lui mi venne vicino e mi mise un braccio sulle spalle.
– Non sei appiccicoso. – e mi strizzò l’occhio. – Gira qui a destra. –
Obbedii.
Anche lui abitava in uno di quei palazzi popolari, un alveare di almeno venti
piani. Ero curioso di vedere il suo appartamento, il luogo dove il genio
pensava di notte, dove esprimeva la sua vita privata.
Arrivammo
al pianerottolo dove abitava. Curiosamente, anche lui aveva un appartamento al
decimo piano, proprio come me. Infilò la chiave nella toppa e aprì la porta,
invitandomi ad entrare.
Titubante,
io entrai. Lui si accorse di questo mio esitare e mi spinse dentro
allegramente. – Su dai, coraggio. Entra! – esclamò, dandomi un colpetto sulla
spalla.
-
Benvenuto nel mio regno – disse, accendendo la luce. Davanti ai miei occhi si
aprì un salotto molto ben arredato, pieno di mobili di tendenza e illuminato
come uno studio fotografico. Per intenderci, non c’erano lampadari pendenti dal
soffitto, né lampade da pavimento. C’erano solo faretti che proiettavano una
luce intensa, che illuminava tutto molto bene. Alle pareti un sacco di quadri
raffiguranti disegni, e manifesti di film d’animazione. In un angolo, c’era la
zona studio: un tavolo da disegno ribaltabile (come quello che io avevo
lasciato in camera mia, a Bologna) retroilluminato, ed una scrivania completa
di scaffalature per libri e CD con sopra un computer portatile. Più in là si
poteva vedere un tavolo con quattro sedie e la cucina, separata dal soggiorno
da un muro basso, che dava una sensazione di libertà e tranquillità. Nel
corridoio si aprivano due porte: una doveva essere chiaramente la camera da
letto, e l’altra il bagno. Pensai che chiunque avesse visitato
quell’appartamento per la prima volta, senza conoscere il mestiere del
proprietario, non avrebbe certo detto che apparteneva ad un impiegato del
catasto. Era fin troppo chiaro che ci si trovava al cospetto dell’appartamento
di un artista.
-
Allora? – mi domandò, sorridendo mentre si parava innanzi a me, mentre io
guardavo l’ambiente con occhi sgranati.
-
E’… è stupendo. – mormorai, sorpreso.
-
Oh, via – si schermì lui, gesticolando con la mano destra – è solo un
trilocale. L’ho soltanto abbellito un po’. – sorrise, e mi prese la mano,
invitandomi al centro del salotto, dove c’erano due divani e, in un angolo, un
televisore con impianto stereo.
-
Vuoi un po’ di musica? – mi chiese.
Io
mi strinsi nelle spalle – Come vuoi. – dissi, continuando ad ammirare. – Quello
cos’è? – domandai, riferito ad un apparecchio che non avevo mai visto prima,
una specie di scatola sormontata da un proiettore.
Lui
mi si avvicinò, a braccia incrociate. Nel frattempo, le note di una canzone di
James Blunt uscirono dall’impianto stereo.
-
“Quello” è una macchina da presa per animazione. Si infilano i fotogrammi
disegnati e si vedono lì, sul piano orizzontale. – indicò con il dito il piano
orizzontale bianco – Naturalmente è caduta in disuso da parecchio tempo,
soppiantata dalla tecnologia del computer. La uso ogni tanto, ma prima o poi la
metterò definitivamente in soffitta. –
Immaginai
che un macchinario del genere costasse un bel po’ di soldi, ma sapevo che a
Manuel il denaro non mancava. Solo mi sfuggiva dove se la fosse procurata.
-
L’ho presa ad un’asta giudiziaria – disse sorridendo, guardandomi in faccia
come se avesse intuito ciò che stavo pensando – l’ho pagata milleduecento euro.
Nuova viene circa ottomila euro. –
Sgranai
gli occhi. Anche se io venivo da una famiglia benestante, proprietaria di un
appartamento in periferia, dubitavo che mio padre o mia madre riuscissero a
portare a casa così tanto di stipendio.
-
Vieni – disse lui – ti faccio vedere la mia stanza da letto. –
Anche
lì, le luci erano costituite da faretti pendenti dal soffitto. La sua camera da
letto era molto sobria ed accogliente, con un bel letto matrimoniale in stile
moderno, due comodini ai lati ed un comò con alcune fotografie. Manuel si
avvicinò al letto, saltellandovi un po’ sopra con il sedere. Si tolse le
scarpe, e ci salì sopra continuando a saltellare.
-
E’ divertente! – esclamò, ridendo. Io risi con lui, osservandolo con le mani in
tasca, come un padre osserverebbe il suo bambino che gioca. – Vieni anche tu! –
Senza
dire nulla, obbedii. Mi sedetti, e lo osservai mentre si fermava e mi veniva
accanto.
Sentivo
che c’era qualcosa tra noi due, ma forse avevo ancora paura ad ammetterlo. Ero
troppo spaventato al pensiero di venire ferito di nuovo, o di non essere
all’altezza di mantenere in piedi una relazione. Guardai Manuel, e lui guardò
me. Arrivati a quel punto, non mi sembrava vero di essere con lui, nel suo
appartamento, dopo aver condiviso giorni bellissimi senza mai un disagio.
Proprio lui, Manuel Chiaravalle, il bellissimo ed irraggiungibile insegnante di
cinematografia della Fondazione Rambaldi, irraggiungibile persino da un
belloccio come Antonello, aveva invitato me, Donatello Tarasconi, soprannominato
Sfigato Numero Uno di Bologna, che non riusciva a trovare altro che delusioni e
che si piangeva addosso nei momenti di solitudine. Era troppo bello per essere
vero. Lui mi piaceva, mi piaceva da morire, ma non sapevo come dirglielo. E
forse mai gliel’avrei detto. Sarebbe stato un segreto che avrei gelosamente
custodito fino alla tomba, perché avevo paura che dicendogli di amarlo, avrei
rovinato quel bellissimo rapporto che avevamo costruito in pochi giorni.
Come
un gatto, Manuel si sedette accanto a me, e mi mise un braccio attorno alle
spalle.
-
Cos’hai? – mi chiese. Lessi nei suoi occhi una sincera preoccupazione. Io
abbozzai un sorriso.
-
Niente. Va tutto bene. –
Lui
scosse la testa – Non fingere con me, Donatello – mi disse – Io sono abbastanza
bravo ad intuire se c’è qualcosa che non va, nelle persone che mi stanno
accanto. E tu mi sembri un ragazzo che ha tante cose che gli hanno fatto male.
– Mi guardò con più convinzione – O sbaglio? –
Sospirai.
Per quanto fosse grande la mia voglia di contraddirlo, altrettanto grande era
la mia tristezza e frustrazione. Presi un po’ di tempo, prima di rispondere.
Sospirai ancora, cercando le parole giuste. Anche lì, avevo paura che se avessi
detto qualcosa di sbagliato o se mi fossi mostrato troppo piagnone, lui si
sarebbe allontanato da me. Ed era una cosa che non avrei mai tollerato.
-
Non sbagli, Manuel. – sospirai ancora – Effettivamente non vengo da un buon
periodo. Quest’anno è stato particolarmente devastante. –
-
Me ne vuoi parlare? – propose lui, sporgendosi un po’ di più, e abbracciandomi
teneramente.
-
Non… non lo so. Non vorrei poi annoiarti, o… o farti scappare via. – dissi io,
arrossendo.
Lui
scosse la testa. E mi carezzò i capelli. – Dimmi ciò che ti turba, Donatello. –
tagliò corto lui, senza aggiungere un “puoi fidarti di me”, “parla liberamente
ed io non ti abbandonerò”… eppure sentivo di potermi fidare di lui.
E
così, iniziai.
Gli
raccontai di tutte le mie delusioni in campo relazionale, di quanto mi sentissi
demoralizzato e triste, ma anche di come fossi stato contento di aver ritrovato
un fratello maggiore ed un amico… Bologna non era luogo per me, gli dissi,
troppo piena di ragazzi falsi e a cui non piacevano quelli un po’ in carne come
me… Parlai di come percepivo i ragazzi, di come loro mi avevano fatto soffrire…
Gli raccontai di Simone, e dell’incidente che avevo avuto. Mi astenni dal
raccontargli la parte in cui sognai Dandy Landy ed i
suoi personaggi che volevano tenermi morto, ma nel complesso fui abbastanza
fedele alla realtà. Manuel ascoltava, attento, annuendo e senza perdersi una
parola del mio monologo. Quando terminai, lui sospirò a sua volta.
Quel
sospiro mi tenne sulle spine per un bel pezzo. Pensavo di avergli fatto
cambiare radicalmente idea su di me, e che da un momento all’altro mi avrebbe
sbattuto fuori di casa. In più, restammo in silenzio per un bel po’. Un lungo
momento in cui ci guardammo negli occhi, come se quella sera fosse stata
l’ultima in cui ci vedevamo… Era troppo, per me.
-
Donatello – disse infine Manuel – Hai sofferto un bel po’, a quanto ho capito.
–
-
Così è, Manuel – confermai io, stringendomi nelle spalle, nel tentativo di
minimizzare tutto il nero che gli avevo raccontato.
-
Per prima cosa – mi disse, sbattendo le palpebre – ti faccio i miei complimenti
per essere ancora tra noi. Dopo tutto quello che hai passato, penso che se tu
sia ancora vivo è un miracolo… - abbozzò un sorriso, ed io finalmente intuii
che cosa stava provando. Avrebbe voluto piangere, ma si stava trattenendo
strenuamente.
-
In secondo luogo – continuò – Penso che tu sia un ragazzo straordinario. E che
i ragazzi siano solo una massa di imbecilli, che non sanno guardare oltre
l’aspetto fisico, che non sanno cosa vogliono ma sanno benissimo dove lo vogliono! – alzò un po’ la voce,
mentre pronunciava quel “dove”, visibilmente stizzito.
-
Sai, non credere che la vita di un ragazzo bello come me sia facile. Anzi, se
vogliamo è più difficile. Tutti i giorni devo fare i conti con dei maiali che
vorrebbero portarmi a letto. E con quel termine intendo annoverare anche il tuo
amico Lello, che nel dare una possibilità a tutti, non sa a cosa va incontro.
Mi fanno schifo quelli come lui, perché io sono stato preso in giro molte
volte. – mi guardò. I suoi occhi erano gonfi di lacrime. – Credimi, essere
belli non è facile. – Sospirò, e a quel punto ebbi il segnale di svolta. Mentre
lui abbassava lo sguardo, io colsi l’occasione. Sembrava così fragile, in quel
momento… un bambino sperduto, che voleva piangere ma che si tratteneva.
Oh Manuel, tu
non sai quanto forte mi fai battere il cuore. Sei un ragazzo stupendo, fuori
dal comune. E non solo sei bellissimo fuori. Sei bellissimo anche dentro.
Quanti prima di me hanno avuto l’occasione di vedere la tua fragilità, anche
solo per un secondo… E quanti altri ti hanno fatto male, piccolo Manuel? Chi ti
ha fatto diventare la creatura così altera che si aggira per i corridoi della
Fondazione perché non vuole più essere preda del dolore, chi ti ha lacerato il
cuore così tanto da indurti a difenderti…? Vorrei soltanto essere qualcuno per
te, vorrei essere colui che ti accompagnerà nei tuoi giorni, ma soprattutto
vorrei che tu… mi salvassi da questo dolore che sento dentro.
Mentre
pensavo queste cose, la mia mano scivolava verso la sua. Lambii leggermente le
sue nocche, chiuse a pugno. Quando sentì le mie dita, come per magia si
aprirono, accogliendole. Intrecciai le mie dita alle sue, sentendo il freddo
dei suoi due anelli d’argento, e avvertendo allo stesso tempo la morbidezza
della sua mano, con quelle lunghe dita da pianista e le unghie ben curate.
Sì,
ce l’avevo fatta! Cogli l’attimo,
Donatello! Esclamai dentro di me, mentre mi avvicinavo a lui per
consolarlo.
Manuel
alzò lo sguardo, guardandomi con quegli occhi azzurri così belli, dai quali
fuoriuscivano delle rade lacrimucce. Mi avvicinai a lui, socchiudendo gli
occhi. Lui fece lo stesso, e si avvicinò a sua volta. I nostri visi erano
vicinissimi, le nostre labbra pronte a toccarsi, quando all’improvviso…
dlin-dlon!
Il
campanello del suo appartamento suonò. Sospirando, Manuel si alzò e andò verso
la porta. Sentii il rumore del citofono che veniva preso e lui che parlava.
-
Chi è? – una pausa. – Ah, ciao ragazzi. – altra pausa – No, non mi disturbate
affatto. Non stavo facendo nulla, ero con un amico. – risata da parte di Manuel
– Non sono cazzi vostri. Salite, se volete. –
Io
mi alzai dal letto, e nello stesso momento Manuel entrò.
-
I miei amici. Sono venuti a trovarmi. Che fai, resti a cena con noi? – mi
domandò, poggiato allo stipite della porta.
-
Ehm … è abbastanza tardi e mi farebbe piacere restare, ma l’ultimo autobus
passa alle ventitré. Se lo perdo sono fregato. –
Manuel
fece uno sguardo sconsolato. – Neanche se ti accompagno dopo io, in macchina? –
-
Ah, non disturbarti – risposi io, facendo un gesto con la mano – Sul serio, non
mi dispiace andarmene. E poi… Ci vedremo anche domani. – gli sorrisi,
guardandolo negli occhi.
Restammo
lì così, per minuti interminabili, finché lui non ricambiò il sorriso. Mi
avvicinai a lui e gli baciai una guancia.
-
Vado… buonanotte, Manuel. –
-
Ah… Donatello? – mi fermò.
-
Sì? –
-
Tra una settimana sarà Natale… e sarà anche… il mio compleanno. Lo festeggerò a
Torino, con la mia famiglia. E mi chiedevo se… - si morse il labbro, come
imbarazzato.
-
Cosa, Manuel? Dimmi, non aver paura. –
-
Mi stavo chiedendo se… se volevi venire con me, ecco. –
Natale coi
tuoi, Pasqua con chi vuoi, pensai io, mentre
fuori dalla porta si sentivano già i rumori dei suoi amici che erano arrivati.
In verità avrei dovuto passare il Natale con la mia famiglia, ma l’idea non mi
attraeva più di tanto. Ero sicuro che saremmo passati anche da Bologna per
raggiungere Torino, e forse avremmo fatto una scappatella dai miei, e se ero
abbastanza fortunato, riuscivo anche a trovare mio fratello e Chiara, così
avrei potuto augurare loro Buon Natale.
-
Ci penserò, d’accordo? E ti farò sapere al più presto possibile. –
-
Promesso? – domandò lui.
-
Promesso. – confermai io.
Lui
sorrise, e mi salutò agitando la mano.
-
Buonanotte, Donatello. –
-
Buonanotte, Manuel. A domani. –
Dissi,
e mi avviai verso la porta. I suoi amici mi salutarono ed io salutai loro,
mentre Manuel veniva verso la porta per accoglierli. Salutai tutti e mi
dileguai, scendendo le scale anziché l’ascensore. Avevo bisogno di calmarmi.
Il fatto che
Antonello si fosse allontanato da me, mi dispiaceva. Non era un cattivo
ragazzo, gli piaceva soltanto fare il farfallone e riuscire a conquistare più
gente possibile. Avevo già tentato di avvicinarlo in un paio di occasioni, ma
lui si era fatto sbrigativo e inavvicinabile. Un giorno, però, mi arrivò un suo
messaggio sul cellulare.
“Vediamoci alla
caffetteria” diceva il testo.
Velocemente, senza
nemmeno prendere i libri dall’aula, andai lì. Era ancora vuota, perché a
ridosso dell’inverno, lavorava ad orari differenti. Però rimaneva aperta, per
quei pochi coraggiosi che volevano andare lì e studiare ai tavolini. L’unico
difetto era che dovevano aspettare per essere serviti, in quanto il personale
sarebbe arrivato soltanto alcune ore dopo.
Spinsi la porta a
doppio battente che conduceva nel grande salone della caffetteria. Lì, in
fondo, c’era Lello, in piedi, che mi guardava attentamente. Non chiedetemi
come, non chiedetemi perché, sentivo una certa carica negativa nell’aria. I
fatti accaduti dopo non mi avrebbero smentito.
Lello stazionava là,
senza dire una parola. Io mi avvicinai lentamente, salutandolo – Ciao Lello –
dissi, piano. – Come va’? –
Dopo una lunga pausa
spesa a guardarmi in cagnesco, lui rispose – Lo sai benissimo come va. – disse,
asciutto. – Me l’hai portato via. –
Soltanto due mesi
prima, non avrei mai immaginato che Lello Scaravalli, il simpaticone insegnante
che insegnava a progettare le storie dei fumetti, quello che dava una
possibilità a tutti, si sarebbe trasformato in un uomo rancoroso come quello
che stavo vedendo io quella mattina. Vi dirò anche che non avrei mai immaginato
di doverlo tenere a distanza di sicurezza. Infatti, mi fermai ad una distanza
di tre metri da lui, timoroso di non sapevo nemmeno io cosa.
- Io, Antonello
Scaravalli, bello e aitante, che tutti i ragazzi dovrebbero volere, sono stato
scavalcato da te… un insulso ragazzino obeso e brutto. – le sue parole furono
come pietre per me.
- D… di cosa stai
parlando, Antonello? – balbettai. Tremavo dalla testa ai piedi.
- Fai lo gnorri, eh?
– mi incalzò lui, con gli occhi iniettati di sangue. – Sto parlando di Manuel.
Ti ho visto, quella sera in discoteca. E ti ci avevo portato io! Speravo che me
lo portassi da me e lui m’invitasse a ballare, e invece… invece è rimasto lì
avvinghiato a te. Stronzo. Fai schifo. – Mentre diceva queste parole, si
scrocchiava le nocche. In quel momento ebbi paura.
- Siamo… siamo
soltanto amici. Non l’ho sfiorato con un dito, il tuo Manuel… - dissi, sulle
prime. Poi però ebbi un’illuminazione. – E poi se ci tieni a saperlo, lui non
ti vuole. Non gli piaci! Non sei un tipo affidabile, e lui non è uno di quei
ragazzini ventenni che ti fai ogni giorno. Ha una testa, lui! È diverso dagli
altri! – Parole, affermazioni, aggettivi. Fu tutto quello che riuscii a sparare
in quegli attimi, dove l’adrenalina scorreva insieme al mio sangue ad una
velocità supersonica, ed il cuore mi batteva forte nel petto dall’emozione
mista a paura.
- Balle! Lo so che te
lo sei fatto, lo so benissimo! Uno dei ragazzi mi ha detto che ieri sei stato a
casa sua! non negarlo!!! – urlò.
Visto che urlava lui,
urlai anch’io.
- Sì, è vero! Sono
stato a casa sua, ma non ho fatto niente. Abbiamo soltanto parlato come due
buoni amici! E comunque non sono affari tuoi! Tu sicuramente non l’avresti
rispettato! Gli saresti saltato addosso come il lupo con Cappuccetto Rosso! –
vi confesserò che stavo per scoppiare a ridere, a quell’affermazione, ma il mio
senso di protezione verso Manuel mi frenò. Istintivamente, allungai le mani
dietro di me, presagendo che stava per succedere qualcosa.
- Mi hai veramente
deluso, Donatello. Ma adesso te la farò pagare. – disse, e venne avanti,
mettendomi le mani addosso.
Con una rapidità che
non mi riconoscevo, scartai di lato tra due tavolini, facendone cadere uno.
Agile come un gatto, Antonello li scavalcò, cercando di agguantarmi il braccio.
Io corsi verso un angolo della stanza, guardandolo come un topo avrebbe
guardato il gatto.
- Non ti servirà a
nulla fuggire, Donatello. Regoliamola da uomini, questa faccenda. Chi rimane
vivo, vince. Come si faceva ai vecchi tempi. –
- Non… non siamo più
negli anni settanta. Siamo nel 2010. – Nel frattempo, vidi con la coda
dell’occhio che fuori dalla caffetteria si era formata una piccola folla di curiosi.
Andate a chiamare qualcuno, imbecilli!
Andate, prima che questo mi riempia di botte! Pensai, ma nessuno si mosse.
E fu allora che
Antonello mi sorprese. Mi tirò uno schiaffone talmente forte da farmi volare
via gli occhiali. Io barcollai su un tavolino, finendoci seduto sopra. Lui
venne avanti, incazzato e ghignante, ed io reagii malissimo al suo violento
tentativo di sopraffarmi: La mia gamba si mosse e partì all’attacco,
calciandogli uno stinco.
- Ahhhh! – gemette –
Figlio di …!!! – esclamò, zoppicando. Io cercai di andare via, ma lui mi
trattenne per un braccio. Io lo acchiappai per quel braccio e lo tirai,
facendolo barcollare e finire su un mucchio di tavolini. Cadde rovinosamente,
ma non abbastanza da impedirgli di afferrarmi una caviglia e farmi cadere a mia
volta. Sbattei la testa contro una sedia lì vicino, il colpo mi stordii per un
attimo. Come una belva affamata, Antonello mi trascinò a sé, senza che io
avessi la possibilità di ribellarmi, e in un attimo mi fu addosso. Mi riempì di
sberle, mentre io cercavo di levarmelo di dosso. Le sue ginocchia sul mio
stomaco mi stavano facendo un male atroce, tanto che urlai. Con le mie dita
cercai di artigliargli la faccia, ma a causa della mia onicofagia (mi mangiavo
le unghie), non gli feci male più di tanto.
- Bastardo! Pezzo di
merda! Te la faccio pagare!!! – disse, e prese a sbattermi la testa sul
pavimento talmente forte che per un attimo vidi le stelle. Quella testa che non
mi ero rotto con l'incidente, voleva scassarmela lui, a suon di craniate
sul pavimento. Urlai fortissimo dal dolore, ma ciò non mi impedì di reagire.
Con quell’ultimo briciolo di lucidità rimasta, gli afferrai un polso e me lo
misi in bocca, iniziando a mordere.
I miei denti
affondarono nella sua carne, e lui lanciò un urlo di sorpresa. E più mordevo,
più lui si dimenava dal dolore.
- Ahhh!! Lasciami,
figlio d’un cane!!! –
Ma io non smisi
finché lui non mi scaraventò su un altro tavolino dove battei un’altra volta la
testa. Qui il colpo fu un po’ più forte.
Nel frattempo, nella
sala entrarono il direttore della Fondazione e un paio di altri insegnanti
anziani, appena arrivati. Insieme a loro c’era Manuel, che cacciò un grido di
sorpresa nel vedermi accasciato a terra, con la testa sanguinante.
- Che sta succedendo
qui, in nome di Dio?!? – tuonò il direttore. Due insegnanti mi soccorsero,
chiedendomi se stavo bene. Insieme a loro sopraggiunse Manuel, che mi prese la
mano nelle sue e mi domandò cosa fosse successo.
Con un filo di voce,
risposi – Antonello.. mi… mi ha picchiato. –
- Cristo – bestemmiò
Manuel, alzando lo sguardo verso Antonello, che stava massaggiandosi il polso
che io gli avevo morso.
Antonello non
rispose. E fu lì che ebbi la convinzione che non avrei mai più rivisto la
faccia di Antonello Scaravalli lì alla Fondazione.
Due giorni dopo, il
ventitré dicembre, seppi che Antonello era stato espulso dal Centro. Normalmente
una cosa del genere non si sarebbe risolta con una soluzione così drastica, ma
il Consiglio di Fondazione non approvava la violenza, in nessuna forma.
Dopotutto quella era una fabbrica di sogni, non un ricettacolo di picchiatori.
Ovviamente mi chiesero di spiegare l’accaduto, ed io risposi che il signor
Scaravalli mi aveva picchiato per gelosia nei miei confronti. Dopo il mio
interrogatorio, il caso fu archiviato.
Visto che avevo avuto
occasione di essere ricoverato all’ospedale di Pavia soltanto sei mesi prima,
non poteva mancare occasione per visitare quello di Roma. Questa volta mi
fasciarono la testa, applicando due punti di sutura al sopracciglio destro, che
si era aperto durante l’incontro-scontro con il tavolino. Dovevo forse
aspettarmi di visitare un altro ospedale, dopo sei mesi a quella parte?
L’unica cosa positiva
fu Manuel. Non mi biasimò per aver usato violenza contro Antonello, anzi fu
contento che venne licenziato. Ed io che lo credevo una brava persona! Dopo il
suo sfogo, questa mia credenza fu smantellata totalmente, perché era fin troppo
chiaro che lui cercava una persona meno bella di lui perché voleva primeggiare…
Patetico e puerile. Ecco gli aggettivi giusti per descriverlo.
Tuttavia, prima che
Antonello raccogliesse le sue cose e sparisse per sempre dalla mia vita, così
rapidamente come era apparso, ebbi l’occasione di assistere ad un colloquio che
ebbe con lo stesso Manuel.
Ero appena tornato
dall’ospedale, e volevo aggiornare Manuel sulla mia situazione. Così andai
nella sua aula, sperando di trovarlo. E lo trovai, però non era solo.
Insieme a lui c’era Antonello, e stavano parlando abbastanza animatamente.
Mi acquattai accanto
alla porta per non essere visto, ma non riuscii a cogliere granché della
conversazione. Capii soltanto che Manuel si stava difendendo, che non voleva
più saperne di lui e che trovava riprovevole il modo in cui voleva sistemare la
questione con me. Disse anche, il bel Manuel, che se c’era stata qualche
possibilità di preferire Antonello a me, quell’infima possibilità si era spenta
quando mi aveva visto accasciato a terra, sanguinante e tumefatto. Decisi che
avevo sentito abbastanza, e mi allontanai. Poco dopo, ricevetti un sms sul
cellulare. “Buona fortuna con lui. Ne avrai bisogno. Addio.” Era di Antonello.
Non gli risposi, non capendo a cosa si riferisse. L’avrei scoperto il giorno
dopo, il ventiquattro dicembre.
Il ventiquattro
dicembre, in occasione delle ferie natalizie, il Centro doveva essere chiuso,
ma così non era. Dato che oltre che un posto per insegnare era anche una specie
di centro ricreativo, capitava che alcuni dei suoi frequentanti andassero lì
per svagarsi un po’. Nel mio caso, per studiare un po’.
Sì, avrei potuto
starmene in casa a studiare in tutta tranquillità, ma vi dirò una cosa, in
tutta onestà: mi sembrava di essere in prigione. Nessuno attorno a me, nemmeno
un Francesco con un qualche amante (ah già, dimenticavo che lui si era
fidanzato) a farmi compagnia. Quindi andare in un posto dove c’era un minimo di
vita, era per me una tappa obbligata.
Oltretutto, non
vedevo Manuel da tre giorni. Non c’era nemmeno la sua Multipla nel parcheggio,
quindi pensavo che si fosse ritirato a casa. Alle mie chiamate non rispondeva,
e ciò mi faceva abbastanza male. Cercavo di non pensarci, leggendo avidamente i
miei manuali di diritto (avrei dato un esame a Gennaio, così sarei andato a
quota meno tre dalla laurea), ma ugualmente il pensiero andava a lui. E mi
faceva male.
Pensai anche di
andare a trovarlo a casa, visto che non reagiva male alle visite a sorpresa, ma
il mio spirito di bolognese corretto me lo impedì. Per cui aspettai.
Mentre studiavo,
seduto ad un tavolo della biblioteca del Centro, vidi Manuel che si avvicinava.
Anche quel giorno era vestito bene, come sempre. Mi sorrise.
- Manuel – dissi,
alzandomi – Sei tornato. Che cosa è successo…? –
Lui si strinse nelle
spalle, sorridendomi. – Niente di grave. Avevo solo bisogno di un po’ di tempo
per pensare. E poi… ho dovuto preparare le valigie. Ti ricordo che non mi hai
ancora dato una risposta alla mia offerta di passare il Natale a Torino con me.
– incrociò le braccia e mi guardò con una punta di severità, sebbene stesse
sorridendo.
- Ecco, io… -
cominciai, ma lui mi fermò con un gesto della mano.
- Aspetta. – mi
interruppe – Qualunque sia la tua decisione, prima devo farti vedere una cosa. –
mi disse.
- Che cosa? – chiesi
io.
Lui mi strizzò l’occhio,
e allungò una mano inguainata in un paio di guanti senza le dita.
- Seguimi. – mi
ordinò.
A quell’ora del
pomeriggio il Centro era semivuoto, occupato soltanto da qualche impiegato che
se ne stava chiuso negli uffici a leggere il giornale. Dolce vita romana…
- Dove mi stai
portando? -domandai io, mentre Manuel
mi precedeva a passo spedito, con quelle sue gambe lunghe.
- Shh.
– mi zittì portandosi un dito alle labbra. – E’ una cosa che voglio farti
vedere. Ti fidi di me? –
- Io… ma sì che mi
fido di te, ma…-
- E allora non fare
domande. – concluse, asciutto, strizzandomi l’occhio e largendomi un sorriso
furbetto.
Giungemmo in un
corridoio che terminava con una porta a doppio battente. Su uno dei battenti
c’era applicata una targhetta con su scritto “Aula Proiezioni”. Mi domandai chi
avrebbe potuto vedere quella scritta da una targhetta così piccola, da lontano.
Manuel prese un mazzo di chiavi dalla tasca dei pantaloni, ne infilò una nella
toppa e la girò, sbloccando la porta.
- Prego – mi invitò ad
entrare. Io entrai, mentre lui rimase fuori. Improvvisamente poi, mi chiuse la
porta alle spalle. Io mi voltai e la riaprii, e lo vidi che si avviava da
un’altra parte.
- Ehi, dove stai
andando? –
- Uffa, che
rompiscatole. – disse lui ridacchiando – Entra lì dentro e prendi un posto, e
non rompere! – concluse, facendomi una linguaccia. Poi scomparve dietro
l’angolo del corridoio, saltellando allegramente.
- Mah…? – mugugnai
io. Chiusi la porta e osservai l’ambiente. Era come un grande cinema, con la differenza
che oltre allo schermo bianco c’era anche un palco con un leggio, il pavimento
foderato da una moquette blu scuro, e le poltrone dello stesso colore. Guardai
in alto, dove alla fine della scalinata che conduceva alla balconata, c’era una
porticina, probabilmente l’accesso alla cabina di regia.
Improvvisamente, le
luci si abbassarono, e io mi affrettai a trovare una poltrona prima che si
spegnessero del tutto. Capii che era Manuel che stava manovrando tutto quanto,
ma non volevo rompergli ulteriormente le scatole con una qualche esclamazione
di troppo. Mi accomodai su una poltrona al centro della sala.
Le luci si spensero
del tutto, e per qualche minuto la sala fu immersa nel buio. Dopo pochi
secondi, lo schermo si illuminò come succede al cinema, proiettando quello
sfarfallio senza immagini che prelude all’inizio del film. Avevo capito, voleva
farmi vedere qualcosa che aveva creato lui. Ma se sperava di ottenere un mio
parere tecnico sulle sue proiezioni, cascava male. Io ero un fumettista, un
illustratore… non un esperto di cinematografia d’animazione come lo era lui.
Sorrisi, e mi predisposi a guardare la proiezione.
Il filmato
incominciava con le note di una canzone che conoscevo fin troppo bene…
Sullo schermo
comparve poi un personaggio. Rotondetto, paffutello, eppure carino nel suo
complesso. Era disegnato in stile manga, sembrava timido ed indifeso, ma ad un
occhio esperto come il mio, non era sfuggito che era un “seme” (un attivo).
Seduto su una panchina, guardava la sua immagine riflessa in uno stagno. Non
c’erano parole a descrivere la scena, soltanto la musica di Cesare Cremonini…
Eppure era tutto chiaro. Il ragazzo non si piaceva.
Proprio come me.
*** Vorrei,
vorrei...
esaudire tutti i sogni tuoi,
vorrei, vorrei...
cancellare ciò che tu non vuoi ***
Il campo si allargò,
e l’immagine sfumò in una specie di flash-back, dove il ragazzo immaginava
tutte le sue fiamme precedenti. Quel pezzo mi toccò parecchio nel profondo,
perché tutti avevano rifiutato quel ragazzotto carino ma un po’ in carne, chi
buttandolo in acqua, chi spingendolo via, chi evitando di rispondere alle sue
chiamate. Mi si strinse il cuore, ma cercai di resistere.
*** però, lo sai che io vivo attraverso gli occhi tuoi... ***
*** Vorrei, vorrei...
che tu fossi felice in ogni istante
vorrei, vorrei...
stare insieme a te, così, per sempre
però, lo sai che io vivo attraverso gli occhi tuoi… ***
Ad un certo punto i
ricordi finivano, ed il ragazzo tornava a guardare l’immagine riflessa nello
stagno. Accanto a lui era comparso un altro ragazzo. Questi aveva i capelli biondi
e gli occhi azzurri, e lo guardava con tanto affetto. Anche questo ragazzo era
disegnato in stile manga; Il ragazzo paffuto alzò lo sguardo, e vide che
accanto a lui il ragazzo riflesso nello stagno c’era sul serio. Questi era di
bellissimo aspetto, magro e slanciato, un po’ più alto del personaggio
principale, il ragazzotto paffuto. Somigliava tanto a Manuel.
Improvvisamente
capii. E gli occhi mi si inumidirono di lacrime.
Manuel aveva creato
quel filmato perché…
*** E vorrei poterti amare
fino a quando tu ci sarai
sono nato per regalarti quel che ancora tu non hai, così se vuoi portarmi
dentro al cuore tuo, con te… io ti prego, e sai perché... ***
Perché….
- Vorrei, vorrei…
esaudire tutti i sogni tuoi… -
Alle mie spalle, il
profumo dolce di Manuel mi entrò nelle narici, insieme alla sua voce morbida e
sensuale. La sua mano si era posata sulla mia spalla, e l’altra mi stava
carezzando i capelli. Le sue labbra mi sussurravano la canzone all’orecchio, mentre
io ero incredibilmente toccato dall’emozione.La sua mano mi toccò la guancia, ed io presi l’altra nella mia,
carezzandogliela. Intanto, il cartone animato mostrava i due ragazzi che
ballavano insieme, fino a che entrambi decidevano che era arrivato il momento
per…
- Vorrei, vorrei…
cancellare ciò che tu non vuoi… però… lo sai, che io vivo attraverso gli occhi
tuoi…. –
Mentre la musica
continuava, concludendo la canzone, Manuel balzò accanto a me, guardando gli
ultimi fotogrammi del cartone. Finalmente i due personaggi si baciavano.
Dissolvenza a
scomparsa a forma di cuore.
*** Vorrei,
vorrei...
esaudire tutti i sogni tuoi,
vorrei, vorrei...
cancellare ciò che tu non vuoi
però, lo sai che io vivo attraverso gli occhi tuoi... ***
- Ti è piaciuto? – mi
chiese Manuel, accoccolandosi accanto a me.
- Moltissimo… -
- Hai capito il
messaggio sottinteso? –
- Sì… - risposi -
…Penso che sia lo stesso messaggio che io ho tenuto dentro fin dal momento in
cui ti ho visto. –
Dolcemente Manuel mi
prese a sé, ed io feci lo stesso. Mi baciò la guancia, mormorandomi quelle due
parole che ogni ragazzo vorrebbe sentirsi dire dal ragazzo che gli piace…
- Ti amo, Donatello.
–
Toccato nel profondo,
io risposi senza paura alcuna.
- Ti amo… Manuel. –
Ci guardammo negli
occhi un solo, lunghissimo istante. Poi ci avvicinammo, quasi in sincronia… e
le nostre labbra si toccarono, in un bacio sensuale e appassionato.
In quel momento mi
sembrò che tutte le brutture che avevo passato durante quell’anno se ne
stessero andando lentamente, aiutandomi a respirare di nuovo. Ripensai a
Francesco e Nicholas, ad Ermanno e Chiara… a Dandy che era soltanto un pallido
ricordo ed alla lezione che avevo imparato ovvero che un umano non può vivere
in un mondo di carta, ma che la fantasia può a volte essere la migliore amica
per non perdere la ragione…
Ma
ora non è più fantasia. Questa è la realtà. Finalmente.
- Allora? Mi vuoi
dire se vieni con me? – mormorò Manuel, mentre io lo accarezzavo.
- Certo che ci vengo.
Avevi creduto che non volessi venire? –
Lui annuì, e
ridacchiò furbescamente.
- Ma dai, sul
serio?!? Allora non vengo più con te, ecco. – dissi io, scherzosamente.
- Eh no – mi bloccò
lui – Adesso con me ci vieni. Ho bisogno di qualcuno che guidi la mia auto
quando sarò stanco durante il viaggio, che mi faccia compagnia, e che a letto
mi faccia un po’ di… - non concluse la frase, si limitò a leccarsi le labbra.
Io lo guardai sorridendo e gli feci l’occhiolino.
- Hai scelto l’uomo
giusto, baby. – dissi, abbassando la mia voce di parecchie ottave, rendendola
il più possibile simile a quella di Humphrey Bogart.
Felice come una
pasqua, Manuel si avvinghiò a me e mi baciò con passione. Io lo strinsi dolcemente
a me, pensando ancora una volta che un ragazzo, quanto più duro vuole sembrare
agli altri, tanto più dolce è nell’intimità. Sotto le mie coccole Manuel si beò
come un gattino. Ci baciammo di nuovo, nel silenzio della sala, felici di
essere l’uno insieme all’altro. Più di entrambi, ero felice io; felice di
sapere che quella era la realtà. E non soltanto un sogno popolato di bei
ragazzi vuoti, per cui… troppo bello per essere vero.
Capitolo 40 *** Making of - appunti dello scrittore ed opinioni dei protagonisti ***
MAKING OF
Frammenti di opinioni dei protagonisti
E appunti del regista.
Dagli appunti di Notrix, scrittore della
fan-fiction
Tema centrale: la bellezza esteriore ed il suo rapporto nel mondo omosessuale.
Critica: tutte le fiction che ho letto finora su EFP, ma tutte le fiction shonen-ai in generale, vedono come protagonisti personaggi
bellissimi e pieni di problemi. Ma Cosa??? Nella realta’ i ragazzi
bellissimi tutti questi problemi non li hanno!!! Un ragazzo bellissimo,
conclusa una storia d’amore, va subito a rifarsi con un
altro, con tanti saluti alla tanto decantata sensibilita’ del mondo
omosex. E con tanti saluti alle fiction che vedono trionfare l’amore tra
ragazzi bellissimi.
Notrix – Scrittore
…Sì, è vero, ho scritto questa fiction con
l’intento di far vedere il brutto del mondo omosex. Magari scrivendo quelle
righe ho leggermente tracimato, tanto che magari adesso penserete che i ragazzi
carini siano tutti delle gatte in calore. Ebbene, non è così. Mi auguro che non
sia così. Però per la maggior parte dei casi le mie teorie sono confutate… E lo
dico con dispiacere, perché tutti vorrebbero una storia d’amore come quelle
decantate dalle fiction, solo che questo ovviamente non è possibile: non
esisterebbe il termine “Fiction”, ovvero “Finzione” se nella realtà ci fossero
solo storie d’amore perfette.
Donatello Tarasconi – Protagonista
L’intento di Notrix
è stato quello di mostrare, quanto più fedelmente possibile, come un ragazzo
come me si relazioni al mondo omosex, così esigente e superficiale da non
tollerare le differenze fisiche. Infatti la storia è narrata da me in prima
persona, che osservo, faccio considerazioni, mi emoziono. Cercando di tenere a
bada quel dolore sotteso che è alla base di chiunque si trovi in una situazione
di, se così vogliamo chiamarla, emarginazione…
***
Donatello: mi sta sulle scatole
Nicholas che pensa di poter avere tutto solo perché si crede bello.
Francesco: Perdonalo, ha soltanto
diciotto anni. Sarai stato così anche tu, alla sua età…
Donatello: No, mio caro! Alla sua età io avevo
già dato tutti gli esami del mio anno in corso! E non andavo certo a dire ai
magri di andare a fare palestra, io!
***
Francesco Arduini – Amico di Donatello
Francesco, il mio personaggio, è un ragazzo
un po’ “ibrido”: nel senso che ha un sacco di ragazzi, e, anche se nella storia
non è espressamente detto (perché Donatello non lo sa, quindi non può nemmeno
immaginarlo) è che Francesco, in ogni sua avventura amorosa cerca il fidanzato
ideale. Questo è un po’ un alibi che ogni ragazzo si crea, ovvero “non riesco a
trovare quello giusto, quindi nel frattempo mi diverto” – non è sempre detto.
Perché chi va all’avventura, nella maggior parte dei casi non sa cosa vuole,
oppure lo sa benissimo, ma non è certo una relazione stabile.
Il mio personaggio è molto poco
visibile; per lo più si limita a qualche comparsa per evidenziare lo stato di
invidia che Donatello prova per me, o per risaltare le differenze fisiche e
psicologiche tra me e lui, salvo poi “rivelarsi” verso la fine, come unico
nonché miglior amico di Donatello.
Daniel D. Taylor – Dandy Landy
*parlando con accento anglosassone* Che bello
sarebbe se i nostri sogni potessero realizzarsi! Purtroppo però non è
possibile, perché altrimenti… non sarebbero più sogni ma sarebbero realtà,
oppure… avrebbero comunque una differenza da ciò che avevamo sperato. Mi spiego?
*fa una risatina* …questo è il caso di Donatello, che una volta che vede vivere
Dandy Landy, viene deluso un’altra volta, poverino…
perché il Dandy che aveva immaginato lui è totalmente diverso da quello che
veramente è.
Ermanno Tarasconi – Fratello di Donatello
Nella fiction, il mio personaggio rappresenta
la famiglia, ovvero la “piattaforma della realtà” per eccellenza… Ermanno vuole
bene a suo fratello, finché non scopre che Donatello è omosessuale e lo
ripudia. È una cosa molto simbolica ed esplicativa della realtà, dove troppo
spesso le famiglie, che fanno fatica a capire una cosa così normale, quasi
sicuramente non riuscirebbero a capire i disagi interconnessi ad una tale
situazione, qual è quella di Donatello. L’unica soluzione a questo problema è l’amore.
Ermanno alla fine capisce di aver sbagliato e accetta suo fratello per quello
che è.
Antonello Scaravalli
– Collega di Donatello.
Mettendo su uno stesso piano i personaggi, si
potrebbe dire che Francesco e Antonello sono due opposti: l’uno è lo Zenith
bianco, mentre l’altro è lo Zenith nero. Infatti, Francesco ha tante avventure
perché magari sta cercando l’anima gemella fra le sue frequentazioni; l’altro
invece, si diverte, senza un obiettivo preciso… E oltretutto dimostra una falsa
maschera di amicizia nei confronti di Donatello, solo perché gli fa comodo
avere un amico bruttino che sottolinei la sua bellezza… Quando poi questo
meccanismo s’inceppa, ovvero Donatello riesce ad entrare in contatto con il
ragazzo più bello, che addirittura aveva rifiutato Antonello, quest’ultimo
reagisce male, picchiando Donatello.
Manuel Chiaravalle – Collega di
Donatello e poi fidanzato
Se questa fosse stata una favola, sicuramente
si sarebbe potuto dire che il mio personaggio era il principe azzurro che va a
consolare la principessa triste e zitella. Dato che questa è una fiction un po’
più di spessore, dirò soltanto che Manuel è uno dei pochi ragazzi carini che
vivono in modo diverso la loro omosessualità. Sono praticamente quelli a cui
non piace essere considerati degli oggetti, e che vorrebbero tanto avere
qualcuno al loro fianco che non li guardasse solo per il loro fisico, quanto
per ciò che sono dentro. Manuel dichiara a Donatello che è stato deluso più
volte da ragazzi che lo volevano soltanto per farci sesso. In Donatello invece
sembra aver trovato qualcuno che non guarda solo al fisico ma anche all’essere.
In poche parole, uno con cui ci si trova. E infatti le scene finali vedono
Donatello e Manuel fidanzati.
Finale: Dichiarazione d’amore di Manuel per Donatello.
Backstages!!!
(durante la
lavorazione della pellicola ^_^)
*inquadratura del Ciak con su scritto
TROPPO BELLO PER ESSERE VERO – scena 18 take 3 *
Notrix: Silenzio… Motore… ciak! AZIONE!
*Scena di Donatello che disegna Dandy Landy, con il ragazzo dietro che sorride e fa l’occhiolino
alla cinepresa*
Notrix *passeggiando per la città* : questo è il centro di Bologna,
città dove è ambientata la fiction… lì *la telecamera si sposta verso una
costruzione* c’è via Zamboni, che porta direttamente alle Due Torri e dove c’è
l’appartamento di Donatello e Francesco.
Notrix *a tutti gli attori*: Ragazzi, che ne dite se ognuno di voi dice
una frase o fa un saluto ai propri parenti nel proprio dialetto? Chi comincia?
Francesco: Sì.. allora… *Si prepara,
poi di colpo si illumina e urla*UELLAAAA’ ^___^ Zaoragaziiiii!!!
Mi go recidado la fiction de Notrix!!!
Fora ì schei, che go vinto la scomesa!!! Ahahah!
Donatello: ‘Sto
veneto… ahahah XD I veneti sono i terroni del nord!
Notrix: Molto bene… Tu, Manuel?
Manuel: Io cosa? °_°
Notrix: dai, dì qualcosa in piemontese per … hmmm…
ecco, per descrivere come sono le giornate delle riprese!
Manuel: Ah… Va bene, ci provo… *Ci
pensa su* …mmmm… Ah ecco! Esse pi
long che nagiornàsensa pan, néh!
Donatello: e cosa vuol dire?
Manuel: che sono più lunghe di una
giornata senza pane XD
*Tutti si mettono a ridere*
…Durante le pause…
Donatello: Orco boia, ma quanto mangi,
Francesco? °-°
Francesco: Eh, quando faccio l’amore
mi viene sempre un po’ di fame…
Donatello: NO! Non mi dire che…
Francesco: Sì sì, te lo dico… *indica
Antonello che si sta aggiustando i pantaloni*
Donatello: ahahah…
oddio, te se non lo prendi almeno una volta, non sei contento eh? XD
*Francesco alza le mani e gli occhi al
cielo, come un santarellino*
*Nicholas abbraccia Donatello*
Nicholas: Ehi ragazzi non è vero che
io lo odio, questo qui… gli voglio un bene dell’anima, invece ^_^
*Donatello fa dei gesti come per dire
“Non è vero”* :P
Nicholas: Brutto stronzo! Non fare
gesti! XD
Donatello: XD
Nicholas: adesso ti faccio vedere io!
*si avvinghia a Donatello e lo bacia appassionatamente*
Donatello: MMMMFFFHH OxO
*Da dietro passa Dandy Landy che se la ride*
Notrix *fuori campo* vuoi aggiungere qualcosa, adesso che l’hai
slinguato per bene?
Nicholas: Sì… *si avvicina alla
telecamera* Bacia anche tu un panda. Lo salverai dall’estinzione.
*Tutti i presenti ridono, Francesco va
a baciare Nicholas*
Donatello: Ma vaffanculooooo!!!
>____<
Notrix: Signore e signori vi presento… i due spilungoni!
*La telecamera si sposta su Dandy Landy e Manuel, che sono effettivamente molto alti*
Dandy: Hi :3 ciao!
Manuel: Sì vabbéNotty, ma non è che puoi presentarci come degli
spilungoni, su dai…
Notrix: siete i miei due spilungoni preferiti XD
*Dandy ridacchia, non sapendo cosa
dire*
Manuel: Che cazzo ridi tu! XD Why the hell are
you laughing?
Dandy: Because you, ya’ll are sooooo freaky funny :D
Manuel: che facciamo, gli mettiamo I
sottotitoli per questa? °-°
Notrix: ma che sottotitoli … ma traduci tu quello che ha detto, no?
Manuel: Ehm… vabbé…
che hai detto, Dandy?
Dandy: What?
°3°
Francesco: demente di Collegno, non ti
capisce! Parla poco l’italiano, è australiano!
Manuel: puttana di Castelfranco
Veneto, allora vieni tu a tradurre visto che sei tanto bravo! >_>
Francesco *in un inglese molto
maccheronico, da bagnino di Riccione*: Schiusmi sir, cheniuripitbicouse non abbiam capit?
Dandy *si mette a ridere e con lui
tutta la troupe* hahahahaahaa
Nicholas: amore che figura di merda…
Francesco: Ma andate tutti in mona, và… >/////>
*Problemi di inquadratura…*
Notrix: Manuel è veramente troppo alto… come possiamo fare per fargli un
piano americano senza far sembrare Donatello un tappo?
Donatello: Mi metto le scarpe coi
tacchi? Heheheh!
*Manuel ridacchia insieme a lui*
Johnny: Un bel problema.. *scatta una
foto a Manuel e Donatello, che sorridono*
Notrix: ho trovato!
Johnny: eh? °_°
Notrix: Manuel, monta in groppa a Donatello e la giriamo così!
Manuel: Subito! ^_^ *sale in groppa a
Donatello*
Donatello: Azzo, sarai magro ma pesi
come una bestia… ma quanto sei…??
Manuel: sono novantadue chili per un
metro e novantasette ^_^
Johnny: Sei una bestia XD
Manuel *dalla groppa di Donatello*: XD
Yaaaaa!!! Corri cavallo, corri!
*Donatello ansima per lo sforzo*
*Notrix se
la ride di gusto XD*
*Si sta riprendendo una nuova scena.
Mentre Donatello e Manuel stanno parlando e camminando, cade un microfono*
Donatello: è caduto il microfono …
Manuel: L’abbiamo fissato male, mi sa
XD
*Subito accorrono Notrix
e il fonico in presa direttaa fissarlo
sull’asta*
Notrix: ma porca… *urla* OH, non c’è del super attak
da qualche parte? S’è spezzato il gancio di fissaggio…!
Nicholas: L’avevo detto io che si
sarebbe rotto.
Notrix: taci, UCCELLACCIO DEL MALAUGURIO! >_<
Nicholas: hihihihih
XD *ridacchia malignamente*
*la visualizzazione dei girati in sala
montaggio, negli studi di EFP*
Notrix: In ‘sta scena si vede troppo il pene di Donatello… dovremo
rifarla mi sa…
Ermanno: E come facciamo? Torniamo
all’autogrill e la rimontiamo?
Notrix: No, vabbé… al limite spostiamo un po’
più in su l’inquadratura… cambiamo il copione, mostriamo solo l’espressione di
Donatello…
*Inquadratura dei vari attori che
ripassano le battute prima di una scena. Donatello saluta, Dandy Landy ed i suoi amici fanno l’occhiolino e mandano baci.*
*Inquadratura di Notrix
che mette l’occhio dietro la cinepresa, poi di una piccola folla di curiosi che
guardano le riprese del film.*
Donatello *canticchia*: Johhnny… è quasi magia, Johnny… ♪
Johnny: Smettila di prendermi in giro,
scemo xD
Donatello: Dài
che scherzavo :D Sai che eri il mio idolo quando ero piccolo??? Tu, Sabrina, Tinetta, tutti quanti :D Vi amavo!
Johnny: Eh beh, grazie ^_^ Sono
passati tanti anni…
Donatello: Eh infatti… e adesso cosa
fai? *bisbiglia* lo so benissimo cosa fai, ma qui stiamo girando i backstages… quindi fai finta di rispondermi come se non mi
conoscessi :P
Johnny: Sono il direttore della
fotografia *mostra orgoglioso la sua macchina fotografica* il mio compito è di
decidere, insieme a Notrix, il taglio, la luce e l’inquadratura
di tutte le scene, nonché di tenere un book fotografico dell’intera fiction J
Donatello: Grazie Johnny! *si rivolge
di nuovo alla telecamera* e voi… non perdetevi la prossima puntata de “I
mestieri del cinema” condotta da Me! Ya-huuu! ^_^
Manuel: Ragazzi, voglio presentarvi…
una persona che voi conoscete bene. ^_^
*nell’inquadratura appare Marco, delle
precedenti fiction di Notrix, “Semplicemente… Un
bacio”*
Marco: Ciao ^_° vi ricordate di me?
Manuel: Sicuramente si ricordano di
te, Marco… Grazie per essere venuto a trovarci… Comunque volevamo dire che presto
io e lui saremo insieme in una nuova fiction… Ve lo diciamo in anteprima, Notrix ci ha dato il permesso ^_^
Marco: sì! Esatto ^_^ Io e questo
spilungone qui...
Donatello: I due Stanlio e Ollio del
Canavese XD
Manuel: :P scemo!
Marco: hahahah!
Manuel: Comunque sì… io e lui ci
conosciamo da quando frequentavamo il liceo… solo che non ci siamo mai parlati,
e ci siamo ritrovati qui, per puro caso. :P
Marco: a fare gli attori per delle
fan-fiction :P che ca…………so!
Manuel: restate sintonizzati su questo
canale, che poi ci vedrete con la nuova storia di Notrix,
ci raccomandiamo!
* inquadratura di una sala
cinematografica con tutti gli attori che guardano il finale della fiction.
Qualcuno sorride, qualcun altro si commuove. Manuel e Donatello s’inchinano e si
abbracciano, sorridendo all’obiettivo*
* saluti finali *
Donatello: Ciao a tutti, grazie per
averci apprezzati ;)
Manuel: Un saluto a tutti, grazie!!! ^_^
Daniel Taylor (Dandy Landy) e tutti gli altri “personaggi immaginari”: Ciao Italians! Siete Favolosi! :3
Ermanno e Chiara: Ciao… Ciao! J
Francesco e Nicholas: Ciaaaaaaaaaaaaao!!! :D
Antonello e i ragazzini del centro: Ahòòòòò!!! Abbelli capelli!!! Ciao a tutttiiii
Grazie GrazieGrazieeee!
Simone: anche se sono comparso in
poche scene… Vabbé… Ciao, grazie anche da parte mia
^_^