Troppo bello per essere vero

di StephEnKing1985
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 29 ***
Capitolo 31: *** Capitolo 30 ***
Capitolo 32: *** Capitolo 31 ***
Capitolo 33: *** Capitolo 32 ***
Capitolo 34: *** Capitolo 33 ***
Capitolo 35: *** Capitolo 34 ***
Capitolo 36: *** Capitolo 35 ***
Capitolo 37: *** Capitolo 36 ***
Capitolo 38: *** Capitolo 37 ***
Capitolo 39: *** Capitolo 38 ***
Capitolo 40: *** Making of - appunti dello scrittore ed opinioni dei protagonisti ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Signore e signori, benvenuti nella mia vita. Entrateci piano, in punta di piedi, ed osservate le meraviglie che la mia mente è riuscita a concepire. Un mondo simile al vostro, con tutte le similitudini del mondo reale: case, palazzi, uffici, automobili, strade… tante persone comuni e qualche persona speciale;

in questo caso, le persone speciali sono i miei personaggi. Loro sono creature della mia mente, amici che mi sussurrano all’orecchio ciò che hanno da dire, ed io prendo i loro racconti, e come in uno psicodramma, li faccio recitare nei ruoli che si sono scelti. Non uso una cinepresa, né una macchina per scrivere, bensì mi basta una matita.

Oh, perdonate la maleducazione, non mi sono ancora presentato. Mi chiamo Donatello, ho ventiquattro anni e ho la passione per il disegno. Disegno fin da quando ero bambino, fin da quando ho imparato a tenere la matita in mano. Inizialmente i miei erano solo disegni senza capo né coda, ma poi hanno iniziato a prender forma, e a diventare quello che io chiamo “il mio piccolo mondo di carta”, appropriandomi di una definizione abbastanza sfruttata, ma che comunque conserva il suo bel perché. Disegnare per me è un atto di liberazione, di dolcezza. L’unica dolcezza che mi è concessa, dal momento che la mia vita non è tanto dolce come potrebbe sembrare.

Sono gay, (eh sì…) e questo è un motivo di disagio per me, non tanto per ciò che sono, quanto perché non riesco ad essere felice. Tutto ciò che vorrei sarebbe un ragazzo al mio fianco, ma più che amici non riesco ad ottenere. Fiorella (la mia psicologa) dice che anche gli amici sono parte della vita, e non è da sottovalutare una persona che possiede degli amici. Io le rispondo che vorrei affetto fisico, ma lei mi risponde, sempre tranquilla e serafica, che certe cose arriveranno col tempo. Direi che a forza di aspettare e provare, sono arrivato a ventiquattro anni, ma senza concludere molto. Solo una lunga lista di persone che mi hanno deluso.

Sì, avete ragione, trovare l’anima gemella è difficile, poi quando la si trova bisogna saperla tenere ed averne cura, ma … secondo voi, può essere tanto difficile prendersi cura di una persona che si ama? È davvero un peso come può sembrare? Spero di no, altrimenti non avrebbe nemmeno senso mettersi insieme ad una persona, se il tutto si riducesse ad un mero impegno formale…

Tuttavia, tra la sfilza di delusioni, mi sforzo di cercare il lato positivo che ciascuna conoscenza ha, e quasi sempre lo trovo nell’aver coccolato o baciato per una volta dei bei ragazzi (sì, devo ammetterlo. Io non sono un adone, ma, per la miseria, non ho mai avuto delle avventure con ragazzi che fossero più brutti di me. Solo ragazzi bellissimi. Una carezza alla fioca fiamma della mia vanità) ed essermi sentito desiderato, per quel poco tempo.

Ognuno di loro ha lasciato un’impronta nella mia anima, ed una forma precisa nella mia mente, che ho provveduto a ricopiare su carta. Così sono nati i miei personaggi… E così inizia questa storia, che adesso vado a narrarvi…

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Sulle note de Arrivano i superboys, un vecchissimo cartone animato giapponese, creavo i miei scenari. Il ritmo incalzante della sigla, accompagnata dal gentile fruscio del giradischi della mia stanza, generava in me una carica di creatività che forse era il mio piccolo segreto per creare ciò che creavo. Ovviamente non solo le musiche allegre erano per me fonte di ispirazione; anche le note di una classica sonata di Beethoven o una canzone di Fabrizio De André potevano essere ispiratrici di nuove visioni, che prontamente trasferivo sui grandi fogli A3. Ed ogni volta era una sensazione diversa, uno scenario allegro o triste, a seconda della colonna sonora che mi sceglievo.

La musica mi diceva qualcosa, ed io creavo in funzione di essa.

Quando c’era silenzio, creavo lo stesso, ma cose più asettiche, tipo nuovi personaggi.

Non ricordo come nacque Dandy Landy, ricordo soltanto che stavo ascoltando una canzone di Ronan Keating, When you say nothing at all. Mi venne fuori un ragazzotto di circa ventisei anni, alto e slanciato (calcolavo nella mia mente che potesse essere alto circa un metro e novanta, ma non ne ero mai sicuro del tutto), bello come il peccato che non avresti mai commesso e talvolta anche un po’ stronzo. Come la gran parte dei belli che popolano questo piccolo, strano mondo. A tutt’oggi non so nemmeno perché avesse scelto di chiamarsi così, con un nome al tempo stesso spaccone ma buffo. So solo che come personaggio mi piaceva, e non solo perché l’avevo creato io.

Questa volta lui e i suoi compari stavano esplorando un mondo magico. Una foresta incantata, per dirla tutta, dove dagli alberi multicolori pendevano stranissimi frutti di forme diverse. Chissà perché erano giunti là? Sembravano chiedersi i personaggi stessi, con le loro espressioni tormentate. La verità era che non lo sapevo nemmeno io. Non pianificavo mai una storia seria, vale a dire con sceneggiature e story-board. Mi mettevo al tavolo da disegno e creavo, senza una direzione precisa, più o meno come un regista che filma qualcosa, poi prende dei pezzi a caso e poi li incolla creando dei videoclip.

Inquadratura di tre quarti sul suo viso. Una ciocca di capelli biondi gli solleticava la guancia, i suoi occhi guardavano verso l’obiettivo. Per un attimo ci fissammo, io dal mondo reale, lui dal suo mondo di cartone. Fui quasi ipnotizzato da quel sorriso, tanto che rimasi a guardarlo un bel po’. Lentamente, il quadro incominciò ad ingrandirsi, poco alla volta, ma sempre di più. Mi sembrava quasi di poterci entrare dentro, ed effettivamente fu così. Mi ritrovai nel mondo di Dandy Landy, una foresta tutta bianca (non avevo ancora colorato quelle sequenze) e nera, dove Dandy Landy era lì e mi tendeva la mano. Sorrideva, e anche dopo che mi fui rialzato continuò a tenermi la mano, facendomi il gesto di seguirlo. Non sarei comunque andato da nessuna parte, quindi perché cavolo continuava a tenermi la mano? La cosa non mi infastidiva, anzi…

Giungemmo ad un ruscello, questo era colorato. E anche Dandy Landy acquistò colore man mano che avanzavamo. Sempre spigliato ed allegro, si tolse le scarpe calciandole via, poi fu la volta della maglietta (che lasciava intravedere un fisico magro ma definito) e dei pantaloni. Sotto era totalmente nudo.

L’ultima volta che ero stato con un ragazzo, questi mi aveva pregato di girarmi e non guardarlo mentre si spogliava, quindi capirete l’imbarazzo che provai nel vedermi un pezzo di adone come Dandy Landy spogliarmisi davanti agli occhi. Mi girai imbarazzato e rosso come un peperone, ma lui mi venne gentilmente vicino e mi tolse la mano dagli occhi, offrendomi ancora una volta in visione quegli occhi azzurri che io stesso avevo colorato.

Gli sorrisi gentilmente, e lui interpretò questo mio sorriso come un “via libera” allo spogliarmi. Mi sbottonò la camicia, ed io la riabbottonai, lui la sbottonò di nuovo. Io di nuovo la riabbottonai. Sbuffando, mise le mani sui fianchi e mi guardò stufato.

- Non … Non capisco, che cosa…? – ebbi solo il tempo di proferire, prima che Dandy mi spingesse nelle fresche acque sorgive, bagnandomi da capo a piedi. Quando riemersi, vidi lui che se la rideva come un bambino.

- Ah sì, eh? Non è divertente! – dissi, alzando il tono della voce. Ma fu come acqua fresca contro un mal di testa, in quanto lui spiccò un balzo e mi raggiunse in acqua. Intanto, i compari di Dandy si erano riuniti, e ridevano di mute risate. Erano tutti ragazzi molto carini, e divertenti proprio come lui. I loro sorrisi non tradivano la benché minima ombra di invidia, ma solo felicità. Intanto Dandy mi era sopraggiunto da dietro e mi si aggrappò al collo, a mo’ di koala.

Mentre tutti gli altri si spogliavano ed entravano in acqua anch’essi, giocando e scherzando tra di loro, Dandy, ormai calmo, mi baciò la guancia e mi sussurrò all’orecchio le sue prime parole.

Vieni a giocare con me.

Non era una domanda.

Era un ordine in piena regola.

Per farmi capire che non scherzava, girò intorno a me fino a che non fummo faccia a faccia, si riagganciò a me come un koala e mi strinse forte, tanto forte che potei sentire le sue caviglie contro la mia schiena, e le sue braccia che quasi mi strizzavano. Impossibilitato a muovere le gambe per mantenermi a galla, finimmo a fondo, e lì…

 

Bussarono alla porta della mia stanza. Sicuramente era il mio coinquilino, con il quale dividevo l’appartamento dei miei genitori. Con molto acume constatai che mi ero addormentato sul tavolo da disegno, e per una sfiga del destino avevo versato il colore blu su tutte le tavole.

- Porca vacca! – strepitai, prendendo in tutta fretta un bel po’ di fogli di carta assorbente, con la quale tamponare il disastro che avevo combinato.

- Donatello? Tutto bene? – domandò Francesco dall’altro lato. Io imprecai sottovoce, rispondendo – Sì, sì… va tutto bene! – e poi aggiunsi, di nuovo sottovoce – Porca puttana… - mentre asciugavo tutti i fogli dal colore semidenso che aveva rovinato tutte le mie tavole, l’intero lavoro di due giorni.

 

- Dimmi – dissi, brusco, appena mi trovai davanti il mio coinquilino. Era tutto in tiro, ed io sapevo già che cosa mi avrebbe chiesto.

- Ehi, che bella maglietta – disse, ridacchiando. – quest’anno vanno di moda le macchie blu su fondo bianco? –

- Spiritoso… - risposi io – Ho soltanto combinato un pasticcio coi colori. –

- Certo. – tagliò corto lui, lanciandomi poi la sua proposta. – Io sto andando al Red, ti va di venire? –

Francesco era più piccolo di me di cinque anni. Nonostante il bell’aspetto, si circondava di “brutti” come me. Ancora oggi non capisco se lo facesse per non avere rivali di bellezza, o perché si sentisse veramente a suo agio con i brutti, ma dopotutto a me importava che mi bonificasse i trecentocinquanta euro che mi doveva ogni mese, ed ero a posto. Di quello che pensasse o facesse, poco m’importava.

Il che non era del tutto vero, perché sentivo che lui ogni sera tornava a casa con un ragazzo diverso, mentre io… o mi chiudevo in camera ad ascoltare musica oppure mi sfogavo disegnando o dandomi alla lettura. Chi lo voleva, un grassone creativo? I suoi incontri a casa mia erano per me motivo di invidia, grandissima invidia.

- Hai di nuovo problemi di auto, vero? – domandai, per punzecchiarlo un po’. Francesco mi sorrise e annuì mestamente, allargando le braccia in una comica espressione di mi dispiace signora, non si può fare altrimenti.

- Ok – concessi, guardando l’orologio a muro della mia stanza da letto – Se mi dai tre quarti d’ora, un’oretta al massimo, ce la faccio. Non hai fretta, vero? –

- Assolutamente no. Fai con calma, basta che non dimentichi che entro le 11 dobbiamo essere là. –

- Cazzo, bello sforzo. Sono le nove e mezza. Hai qualcuno che ti aspetta, lì? –

Francesco scrollò le spalle – I soliti – concluse, allontanandosi dalla porta. Il suo sedere era definito da tutte le ore di palestra che faceva quando non studiava. – Ti aspetto. –

Chiusi la porta, mormorando – E certo che mi aspetti, se non ci sono io rimani a casa anche tu… -

Mi fermai a guardare il casino che c’era sul tavolo da disegno, sospirando. Adesso come avrei fatto a riprodurre tutte le tavole che avevo irrimediabilmente rovinato?

Decisi di non pensarci, e le lasciai lì fino a nuova decisione.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


C’era solo una cosa oltre alla mia casa, che mi teneva legato ai miei genitori. La mia vecchia auto. Una scassata Audi A4 Avant del ’96 o giù di lì, che mi portava però dove volevo io senza particolari problemi. Soprattutto piaceva a Francesco per la comodità dei sedili, dato che immancabilmente, tutte le volte che andavo con lui a ballare, si portava dietro qualche ragazzino. Se pensate che ero invidioso? Eccome, se lo ero.

- Questo qui è nuovo. Ha appena diciotto anni, ma mi sembra abbastanza intelligente. – disse Francesco, accomodandosi sul sedile passeggero con la stessa grazia di un imprenditore che s’accende un sigaro in limousine.

- Come si chiama? – domandai io, guardando la strada per dare la precedenza. Passarono una Cinquecento nuova ed una Lancia Ypsilon.

- Si chiama Simone. È molto carino, sai? – lo disse con una nota di felicità. Era incredibile come Francesco riusciva a sembrare innamorato quando invece non lo era per niente. Lui aveva appena vent’anni, io venticinque, e mentre io di esperienze sul curriculum ne vantavo poche e fallimentari, lui poteva vantare un’esperienza consolidata e testimoniata dal sottoscritto, che quasi ogni sera si vedeva arrivare in casa ragazzi sconosciuti, a volte anche molto belli. Questi suoi compagni di giochi mi guardavano e mi schifavano dentro di loro, solo perché ero un po’ sovrappeso. Solo una volta ricordo che uno di loro, incuriosito forse dal tavolo da disegno, entrò in camera mia e si mise a guardare con me i disegni che stavo facendo.

- Che fai? – mi chiese, gentilmente.

Con la matita ancora in mano, mi girai e lo guardai (non ricordo come si chiamasse, forse Mattia...), quindi con molta calma risposi – Oh, niente. Stavo solo preparando i nuovi disegni… -

- E lo chiami niente? – disse “Mattia”. – Questi disegni sono favolosi – dichiarò, prendendone un foglio in mano senza che io gli avessi nemmeno dato il permesso esplicito. Come previsto, le sue dita macchiarono le tavole di grafite, ed io dentro di me bestemmiai perché avrei dovuto toglierle prima dell’inchiostrazione a china.

- Sei un fumettista? – mi chiese ancora Mattia.

- No… non ufficialmente, almeno. Diciamo che è una passione. I miei mi vorrebbero avvocato. – e mentre dicevo quelle parole, feci un cenno con il sopracciglio ai miei libri di diritto sullo scaffale alto della libreria.

- Ah capisco… - disse annuendo Mattia, poi mi sorrise – Senti, il tuo amico è di là con il mio amico… che ne dici se io resto un po’ qui? –

Non sapendo bene cosa dire, mi strinsi nelle spalle. Era un ragazzo molto carino, biondo chiaro e dagli occhi celesti e curiosi. Lui interpretò il mio stringermi nelle spalle come un cenno affermativo, quindi si mise comodo sul letto, si tolse le scarpe e mi sorrise.

Io lo guardai, e gli sorrisi.

Ma quella notte non ci fu niente. Mattia si addormentò nel mio letto, ed io andai a dormire sul divano dell’altra stanza, quella che di solito rimaneva sfitta. Chiamatemi fesso, ma proprio non ce l’avrei fatta. È più forte di me, quando ho un’occasione tra le mani, non riesco a prenderla al volo. Davvero, chiamatemi fesso.

- Sai cosa penso? – la voce di Francesco interruppe il corso dei miei pensieri mentre guidavo. – Cosa? – domandai io, spingendo la frizione e cambiando marcia.

- Pensavo di presentarti un mio amico. A lui piacciono gli orsi, e magari… -

- Fra, ma devi per forza vedermi accasato, per essere felice? – lo presi in contropiede. Per la verità non mi piaceva l’idea che un ragazzo potesse provare dei sentimenti per me solo in base al mio fisico. Io ero qualcosa di più di un semplice ragazzo gay. Cazzo, ero un fumettista! Dilettante, ma pur sempre un fumettista.

Contrariamente alle mie aspettative, il buon Fra (che era un tipo parecchio alla mano), si mise a ridere.

- Eh ma come sei orso. Bravo, così mi piaci! E comunque no, non mi serve vederti accasato per essere felice – disse, con un tono un po’ più serio – voglio solo sdebitarmi con te per tutti i ragazzi che mi porto nel tuo letto. –

- Non sapevo ci fosse una clausola nel contratto che prevedesse che mi devi procurare da scopare per appianare i tuoi affitti… - dissi, sarcasticamente. Questa volta Francesco non rise.

- Dio, che palle di uomo sei. Ma hai idea di quanti nelle tue condizioni farebbero a gara per avere un amico come me, che gli presenta persone e porta a casa gente? Cavolo, non sei riuscito ad impapocchiare nulla nemmeno con Mattia, che è tanto un bel ragazzo! –

Evitai di rispondergli, non già perché la mia risposta sarebbe stata un sonoro “vaffanculo”, o perché nonostante la mole fossi un ragazzo pacifico, quanto perché sarebbe stato meglio non demolirgli la faccia a pugni proprio in quel momento. Eravamo arrivati.

 

Mi credereste se vi dicessi che posti come quello non fanno per me? La discoteca gay ha un qualcosa di strano, un’aura che soltanto quelli grossi come me riescono a percepire. Ti guardi intorno e ti senti guardato da tutti, per come sei vestito, per come ti muovi, per quanto pesi. Credete che sia facile per me entrare in un posto come quello senza essere preso dalle smanie di confronto? Come ho detto tante volte a Fiorella (la mia psicologa), in discoteca io mi sento un alieno!

- Ciaaaaao Fra! – sento dire all’improvviso. Questo era un ragazzetto sui ventitré, con i capelli castani sparati su con il gel ed un piercing a pallino al labbro inferiore, che si aggrappò a Francesco e lo baciò tre volte sulle guance.

- Ma ciao, puttanona – replicò Francesco, ridacchiando. Un altro ragazzo sopraggiunse, questo era più chiaro di carnagione e portava i capelli biondi pettinati alla moda Emo, ovvero con un frangione che copriva tutto l’occhio sinistro. Francesco salutò anche l’altro e poi, come per magia, si ricordò di me, dato che nemmeno le sue due “amiche” si erano degnate di salutarmi. Funziona così, nel mondo gay: se non sei attraente, puoi anche andare all’Eni, cospargerti di benzina e poi accenderti una sigaretta, che tanto non ti vedranno mai.

- Questo è il mio padrone di casa, Donatello. Donatello, i miei amici, Andrea e Gabriele. – questi ultimi mi guardarono con quella tetra indifferenza che una ricca signora userebbe quando passa un euro di elemosina ad un povero marocchino, e mi porsero la mano allo stesso modo. La stretta di mano era poco convinta, come al solito… Piacere, piacere… ed ecco che si erano di nuovo dimenticati di me, per concentrarsi sul vero bocconcino della serata: Francesco.

 

Secondo voi, è possibile che un ragazzo di vent’anni riesca a farsi tante avventure, senza che nessuna di esse possa influenzarlo a tal punto da fargli perdere la testa? Teoricamente è possibile, specie se questo ragazzo di vent’anni è carino e tutti lo vogliono. Se proprio dovesse entrare in crisi per via di uno che ama ma senza essere ricambiato, saprebbe di sicuro come consolarsi. Avanti un altro e via andare. Osservavo Francesco ballare dal cantuccio che mi ero scelto, su un divano nero di pelle. Tracannavo il mio drink e vedevo ogni scena strutturata come in uno dei miei fumetti. Francesco che ballava con questi due, questi che gli dicevano corbellerie in uno strano alfabeto muto, e lui che baciava prima uno e poi l’altro. Scossi la testa, sospirando. Per non cedere allo sconforto, spostai l’inquadratura più a desta, dove torme di uomini ultraquarantenni ballavano… soli. Oppure in gruppi di età omogenea. Mentre li guardavo, mi venne in mente che non sapevo disegnare bene le persone avanti con gli anni. Ero più portato alla perfezione, e le imperfezioni che sono patrimonio dell’età non mi appartenevano. Questo mio piccolo difetto mi spaventava non poco. E se un giorno fossi stato contattato da un grande editore, mi sarebbe stata sottoposta una storia da disegnare in cui c’erano degli uomini anziani? Cos’avrei potuto fare? Cercai di non pensarci, ripromettendomi ancora una volta di provare e riprovare a disegnare più persone anziane.

E un altro gruppetto che mi guardava.

Beh, e allora? Sono seduto, che c’è di strano. Non avete mai visto un ragazzo seduto su un divano?

Mi chiesi che cos’avrebbero mai fatto tutti questi qui se adesso ci fosse stato Dandy Landy al mio fianco. Avrebbero sorriso? Avrebbero riso? O forse sarebbero schiattati d’invidia?

Optai per la terza.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Ho sempre pensato che nella vita i problemi li avevo soltanto io. Con l’andare degli anni, mi sono accorto che i problemi ce li hanno tutti, veri o immaginari che siano, e che ogni giorno ci combattiamo, perché è quello che dobbiamo fare se vogliamo vivere.

Francesco, ad esempio, (che in questo momento potevo vedere in bagno mentre si lavava i denti, con indosso le braghe a righe del pigiama, a torso nudo come un rude soldato) era ossessionato dall’apparire. Quando si andava in giro insieme, le poche volte che ancora uscivo con lui, si cercava nel riflesso delle vetrine, stava sempre ad aggiustarsi i capelli, a controllare il bianco dei suoi denti, i fianchi sopra la vita dei pantaloni… Capirete da soli che averlo vicino mi procurava un leggerissimo fastidio, più o meno pari al fastidio che si ha quando ti schiacciano i pollici con un martello.

Altri invece, come i vari fidanzatini di Francesco, erano ossessionati ciascuno dalle manie più diverse. La più comune era quella della pelle, che per loro doveva essere sempre perfettamente in ordine e liscia come quella di un bebè. In secondo posto nella hit parade delle preoccupazioni c’era l’esigenza di fare sesso tutte le sere con qualcuno diverso, oppure con sempre lo stesso, che puntualmente non inviava il tanto sospirato sms.

Insomma, ognuno nella vita ha la sua croce. Per i giovani obesi come me, la nostra croce era tutto ciò che avesse avuto a che vedere col cibo. Cibo, mangiare, bilancia, dieta… ed una di queste preoccupazioni era proprio lì, sempre ai piedi del mio letto, come una silenziosa guardiana.

- D’accordo, te lo ripeterò ancora una volta. Io non piaccio a te, tu non piaci a me. Ma se dobbiamo convivere in questo piccolo strano mondo, vediamo di rispettarci reciprocamente – le dissi, guardandola dall’alto in basso, anche se l’inversione dei ruoli era palese. – Coraggio – dissi di nuovo, salendo sulla pedana – Dammi buone notizie. –

Dopo un breve tentennamento, che nella mia testa suonava sempre come il bip ripetuto di un gioco televisivo a premi dove si faceva girare una ruota e doveva uscire il numero più alto, la bilancia finalmente diede il suo responso.

Centonove chili e trenta grammi.

Mitico, per un giorno sono sotto i centodieci!

Fate largo, arriva sua maestà il principe dei belli! Ciambellano, inizi ad organizzare i cartellini con il turno, uscirò con ognuno di questi baldi giovani a cui piaccio tanto pensai, ridendo amaramente.

Dal bagno, ancora con lo spazzolino ficcato in bocca ed un rivolo di dentifricio liquido che colava da un angolo della bocca, Francesco mi guardava sghignazzare. Arrossii istantaneamente e mi precipitai a chiudere la porta, togliendo a Francesco il gusto dello spettacolo che quasi ogni mattina si godeva.

Mi guardai intorno. La mattinata si prospettava interessante, e dato il mio abbigliamento (portavo solo il mio paio di boxer neri con il teschio bianco sulla patta), avevo già in mente quale sarebbe stato il programma. I miei programmi furono però brillantemente sconvolti dalle tavole che avevo imbrattato ieri. Dandy Landy ed i suoi amici erano praticamente diventati blu, irrimediabilmente macchiati. Con un dito carezzai l’immagine del bel ragazzo che io stesso avevo creato, allo stesso modo in cui una madre carezzerebbe il suo bambino che si è sporcato… e lo guardai. Ancora una volta, anche se macchiato, Dandy riusciva ad essere splendido come quando usciva dalla mia matita. Tempo fa avevo letto un romanzo, di cui non ricordo il nome dell’autore, in cui c’era uno scrittore che aveva creato questo personaggio talmente bene, ma talmente bene… che se ne innamorò. Nel libro era anche descritto come lo scrittore fosse stato talmente abile nel caratterizzare il personaggio, che ogni volta che pensava a lui, lo vedeva come una persona vera. Ora, non pensate che io sia pazzo o cosa, e nemmeno che sia così bravo a caratterizzare i miei personaggi… però, diamine, devo dire che quel Dandy sembrava vero anch’egli. Talmente vero che… che…

Un momento.

Guardai meglio le tavole imbrattate di colore blu.

Avrei messo la mano sul fuoco che ieri avevo disegnato una sequenza che li vedeva in una specie di foresta amazzonica, mentre oggi la foresta amazzonica sembrava essersi dissolta nel nulla. Guardai anche le pagine precedenti. C’erano soltanto gli amici di Dandy, che scherzavano e giocavano, ma dello sfondo… nessuna traccia.

Distorsi le labbra in una smorfia di incertezza, poi mi voltai verso la porta, pensando a Francesco. Immediatamente scartai l’ipotesi.

Ma no, che cosa vai a pensare. Ti sembrerebbe possibile che entrasse in camera tua solo per cancellare i tuoi disegni? E poi come cavolo ha fatto a cancellare così bene il background senza intaccare i personaggi? Per fare una cosa del genere ci vuole Photoshop, e tu lo sai benissimo…

- In più, era con me ieri sera… - mormorai, quasi senza accorgermene. Quei fogli erano stati defraudati del background, quindi i soli personaggi in quel contesto non erano altro che delle mere fotografie, come quelle che si fanno quando si intraprende la carriera fumettistica, lo studio del corpo umano e delle proporzioni.

E c’era dell’altro.

Guardai meglio anche Dandy Landy, per non tralasciare nulla.

La sua espressione era cambiata. Non era più sorridente come lo era stata ieri.

Ora era più sul preoccupato.

Incredulo, mollai lentamente i disegni sul tavolo inclinato, spensi la luce della stanza e afferrai due stracci da mettermi addosso. Quella mattina non sarei rimasto in casa.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Fiorella ed io ci conoscevamo da circa un annetto, ovvero da quando decisi di intraprendere la terapia psicologica. I motivi che mi portarono su questa via furono tanti. Primo fra tutti, il mio eccessivo attaccamento al virtuale in favore del reale, che non mi consentiva di vivere appieno le relazioni reali.

È vero, sono un disegnatore, so disegnare bene e forse potrei conquistare chiunque soltanto presentando un disegno, ma (ahimé) sono piuttosto burbero e timido, e relazionarmi con qualcuno per qualcosa che vada al di fuori di una semplice chiacchierata mi riesce veramente difficile. Tante volte ho constatato che la gente mi gira al largo, con la differenza che se prima questa era una cosa che mi straziava il cuore, adesso ho imparato a viverla, se non bene, discretamente, e a cercare delle soluzioni nella mia mente, con l’aiuto appunto di Fiorella.

- Cara dottoressa, rieccoci – le dissi, accomodandomi sulla mia sedia. Era un rito che facevo ormai da molti mesi, ma ogni volta che lo facevo, mi sembrava sempre la prima volta.

Lei sorrise e rispose – Bentrovato, Donatello. Allora, di cosa parliamo oggi? –

Le nostre conversazioni incominciavano così. Oggi le avrei parlato di quanto ero invidioso di Francesco che riusciva ad intrattenere così facilmente rapporti con le persone, di come lo vedevo ed avevo voglia di spaccargli la faccia, di quanto sarebbe piaciuto anche a me poter avere, ogni sera, un ragazzo nuovo da coccolare e baciare.

- …E perché ogni sera uno diverso? – chiese Fiorella. Io scrollai le spalle, scuotendo la testa.

- Per sentirmi attraente. Sentirmi desiderato da qualcuno, dottoressa. C’è chi si sente desiderato ogni sera e chi invece mendica lo sguardo di un’altra persona… - risposi io, lentamente. Agli altri potevo apparire burbero, ma Fiorella conosceva il mio vero lato oscuro, fatto di sogni e desideri infranti. A quella mia risposta, Fiorella fece una pausa, stando in silenzio.

- Ma lei, Donatello, ha davvero bisogno di sentirsi attraente? –

- Io…? Sì. Ne ho un bisogno smodato, quasi quanto respirare. –

- Non pensa che essendo un artista, lei sia già di per sé molto attraente? – mi domandò. La domanda mi lasciò un po’ interdetto. C’era del vero.

Ci pensai.

Un po’ di tempo fa, quando avevo diciassette anni, ero solito impartire lezioni di disegno ad un ragazzo un po’ più giovane di me, di circa dieci anni. Si chiamava Vittorio, e grazie al mio aiuto riuscì a diventare abbastanza bravo da non spaventarsi più dei suoi disegni e buttare via i suoi fogli (anche perché io gli insegnai che non bisogna mai buttar via nulla, anche se non ci piace. Quel che non piace a noi, potrebbe piacere a qualcun altro!). Inoltre, questo soldo di cacio di ragazzino, penso si fosse preso una cotta per me. Di tanto in tanto mi scriveva degli sms, in cui mi chiedeva molto spesso dell’amore, di come fanno ad innamorarsi due persone. Poi mi chiedeva se avessi mai baciato una ragazza, o se l’avessi mai fatto (ci siamo capiti)… il tutto nello stile timido ma allo stesso tempo diretto di un decenne che non sa ancora nulla della vita. Meno di lui ne sapevo io, che a diciassette anni l’unica esperienza era stata trastullarmi… Sms a parte, nonostante l’età, il buon Vittorio voleva sempre sedersi sulle mie gambe mentre disegnava. Diceva che stava più comodo, e che gli sembrava che i disegni gli riuscissero meglio.

Questa specie di rapporto durò circa fino alla fine delle mie scuole superiori e l’inizio delle sue scuole medie. Da lì in poi ci perdemmo di vista, con grande dispiacere da parte della madre perché suo figlio era caduto in una specie di catatonia dopo che me ne fui andato io. Seppi soltanto che si risollevò grazie alla vicinanza dei suoi amici, tra una partita di calcio e qualche ora di studio insieme.

- Forse ha ragione, dottoressa. – ripresi, dopo la lunga riflessione – In fondo, anche saper disegnare bene è essere attraenti, in un modo o nell’altro. –

Lei annuì, sorridendo. Poi mi guardò negli occhi e decretò – Ci dobbiamo fermare qui per oggi, il tempo è scaduto. La aspetto la prossima settimana. –

- Certo. Grazie dottoressa. Arrivederci. – salutai, alzandomi dalla sedia e dirigendomi verso la porta d’ingresso, per uscire anche per quella settimana.

 

La situazione in Italia è differente rispetto ad ogni altra parte del mondo. Nel resto del mondo, se vuoi conoscere gente, basta che ti rechi in un locale specializzato e ti metti a chiacchierare con uno. In Italia, andando in un locale sei fortunato se riesci a beccare qualcuno che ti dia retta, se non ti conosce e se non fai parte del suo gruppo in maniera diretta o per derivazioni successive. Se poi sei come me, decisamente fuori dallo standard, puoi anche essere amico di Rocco Siffredi che non riuscirai mai a conoscere nessuno.

Così, per cercarmi un po’ di compagnia al di fuori di quella della carta disegnata, io usavo connettermi ai siti internet “di settore”. Non che la situazione fosse migliore, ma l’intermediazione di uno schermo era quasi un passaggio obbligato, una sorta di esame preliminare che i due si facevano.

E quanti esami avevo passato io nel corso di questi anni… avevo conosciuto un sacco di ragazzi, di un po’ tutte le età. Quando era proprio andata bene ero riuscito ad andare a casa con loro e fare qualcosa di serio, salvo poi in qualche occasione non riuscire a funzionare bene per l’atto sessuale vero e proprio, ovvero la penetrazione: Inspiegabilmente, c’era sempre qualcosa che riusciva a farmi perdere la voglia… una frase detta al posto sbagliato, una coccola fatta male, o un bacio mal dato. Ciò la diceva lunga sul fatto che io non fossi un animale da copula ma una persona vera, con sentimenti veri che prescindevano dal sesso. Il più giovane dei miei amanti aveva avuto diciotto anni, mentre il più vecchio trentadue. Con tutti avevo fatto qualcosa, tutti loro avevano lasciato in me un’impronta piacevole alle prime battute della nostra conoscenza, salvo poi trasformarsi in perfetti sconosciuti dopo che avevano ottenuto ciò che volevano. Il gioco si era ripetuto tante volte, nonostante mi fossi sempre ripromesso di non cascarci più, ma era più forte di me: non riuscivo a sedermi senza provare a darmi da fare.

Il nuovo candidato amante si chiamava Ritchie85. Più grande di me di qualche mese, carino ma non troppo, e molto dolce. Di me aveva visto un bel po’ di fotografie, e fino ad allora non mi aveva ancora chiuso i ponti. Io rispondevo alle sue moine con molto distacco, senza tuttavia lasciar trapelare che mantenevo le distanze. Eppure, in questa strenua difesa di me stesso, lentamente cominciavo ad affezionarmi.

Che hai fatto oggi?

Niente, ho girovagato. Senza lavoro, puoi fare quello che vuoi!

Scrissi, rispondendo alla sua domanda. Lui mi piazzò un’emoticon che sorrideva.

Questa sera cosa farai?

Mi domandò di nuovo Ritchie85. Io risposi che non lo sapevo.

Ti andrebbe di venire a bere qualcosa da me? Mi sento solo, e vorrei un po’ di compagnia.

Un po’ incerto, fissai lo schermo del mio Acer per un bel po’ di secondi. Non trovando risposta, mi misi a fissare il poster di Dandy Landy che mi ero fatto da solo. Come sempre, lui era lì, con quella posa plastica che voleva imitare James Bond, solo che al posto della pistola teneva spianate le sue dita e guardava il mondo esterno con aria truce, rotta soltanto dal sorriso sbarazzino che gli avevo dato.

Che debbo fare? Pensai, rivolgendomi a lui. Ovviamente lui non rispose, ma penso che se avesse potuto, mi avrebbe detto di no.

Va bene.

Quella fu la mia risposta a Ritchie85.

 

Riccardo (così si chiamava) abitava in una zona abbastanza fuori città. Risvegliata la mia Audi dal suo sonno meccanico, partii alla volta di casa sua, e in circa mezz’ora arrivai.

Quando si aprì la porta di quell’appartamento al terzo piano, mi si presentò un bel ragazzo, moro, occhi chiari e fisicamente perfetto. Mi sorrise, ed io gli sorrisi di rimando, peccato che fossi più imbarazzato che altro, a quella vista.

Devo dire che la serata fu piacevole. Guardammo un film in DVD e poi, dopo una breve chiacchierata, lui mi saltò letteralmente addosso. I suoi baci furono di fuoco, così come le sue carezze. Non ci mise troppo a spogliarsi e a mostrarmi quanto il suo corpo fosse perfetto, mentre io esitante restai ben chiuso nella mia camicia nera.

- Sai cosa mi piace di te…? – mi disse ad un certo punto.

- Cosa…? –

- I tuoi capelli … - rispose Riccardo, arruffandomeli – sono così attraenti. Secchi e modellabili a piacimento. – e così fece, con le mani, giocando con i miei capelli, e continuando a baciarmi.

- mmm… anche i tuoi sono belli… - risposi io, carezzandoglieli. Lui si irrigidì, fermandosi un attimo. Per un momento ci guardammo negli occhi, entrambi con espressione neutra. In quegli occhi chiari c’erano un sacco di parole che potevano essere brutte o belle, ma io non riuscivo a coglierle. Quanto avrei voluto saper leggere negli occhi, in quell’istante… se avessi saputo allora ciò che so adesso, sicuramente avrei preso e me ne sarei andato a gambe levate. Ma purtroppo così non feci, e lasciai che quell’attimo svanisse, cacciato in malo modo da un altro bacio di Riccardo.

Quando la serata finì, mi misi alla porta di Riccardo.

- Ci vediamo domani? –

Lui sorrise e mi fece l’occhiolino, senza tuttavia rispondere. Feci per dire qualcos’altro, ma lui molto simpaticamente, mi sbatté la porta in faccia.

Il giorno dopo, avrei voluto vederlo sul messenger per capire dove avessi sbagliato. Era l’orario in cui di solito si connetteva, ma quel giorno non si fece vivo.

E continuò a non farsi vivo nei giorni seguenti.

Mi aveva bloccato e cancellato.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Ma io, esattamente, che cosa voglio da un ragazzo…?

Farsi domande è parte della vita di ognuno di noi. C’è chi se ne fa troppe, chi se ne fa troppo poche, e chi non se ne fa per nulla. Io appartenevo alla prima categoria, ero uno che non smetteva mai di chiedersi che cosa vedesse il cielo da lassù.

Le domande scaturiscono dall’esperienza, e io di esperienze ne avevo avute anche troppe, soprattutto brutte. Nel mare di merda in cui naviga la mia vita, spesso mi capita di trovare dei pozzi d’acqua chiara, dove io mi ci tuffo a pesce, cercando di recuperare e fermare quanto possibile i momenti felici che hanno segnato la mia vita. Uno dei ricordi più belli fu l’estate del 1997…

 

Quando ero piccolo mi innamoravo di ragazze che non mi corrispondevano, nonostante fossi corteggiato da tante altre. Ricordo un’estate, avrò avuto dodici anni, in cui andai in viaggio con i miei genitori e mio fratello in un villaggio vacanze. Il buon vecchio Herman (mio fratello Ermanno, che adesso vive a Milano con la sua compagna) ed io giocavamo sempre insieme, forti di una parentela che, non lo sapevo, ma con gli anni si sarebbe erosa fino a scomparire e a trasformarci in due perfetti sconosciuti. Da sempre lui era stato diversissimo da me: lui era carino, spigliato e frizzante, però non sapeva fare molto di più di garini in motorino e fare lo spaccone con tutti i suoi amici, mentre io ero quello più studioso, riflessivo, timido e morigerato. Talmente morigerato che rispettavo i corpi che non erano il mio in maniera quasi maniacale.

Durante questa vacanza, conobbi una bambina. Bellissima, dodici anni come me e molto dolce. Io me ne innamorai subito appena la vidi, ma desistetti immediatamente perché, forte dell’esperienza scolastica, sapevo che le belle ragazze non guardavano i cicciottelli come me. Indi per cui, preferii lasciarla alle “cure” di mio fratello, tornando ai miei album da disegno ed ai miei colori.

E lui, sapete cosa fece?

Da diciassettenne in pieno tumulto ormonale, ci provò subito senza pensarci due volte (mio fratello fa parte di quella terza categoria che di domande non se ne pone per niente), causando non poco imbarazzo nella povera ragazzina.

Venni a sapere ciò che ora so grazie a lei: il giorno dopo che rimase sola con mio fratello, venne a confidarsi con me in spiaggia. La mattina era il tempo più bello per mettersi a disegnare, per me. Mi mettevo sul portico del bar chiuso, seduto su un tavolo, e lasciavo che la mia mano fosse guidata dall’estro della vacanza. Disegnai per un bel pezzo, immerso nel vortice creativo, e solo quando alzai gli occhi dal foglio, mi accorsi che non ero più solo.

Elisabetta (così si chiamava), era lì appoggiata al parapetto che mi guardava attentamente, studiando i movimenti della mia mano sul foglio e le figure che scaturivano da tali movenze, affascinata ed estasiata. Lì per lì mi diventai rosso, e feci un mezzo sorriso a cui lei rispose con una risatina. Senza nemmeno che io glielo chiedessi, si avvicinò e si sedette accanto a me. Io ero rosso come un peperone, e forse lei l’aveva sempre saputo che mi piaceva, ma il pensiero non la turbava più di tanto.

- Cosa stai disegnando? – mi disse, appoggiata con il mento sul dorso della mano.

- Oh, sto disegnando i cartoni giapponesi. Ti piacciono? – risposi io, cercando di dominare la balbuzie dettata dall’emozione.

Lei si sporse a guardare ed io ritrassi la mano, per darle modo di vedere meglio. Sgranando gli occhi per lo stupore, lei aprì la bocca e rispose – Sono … sono veramente bellissimi! Congratulazioni! –

- G…grazie. – dissi io, balbettando e sentendomi le guance in fiamme. È incredibile cosa si prova quando si è innamorati di una persona… sensazioni bellissime che forse smisi di provare quando mi accorsi che mi piacevano i ragazzi.

Dopo questo complimento, restammo in silenzio per un po’, a guardarci negli occhi. Lei poi sospirò e disse che doveva confidarmi una cosa.

- Prometti che non ti arrabbi se te la dico? –

- Prometto. – Ma era inutile dirlo, le avrei promesso di tutto. Ero cotto di lei.

- Bene. Devi sapere che… tuo fratello… -

- Sì…? –

- Beh… tuo fratello… - disse, torcendo le gambe snelle quanto più poté, chiaramente imbarazzata. Io la esortai a continuare, spalancando gli occhi per cercare di farla parlare.

- Tuo… tuo fratello ha cercato di mettermi le mani addosso! – disse, tutto d’un fiato, che a momenti non riuscivo a capirci niente. Io non risposi per un attimo, ma ne fui più o meno sconvolto. Non litigai con Ermanno, ma in compenso diventai amico di Elisabetta, mentre mio fratello si consolò con altre ragazzine più giovani ma anche più facili.

Io invece passai quelle tre settimane insieme ad Elisabetta. Ogni giorno mi cercava, e se non mi trovava al tavolino del bar, veniva a cercarmi a casa, dove mia madre l’accoglieva a braccia aperte, mio fratello le strizzava l’occhio cercando di intortarla e mio padre le diceva che era sempre più bella ogni giorno.

Insieme, facevamo il bagno, esploravamo ogni angolo dell’isola, fantasticando di essere degli avventurieri a caccia di chissà quali tesori… Io la amavo, e lei…

 

L’isola era composta da un villaggio vacanze immerso nel verde di una collina. Se si conoscevano bene i sentieri, si poteva raggiungere un posto panoramico, da dove si poteva osservare tutto. Di solito io ed Elisabetta ci mettevamo a guardare il mare, parlando di come la scuola fosse una noia e giocando a rincorrerci. Poi quando ci stancavamo, semplicemente ci sedevamo.

E fu là che accadde.

- Donatello…? –

Io voltai la testa, disteso com’ero. La mia pancetta mi impediva di vedere bene il mare, potevo soltanto vedere le fronde degli alberi. – Hm? – mugugnai, in segno di attenzione.

- Secondo te, io… posso piacere a qualcuno? – mi chiese. Io arrossii, ma cercai di non darlo a vedere. Era più un rossore di paura, il mio.

- Che domanda. Certo che sì! Penso che… che piaceresti a tutti. – risposi io, cercando di assumere la voce più spavalda e arrogante possibile. In realtà, dentro di me stavo vacillando. – Perché? – la incalzai.

- Beh, perché … - fu lei ad arrossire. – perché… - tirava fuori le parole come una donna che non riesce a trovare il cellulare nella borsa mentre squilla, e deve tirare fuori gli oggetti uno alla volta.

- Perché … perché mi sono innamorata, ecco! – disse, tutto d’un fiato. Proprio come quando mi confessò che Ermanno le aveva messo le mani addosso. Io stavo morendo. In cuor mio sapevo che mi avrebbe detto che si era innamorata di un ragazzo che forse vedevano tutti i giorni al villaggio, dato che le scelte non mancavano. Già allora notavo i ragazzi carini, e nonostante avessero tutti la mia età o poco più, sembravano molto più adulti e sicuramente più uomini di me. Più abbordabili, diciamo.

Io deglutii, non avendo cuore di chiederle chi fosse. Eppure c’era una parte di me, una parte profonda, che voleva sapere chi fosse quel ragazzo. E come per magia, quella parte prese prepotentemente il sopravvento, passando dal cuore al cervello fino a schizzare fuori dalla lingua.

- Chi è? Di chi ti sei innamorata? – domandai, preparandomi al colpo che, lo sapevo, mi avrebbe ucciso.

Come un condannato alla fucilazione si tapperebbe le orecchie per non sentire il botto mortale, io chiusi gli occhi, aspettando gli spari. Eppure non ci furono, perché Elisabetta stette zitta per un bel po’ di tempo, prima di abbassarsi su di me e sussurrarmi all’orecchio …

- Di te. Di te, Donatello. Sono innamorata di te. –

Mai sussurro fu più gradito. La piramide di carte che era la mia anima crollò istantaneamente, ma questa volta sotto un soffio di gioia anziché di dolore. Ora che il castello di carte era andato, e con lui tutte le mura di cinta, io dissi la mia.

- Anch’io, Elisabetta. Sono innamorato pazzo di te. Ti ho amata fin dal primo momento che ti ho vista… -

Lei sorrise e sospirò di sollievo, quindi ci guardammo… ed iniziammo ad abbracciarci. Di lì a poco le coccole si trasformarono in baci, ed alla fine ci sdraiammo, lei sopra di me, io disteso a terra con il profumo di vaniglia che spandevano i suoi capelli lisci, i suoi occhi azzurri ed il suo viso perfetto, che io carezzai per tutto quel pomeriggio… ci baciammo così tanto che per quel giorno io mi sentii un eroe, uno che avrebbe potuto tutto, anche spaccare il mondo in due. Per una volta, mi era andata bene con una ragazza che mi piaceva. Fu un pomeriggio bellissimo, e la serata non fu da meno… mentre i nostri genitori ballavano, ed i fratelli maggiori facevano altro, io e lei ci nascondevamo in ogni posto e ci baciavamo. Come due amanti segreti, che hanno da proteggere solo il loro amore appena sbocciato.

Durò tutto una settimana. L’ultima settimana di vacanza, per essere precisi. Per due settimane non mi ero azzardato a sfiorarla con un dito, mentre l’ultima lei fu così dolce e disponibile con me… un ragazzo cicciottello che lei amava con tutto il suo cuore.

Non ti scordar di me…

Non ti scordar di me…

 

…Ma nooon ti scordaaar, mai di meee…

…della più incantevole… fiaba che abbiam vissuto insiemeee..

..E nooon ti scordar mai di meee… Questa era Giusy Ferreri e la sua “Non ti scordar mai di me”, a concludere la puntata! sono le dieci del mattino, il nostro programma finisce qui, ringraziamo tutti i nostri fedelissimi ascoltatori per averci accompagnato durante la mattinata. Continuate a seguirci, eh! Siamo sempre qui, su Erre Centouno! Ciao, ciao.. ciaoooo!

 

Il bumper sonoro poi chiuse definitivamente la trasmissione, facendo partire contestualmente la pubblicità. Io ero nella mia auto, seduto al posto di guida. Evidentemente mi ero addormentato con la radio accesa, mentre aspettavo che Francesco finisse di fare una visita all’ospedale. Sarei andato anch’io con lui, ma lasciare la macchina incustodita nella mia città senza aver pagato il ticket significava andare a recuperarla poi al deposito veicoli rimossi. Poco dopo lo sportello si aprì, ed entrò Francesco.

- Eccomi – esordì, sbuffando. – Ho fatto tante di quelle scale, perché l’ascensore era rotto e… - s’interruppe, guardandomi in faccia. – cos’hai? – domandò.

- Io…? Niente… perché? –

Mi guardò con scetticismo. – Mi era sembrato che tu… -

Senza nemmeno lasciargli finire la frase, misi in moto e partii. Lui si zittì, sicuramente poco interessato al mio stato d’animo. Comunque, gli avessi fatto terminare la frase, avrebbe avuto ragione: dai miei occhi stavano uscendo calde lacrime. Fortuna che con gli occhiali da sole lui non poté vederle chiaramente.

Perché piangevo? Forse perché, alla luce di questi bellissimi ricordi, sapevo che un ragazzo non sarebbe mai stato in grado di regalarmi certe emozioni. Non mi era mai successo, perché i ragazzi hanno in mente solo la fisicità di un rapporto, non l’emozione ed il coinvolgimento. Vi pare possibile che un uomo come me si metta a soffrire perché gli mancano certe cose?!? Ecco che cosa volevo da un ragazzo. Volevo passare del tempo insieme a lui, fare tante cose… crescere insieme!

Sarei mai riuscito a trovare quello giusto?

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


Di nuovo chiuso nella mia stanza, questa volta in compagnia di foglio e matita anziché del portatile, continuavo a disegnare. Questa volta però non più sequenze, ma quadri.

In gergo tecnico, un “quadro” è la vignetta in sé e per sé. Tanti quadri formano una striscia, tante strisce formano un albo. Semplice, no?

La mia matita correva sul foglio, delineando i tratti di un personaggio. Poi un altro, e un altro ancora. Alla fine del lavoro, tutti i personaggi erano uno soltanto.

Dandy.

Dandy che mandava baci.

Dandy che guardava l’obiettivo seduto a gambe incrociate su uno sgabello.

Dandy di spalle, che teneva le mani sui fianchi e sfoggiava il suo bel ciuffo biondo. Tutte le “fotografie” lo mostravano in abiti differenti, ma generalmente erano in stile molto giovanile.

Mi soffermai a guardarlo. Ancora una volta, ebbi la sensazione di aver creato un personaggio quasi vivo, tra quelle pagine… c’è chi direbbe che era soltanto un bel ragazzo con cui fare sesso, ma io penso che lui avesse di più. Molto di più.

Aveva una sua statura, una sua vitalità tutta particolare, ma che forse soltanto io riuscivo a sentire, perché lui era mio.

Ed io sono tuo.

Trasalii sulla sedia. Chi aveva parlato? Avevo udito distintamente una voce, ma in camera con me non c’era nessuno. Mi alzai, guardai sotto il letto, ma non c’era nessuno.

La porta era chiusa, dunque si poteva escludere uno scherzo di Francesco, che peraltro era occupato in casa con chissà quale altro ragazzetto raccattato in discoteca.

Dunque, chi era stato?

Sono stato io.

Io non risposi. Era come se una voce mi stesse sussurrando, ma non era la mia! Era una voce che veniva da qualche parte, nella stanza. Non riuscivo a capire da dove.

- Chi… chi sei? – domandai, sottovoce.

Però la voce non rispose più.

Tornai a sedermi al piano di lavoro, riprendendo la matita in mano senza troppo entusiasmo. Sospirai, pensando di stare impazzendo… non sapevo nemmeno io cosa volevo, eppure lo volevo così ardentemente.

Un ragazzo che mi tenesse un po’ di compagnia, proprio come un altro stava ora tenendo compagnia a Francesco. Il pensiero mi rattristò ancora, e dovetti reprimere l’impulso di piangere. Però, più reprimevo, più non ci riuscivo, e alla fine una lacrimuccia sgorgò dai miei occhi. Poi un’altra… e un’altra ancora.

Piansi sommessamente per quasi due minuti, abbandonandomi al dolore di sentirmi un ragazzo diverso fra i diversi, che non poteva godere delle gioie della compagnia solo per colpa di qualche chilo di troppo… e di una testa troppo romantica.

Quando aprii gli occhi dopo quello sfogo, mi accorsi di aver imbrattato i disegni. A giudicare da come li avevo bagnati, sembrava che li avessi passati sotto un rubinetto aperto.

Osservai di nuovo l’espressione di Dandy.

Non so se fosse perché le mie lacrime avevano deformato il tratto, eppure avrei giurato che il buon Dandy avesse cambiato espressione.

Ora la sua espressione non era più gaia e festosa, ma piuttosto era dispiaciuta.

- A… anche tu ti senti solo, vero? Sì… Allora… io ti disegnerò un compagno. Che ne dici? –

Ovviamente non rispose. Ma io provai ugualmente a disegnare un compagno per Dandy.

E accadde qualcosa che non mi era mai successo prima di allora.

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


Inspiegabilmente, non ci riuscivo.

Prendevo la matita in mano, cercavo il punto di prospettiva che avrebbe avvolto tutto il disegno, lo trovavo, disegnavo Dandy e…

…non mi riusciva per niente di disegnargli un compagno.

Eppure di idee ne avevo tante: dapprima avevo pensato ad un ragazzo un po’ simile a lui, magrolino, alto e con un bellissimo viso. Ma già quando provavo a dargli un nome, non sentivo nulla. Il nuovo personaggio si dava alla fuga un po’ come i ragazzi che contattavo sui portali gay.

Accadeva più o meno in questo modo: provavo a disegnare questo fantomatico ragazzo di Dandy, ma quando provavo a stendere lo scheletro del suo disegno, mi bloccavo, preso dall’incertezza. Una cosa così succede soltanto ad un allievo fumettista alla prima lezione sullo schema del corpo umano, non ad un veterano come me, forte di corsi su corsi di alto livello!

Se vi dicessi che la cosa non mi preoccupava neanche un po’ , mentirei. Ero preoccupatissimo per questo, e non sapevo cosa fare.

- Perché non riesco a darti un compagno? – mormorai, alle tavole disegnate che vedevano il mio Dandy Landy seduto su una scalinata.

Silenzio.

- Perché? –

Ancora silenzio. Questa volta nessuna voce mi degnò di una risposta, e di questo ne fui contento. Non riuscire a disegnare un personaggio era un conto, sentire le voci era un altro.

 

Si chiamava Steve. Ma il suo vero nome era Stefano. Ventun anni, molto carino e gentile. Ci eravamo dati appuntamento in centro, vicino alla fontana del Nettuno (già una volta avevo incontrato un ragazzo là, e non era andata bene). Da bravo uomo d’onore quale ero, mi presentai all’orario stabilito senza sgarrare di un nanosecondo, certo che arrivare in orario fosse una cosa che ancora facesse colpo sui ragazzi. Lui arrivò circa venti minuti dopo, accampando scuse sul fatto che aveva perso l’autobus e amenità varie che, unite al suo sguardo, non mi piacquero nemmeno un po’.

Voi forse direte che sono un po’ prevenuto, ma in generale i ragazzi carini sono tutti dei gran bastardi: credono di avere un ragazzo in pugno, fanno i fenomeni e poi lo lasciano con un palmo di naso quando si tratta di concludere. Nonostante io continuassi a tenere gli occhi aperti (li tenevo talmente aperti che mi sembrava di avere un terzo occhio sulla fronte, proprio come un noto personaggio di un altrettanto noto manga giapponese), mi fregavano sempre. Piantala di lamentarti sempre! D’accordo, ancora non hai trovato l’uomo della tua vita alla veneranda età di ventiquattro anni, ma che vuoi farci?! Purtroppo siamo in Italia, ed è inutile che ce la meniamo tanto; la presenza del Vaticano è soltanto una scusa per quelli come i ragazzi che hai incontrato, per divertirsi senza mai fermarsi. Quindi cerca di prendere ciò che di buono ha da offrire questa vita e tira dritto! Mi rimproverai. E va bene, pensai, vediamo dove mi porta questo qui.

- Ci mettiamo qui? – chiesi gentilmente a Steve, spostando la sedia per farlo accomodare per primo. Lui mi guardò con un sopracciglio perplesso, come per dire “ma cosa fai, esimia testa di cazzo? Mi sposti la sedia come ad una damigella?” poi rispose – No, mettiamoci là. Mi sembra più fresco. – non finì nemmeno la risposta, che si era già fiondato sul tavolo in ombra, senza bisogno di nessun aiuto.

Una mezzoretta più tardi, avevamo parlato di quasi tutto. O meglio, aveva parlato soltanto lui, e di tutti i ragazzi che gli andavano dietro o che lo corteggiavano. Complice una leggera colite che avevo sempre avuto, mi sentii lo stomaco bruciare, anche per la marea di cavolate che questo ragazzino diceva. Ma erano tutti così, questi ragazzi? Oppure si comportavano così soltanto con me? Quando arrivò il momento di andare, lui molto educatamente disse – Per me si è fatto tardi, dovrei tornare a casa o il mio coinquilino mi rompe. –

- D’accordo – dissi soltanto, prendendo il portafogli. Automaticamente andai a pagare, ma lui mi porse la sua parte.

- Tieni. – disse, senza sorridere.

- Non c’è bisogno. – ribattei io – Offro io. –

- Non se ne parla. Voglio pagare la mia parte, è più giusto così. – rispose lui, mettendomi letteralmente tre euro nella mano.

Io li guardai e non dissi nulla, non protestai. Mi alzai e andai a pagare, ben sapendo che neanche quell’incontro avrebbe avuto un seguito.


 

La luce diafana che preludeva ad un temporale con i fiocchi, si stava facendo sempre più scura con il passare dei minuti. Da piccolo mi faceva paura quel tipo di luce così scura e minacciosa, così come mi facevano paura i fulmini. Ricordo che in pomeriggi come quelli, quando mio fratello Ermanno tornava da scuola, mi prendeva con sé e giocavamo insieme con il Nintendo, ed io mi sentivo felice di avere un fratello maggiore così protettivo e dolce. Oppure quando il temporale scoppiava di notte, ed io avevo paura da solo nella mia stanza, andavo da lui e senza dire nulla mi rifugiavo nel suo letto a due piazze. Senza nemmeno svegliarsi, lui allungava il braccio e mi offriva la sua protezione, ed io tutto contento mi abbarbicavo a lui, felice e contento.

Ma adesso avevo 24 anni, vivevo ancora a Bologna e lui era a Milano con sua moglie; io ero ancora single e disperatamente alla ricerca di

(me stesso)

di un ragazzo che mi amasse e mi accettasse così com’ero; lui lontano chilometri ed io qui solo. Dal mio letto ad una piazza e mezza si poteva vedere il muro dove tenevo appese tutte le fotografie che mi ero portato da casa: molte raffiguravano me ed Ermanno, oppure me in braccio a mia madre o insieme a mio padre. La mia preferita restava tuttavia quella dove io, due anni, ero al posto di guida del vecchio maggiolino giallo a batteria di mio fratello: io che tenevo il volante con quelle manine grassocce e lui accanto a me che salutava con un sorriso sdentato di bimbo di sette anni. Sorrisi.

Poi lo sguardo mi cadde su Dandy, che nonostante non fosse uno con cui mi ero visto, continuava a darmi dei bei grattacapi. Lo fissai a lungo, in quella sua posa alla James Bond, con l’unica differenza che James Bond non sorrideva gioiosamente come Dandy.

- Tu che sai vedere il bello in ogni cosa, dimmi: che cosa posso fare? – sussurrai, con la testa sul cuscino e gli occhi fissi sul manifesto che io stesso avevo disegnato e fatto poi creare in un negozio di grafica. Ancora una volta non ci fu risposta, ma per la prima volta mi diedi del cretino per aver parlato con un’immagine disegnata.

Sentii dei rumori dietro la porta.

- Dò? Posso entrare? – chiamò Francesco dall’uscio.

- Se proprio non puoi farne a meno… - risposi io, non considerando minimamente che Francesco era un amico abbastanza fidato, che se fosse stato un altro mi avrebbe sicuramente preso a male parole. Come se non avesse sentito, aprì la porta ed entrò sorridendo. Quando però mi vide disteso sul letto sfatto, come una balena in spiaggiamento, il sorriso gli morì sulla faccia.

- Che hai? – domandò, con quell’espressione da mammina preoccupata che poche volte gli avevo visto dipinta in volto.

- Nulla – bofonchiai – solo un po’ di stanchezza. Sai, ho disegnato tutta la notte… -

Avvicinandosi al mio tavolo di lavoro, e sedendosi sul mio sgabello (il suo sederino magro sembrava un pallone da calcetto a confronto dell’enorme scranno, che tuttavia era un po’ grande anche per il mio, di sedere) prese in mano alcune tavole, posizionando le dita ai lati dei fogli, stando bene attento a non pastrocchiare la grafite con le mani sudate.

- Scarabocchi? – domandò, flemmatico.

- Già. Questa notte è andata così… - sospirai.

Lui girò con la schiena e lo sgabello girevole fece lo stesso sotto di lui. – Sicuro che sia soltanto stanchezza? –

- Certo, perché non dovrebbe? –

- Hm. – mormorò Francesco, piegando la bocca in un’espressione dubbiosa. Capii che si preoccupava per me, e sospirando mi decisi a vuotare il sacco.

- Perché i ragazzi sono tutti così stupidi? – domandai, con un filo di voce mentre lui mi guardava. Io osservavo le nuvole fuori dalla finestra, uno dei pochi pensieri ancora felici che mi rimanevano dopo anni di frustrazioni.

- Domanda interessante, Dò. Penso che molti dei ragazzi che ho conosciuto se la stanno facendo proprio in questo momento. – disse, ridacchiando.

- Eh già. Suppongo che se la facciano tutti quelli che in qualche modo vengono delusi… -

- La delusione – incominciò Francesco prendendo a giocare con una delle mie matite – nasce quando ci si aspetta qualcosa. – sintetizzò. Se avesse avuto un taccuino in mano, una barba posticcia ed un paio di occhialini sul naso, avrebbe potuto somigliare ad uno psichiatra. Ed io al suo paziente. – Tu che cosa ti aspetti da un ragazzo? –

Con la testa affondata nel cuscino, presi un po’ di tempo. Non era una domanda facile, sapete? Molti risponderebbero che una cosa che ci si aspetta da un altro essere umano sia la fisicità, il sesso (cosa scontata), oppure una botta e via. – Non lo so – cominciai – suppongo che vorrei soltanto un po’ di pace. Qualcuno con cui condividere qualcosa in pace, poterci parlare tranquillamente… ma anche qualcuno da stringere a me, da baciare, da coccolare… - in quel momento sentivo di non essere io a parlare, ma un altro Donatello, che in qualche modo si era messo in contatto con la mia lingua. Non avrei mai rivelato certe cose a nessuno, eppure l’avevo fatto con Francesco, che conoscevo sì e no da meno di un anno.

Posando la matita nel portapenne, Francesco sospirò. – Non è una cosa facile da trovare – rispose – soprattutto nel nostro ambiente, dove la maggior parte della gente è come me. Una botta e via. – disse quest’ultima espressione facendo un gesto della mano accompagnato da un’alzata di sopracciglia, come se con la mano avesse appena scacciato una grossa zanzara. Parole piuttosto forti, le sue, soprattutto perché lui era uno di quelli che usavano e gettavano ragazzi che per me averli avuti anche soltanto per una notte sarebbe stata una conquista più che lodevole. La maggior parte della gente è come me, nel nostro ambiente… quella frase mi lasciò con l’amaro in bocca – Perché, Francesco? – domandai. – Perché lo fai? –

La domanda lo prese in contropiede. Evidentemente nemmeno lui conosceva la risposta ai molti aspetti della sua vita, e la sua espressione dubbiosa, con quella bocca piegata sotto il naso dritto e gli occhi castani luminosi d’incertezza, ne fornivano un quadro abbastanza chiaro.

- Non so. – si morse il labbro, come se io avessi premuto l’interruttore di un detonatore collegato a delle cariche di esplosivo piazzate direttamente sui pilastri delle sue strutture mentali, non abbastanza dannose da distruggerle ma abbastanza potenti da farle vacillare. – è… è che… - tentennò. – E’ che così fan tutti. Si vive alla giornata, durante la settimana non si studia ma si incontrano ragazzi oppure si va a far shopping, e il sesso diventa come un “bisognino” da espletare quando ci si trova accanto un bel ragazzo. – mentre parlava gesticolava, come se non fosse certo nemmeno lui di quello che stava dicendo. Io me ne stetti lì buono e ascoltai la sua giustificazione, ma non fu abbastanza.

- Perché succede questo? – domandai, non pago della sua risposta superficiale.

Lui sbuffò, e scese dallo sgabello. – Senti, non mi va di dare risposte ad un comportamento generalizzato. Sarebbe come chiedere perché gli italiani, ogni volta che votano un nuovo governo, non sono mai contenti. Io sono contento della mia vita, ho tutto quello che voglio e non mi occorre altro. – tagliò corto, poi aggiunse – A te cosa serve nella tua vita? – domandò, ma non era una domanda. – Chieditelo, riflettici e poi risponditi. – concluse, e se ne andò dalla mia stanza.

- Ehi aspetta! – lo fermai, mettendomi a sedere sul letto. – Perché eri entrato in camera mia? –

- Avevo solo bisogno di chiederti una proroga per il pagamento dell’affitto. – rispose, dandomi le spalle e appoggiandosi allo stipite della porta. – Ma suppongo che dopo questa mia sfuriata, tu non… -

- Oh no – lo bloccai – Ti concedo una proroga, basta che non sia di un mese. Comunque questo dimostra una cosa, caro Francesco. –

- E cosa? – rispose lui, con un tono di voce neutro, probabilmente rabbonito dalla proroga concessa.

- Che qualche cosa ti manca.- risposi io. – Pensaci, mentre racimoli i soldi per pagarmi l’affitto. –

- Ah. – disse – Grazie, comunque. –

- Prego, non c’è di che. – risposi, e lì finì il nostro colloquio.

Quando ebbe lasciato la stanza e chiuso la porta dietro di sé, pensai che forse era tutta apparenza. La sua ostentata sicurezza nella vita, la sua aria spaccona, il suo portafogli gonfio quando usciva la sera… tutti elementi che tradivano un’insicurezza di fondo, insicurezza che forse non soltanto lui aveva, ma che avevano tutti. O forse…

… O forse sei solo uno stupido.

Di nuovo una voce alle mie spalle. Questa volta mi spaventai, trasalendo dalla mia posizione seduta sul letto. Mi voltai. Dietro di me c’era un altro manifesto di Dandy Landy, che mi guardava severo a braccia conserte, vestito con un bel pullover a “V” ispirato a quelli che si usano a Hogwarts, in Harry Potter.

Non risposi, inghiottendo il rospo per ciò che Dandy (o chi per lui) mi aveva detto.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


- Non capisco, Fiorella… mentre disegno, ogni tanto sento delle voci. – dissi, non senza vergogna. Credo che le mie guance rosse si sarebbero viste lontano un miglio, anche se Fiorella tradì di non essersene accorta.

- Che cosa senti, Donatello? – mi domandò, in quel suo tono calmo e misurato.

- Io… sento Dandy che mi parla. – risposi – Sì, lo sento che mi riprende, che cerca di darmi delle risposte… -

Ci fu un attimo di silenzio tra noi, come se per la prima volta in quasi un anno di sedute, avessi rivelato qualcosa di veramente scioccante a quella ragazza che non si impressionava mai, nemmeno quando dicevo di sentire un bisogno istintivo di coccolare e fare sesso con un ragazzo.

- Che risposte ti da, Donatello? – domandò Fiorella, nel tono in cui una sorella maggiore cercherebbe di cavar fuori dalla bocca del fratellino un segreto troppo sconvolgente.

- Rispostacce. – dissi, senza pensarci. – Mi chiama stupido, pirla, e quant’altro… Perché? –

Sollevando entrambe le sopracciglia, Fiorella rispose – Non lo so. Forse è solo la tua immaginazione che ti fa sentire certe cose, magari tu vorresti parlargli e invece al posto della sua parola, agisce il tuo pensiero. –

- Cosa? Non ti ho nemmeno raccontato di quella volta che … - ma mi bloccai. Era troppo assurdo, talmente assurdo che non ci credevo nemmeno io.

- Di quale volta? –

- Oh? Niente – mi affrettai a chiudere – Niente, nulla di importante… -

 

 

Tornando a casa, mi accorsi che Francesco era uscito. Non mi aveva lasciato nessun biglietto sul tavolo, quindi me ne andai in camera e mi sedetti al mio tavolo da lavoro. I fogli disegnati imbrattati di colore blu erano ancora lì, non li avevo buttati perché di solito non buttavo mai nessuno dei miei disegni, ma avrei dovuto archiviarli già da un bel po’. Li presi in mano, toccando la loro superficie, resa ruvida dal colore. Mi morsicai le labbra, quindi cercai con gli occhi un posto dove metterli. Optai per infilarli in uno dei raccoglitori che tenevo sullo scaffale in alto e dopodiché mi misi al tavolo da disegno, finalmente pulito. Presi la matita in mano ed incominciai a fare quello che sapevo fare meglio. Disegnare.

Mi misi davanti al foglio bianco, e tamburellai con la matita per un bel po’ di tempo, cercando l’ispirazione. Modo buffo, non trovate? Cosa posso dirvi, noi artisti siamo così. Abbiamo le manie più strane, ad esempio quella di un mio amico scrittore: non si metteva mai a scrivere prima che avesse starnutito. Diceva che lo starnuto erano i suoi personaggi che lo sollecitavano a farli parlare, le idee che schizzavano fuori dalla sua testa. Almeno io mi limitavo solo a tamburellare con la matita, e non riuscivo nemmeno a trovare l’ispirazione, se dovevo dirvela tutta.

La scena mi ricordava un po’ quei film strani in cui il protagonista cerca di mettersi in contatto con qualcuno. Ricordavo di aver letto qualcosa di simile, forse era un romanzo horror: il protagonista era uno scrittore famoso che aveva in un certo senso “ucciso” il suo pseudonimo, e questi anziché essere una persona di fantasia era una persona viva, reale e pericolosa. Tra le altre caratteristiche, ricordo che il protagonista ed il suo alter ego riuscivano a comunicare telepaticamente, scrivendo. Uno scriveva qualcosa, e l’altro se si concentrava riusciva a captare i suoi pensieri e li riportava su carta sotto forma di scrittura.

Piuttosto inquietante, ma ricordare quel romanzo mi diede un’idea per cominciare: il primo disegno fu Dandy, che quel giorno non avevo ancora visto se non nel manifesto che tenevo nella mia stanza. – Vogliamo parlare, Dandy? E va bene. Parliamo. – dissi sottovoce, continuando a tratteggiare i suoi lineamenti. Conclusi, e venne fuori un Dandy con le mani in tasca, che stazionava in uno spazio vuoto.

- Uhm – mormorai – Si parla meglio da seduti. Che ne dici? –

Prontamente, cambiai quadro e lo disegnai seduto su un divano.

- Dove potrebbe essere questo divano? Un modernissimo loft? O una tenuta di caccia inglese? Oppure…? –

Non so perché, ma mi venne da disegnare il nostro appartamento. Nel disegnare le figure umane ero bravo, ma non lo ero altrettanto a disegnare ambienti e componenti d’arredo. Figuriamoci, se fossi stato bravo a disegnare componenti d’arredo ed ambienti, sicuramente a quest’ora frequenterei la facoltà di architettura, e non di giurisprudenza. Tuttavia, il nostro appartamento venne bene. Disegnai qualche inquadratura della mia stanza e di quella di Francesco (ovviamente vuote) per rendere viva l’idea che Dandy quel giorno si trovasse in un ambiente familiare piuttosto che in uno dei tanti luoghi che la mia mente gli confezionava ogni volta che doveva agire.

- Ti piace? – domandai. Trasferii la mia domanda su un baloon a lato della vignetta, e disegnai Dandy che si girava sorpreso dalla voce che aveva parlato. Ora mancava un’ultima cosa.

Il suo interlocutore.

 

Francesco, ogni volta che si preparava per andare in discoteca, stava ore ed ore a prepararsi: controllava che i capelli fossero a posto, che i trucchi avessero fatto il loro effetto sul suo viso, che i suoi vestiti fossero perfetti ed immacolati. A questo proposito teneva in camera uno specchio a figura intera. Lo odiavo, quello specchio. Ogni volta a causa della mia mole, non riuscivo a vedermi i fianchi. Era uno specchio troppo chiaro, imparziale. Ma quella volta avrei dovuto superare la mia antipatia verso di lui ed usarlo. Entrato nella sua stanza, ignorando tutti i ritagli di immagini di ragazzi appiccicati sul suo armadio per paura di perdere la concentrazione (dovevo parlare con Dandy nel fumetto e non volevo assolutamente che nulla interferisse con questa operazione), mi apprestai a spostarlo. Purtroppo non aveva le ruote ed era abbastanza pesante, quindi dovetti fare molta attenzione a non romperlo. Se l’avessi rotto, come minimo Francesco mi avrebbe spellato vivo.

Ultimato il trasferimento da stanza a stanza, lo misi proprio accanto al mio tavolo da disegno. Mi allontanai un po’, con le braccia incrociate sul petto. La mia immagine riflessa era terribile, e feci una smorfia di disappunto cercando di superare l’antipatia di vedermi così imperfetto. Studiai la mia espressione, la mia linea e le mie proporzioni rispetto a Dandy. Calcolavo da sempre che Dandy fosse un po’ più alto di me e non troppo magro; sì, insomma, un ragazzo che per baciarmi la fronte avrebbe dovuto chinarsi un po’. Senza staccare gli occhi dallo specchio, presi il mio Schizza e strappa, il block notes che usavo appositamente per le bozze, ed abbozzai un mio autoritratto, in piedi. Venni fuori come un individuo un po’ rotondetto, con l’espressione seria (qualcuno avrebbe detto imbronciata), ma molto dolce. Guardai il disegno e guardai me stesso. Approvai il lavoro e mi rimisi a disegnare.

 

Dandy se ne stava lì seduto come lo avevo lasciato. Guardava fuori dalla finestra, con un’espressione pensierosa che mai gli avevo visto dipinta sul volto. Mi avvicinai lentamente, come timoroso di rompere un incantesimo che erano i suoi pensieri mentre osservava Bologna fuori dalla finestra. Improvvisamente si accorse di non essere più solo, e lentamente voltò lo sguardo.

- Ciao – mi disse, con un lieve sorriso sul volto.

- Ciao. – risposi io, neutro. – Ti piace casa mia? – domandai.

Lui fece spallucce – Sono abituato a posti ben più emozionanti, e tu lo sai. – disse – Ma mi piace abbastanza. –

Sospirando, ritornai a guardarlo. Lui era lì che mi guardava. I suoi occhi mi studiavano, ed il suo sorrisetto era un sorrisetto di rimprovero.

Con la mano destra toccò il divano, invitandomi a sedermi accanto a lui. Ragazzi, se c’era una cosa che mai nessuno aveva fatto in venticinque anni di vita ed in cinque che frequentavo il mondo omosessuale, era di invitarmi a sedere così garbatamente. Mi sedetti, e dopo un iniziale silenzio, fu Dandy a rompere il ghiaccio.

- Che cosa stai cercando di fare? – mi chiese. Io lo guardai come trasognato.

- Cosa vuoi dire? –

- Voglio dire… ma che cosa stai cercando di fare? – domandò, ridacchiando. – Cerchi in tutti i modi di disegnarmi un fidanzatino, non ci riesci e poi vai dalla psicologa a dire che senti le voci? – rise.

Quelle parole mi colpirono come dieci pallottole al cuore. Non mi piacque per niente il tono che il mio Dandy usò contro di me, così schernitore e impudente. Se non mi alzai da quel divano per andare chissà dove, fu soltanto perché sapevo com’era fatto Dandy; lui era così, un insieme di assoluti: impudente, dolce, cinico, romantico, faccia da schiaffi, sensuale, e tante altre cose. Così l’avevo creato io.

- Non rispondi? – rise ancora. – Lo vedi che sei uno stupido, allora? –

- Piantala. Non sei divertente. – risposi io, tagliente. Lui stette zitto per un po’, poi ritornò a schernirmi.

- Se ti dico che sei stupido, vorrà dire che un motivo ci sarà. – rise ancora. Io mi voltai e gli presi il polso, alzando la mano per dargli uno schiaffo. Sorprendentemente, lui mi tirò a sé con l’altra mano e mi appioppò una sberla bella forte sulla guancia destra, tanto che io gemetti più per la sorpresa che per il dolore.

- Ahio… -

- Così impari a provare di colpirmi. – era ritornato serio. Accidenti, non avrei mai creduto che Dandy si sarebbe comportato così con la persona che in linea teorica era suo padre.

- Tu non sei mio padre, ricordatelo. – disse, come leggendo i miei pensieri – Tu sei soltanto un ragazzo che mi ha evocato dalla tua fantasia – mi si avvicinò lentamente sul divano, prendendomi sottobraccio mentre io mi massaggiavo la guancia colpita. Gentilmente lui tirò via la mia mano e al suo posto vi mise la sua bocca. Mi baciò dolcemente la guancia, accoccolandosi a me. Quel gesto ebbe un effetto calmante sul mio sistema nervoso, ma pensai che forse era un trucco per farmi un altro scherzo.

- Nessun trucco – disse lui – E smettila di pensare. Piuttosto parla, dì tutto quello che ti passa per la testa, non farmi parlare da solo. E soprattutto non pensare che soltanto Fiorella possa capire ciò che dici. Anche altre persone possono riuscirci, ma sopra tutti ci riesco io. Quindi avanti. Parla. –

- Perché mi tratti così? –

Ci fu un minuto di silenzio, in cui cercai di non pensare a nulla ma solo di godermi l’attimo con lui. - Non lo so. Forse perché credo che tu mi stia troppo addosso… O forse perché non voglio che tu ti preoccupi per me più del necessario. – rispose lui, accarezzandomi dolcemente i capelli. I suoi capelli biondi odoravano di buono, ed erano morbidi e lucenti. Chiusi gli occhi, annusandoglieli. Docilmente, lui si lasciò andare e mi lasciò fare quello che volevo. Senza aggressività, senza smania di fare qualcosa subito. Con calma, lasciando che il tempo facesse il suo corso.

Nessuno ci avrebbe disturbati, io lo sapevo. Non sapevo quanto tempo avevamo, né se quello era veramente un sogno oppure realtà. Fatto sta che mi piacque moltissimo il contatto con il “mio” Dandy.

- Penso di non volere un fidanzato disegnato da te – sussurrò. – Non sono sicuro di volere nessuno al mio fianco, almeno per il momento. – concluse, dandomi una stilettata al cuore.

- Ma… ma allora… che cosa vuoi? – chiesi io, sul punto di piangere.

Lui sbuffò a questa mia domanda – Uffa, come sei noioso. Devo per forza volere qualcosa, dalla vita? Non posso viverla e basta? Tu che cosa vuoi dalla tua vita? Un fidanzatino che ti stia accanto come fa Fiorella in veste di psicologa oppure qualcuno che completi la tua vita, indipendentemente dal fatto che te lo porti a letto oppure no? –

Ci pensai. Nonostante il tono arrogante e scocciato, la domanda era parecchio profonda, e non penso che quelli che avevo conosciuto nella realtà prima di Dandy se l’erano mai sentita porre o anche domandata.

Che cosa vuoi dalla tua vita?

- Vedi che non lo sai neanche tu? E vorresti provvedere alla mia, di vita? – mormorò Dandy, fra le mie braccia. In questo, mi sembrò simile a tanti ragazzi che dicevano di non volere ragazzi che avessero problemi con la loro identità sessuale. – Lasciami vivere. – concluse lui, continuando però a carezzarmi i capelli.

- Dovrei… abbandonarti, allora? –

- No. – disse, seriamente – Se tu mi abbandoni, io non potrò più vivere, lo capisci? –

Io annuii. La mia espressione neutra tradì un certo sconforto che provavo in quel momento, ovvero quello di non essere utile più di tanto nemmeno ad un personaggio della mia fantasia.

- Donatello. –

- Cosa? –

- Non essere precipitoso… sii calmo. Abbi pazienza. Continua a disegnare, a farmi vivere… -

- Non … non ce la faccio, Dandy. Io non sono felice. Non riesco più a disegnare cose felici… - quella confessione mi esplose dal cuore e deflagrò fino a farmi parlare, ma non fu abbastanza forte da farmi uscire qualche lacrimuccia. Sospirai ampiamente, cercando di controllarmi.

Di contro, lui mi accarezzò i capelli e con le labbra si avvicinò all’angolo della mia bocca. – Che cosa ti rende triste, cucciolone? –

Un altro dei suoi assoluti si fece vivo. Questo era il Dandy romantico.

- Mi rende triste… il mondo dove vivo. Non so quale sia il mio posto in quel mondo, non so che fare. Incontro tanti ragazzi ed è sempre la stessa storia. Francesco invece incontra tanti bei ragazzi e… e la sua storia finisce sempre meglio. Perché succede questo, Dandy, perché? –

Continuò a stringermi, mentre io continuavo ad annusare il profumo dei suoi capelli. Era veramente più alto di me, ma in quella posizione riuscivo benissimo a mettere il naso tra i suoi capelli dorati, beandomi nel loro profumo.

- Tu vorresti essere come Francesco? Passare da un fiore all’altro, senza sentimento, ma solo con una sistematicità degna di un campo di concentramento? – il paragone di un ragazzo viveur che cambia ragazzo ogni sera con la sistematicità con cui si sterminavano i prigionieri di un lager nazista mi provocò un brivido di freddo lungo la schiena.

- Io … vorrei solo un po’ di dolcezza. Perché non posso averla? – mormorai, disperato.

- Perché loro sono tutti degli stupidi… Credono che una persona bella fuori sia bella anche dentro. Invece spesso queste due caratteristiche non coincidono. Soltanto io sono bello fuori… e bello dentro. – mi rispose, ed io pensai che era vero, che Dandy fosse veramente bello dentro, prima che fuori.

- Tu invece… Sei bello dentro… Ma anche un pochino fuori. – Sorrise. – E’ questo che vorresti sentirti dire da un ragazzo, non è vero? –

- Beh, io… - tentennai. Era come se mi leggesse nell’anima, e lo faceva senza inorridirsi dei contenuti grigi che erano dentro di me. Avrei voluto continuare quel colloquio all’infinito, lasciare che Dandy investigasse dentro di me e alla fine decidesse che ero io il ragazzo della sua vita, quindi mi sarebbe piaciuto restare nel mio mondo di carta, dov’ero io a comandare e a decidere tutto, diversamente da quello schifo di mondo reale, dove io non ero nulla se non un ragazzo triste che era bravo a disegnare. – Sì. Forse sì. –

Dandy sorrise, e mi carezzò entrambe le guance con le sue mani. Cavoli, sembrava un ragazzo vero e reale, in quel momento. Invece era soltanto un disegno, ed io ero dentro questo disegno insieme a lui.

- E’ tardi – dichiarò sospirando – Direi di sciogliere qui la nostra seduta… - Si alzò e mi porse la mano – Vieni. –

Io gli porsi la mano e lui me la prese nella sua, facendomi alzare e conducendomi verso la porta che dava sul corridoio. Quando la aprì, vidi me stesso che dormivo appoggiato al tavolo da disegno con la matita in mano... Un’immagine piuttosto inquietante. Rimasi a bocca aperta, ma Dandy mi riscosse dal mio stato salutandomi velocemente con un “Ciao ci vediamo”, dunque mi spinse via.

- Ahhhhh!!! –

Urlai. Mi resi conto di essere tornato a casa mia, svegliato da una specie di sogno ad occhi aperti. Una scia di saliva era rimasta sul tavolo da disegno. Pochissimo dopo Francesco accorse nella mia stanza.

- Donatello! Che succede? –

Io mi voltai e lo guardai stralunato, strofinandomi gli occhi. Mi veniva voglia di mandarlo a quel paese perché non aveva bussato la porta, ma mi trattenni.

- Eh? Perché? – domandai.

- Ti abbiamo sentito urlare. – disse lui, e contemporaneamente sulla mia porta comparve un ragazzino moro con i capelli sparati all’insù, vestito con un bel gilet ed una camicia bianca. – Va tutto bene? –

- Io… sì… Tutto bene. Devo essermi appisolato mentre disegnavo ed ho avuto un incubo. Tutto qui. – risposi con nonchalance. Il ragazzino mi guardò con una punta di orrore nell’espressione, espressione a cui ero abituato da troppo tempo e che da troppo tempo mi teneva lontano dai locali. Francesco scosse la testa, cercando di ricomporsi, quindi voltò le spalle ed andò verso la porta, dove il ragazzino lo stava aspettando. Non si disturbò nemmeno a presentarmelo, quella volta. Chissà cosa frullava in testa al mio amico, da un po’ di tempo a quella parte.

- Io vado in camera – disse, evitando volutamente di usare il pronome “noi”, credendo che non mi fossi accorto che si era portato della compagnia a casa un’altra volta – Se hai bisogno di qualcosa, chiama. Ok? –

- Ricevuto. Ciao. – dissi, congedandolo immediatamente. Lui chiuse la porta e poco dopo sentii la porta della stanza di fronte che si chiudeva. In quel momento, capii che c’era qualcosa che non quadrava.

- Lo specchio! – esclamai con orrore. Mi guardai intorno cercandolo nella mia stanza, ma era come volatilizzato. – Dove cazzo è andato a fin…? – mi alzai di scatto dalla sedia, e così facendo urtai con il ginocchio contro il tavolo da disegno. Caddero alcuni fogli, per la precisione quelli che stavo iniziando a disegnare prima di cadere addormentato. Li presi in mano e li guardai.

C’era disegnata tutta la nostra conversazione, vignetta per vignetta, parola per parola, inquadratura per inquadratura. Tutte le vignette erano una scena statica, ovvero me e Dandy che sedevamo avvinghiati sul divano a parlare. Visti da quella prospettiva, sembravamo due fidanzatini. Nell’ultima vignetta, c’era Dandy che mi spingeva in una porta dalla quale fuoriusciva una luce, e dopo averlo fatto, spostava lo specchio che avevo preso nella stanza da letto di Francesco. Un brivido mi corse lungo la schiena. Posai i miei disegni e mi avviai verso l’uscita, incerto sul da farsi.

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


Approfittando del periodo di ferie estive del servizio di aiuto psicologico, e per cercare di svagarmi un po’, decisi di andare a trovare mio fratello a Milano. L’idea non venne a me di persona, ma bensì fu lui ad invitarmi: mi telefonò circa tre giorni dopo che avevo parlato (sognato) con Dandy, proprio mentre cercavo di occultare le vignette che descrivevano il nostro colloquio.

- Oh buongiorno, il principino s’è svegliato, eh? – mi salutò allegramente Ermanno.

- Buongiorno a lei, marchese. Come se la passa nella sua tenuta di Mediolanum? – l’avevo canzonato io.

- Direi molto bene. Però fa un caldo d’inferno… Per questo io e mia moglie avevamo avuto un’idea. –

- Sono tutt’orecchi. –

- Vedi, pensavamo di andarcene a fare un giretto sul lago di Garda, in Trentino. Lì c’è un sacco d’aria buona, e soprattutto fa un freschetto niente male! C’è un’amica di mia moglie che da una festa… se ti va di venire… - mi disse, con il tono tranquillo di chi ha sa già la risposta.

Da quando Ermanno si era sposato, solo due anni prima, avevamo smesso di frequentarci. Il suo trasferimento a Milano era stato un colpo duro per i miei e anche per me, che avevo perso l’unico essere umano che parlava con me di tanto in tanto (escludendo Francesco, che comunque non aveva la stessa importanza di mio fratello) e con cui uscivo senza problemi. Mio padre e mia madre andavano a trovarlo qualche volta, ma ce l’avevano comunque con lui per averli abbandonati.

 

Inutile dire che avevo risposto sì alla proposta di Ermanno. Staccare un po’ da Bologna era l’ideale, soprattutto alla luce degli ultimi eventi. Ero partito di buon mattino, calcolando che per le dieci e mezza sarei stato a Milano senza troppi guai. Dopodiché, un giorno di sosta in casa di Ermanno e Chiara, e poi via verso il Trentino Alto Adige. Se non altro non avrei patito il caldo come a Bologna.

La mia auto ronfava rumorosamente sull’autostrada che portava nella città ambrosiana, e sapevo già che mio fratello me ne avrebbe dette tante vedendomi arrivare su di essa: “Sei impazzito! Ma hai idea di quanto sia pericolosa quest’auto? E se ti si ferma in mezzo all’autostrada, cosa fai?”

Ed io immancabilmente gli avrei risposto “Semplice, chiamo il carro attrezzi e la faccio riparare.” Con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia. Sorrisi, ma il mio sorriso si spense quando mi resi conto che un viaggio da solo, anche se di poche ore, era abbastanza noioso. L’autoradio trasmetteva le notizie sul traffico e qualche canzone di quelle vecchie, ma non era eguagliabile alla compagnia di un essere umano. Pensai e ripensai a tutti i possibili scenari che sarebbero potuti esserci con un probabile fidanzato.

 

- Cambia stazione, questa non mi piace. – mi sentii dire. Tenendo il volante con la mano sinistra, allungai l’indice per cambiare stazione.

- Neanche questa mi piace. – disse la voce accanto a me. Era un ragazzo molto carino, sulla ventina. Il suo nome?

- Paolo, è la trentacinquesima volta che cambio stazione. Ci sono soltanto un centinaio di stazioni radio in Italia. Dimmi, vuoi che le passi tutte, per farti contento??? – sbottai, con una punta d’irritazione.

- Ma che stronzo permaloso! Vai a fare in culo, allora! – e mi spense la radio.

Tra di noi regnò il silenzio per un po’, fino a che lui non riaccese la radio e la mantenne su un canale dove trasmettevano preghiere.

- Se volevi andare a messa, uscivo a Reggio Emilia e ne trovavamo una… -

- Tappati quel cesso! Coglione… -

Un fidanzato aggressivo. Proprio quello che mi ci voleva. E se invece fosse stato uno dolce?

 

- Amore, ti sei ricordato di portare la crema abbronzante?  - mi domandò il ragazzo al mio fianco, mentre guidavo. Un’auto mi aveva appena sorpassato con un insistente lampeggio di fari abbaglianti.

- Sì… - risposi io.

- Perché lo sai che non voglio che il mio patatone si prenda una scottatura, non è veeeeero? –

- Sì amore. – risposi di nuovo io, distrattamente.

- Che c’è? – mi domandò lui con un’espressione triste dipinta sul volto. – Sembra che … che ti annoi a parlare con me. –

- No amore, è solo che… - cercai una scusa lì per lì. – Sto guidando, ecco. –

- Non è vero… - rispose lui tenendomi il broncio e mettendosi a braccia conserte. – Hai un altro, non è vero? –

- Cos…? Ma … ma no, amore. Ti giuro che … -

- Invece sì, hai un altro e stai pensando a lui invece che a me! Dillo! Dillo! Dillo! Diiiiiiiilloooooo! – e così dicendo, si mise a piangere. – E pensare che io faccio di tutto per te… -

Io sbuffai, non sapendo bene cosa rispondere. Ma sì, in fondo, chi se ne importava? Era solo uno scenario elaborato dalla mia mente creativa, non c’era nulla di vero. Però, c’era un’altra cosa che mi inquietava: possibile che tutti questi scenari finissero nel male?

Una volta, tanto tempo fa (non esageriamo, saranno stati due o tre anni fa), frequentavo una compagnia di ragazzi gay. Non ricordo nemmeno come c’ero approdato, so soltanto che avevo un solo ragazzo che stravedeva per me e tutti gli altri non mi potevano vedere. Il sentimento era ricambiato da me, dato che non mi piaceva la loro meschinità, la loro arroganza… il loro egoismo. Ciascuno di loro aveva caratteri diversi, ma ognuno di questi teneva con la manina un sottile filo rosso, che era la cattiveria. In quel breve anno e mezzo di frequentazione di questo gruppo avevo visto coppie sfasciarsi per tradimenti o tresche clandestine, baci dati al momento sbagliato o alla persona sbagliata, oppure ancora peggio per il pettegolezzo. E cosa non si dicevano tra di loro! Quando si era in tanti erano sempre baci carezze ed abbracci, mentre se qualcuno mancava, era l’occasione buona per sparlargli dietro.

Nulla da fare, avevo un po’ di pregiudizio verso il mondo gay, e non già verso il mondo in sé, quanto nei loro atteggiamenti. Atteggiamenti che con l’andare del tempo avevano fortemente influenzato la mia fantasia, spingendomi a creare Dandy ed i suoi amici, facendomi ogni volta aiutare dalla musica per cercare di non pensare alle brutture di ciò che avevo visto con questi occhi e disegnare un mondo bello e senza cattiveria.

Mi venne da pensare a Dandy ed al nostro colloquio. Che cosa mi avrebbe detto, se avesse percepito i miei pensieri in quel momento?

I fumetti sono mondi paralleli, evocati da una mente superiore, che dovrebbe essere in grado di resistere alle brutture del mondo, oppure di trasformarle in cose divertenti. A te manca quella funzione. Non è forse vero, Donatello? Tu non riesci a vedere una cosa brutta in altro modo che quello. Per te una cosa brutta è brutta e basta. Ma prova a pensare lateralmente… per esempio, se c’è un tradimento, ci può anche essere un motivo di ilarità, una situazione divertente… Insomma, il mondo non è solo bianco o nero.

Pensare alla sua voce vellutata ed al suo tono tranquillo, mi mise di buon umore. Le parole che avrebbe potuto dire in quel momento mi risuonarono in testa come un mantra, di cui io avrei dovuto cercare di coglierne il significato profondo.

Ci pensai.

Continuavo a guidare, con gli occhi fissi sulla strada. Le uniche cose che avevo in mente erano non andare troppo veloce, guardare bene i cartelloni stradali per non perdermi, e tutte le regole del codice della strada riguardo alle autostrade.

Sospirai.

- Non ci riesco, Dandy… Non ci riesco. – mormorai, mentre mettevo la freccia e mi fermavo in una piazzola di sosta. Scesi in fretta dalla mia auto, mi sporsi sul guard-rail e vomitai nella fossa adiacente.

Dietro di me, intanto, gli altri veicoli sfrecciavano.

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


Mio fratello Ermanno e mia cognata Chiara si erano sposati l’otto settembre del 2009. Al matrimonio, mentre i due sposini erano sull’altare ed io ero lì accanto in veste di testimone dello sposo, ricordo che pensai una cattiveria. Ermanno era sempre stato un viveur, un single incallito. Da sempre. Ai tempi della scuola lo volevano tutte, e lui andava con quasi tutte (ovviamente scartava le più brutte). Si fidanzava con loro per una settimana o due, e poi quando le ragazze chiedevano qualcosa di più consistente di un rapporto fatto solo di uscite in discoteca e di visite al parco per guardare la luna, lui le lasciava. Conoscevo Ermanno talmente bene che avrei potuto dire che era un figlio di buona donna, ma non l’avevo mai detto, non l’avrei neanche mai ammesso con me stesso. Perché dico questo? Seguitemi, e capirete.

Il prete era lì che pronunciava la formula di rito, Vuoi tu Ermanno Tarasconi, prendere in sposa la qui presente Chiara Accorsi come tua legittima sposa…, mentre io me ne stavo lì con uno sguardo perso nel vuoto a pensare a tutto il nostro passato, a pensare a come mio fratello lasciava le ragazze quando si azzardavano a chiedere la cosa proibita.

Non c’era giro di parole che tenesse, data l’esperienza di Ermanno. Sapeva fiutare lontano un miglio quando una ragazza stava per iniziare un “discorso di intrappolamento”, la denominazione che aveva affibbiato a quel tipo di discorsi. Quando una ragazza comincia a farti un discorso di intrappolamento, diceva, è finita. Puoi soltanto augurarti che non si incazzi troppo quando le dici che tu sei ancora giovane e che vuoi vivere la tua vita. Le donne sono esseri particolari. Si innamorano subito, se dimostri loro un po’ di attenzione. Ascoltami bene fratellino, e fai tesoro di ciò che ti sto per dire. Queste furono le sue parole quando, a quindici anni, mi spiegò il suo metodo per fuggire pulito da una trappola.

Tante ragazze per un solo uomo significano come minimo una risonanza di comunicazione pari a cento elevato un milione. Ergo, se lasci una ragazza, quella come minimo si confronterà con le amiche, che si confronteranno con altre amiche, che si coalizzeranno tutte contro quel porco di uomo che ha lasciato la loro amica. Questo era il problema principale, ovvero non sembrare uno schifoso maschio che usa le donne.

Come fare?

Vi ho già detto che mio fratello era un figlio di buona donna, ma il metodo che utilizzava, unito alla poca memoria delle ragazze innamorate, era davvero raffinato: forte di tante amicizie compiacenti (mio fratello era da sempre la star di tutti i gruppi di ragazzi), convinceva qualcuno dei suoi amiconi a provarci con la sventurata di turno, che immancabilmente, dato che da parte di Ermanno non c’era risposta sul discorso “Ci mettiamo insieme oppure no”, cadeva nella trappola dell’amico che ci provava. Naturalmente, la ragazza di turno non doveva sapere che il ragazzo che la stava rimorchiando era un amico di Ermanno, altrimenti avrebbe potuto mangiare la foglia; detto questo, l’amico di Ermanno ci provava, loro ci stavano, e al momento giusto, scattava la trappola.

Uno dei “rimorchiatori” di fiducia di mio fratello si chiamava Lucio. Lucio era un bel ragazzo, frequentava la palestra, aveva l’aria da spaccone ma non troppo, e con le ragazze era dolce il giusto per irretirle prima del colpo di grazia.

La trappola consisteva in questo: una volta irretite abbastanza le ragazze, Lucio le portava alla biblioteca della scuola (io e mio fratello non frequentammo lo stesso istituto, ma una volta mi portò e mi fece vedere tutto quanto), parlava un po’ con loro, poi le seduceva lì, baciandole e abbracciandole. A quel punto, irrompeva mio fratello nella stanza, e li scopriva entrambi. Sgualdrina! Che cos’hai fatto??? Mi hai tradito con questo qui?!? Non voglio più vederti!!! Recitata questa piccola parte, tutto era in discesa. Le ragazze credevano di aver sbagliato, mio fratello scompariva dalla loro rubrica telefonica, l’amico non correva alcun rischio perché scappava via al momento giusto, e così mio fratello poteva dedicarsi ad una nuova avventura (mentre scrivo queste righe, mi viene da sorridere. Era o non era un figlio di buona donna, quel disgraziato?).

Con questo giochino di recitazione, andò avanti un bel po’ di tempo, fino a che una ragazza intelligente e più lungimirante di tutte quelle che aveva incontrato prima, non gli rese pan per focaccia, sabotando quel meccanismo perfetto che Ermanno si era costruito con l’esperienza.

A ventisette anni, mio fratello stava per terminare gli studi universitari e laurearsi in informatica. Purtroppo, il tempo passa per tutti, e lui sentiva già che nonostante l’età non troppo avanzata, non fosse più tanto bravo come lo era un tempo, con le ragazze. Queste sembravano molto prese dagli studi, così tanto che non sembravano essere attratte dalla prospettiva di avere un “compagno di giochi” con cui fare sesso. Eppure, nel suo peregrinare tra le possibilità, mio fratello finalmente sembrava averne trovata una. Lei era bella, sensuale, dolce al punto giusto. Tanto dolce che mio fratello all’epoca sembrava rincoglionito. Non lo riconoscevo più, sembrava navigare in un’altra dimensione spazio-temporale, lontano da me, da mio padre, da mia madre, da tutto il mondo che lo circondava. Era la prima volta che lo vedevo così diverso, e la cosa mi faceva inquietare. Con questa ragazza mio fratello andò avanti per un mese, poi due, poi tre, poi quattro, poi cinque… fino ad arrivare ad un anno. Io aspettavo con ansia di vederlo arrivare una sera e farmi raccontare ciò che mi raccontava sempre, ovvero che aveva sviato una trappola e si era trovato una nuova avventura. Invece, le mie aspettative furono deluse.

Una sera, io ero in camera mia a studiare per l’esame di diritto privato (in realtà stavo solo riempiendo il libro di disegnini). All’improvviso, sentii la porta di casa aprirsi con un gran fragore di chiavi, come se qualcuno avesse avuto fretta di entrare in casa, per poi sentirla richiudere subito dopo. Udii mia madre dire Ermy, che succede? Senza ricevere risposta, udii mio padre che faceva un verso inarticolato, ed infine udii le falcate frettolose di mio fratello e la porta della stanza accanto alla mia che si chiudeva con un gran rumore. Ehi, in casa mia non si sbattono le porte! Chiaro??? Urlò mio padre. A quel punto, decisi che c’era qualcosa che non andava. Mi avvicinai alla porta della stanza di mio fratello, e timidamente bussai. Non ci sono per nessuno, rispose mio fratello dall’altra parte. Io insistetti, fino a che lui non aprì la porta e mi aggredì tirandomi per la felpa. Mi ritrassi, quindi scappai in camera mia e chiusi la porta, cercando di dominare le lacrime.

Poco dopo, qualcuno bussò alla mia porta.

- Scusami – mi disse Ermanno, entrando senza permesso.

- Fottiti – gli risposi io – Chi ti ha dato il permesso di … -

- Non rompere, mostro. – disse lui. – Non sto bene, è successa una cosa. –

Io mi calmai, sapendo che mio fratello non pensava davvero certe cose di me. – Ti va di parlarne? – gli proposi. Lui accettò.

Mi raccontò che la ragazza l’aveva lasciato, solo perché lui si era azzardato a chiederle di fidanzarsi ufficialmente. Poi un’altra ragazza l’aveva sedotto e lei l’aveva colto in flagrante. Lui era disperato, talmente disperato che mi abbracciò e pianse sulla mia spalla per tutta la serata. Ricordo che pensai stai raccogliendo quello che hai seminato, te lo meriti, brutto figlio di… poi mi bloccai, pensando che quell’essere che mi piangeva sulla spalla era pur sempre mio fratello Ermanno, sangue del mio sangue.

Restò in stato di catatonia per un bel po’ di tempo, circa due settimane. Saltò un turno per la laurea per restare in casa a dormire tutto il giorno, finché…

Un giorno il telefono di casa squillò. Dato che era vicino alla mia stanza, mi alzai e andai a rispondere. Era la ragazza che aveva fatto piangere mio fratello. Dovetti dominare l’istinto di mandarla a quel paese, ma fu davvero difficile, mentre bussavo alla porta della stanza di mio fratello e gli annunciavo che c’era una telefonata per lui. Mentre mio fratello prendeva la cornetta in mano, io ritornai in camera mia. Della conversazione riuscii ad udire soltanto poche parole che disse Ermanno, ma non ricordo bene cosa disse. So soltanto che quando la conversazione terminò, mio fratello era cambiato. Entrò in camera con le lacrime agli occhi, mi guardò… si avvicinò e mi abbracciò talmente forte da togliermi il fiato.

- Mi ha perdonato. Mi ha perdonato! – esclamò, stringendomi e girandomi come fossi stato un pupazzo – Mi ha perdonato!!! Ed io sono il ragazzo più felice di questo mondo!!! –

Stretto dalle sue braccia, io sorrisi e lo abbracciai a mia volta, battendogli delle pacche sulla spalla e dicendogli “Grande fratellone!” per incoraggiarlo.

Sapete come si chiamava quella ragazza?

- Chiara – aveva poi detto mio fratello sull’altare – ricevi questo anello come simbolo del mio amore per te… -

E sì, era proprio lei.

La cattiveria che pensai quel giorno fu: adesso sì che sei intrappolato ben bene, eh, fratellone?

 

Quando arrivai, Ermanno era lì che mi aspettava nel cortile del complesso residenziale dove abitava, un gigante di venticinque piani con un giardino interno che sembrava il parco di un albergo ed un giardino esterno non molto diverso, con abbastanza panchine per tutti i condomini che avessero voluto passare un pomeriggio diverso dallo stare chiusi nei loro appartamenti. Con il tubo dell’innaffiatoio, stava spruzzando d’acqua le piante (immaginai fossero di Chiara, non sue… non era buono nemmeno a tenere in vita una pianta grassa). Quando mi vide mi sorrise e scherzosamente spruzzò un po’ d’acqua col tubo sul mio parabrezza. Io azionai i tergicristalli e lui si mise a ridere.

- Sempre il solito, eh? – dissi, mentre il finestrino si abbassava.

- Eh sì. Mi sa tanto che devi tenermi così, fratellino. – rise, e continuò a dirigere il getto verso le piante. – Vai a parcheggiare, va’. –

Obbedii, e quando scesi dall’auto lui era già lì ad accogliermi. Portava una maglietta bianca con un disegno di Snoopy che dormiva sulla sua cuccia, ed una didascalia che diceva Ogni artista comincia così un suo lavoro. Me la ricordavo, era una maglietta che gli aveva regalato nostra madre alcuni anni fa; un paio di pantaloni corti e ai piedi le infradito bianche.

- Come sta il mio fratellino adorato? – cinguettò, abbracciandomi e baciandomi le guance.

- Bene direi. A parte il viaggio in solitudine… -

- Ma perché non ti sei portato della compagnia? – mi domandò, battendomi una mano sulla spalla. Da sotto la maglietta vedevo che era bianco come un cencio. Evidentemente non aveva ancora preso la sua dose di sole, nonostante la bella stagione.

- Non sapevo chi portare… - buttai lì. Ermanno non sapeva che a me piacevano i ragazzi.

- Potevi portare il tuo coinquilino. Lì ci sarebbe stata molta topa anche per lui! – disse, e rise di nuovo. Io con lui, ma non tanto per la battuta che aveva fatto, quanto perché immaginai Francesco e la sua vita, piena di ragazzi con cui faceva sesso. Francesco era gay come me, e più che farsi le donne, gli piaceva fare la donna. Pensando a lui, digrignai i denti pensando a come si sarebbe sbizzarrito durante questi giorni che io non sarei stato in casa. Fortuna che avevo chiuso a chiave la mia camera da letto.

- Meglio di no. Almeno però la compagnia che trovo qui è gradevole – dissi, ed Ermanno sorrise. Si vedeva che era felice di vedermi, ed io… stranamente mi sentii male.

Non mi era mai successo prima d’ora, forse perché quando io presi coscienza di ciò che ero, lui era ormai andato via di casa ed io mi apprestavo a farlo, eppure… questa giustificazione non bastava: Mi sentivo male per non essermi rivelato a lui come un ragazzo a cui piacevano i ragazzi.

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


Chiara non era cambiata dai tempi in cui fece piangere Ermanno. La osservai entrando in casa loro e poi quando consumammo la cena. Aveva solo ventinove anni, ma sembrava più giovane di almeno nove anni senza usare ausili come trucchi o cosmetici. Era naturalmente bella, con i suoi capelli castani raccolti in un fermaglio sulla sommità della testa, una canottiera bianca giromanica che lasciava intravedere le sue forme regolari ma allo stesso tempo generose ed un paio di jeans scuciti sulle ginocchia, che intuii essere quelli che si metteva di solito in casa.

Un bellissimo appartamento, il loro nido d’amore. Ben tenuto, arredato con gusto e con tanti quadri. Mio fratello poteva considerarsi un ragazzo fortunato: a trent’anni lavorava già per una grossa società di informatica che progettava di inserirsi nelle telecomunicazioni come gestore di telefonia fissa e mobile, aveva una moglie servizievole e devota ed un appartamento che fra una decina d’anni sarebbe stato tutto suo, quando c’erano molti suoi coetanei (o addirittura più grandi) che faticavano anche solo a trovare lavoro come postini. Misi in comparazione me e lui, pensando che io ero arrivato a ventiquattro anni senza nemmeno dare in tempo i miei esami di giurisprudenza, e probabilmente non sarei mai diventato un operatore informatico giuridico in tempi brevi… A parte quello, io che cos’avevo nella mia vita?

Degli amici?

Una casa tutta mia?

Un lavoro?

Un fidanzato…?

Niente di tutto ciò.

Avevo soltanto la mia fantasia.

…e tanti nodi da sciogliere.

 

- Finalmente ti sei deciso a venirci a trovare, eh? – disse Chiara, servendomi il piatto con un sorriso. – Tuo fratello qui non vedeva l’ora. Ti ha sistemato anche la stanza… non sarai un neonato, ma sarà come avere un figlio. – E rise. Ed io con lei. Mio fratello Ermanno si limitò ad una risatina e scosse la testa.

- Non è vero che non vedevo l’ora. Non darle retta, Dody… - lei esagera sempre.

- Che c’è di male? Vuoi o non vuoi bene a tuo fratello, scusa? –

- Sì ma… che c’entra? – Ermanno arrossì, ed io feci una risatina di contentezza. – Sempre a mettere zizzania, tu… - concluse poi, inforcando un tortellino e ficcandoselo in bocca.

Lei rise e smise di stuzzicarlo. – Allora Donatello, come vanno le cose giù nella dotta e grassa? Ti diverti? –

- Diciamo di sì – dissi, masticando due tortellini alla panna. Erano veramente buoni, tanto che per un po’ dimenticai di essere a dieta e li mangiai con gusto - …faccio le solite cose, studio… vado in giro per i locali con i miei amici… niente di particolare. –

- La vecchia chioccia esce dal guscio, eh? – sentenziò Ermanno ridacchiando. Sapeva che ero sempre stato un tipo casalingo, e ciò che dissi stonava abbastanza con la mia personalità.

- Ogni tanto, Ermy. Ogni tanto. – risposi io, tagliando corto. – Voi invece come ve la passate quassù? – domandai.

- Boh, solita vita. Di mattina io vado a lavorare, lei invece studia… poi la sera andiamo a fare due passi o ce ne restiamo in casa. – rispose mio fratello. Chiara annuì mestamente quando Ermanno disse che lei studiava.

- Studi per cosa, Chiara? – domandai di nuovo.

Lei si portò la forchetta alla bocca e masticò un altro tortellino, quindi alzò le spalle e rispose – Concorsi di lavoro. Questi stronzi politici sembrano non avere a simpatia gli insegnanti. Sono costretta a fare supplenze su supplenze, e ancora niente impiego fisso. Perciò ogni volta che fanno un concorso, io ci vado e spero di avere fortuna – sospirò. Povera Chiara, sapevo che fin da bambina voleva fare la maestra elementare, quando ancora le scuole non erano state mutilate dai tagli dei vari governi avvicendatisi negli anni, costringendo gli insegnanti a lavorare solo sulle supplenze. E ora davanti a me avevo l’immagine di una maestra moderna, che si era laureata con il massimo dei voti ma che non riusciva a trovare il suo sbocco lavorativo… provai tristezza per lei.

- Dai amore, su… tanto adesso è estate, dovresti riposarti. – le disse Ermanno, cingendole delicatamente le spalle con il braccio. Io provai un moto di tenerezza nel vederli così innamorati, così immersi in una dimensione che soltanto poche persone conoscevano: la dimensione dell’amore. Mi si strinse il cuore, mentre facevo finta di niente e masticavo un altro tortellino… per non rovinare la loro intimità di coppia.

Mi sistemarono nella terza stanza da letto, uno stanzone ben arredato, dove c’erano la scrivania con il computer ed i libri di Chiara e la poltrona ergonomica di mio fratello accanto ad un mobile con sopra uno di quei vecchi giradischi che andavano negli anni ’70. Mio fratello era un grande appassionato di musica, e nonostante l’istruzione tecnica informatica, non riusciva a fare a meno dei vecchi dischi in vinile ereditati da mio padre. Diceva che il suono era un suono vero, palpabile, che sapeva di passato. Non ascoltava musica su altri supporti, fatta eccezione quando ascoltava la radio o i cd audio di nuovi artisti, che ovviamente non potevano incidere su vinile.

Il mio letto consisteva nel divano apribile accanto alla portafinestra che dava sul balcone. La vista non era particolarmente apprezzabile da lassù, per lo più si vedevano gli altri palazzi come un intrico labirintico di costruzioni, antenne e comignoli, che proprio non lasciavano spazio all’immaginazione. L’unica cosa bella quella sera era la luna, così piena e gialla che invogliava… la guardai fisso, perdendomi nei ricordi, quando con mio padre e mia madre eravamo ospiti di amici in collina e la sera si affacciava la luna. Io che chiedevo “Mamma, Papà, ma la luna è fatta di formaggio?” e mio padre rispondeva, ridendo “Sì, certo. E ogni notte, gli Atlanti, ovvero i tre giganti che sorreggono la Terra, ne mangiano uno spicchio. Per questo la luna ogni tanto si rimpicciolisce”, mentre mia madre scuoteva la testa e ridacchiava, per poi prendere mio padre in disparte e richiamarlo all’ordine con il suo classico “Se continui così lo farai diventare scemo, il nostro bambino”. Che bei ricordi…

- Sempre a pensare al passato, eh? Sei solo un nostalgico del cazzo. – una risata sommessa esplose accanto a me. Nel posto accanto al mio sul divano letto si era materializzato Dandy.

- Ah, sei tu… - dissi, con nonchalance. Ero felice di vederlo in quanto mio personaggio, ma ero un po’ meno felice quando faceva queste entrate da maleducato.

Lui annuì, sorridendo felice – Sì, sono proprio io. Allora, cosa ci fai in questa ridente cittadina del Nord? Mi porti a fare shopping alla Galleria? –

- Certo. Quando apriranno un negozio di cappotti di legno. – risposi io, cercando di fargli capire che mi dava fastidio quando lui si comportava da gattina viziata.

- Uff – borbottò – sei troppo serio per i miei gusti, lo sai? – poi riprese la domanda – Che cosa ci fai qui? –

- Sono venuto a trovare mio fratello e sua moglie – risposi, senza staccare gli occhi dalla luna – domani andiamo in Trentino, ad una festa. –

- Adoro le feste! – cinguettò Dandy, salvo poi ritornare serio due secondi dopo – Peccato che non puoi portarmi con te. Dopotutto io non esisto se non nella tua fantasia. –

La precisazione mi fece sospirare di disperazione. Adesso ero arrivato anche al punto di avere le allucinazioni? Mi stava passando la voglia di disegnare.

- Se sei venuto qui per sfruculiare, ti avverto che sono le due del mattino, ed io vorrei dormire. – dichiarai, abbassandomi sotto la coperta leggera e girandomi dall’altra parte.

- Come vuoi. Ma sappi che per un po’ posso starti vicino come un ragazzo vero. – rispose Dandy. Lo sentii rannicchiarsi in sé stesso.

Mi girai verso di lui.

- Cosa vuoi dire? – gli domandai. Teneva la testa appoggiata alle ginocchia, ed era vestito con solo un paio di jeans ed una camicia bianca semiaperta, che mi lasciava intravedere il suo petto glabro e tonico.

Per tutta risposta, lui mi sorrise.

- Non posso dirti molto – esordì – ma sappi che di questo passo ti servirà qualcuno che ti consoli – dichiarò.

- Molto poetico, ma… continuo a non capire. Cosa volevi dire con “posso starti vicino come un ragazzo vero”? Tu eri, sei e sarai solo un personaggio della mia fantasia. –

Velocemente, senza quasi che me ne accorgessi, Dandy si tuffò nelle coperte insieme a me. Dapprima ci guardammo negli occhi, un lungo, lunghissimo istante. Dentro quegli occhi chiari riuscivo a vedere tutti i miei pensieri che avevano ispirato la sua nascita, seppur confusi ed intricati. Ma era una bella sensazione, era come specchiarsi in un pozzo che faceva vedere il passato da mille prospettive diverse.

Mi prese la mano, ed iniziò a stringerla. Poi mi venne vicino, abbracciandomi ed abbarbicandosi a me. Le sue labbra erano molto vicine al mio orecchio sinistro.

- Voglio che tu sappia – mi sussurrò lentamente all’orecchio – che anche i personaggi inventati possono prendere vita. In un modo o nell’altro. In un modo … o nell’altro. – concluse, e mi baciò la guancia con una dolcezza che quasi mi sciolsi.

- Non posso restare più tanto tempo. Non ancora. Ma se le cose stanno come penso, allora … - non concluse la frase, come se avesse avuto paura di finirla. Mi guardò ancora una volta negli occhi, ed io lo guardai interrogativo. Con le sue lunghe dita prese a carezzarmi i capelli, sempre guardandomi negli occhi. – Sei terribilmente … un cucciolone. – mi disse, interpretando uno dei miei desideri di sempre: essere chiamato cucciolone da un amante. Io arrossii, e lui… avvicinò le sue labbra alle mie, e mi baciò dolcemente.

Le sue labbra erano calde ed umide, tanto che io non riuscii a resistere. Continuai a baciarlo, finché lui non si decise che era giunto il momento di smetterla di fare gli innocenti ed aprì la bocca, offrendola alla mia lingua. Esplorai la sua bocca con attenzione, mentre lui si lasciava coinvolgere dai miei baci appassionati, dei quali sembrava non essere mai sazio.

Fu un lunghissimo ed appassionato bacio, che mi vide confuso e quasi delirante, il mattino dopo, mentre mi sorpresi allo specchio a baciare un cuscino.

Il viaggio doveva avermi stancato molto, se mi ero messo a sognare Dandy che veniva nel mio letto e mi baciava… Anche se la qualità del sogno era piuttosto realistica?

Sospirai, non capendoci molto. A farmi dimenticare i miei problemi almeno in parte, fu la colazione a base di brioches che Chiara stava preparando di sotto. Ne annusai il profumo, mi vestii ed andai giù, affamato come un lupo.

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


Eravamo fermi ad una stazione di servizio nei pressi di Verona, quando ad un certo punto, squillò il mio cellulare.

Guardai il display. Francesco mi stava chiamando da casa, nonostante gli avessi detto mille volte che il telefono costava. Premetti il pulsante verde che accettava la chiamata e risposi.

- Ti avrò detto mille e una volta di non chiamare col telefono di casa, Fra.. – esordii.

- Eh, ma che burbero sei oggi. – mi rispose lui con una risatina. Scossi la testa, non troppo entusiasta di sentirlo. Se avesse cominciato a sparare cavolate sui suoi amanti, gli avrei chiuso la comunicazione seduta stante.

- Che c’è? – tagliai corto io.

- Ah niente, volevo avvisarti che è arrivata una raccomandata con ricevuta di ritorno. L’ho firmata io per te… -

Mi si gelò il sangue nelle vene. Non ero mai stato un tipo che aveva problemi con la legge, ma ricevere delle raccomandate se non richieste non era una cosa troppo allegra. Lanciai un’occhiata a mio fratello e a Chiara. L’uno stava mettendo gasolio nell’auto e l’altra stava guardando la vetrina delle chincaglierie con aria molto interessata.

- Chi la manda? – domandai, con voce tremante.

- Ah, è praticamente un’associazione culturale di Roma… - sentii un frusciare di carte dall’altra parte. Forse Francesco stava rovistando per vedere dove l’aveva messa. Così distratto com’era, mi spaventai che avesse anche potuto perderla. – Aspetta che… la trovo. – Altro frusciare di carte. Io mi tenni la fronte con la mano destra, chiudendo gli occhi e trattenendo le parole grosse che avrei voluto urlargli.

- Eccola! – esclamò lui, trionfante – Si tratta della Fondazione Privata Rambaldi, scuola di arti visive e cinema d’animazione. – il tono della sua voce era perplesso, come quando si legge una cosa che non si capisce. Io ero ancora più perplesso di lui, se possibile, e cercai di ricordare in che occasione ero entrato in contatto con quella Fondazione.

 

Trovare uno sbocco per un disegnatore di fumetti è una cosa veramente difficile. Se a ciò si aggiunge che io non ero nemmeno assistito da uno scrittore che inventasse le trame, il quadro diventava davvero nero. Le mie storie erano piuttosto incentrate sull’amicizia, sull’amore… sull’amore omosessuale. Com’è ben noto, l’omosessualità in Italia è ancora vista con un occhio abbastanza freddo, quindi per trovare uno sbocco ci voleva davvero un miracolo.

Di base io mandavo i miei lavori alle case editrici, firmandomi con il mio nome. Preparavo i file in formato pdf (oppure mi recavo in copisteria e facevo le varie stampe di presentazione), scrivevo delle sinossi brevi ma dettagliate, e spedivo tutto ai vari indirizzi che si occupavano di visionare i materiali degli artisti. Non avevo mai avuto fortuna, ma un giorno mi imbattei in una cosa nuova.

Concorso per aspiranti insegnanti di scuola di fumetto e cinema d’animazione.

Lessi su una mail.

Andai a vedere.

Il concorso era un bando di reclutamento per un anno in una scuola di disegno ed animazione, della quale non venivano specificate le generalità. Valutavano la bravura degli insegnanti dai loro disegni e non dai loro studi scolastici (la cosa giocava a mio favore in quanto io avevo frequentato l’istituto tecnico commerciale ed ero iscritto ad un corso di giurisprudenza, due percorsi scolastici totalmente avulsi dalla nobile materia dell’arte figurativa) ed offrivano un fisso mensile abbastanza allettante (ma cos’era il denaro in confronto alla gioia di insegnare il disegno ad un gruppo di appassionati?).

Galvanizzato dalla mail, mi misi al lavoro per creare una nuova storia, presi ancora una volta matita, pennini e china e creai un’altra storia di venti pagine con protagonista Dandy ed i suoi amici. Siccome per questo concorso non erano accettate le e-mail, feci preparare un albo rilegato dalla copisteria, di cui non ne conservai alcuna copia (avevo letto in un libro di Stephen King che fare copie dei propri lavori portava scalogna, ed io seguivo abbastanza fedelmente quella regola), e spedii il tutto all’indirizzo che mi era stato fornito. Una volta che la busta fu imbucata, mi dimenticai di tutto.

 

- Qui c’è scritto che hanno gradito molto il tuo lavoro inviato due anni fa – rispose Francesco per telefono – e che avrebbero piacere di vederti in Settembre per discutere i dettagli di un’eventuale assunzione. – concluse Francesco, leggendo testualmente.

Io non sapevo cosa dire. Era una bella gatta da pelare. – C’è una data che fissa il colloquio? – domandai.

- Venti Settembre. – rispose Francesco.

Eravamo solo a metà Giugno, e loro mi convocavano così presto? Se non fosse sembrato strano, avrei detto che volevano assicurarsi che io non prendessi impegni con nessun altro editore, ma fu un pensiero che scacciai via più per scaramanzia che per altro. Per quella data avrei dovuto dare un esame, ma ero convinto che l’avrei saltato anche quella volta. La proposta di lavoro era davvero una bella notizia.

- Cavolo, sono… sono strafelice, Francesco. – dissi, sorridendo di gioia. Lui rise, e mi incoraggiò a non lasciarmi scappare la ghiotta occasione. Dopodiché ci salutammo e chiusi la comunicazione, andando a raggiungere mio fratello e mia cognata. Riflettei sul problema se avessi dovuto comunicare a loro la lieta novella, ma dopo un’attenta analisi, convenni con me stesso che era meglio non dire nulla, ancora… Dopotutto, non ero ancora stato assunto. Era tutto ancora da vedere, ed avrei saputo tutto soltanto fra due mesi.

Si preparava una lunga attesa, per me.

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***


Giungemmo a destinazione circa alle 4 del pomeriggio seguente. Le montagne erano davvero belle in estate, con quelle cime verdi che terminavano in bianco. Il Trentino Alto Adige era forse uno degli spettacoli più belli che l’Italia aveva da offrire, con quell’aura di purezza mista a sconfinatezza che tanto mi facevano stare bene. Quando arrivammo, pensai che questi amici di mio fratello erano proprio fortunati: abitavano in una villa immersa nel verde, quasi in eremitaggio, dalla quale si potevano vedere le montagne e le nuvole basse che ogni tanto sostavano, creando una nebbia fitta che solo poche volte nella vita avevo avuto occasione di vedere.

Io e Chiara sgranammo gli occhi quando, in auto, varcammo il grande cancello che conduceva alla tenuta. Già da lontano si poteva vedere il lusso che imperava, da una vasca con fontana che zampillava festosamente acqua, posta proprio davanti alla casa. Quest’ultima era un maestoso palazzo di quattro piani, con tante decorazioni alle finestre, in stile montanaro. Più che una casa privata sembrava un albergo.

Fuori, ad aspettarci, un nutrito gruppo di ragazzi, che appena videro la Renault di Ermanno e lui al volante, si misero a fargli le feste e a sorridergli allegri. Qualcuno fece anche finta di farsi mettere sotto, salvo poi scappare via sotto le risate degli altri.

- Che dementi – disse mio fratello ridendo.

- Non sono cambiati neanche di una virgola! – esclamò Chiara, ridendo a sua volta. Io non li conoscevo, per me erano tutti volti nuovi, quindi mi limitai ad un mezzo sorriso. Ermanno parcheggiò accanto ad altre auto (c’erano due SUV ed una Cinquecento, il che mi fece supporre che gli altri ospiti sarebbero dovuti arrivare).

- Oh, ce ne avete messo di tempo, eh! – disse un ragazzo con un maglione a collo alto. – Cominciavamo a stare in pensiero! –

- Flavio… vedi di non rompere va’ che è meglio. – lo canzonò mio fratello ridendo, prima di abbracciarlo con un’amichevole pacca sulla spalla.

- Come state? Non mi presenti? – disse Flavio.

- Ah sì… Questa è Chiara, mia moglie… - Chiara allungò la mano e Flavio gliela strinse amichevole, sorridendole.

- …Mentre lui è il prodigio della mia famiglia. Il mio fratellino. – concluse Ermanno, e Flavio diede una stretta di mano anche a me.

- Ah sì me ne avevi accennato, mi pare – disse Flavio. Il fatto che Ermanno avesse soltanto “accennato” di avere un fratello minore mi mise un po’ in agitazione. Ero veramente così poco importante, per lui? Sorrisi a Flavio, recitando il classico “piacere di conoscerti”, che di lì a poco avrei dovuto dire a tutti gli altri ospiti.

 

- Un brindisi a questa nuova casa ed ai miei genitori che hanno appena finito di pagare il mutuo! – esclamò Flavio, alzando in alto un calice pieno di spumante. Tutti quanti applaudirono, qualcuno disse “Usurpatore di case genitoriali!” ridendo, mentre io me ne restai in disparte a guardare fuori dalla finestra, certo che il mio applauso non sarebbe servito a nulla.

Ermanno era lì, accanto a Chiara, che osservava la stanza dove eravamo, un grande salone addobbato con parecchi quadri, mobili antichi ed illuminato in una maniera piuttosto strana: non c’erano lampadari ai soffitti, bensì dei faretti che gettavano una luce soffusa prima, mentre altre fonti di luce (probabilmente occultate agli angoli delle pareti) davano una sensazione di luminosità che mi fece pensare ad uno studio televisivo.

Tanto sfarzo per nulla, pensai, mentre mi aggiravo per i corridoi della casa, a cui Flavio aveva dato libero accesso a tutti gli ospiti (nel frattempo ne erano arrivato tanti altri che sarebbe stato superfluo fare le presentazioni). Mi chiesi quanti avrebbero potuto dormire in quella specie di reggia, e quante stanze da letto fossero state disponibili. Svoltai per un altro corridoio, dove c’era una stanza piena di trofei e coppe. Mi sarei aspettato di trovare una stanza così nella casa di un uomo anziano, non certo in una casa di un giovanotto dell’età di mio fratello. Sollevai lo sguardo, nel vedere tutte quelle coppe lucide e ben tenute. Probabilmente non appartenevano tutte a Flavio, e questo pensiero fu confermato dalle iscrizioni. Torneo interregionale di tiro con l’arco – 2° classificato diceva una coppa. Poi ce n’erano altre dedicate ad altre specialità sportive e sociali. Oltre a quello, c’erano alcune fotografie. Mi avvicinai per osservarle meglio.

In una era ritratto Flavio, vestito in pompa magna che stringeva la mano ad alcuni uomini in giacca e cravatta. Una fotografia della sua laurea. Poco più in là, c’era sempre Flavio, in una foto di gruppo, e accanto a lui c’erano mio fratello Ermanno e Chiara, oltre ad altre persone che non conoscevo, ma che forse erano state invitate a passare questa settimana nella reggia dove eravamo ora. La figura di questo ragazzo, Flavio, mi era del tutto sconosciuta. Né Ermanno mi aveva mai detto di essere stato alla laurea di questo suo amico, dove io non ero peraltro stato invitato. Un leggerissimo alone di tristezza mi pervase, pensando che mio fratello avesse potuto escludermi; cercai di non darci peso più di tanto, mentre mi avviavo verso il salone principale per non fare la figura dell’asociale.

 

Lì, ritrovai tutti gli invitati che si erano riuniti in gruppetti, Flavio che passava tra di loro da bravo padrone di casa a parlare un po’ con l’uno, un po’ con l’altro, e infine… vidi mio fratello che chiacchierava con un ragazzo.

Sulla ventina, capelli pettinati a spazzola e un fisico asciutto che mi suscitò invidia. Tra tutti gli altri sembrava brillare, non già a causa del suo aspetto fisico molto carino, quanto per i suoi vestiti, che non erano eleganti come quelli degli altri invitati: erano un casual molto particolare, che mi fece pensare che il ragazzo fosse uno studente universitario o addirittura un artista, proprio come me.

- Ah allora come state in quella città, voialtri? C’è davvero tanto smog come si dice?!? – disse il ragazzo a mio fratello. Ermanno gli rispose con una risatina, aggiungendo che no, non era davvero tanto come la gente diceva, ma era molto di più. Quando Ermanno si accorse che ero apparso, si illuminò e agitò la mano, invitandomi ad avvicinarmi.

- Ehi guarda chi c’è. Il mio fratellino. – disse Ermanno, mentre io mi avvicinavo. Il ragazzo mi sorrise. – Simone, questo è mio fratello Donatello. –

Amichevole, il ragazzo mi porse la mano e me la strinse dolcemente. – Ah, molto lieto di conoscerti, Donatello – disse – Tuo fratello qui è un vero mascalzone, mi ha tenuto nascosto di avere un fratello con una faccia così simpatica! – Concluse, ridendo. Ermanno rise con lui, ed io mi limitai ad una risatina imbarazzata. Nessuno mi aveva mai detto che avevo una faccia simpatica. Abbozzai un sorriso, mentre Ermanno mi dava una pacca sulla spalla. Molto in fondo, nei recessi della mia coscienza, sapevo che Simone, con quel complimento, aveva smosso in me dei meccanismi che per codardia non volevo accettare. Continuavo a ripetermi che un complimento non è nulla, che non dovevo farmi troppe illusioni e che dovevo godermi la vacanza. Continuammo la conversazione noi tre, poi si unirono anche Chiara e Flavio, e parlammo di come avremmo trascorso la settimana che ci aspettava.

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 ***


La serata stava trascorrendo bene, avevo contato gli invitati ed ero giunto alla conclusione che eravamo in trentadue, me compreso. Una bella brigata, ma mi rallegrai nell’apprendere che non tutti avrebbero dormito qui. Molti sarebbero andati via in quanto residenti nelle vicinanze (nonostante Flavio avesse insistito affinché restassero), quindi in casa saremmo rimasti una quindicina, forse venti al massimo. Adesso tutti gli invitati erano nel salone a ballare, ed io mi ero trasferito ai piani superiori, dove c’era una grande terrazza, a guardare fuori.

A chi avesse avuto la bella idea di dire che ero un asociale, avrei risposto con l’unica cosa che sentivo di dire: che essendo in un posto così bello, non volevo perdermi per nulla al mondo di vedere la luna così da vicino. Sdraiato su quella sdraio da giardino, io e la luna eravamo in contemplazione, a guardarci l’uno con l’altro. Era stupenda, in quella sua luce diafana.

Pensai e ripensai a tante cose. Ai miei sogni

(allucinazioni)

che ogni tanto facevo su Dandy ed i miei fumetti.

Ai ragazzi che avevo incontrato fino a quel momento, ciascuno diverso dall’altro ma tutti tristemente uniti nel non volermi frequentare… Pensai a Francesco, che solo nel mio appartamento chissà cosa stava facendo e con chi era. Mi sarebbe piaciuto chiamarlo e dirgli che stavo bene su quella terrazza a guardare la luna, che lo pensavo e che gli volevo bene, ma in quel momento ero talmente egoista da non voler dividere con nessuno il mio benessere, per cui rinunciai strenuamente a chiamare il mio buon coinquilino Francesco, con la scusa che a quell’ora era sicuramente in full-immersion con un altro ragazzo preso da una discoteca.

Per la prima volta nella mia vita mi ritrovai non ad invidiare Francesco, ma a domandarmi come facesse a gestire così tanti ragazzi e ad essere sempre così tranquillo. La domanda era: come può un ragazzo che sicuramente ha avuto come amanti praticamente tutta la popolazione gay bolognese dai vent’anni ai trenta, andare in giro tranquillamente nei locali senza pericolo che qualcuno dei suoi amanti attuasse delle rappresaglie contro di lui?

Domanda di difficile risposta, se consideravo il fatto che Francesco non si era mai sbottonato più di tanto con me, e che comunque era sempre così tranquillo e disinvolto che sembrava non avere problemi. Optai per la risposta più semplice, ovvero che lui ed i suoi amanti operavano in base ad un tacito accordo di “do ut des”, dare per avere, in forza del quale ci si vedeva una sera e poi amici come prima, senza alcun coinvolgimento sentimentale. Era un po’ la formula che vigeva in quasi tutto il mondo gay, che io sapessi, e la trovavo abbastanza strana: come si poteva andare a letto con qualcuno e poi non avere la sensibilità dopo di passarci del tempo insieme? Non riuscivo proprio a spiegarmelo. Forse perché per me le relazioni interpersonali erano qualcosa di più profondo, forse perché io stesso ero troppo profondo…

Sì, un mare troppo profondo dove chiunque non avesse saputo nuotare, sarebbe annegato. Ma era forse un difetto essere così?

- Ciao! – mi salutò una voce allegramente. Mi voltai sulla sedia a sdraio, e vidi l’immagine di Simone illuminata dalla luna.

- Ciao – risposi, tranquillamente, cercando di nascondere un po’ di emozione – Cosa ci fai qui? –

- Avevo bisogno di un po’ d’aria. – rispose, sorridendo e sdraiandosi sulla sdraio accanto alla mia. La sua visita fu una cosa parecchio inaspettata per me, ma cercai di mantenere la calma. – Tu invece, cosa ci fai qui? – mi domandò.

- Volevo… volevo solo vedere la luna. – risposi, senza pensarci due volte – Non è magnifica? –

- Sì, molto. – rispose lui, tirando fuori un pacchetto di sigarette. Ne prese fuori una e se l’accese, dando un tiro. – Lo sai, anche a me piace guardare la luna. –

- Davvero? –

- Sì. – disse lui, cacciando fuori il fumo e sorridendomi.

- Beh… effettivamente è bella, e poi da qui… si vede molto vicina. – risposi io lì per lì. Con le dita stavo torturando la plastica della sdraio.

- Già. – fece lui, continuando a fumare. – Toglimi una curiosità. Tu studi a Bologna, vero? –

- Sì. Come lo sai? –

- Me l’ha detto tuo fratello. – rispose, con un altro sorriso. Simone sembrava un ragazzo sempre allegro e solare, e la dimostrazione erano quei sorrisi che largiva forse a chiunque gli rivolgesse la parola. Mi domandai se un ragazzo così fosse fidanzato oppure no. – Dice che sai disegnare benissimo, che sei quasi un artista. – continuò Simone – è vero? –

Io annuii. – Sì, è vero. Disegno per passione. – dissi, con un po’ di autocompiacimento.

- Che forte. Mi piacerebbe vedere qualcosa dei tuoi disegni, sai? – disse lui, certo di un qualcosa che gli avrei sicuramente fatto vedere i miei disegni.

Per contro, io mi trovai un po’ spiazzato. Non avevo portato nessuno strumento da disegno con me, e chiedere carta ed una matita in una situazione come quella mi sembrava piuttosto inopportuno.

- Beh… piacerebbe anche a me, ma vedi… non ho portato nulla per disegnare qui. –

- Oh, per quello non c’è problema! – esclamò lui – Seguimi. – mi impose, e quasi mi prese per mano intimandomi di seguirlo.

In sottofondo, la musica continuava.

 

Mi condusse nella stanza che Flavio gli aveva assegnato. Lì c’era un letto matrimoniale (mi domandai quanto erano ricchi i genitori di Flavio per permettersi così tante camere da letto?!?), una scrivania ed una poltrona, dove c’erano tutti i bagagli di Simone.

- Ti hanno assegnato questa stanza, quindi. –

- Sì. – rispose lui – Siamo quasi vicini, a quanto pare. Di fronte ho la stanza di tuo fratello e Chiara. – disse. Io non sapevo nemmeno dov’ero stato piazzato io, ma sapevo sicuramente che il mio borsone era lì tra i bagagli di Ermanno. Mancava solo la stanza.

- Allora – disse, prendendo uno zaino da cui tirò fuori alcuni testi universitari ed un quaderno a spirale – Questo è il mio quaderno. – me lo porse, sorridendomi. Poi prese un astuccio a forma di scarpa e mi porse anche quello. – E qui c’è il materiale per disegnare. – concluse, con un sorriso a trentadue denti.

- Ah – mormorai io, sorpreso. Nessun ragazzo prima d’ora si era interessato che io disegnassi o meno. A qualcuno in chat avevo mostrato i miei disegni, e non avevo ottenuto nulla di più che un “sei bravo” senza alcun sentimento, ma detto solo per farmi piacere. – Cosa vorresti che ti disegnassi? – domandai.

Lui si allontanò un po’, e poi allargò le braccia, mostrandomi il suo corpo magro ed il suo fisico definito. I suoi capelli ricci si mossero. 

- Sono un ragazzo molto ambizioso, io. Vorrei che tu provassi a disegnare me. –

A quella richiesta, sgranai gli occhi sorpreso. Non ero per niente abituato a fare ritratti alle persone, anche perché il mio stile di disegno era più sul manga, quindi non ci sarebbe stato alcun collegamento tra il ritratto canonico e la realtà. Al massimo poteva sembrare una caricatura. Tuttavia, cercai di non perdermi d’animo. Se Simone voleva essere ritratto da me per qualche motivo, decisi che avrebbe avuto il suo autoritratto.

- D’accordo – dissi – Ma devi promettermi di non metterti a ridere quando lo vedrai, okay? –

- Affare fatto, Maestro. – Disse lui, e mi strizzò l’occhio. Voltandomi, quando non mi vide, io arrossii.

Mi misi al lavoro, mentre lui era seduto sul bordo del letto. Ogni tanto gli lanciavo delle occhiate guardandolo nello specchio dell’armadio. Era veramente molto carino, con quell’aspetto giovanile e quel corpo tonico e quel viso dai tratti efebici. Accavallò le gambe, e notai che ai piedi portava un paio di scarpe colorate, ed alla caviglia una specie di cavigliera arcobaleno. Ho capito tutto, pensai io. Anche tu sei gay come me. Un mezzo sorriso si formò sulla mia faccia.

Lui se ne accorse. - Perché ridi? – mi domandò, sorridendo.

- Niente. Una cosa buffa che mi era successa… non molto importante. – tagliai corto, continuando a disegnare. Stava venendo davvero molto bene, peccato che una volta finito il disegno sarebbe diventato suo, ed io non potevo riprodurne un altro. Come primo tentativo di ritrarre una persona, avrei potuto dire che me la stavo cavando davvero niente male. Lui se ne stava lì tranquillo a guardare il soffitto, con quegli occhi chiari e dolci, dondolando la gamba accavallata con fare annoiato.

- Ho quasi finito – lo rassicurai. Lui sembrò aver capito perché avevo detto ciò e arrossì.

Dopo qualche minuto, il lavoro era terminato. Glielo consegnai, con tutto il blocco a spirale.

Osservai attentamente la sua espressione che osservava il disegno di sé stesso seduto su un letto immaginario, con un sorriso dolce stampato in volto e un paio d’occhi in stile manga. Forse i capelli non erano venuti molto bene, perché non ero abituato alle acconciature ricce, ma a lui piacque lo stesso.

- E’… è…. Straordinario, Donatello. – disse lui, a bocca aperta. – Sei … sei veramente bravissimo. –

Io feci una risatina imbarazzata. – Grazie. Sono contento che ti piaccia. –

Ma che cos’era quella cosa che sentivo dentro di me? Era come se il mio corpo si stesse alleggerendo lentamente di tutti i chili di troppo che avevo acquistato durante la mia vita, come se nuvoloni neri all’orizzonte stessero minacciando un misterioso temporale mentre io mi trovavo assettato nel deserto, come una nave in lontananza se io mi fossi trovato naufrago su un’isola deserta. Sollievo, speranza.

Paura.

- D… devo andare, ora. – dissi, allontanandomi verso la porta.

- Andare? E dove? – domandò Simone, con ancora il suo quaderno in mano.

- Credo… credo di aver bisogno di un po’ d’aria. Mi perdoni? –

- Oh. Certo. – rispose lui, visibilmente deluso dalla mia decisione improvvisa.

- Grazie. Scu… scusami. –

 

Un’oretta e mezza dopo ero andato ad ubriacarmi al buffet che era stato imbastito. Bevvi qualcosa come una ventina di bicchieri di Martini dry, avvertendo quel sapore acre prima sulla lingua e poi che mi bruciava nello stomaco, minacciandomi di sfondarmi lo stomaco se non fossi corso immediatamente a rigettare tutto quanto. La testa mi girava, mi girava come una trottola impazzita. Barcollavo anch’io allo stesso modo, per fortuna che metà degli invitati se n’era già andata, dandomi modo di sgattaiolare in un posto al sicuro, lontano da sguardi indiscreti e soprattutto da mio fratello.

Già poco prima mi aveva beccato a bere un martini, e mi aveva guardato male, ma non aveva aggiunto altro. Io mi ero girato per la vergogna, ma poi mi ero scolato più del doppio di quel bicchiere.

 

Poco dopo ero in bagno. La mia vista offuscata mi permise di vedere che il bagno era anch’esso molto raffinato e grande, pulito fino alla perfezione. Guardai il casino che avevo combinato rigettando, e mi accorsi che non c’erano poi più che tante macchie. Ero a stomaco vuoto, per cui avevo rigettato soltanto alcool.

Mi sciacquai la faccia più e più volte sotto il getto del rubinetto, cercando di farmi passare quella sbornia che mi ero preso dopo essere scappato da Simone…

- Se io … fossi veramente bello… non avrei bisogno di ubriacarmi… - dissi, guardando la mia immagine riflessa nello specchio. C’era un bel ragazzo che mi guardava, dai capelli scuri e gli occhi dello stesso colore. Visto da quella prospettiva non sembrava nemmeno così grasso… Gli sorrisi.

Scossi la testa.

- Ma tanto, cosa cambierebbe? – biascicai. – I belli non se la passano meglio. –

- Perché non sei felice…? –

Una voce dietro di me. Era Simone.

- Va’ via. – gli ordinai – Non sono un bello spettacolo, in questo momento. –

- Per me invece lo sei. – disse lui, per quel poco che riuscii a capire. Nella mia ubriachezza, mi parve quasi di vivere in un sogno.

Mi sentii toccare le spalle. Simone pose le sue mani sulle mie spalle, guardandomi dolcemente negli occhi.

Io sbattei più volte le palpebre, cercando di limitare quella visione distorta che l’alcool mi aveva provocato, come una telecamera che non riesce ad inquadrare un punto fisso ma si sposta impercettibilmente da una parte o dall’altra. La mia testa che girava forte.

Lui con la sua mano mi carezzò una guancia, e fu l’unica cosa che riuscii a percepire con i miei sensi offuscati dall’ebbrezza. Fu talmente tanto forte che mi sentii mancare.

- No… - mormorò lui, sorreggendomi. Una bella forza, per sorreggere un vitellone come me. Cercai di mantenermi in piedi, finché lui disse – Vieni con me. Ti accompagno dove tu possa sederti. –

 

Il tragitto fu breve, o così mi sembrò. Doveva essere molto amico di Flavio se poteva girare liberamente per la sua casa. Finito il tragitto, entrammo in una stanza.

La sua.

- Eccoci. – disse, sorridendo. – Siamo arrivati. –

- Ma… ma questa è camera tua… - dissi, confusamente, mentre lui mi adagiava sul letto ed io mollemente mi ci stendevo sopra. – Perché mi hai portato qui? –

- Niente – rispose lui – Voglio solo vedere che effetto fa approfittare di un disegnatore. – concluse, ridacchiando. Poi si chinò su di me ad osservarmi. Io mi misi a ridere.

- Cosa c’è da ridere? – disse lui con un sorriso.

- …è… è troppo buffo. Sai che in questo preciso momento mi sembra di essere in uno dei miei fumetti? Dove c’è uno bello ed uno brutto… ed il bello corteggia il brutto? – Risi di nuovo, questa volta più compostamente.

- E chi ti dice che io ti stia corteggiando? – domandò Simone, carezzandomi dolcemente i capelli. A quella domanda, io mi sentii preso in contropiede e non risposi subito.

- I… io… non … non lo so? Non… non si fa … così, di solito? – balbettai, sempre più confuso dall’alcool.

Simone si avvicinò con lo sguardo e socchiuse gli occhi. – Non lo so…. Perché non giudichi tu…? – domandò sottovoce, poi sentii le sue labbra unirsi alle mie. Fu un bacio caldo, bagnato, passionale. Simone continuò a baciarmi e mi montò sopra, con una passione che mai avevo provato.

Restammo lì a baciarci per un bel po’ di tempo, che a me parve quasi infinito… Ero sicuro che accettando questo viaggio insieme a mio fratello mi sarei distratto, ma non pensavo fino a questo punto.

- Tu stanotte dormi con me. – disse Simone, in un momento di pausa in cui mi carezzò ancora una volta i capelli. Adesso potevo sentire meglio il suo dolce profumo, un’essenza maschile ma dolce al tempo stesso, che mi inebriò come una calda carezza. – Questo è un ordine. – Concluse, strizzandomi l’occhio.

Cos’avrebbe potuto fare un ubriacone come me a quel punto?

Accettai.

Tanto domattina mi sveglierò e non sarà successo nulla, mi dissi, prima di cadere in un sonno profondo tra le braccia di Simone.

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Capitolo 16
*** Capitolo 15 ***


Il mattino dopo fui svegliato dal trambusto del viavai di persone che erano nella casa. Mi sentivo la testa che ancora mi girava, ed un mal di testa martellante che, ne ero sicuro, non sarebbe andato via tanto facilmente. Guardai a sinistra. Accanto a me c’era ancora Simone, vestito solo degli slip, che mi circondava il grasso ventre con il suo braccio magro. Gentilmente glielo scostai, e lo osservai dormire. Con quei capelli ricci sembrava veramente un angioletto, un cherubino venuto dal paradiso. Mi fece molta tenerezza. Ancora preso dai postumi della sbronza, gli posai un bacio sulla tempia, e feci il più piano possibile per non svegliarlo. Lentamente raccolsi i miei vestiti (non ricordavo di essermi spogliato. Forse ci aveva pensato Simone) e li indossai, sbuffando ancora una volta perché il bottone dei pantaloni sembrava non allacciarsi. Infine uscii dalla stanza, ed uscii in corridoio senza sapere bene dov’ero diretto.

Non feci neanche tre passi, che subito fui chiamato.

- Ah! Dov’eri finito, Donatello? –

Era Chiara, che mi aveva notato e mi correva incontro. Mi sorrise ed io feci altrettanto, cercando di dissimulare il mio cerchio alla testa.

- Mi sono appena svegliato – dichiarai – Dove sono tutti? –

Lei mi sorrise ancora – Sono giù a fare colazione. Ermanno mi ha mandato a chiamarti, sa che sei un dormiglione, ma devo dire che questa volta si è sbagliato. –  concluse, avviandosi verso le scale.

- Grazie, Chiara. Oh… Chiara…? – la chiamai.

Lei si voltò, guardandomi preoccupata.

- Sì? –

- Non avresti per caso una pastiglia per il mal di testa? Credo di aver bevuto un po’ troppo, ieri sera… -

Lei ci pensò su, poi annuì ed entrò nella stanza che divideva insieme ad Ermanno. Da lì ne uscii con un blister di due pastiglie.

- Prendile entrambe con un poco d’acqua. – e mi sorrise, prima di voltarsi ed avviarsi per le scale.

- Grazie – mormorai io, mettendomi in tasca i medicinali.

 

Per tutta la durata della colazione, mio fratello mi squadrò severo. D’accordo, non ero stato molto saggio a scolarmi tutti quei drink, ma avevo bisogno di scuotermi un po’. Soltanto adesso mi rendevo conto che non era servito a nulla, che Simone era comunque riuscito a venire a letto con me ed in più avevo mio fratello incazzato nei miei riguardi. Perché faccio sempre le cose sbagliate?

Fu un pensiero a risollevarmi, mentre ero in bagno a sciacquarmi le mani. Tutto quell’alcool mi aveva tolto un bel po’ della mia sensibilità al piacere ed al sentimento, tanto che pensavo che se Simone mi avrebbe girato al largo per i giorni a venire, non me ne sarebbe importato niente. Mentre ridacchiavo e mi ficcavo in bocca le pastiglie, progettai di ubriacarmi un po’ prima di un altro appuntamento capestro, per il futuro. Risi ancora, mentre mandavo giù un bicchiere d’acqua. Era troppo divertente il pensiero di andare agli appuntamenti in preda ai fumi dell’alcool. Eppure, se ciò serviva per non soffrire…

Ehi, ma possibile che ogni appuntamento dovesse essere come una pillola amara, per me? Andavo lì, incontravo, succedeva qualcosa, non succedeva niente, e alla fine mi ritrovavo sempre vuoto. Quindi, se i miei appuntamenti somigliavano più ad una sgradita visita dal dentista, che cosa potevo fare? O non ci andavo, oppure… mi anestetizzavo in qualche modo.

- Ehi, sembra che questo sia il posto più indicato dove incontrarci! – mi voltai. Era Simone, che era entrato in bagno. Era vestito con una maglietta a maniche corte verde, ed un paio di jeans strappati. Ai piedi portava delle scarpe da trekking, che stonavano con l’abbigliamento casual.

- Ehi. Che ci fai qui? – domandai. Lui si avvicinò al lavabo e si sciacquò la faccia, frizionando le mani sul viso leggermente, tanto che i suoi capelli ricci si mossero in una nuvola chiara.

- Che domanda – rispose lui – Mi preparo per andare alla passeggiata. Tu che fai, non vieni? –

- Certo che vengo. –

Lui sorrise. Sembrava contento. – Bene. Allora facciamola insieme. – disse, e lentamente portò le sue braccia sulle mie spalle, guardandomi negli occhi. Mi sorrise.

- Perché sorridi sempre, quando mi guardi? – domandai io, facendo un mezzo sorriso a mia volta, e incominciando a cingere i suoi fianchi con le mie braccia.

- Perché mi fai tanta tenerezza. – rispose lui, e mi schioccò un bacio sulle labbra.

Io arrossii, ma mi preparai a dargliene un altro, più passionale. Le sue dita mi bloccarono nel mio intento.

- Eh no. Adesso dobbiamo andare – disse, strizzandomi l’occhio.

- Hmm – mugugnai io, visibilmente scocciato. – E va bene. – Lo sciolsi dall’abbraccio e lui fece altrettanto, avviandosi verso la porta. Era rischioso scambiarsi effusioni così, anche perché mio fratello non sapeva nulla di me. Chissà cos’avrebbe detto se l’avesse scoperto.

Preferii non pensarci, e godermi la camminata che mi aspettava.

 

A quell’altitudine, l’aria era frizzante anche in quel mese. Flavio si era raccomandato con tutti di portarsi un giubbotto leggero, perché poteva capitare che la temperatura fosse più bassa rispetto alla media stagionale. Difatti, a causa dell’ubriachezza non me n’ero accorto, ma avevo dormito sotto una trapunta di quelle che si usano ad inizio autunno, senza soffrire il caldo. Pensai ancora una volta a Francesco e mi feci una risata, immaginando come stesse boccheggiando, preda del caldo torrido bolognese. Prevedevo che avrebbe passato i pomeriggi in biblioteca a studiare, o in altri luoghi dove c’era l’aria condizionata che io non avevo mai fatto installare in casa mia, un po’ perché costava troppo e un po’ perché non volevo che i miei ospiti si affezionassero troppo alla casa. Non dimentichiamoci che ero il padrone di casa, ed avere inquilini per lunghissimo tempo non mi piaceva. Faceva eccezione Francesco, che nonostante l’invidia che provavo per lui, si era dimostrato una persona dolce e alla mano, qualità rare da trovare. Soltanto lui era riuscito a diventare mio amico e a rimanere nel mio appartamento per più di un anno, nonostante non fosse mai puntuale nel pagarmi le mensilità.

- Cosa ti è venuto in mente di bere così tanto…? E davanti a tutti poi? Me lo spieghi? – sottovoce, mio fratello Ermanno aveva iniziato il suo interrogatorio. Bloccata da un po’ di paura delle vipere, Chiara non era venuta con noi, preferendo restare in casa con alcuni altri che si sarebbero poi messi a giocare a carte o a guardare dei film.

- Così. Avevo bisogno di rilassarmi. –

- Beh, non bere troppo. Sai che fa male. – mi disse Ermanno, severo.

- Ok… - dissi io, distrattamente. Stavo osservando Simone, che, più in là rispetto a me ed Ermanno, si era unito ad un gruppetto di ragazze e camminava parlando con loro. Era bellissimo, accidenti… E pensare che ci eravamo baciati ed avevamo passato la notte insieme. Adesso invece faceva finta di niente, com’era naturale, ma io sentivo che ogni tanto si voltava per guardarmi. Ad un certo punto, mio fratello si allontanò, per raggiungere Flavio ed una ragazza, che erano alla testa del corteo. Io raccolsi un bastone dal sentiero e lo usai come scaccia-vipere, battendolo sul terreno più volte mentre mi muovevo.

Il gruppo era un po’ troppo chiacchierone, quindi mi tenni un po’ lontano per ascoltare i rumori della natura. Quando mi fui allontanato abbastanza, potei sentire il canto degli uccellini che cinguettavano allegramente, o qualche rara cicala che friniva e poi smetteva. La cosa più dolce che vidi fu uno scoiattolo, che si arrampicava su un albero e poi prendeva una ghianda per rosicchiarla. Sorrisi a quella vista.

Poco più in là, ai piedi di un albero, faceva capolino una bella famigliola di funghi. Erano dei veri porcini, grassi e succulenti. Ebbi la voglia di raccoglierli, ma erano così belli così com’erano, che mi accontentai di scattare loro una fotografia col mio cellulare.

Ne trovai altri, alcuni anche velenosi, stando alle mie poche nozioni di scienze naturali imparate alle superiori: Erano quei funghi tipo le case dei puffi, ovvero rossi e maculati di bianco. Ricordai il loro nome scientifico, amanita muscaria. Anche questi finirono nell’album di fotografie del mio cellulare.

Com’era bella la natura incontaminata. Per un momento dimenticai di essere solo, tutti i miei problemi e desideri, per entrare in contatto con i profumi ed i suoni che soltanto in un bosco si potevano trovare.

Da bambino ero solito andare insieme a mio padre a raccogliere i funghi sui colli bolognesi. Mi piaceva quella pace che regnava sovrana in quegli spazi verdi, capace di farti dimenticare tutto… Allora ero solo un bambino che sapeva disegnare bene, pieno di fantasia e gioia di vivere, e spesso i miei disegni vedevano quei boschi popolati di creature incantate: fate, elfi, farfalle dai colori cangianti. Ora che ero cresciuto ed avevo visto “Il signore degli Anelli” al cinema, desideravo incontrare un elfo e toccargli le orecchie a punta.

Ma quale elfo? Adesso concentrati su Simone, non stare sempre a pensare al mondo dei sogni, stupido!

Mi rimproverai. Ulteriore richiamo alla realtà, fu un rumore di passi molto lieve in lontananza. Strizzai i miei occhi miopi (erano anni che dovevo mettere gli occhiali, e ne avevo anche comprati un paio, che tuttavia usavo soltanto quando frequentavo le lezioni all’università. In poche parole quasi mai) per vedere chi si stesse avvicinando.

C’erano mio fratello Ermanno ed una ragazza. Non parlavano, si guardavano intorno con circospezione, quasi come due ladri in procinto di svaligiare una banca. Non avrei mai ringraziato abbastanza il mio intuito in futuro, che mi fece nascondere dietro un albero bello grosso, in modo da osservare indisturbato i loro movimenti.

- Siamo soli? – domandò la ragazza di cui non conoscevo il nome.

- Sì – rispose mio fratello, cominciando a toccarla. Lei si ritrasse un po’, spaventata.

- Cos’hai? …Rilassati. Non ci vede nessuno. Il gruppo è andato avanti, fra poco li raggiungeremo. –

- Non.. non sono tranquilla. E se noteranno la nostra mancanza? – era una bella ragazza bionda, di corporatura perfetta e proporzionata, che indossava una maglietta ed un paio di jeans. Una ragazza davvero carina, del tipo che piacevano a mio fratello.

- Nessuno si accorgerà che manchiamo. Flavio sarà troppo impegnato a passeggiare, e comunque già alcuni del gruppo si sono dispersi. –

- Sì ma… -

Senza lasciarle concludere la frase, mio fratello la prese e la baciò con passione, tanto che lei si avvinghiò a lui allo stesso modo. In pochi secondi il bacio degenerò in un bacio dato con foga, nella tipica concitazione che si ha quando si fa una cosa non troppo legale.

Oh mio dio, pensai, allora Ermanno non ha perso il vizio… mi misi una mano nei capelli, continuando a guardare la scena.

Loro continuarono a baciarsi, ignorando che ci fossi io a guardarli, silenzioso testimone di un tradimento…

- Abbiamo poco tempo, Marika – mio fratello pronunciò il nome della sua amante. Marika. Lei annuì, e baciandogli il collo scese lentamente fino al suo ventre, baciandoglielo allo stesso modo. Con le mani armeggiò un po’ con la patta dei pantaloni di Ermanno, per sentire se era pronto al “punto giusto”. Mio fratello si appoggiò ad un albero lì vicino, e lasciò Marika fare tutto quanto. Da quel punto in poi, io non ebbi più il coraggio di guardare, e mi acquattai silenziosamente, spingendo forte la schiena su quel tronco, quasi desiderando di voler scomparire e non aver mai voluto vedere ciò che avevo visto.

Mi salì un groppo in gola, al pensiero che mio fratello tradisse sua moglie, ma dovetti trattenere l’impulso di piangere. Vedere un familiare che tradisce una persona a cui dovrebbe essere fedele, non è cosa che si veda tutti i giorni… Aspettai lì con il cuore in gola che i due amanti avessero finito, quindi li sentii muoversi con più calma finché quando buttai nuovamente uno sguardo erano scomparsi.

Decisi che me ne sarei stato in disparte ancora per un po’, per assorbire i fotogrammi del tradimento di mio fratello… La natura mi avrebbe aiutato, o almeno così speravo.

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Capitolo 17
*** Capitolo 16 ***


Nei giorni a venire cercai di dimenticare quanto avevo visto nel bosco, anche se con mio fratello sempre lì intorno, era veramente arduo. Gli sfuggivo in tutte le maniere. A pranzo cercavo di mettermi il più lontano possibile da lui (in questo fui aiutato da Simone, con cui parlavo spesso e volentieri), nel pomeriggio andavo a chiudermi in camera a disegnare un po’, e la sera andavo in giro qua e là senza farmi vedere né da lui né da Chiara, che durante tutta la vacanza sorrideva ed era felice, motivo in più per me per starmene alla larga. Non volevo che mi vedesse in quello stato, ma soprattutto non volevo che sapesse ciò che io sapevo.

Penso che Ermanno sospettasse qualcosa, ma il più delle volte non lo vedevo; combinazione, anche Marika spariva in alcuni momenti, ed io sospettavo ciò che non volevo dire nemmeno sottovoce. Chiara, che soltanto alcuni anni prima era stata lungimirante e severa, sembrava non sospettare nulla.

Prendere i giorni come sarebbero venuti, era diventato il mio imperativo. Finché non sarebbe venuto il momento di tornarsene a Bologna…

 

- Come mai mi lasci sempre da solo? –

Simone mi aveva beccato mentre me ne stavo tranquillo e beato a guardare il cielo, sulla solita terrazza. Lo squadrai da capo a piedi, sembrava sinceramente triste. Non sapendo cosa dire, mi guardai intorno più volte, come cercando la risposta negli arredi da giardino che mi circondavano. Non trovandola, il mio sguardo si posò nuovamente su di lui.

- Eh? – biascicai io, sgranando gli occhi.

Senza che io l’avessi invitato, lui si sedette accanto a me. Il suo profumo era inebriante, ma l’espressione del suo viso non mi piaceva. Non mi piaceva vederlo triste, anche se stavo facendo di tutto per tenermi lontano da lui… per non affezionarmi troppo.

Lui mi avvolse con un braccio, accoccolandosi a me. Io mi irrigidii, un brivido di freddo mi percorse la schiena.

- Cos’hai? – sussurrò lui, dolcemente.

- Non … non vorrei che ci vedessero. – risposi io, mormorando. Lui fece una risatina, in risposta. Sembrava sinceramente felice di quel poco di contatto, tanto che la sua espressione non era più triste, ma era ritornata quella di sempre, un ritratto di felicità e spensieratezza. Il pensiero che fossi stato io a fargli tornare il sorriso, fu una carezza per il mio ego.

- Tranquillo. Sono tutti di sotto, a giocare a carte, a guardare film… - rispose – e poi c’è una persona qui che sa di me. – concluse lui, facendomi l’occhiolino.

- Ah – risposi io, senza troppo interesse – E chi sarebbe questa persona? –

- Non la conosci, è inutile che ti dica il suo nome. – disse lui.

- Ah no…? – la mia mano si mosse a carezzargli le cosce toniche sotto gli shorts che portava. Credevo che quel genere di abbigliamento fosse tipicamente femminile, ma dovevo ammettere che Simone ci stava veramente bene. Lui fece le fusa come un gatto, avvinghiandosi ancora di più a me. – Dimmi chi è … - mormorai, e tirando fuori tutta l’anima da latin lover che c’era in me, gli baciai il collo. Profumava di buono, ed era lì solo per me. Lui non rispose, godendosi quella tortura… gli massaggiai ancora i glutei, mentre lui mi baciava sulla guancia. Ora le mie mani erano prossime ad entrargli nei pantaloni. Sentivo con le dita l’elastico degli slip, che sembrarono aprirsi al mio contatto…

- Me lo vuoi dire…? – ripetei io. Lui scosse la testa, mugolando di piacere. Sentii i suoi talloni premermi contro la schiena. Si stava aggrappando a me e con il suo sederino stava strofinando contro la mia patta, dove il mio sesso già turgido, stretto nei jeans, mi stava facendo male.

- No. – rispose lui, secco. – Voglio che tu mi prenda, prima. – concluse, baciandomi le orecchie e succhiandomi leggermente i lobi.

Improvvisamente, aprii gli occhi.

- No. – dissi io – Non possiamo farlo. Non qui. –

Simone sbuffò, allentando leggermente la presa su di me e scendendo dal mio grembo. Proprio come un gatto, che non avendo ottenuto ciò che voleva, se ne va sdegnoso.

- Cerca di capire – lo esortai io – Qualcuno potrebbe vederci. –

- Sei solo un codardo. Uno stupido codardo. Non voglio più vederti. – rispose, continuando a darmi la schiena, quindi se ne andò prendendo la porta della veranda. Io cercai di fermarlo, ma riuscii a pronunciare soltanto il suo nome.

- Simon… - e la porta della veranda si chiuse con uno schiocco secco.

Mi portai la mano destra dietro la nuca, e pensai Forse ho fatto una cazzata. Se da una parte ero tranquillo perché avevo scongiurato una possibile condanna per atti osceni in domicilio non di proprietà (come si vedeva che frequentavo giurisprudenza), dall’altra ero un po’ triste che Simone se ne fosse andato in quel modo, dandomi addirittura del codardo.

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Capitolo 18
*** Capitolo 17 ***


Mi risvegliai nella mia stanza, nel mio appartamento a Bologna. Sentii Francesco che amoreggiava con qualcuno, e poi che m’invitava ad entrare in camera sua. Lì c’erano lui ed un altro ragazzo, che forse avevo già visto, ma di cui mi sfuggiva il nome.

Ce lo facciamo, eh, Donatello? Lo so che ti piace, che vorresti essere al mio posto… e allora dai, facciamocelo. Tira fuori il tuo mostriciattolo amico che lui vuole assaggiartelo gli piaci tanto tanto da morire ah ah ah ah ah!

Controvoglia, mi unii al terzetto, io e Francesco in ginocchio, di fronte al ragazzino che già stava prendendo in mano i nostri falli. Io e Francesco che ci guardavamo negli occhi, Francesco che mi faceva l’occhiolino e poi iniziava a godere…

Poi tutto spariva, ed il ragazzo disteso diventava Simone che mi implorava di baciarlo e fare l’amore con lui.

Mi piaci così, rotondo e morbido come un bel cuscinone da abbracciare mi sento tanto solo i ragazzi mi usano ma con te mi sento sicuro mi sento sicuro mi sento amato mi sento desiderato.

Parole confuse, che alle mie orecchie assunsero quel senso, ma che non riuscivo a comprendere fino in fondo. Fammi l’amore, cazzo non riesci a capire che ti amo brutto coglione testa di cazzo imbecille stupido deficiente che cosa ne capisci tu dei ragazzi sei solo una palla di lardo schifosa …

Anche Simone se n’era andato, ed io ero rimasto solo in balia di tanti esseri incappucciati che parlavano all’unisono, dicendomi che ero brutto, grasso, ripugnante. Non potevo continuare così, non potevo, desideravo soltanto morire.

 

- Aaah! – urlai nel sonno, provocandomi un risveglio istantaneo.

Non ero a Bologna, in camera mia, bensì a molti chilometri più a Nord. Ero ancora lì in Trentino, nella casa di Flavio. Mi rigirai nel letto, ero madido di sudore e con il cuore in preda ad una tachicardia spaventosa. Guardai il display del mio cellulare, che segnava le tre e mezza del mattino e… che in alto a destra aveva una bustina gialla. Un messaggio.

Simone.

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L’aveva mandato proprio un minuto prima. Forse era stato quello a svegliarmi, in concomitanza con la fine del mio incubo. Qualunque cosa avesse voluto Simone, avrei dovuto ringraziarlo più e più volte per avermi svegliato.

 

- Scusami per essermi comportato così, oggi pomeriggio… - mormorò Simone, seduto su una sponda del letto. Io mi ero accomodato su una poltrona lì accanto, e lo osservavo allo stesso modo in cui Fiorella osservava me durante le nostre sedute.

- Non fa niente – risposi io, assumendo il tono più imparziale che potei – Cose che capitano. – Non era per niente vero. Mai nessun ragazzo si era comportato così con me, prima d’ora. In genere evitavano anche di toccarmi, e comunque i miei rapporti erano sempre molto superficiali. Trattenni per me il fatto che provavo un po’ di piacere nel fatto che Simone si fosse stizzito nei miei confronti.

- Il fatto è che io… quando provo qualcosa per qualcuno… divento così. – sorrise, timidamente. – Scusami… scusami ancora. – mormorò, la voce rotta dall’emozione.

- Non riuscivo a dormire. Avevo questo peso sulla coscienza, di averti trattato male. Ho anche fatto un incubo. – dichiarò. Io annuii. Feci anche per aggiungere che avevo avuto un incubo anch’io, ma mi trattenni, per lasciargli tutto lo spazio che voleva per parlare.

- C’ero io … e c’eri tu. Eravamo in una stazione ferroviaria, entrambi. Lontani l’uno dall’altro… - incominciò. Io aguzzai l’udito per non perdermi nemmeno una parola di ciò che stava dicendo.

- …Eravamo lontani. Ed io ti cercavo. Eppure tu eri lì, non eri invisibile. Ti cercavo.. ti cercavo… ma tu continuavi ad allontanarti. – Fece una pausa, sospirando - ..Ad un certo punto, la stazione si riempiva di gente… tanta gente, un mare di persone, una folla che sembrava quasi di essere in un concerto... E tu scomparivi dalla mia vista. – I suoi occhi chiari guardavano un punto indefinito nel vuoto. Io lo ascoltai, sempre più rapito dalla narrazione… E sempre più preso da quel ragazzo incontrato per caso, durante quella gita estemporanea con mio fratello.

- E quando tu sparivi dalla mia vista, io mi accorgevo di essere sui binari. Ed il capotreno fischiava la partenza di un altro convoglio. – A quel punto chiuse gli occhi. Una lacrimuccia sgorgò fuori dall’angolo del suo occhio sinistro, che subito si coprì con la mano, per non dare a vedere ciò che stava facendo.

- Simone – dissi io, avvicinandomi – è stato solo un brutto sogno. Io sono qui, come vedi. –

- Paura di perderti. La paura si manifesta in questi sogni, che sono un po’ inquietanti. – dichiarò, accoccolandosi a me. Non feci resistenza, lo presi a me e lo cullai come se fosse stato un bambino, benché sapevo che eravamo quasi coetanei, anzi forse lui era più grande rispetto a me di qualche mese. Gli baciai la fronte, ed i suoi riccioli dorati mi fecero il solletico sotto il naso.

Ma perché mi sento così intenerito da questo ragazzo che nemmeno conosco? E cos’è questa commistione di sentimenti, paura e amore insieme? Perché quando non lo vedo non penso a lui con serenità, come farebbe un vero innamorato? Ho tanta paura, ma faccio bene ad averne? In fondo che cosa voglio io…? Che cosa vuole lui da me…? Pensieri mi si accavallarono nella mente, in quel lunghissimo spazio di silenzio che si creò tra noi, mentre io lo cullavo e lui docilmente rimetteva la sua testa sulla mia spalla, quasi in procinto di addormentarsi nuovamente. Quanti ragazzi si erano comportati così con me? Quanti mi avevano mostrato veramente il loro lato dolce, quello che soltanto poche persone potevano vedere…? Ben pochi, anzi quasi nessuno. E adesso che avevo un ragazzo così, mi permettevo ancora di avere dei dubbi. Perché?

La terra straniera. La convinzione che forse dopo questa vacanza non vi vedrete più, o che comunque vi vedrete ma sporadicamente, mentre tu Donatello vuoi un rapporto continuativo. Non asfissiante, ma continuativo. Simone ti piace? Diglielo apertamente, e prendete una decisione. Non puoi mai sapere, magari lui è più confuso di te in questo momento…

Ad interrompere la mia catena di pensieri, fu Simone.

- Mi credono etero. – mormorò lui ad un certo punto.

- Cosa? – domandai io.

- Mi credono eterosessuale – ripeté lui, un po’ più forte. Io continuai a stringerlo fra le mie braccia, mentre lui teneva le mani in grembo, come un bimbo spaventato che confessa qualcosa di brutto ad un genitore.

Non dissi nulla a quella confessione. Nulla che potesse sembrare un giudizio, ma soltanto un’esortazione a parlare.

- Vai avanti – lo incitai.

- …All’università vado sempre in giro con una ragazza. Una diversa ogni giorno. Ogni tanto ne bacio qualcuna, ma … mi fa schifo. E poi non riesco mai ad andare oltre. Perché io non sono così. Io sono gay, mi piacciono i ragazzi, non le ragazze… - Fu l’inizio di un’esondazione.

- Mi piacciono i ragazzi, ma non quelli carini. Quelli un po’ in carne, come te… - disse, toccandomi il ventre generoso – sono molto … - si schiarì la voce, si morse le labbra; forse per paura di dire quella parola che lo catalogava come un ragazzo bisognoso di protezione -…passivo. Ma non nel senso strettamente sessuale del termine. Sono un ragazzo che ha bisogno di coccole, che ha bisogno di… di essere ascoltato… Di essere considerato una persona di cui un’altra non può fare a meno. – mi strinse un po’ più forte, ed io non feci nulla per allentare la sua presa. Lo coccolai dolcemente, provando un po’ di pena per lui. Chissà quanto doveva faticare per fingere, per mantenere una facciata di rispettabilità di fronte ai familiari, colleghi dell’università e simili… Io almeno non avevo di questi problemi: passavo inosservato quanto bastava, e potevo discretamente fare quello che volevo… nonostante anch’io mi nascondessi.

- Io sono qui – gli sussurrai, accarezzandogli i capelli d’angelo – Quando vuoi, quando avrai bisogno di parlare, quando vorrai un po’ di calore… -

- Ti prego – mormorò lui – Non lasciarmi. Resta qui con me questa notte… - Con quella voce implorante e dopo tutto quello che aveva detto, l’immagine che io avevo di lui di ragazzo frizzante e spigliato cambiò.

Succede sempre così con le persone, non è vero? Ne vediamo soltanto una parte, quella esterna… Se poi ci accorgiamo che questa persona ci invita, ha fiducia in noi e vuole aprirsi, ecco che vediamo ciò che si nasconde in lei, le sue ansie, paure, i suoi dubbi… e generalmente, quando vediamo ciò che una persona tiene dentro, abbiamo paura. Scappiamo, ci autoconvinciamo che non potremmo mai fare nulla per cambiare una situazione, quando invece basterebbe un po’ di coraggio e di voglia di mettersi in gioco. Che una persona si scoprisse dei suoi crucci di fronte a me, poche volte mi era successo nella mia vita, e non ero stato per nulla contento di sapere ciò che mi era stato rivelato. Ora, con Simone, l’interesse era ricambiato, e toccava soltanto a me aprirmi a lui.

Ma sarebbe stato abbastanza coraggioso da nuotare nel mare della mia vita?

Senza fretta, Donatello… Senza fretta. Ricordati che le cose vanno fatte con calma. Ripetei a me stesso delle parole usate da Fiorella durante uno dei nostri incontri.

- Rimani con me – ripeté nuovamente Simone, distendendosi sul letto.

- Rimarrò con te, Simone. –

- Chiamami… cucciolo. – chiese lui – Cucciolo. Voglio essere il tuo cucciolo. –

- Va bene… Cucciolo. – risposi io, coccolandolo dolcemente mentre mi stendevo insieme a lui.

Lui mi baciò le labbra dolcemente, quindi disse un’ultima cosa.

- Chiunque desidererebbe di stare con me, in un letto… Ma io voglio soltanto te, adesso… Soltanto te… - mormorò, sulle mie labbra. Io sentii il profumo del suo alito. Un sapore di menta piperita molto dolce.

- …E voglio farti vedere la mia parte sensuale… sexy… - concluse. Tirò fuori la lingua e leggermente leccò le mie labbra, per poi mordicchiarle provocatoriamente.

Per tutta risposta, io lo baciai dolcemente, carezzandogli i capelli e le guance.

- Dormi ora. È tardi, e fra poche ore abbiamo un’altra escursione. – gli strizzai l’occhio, e lui mi sorrise.

- Buonanotte – disse – padroncino. –

- Buonanotte cucciolo… - conclusi io, chiudendo gli occhi. Morfeo mi riammise quasi subito nel suo mondo, mentre sul mio cellulare il display segnava le cinque e un quarto.

 

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Capitolo 19
*** Capitolo 18 ***


I giorni seguenti allo sfogo di Simone di quella notte passarono relativamente bene. Passavamo molto tempo insieme, in cui lui mi raccontava tante cose, con una verve frizzante e simpatica che non gli avevo visto soltanto in una notte. Per gli altri ospiti della casa eravamo abbastanza estranei, ma né Flavio né Ermanno se ne facevano un problema… Soprattutto mio fratello, occupato com’era a mettere le mani addosso a quella ragazza di nome Marika. Avrei voluto parlarne con Simone, ma sentivo che era meglio di no.

 

- Ho in mente di trasferirmi a Bologna, sai? –

In fondo al bosco c’era anche un ruscello, dove scorreva dell’acqua limpida e fresca, perfettamente potabile. Ci eravamo andati da soli, io e Simone, per godere un po’ dell’intimità, circondati dalla natura.

- Eh? Cos’hai detto? – domandai io, sorpreso. Mi era sembrato di sentire che Simone volesse trasferirsi a Bologna.

- Hai capito bene. Voglio trasferirmi a Bologna. – disse lui, senza la minima esitazione.

Siccome eravamo seduti su due massi separati, io gli andai vicino e mi sedetti accanto a lui, prendendolo sottobraccio.

- Ne sei proprio sicuro? – mormorai. Lui annuì, e poi mi guardò con quegli espressivi occhi di ghiaccio.

- Sicurissimo. Faccio un cambio di università e vedo cosa mi valgono i crediti accumulati a Padova. –

- Ma… perché? – domandai io, senza parole.

Lui sbuffò, e mi respinse via – A volte non so se sei scemo oppure se lo fai apposta – il suo sguardo si posò di nuovo su di me, e dopo un attimo di silenzio disse – Per stare con te, Donatello. Solo per stare con te. – rispose, secco.

Non immaginerete mai come mi sentii in quel momento. No, non ero felice. Ero molto sorpreso che un ragazzo volesse addirittura cambiare università per stare con me, ma al tempo stesso ero spaventato dalle conseguenze. Mille dubbi aleggiarono nella mia testa come un vespaio impazzito, ma ad ogni modo trovai le parole giuste per non ferirlo.

- Ma… ma è stupendo… - mormorai, con un’espressione a metà tra lo stupito ed il frastornato.

- Potremmo fare tante cose. Passare tanto tempo insieme. – Simone sorrise, e dimentico di avermi respinto solo pochi secondi prima, mi abbracciò forte e mi baciò dietro l’orecchio. – Ci pensi??? Sarà bellissimo! –

Mentre non mi vedeva, perso nell’abbraccio, io abbozzai un sorriso. Un sorriso che si tramutò in un sorrisone. Non fare finta di niente, Mister Tamburino… lo so benissimo che tu ti sei preso una cotta per questo ragazzino pazzerello, e non vedi l’ora di mostrarlo a Francesco e poi fartelo per ogni notte. Allora avanti, non essere timido, e gioisci alla vita.

- Sì… sarà bellissimo. Amore mio. –

Mi sembrò che Simone si fosse irrigidito a sentire quelle ultime due parole, ma mi rallegrai che fosse solo un’impressione sbagliata, perché mi sorrise e mi baciò appassionatamente.

Restammo lì per tutto il pomeriggio a baciarci, fino all’imbrunire.

 

Finalmente anch’io avevo trovato un fidanzato. Potevo dire questo dopo la miriade di progetti che Simone mi aveva esposto quel pomeriggio mentre eravamo al ruscello. Quello era l’ultimo giorno che ci vedevamo, almeno per un po’. La nostra vacanza sarebbe finita l’indomani.

Tutto sommato, ero stato fortunato. Una settimana e mezza passata a pomiciare con un bel ragazzo biondo e riccioluto non era cosa di tutti i giorni (almeno per me), in più avevo respirato tanta aria buona e visto tanti bellissimi luoghi, che di sicuro mi sarebbero stati d’ispirazione per i prossimi disegni. Ma soprattutto… ero contento del fatto che ci fosse una persona, nella mia vita.

 

Tuttavia, la mattina del nostro ultimo giorno di vacanze, accadde.

Simone entrò in camera mia mentre stavo preparando il mio bagaglio. La sua faccia non era radiosa come sempre, anzi appariva abbastanza tormentata. Sollevando un sopracciglio perplesso, gli chiesi cosa ci fosse che non andava.

- Dody… Io e te… dobbiamo parlare. –

Chiamatela prevenzione, chiamatela sconsideratezza, chiamatela ansia anticipatoria, ma quando un ragazzo mi diceva quelle due parole, io me la facevo addosso.

- Sì…? Di cosa vogliamo parlare, Simo? –

Senza che io l’avessi invitato, e come se le gambe non fossero più in grado di reggerlo, andò a sedersi sul mio letto, ed incrociò le braccia sospirando. Subito, io andai accanto a lui a consolarlo, passandogli un braccio attorno alla spalla.

- Amore… cos’hai? C’è qualcosa che non va? – domandai.

Lui si morse le labbra, guardando da più parti. – Non … non so davvero come dirtelo… è una cosa troppo forte. – rispose lui.

- Che cosa? Coraggio, non aver paura. –

Comprendendo che l’epilogo sarebbe stato ad ogni modo ineluttabile, Simone aprì la bocca e pronunciò la sua sentenza.

- Io… ho un ex ragazzo – cominciò -… Ci siamo lasciati circa cinque settimane fa. L’ho lasciato io. E lui ha sofferto tantissimo. Credevo di venire qui e dimenticarlo, e invece… - non concluse la frase.

Io reagii con una posa che a chiunque sarebbe apparsa fredda. Simone incominciò a piangere, grossi lacrimoni sgorgarono dai suoi occhi. Dai miei, nulla.

Si aggrappò a me, ma io ero diventato come una colonna di marmo bianco. Eppure tremavo, la mia lingua si era come incollata al palato e sentivo un dolore lancinante salirmi dal fondo della gola.

- S… Scusami… Io non … -

Non dissi nulla, mi limitai soltanto a guardare fuori dalla finestra, con occhio catatonico… Poi mi alzai e mi diressi in quella direzione, lasciando Simone sul letto, che frignava come un vitello. Cos’avrei potuto fare? Gettarmi ai suoi piedi e implorarlo di non pensare al suo ex? Riempirlo di sberle fino a farlo rinsavire e dirgli che ero io il ragazzo perfetto per lui? Cosa, in nome di Dio, cosa?

Niente.

- Parla, Dody. Dì qualcosa. – mi incitò lui – Parla, ti prego… mi sento una merda in questo momento… -

Non riuscii a proferire parola. Ma non per cattiveria, solo perché la mia mente non era abbastanza lucida da riuscire ad articolare qualcosa.

Non dissi nulla. Non ce la facevo. Per tutta risposta, ammucchiai i miei bagagli e chiusi la valigia come se Simone non ci fosse stato, come se non mi avesse mai detto nulla, come se non avesse mai attraversato quello schifo che era la mia vita.

- Parla Dody, non farmi incazzare! – Proruppe lui ad un certo punto, alzandosi in piedi. Io restai fermo accanto al letto, guardandolo fisso negli occhi come un cagnolino che guarda impaurito il suo padrone perché vuole picchiarlo. Piangeva. Piangeva come una fontana, eppure sentivo che da me cercava soltanto rassegnazione, o approvazione. Quello che tutti loro si aspettano quando aprono i rubinetti. Vogliono che tu dica loro Ma no, ma cosa vuoi che sia? Nulla… In fondo non sei il primo e non sarai l’ultimo che mi manda a fare in culo dopo aver fatto tanti progetti e poi averli mandati bellamente all’aria, per colpa di un ex o perché non sono abbastanza bello… Il mio coraggio, insieme alla mia dignità, mi imposero il silenzio.

La tristezza di Simone si tramutò in rabbia, tanto che continuò a piangere, ma uscì dalla stanza sbattendo la porta. Io restai lì, a guardare un punto indefinito della stanza.

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Capitolo 20
*** Capitolo 19 ***


Lo stesso punto indefinito fissai durante il viaggio di ritorno a Milano, con la differenza che i miei occhi erano chiusi per via del sonno. Dormii quasi ininterrottamente per tutto il tempo, mentre mio fratello Ermanno guidava e Chiara accanto a lui gli parlava di tante cose. Parlava a bassa voce, e la sentii dire che sembravo veramente un bimbo, mentre dormivo, e che presto o tardi avrebbe desiderato anche lei cullare tra le braccia un cucciolo d’uomo. Nel dormiveglia, sentii mio fratello mormorare che sì, avrebbero avuto anche loro un figlio, ma avrebbero prima dovuto sistemarsi per bene, in quanto il suo stipendio di impiegato tecnico alla società di informatica non sarebbe stato abbastanza congruo per coprire tutte le spese che sarebbero sopravvenute.

Messi da parte per un attimo i miei crucci riguardanti la dichiarazione espressa di Simone, pensai “che figlio di…” in riferimento a mio fratello, che avevo visto benissimo infrattarsi con quella bella ragazza bionda. Successivamente, durante una fermata in una stazione di servizio, mentre Chiara era in bagno, l’avevo chiaramente visto al telefono, tutto ingobbito che guardava per terra, come facevo io quando ero ancora a casa e chiamavo dei ragazzi… Patetico. Mi venne voglia di vomitare, ma dovetti resistere e continuare a recitare. Non potevo dire nulla a mio fratello, ma il colpo che avevo ricevuto faceva abbastanza male.

Cercai di pensare a Francesco, che ero sicuro, quando sarei tornato mi avrebbe accolto a braccia aperte e mi avrebbe raccontato di quanti bei ragazzi si era fatto durante la mia assenza, posto che non fosse in uno dei suoi periodi di stallo in cui si chiudeva in camera e chattava solamente… Il pensiero non mi rallegrò, ma fu comunque una distrazione.

A distrarmi ulteriormente, ci pensò il mio corpo. La mia vescica stava letteralmente esplodendo, essendo io stato per troppo tempo in stato catatonico da non riuscire a liberarmene…

 

Sostammo in un’area di servizio poco lontana da Bergamo, dove io scesi dall’auto e corsi in bagno. Mi rinchiusi in un gabinetto, mi slacciai la patta e tirai fuori il mio pene eretto non dall’eccitazione, bensì dal troppo trattenere l’urina. Strizzai gli occhi sforzandomi di espellere l’urina, che sprizzò fuori senza problemi dopo pochi secondi. Mi sentii molto sollevato.

Uscito, trovai di fronte a me la persona che meno mi aspettavo di trovare.

- Simone?!? – esclamai.

- Ciao – disse lui, neutro. – Come stai? –

Senza degnarlo di una risposta, lo scavalcai e andai al lavandino a sensori per lavarmi le mani. Misi le mani sotto il getto e le insaponai, mentre Simone mi guardava dallo specchio.

- Scusami. Non volevo dire quelle parole. Sono pentito. –

Io ancora non risposi, continuando a lavarmi le mani e ad infischiarmene delle sue parole.

Ad un tratto, lui scattò accanto a me e mi prese per il braccio, tirandomi via dalla mia pratica igienica.

-Ah! Simone cosa stai… - accennai, ma lui non mi lasciò il tempo di finire.

Mi trascinò di forza in un gabinetto, quindi mi sbatté sul muro e si avventò su di me, baciandomi le labbra con foga, come se l’indomani il mondo sarebbe dovuto finire.

- Mmmf! – mugugnai io, impossibilitato a proferire parola. Non sapevo se gioire o meno, ma lui mi zittì prontamente, sostituendo la sua bocca alla sua mano, che mi tappò le labbra.

- Shh. – sibilò lui - … Voglio chiederti scusa per essermi comportato da idiota. Voglio venire con te, il mio ex non conta più nulla, voglio venire con te a Bologna e restarci per sempre. Per sempre. Per sempre. –

Zittito com’ero dalla sua bocca, l’unico mezzo per comunicare con lui erano i miei occhi. Erano sgranati di sorpresa, come una vittima che ha paura del suo carnefice, ed erano gonfi di lacrime. Paura o felicità? Era forse l’ultimo sentimento quello preponderante.

- Lascia che io ripari al mio errore – disse poi Simone toccandomi la patta, dove il mio pene appena svuotato dall’urina era ancora un po’ inturgidito.

Sempre impedendomi di parlare, ma questa volta tornando a baciarmi, iniziò ad armeggiare con la zip dei miei pantaloni, fino a che non l’abbassò completamente e tirò fuori il mio membro ormai definitivamente turgido. Guardandomi poi negli occhi, si abbassò lentamente, e lo prese in bocca. Mi guardò ancora una volta, quindi si concentrò su quello che stava facendo.

Io chiusi gli occhi, e finalmente…

 

- Donatello? – una voce mi chiamò. Era una voce femminile. Socchiusi gli occhi. Nella penombra, riuscii a distinguere il visino dolce di mia cognata.

- Chiara…? Hmmm… Che … Che ore sono? – domandai, stiracchiandomi. Ero letteralmente anchilosato. Nonostante l’auto di mio fratello fosse una familiare molto comoda, dormire per così tanto tempo in una posizione innaturale, mi aveva causato un po’ di intorpidimento.

- E’ mezzanotte meno un quarto. Siamo arrivati in anticipo di un’oretta buona. – rispose lei sorridendo.

Io le sorrisi di rimando, ma fu un sorriso artato, in quanto ero consapevole di aver fatto un sogno. Un sogno molto realistico, ma pur sempre un sogno. Mio fratello era dietro l’auto, a scaricare i bagagli.

- Oh, si è svegliato il principino – esordì, scherzosamente. Io lo salutai con la mano, abbozzando un sorriso.

- Ciao bello – lo salutai – scusate se non vi ho tenuto compagnia durante il viaggio. –

- Figurati. Anche Chiara ti ha dato man forte, comunque… ha dormito come una marmotta in letargo anche lei! – rispose mio fratello ridacchiando, mentre Chiara gli mollava un buffetto sul braccio.

Io ridacchiai, dirigendomi verso il bagagliaio per prendere le mie cose. Mentre Ermanno si allontanava con la loro parte di bagagli, io mi toccai la patta. Mi accorsi che ero letteralmente bagnato. Il sogno che avevo fatto era stato molto più realistico di quanto avevo pensato, infatti il rapporto orale onirico che Simone mi aveva generosamente largito era bastato per farmi venire nelle mutande.

Arrossii, quindi presi di fretta le mie cose e chiusi il portellone della Laguna di mio fratello, che lampeggiò due volte e si chiuse ermeticamente. Raggiunsi Ermanno e Chiara che stavano già salendo al loro appartamento.

 

Quella notte non dormii, frastornato com’ero. Soltanto poche ore prima avevo ricevuto l’ennesimo calcio nei denti della mia vita, e ancora non riuscivo a capacitarmene. In più, Fiorella era in ferie, ed avrei dovuto aspettare fino a Settembre per poter parlare con lei. Settembre, di nuovo lui.

Quand’ero piccolo Settembre significava per me scuola, quindi dolore, compagni idioti e cattiveria assortita. Ora che ero adulto, sembrava che i ruoli del tempo si fossero invertiti: mai come ora bramavo l’arrivo di Settembre, che avrebbe fatto tornare Fiorella e che mi avrebbe detto come sarebbe andato il colloquio con quella Fondazione Rambaldi che mi aveva inviato l’invito a comparire per un colloquio. Un lavoro. Altra fonte di gioia… e di dubbi. Sarei mai stato un bravo insegnante? Oppure avrei fatto schifo come facevo schifo a tutti i ragazzi che incontravo? Decisi di non pensarci, e di pensare che in fondo Settembre non era poi così lontano. Restavano soltanto Luglio e Agosto da passare, ma per me che ero un ragazzo in gamba, sarebbero passati in fretta.

E come fare per far passare questi mesi?

Un obiettivo. Dovevo avere un obiettivo, qualcosa da fare che mi tenesse occupato per almeno due mesi. Dunque, cosa potevo fare…?

Ma era così ovvio, no? A Settembre avrei avuto quel colloquio, giusto? Giusto. E lì come minimo mi avrebbero richiesto di presentare qualcosa di mio, giusto? Giusto. Bene! Allora perché dannarsi tanto a cercare una soluzione?

Seguendo questo ragionamento avevo previsto che una volta tornato a Bologna avrei subito ricominciato a lavorare sui miei disegni, per presentare dei disegni di tal nome al colloquio. Sarebbe stata dura, ma in due mesi potevo farcela, se contavo sul mio impegno commisto alla mia bravura di disegnatore.

Sì. Li avrei stupiti.

Ne ero sicuro.

Il progetto mi stuzzicò abbastanza, ma non abbastanza da farmi dimenticare Simone. Infatti, passai la notte insonne a ricordare tutti i bei momenti passati con lui. Momenti nei quali io ero stato, anche se per poco, il fidanzato di qualcuno.

 

La mattina, il sole mi svegliò dolcemente, con la sua luce diafana filtrata dallo smog di Milano. Poi arrivò Ermanno. Era un po’ scuro in volto, come mai l’avevo visto. Io lo guardai sollevando un sopracciglio perplesso, ma lui si era già allontanato. Un po’ titubante, scesi dal letto e mi vestii, pronto a raggiungerlo.

- Ti sei divertito, allora? – mi domandò Ermanno. Stava spalmando del burro su una fetta biscottata.

Io posai la tazza di caffellatte che mi ero preparato e annuii, sorridendogli. Tuttavia il mio sorriso si spense subito dopo quando ripensai a Simone.

- Sai, ho notato che sei stato molto vicino a quel ragazzo… com’è che si chiama…? Ah sì. Simone… - in quel momento, le parole di mio fratello mi colpirono come una fucilata. Annuii, non sapendo bene cosa dire.

- Qualcuno dice che sia gay. – disse mio fratello, masticando la sua fetta biscottata imburrata e condita con marmellata di ciliegie.

Non sapendo cosa rispondere, io feci spallucce. Non era il tono di voce di mio fratello, prettamente indagatorio, a farmi impressione, quanto il pensiero di Simone, che mi aveva fatto così male.

Ermanno mi guardò attentamente, mentre con la mano destra prendeva un’altra fetta da imburrare e spalmare di marmellata – Dì la verità, ti sei divertito…? – mi chiese, con un tono abbastanza secco. Notai che aveva alzato un sopracciglio.

Per la prima volta in tanti anni che parlavo con mio fratello, mi sentii male. Sentivo il suo sguardo sopra di me, così carico di un sentimento che io non capivo… O forse la mia era solo paura, paura di ciò che avrebbe potuto dirmi se avesse saputo che…

- S… sì… - balbettai. Le mani mi tremavano, tanto che bevvi un ultimo sorso di caffellatte e allungai la mano verso il sacchetto dei biscotti. Ne presi uno, e me lo portai alla bocca, guardando verso la finestra. – E’… è veramente bello, quassù… si riesce a vedere tutto… proprio come… -

- Donatello. Non cambiare discorso. Ti sei divertito, oppure no? – disse Ermanno.

E fu in quel momento che il mondo mi crollò addosso. Non ce la feci più, ingollai il biscotto e mi alzai dalla tavola, andando verso la veranda. Lì mi portai le mani al viso ed incominciai a singhiozzare.

Immediatamente, Ermanno si alzò, venendomi vicino. Anziché consolarmi, mi prese per il braccio, e mi guardò intensamente negli occhi. Io faticai a sopportare il suo sguardo, le labbra mi tremavano, e così anche le ginocchia. Temevo che da un momento all’altro sarei potuto crollare.

- Devi dirmi qualcosa, Donatello?!? – disse lui alzando la voce.

- Io.. io sto.. sto male, Ermanno. Sto male. Sto molto male! –

- E non piangere come una femminuccia! L’ho capito che cosa hai combinato lassù con quel frocio, sai? – mi urlò in faccia. Io scoppiai a piangere, e lui per tutta risposta mi scacciò via.

Non capendo, io ebbi soltanto la forza di domandare – C… cosa…? Che vuoi … che vuoi dire? –

- Mi hanno telefonato. Una persona che conosce Simone, mi ha detto tutto. Ed io sono molto incazzato con te, Donatello. Parecchio. –

Sentire che una persona era incazzata con me, mi faceva male. Deglutii, ma la gola mi faceva male. Tutto mi faceva male, tutto il mio corpo. Ermanno si appoggiò al marmo della cucina, dandomi le spalle.

- Non puoi essere tu, mio fratello – disse, sibilando – non esiste che tu mi abbia fatto certe cose con… con un ragazzo! – Si portò una mano alla fronte, disperato.

A quel punto, io sbottai.

- Q… qual è il tuo problema? C… Che a me piaccia f…farmi i - i.. i.. ragazzi anziché le ragazze??? – balbettavo per il dolore e la tristezza. Ermanno non rispose, ma si limitò a voltarsi di scatto, come un cane rabbioso, e a venire verso di me, per prendermi per il colletto della camicia.

- Allora lo ammetti pure, eh? – mi sibilò contro il naso. Il suo alito sapeva di marmellata – Mi fai schifo. Mi fai solo schifo. – mi mollò di nuovo con veemenza, e lì io raccolsi i pezzi di me stesso e singhiozzando mi diressi verso la mia camera. Chiusi la porta e raccolsi le mie cose, piangendo e singhiozzando.

Giù nel cortile, buttai tutte le mie cose nella mia Audi che era rimasta lì ad aspettarmi per tutto quel tempo. Mi misi al posto di guida e girai la chiave nel quadro. Nella fretta, non mi accorsi che la marcia era inserita, quindi l’auto fece un balzo in avanti. Imprecai ad altissimo volume, e i condomini che mi videro si girarono stupefatti.

Mi diressi verso l’uscita, che era chiusa dal cancello. Imprecai nuovamente, presi il cellulare e composi il numero di mio fratello.

Uno squillo.

Due squilli.

Tre.

Quattro.

Cinque.

Alla fine chiusi la comunicazione, e, furente ed amareggiato, mi attaccai al clacson.

Peeeee! Peeeeeeeeeeeeeeeeeeee! Squillò la mia auto. Anche se al settimo piano, Ermanno avrebbe dovuto sentire ed aprirmi il cancello. Aspettai cinque secondi, poi altri cinque, poi riprovai.

Peeeeeeeeeeeeeeeeeee! Peeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee! Suonai nuovamente, e questa volta si affacciarono un bel po’ di condomini.

- La vuoi finire di scassare il cazzo??? Sono le otto del mattino, porca puttana! – mi apostrofò una donna sulla quarantina.

- Basta!!! Se non la piantate, chiamo i carabinieri!!! – disse un uomo da un balcone.

- E allora apritemi questo cazzo di cancello!!! – sbraitai io, e come per magia, il cancello si aprì. Guardai verso l’appartamento di mio fratello, e lui era lì, alla finestra, a guardare con occhio vitreo ciò che stava succedendo. Il suo sguardo era truce.

Io gli restituii lo stesso sguardo, finché lui non si voltò e non scomparve dietro la finestra che dava sulla veranda.

- Fanculo! – esclamai, sbattendo una mano sul volante e provocando un altro squillo di clacson.

Una volta che il cancello fu aperto del tutto, io schiacciai l’acceleratore e mollai la frizione tanto repentinamente che l’auto partii in sgommata. Tornavo a casa, ma ci tornavo più ferito di quanto già non fossi.

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Capitolo 21
*** Capitolo 20 ***


Se esisteva un dio, ero sicuro che mi avrebbe mandato all’inferno senza appello, dopo tutte le bestemmie che avevo tirato giù nel cercare l’accesso dell’autostrada in quell’intrico di strade che era la periferia ovest di Milano. Per un colpo di fortuna, trovai un cartello verde che indicava la direzione da seguire, e per fortuna dopo molte peripezie riuscii a varcare la barriera e ad immettermi nello stradone a quattro corsie. Destinazione: Bologna.

Ero frustrato, incazzato, ma soprattutto… triste. Con le mani strette sul volante, piangevo a dirotto, urlando e disperandomi. Andare fino lì non era stata una buona idea, per non dire che era stata un’idea di merda, dal momento che ero stato deluso un’altra volta e mio fratello aveva scoperto che ero gay. Ma come aveva fatto a scoprirlo…?

Feci due più due, e ricostruii le possibili ipotesi.

Illuminazione divina?

Spiata?

Ecco, sì. Forse quest’ultima era la più probabile.

Per come la vedevo io, Simone doveva aver spifferato tutto alla sua amica del cuore che era lì con noi nella tenuta di Flavio… Siccome non aveva voluto dirmi chi era questa fantomatica amica, avevo dovuto arrivarci da solo, giungendo alla conclusione che la sua amica era Marika, la stessa che aveva intortato mio fratello quel giorno nel bosco e chissà quante altre volte alle quali io non ero stato testimone.

Ehi, ma perché stavo piangendo? Io avevo in mano una bomba che poteva esplodere, tra le mani. Sarebbe bastato fare una telefonata a Chiara, raccontarle tutto, esortarla a fare qualche controllo accurato sul cellulare di mio fratello, e tac! Avrei avuto la mia vendetta.

Ma no, non avrebbe potuto funzionare. Prima di tutto perché se io spifferavo tutto quanto a Chiara, mio fratello come minimo sarebbe venuto a cercarmi per strangolarmi; poi perché sicuramente sarebbe corso dai miei a raccontare tutto ciò che io avevo fatto con Simone e, poco ma sicuro, mi avrebbero tolto l’appartamento e quindi anche Francesco, l’unica mia fonte di sostentamento dato che non avevo un lavoro.

Mi toccava soltanto sperare che una volta tornato, non fossero già lì, allertati da Ermanno.

- Cazzo, cazzo … cazzo. – sibilai tra i denti, in preda ad un forte senso di smarrimento. Misi la freccia e mi fermai su una piazzola di sosta, accendendo i lampeggianti. L’atmosfera era calma, anche se le auto che sfrecciavano mi impedivano una concentrazione ottimale. Chiusi gli occhi, e cercai di rilassare braccia e mani… Rispondi, Dandy… lo so che ci sei. Rispondi, vieni da me, vieni a consolarmi… Ti prego… ti prego. Invocai mentalmente questa preghiera, ma ovviamente Dandy non apparve. Ci provai e riprovai per un bel po’ di minuti, ma non accadde nulla. Sconfitto, scossi la testa e sospirai. Rimisi in moto la mia auto e ripartii, ancor più disperato di prima.

 

Un rombo di tuono. Guardai fuori dal finestrino, e vidi che il tempo si era oscurato parecchio. Grossi nuvoloni neri nel cielo sopra l’autostrada minacciavano di scaricare tanta acqua.

Pigiai più forte sull’acceleratore, e vidi il tachimetro spostarsi dalla tacca dei 130, poi quella dei 140, e infine 160.  Non mi importava se mi avrebbero mandato una multa a casa, non mi importava se questa mia bravata fosse finita in tragedia. O arrivavo a casa mia, o sarei morto nel tentativo.

Il motore diesel della mia bellissima Audi ronzava potente, a quella velocità che non aveva forse mai toccato, nemmeno quando era stata di mio padre, accusato da mia madre di correre troppo quando era in autostrada. Ecco, forse avrebbero potuto togliermi la casa, forse mio fratello avrebbe potuto smettere di parlarmi… ma se mi avessero tolto la mia bella macchinina, mi sarebbe veramente dispiaciuto.

- Vai bella, vai… portami a Bologna. Portami a casa. A casa mia. –

Quel giorno sull’autostrada c’erano parecchi camion. Da quando avevo lasciato Milano avevo incontrato si e no due auto, un’utilitaria ed un SUV. Per il resto del tragitto, soltanto autotreni e autoarticolati. La cosa mi inquietò un po’, ma cercai di non darci peso più di tanto.

Un cartello mi indicò che l’uscita di Lodi era vicina, e che le vicine Pavia e Piacenza erano prossime. Bene, significava che ero quasi arrivato al confine tra Lombardia ed Emilia Romagna.

Nel frattempo, aveva incominciato a piovere.

- Bene, benissimo. Adesso appena torno a casa, una bella doccia… un bel libro… e poi dormo fino a domani. E affanculo questa vacanza di merda. Poi deciderò sul da farsi. –

Mi avevano rotto i coglioni, tutti. Ero parecchio frustrato, e questa volta non me la sarei cavata tanto facilmente. Una volta tornata, Fiorella avrebbe dovuto sorbirsi un sacco di lamentele da parte mia, per come questa vacanza era andata, per come mi ero stufato di questa vita, per come …

 

…Perso nelle mie elucubrazioni mentali, non mi accorsi che ero in corsia centrale. Ai miei lati, un TIR ed un autotreno, che viaggiavano quasi alla mia stessa velocità. Era ovviamente impossibile, a meno che io non avessi rallentato involontariamente. Ed era effettivamente così. Pigiai di nuovo più forte, per togliermi dalle scatole, quando all’improvviso…

L’autotreno alla mia destra fece una manovra repentina e saltò in corsia centrale mentre io ero lì. Aprii la bocca dal terrore, mollai immediatamente l’acceleratore ed il mio piede schiacciò potentemente il freno, provocando uno stridore di pneumatici sull’asfalto. Il TIR alla mia sinistra suonò il suo clacson potentemente, mentre la mia auto slittava sull’asfalto bagnato.

- Ahhhh!! – urlai, pazzo di terrore di schiantarmi contro le barriere. Se era vero che tempo fa avevo desiderato la morte, ora che avevo rischiato veramente di morire, ero più terrorizzato che mai.

La mia auto fece testacoda, e alla fine si posizionò di traverso tra le corsie. Con le mani ancora sul volante, che tremavano dalla paura, gli occhi spalancati che guardarono prima a destra e poi a sinistra, lentamente rimisi la marcia e mi riposizionai su una corsia, riprendendo la marcia.

- Mamma mia… che spavento. – mormorai. Il mio respiro era affannoso ed il mio battito cardiaco accelerato.

 

- Sono quattro euro e cinquanta. – mi disse la cassiera dell’autogrill dove mi ero fermato. Avevo preso un cappuccino e due brioches, bisognoso come non mai di darmi una calmata dopo quanto mi era accaduto. Ero sopravvissuto ad un incidente che mi avrebbe seccato sul colpo, non so se mi spiego. Pagai e mi diressi frettolosamente ad un tavolo, con il vassoietto in mano che minacciava di cadere, da quanto stavo ancora tremando.

Una signora lì vicino vide che avevo qualcosa di strano. Mi guardò per un po’ di secondi, fino a che io non incrociai il suo sguardo e lei lo distolse, per discrezione. Sospirai, ed iniziai a sorseggiare il mio cappuccino. Addentai anche una brioche, ma mi resi subito conto di aver buttato via tre euro e mezzo. Non avevo fame, mi sentivo lo stomaco totalmente chiuso. Posai la brioche e tornai a bere il cappuccino. Se non altro, mi stava calmando un po’.

Mentre ero lì che sorseggiavo il liquido caldo, una mano mi si posò sulla spalla. Io mi voltai, ma quando vidi di chi era, rimasi stupefatto.

- Beh? Non mi saluti? – disse Dandy, con quell’aria sbarazzina che riconoscevo.

Completamente rincoglionito da tale visione, non tanto per la bellezza quanto per la sorpresa di trovarmi davanti un personaggio creato da me in carne ed ossa, aprii la bocca, ma non ne uscì alcun suono.

- E… e… -

- Oh, uffa, come sei rompipalle. Un po’ di allegria, su! – rispose lui, sorridendomi a trentadue denti. I suoi occhi azzurri mi guardavano, ed i suoi capelli biondi scintillavano nonostante la luce povera del locale. La signora di poco prima sembrava non accorgersi di nulla, così come tutti i pochi viaggiatori presenti.

- Che cos’è, uno scherzo? Guarda che io… -

- Nessuno scherzo – rispose Dandy, serio. – Mi hai chiamato, ed eccomi qui. Ci sono altre domande? –

- Ma … ma tu sei un … - come intuendo ciò che stavo per dire, Dandy mi si avvicinò e mi posò tre dita sulle labbra.

- Shhh. – disse lui, facendomi l’occhiolino. – Usciamo di qui, prima, va bene? -

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Capitolo 22
*** Capitolo 21 ***


Non chiedetemi cosa mi convinse a portare Dandy (o quel ragazzo che somigliava così tanto a Dandy) in macchina con me. Mentirei se vi dicessi che lo conoscevo meglio di chiunque altro in quanto mio personaggio. La verità era che non lo conoscevo per niente, se si escludevano tutte le avventure che aveva avuto e che io avevo disegnato… ma soprattutto… lui era un personaggio dei miei fumetti! Quindi praticamente inesistente nella realtà!

- A cosa pensi? – mi chiese, con un sorriso a trentadue denti.

Io lo guardai con la coda dell’occhio, per non distrarmi alla guida – Penso… penso che … che sia impossibile che tu sia qui. Ma sto sognando? È un sogno? –

Lui scosse la testa. – No no. Benvenuto nella realtà, tesoro. Ed io sono vivo e reale. Te l’avevo pur detto che sarei arrivato alla vita, no? – concluse, con un sorriso smagliante dei suoi ed una provocatoria alzata di sopracciglia.

- Sì ma… - non trovavo le parole per descrivere un avvenimento di tale portata. – Ma come…? –

- Ti hanno già detto che sei un rompiscatole? Ti fai troppe domande! – rise lui, sbarazzino e frizzante. – Sii più rilassato, più free! – lentamente portò il braccio dietro la mia nuca, ed iniziò a solleticarmi la guancia con le sue mani perfette. Io non dissi nulla, ma ero visibilmente eccitato ed al tempo stesso pieno di domande. Una fra le tante era la più inquietante: che cacchio ci facevo in quella stazione di servizio, e da dove partivo per tornare a Bologna?

Mi sforzavo di ricordare, ma era come cercare di ricordarsi un bellissimo sogno proprio dopo essersi svegliati. Inutile ed impossibile. Sapevo come mi chiamavo, sapevo dove stavo andando, sapevo anche che stavo per finire spiaccicato in mezzo a due camion, eppure non sapevo perché quel giorno mi trovavo in autostrada.

Continuavo a guidare, con Dandy che mi accarezzava dietro la nuca, proprio come avrebbe fatto un fidanzatino mentre l’altro guidava. Accese anche la radio, ed io vidi che le trasmissioni erano le solite, che la data era quella e che non c’era nulla fuori posto.

Neppure quando giungemmo a Bologna, a mezzogiorno, nulla era cambiato. Causa il periodo estivo c’erano poche auto in circolazione, però era tutto in ordine.

Ma al di là della formale apparenza della realtà oggettiva, dentro di me c’era un istinto che mi diceva che qualcosa non andava per il verso giusto. C’era qualcosa di strano, inspiegabile, nella luce che aveva Bologna quel giorno. Era troppo luminescente. Talmente troppo luminescente e ben tratteggiata che sembrava quasi… un quadro dipinto.

Cercai di ignorare quella sensazione, ma più percorrevo le strade che portavano a casa mia, più mi riusciva difficile far finta di nulla.

- Dove stai andando? – domandò ad un certo punto Dandy.

- A casa. Dove vuoi che vada, sennò? –

- Pensavo avresti voluto farmi vedere la città. – rispose lui, con un sorriso a trentadue denti. Quel sorriso artefatto che soltanto i personaggi dei fumetti potevano avere.

- Dì un po’ – esordii io – ma tu sorridi sempre, oppure soltanto quando vuoi ottenere qualcosa? –

Mi fece una linguaccia, e rispose  - Soltanto quando una persona mi è simpatica e mi piace. Tu mi sei simpatico … e mi piaci! – esclamò, aggrappandosi al mio collo e impedendomi la visuale mentre guidavo.

- Ehi!! Non fare lo scemo! Sto guidando! – lo respinsi, prima di finire addosso ad un’auto ferma ad un semaforo.

Lui ridacchiò allegramente, divertito. – Sei carino quando ti arrabbi. – disse, tornando a sedersi.

- Hmp. – bofonchiai io, ritornando a concentrarmi sulla guida. – Allora, dov’è che vorresti andare? –

- Non lo so! Fammi un po’ vedere in giro, no? Sei tu che vivi qui, non io. Io vivo in un mondo di carta, lo sai benissimo. –

- Ah già… certo. Me n’ero scordato. – risposi, secco. Avrei dovuto essere felice e radioso di avere un personaggio dei fumetti così bello e così dolce, invece mi sentivo stranamente inquieto.

A sedare i miei dubbi come una fucilata, intervenne la mia voce interiore, quella del Donatello-sarcastico-e-cinico.

Che ti prende, Old Boy? Non sai più riconoscere la realtà dalla fantasia? Adesso hai un bel ragazzo al tuo fianco, almeno fai finta di comportarti bene, no? Portalo a vedere San Luca, portalo in Piazza Maggiore… Portalo dove ti pare, ma non preoccuparti. Non ti mangerà mica.

- E’ proprio di quello che mi preoccupo. – mormorai.

- Cos’hai detto? – domandò Dandy.

- Niente. Non importa. – risposi.

E continuai a guidare, diretto verso il Centro di Bologna.

 

- Uhhh, ma è stupeeendo! – esclamò Dandy, mentre saltellando si godeva la vista di Piazza Maggiore. Io ero lì con le mani in tasca ad osservarlo mentre si divertiva come un bambino, appagato ma al tempo stesso inquieto. Possibile che Dandy Landy, il personaggio dei miei fumetti, fosse diventato una persona umana? E com’era successo?

Mi guardai intorno, come per cercare la risposta a questi interrogativi. Ciò che vidi fu la normalissima gente che a quell’ora si intratteneva in Piazza Maggiore, ovvero studenti, turisti, qualche coppietta che passeggiava… anche loro però, mi sembravano strani. Era come se seguissero uno schema preciso nei movimenti, nel parlare, nell’interagire con l’ambiente circostante. Le poche volte che uscivo di casa e andavo in centro, vedevo parecchia tranquillità. Adesso mi sembrava di stare sul set di un film, tanto che mi allontanai e mi andai a mettere in un angolo, come per paura di essere nel bel mezzo del campo della cinepresa che stava riprendendo tutto l’evento.

Proprio mentre mi stavo allontanando, sopraggiunse Dandy che mi prese per il braccio e mi tirò a sé.

- Amore! Dove vai? – disse, schioccandomi un bacio sulla guancia. Io rimasi paralizzato dall’imbarazzo nel venire baciato in quel modo da un ragazzo, e soprattutto con un’esclamazione del genere, detta ad alta voce.

- Ngh! – esclamai io dalla sorpresa, quindi mi voltai e lui mi abbracciò forte, mentre io cercavo di divincolarmi.

- Che c’è? – mi chiese, guardandomi con quei suoi occhi azzurri ed il suo solito sorriso pulito.

- Cosa c’è? Ma … ma dico, ti rendi conto di dove siamo? –

- A Bologna – rispose lui, serafico. – E quindi? Non posso farti le coccole in pubblico? –

- No! – risposi io, piuttosto imbarazzato. Ero rosso come un peperone.

Lui fece una faccia sconsolata, come un cucciolo bastonato. – Perché? –

- P… perché… - iniziai, senza trovare le parole giuste – P… perché … tu vedi forse qualcuno qui in giro che fa come noi? –

Annuendo, lui rispose – Certo! Guarda dietro di te. –

Lo guardai sconcertato, come se fossi certo che mi stesse prendendo in giro. Con un’alzata di spalle e gli occhi spalancati come per dire “prova se non ci credi”, Dandy mi incitò a voltarmi.

Lentamente, mi voltai, e vidi che dietro di me c’erano una, due, tre, quattro, almeno dieci coppiette di bei ragazzi omosessuali. Camminavano tranquilli, si baciavano, si tenevano mano nella mano, si scambiavano effusioni. Il tutto di fronte a coppie etero e persone anziane e perfino bambini!

Inutile dire che restai a bocca aperta a tale visione, non tanto per la visione in sé, quanto per l’insolita concentrazione di ragazzi omosessuali senza che ci fosse un gay pride.

- Allora, scetticone? Sei soddisfatto? –

- C… C… c… - ebbi solo la forza di spiccicare tre sillabe sconnesse.

Approfittando del mio momento di temporanea incoscienza, Dandy mi prese e mi abbracciò forte, schioccandomi un bacio sulle labbra talmente tanto forte da farmi quasi perdere i sensi. Vedendo che non c’era nulla da temere, io mi sottomisi a tale scherzetto, sentendo che pian piano il mio imbarazzo svaniva per lasciar posto ad una bellissima sensazione. Quella di essere baciato da un bel ragazzo. Dopo qualche secondo, Dandy si staccò e mi guardò negli occhi con quel suo sguardo magnetico.

- Allora? –

- Possiamo… possiamo davvero…? –

Lui annuì con un sorriso.

- E’… è incredibile. Mi sembra di vivere in un altro mondo. – dissi io, guardandomi intorno. Bologna era nota per essere una città molto tollerante verso i gay, ma non pensavo fino a questo punto.

- Dai, andiamo a fare un altro giro. Questa volta voglio guidare io! – disse Dandy, prendendomi per mano ed iniziando a saltellare verso Piazza San Petronio, dove c’erano ancora più coppiette. Indubbiamente qualcosa di strano c’era, però se questa stranezza era così bella, perché cercare risposte?

Mentre Dandy mi tirava, sentii una mano toccarmi la spalla. Come qualcuno che mi chiamava. Mi voltai. La mano che mi aveva toccato era un individuo in impermeabile nero, tutto intabarrato nonostante il caldo, con un cappellino nero ed uno sguardo penetrante, proprio come quello di Dandy. Vederlo mi inquietò un po’, ma mi sarebbe bastato interpellare Dandy per aiutarmi.

- Dandy… D… - lo chiamai, ma lui sembrò non ascoltarmi. Nel frattempo, il figuro in impermeabile nero era scomparso.

Chi era quello…? Domandai a me stesso, certo di non conoscere la risposta. Intanto Dandy continuava a tirarmi per continuare il giro turistico in quella città che già conoscevo ma che per lui era del tutto nuova.

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Capitolo 23
*** Capitolo 22 ***


Casa mia era situata nella zona di Borgo Panigale, alla periferia nord ovest di Bologna. Siccome ero abbastanza stanco e persino affamato, interruppi prima del tempo la visita di Bologna insieme a Dandy. Avevo voglia di farmi una bella doccia, mangiare un boccone e finalmente stendermi sul mio letto per rilassarmi, benché non ricordassi nulla di ciò che stavo facendo su quell’autostrada. Decisi che avrei chiamato mio fratello, per ricostruire i miei movimenti di ieri. Prima però volevo riposarmi.

- No, no. – mi fermò Dandy, mentre eravamo ad un semaforo – Non devi andare a casa tua. –

Io lo guardai come si guarderebbe un bambino che ha appena detto una parolaccia. – Come sarebbe a dire? – domandai. – Io voglio andare a casa mia. Ho bisogno di mangiare e riposarmi. Tu piuttosto dimmi dove vuoi che ti lasci, e ti accompagno. –

Lui fece una faccia sconsolata. – Pensavo… speravo che… tu venissi a stare un po’ da me. – disse lui, e contemporaneamente abbassò gli occhi, sconsolato. La sua capacità di passare da uno stato d’animo all’altro, da un carattere all’altro, aveva un che di sorprendente.

- Uff… - sbuffai io – Dandy, non è per… insomma, ma … - Non trovavo le parole. Effettivamente era difficile ripetere un concetto già detto, ovvero che lui non esisteva. – …Volevo dire che mi sento molto confuso in questo momento. Ho bisogno di… restare solo. D’accordo? –

- Ecco! – esclamò lui, cambiando di nuovo carattere – Ti lamenti tanto che vuoi il fidanzato, e poi quando lo trovi… dici “sono confuso, sono confuso!” – fece una smorfia di disappunto. – Idiota. – concluse lui. Io mi sentii ferito dalle sue parole, tanto che cedetti subito.

- E va bene, va bene… vengo da te. – dichiarai, in segno di resa. – Dove dobbiamo andare? –

Lui sorrise e mi schioccò un bacio sulla guancia, proprio mentre guidavo.

- Segui le mie istruzioni, e arriveremo a casa mia. – disse, ed io annuii.

 

Seguendo le sue istruzioni, arrivai sui colli, dove c’era la zona delle ville.

- Uao… - mormorai – tu vivi qui? –

- Eh sì. – rispose lui – Ho acquistato una villetta qui vicino. È quella. – concluse, ed indicò con il dito un cancello in ferro battuto.

Fermai la mia auto davanti al cancello, lui scese dall’auto e andò ad aprirlo.

 

Entrato, mi ritrovai in una bellissima e grande villa, forse anche un po’ più grande di quanto non sembrasse da fuori. Il pavimento era lucido e pulitissimo, alle pareti erano appesi molti quadri dalle tinte accese, per lo più raffiguranti periodi del futurismo e delle neoavanguardie. Stesso discorso valeva per i mobili, che erano modernissimi e prestigiosi allo stesso tempo.

- Allora? – domandò Dandy. – Ti piace? –

Fischiai dallo stupore. – Ti tratti bene, vedo. –

Lui mi sorrise.

- Abiti qui da solo? –

- Oh no – rispose lui – ogni tanto vengono a trovarmi i miei amici, quelli che hai disegnato tu. –

Io sgranai gli occhi. – Vuoi dire che tutta la brigata ogni tanto viene a trovarti? –

Lui annuì. – Sì sì caro. – si avvicinò – so anche che ti piacciono molto anche loro, li consideri come tuoi figli… - disse, toccandomi il generoso ventre. Io arrossii, però lo lasciai fare e anzi al tempo stesso portai una mano attorno i suoi fianchi. Aveva un corpo magnifico, così bello e proporzionato. Mi stupii io stesso di aver disegnato un ragazzo così, e forse mi stavo lentamente abituando all’idea che fosse un ragazzo vivo e reale, non soltanto un disegno scaturito dalla mia fantasia.

- Seguendo questa teoria… allora dovrei considerare anche te come mio figlio… sbaglio? –

Lui ridacchiò. – Mmm… non puoi considerarmi un amico, invece? – disse, con una voce sensuale e provocatoria. Intanto le sue mani si erano posate sulle mie spalle, e le sue labbra erano molto prossime alle mie. Tuttavia rimasi rigido. Una parte dentro di me era ancora restia ad accettare l’idea che Dandy potesse non esistere.

A sedare questo mio dubbio, intervenne Dandy, che incominciò a sfiorarmi le labbra con la sua lingua. Io chiusi gli occhi, impossibilitato a dire o fare qualunque cosa. Lui andò avanti, con quella lingua che profumava di fragola e quelle mani così belle che mi carezzavano i capelli…

Chi se ne frega se è soltanto un allucinazione. Gli vado bene, e lui va bene a me. È un figo da primato, e mi ha pure invitato a casa sua. Avanti, allora…

Pensai, e lasciai andare le mie mani a toccare i suoi fianchi. Lui mugolò di piacere, ed incominciò a baciarmi. Da uno scaffale prese un telecomando e pigiò un tasto. Subito dopo sentimmo una bellissima musica venire fuori dagli speakers.

 

*** Met you by surprise
I didn't realize that my life would change forever
Saw you standing there didn't know I care
there was something special in the air… 
***

 

- Ma questa è… - incominciai. Lui annuì, e continuò a ballarla con me.

- E’ stupenda. La mia preferita. – sussurrò, baciandomi dolcemente le labbra. Mentre la musica continuava, noi ballavamo, ed era proprio come se quel salone fosse stata la nostra pista da ballo. Io ero di nuovo felice, fra le braccia di Dandy. Per lo meno ero sicuro che un personaggio di carta non avrebbe mai potuto farmi soffrire come quelli in carne ed ossa che avevo incontrato… Avrei potuto ribellarmi al suo invito, prendere e andarmene a casa, ma cosa vi avrei trovato…? Forse Francesco che pomiciava con qualche altro bel ragazzo ed io che dovevo chiudermi in camera per non pensarci… No no… qualunque cosa fosse, era meglio stare con Dandy. E decisi che ci sarei rimasto per un po’. Non sapevo nemmeno io perché.

 

*** …If you do exsist, honey don't resist
show me a new way of loving
Tell me that it's true, show me what to do
I feel something special about you.
***

 

Ad un certo punto, lui mi sorrise. Io gli chiesi perché.

- Perché sei tanto tenero, Donatello… - rispose, facendomi gli occhi dolci.

- Anche tu – risposi io, di rimando.

- So anche essere molto selvatico, se voglio… - disse, e mi mostrò una fila di denti bianchi, prima di mordermi scherzosamente il collo.

Io risi, ma era chiaro che il bel Dandy aveva intenzioni serie. A confermare questa mia sensazione, ci pensò lui.

- Andiamo di sopra…? – chiese, facendomi l’occhiolino.

Io sorrisi. – Certo. –

Mi prese per mano e andammo verso le stanze da letto.

 

*** …Dreams are my reality, a wondrous world where I like to be
I dream of holding you all night
and holding you seems right
perhaps that's my reality.
***

 

 

Dormii ininterrottamente per un bel po’ di ore. Fu un sonno senza sogni, sereno e tranquillo. Quando aprii gli occhi mi ritrovai in una casa che non era la mia, quindi dovetti fare uno sforzo di memoria per ricordarmi dove fossi. Poi ricordai che ero ospite di Dandy. Il letto dove avevo dormito era sfatto, quindi dedussi che Dandy mi aveva fatto compagnia per un po’, per poi andarsene chissà dove. Ripensai ai suoi baci ed al suo corpo sodo e atletico sotto il mio. Certo che l’avevo disegnato bene… e per essere un personaggio che non esisteva, dovevo ammettere che ci sapeva fare a letto.

In breve tempo mi rivestii, e decisi di andare a cercarlo, quantomeno per dirgli che stavo per andarmene a casa mia.

Scesi nel salone principale, e lo chiamai.

- Dandy? –

Nessuna risposta.

- Dandy, ci sei? – ripetei.

Niente, sembrava non esserci.

- Buongiorno, Donatello. – mi salutò una voce. Io trasalii dalla sorpresa. Mi voltai, e dietro di me c’era un bel ragazzo dai lineamenti asiatici, alto quasi come me. Indossava un kimono rosso a pantaloni, e ai piedi un paio di infradito bianche.

- C.. ciao. – salutai. – Tu sei…? –

Lui sorrise. – Io sono Izumi, per servirti. Dandy mi ha detto di occuparmi di te finché non tornerà. Puoi chiedermi tutto quello che vuoi. – concluse, facendo un inchino. La cosa mi sorprese un po’, non essendo abituato a ricevere tanta attenzione da un ragazzo solo. Chissà cosa avrei potuto chiedere al bel ragazzo giapponese, che mi guardava con quegli occhietti da cerbiatto aspettando un mio cenno. Mi venne in mente che a me piacevano i ragazzi asiatici, ma adesso che avevo Dandy, non volevo usufruire di un altro ragazzo così facilmente.

- D… dov’è andato Dandy? – domandai.

- Questo non ha importanza, adesso. – rispose gentilmente ma in tono fermo Izumi.

- Se mi permetti – disse poi venendomi vicino – ti consiglierei di fare un bel bagno rilassante e poi potrei farti un massaggio. – concluse, passandomi una mano sulla spalla.

- Ehm, veramente… - attaccai io, titubante – veramente vorrei prima andare a casa mia ad avvisare il mio coinquilino e posare i bagagli che ho in auto. Sai, magari è in pensiero… non mi ha visto per una settimana intera, e poi … -

- Ci sarà tempo di avvisarlo – mi interruppe Izumi con un sorriso, e con gentilezza mi prese il braccio e mi trascinò con lui. Io mi lasciai trasportare un po’ controvoglia. Per un momento sospettai che lui ed il suo padrone Dandy volessero tenermi volutamente lontano da casa mia.

E non staresti sbagliando di molto, amico.

- Cos’hai detto? – domandai a Izumi. Lui si fermò e mi guardò con aria interrogativa.

- Io? Io non ho detto nulla. – disse il giapponese.

- Ah – tagliai corto io, facendo finta di niente – Non importa, credevo di aver sentito qualcuno che mi chiamava. –

Izumi mi sorrise e mi trascinò con ancor più convinzione – Sarai stanco. Lascia che io mi occupi di te, per un po’. Ti assicuro che non te ne pentirai. – concluse, con un occhiolino.

Io arrossii, e contemporaneamente mi sorsero parecchi interrogativi nella mia testa. Per esempio, dove fosse scomparso Dandy, perché non mi aveva salutato mentre usciva, se fosse d’accordo che io passassi del tempo con il suo “maggiordomo”.

Cercai di non pensarci, mentre Izumi mi conduceva verso le aree di rilassamento.

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Capitolo 24
*** Capitolo 23 ***


Il bell’Izumi ci provò più volte con me, ma io mi sottrassi a tutti i suoi tentativi di abbordaggio. D’accordo che per un ragazzo un po’ in sovrappeso e sfortunato nella vita sessuale come in quella sentimentale come me avere un ragazzo carino che vuole fare sesso con lui è come acqua nel deserto per un assetato, però c’erano sfere nella mia persona che non mi permettevano di essere libero come volevo, ad esempio quella in forza della quale se stavo frequentando qualcuno, non avevo interesse a fare nulla con nessun altro.

- Ma… ma sei sicuro che Dandy sia d’accordo…? – domandai io.

Rettificando di parecchio le parole che aveva detto prima, Izumi, sopra di me, mi carezzò l’addome morbido, sorridendo malizioso – Veramente non sarebbe proprio d’accordissimo, ma… tu mi piaci, sai? Mi piaci molto, Donatello… E anche se sei del mio padrone, vorrei provarti… - disse, leccandosi le labbra.

Io feci per svicolare, ma era veramente difficile, anche perché ero bloccato da Izumi, che nonostante l’apparenza esile, era muscoloso. Non mi era poi piaciuto come Izumi avesse detto voglio provarti. Ehi, ma con chi o cosa si credeva di avere a che fare?!? Con un giocattolo, forse?

Bruscamente, approfittando di un momento in cui una mano di Izumi era impegnata con i miei boxer, scivolai via da sotto il suo corpo, trascinandomi fino alla piscina. Lui mi guardò ma non disse nulla. Fu la luce nei suoi occhi a farmi un po’ impressione: mi guardava come una madre severa guarderebbe il figlio che ha appena combinato un grosso guaio. Più che guardarmi però, non spiccicò parola. Prese e se ne andò, come se non mi avesse nemmeno conosciuto prima.

Io mi guardai intorno e vidi che la casa era veramente silenziosa. A pensarci bene, anche mentre dormivo, di sopra, non avevo sentito Izumi che sfaccendava o altre presenze che avrebbero fatto supporre la presenza di personale stabile nel luogo. Dico, tenere in ordine quella specie di reggia sulle colline bolognesi doveva essere abbastanza laborioso, no?

Mi rivestii in fretta, se c’era una cosa che Dandy ancora non mi aveva dato erano degli abiti nuovi. Risi dentro di me al pensiero, pensando che forse nemmeno lui aveva dei vestiti adatti ad un grassone come me.

Piantala di dire che sei grasso. Poi non stupirti se la gente ti gira al largo. Sei tu il primo a sottovalutarti!

E dopo le risate, l’auto ammonizione. Una volta rivestito dei miei abiti, mi diressi verso l’uscita.

 

La mia piccola Audi era ancora lì dove l’avevo parcheggiata, tranquilla e paciosa in attesa del suo padroncino, ovvero io. Solo che questa volta era in un bel parcheggio, diverso dai soliti postacci in cui di solito alloggiava. Il parcheggio della villa di Dandy era molto ben curato, abbellito da piante esotiche dai colori sgargianti, e talmente verde da provocare gioia dell’occhio e addirittura da dare l’impressione di non essere in Italia bensì ad Hollywood. Tuttavia, la mia Audi grigia era troppo bella per sfigurare in mezzo a tanta grazia.

Aprii lo sportello e mi accomodai al posto di guida. Per abitudine, abbassai la sicura della mia portiera, chiudendo le altre quattro. Non ero mai stato un tipo tranquillo, e da quando da bambino avevo assistito alla scena di un’auto che svoltava e le si apriva lo sportello facendo cadere un ragazzino, in auto viaggiavo sempre con la sicura abbassata.

Infilai la chiave nel quadro di accensione, e quasi per un momento, mi aspettai che l’auto non si sarebbe messa in moto, forse perché qualcuno le aveva tagliato i fili dell’alimentazione. Invece, come girai la chiave, il motore diesel si accese ronfando tranquillamente.

Accesi i fari e ingranai la retro, e percorsi il breve tratto asfaltato che conduceva al cancello. Lì, c’era un altro ragazzo ad attendermi. Questi era un bel giovanottello di circa ventidue anni, con i capelli rossi e ricci e la pelle bianca come la luna, chiazzata qua e là da lentiggini. Tuttavia, era bellissimo e molto ben tenuto fisicamente. Anche con il buio, lui stava lucidando curando il giardino con attenzione, spruzzando del liquido che faceva brillare le foglie degli arbusti. Come vide la mia auto, si avvicinò al finestrino.

- Ciao, Donatello. – mi salutò, con un sorriso gentile. Era un’altra cosa che m’inquietava, il fatto che tutti questi conoscessero il mio nome, oltre al fatto che sembravano sbucare dal nulla come funghi.

- Ciao… ehm… - tentennai io.

- Thomas. – mi aiutò lui – Sono il giardiniere, qui. Lavoro fino a tardi, come puoi vedere. – condì la frase con un sorriso ammiccante. Eh sì, non c’era proprio dubbio. Dovevo essere finito nel set di un qualche telefilm americano made-in-Italy. Dallas, forse, oppure nella versione gay di Beautiful.

- Già, già. – tagliai corto io – Senti, potresti aprirmi questo cancello? – dissi, indicando con il mento il cancello che si stagliava di fronte a noi con tutta la sua maestosità in ferro battuto.

- Certo. – rispose lui sorridendo, con mia grande sorpesa. Mi aspettavo che mi avrebbe detto Badrone non Buole che zuo Ozpite ezca fuori a guesd’ora di nodde. Ma mi astenni dal pensare anche solo per un momento che potessi essere trattenuto lì contro la mia volontà.

Vidi Thomas che infilava una chiave in una serratura, la girava e faceva aprire il cancello. Questo si aprì silenzioso davanti ai miei occhi, lasciandomi campo per uscire.

- Ecco. Posso chiederti dove stai andando? – domandò Thomas, gentilmente.

- Vado a posare i miei bagagli a casa. E ad avvisare il mio amico Francesco, che vive con me. –

- Va bene – disse Thomas, annuendo. Dal suo viso era scomparsa ogni ombra di sorriso. – C’è altro? – mi domandò di nuovo, come fosse un segretario che prendeva ordini dal direttore generale.

- Beh, non saprei… - In realtà non sapevo cosa dire. – Ringrazia Dandy da parte mia per l’ospitalità, magari. Digli che tornerò a trovarlo. – buttai lì, ma non ne ero convinto nemmeno io.

Thomas annuì di nuovo, senza sorridere. – Come desideri. – disse, e salutandomi si avviò verso il giardino, scomparendo dietro una siepe.

- Che tipo. – dissi io, ingranando la marcia e scuotendo la testa. Uscii dal cancello e lasciai la villa, inoltrandomi nelle stradine collinari che portavano giù a Bologna.

 

Percorrendo le strade che portavano a Borgo Panigale, non trovai molta gente in giro. Se non avete mai visto Bologna d’estate, fatelo. È uno spettacolo a dir poco singolare: nessuno in giro, né la mattina né di sera, tanto che sembra di stare in una città abbandonata. Quella sensazione mi coccolò per un attimo, pensare che la mia bella e tranquilla Bologna si fosse liberata dal solito tran tran tranquillo di cittadini che intasavano le strade, ma fui assalito da un’altra sensazione, ovvero quella stessa che avevo provato mentre rientravo, che tutto fosse finto come un quadro.

Francesco mi riderà in faccia quando gli chiederò dove sono stato. Ma non m’importa. Gli dirò che ho battuto la testa e che ho avuto un’amnesia. Anzi no. Non gli dirò nulla, gli dirò soltanto di rispondere alle mie domande e farmi un po’ di luce nella memoria. Sperai vivamente che Francesco fosse in casa. Di solito a quell’ora preserale, si rilassava giocando alla playstation o facendo esercizi (avete capito come) con un altro ragazzo. In entrambi i casi, qualunque cosa fosse stato intento a fare, l’avrei interrotto e ci avrei fatto una chiacchierata. Ne avevo veramente bisogno.

Durante il tragitto, mi accorsi di non essere proprio solo. Nello specchietto retrovisore vidi un’auto, posizionatasi ad una distanza tale da non destare sospetti, ma che non sfuggì al mio senso di appassionato di automobili. Era una Opel Meriva con i vetri oscurati, tanto che non riuscivo a vedere chi c’era alla guida, anche a causa del buio. Me ne accorsi a metà viaggio, ma sulle prime battute non feci nulla per cercare di seminarla. Era lì, a distanza discreta, e non dava fastidio. Arrivando verso casa, mi accorsi che forse era meglio non far vedere dove abitavo.

C’era un semaforo soltanto prima di un incrocio dove svoltare a destra e percorrere una strada che portava al palazzo dove abitavo io. Più in là si andava verso un centro commerciale, e più in là ancora c’era la Via Emilia che portava a Modena e in tante altre città del Nord. Calcolando bene, pensai che avrei potuto seminarlo se invece di svoltare a destra avessi tirato dritto fino ad un certo punto, per poi spegnere i fari e ficcarmi in una stradina per lasciar passare la Meriva, e poi tornarmene indietro indisturbato.

Fermo al semaforo cruciale, buttai un’occhiata allo specchietto retrovisore sinistro. La Meriva era separata da me da altre quattro auto, posizionata dietro una Grande Punto blu ed una Smart. Io ero il primo della fila. Per smorzare un po’ la tensione, accesi il lettore CD. La musica dei Meganoidi iniziò a cantare dagli speakers.

 

*** Preso con l’ultimo invito di un progetto
Che si presenta nel nome della verità
You know, falling in illusion
Catturati nel sonno della nostra età
Un messaggio ripete che il mio posto è qui
Mostra tutti i vantaggi e le comodità
Rag-doll dimmi se ci sei anche tu
In un lago di sangue detto libertà… ***

 

Scattò il verde. Io ingranai la marcia e sollevai con calma il piede dalla frizione.

- E adesso vediamo se mi stai ancora incollato al culo. – mormorai io, accelerando bruscamente.

Raggiunsi la velocità di 80 chilometri orari, che era già troppo in un centro abitato, anche se semideserto come in quel periodo. Percorsi velocemente tutto il rettilineo che mi separava dal centro commerciale, di tanto in tanto buttando uno sguardo agli specchietti. La Meriva era ancora dietro, sebbene avesse appena sorpassato la Punto blu che le stava davanti ed ora si apprestava a fare lo stesso con la Smart. Non c’erano più dubbi. Quell’auto voleva me, ma io non volevo farmi prendere.

Clacsonai tre volte ad un pedone che si apprestava a passare fuori dalle strisce, intimandogli di non passare perché avevo fretta. Accelerai ancora, questa volta portando l’auto a novanta chilometri orari. In lontananza, si vedeva un altro semaforo, l’ultimo in zona Borgo Panigale, dove la strada rettilinea diventava Via Emilia. Stava anche diventando giallo.

- Adesso ti fotto, stronzo. – dissi, con un sorrisetto.

Il semaforo, da giallo diventò rosso. Anziché fare onore al codice della strada, accelerai a tavoletta e passai il semaforo proprio mentre le altre auto si stavano per muovere, con tanti saluti alla Meriva che invece era stata costretta a fermarsi. Immaginai la scena del guidatore misterioso che si mangiava le mani per non essere riuscito a prendermi, mentre il mio piede affondava sull’acceleratore.

- Ah-haaa!! Te l’ho fatta sotto il naso, eh? – risi di gusto. Camminai dritto per qualche chilometro, poi imboccai una corsia di decelerazione e uscii a Lavino di Mezzo. Da lì, tornai indietro fino a Borgo Panigale, senza altri inconvenienti.

 

Anche se avevo seminato il pedinatore, non mi sentivo tranquillo. Troppe emozioni in un giorno solo mi avevano causato questo effetto. Immaginai che la vita di un ragazzo carino potesse essere così, costellata di ragazzi che lo pedinavano e avventure d’ogni sorta, ma per me che ero sempre stato abituato ad una vita tranquilla e senza emozioni, era davvero troppo. Così, seguendo il mio istinto, parcheggiai la mia auto nel parcheggio condominiale, chiudendo velocemente il cancello elettrico.

Scaricai i bagagli guardandomi intorno con circospezione, ma fu una precauzione inutile. Ero praticamente solo. Nemmeno nel mio palazzo c’era più nessuno. Tutti in vacanza, tranne forse i signori Zavattini, moglie e marito anziani che vivevano due piani sotto il mio appartamento. Infatti la loro Panda gialla era ancora lì ferma, e la loro finestra era illuminata dalla luce fioca del televisore. Portando i bagagli a mano, raggiunsi il portone e sgattaiolai nell’ascensore, schiacciando forsennatamente il tasto “7”, fino a che le porte non si chiusero.

Arrivato di fronte alla porta del mio appartamento, sussurrai un casa, dolce casa. Infilai la chiave nella toppa e girai, aprendo la porta.

- Francesco? – chiamai. Nessuna risposta. Entrai nell’ingresso, che odorava di chiuso. Subito mi venne il sangue alla testa. Gli avrò detto mille volte di aprire un po’ le finestre per far cambiare l’aria, ma è più sordo di una campana, quell’idiota… pensai, mentre mi avviavo verso la sua stanza. Come c’era da aspettarsi, era chiusa. Bussai.

Nessuna risposta.

- Francesco, sono io. Ci sei? – attesi altri tre secondi, poi aprii la porta. Francesco non era lì. In compenso, il suo letto era fatto e la sua scrivania era pulita. Sopra il piano, che di solito era polveroso, spiccava un foglietto, posato sulla tastiera del suo portatile. Incuriosito, andai a vedere. Era una stampa fatta dal sito di Trenitalia, che indicava orari di partenza e treni per raggiungere Pavia.

- Pavia? – mormorai – Cos’è, Francesco si è stancato di giocare a “piglialo e dallo” con i bolognesi? Adesso va a farsi i pavesi? Forse ha scoperto che i bolognesi fanno ingrassare ed ha deciso di cominciare una dieta a base di Pavesini. – Risi di gusto a quella mia battuta, tanto che mi vennero le lacrime agli occhi.

- Non riderei tanto se fossi in te. – disse una voce alle mie spalle. Trasalii impaurito, mi tremarono le gambe. Quasi non caddi contro la scrivania di Francesco, mentre mi voltavo per vedere chi era stato a parlare. Mi affacciai alla porta, che dava sul corridoio.

Il figuro intabarrato con l’impermeabile nero mi scrutava dal fondo del corridoio, vicino alla porta e poco lontano dalla porta della mia stanza da letto. Le mani in tasca, se ne stava nell’ombra nella sua mise inquietante, come un’apparizione spettrale. Ebbi paura. Tanta paura, ma cercai di mantenermi freddo.

- Chi… chi sei tu? E cosa ci fai a casa mia? – domandai, cercando di dare un’impronta più severa che potei alla mia voce che tremava.

- Non importa chi o cosa sono. Ti basti solo sapere che non sono un tuo nemico. Adesso importa solo che tu devi svegliarti. – disse, secco. Poi aggiunse - Scappare. –

Incredulo, lo fissai.

- Ma di che cosa vai farneticando? Sono già sveglio, e da chi o cosa dovrei scappare?!? – risposi. Lui si avvicinò lentamente, da quella sua posizione nell’ombra.

- Stammi a sentire – attaccò lui, ma non ebbe il tempo di dire ciò che voleva dirmi.

Improvvisamente, la porta del mio appartamento si aprì con uno scatto secco, sfondata con un solo calcio da un energumeno. Il figuro intabarrato si girò di scatto, mentre l’energumeno lo sorprendeva da dietro. Entrarono altri due ragazzi, che cercarono di immobilizzarlo. Lui schizzò nella mia direzione, scansandomi improvvisamente e facendomi finire in bagno, dove atterrai col sedere sul pavimento.

- Ahia! – gemetti, mentre i due energumeni seguivano il figuro. Sentii rumori di colluttazione e una finestra che si rompeva.

- E’ scappato dalla finestra! – urlò uno di questi due, ripercorrendo il corridoio. – Andiamo a prenderlo fuori! – esclamarono insieme, e sotto i miei occhi attoniti, percorsero il corridoio verso l’uscita dal mio appartamento. Sembrava di stare in un film, nella scena dove i buoni (o i cattivi? Pensai) fanno irruzione in una casa per prendere di sorpresa una preda, e dove c’è un individuo che è del tutto estraneo alla situazione. Ebbene, in quel momento l’individuo estraneo ero io.

Feci per rialzarmi, quando all’improvviso, sulla soglia comparve Dandy. Il suo volto era terrorizzato ma allo stesso tempo dolce. Mi venne vicino frettolosamente, ed io fui travolto dal suo profumo maschile.

- Donatello. Amore, cosa ti hanno fatto? –

Mi rialzai, avvertendo un leggero dolore ai lombi. La botta che avevo preso era stata forte, se poi si contava anche il mio peso, era comprensibile che sentissi male.

- Ahio – gemetti di nuovo. – Quel tizio… l’ho già visto. –

Scuotendo la testa, Dandy mi guardò con quei suoi occhi azzurri. – Vuoi spiegarmi che cosa sta succedendo? – mi domandò, con la voce più candida del mondo. Eppure sentivo che c’era qualcosa di falso, nel modo in cui me l’aveva posta.

- Ne so meno di te. – dissi, uscendo dal bagno e massaggiandomi la schiena. Mi appoggiai allo stipite, e Dandy fu lesto a prendermi il braccio ed accompagnarmi all’uscita.

- Chi sono quei due che hanno sfondato la mia porta? –

- Amici. – disse lui, tagliando corto. – Che cosa eri venuto a fare qui? – domandò Dandy, come se non fossi nemmeno libero di andare a casa mia.

- Ero venuto a posare i bagagli. – risposi, che era poi la verità. Tranne per il fatto che ora i bagagli giacevano scomposti in fondo al corridoio, sbalzati via dall’impeto con cui la porta era stata sfondata da quei due bisonti. – Cos’è, adesso non sono più libero di rientrare a casa mia? – dissi a Dandy.

- Certo che sei libero, amore. Ma… - incominciò, salvo poi bloccarsi.

- “Ma” cosa, Dandy? – mi voltai, e lo guardai. Lui non disse nulla, i suoi occhi azzurri erano fissi nei miei. La sensazione che ci fosse qualcosa di strano aumentò esponenzialmente, complice il silenzio tra noi.

- Niente. – rispose lui, secco. – Torniamo a casa mia. Qui non sei sicuro. –

- Aspetta. Almeno chiamiamo i carabinieri, no? Quel tipo lì è entrato in casa mia senza il mio permesso, ha sfondato addirittura un vetro, poi i tuoi due “amici” hanno sfondato la porta! Come credi che io possa … -

Lui si avvicinò a me, tese una mano e mi carezzò i capelli. Piuttosto scosso, io mi ritrassi, guardandolo negli occhi impaurito.

- Non avere paura di me. Io ti sono amico, lo sai. – disse, sorridendo. In un certo senso, quando mi sorrideva le mie difese psicologiche iniziavano a cedere. Io stesso l’avevo creato così, e non essendoci al momento nessuno di cui mi potessi fidare (ripensai a Francesco, che chissà dove se n’era andato senza avvisarmi per telefono), decisi di affidarmi a lui.

- Vieni… cucciolone. – disse Dandy, tendendomi le braccia e abbracciandomi dolcemente. Io chiusi gli occhi, aspirando il suo profumo. Lui mi baciò le labbra, dapprima dolcemente, poi sempre con più passione, tanto che avrei voluto poter restare lì in casa mia con lui. Abbassai le mie mani verso il suo sedere, eccitato e preoccupato al tempo stesso.

Lui passò a baciarmi il collo, dolcemente. E fu lì che mi sentii pungere.

- Ahi! – dissi. – Qualcosa mi ha punto! – ebbi solo il tempo di dire, prima che la mia vista si annebbiasse. Dandy era lì che mi baciava il collo, anche se fermo come un manichino. La testa incominciò a girarmi, e ad un certo punto volli andare in camera mia a rilassarmi. Tentai di sottrarmi a Dandy, ma lui mi tenne stretto a sé con le sue forti braccia.

- D… Dandy… ho… sonno…….. – mugugnai, mentre la mia vista si annebbiava ancora di più. – Voglio… andare……. A letto…. – dissi.

Sentii lui che mi parlava all’orecchio. – Tra poco, amore mio. Tra poco. – era lì che mi stringeva, ma la sua voce mi giunse come se lui fosse stato distante chilometri da me.

- V… voglio… voglio fare… sesso. – dichiarai, in un totale stato d’incoscienza. Le gambe già non mi reggevano più, tanto che m’inginocchiai a terra. La cosa che mi stupii fu che Dandy mi lasciò andare. Posai la testa sulle ginocchia di Dandy, che mi accarezzò dolcemente i capelli.

- Tra poco. – ripeté Dandy, sempre da lontanissimo. – Tra poco faremo tutto quello che vorrai. – concluse poi. Quelle furono le ultime parole che udii, prima di perdere i sensi del tutto e crollare ai suoi piedi. L’ultima cosa che vidi furono le sue scarpe All Stars che scavalcavano il mio corpo, mentre lui se ne andava.

 

 

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Capitolo 25
*** Capitolo 24 ***


Mi risvegliai la mattina dopo, placidamente disteso su un posto che già conoscevo: il letto matrimoniale di Dandy.

Mugugnai per il dolore al sedere, che non era ancora passato… mi accomodai a sedere, avvertendo una pesantezza alla testa come quella che si provava dopo una notte passata ad ubriacarsi. Sentii canticchiare nel bagno adiacente.

- Dandy…? – chiamai. – Dandy? – ripetei.

- Sono qui, tesoro – mi rispose lui dal bagno. – Ti sei svegliato, finalmente. –

Roteai gli occhi. Oltre alla sensazione di ubriachezza, avvertii anche un altro vuoto di memoria. Che giorno era? Che ore erano? La mia testa era un casino totale, ma al tempo stesso era un nirvana: non riuscivo a pensare a nulla. Nel frattempo, lui comparve dalla porta del bagno, vestito anche lui di un kimono, forse dello stesso tipo che possedeva Izumi. Mi sorrise.

- Ti piaccio, così? – mi domandò. Io ero praticamente frastornato, ma conservavo ancora lievissimi ricordi di qualcosa che era successo nelle ore precedenti.

- Che cosa è… successo? – gli chiesi. Lui si limitò ad alzare le spalle.

- Allora? Come mi sta? – girò su se stesso, mostrandomi quanto fosse sensuale e carino anche con un abito orientale.

Leggermente alterato, lo incalzai a rispondere – Non cambiare discorso! Ti ho chiesto cos’è successo! – mi venne da alzare la voce, ma un improvvisa emicrania mi costrinse ad abbassarla di colpo, quindi gli ultimi suoni della domanda vennero fuori un po’ sottotono. Come se nulla fosse successo, Dandy si sedette sul letto, dalla parte opposta alla mia, a gambe incrociate. Mi fissava attentamente, senza proferire parola.

- Allora? – lo incalzai nuovamente.

Con molta calma, Dandy rispose – Non c’è bisogno che ti scaldi tanto. Non è successo niente, hai soltanto battuto la testa mentre ti tuffavi dalla mia piscina. –

- Stronzate! – esclama io, ricordando un figuro intabarrato che mi parlava, e mi diceva di svegliarmi e scappare, anche se non ricordavo bene dove né quando l’avevo visto.

Placidamente, Dandy distese le gambe, facendo arrivare i suoi piedi ai miei fianchi. Continuò a squadrarmi attentamente, mentre io sentivo di voler scendere da quel letto, prendere e andarmene da quella casa maledetta.

- Rilassati, amore – disse lui per calmarmi. Io ero furente.

- Rilassarmi? Cristo, tu non mi stai a sentire! Come faccio a rilassarmi con questa sensazione di… E poi non chiamarmi amore! Io non sono il tuo…-

- Ieri sera hai bevuto troppo, alla festa che ho dato. C’erano molti miei amici, e ti ho presentato a loro come il mio ragazzo. – sorrise. Non dimenticavo che lui era soltanto un mio personaggio, un personaggio che io avevo inventato in un momento di sconforto. Tuttavia ero inquieto. La sua scusa che avevo alzato un po’ troppo il gomito avrebbe anche potuto reggere, se non ci fosse stato quel piccolo, infimo lume di lucidità che ancora viveva nel mio intelletto e mi faceva subodorare molte, troppe stranezze. Se ero ubriaco, allora perché lui era ancora lì a farmi da crocerossina? Perché non mi lasciava andare a casa, in nome di Dio?!

- Francesco. – dissi – Voglio telefonargli. – feci per alzarmi, ma Dandy mi bloccò mettendomi un piede sull’inguine.

- Stai giù. Cadresti come una pera matura. Hai bevuto più di una spugna, ieri sera, non voglio che ti accada altro. – disse, in tono gentile ma fermo.

In pochi secondi, la mia rabbia si trasformò in frustrazione. – Voglio… voglio andare… a casa … - sospirai, sull’orlo di piangere. Mi trattenni, ma solo perché non volevo che un bel ragazzo come Dandy mi vedesse piangere. Lui sorrise amorevole, ed incominciò a strusciarmi il piede sull’inguine. Anche se io ero completamente rimbambito, il mio mostriciattolo in mezzo alle gambe sembrava non aver riportato danni. Guizzò sull’attenti a quel contatto da me non ricercato, e questo fece molto piacere a Dandy, che continuò a stuzzicarlo.

- Ne sei proprio sicuro…? – domandò, continuando con quel giochetto. – A me non sembra. – disse, secco, guardandomi con desiderio.

- Smettila – dissi io, e Dandy si bloccò. Ritirò le sue gambe, e ritornò a guardarmi.

- Cucciolo… che c’è? Non hai più voglia di…? –

- No! Non è il momento! Voglio andare a casa, voglio chiamare Francesco, voglio… -

Non ebbi il tempo di finire la frase, che Dandy strisciò sopra di me e mi baciò con passione. Che cos’avrei potuto fare? Era evidente che non voleva lasciarmi andare. Allora decisi che non potevo fare altro che aspettare.

E aspettai.

Lo coccolai a mia volta, per dargli l’impressione di essermi calmato. Anche se non ce n’era veramente bisogno, dato il torpore che provavo.

L’uomo con l’impermeabile.

Ecco chi dovevo aspettare.

 

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Capitolo 26
*** Capitolo 25 ***


A quel punto, non c’erano più dubbi. Dandy non voleva lasciarmi andare. In un certo senso, ero diventato suo prigioniero. Sospirai sconsolato, mentre nel bagno mi sciacquavo il viso. Mi guardai nello specchio.

Il mio viso era sempre a posto, pienotto e gonfio come sempre, ma nei miei occhi c’era rassegnazione, paura, incertezza generalizzata. Non sapevo cosa fare, come comportarmi di fronte a questa situazione contingente. Avrei potuto scappare, sì… ma non credo che Dandy ed i suoi scagnozzi mi avrebbero lasciato libero di andare. E poi eravamo confinati sui colli bolognesi, ed ero più che sicuro che la mia auto era rimasta lì nel parcheggio del mio condominio, magari a farsi una chiacchierata con la Panda dei signori Zavattini, mentre io ne avevo bisogno per scappare. Mi venne da ridere al pensiero che le due auto potessero avere difficoltà di lingua, in quanto una era tedesca e l’altra italiana. E risi. Prima fu un riso leggero, intervallato da singhiozzi, poi andò avanti in crescendo, trasformandosi in un riso isterico, forte e schiamazzato. Risi tanto da farmi venire le lacrime agli occhi, e per una stupidata come quella! Neanche su quello c’erano dubbi: stavo impazzendo.

 

Prima, nel pomeriggio, Dandy mi aveva annunciato che ci sarebbe stata un’altra festa quella sera.

- Voglio andare a casa… - avevo risposto io.

- Uh, quanto sei noioso! Ti dirò una cosa. Tu sei già a casa. – disse lui, mentre si preparava all’evento mettendosi un bellissimo vestito di gala di colore bianco panna.

Io alzai un sopracciglio perplesso, e assunsi nuovamente un’espressione sconsolata. Mi voltai e feci per andarmene, quando lui mi fermò.

- Donatello. – mi chiamò.

Io mi voltai, e vidi la sua e la mia immagine riflesse nello specchio dove lui si stava guardando. – Sì? –

- Quante delusioni hai avuto nella vita? – mi domandò, sistemandosi il cravattino con una maestria che non gli avrei mai attribuito.

La domanda era un po’ strana e fuori luogo, ma risposi ugualmente. – Più di una decina, da che sono entrato nel mondo gay. Se poi vogliamo contare anche quelle del mondo etero, si arriva ad una bella cifra… -

Lui finì di sistemarsi il cravattino e si voltò. Lentamente, venne avanti. Io ero lì fermo, incapace di muovermi o di fare qualsiasi cosa. Lui mi prese il braccio, e gentilmente mi mise a sedere su quel letto matrimoniale dove già due volte mi ero risvegliato, e dove una volta avevamo fatto l’amore.

Mi guardò negli occhi, e mi prese le mani nelle sue. Erano morbide e curate, ed iniziò ad accarezzarmi. - Ascoltami, Donatello. – disse lui, con un tono amorevole da madre comprensiva – Quello che c’è là fuori, è soltanto brutto. Il mondo ti ha trattato male, per tutto questo tempo, e tu hai sfogato i tuoi dolori con il disegno. Ciò ti ha aiutato moltissimo, e sei stato veramente bravo a creare tutti noi. Ma adesso noi siamo in debito con te.

- Sappiamo che l’unica cosa che vuoi è smettere di soffrire. – concluse Dandy, e questo mi fece trasalire. Vedendo la mia reazione, Dandy mandò una risatina dolce. – Ma no, stupido. Non in quel senso. Smetterai di soffrire soltanto se starai qui con noi. Con me, con Izumi, con Thomas… e con tanti altri che ancora non hai conosciuto, ma che conoscerai al party di stasera. –

A quelle parole, io mi zittii. Come sempre, quando ci troviamo di fronte a parole così importanti, non sappiamo cosa dire o come reagire. Io mi limitai a pensare a tutti i miei affetti, ad Ermanno, a Francesco, ai miei genitori… e a tutto ciò che avevo lasciato lì, in quella città che forse non mi aveva voluto veramente bene, ma che mi aveva lasciato tanto a cui badare.

Come leggendomi nel pensiero, Dandy mi disse – Tu vuoi veramente tornare da tuo fratello, che ti ha ripudiato solo perché ti piacciono i ragazzi…? – disse, e questo mi fece trasalire ancor di più.

- Che vuoi dire esattamente? – gli domandai, con gli occhi fuori dalle orbite per lo stupore.

- Quando ci siamo incontrati – incominciò Dandy – Tu stavi tornando da Milano. Tuo fratello ti aveva appena ripudiato perché ha scoperto che ti piacciono i ragazzi. Non so nemmeno io come abbia fatto, ma credo che c’entri qualcosa con la sua storiella passeggera con quella ragazza bionda… Marika, mi pare che si chiami. – Improvvisamente, tutto mi fu più chiaro.

- Poi hai avuto quel mezzo incidente stradale, da dove ne sei uscito illeso. Tuttavia lo shock è stato grande, per cui ti sei addirittura dimenticato da dove provenivi, su quell’autostrada. Ecco in soldoni cos’è successo. – concluse Dandy. Io stavo per sentirmi male. Tuttavia, Dandy continuò con il suo discorso.

- E adesso Donatello, dimmi… Vuoi veramente tornare dal tuo coinquilino Francesco, che ogni volta che si porta un ragazzo a casa ti fa diventare verde d’invidia…? Vuoi veramente tornare dai tuoi genitori, così occupati a preoccuparsi di risparmiare sulle bollette e che non ti hanno mai parlato, nemmeno quando ne avevi bisogno…? – concluse. I suoi occhi azzurri mi guardarono con attenzione. Erano severi e dolci, scrutatori ed espressivi, amorevoli e cattivi, tutto allo stesso tempo. Occhi che avrebbero ammaliato chiunque, me compreso. – Lo vuoi veramente…? – ripeté Dandy, continuando ad accarezzarmi le mani.

Io lo guardai negli occhi, e non sapendo cosa dire, incominciai a piangere. Non ce la facevo più, ero distrutto. E quelle erano lacrime serbate da troppo tempo. Invece di fermarsi, lui continuò.

- Vuoi veramente tornare ad una vita fatta di ozio, rancore e malinconia, dove la giornata più bella per te significa trovare su uno di quegli squallidi portali che frequenti, un messaggio insignificante da parte di un ragazzino cretino che non sa cosa vuole ma sa benissimo dove lo vuole? – qui era chiara l’allusione sessuale, ma non servì a farmi ridere, anzi mi provocò ancora di più l’accesso di pianto che stavo avendo.

Dandy si alzò in piedi, ed io osservai come i suoi capelli biondi, che formavano un insieme di punte perfette, lo facessero sembrare ancora più alto di quanto già fosse. – E dimmi, Donatello… Vuoi veramente tornare in quel mondo che consideri la tua vita, fatto di dispiacere e mestizia, di poche, pochissime, anzi nessune gioie, che tu tanto cerchi ma che non arrivano mai? – iniziò a girare attorno, mentre io scuotevo la testa e piangevo di più.

- E rispondi a questo, Donatello… vuoi veramente tornare là, dove non ti basta una vita per raccogliere e mettere insieme i cocci del tuo cuore dopo che un idiota te l’ha spezzato, senza una ragione precisa, ma solo perché ha deciso che sei troppo grosso per i suoi gusti ma perché in realtà è lui a non sapere cosa vuole? – alzò la voce, guardando intensamente con quegli occhi azzurri, nei miei occhi gonfi di lacrime - vuoi veramente tutto questo?!? –

- N… no … - biascicai io, singhiozzante e definitivamente minato in quella piccola, fragile parte di me che fino a quel momento era stata soltanto danneggiata da attacchi blandi di delusioni amorose… quella parte che dentro di me prendeva il nome di volontà. E piansi, piansi più forte, latrando come un cane sciancato, mentre Dandy mi veniva vicino e s’inginocchiava di fronte a me.

Di nuovo, mi prese le mani nelle sue, come un uomo che dichiara il suo amore ad una donna e le chiede di sposarla per la prima volta. Io mi accasciai accanto a lui, che mi prese e mi abbracciò.

- Shh… - mi sussurrò all’orecchio, carezzandomi i capelli – Questa sera ci sarà la festa, poi ce ne andremo da questa Italia malata e dalle sue molte, troppe contraddizioni. Andremo a vivere ovunque… il mondo sarà la nostra casa, e non soltanto questo. Mondi infiniti e sconosciuti, dove non esiste il dolore, ma c’è soltanto gioia e dolcezza. E tu rimarrai al mio fianco. Al mio fianco e con tutti i nostri amici. – concluse. Ci fu un minuto di silenzio in cui Dandy mi coccolò, mentre io mi ero calmato. Le mie guance erano ancora solcate da lacrime calde, e Dandy se ne accorse. Dolcemente, prese a baciarmi le guance umide, asciugandomi le lacrime. Io chiusi gli occhi, lasciandolo fare… mi sentivo distrutto, ma allo stesso tempo sapevo che Dandy era venuto al mondo per una sola ragione: salvarmi. Annusai il suo dolce profumo maschile. Un profumo che avevo sentito addosso a molti di quei ragazzi che avevo incontrato, a volte solo come una traccia, altre perché li avevo baciati sul collo. E lo aspirai a fondo, perdendomi nei ricordi, mentre Dandy mi cullava. Ben presto, anche la mia vita di prima sarebbe stata soltanto un ricordo.

- Un brutto ricordo che cancelleremo assieme, amore mio… - disse Dandy, continuando a baciarmi le guance, fino a baciarmi poi le labbra. Di nuovo mi guardò negli occhi, dolce come mai prima di allora.

- Io ti amo. Tu mi hai creato, ed io ho il complesso di Elettra. Sì, sono innamorato di mio “padre”, che sei tu. Anche se abbiamo la stessa età. – mi sorrise dolcemente, baciandomi ancora le labbra.

- Ed… ed io… Io amo te, Dandy. – risposi, balbettando un po’ a causa del pianto. Lui mi sorrise.

- Vai a sciacquarti il viso. Gli ospiti stanno per arrivare. – Io annuii, e ci alzammo entrambi dal pavimento foderato di moquette. Io diretto verso il bagno, Dandy diretto verso il salone.

- Che la festa cominci – dichiarò Dandy, in tono quasi trionfale. vuoi veramentevvvvvvvvvvvv

 

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Capitolo 27
*** Capitolo 26 ***


Altro che aspettare l’uomo con l’impermeabile. Dopo il discorsetto di Dandy, ero persuaso, se non del tutto deciso, a rimanere lì con lui ed abbandonare l’Italia, come mi aveva promesso. Qualunque cosa fosse ciò che stavo vivendo, era sicuramente meglio della vita che facevo prima, se ci si abituava a non pensare più a genitori, fratello, amici e incombenze varie. Sì, si sarebbe trattato soltanto di abituarmi all’idea che da quella sera in poi, avrei fatto parte per sempre della vita di Dandy. Sarei scomparso dalla vista della mia famiglia per sempre, Ermanno (che secondo le parole di Dandy mi aveva ripudiato perché ero gay) si sarebbe occupato dell’affitto di Francesco, sempre che quest’ultimo non si fosse deciso ad andare a cercarsi un altro appartamento, ed i genitori avrebbero pianto una scomparsa.

A tutto questo pensavo, mentre mi aggiravo tra gli invitati alla festa: contrariamente alle mie aspettative, non erano tutti maschi. C’era anche qualche ragazza, a detta di Dandy erano le sue segretarie (e lì mi balenò nella mente il dubbio che Dandy fosse bisessuale, non soltanto gay) ed amministratrici del patrimonio (quale patrimonio? Non avevo mai venduto un albo a nessuno, erano tutti di produzione privata, e mai avevo accennato al fatto che Dandy fosse un riccone, ma solo un ragazzo dolce che passava un sacco di avventure). Di solito le feste mi mettevano malinconia. Avevo persino smesso di accettare gli inviti di Francesco ad accompagnarlo in discoteca, perché sapevo benissimo che tutti quei bei ragazzi non mi avrebbero mai calcolato, a causa del mio aspetto troppo ordinario. Invece qui… qui insieme a Dandy era tutto diverso. I ragazzi mi parlavano, mi ascoltavano… dicevano cose sensate. Non mi guardavano con disprezzo come facevano i ragazzi in discoteca della mia vita precedente, ma con un’aria di sincera felicità, forse riconoscendo in me il loro creatore, colui che li aveva portati alla vita dalle nebbie dell’idea, aveva conferito loro un volto ed un corpo, continuando laddove la fantasia si era fermata.

Quanto mi sarebbe costato, in termini di tempo, dimenticare famiglia e affetti? E quanto, questi miei personaggi, avrebbero saputo compensare la loro mancanza? Continuavo a chiedermelo, e queste domande mi stringevano lo stomaco, nonostante avessi consumato tonnellate di tartine solo perché i ragazzi me le offrivano, e ammiravano divertiti come io le gustassi con piacere.

Sì, forse il mio posto era lì, in mezzo ai miei amici di carta.

Non altrove.

 

- Donatello! Donatello! – mi chiamò un altro gruppetto di ragazzi – Vieni a fare una foto con noi? –

Erano tutti bellissimi, senza la minima imperfezione. Ed erano gentili, come forse li avevo sempre e solo visti nei miei sogni. Ragazzi così carini ed affabili allo stesso tempo, nella realtà non esistevano. Mi avvicinai a loro, con la mia flϋte di champagne in mano, e mi misi in mezzo al gruppo di quattro. Loro erano bellissimi, ma io mi vedevo il goffo grassone di sempre, anche se vestito di un costosissimo smoking da sera con cravattino bianco.

Uno di questi, quasi leggendomi nel pensiero, mi disse – Donatello, se vuoi potremmo andare a fare jogging ogni tanto, sai? In due viene meglio. – condì la frase con una strizzata d’occhio finale. Il suo ciuffo moro si mosse, facendo scintillare i suoi occhi gialli.

- Volentieri, grazie, Will. – ringraziai, aggiungendo che mi avrebbe trovato sempre qui d’ora in poi. A casa di Dandy. Lui ringraziò e se ne andò.

Poco dopo mi avvicinai ad un altro ragazzo che sembrava lì solo, per offrirgli un po’ di champagne. Lui accettò di buon grado, e per ricambiare, mi invitò a ballare con lui al prossimo ballo.

Guardai Dandy. Lui era lì che parlava con altri ragazzi, compresi quelli con cui avevo fatto la foto poco prima. Era bellissimo, e chissà per quanti irraggiungibile.

Ed era il mio ragazzo.

 

L’orchestrina suonò un minuetto di quelli che si usavano alla corte di Luigi XVI, il classico minuetto francese che tanto era apprezzato nell’alta società. Danzai con il ragazzo sconosciuto per un tempo indefinito, scambiando con lui sorrisi e parole, raccontandogli di quanto la mia vita di prima fosse sconvolgente, di quanta invidia mi faceva il mio amico Francesco, di quanti esami avevo da fare prima di laurearmi. Discorsi in libertà, che forse prima mi erano preclusi, ora fluivano dalla mia bocca liberamente, con la certezza di venire ascoltato e capito. Il ragazzo ad un certo punto mi disse – Chiamami Alvin. Il mio nome è questo. – disse, dolcemente.

Io gli sorrisi, e lo esortai a parlare un po’.

Venne fuori che Alvin conosceva Dandy da un sacco di tempo, che avevano studiato insieme all’università e diviso un sacco di gioie e dolori… Si autodefinì il suo migliore amico di sempre, forse perché il più vecchio. Guardandolo, mi sembrò che anche lui fosse uno che avevo già visto da qualche parte, nella mia vita precedente.

- Siamo tutti personaggi creati da te – disse Alvin, quasi leggendomi nel pensiero – ci hai creati prendendo spunto da molti ragazzi della tua vita precedente, per questo ti sembra di conoscermi già. L’unica differenza è che noi non ci potremmo mai comportare male con te. Tu sei come nostro padre, ed un figlio che si ribella al proprio padre non è degno di essere un figlio. – concluse con un sorriso.

Già… io sono loro padre. Pensai con un sorriso amaro. Questa è la mia famiglia. Questa, e nessun’altra.

Finito il minuetto, io ed Alvin ci fermammo, scambiandoci un inchino (sembrava quasi che il ragazzo intuisse ciò che io volevo fare) e ringraziandoci l’uno con l’altro per il ballo. Intanto, sul palcoscenico, Dandy fece la sua entrata in scena. Il suo smoking bianco, alla luce della luna, lo rendeva molto affascinante, tanto che sembrava brillare di luce propria. Gentilmente, prese un microfono dal palcoscenico, e senza nemmeno bisogno di richiamare su di sé l’attenzione, tutti gli invitati alla festa si voltarono.

- Ciao a tutti, amici – disse Dandy, tenendo il microfono come una rockstar. Si vedeva che lo faceva per mera coreografia, ma ugualmente aveva un che di affascinante. - …vi ho invitati qui anche stasera perché queste serate d’estate sono veramente noiose e calde. – questa frase provocò l’ilarità generale di tutti. Me compreso, che me ne stavo lì a braccia incrociate. Accanto a me c’era sempre Alvin.

Rise anche Dandy, ma si calmò subito - Scherzi a parte, vi ho invitati qui questa sera perché è bello sapere che un ragazzo può contare su tanti amici. Ed io sono veramente felice di avere voi, ragazzi… -

- Grande Dandy!!! – disse un ragazzo con i capelli blu, pieno di piercing.

- Amore, sei stupendo!!! – questa era una voce femminile, a cui Dandy rispose con un occhiolino.

Ci fu un applauso, che Dandy prese come se niente fosse, tranquillamente, sorridendo e inchinandosi. Dopo pochi secondi riprese la parola.

- Inoltre a questo, volevo anche dirvi (ma sicuramente lo saprete già) che stasera è presente qui con noi la persona che io amo forse più di tutti. – Allungò il collo per cercare di scorgere qualcuno, finché non lo vide. – Donatello. – chiamò il mio nome, e con la mano mi fece segno di raggiungerlo.

Tutti applaudirono, e quelli che mi erano davanti mi lasciarono passare, formando una specie di sentiero. Mi sentii come il Papa in visita in una città nuova, con tutti i fedeli che lo salutavano e volevano stringergli la mano. Io sorrisi a tutti, fui accarezzato, fui addirittura baciato (mi domandai se Dandy l’avesse presa bene, o se mi sarei dovuto sorbire una ramanzina più tardi), da un bellissimo ragazzo con i capelli verdi, un visino bellissimo che indossava soltanto un gilet ed un paio di pantaloni bianchi, ed ai piedi un paio di infradito nere. Mi fece l’occhiolino, ed io non seppi cosa fare, se non tirare avanti per raggiungere Dandy fino al palco.

- Krys, lascialo stare, lui è mio! – rimbrottò scherzosamente Dandy dal palco. Il ragazzo con i capelli verdi, Krys, gli rispose per le rime – Sarà anche tuo, però la sua bellezza e bontà dovrebbero essere di dominio pubblico! – e tutti applaudirono di nuovo. Diversamente, io mi sentivo imbarazzato e contento allo stesso tempo.

Rosso come un peperone, raggiunsi il palcoscenico, salutando tutti con dei cenni del capo, e alzando brevemente la mano destra.

- Donatello! – mi richiamò all’ordine Dandy – Ma cos’è quest’aria dimessa, da Ragionier Fantozzi? Coraggio! Apriti un po’, mostrati per come sei… non vedi che tutti questi bei ragazzi ti vogliono bene? – non sapevo cosa dire. Dandy cercò di incalzarmi prendendomi sottobraccio. In mezzo a noi, c’era solo il microfono che lui teneva nella mano destra.

- Che cosa c’è, amore? – sussurrò. – Non sei contento di essere qui? –

Io feci un sorriso. Ero rosso come un peperone. – S… sì. Sono contento. – dissi – E sono contento di … di sapere che… - non ero mai stato bravo a parlare quanto ero bravo nel disegno - …che c’è gente che mi consideri come una persona stimabile, addirittura da amare. Davvero, non … non mi era mai capitato prima d’ora. – Sentendo che mi stavo un po’ sciogliendo, Dandy mi porse il microfono, ed i suoi occhi azzurri mi dicevano Vai avanti, tesoro, ce la puoi fare.

Con il microfono in mano, iniziai a dire tutto ciò che mi passava per la testa in quel momento.

- Sapete, io… io ho sempre pensato che un ragazzo, per essere felice, ha bisogno di tre cose: serenità, stabilità, sicurezza. Io l’ho sempre chiamata la regola delle “Tre Esse”, ma non l’ho mai messa in pratica. Vedete, io sono un tipo terribilmente insicuro, troppo instabile mentalmente, e di certo non sono sereno per come la vita mi scodelli su percorsi che talvolta sono difficili da percorrere. – feci una pausa, grattandomi la testa.

- Non ho mai pensato che la vita fosse facile, ma nemmeno che sarebbe stata così crudele nei miei confronti. Guardatemi, non sono un adone, ho qualche chilo di troppo e questo basta a far scappare tutti quanti… -

- Hoo! Sei bellissimo, Donatello!!!- disse Krys, il ragazzo che mi aveva baciato.

- Uno schianto!- la voce di un ragazzo palestrato con un ciuffo stile emo che faceva impazzire.

- Ma chi sono questi coglioni che non ti vogliono? Dai, facceli conoscere che li legniamo per bene! Mi ti farei subito senza aspettare! – disse un ragazzetto con i capelli rosso fuoco.

Io arrossii ancora di più. Lanciai un’occhiata a Dandy, che scuoteva la testa, sorridendo divertito.

- Ehm, ecco… grazie per apprezzarmi, ragazzi. Siete tutti bellissimi anche voi. E gentili, soprattutto… Ecco, io volevo dire che… Che ne ho passate di tutti i colori, ragazzi. Voi non sapete cosa sia la vita di un ragazzo gay un po’ sovrappeso – dissi, iniziando a gesticolare come un politicante. – Voi non sapete nemmeno cosa significhi dover fronteggiare persone che non ti rispondono solo perché hai qualche chilo di troppo, o che ti evitano, o che ti mollano, perché non sanno bene cosa vogliono. Tu ti alzi ogni mattina, ti vesti, fai le tue cose… tutto con la speranza che un giorno o l’altro arriverà quel qualcuno di speciale che tanto aspetti… E nel frattempo ti proponi, provi a mandare qualche messaggio, fai qualche complimento… - Sospirai, abbassando la mano in modo molto teatrale - …ma non arrivi a capo di nulla. Perché? Perché con i tuoi chili di troppo, non appartieni più al loro mondo! il loro mondo fatto di merda e modelli, a cui importa solo apparire e non essere! – preso dalla foga del discorso, alzai un po’ la voce. Non era una conferenza. Non c’erano sedie, e sicuramente qualcuno dei partecipanti stava già sbadigliando, o desiderava sedersi. Invece nessuno sbadigliò, anzi tutti annuirono ed applaudirono a quel mio sfogo.

- Bravo Donatello! – la voce di Alvin, da lontano.

- Dovevamo fare un collegamento nazionale… anzi in mondovisione, tanto sono sagge le parole che sta dicendo! – Questo invece era uno che non conoscevo, ma ugualmente carino. Come tutti, del resto.

- Per concludere – ripresi – Voglio dire che io sono veramente contento di essere qui insieme a voi questa sera. Ma soprattutto, sono contento di essere insieme a colui che più mi ha aiutato nei momenti bui, colui che è stato sempre lì a spendere una parola di conforto quando mi sentivo giù… E che quando mi ha visto proprio in difficoltà… - Feci una lunga pausa, voltandomi per guardare Dandy, poi ripresi - …è arrivato per salvarmi. Ragazzi e ragazze, un caloroso applauso per il vostro amico Dandy Landy, nonché mio fidanzato ufficiale. –

Ci fu un grandissimo applauso. Dandy si avvicinò, mi tolse il microfono di mano e mi baciò appassionatamente sulle labbra. Fu il bacio più bello che avessi mai ricevuto.

 

Mentre fuori la festa continuava, io mi rintanai in bagno. Ero leggermente sbronzo, e per evitare di dover correre a letto per la stanchezza, mi sciacquai ancora la faccia. Lo specchio dava sul giardino esterno, completamente deserto, dal momento che la festa si stava svolgendo nel giardino interno. Mi guardai allo specchio. A sentire le mie parole di poco fa, ci sarebbe stato da domandarsi se non fossi diventato completamente matto. Forse sì, o forse no. Francamente non m’importava più nulla di cosa stesse succedendo, l’importante era che per una volta mi sentissi veramente a casa.

A proposito di casa, in ogni caso sentivo che Dandy mi aveva mentito. Sebbene avesse ripetuto che c’era stata un’altra festa, ieri sera, allora perché credevo di essere stato a casa mia, e di aver contattato un ragazzo con l’impermeabile?

- Forse perché ci sei stato veramente, ed il tuo “Fidanzatino” è un figlio di puttana che vuole tenerti prigioniero. –

Mi voltai di scatto. Appoggiato alla finestra c’era il ragazzo con l’impermeabile, ancora tutto intabarrato.

- Sei ancora tu?! – dissi – Ma si può sapere cosa vuoi?!? –

- Aiutarti – disse quello, secco. Mi venne vicino con fare aggressivo, tanto che io andai alla porta, cercando di sfuggirgli. Non feci in tempo a guadagnare la maniglia, che lui mi bloccò, tappandomi la bocca con una mano.

- Shh. – mi intimò. – Vieni con me. Voglio aiutarti. – ripeté. Ma io non mi volli convincere. Sentivo il suo fiato alitarmi sul collo, nonostante la sua sciarpa fosse ben spessa. Era molto forte, tanto che mi trascinò fino alla finestra, dove controllò bene che non ci fosse nessuno.

- Adesso stammi a sentire, bamboccio – disse, con voce ferma – Quello che ti dirò non ti piacerà, ma è mio preciso dovere dirtelo. Apri bene le orecchie, perché non ripeterò. Okay? –

Io scossi la testa, ma lui mi scosse violentemente, per richiamarmi all’ordine. A quel punto io annuii.

- Bene. Allora, devi sapere che … -

Ed incominciò a parlare, lentamente, affinché io potessi capire. E quello che sentii mi fece crollare le gambe dallo stupore.

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Capitolo 28
*** Capitolo 27 ***


Con l’ausilio di un i-Pad, il ragazzo misterioso mi fece vedere ciò che mi era successo. Osservammo entrambi in silenzio.

La scena si apriva con una visione laterale di me che guidavo la mia auto, percorrendo l’autostrada ad alta velocità. Ad un certo punto, ero prossimo a sorpassare due mezzi, ovvero l’autotreno e l’autoarticolato. Il primo andava qua e là, come se il conducente fosse stato ubriaco. Vidi me stesso mettere una mano al centro del volante e mandare un prolungato squillo di clacson, nel tentativo di riportare la situazione alla normalità.

E fu allora che accadde.

L’autotreno virò bruscamente a sinistra, proprio nella corsia dove stavo sopraggiungendo io. Il vagone che trasportava dietro speronò pericolosamente la mia auto, nonostante io avessi tentato di frenare. Vidi il veicolo sbattere contro il guard-rail, e la mia macchinina che andava a sbatterci contro, fracassandosi e contorcendosi. Avvertii un moto di dispiacere nel vedere la mia Audi fare una fine così orribile, e non volli vedere oltre. Non volevo vedere com’ero ridotto.

- Non importa, non è necessario – disse il ragazzo con l’impermeabile, facendo scomparire l’i-Pad in una tasca del giaccone – Sei entrato in coma. Adesso ciò che conta è che tu devi tornare nella tua realtà. Tutto questo è il nulla. Non siamo veramente a Bologna, e Dandy non esiste. Non è mai esistito, se non nella tua fantasia. Se vogliamo, unica artefice di tutto questo… -

- A me piace stare qui – dichiarai, sottovoce.

Freddo come una macchina, l’individuo rispose – Non puoi stare qui per sempre. Ciò che vedi oggi, domani potrebbe non esserci. Tutto dipende da cosa succederà al tuo corpo materiale. Se muori, tutto questo scomparirà. Lo capisci? Dimmi, cos’è meglio? Risvegliarsi e sperare che le cose cambino, oppure dormire e sognare un mondo vuoto e sterile, che da un momento all’altro potrebbe scomparire? –

- Non… non lo so… il mondo … fuori… è … è ostile, con me. – dissi, parlando piano.

Il ragazzo mi mise una mano sulla spalla. – Donatello… il mondo non è buono con nessuno, credimi. Non credere che qualche chilo in meno ti faciliterebbe la vita. Quel che conta è riuscire a resistere alla cattiveria dilagante. Ma non è rinchiudendosi in un mondo di carta, che lo farai. – disse, grave. In un certo senso, mi inquietava parlare con una persona che era tutta camuffata. Ormai pensavo di capire perché: non voleva farsi riconoscere da me.

- Allora, cos’hai deciso? – mi chiese.

Mi guardai intorno. Potenza della mente! Tutto ciò che c’era lì era talmente realistico da sembrare vero! Ed io l’avevo creato. Era così bello, così accogliente… così dolce, stare a contatto con tutti quei personaggi, con Dandy… il mio Dandy. Ma questo era un mondo che si reggeva su un fiammifero. Un fiammifero sottile che era forse la fiamma di vita che ancora mi era rimasta. Chiusi gli occhi, pensando a tante cose.

Poi, finalmente, decisi.

- D’accordo. Andiamo. –

L’individuo annuì. Ebbi l’impressione che stesse anche sorridendo.

 

Era ancora notte fonda, ma la festa continuava. Nessuno degli ospiti stava ancora iniziando ad andarsene, così io ed il ragazzo potemmo sgattaiolare indisturbati nel giardino antistante la casa.

- Come facciamo ad uscire? – domandai.

- Di là – mi indicò un punto dove c’era un albero – c’è un albero abbastanza robusto. Ci arrampicheremo e ci caleremo dall’altra parte tranquilli. Io sono entrato così. – mi disse.

- Ok. – risposi io, fidandomi. Ci avvicinammo a quell’albero.

- Prima tu – disse lui. Io annuii.

Mi arrampicai velocemente su quei rami. Nonostante il peso, da ragazzino ero stato ottimo arrampicatore di alberi, e certe cose non si dimenticano. Giunto in prossimità del ramo un po’ più robusto, sentii una voce.

- Ehi, ma che cosa….? – era la voce di Thomas, il ragazzo che stava curando il giardino quando io feci la mia prima uscita con l’auto.

- Zitto! – gli intimò il ragazzo in impermeabile, tirandogli un pugno. Thomas andò giù senza tanti problemi. Intanto lui si arrampicò in fretta, quasi scavalcandomi. Io scesi giù in strada, avvertendo un po’ di dolore alle ginocchia.

- Svelto! Non ci metteranno molto a capire che sei fuggito! – mi intimò, e corse via.

- Ehi, aspetta! –

Iniziai a corrergli dietro. Corse per un bel po’ di metri, prima di fermarsi in un angolino della strada. Lì premette un tasto ed io riconobbi le luci lampeggianti e la forma della sua Opel Meriva.

- Monta su, forza. –

Senza farmelo ripetere due volte, io aprii lo sportello e mi accomodai al posto passeggero. Improvvisamente però, sentimmo il rombo di un motore.

In lontananza, vidi il cancello della villa di Dandy che si apriva, ed un grosso macchinone blu scuro che ne veniva fuori.

- Cazzo! Se ne sono accorti! Filiamocela! –

Velocemente, il ragazzo si mise al posto di guida, accese il motore e partì molto velocemente su quelle stradine collinari. Dietro, l’auto ci inseguiva.

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Capitolo 29
*** Capitolo 28 ***


- Ci sono addosso! – esclamai terrorizzato, mentre Humphrey (avevo deciso di chiamarlo così, il tipo con l’impermeabile, come l’indimenticabile Humphrey Bogart, non conoscendo il suo nome) guidava la Meriva con l’agilità di un felino ma senza scomporsi. Evidentemente era abituato a destreggiarsi in inseguimenti come quello, anche data la sua tendenza all’anonimato. Io dovetti tenermi stretto alla maniglia per il passeggero, dato che la cintura di sicurezza funzionava per quel poco, e non di certo contro le improvvise sterzate.

Humphrey sterzò bruscamente scendendo ancora giù, mentre il macchinone si incagliò nel fosso. Io osservavo i movimenti, certo che, se avessero per caso sparato (ma ne dubitavo fortemente), non mi avrebbero visto attraverso i vetri oscurati della Meriva di Humphrey.

Un’auto arrivò dalla corsia opposta, e noi avevamo invaso il suo spazio. Questa ci lampeggiò furiosamente, suonando anche il clacson. Humphrey sfruttò la situazione a suo favore: l’auto di Dandy ci era dietro, e proprio mentre l’auto in senso contrario si stava avvicinando, Humphrey sterzò bruscamente a destra, saltando nella corsia giusta. Il grosso macchinone degli uomini di Dandy finì a sbattere contro l’altra auto, in un gran botto.

- Ah-hah! Li ho fottuti! – esclamò Humphrey, forse nell’unico momento in cui lasciò trasparire le sue emozioni, attraverso quel pesante camuffamento. Riconobbi in quell’entusiasmo un qualcosa di familiare.

 

La Meriva viaggiò per un bel po’ di chilometri. Attraversò un pezzo del centro di Bologna, così sonnacchioso e silente, talmente tanto che addirittura i ragazzi seduti ai tavolini dei bar sembravano dormire, nonostante le loro gaie espressioni che a me risultavano senza voce, chiuso nell’abitacolo dell’auto di Humphrey… Sembravano così felici e spensierati, e pensare che erano soltanto frutto di una mia allucinazione. O forse no? Forse erano veri, ed io ero un fantasma che ora stava percorrendo Bologna a bordo di un’auto, insieme ad un misterioso individuo che poteva essere chiunque… Un amico, un nemico… forse la Morte in persona, così oltraggiata all’idea che una sua creatura potesse far parte di un mondo di carta dove non si muore mai, che era venuta a strapparmi via dalle braccia di Dandy proprio quando io mi sentivo felice…

Perso in quei pensieri, pensai che forse dovevo dare un ultimo saluto a Bologna. La città dov’ero nato, cresciuto, vissuto fino a che la vita non aveva iniziato lentamente a cedere, sotto il peso dell’età… E del mio orientamento sessuale. Guardai gli accessi al centro storico che erano le Porte. Mi era sempre piaciuto pensare che, ai tempi di Carlo Magno, Bologna era molto più piccola di come lo era adesso, e che i viali tutt’attorno prima non esistessero, ma fossero soltanto dei fossati o dei battuti di terra, forse nemmeno buoni per coltivarci nulla, ma che in un futuro inimmaginabile sarebbero diventati strade asfaltate… Sotto quei portici avevo dato il mio primo bacio.

Si chiamava Daniele, lui. Aveva due anni più di me, non era bellissimo, ma ci parlavamo tranquillamente. Era appassionato di informatica, quando io ancora non sapevo nemmeno da che parte si accendesse un computer, né cosa fosse internet. Mi iniziò lui, a questa grande meraviglia che avrebbe cambiato il mondo (nonché le mie abitudini), così come mi iniziò al mondo gay. Dapprima erano solo locali pieni di gente strana, che lui chiamava “Amici”, che io vedevo come persone stravaganti dalle acconciature e dall’abbigliamento totalmente strano... senza rendermi conto che essi erano quelli che venivano chiamati, in maniera affettuosa, “Froci” sui muri della scuola. E anche Daniele, lo era, un “Frocio”, non era forse vero? Sì che lo era. Me lo confessò un giorno di pioggia, e mi propose di provare a baciarci. E così successe. A Porta San Vitale.

Da allora, le cose non erano più state le stesse, tra di noi.

(devi svegliarti! Devi scappare!)

E da allora, cominciò la sfilza delle delusioni, per me.

Sospirai, perso nei ricordi. Intanto, l’auto viaggiava, sul Ponte Stalingrado, diretta chissà dove. Non ebbi il coraggio di chiedere nulla. Non volevo sentire più nulla da nessuno. Volevo soltanto che questa storia si risolvesse, in un modo o nell’altro. Volevo smettere di soffrire.

- Sei triste? – mi domandò Humphrey. Anche se non lo vidi, intuii che mi aveva lanciato un’occhiata.

- Non lo so – risposi io, frastornato. Giocherellavo con il cravattino del vestito da sera, così bello e setoso… - Il problema è che non so se ho fatto la cosa giusta, a seguirti. –

Humphrey inchiodò l’auto di botto, forte e sicuro che non ci fosse nessuno dietro a protestare. Si fermò all’altezza dell’incrocio con Via del Lavoro, nonostante il semaforo fosse verde. Attivò i lampeggianti di emergenza e si voltò verso di me. Io ero bianco dal terrore.

- Dove vuoi che ti porti? Indietro, dal tuo amato personaggio di carta? Dimmelo subito. Anziché andare dritto e portarti dove devo, posso svoltare a destra, fare il giro dell’isolato e riportarti indietro nella zona collinare. – mi disse. Il suo tono era vagamente stizzito. – Possiamo fare così, se è questo che vuoi veramente. –

Non avevo fiato in gola per protestare. Avevo già sentito quel tipo di discorso da Dandy, ed era stato abbastanza persuasivo. Ora venivo messo di fronte ad un’altra scelta.

- P… perché mi … mi stai dicendo questo? Tu non… -

E fu a quel punto che Humphrey sbottò. – Perché mi sono rotto le scatole, ecco perché! Cazzo, ma hai idea di quanti anni hai? No? Bè, se non ce l’hai, te la do io: hai ventiquattro anni suonati, e ancora ti rifugi nei sogni per guarire dal dolore che ti da il mondo reale? E dire che lo sai meglio di me, che un mondo virtuale non ha le stesse attrattive di quello reale! Hai passato anni, su quel dannato computer ad innamorarti di persone che poi ti abbandonavano, e adesso vorresti dirmi che un mondo a fumetti è migliore del mondo reale? –

A quel punto, fui io a rispondergli, alterato – Ed io ti ricordo che in quel bellissimo posto che si chiama Mondo Reale, io sono in coma, perché ho avuto un incidente del cazzo su quella fottutissima autostrada, tutto per colpa di uno stramaledettissimo, l’ennesimo imbecille che mi ha preso ed usato, secondo le sue fregole di gatto in amore! Allora? è un reato rifugiarsi nei sogni? rispondi! –

Con una calma che prima non c’era, Humphrey mi rispose – Non è un reato. E nemmeno una cosa brutta. Ma va usata con cautela. D’accordo, forse non è colpa tua… magari è il tuo subconscio che ha proiettato tutto questo, solo per il dolore di… -

- Oh, fantastico! – esclamai io, ancora incazzato – Adesso mi staresti anche dicendo che ho bisogno di uno psichiatra perché la mia mente fa vivere dei personaggi che esistono soltanto nella mia mente, vero? –

- Non ho assolutamente detto questo – ribatté lui, sempre calmo. – Sto solo dicendo che… là fuori tu hai una famiglia, che ti vuole bene. Un fratello, che stravede per te. –

- Davvero? Ah, che bello! Questa è proprio la madre di tutte le stronzate! Se non lo sai, mio fratello mi ha scacciato da casa sua, perché ha saputo da quella puttanella di Marika, che ci scommetto i coglioni è un’amica di Simone, che io sono gay! – conclusi, e con uno scatto uscii dall’auto, camminando velocemente in direzione di Via Stalingrado. Incredibilmente, non c’era nessuna auto in transito. Ero furioso, e al tempo stesso parecchio amareggiato. Non sapevo dove andare né cosa fare, ma a questo ci pensò Humphrey, che rimise in moto l’auto e mi raggiunse.

- Sali. – disse.

- No. – risposi io, continuando a camminare.

- Se non sali, ti corro dietro. E so che non ti piace. –

Mi fermai. In un recesso, in fondo alla mia mente, sentivo di dover andare con lui. Era troppa la curiosità, commista a dispiacere, che mi spingeva.

Lui sospirò. Anche se era intabarrato nel cappello, ed il suo viso era coperto dalla sciarpa, potevo leggere, in un’ipotetica faccia che avrebbe potuto avere, la disperazione. La stessa disperazione che ora stavo provando io.

Sospirai anch’io, guardandolo. Infine, mi convinsi che era meglio andare con lui.

E di nuovo, salii su quell’auto.

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Capitolo 30
*** Capitolo 29 ***


Humphrey guidò fino alla tangenziale, anch’essa così sonnacchiosa e semivuota da sembrare un set cinematografico. Nell’attraversarla, io e Humphrey non scambiammo più alcuna parola, certi di aver stabilito un punto comune. Dopo la litigata di poco prima, la sensazione che in lui ci fosse qualcosa di familiare, si fece sempre più concreta. Era come se, prima di dire le cose, io sapessi già cosa Humphrey voleva dirmi. Una sensazione inquietante e straordinaria che non avevo mai provato con nessuno se non si contavano i miei amici immaginari. In ogni caso, se in quel mondo non potevo stare perché ne sarebbe andato dell’integrità spirituale di qualcuno che mi amava, là fuori, d’accordo, sarei uscito e tornato alla mia vita di sempre.

Vidi che la tangenziale ormai stava per finire, e c’erano solo due direzioni possibili: Milano o Firenze. Con la sicurezza di chi sapeva dove andare, Humphrey passò le barriere e prese la direzione per Milano. In un certo senso, capivo cosa voleva fare. E non mi piaceva.

- Spero solo di ricordarmi il punto esatto. – disse, ad un certo punto. Io lo guardai, e lui capii che avevo intuito cosa aveva in mente.

- Non aver paura – disse – Non succederà nulla, e comunque sarà soltanto per il tuo bene. – concluse, laconico.

- Se lo dici tu… -

- Lo dico io. – ribatté lui, severo. – Fidati di me. –

 

Viaggiammo per un altro paio d’ore buone, fino a giungere ad un cavalcavia. Poco più in là, sorgeva una stazione di servizio. Humphrey mise la freccia e si inoltrò lì dentro.

Il posto sembrava abbandonato. Dove avrebbero dovuto esserci auto parcheggiate, sulle strisce bianche, c’erano spazi vuoti. Sui marciapiedi, che a quanto ricordavo erano sempre pieni di gente, non c’era nessuno. Perfino il ristorante, che anch’esso avrebbe dovuto essere gremito, appariva spento e desolato. Un monumento all’abbandono bello e buono, che mi attivò ben più di un allarme in testa.

- Humphrey – dissi io, senza ricordarmi che lui non sapeva che l’avevo ribattezzato così – Sei sicuro di volerti fermare qui? –

- Sicuro – rispose lui, come se nulla gli importasse che gli avessi affibbiato quel nomignolo – Tanto siamo arrivati. –

- Cosa? E come fai a … - domandai. Ma Humphrey mi interruppe.

- Seguimi. – mi ordinò, e scese dall’auto. Io lo seguii.

Dietro la stazione di servizio, si aprivano i campi. Erba alta e umidiccia di rugiada si ergeva, come un immenso mare verde. Io e Humphrey nuotammo in quella distesa, facendoci largo tra le piante. Mi aspettai di vedere anche delle case in lontananza, ma non ce n’erano. Anche questo mi suonò molto strano, ma non me ne preoccupai più di tanto.

Camminammo in un silenzio quasi mistico, rotto soltanto dai normali rumori della campagna (fra i quali anche dei fruscii molto sospetti; forse delle vipere, e lì cacciai un balzo di sorpresa). Annusai l’odore dell’aria con tutto me stesso, ricordando cose che credevo di aver dimenticato. Quando ero piccolo, mio padre era solito portarci a fare escursioni sulle colline intorno a Bologna, alla ricerca di funghi e selvaggina. Cominciava tutto a fine estate, verso Settembre inoltrato, quando le piogge che cadevano dopo aver atteso durante l’estate, favorivano la crescita dei funghi più belli e succosi che la terra riusciva a creare. E la stessa pioggia che faceva nascere i funghi, spandeva nell’aria un odore di sottobosco che io, mio padre e mio fratello amavamo annusare. Odore di casa. Odore di famiglia. Odore di felicità.

Sospirai, ricordando quei bei ricordi che appartenevano ad un mio passato ormai lontano, e mi fermai quando mi accorsi che io e Humphrey eravamo giunti sull’orlo di un precipizio.

Sotto di noi, un baratro si apriva. E nonostante fosse quasi giorno, non si riusciva a vedere cosa ci fosse alla fine di esso. Sembrava un pozzo senza fondo, una voragine infinita apertasi all’improvviso sul pianeta terra.

- E adesso…? – domandai, titubante.

Humphrey non rispose, ma in compenso, successe qualcosa.

Dall’erba alta sbucarono fuori nell’ordine: Dandy, Thomas, Krys, e tutti gli altri invitati della festa, ancora vestiti per l’occasione. Io guardai tutti quanti a bocca aperta, sorpreso. Humphrey si voltò, assumendo una posa di guardia. Io mi misi le mani nei capelli dalla sorpresa mista a paura.

- Vieni con noi, Donatello. Lascia andare lui. È cattivo. – disse Dandy, venendo avanti.

- C… cos…? – balbettai io.

- Balle! Non ascoltarlo, Donatello! Sta mentendo! – disse Humphrey, rivolgendosi a me ma tenendo lo sguardo fisso su Dandy e la sua ghenga. Mi domandai se da un momento all’altro avesse tirato fuori una pistola e fatto fuoco su tutti quanti.

Dandy rise – Se tu fossi soltanto un po’ più comprensivo – attaccò Dandy – forse capiresti che Donatello non vuole veramente tornare alla sua vita di sempre, ma vuole restare qui. Insieme a noi. La sua vera ed unica famiglia. –

- Voi non c’eravate quando lui era nato. Io sì. Voi non c’eravate quando al suo decimo compleanno lui restò solo perché suo padre si era dimenticato di andare a prenderlo da scuola. Io sì. E potrei elencartene centomila altre, di occasioni in cui io c’ero e voi no! – rispose Humphrey, combattivo. Improvvisamente, iniziai a capire chi era quel ragazzo.

Tutti i presenti si misero a ridere, Dandy compreso. – Devi sapere che tu non hai nessun potere di attrazione sessuale su Donatello. Proprio nessuno. Invece noi… Beh… - E qui Dandy spostò lo sguardo su di me. Io arrossii di botto. - …Noi glielo facciamo venire più duro di una colonna. Chiedigli cosa prova, quando ci disegna, uno per uno. E chiedigli cosa va a fare dopo, in bagno, con le tavole dei suoi stessi disegni. –

Humphrey mi guardò, ed io mi sentii stranamente umiliato e offeso, come se per me Dandy e gli altri non fossero altro che materiale per soddisfare i miei capricci sessuali solitari…

- Avanti, amore, diglielo. Io e tutti questi bei ragazzi ti piacciamo tanto, non è così? – mi domandò Dandy. Humphrey continuava a guardarmi, aspettandosi forse che io avessi detto qualcosa di intelligente, ma non era così. Abbassai lo sguardo, e ripensai al discorso che Dandy mi aveva fatto la sera prima.

Un mondo d’amore, di rispetto, di dolcezza, che avevo creato io stesso, si era rivelato soltanto un mero strumento per soddisfare i miei appetiti sessuali. Ma era veramente questo, ciò che volevo…?

(è questo che vuoi veramente, Donatello?)

Non chiedetemi come, non chiedetemi perché, ma l’unica cosa che mi venne in mente in quel momento, guidato da una strana forza che mi stava letteralmente richiamando a sé, fu la frase di un film con Keanu Reeves e Al Pacino.

- Libero Arbitrio. – dissi, sollevando lentamente lo sguardo e guardando poi tutti i presenti.

- C.. come? – balbettò Dandy, confuso. – Cosa… cosa vuoi dire…? – Sembrava seriamente preoccupato. –

A quel punto, io sorrisi.

E in una frazione di secondo, mi lasciai cadere a corpo morto nel crepaccio oscuro.

Nooooooooooooooooooooo! Donatellooooooooooooo!

Era la voce di Dandy. Ah, mio caro, dolce, sensuale Dandy. Non c’era più nulla che tu avresti potuto fare per me, adesso. Stavo precipitando nel vuoto, e né tu, né Humphrey, né nessun altro avrebbe potuto aiutarmi.

Mentre cadevo, mi sembrò di vedere una cosa. Come in una moviola, vidi Humphrey che si toglieva il camuffamento, gettando via il cappello e la sciarpa.

Sotto di essi, si profilò l’immagine di me stesso, Donatello, che mi sorrideva.

Hai fatto la cosa giusta. Sembrava volesse dirmi, con quel sorriso stampato in faccia. Poi lui e gli altri diventarono sempre più piccoli, fino a che per me non ci fu nient’altro che tenebra.

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Capitolo 31
*** Capitolo 30 ***


Erano circa le sei e mezzo del mattino quando Ermanno Tarasconi si svegliò. Anche quel giorno gli sarebbe toccato un viaggio, e se le cose non fossero cambiate, stava pensando, si sarebbe fatto trasferire lì dalla sua azienda, alla quale aveva richiesto un numero impressionante di giorni di ferie, per stare accanto a suo fratello, che giaceva in stato comatoso in un letto del reparto rianimazione all’Ospedale di Pavia.

- Vai…? – gli domandò Chiara, mentre al suo fianco, apriva gli occhi e lo salutava.

- Sì, amore. Vado. – disse, e la baciò dolcemente sulle labbra.

 

In capo ad un’ora, Ermanno era già arrivato a Pavia. A quell’ora del mattino la città lombarda era tranquilla, sonnacchiosa, ancora in dormiveglia. Guidò per un pezzo di strada in rettilineo, svoltò in una via laterale ed arrivò in una piazza dove in lontananza si riusciva a scorgere l’imponente edificio che era l’ospedale. Guardò l’orologio, scuotendo la testa. Le visite sarebbero scattate soltanto dalle otto in poi, ma a lui non importava andare in ospedale a fare la bella statuina per un’ora in sala d’aspetto. Quella mattina aveva deciso di fare qualcosa di più. Qualcosa che non faceva più da molto, troppo tempo.

 

Parcheggiò l’auto in uno spiazzo antistante un luogo di culto; la Chiesa di Nostra Signora della Misericordia. Nonostante l’ora, nel cortile interno scorse il sacrestano che stava spazzando le foglie morte ed una fioca luce nella canonica. La chiesa era aperta.

Varcò la soglia d’ingresso, si bagnò le dita nella piccola vasca di marmo e si fece il segno della croce guardando verso l’altare. Almeno questo lo ricordava.

Le panche della platea erano vuote. Nemmeno un’anziana signora a recitare rosari sottovoce. C’era soltanto lui.

Lui e Dio.

Si accomodò su una di queste panchine, in ginocchio. Congiunse le mani e aspettò.

- Signore… - iniziò, a bassa voce - …se esisti veramente, ti prego, aiutami. Non so più quanto tempo è che penso soltanto a mio fratello Donatello, da quando ha avuto l’incidente. È ancora lì che dorme, ed io comincio a temere che non ci saranno più speranze. – gli venne da piangere.

Grosse lacrime calde rigarono il volto di Ermanno, che si portò le mani giunte alla bocca ed iniziò a singhiozzare. – Se esisti veramente – ripeté – Ti prego, perdonami. Perdonami per aver tradito mia moglie, per essere stato un cattivo cristiano… ma soprattutto… perdonami per aver trattato male mio fratello. Non serve che tu lo prenda a te per punirmi. Ho capito la lezione. Ma ti prego, basta. Sveglia mio fratello, riportalo tra noi. Prendi me, non lui. – disse, quasi sibilando.

In quel mentre, si sentì toccare la spalla, e trasalì leggermente. La mano era quella curata e piena di anelli di Francesco.

- Ciao – lo salutò Francesco. Il suo volto era scavato, come se non dormisse da secoli. Se Ermanno avesse saputo quanto ci teneva all’immagine quanto lo sapeva Donatello, sicuramente gli avrebbe detto “Che brutta cera, stamane”.

- Ciao Francesco – disse Ermanno, asciugandosi le lacrime con una manica della giacca. – Come… come sapevi che ero qui? –

Francesco guardò verso l’altare – Il mio albergo è poco distante da questa chiesa. Mi stavo facendo una passeggiata, ho visto la tua auto e sono entrato. – rispose il ragazzo, riportando poi lo sguardo su Ermanno.

Ermanno assentì, sospirando ed asciugandosi le ultime lacrime – Scu…scusami. – disse, soffocando un colpo di tosse e sedendosi sulla panca.

- E di cosa? Penso che piangere sia la cosa più normale, in questi casi… - Francesco sospirò, sedendosi accanto ad Ermanno. Per molti minuti fu silenzio tra di loro. Nonostante fossero in un certo modo affini, in quanto Francesco era il migliore (se non il migliore, l’unico) amico di Donatello e si conoscessero per vie traverse, Ermanno e Francesco non avevano nulla da dirsi.

Ad un certo punto, fu Ermanno a rompere il silenzio.

- Com’è successo? – domandò Ermanno.

- Un autotreno gli è andato addosso. Conducente ubriaco. – rispose laconicamente Francesco.

- No, io… intendevo… com’è successo che mio fratello sia diventato gay. – disse Ermanno, guardando un punto imprecisato della cattedrale.

Francesco alzò le spalle, incrociando le braccia. – Non c’è una ragione precisa, quando accade, Ermanno… Lo si è, e basta. Alcuni dicono che sia una scelta di vita, ma io non sono d’accordo. Gay si nasce, secondo me. –

Ermanno ascoltava, tenendo lo sguardo fisso avanti a sé.

- …Quando ero piccolo – continuò Francesco – ero attratto dal mio maestro di educazione fisica. Per me lui era bellissimo, fortissimo… ed aveva una cosa che gli altri non avevano: un carisma molto forte. – Francesco sorrise, ricordando i bei tempi passati alle scuole elementari – Riusciva a farci fare tutti gli esercizi che diceva, riuscendo ad essere fermo ed al tempo stesso dolce. Lui era l’unico insegnante uomo. Le altre, le donne, non riuscivano a farmi appassionare ad una materia nemmeno se mi puntavano un coltello alla gola. – fece una risatina amara – si chiamava Giacomo. Era veramente un bell’uomo. – Poi guardò Ermanno, che lo stava fissando, come se non avesse mai sentito nulla di simile prima d’ora.

- E… e perché mi stai dicendo queste cose? – domandò Ermanno.

Gli occhi di Francesco scintillarono dietro il ciuffo di capelli neri. – Per spiegarti che gay si nasce, e non si diventa facilmente. –

Per attimi interminabili, Ermanno si domandò quale potesse essere stato il primo ragazzo finito sotto gli occhi di suo fratello. Avrebbe potuto essere Claudio, il suo ex migliore amico? Oppure uno dei compagni di scuola?

Poteva esser stato chiunque.

- Francesco? – chiamò Ermanno.

- Sì? –

- Mi racconteresti di quando tu e mio fratello vi siete conosciuti? –

Introdotta la domanda, Francesco ci pensò un attimo su. Roteò gli occhi lentamente, come se stesse guardando nei cassetti della sua memoria, alla voce “Donatello Tarasconi”.

- Ci siamo conosciuti due anni fa, nel 2008. Allora io avevo diciotto anni, ed ero appena arrivato a Bologna. Mi ero fatto un sacco di amici qui, all’università… Ma non riuscivo a stare in un appartamento per più di due mesi. Con gli etero non mi trovavo bene perché erano disturbati dal mio continuo ospitare ragazzi, mentre con i gay non mi ci trovavo perché ogni volta che portavo qualcuno di nuovo, c’era il rischio che i miei coinquilini l’avessero già frequentato, quindi di conseguenza si generavano parecchi alterchi… - fece una pausa, annuendo. Lo sguardo perso nel vuoto, intento a guardare tra le nebbie dei ricordi.

- …Non avrei mai immaginato che Bologna fosse una città così piccola… - scosse la testa – O forse ero io che mi concedevo un po’ troppa libertà. – fece una risata amara.

- Ad ogni modo – proseguì – Stavo già pensando di andarmene da quella città. Cambiare università, prospettive, amicizie. Quando all’improvviso… -

- Un giorno ero nei pressi della facoltà di Giurisprudenza. E lì c’era un ragazzo un po’ pienotto, intento ad appiccicare un foglietto su una bacheca. Beh, accadde che a questo ragazzo bello pienotto caddero tutte le puntine da disegno, mentre cercava di attaccare il foglietto. Nessuno si mosse. Soltanto io andai ad aiutarlo. –

- “Grazie” mi disse lui, timidamente. E mi sorrise. Io gli sorrisi di rimando, e nel frattempo vidi che cosa stava cercando di pubblicizzare. Una stanza in affitto. Il ragazzo pienotto era tuo fratello Donatello… e la stanza in affitto, è quella che tuttora pago regolarmente. –

- Donatello è stato per me… come un’ancora di salvezza. Stavo per andarmene da qui, ma lui mi ha dato un alloggio… e qualcosa di più. –

Ermanno fece un’espressione sconvolta. Francesco rise piano.

- Ma no, cos’hai capito? Donatello mi ha dato qualcosa che non ho mai trovato in nessuno dei miei amanti: l’ascolto. L’amicizia. Mi ascoltava ogni volta che avevo bisogno di lui, mi accompagnava dappertutto con quella sua macchina vecchia che amava forse più di ogni altra cosa… -

- La vecchia Audi di papà – lo interruppe Ermanno – Donatello è praticamente perso per quell’auto. Le vuole un bene dell’anima … - si interruppe, sentendo un nuovo accesso di pianto. Se suo fratello era a rischio di vita, la sua povera auto non c’era nemmeno più. Dopo l’incidente era diventata irrecuperabile: il motore era praticamente entrato nell’abitacolo, sventrando la plancia e distruggendo buona parte della scocca... Ermanno ebbe una fitta al cuore, pensando a come l’avrebbe presa Donatello nell’apprendere la notizia, un giorno o l’altro.

- …già. – riprese Francesco, annuendo. – Mi teneva lontani i pretendenti “scomodi”… - disse, con una risata – Praticamente mi faceva da segretario. – rise ancora, ed Ermanno rise leggermente.

- E’ tipico di lui. Se non lo conoscessi, non te lo direi. –

- Donatello è un ragazzo straordinario. Dovresti essere fiero di avere un fratello così, Ermanno. –

Ermanno sospirò. Gli occhi erano pieni di lacrime. – E invece… l’ho scacciato, appena ho saputo che gli piacciono i ragazzi. E se ora è su quel letto addormentato… è soltanto colpa mia. – si portò le mani agli occhi, piangendo ancora un po’.

Francesco, che stava facendo di tutto per non piangere, sapendo cos’era successo perché Ermanno gliel’aveva raccontato, si fece coraggio e mise una mano sulla spalla di Ermanno. – No, Ermanno. Non è stata colpa tua. Credimi. E sono sicuro che Donatello in cuor suo ti ha già perdonato. Avrete modo di riparlarne, in ogni caso. –

Ermanno continuò a piangere, e Francesco gli batté un leggero colpo sulla spalla. Improvvisamente, Ermanno si voltò e abbracciò Francesco, piangendogli sulla spalla. Lui non lo respinse, anzi prese a battergli la schiena per consolarlo. Mai come in quel momento, si sentì in dovere di trattenere le lacrime.

A rompere quell’attimo di tranquillità, fu il cellulare di Ermanno. Velocemente, Ermanno si alzò dalla panca, mormorò uno “scusa” rivolto a Francesco ed andò fuori a rispondere. Rimasto solo, Francesco si fece il segno della croce. Era da quando si era cresimato che non entrava in una chiesa. Congiunse le mani ed espresse solo un desiderio.

“O Dio misericordioso e clemente, ti prego, risveglia il mio amico Donatello.”

Come per magia, la porta si riaprì con un tonfo. Passi veloci si avvicinavano a Francesco. Era Ermanno. Sorrideva e piangeva, col telefono ancora in mano.

 - Francesco! …Andiamo, presto! Donatello… si è risvegliato! –

Francesco restò a bocca aperta. Ermanno corse verso l’uscita dalla chiesa, e come una calamita, Francesco si alzò e lo seguì. Una lacrima scese dai suoi occhi a rigargli una guancia.

 

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Capitolo 32
*** Capitolo 31 ***


Ero solo. Di nuovo.

Mi trovavo in un posto che non conoscevo, una specie di grande salone dal soffitto molto alto e dalle grandi vetrate dalle quali filtrava moltissima luce. A giudicare dalle due file di colonne, pensai di essere in una cattedrale. Se così era, io mi trovavo proprio nella navata centrale. Camminavo, senza sapere bene dove andare.

- E così… - disse una voce alle mie spalle – vuoi lasciarmi solo? –

Mi voltai. Dietro di me c’era Dandy, vestito ancora degli abiti da sera della festa. Lo guardai fisso negli occhi, mentre le mie labbra si piegavano in un sorriso stanco.

- Lascia che te lo dica, Dandy… – attaccai - ...non è stato bello farmi credere che io ti considerassi soltanto come uno sfogo dei miei appetiti sessuali – dissi, senza alcuna esitazione – perché credimi, io sono tutto fuorché un animale in calore. –

Portandosi una mano al petto, Dandy trasalì. I suoi occhi da cucciolo smarrito però non avevano più alcun effetto su di me. Nel poco tempo in cui ero stato a contatto con lui, mi ero reso conto di che razza di personaggio lui fosse all’infuori della striscia disegnata. Ammesso e non concesso che esistesse, un altro mondo, oltre a quello della fantasia, dove i personaggi inventati vivevano.

- Non… non l’ho fatto apposta. Credimi. – disse, con gli occhi gonfi di dispiacere. Devo ammettere che per una frazione di secondo riuscì ad intenerirmi, ma mi guardai bene dal concedermi ancora una volta a lui.

- Perché… - continuò Dandy - …perché non resti qui con me, con noi? Noi ti vogliamo bene, ti consideriamo nostro padre… ti consideriamo un amante formidabile… Che cosa speri di trovare nella vita reale, che sia meglio di noi? –

Mi misi le mani in tasca. Le scarpe in coordinato con il completo avevano dei tacchi molto duri, che ad ogni mio passo risuonavano in un chiaro toc-toc, che fecero mentre mi avvicinavo a Dandy. Lo guardai negli occhi, e di nuovo senza esitazione, gli risposi.

- Tutto. Ho tutto di meglio da trovare, di voi, che altro non siete che me stesso, o meglio, parti di me stesso. Frammentate… raccolte… rielaborate… e plasmate in personaggi. – feci una pausa, sempre tenendo le mani in tasca e gli occhi fissi nei suoi. - Questo mondo… I ragazzi… la Bologna che tollera gli omosessuali più di quanto già non faccia… Addirittura tu… è tutto troppo bello per essere vero. E non lo è. – conclusi. Dire che ce l’avevo con Dandy sarebbe stata un’esagerazione. In realtà non ce l’avevo con lui, non lo odiavo né l’avrei voluto morto. Avrei soltanto voluto che capisse le mie parole.

Esse furono pesanti per Dandy, che scoppiò a piangere. Mi si gettò addosso, piangendomi sulla spalla. Credeteci o no, quella fu l’unica volta che lo vidi piangere. Mai prima d’ora l’avevo immaginato, che anche lui possedesse questo dono che ci distingue dalle macchine. Mi dispiaceva soltanto che mi avesse dimostrato di averlo in una circostanza come quella.

Paternamente, gli misi una mano sulla spalla e lo allontanai. Ci guardammo negli occhi un solo, lunghissimo istante, in cui lui sembrò calmarsi. Singhiozzava, ma con minore intensità rispetto a prima. Io gli sorrisi.

- Allora… questo è un … un addio? –

Io storsi la bocca. – Non essere così drastico. Diciamo che è un… “Ci becchiamo dopo, baby”. – conclusi, facendogli l’occhiolino. Lui pianse di nuovo, ma io mi ero già allontanato.

- Ti… ti rivedrò…? – disse Dandy, singhiozzando. Non prendetemi per sadico, ma per una volta, vedere che era un altro a piangere e non io, mi fece stare bene. Fu una piccola carezza alla mia poca autostima.

Annuendo, io risposi – Mi rivedrai, Dandy. Te lo prometto. – e mi allontanai ancora di più, levando in alto la mano per salutarlo. Anche se non lo vedevo, sapevo che era distrutto. Quando fui abbastanza lontano da lui, tirai un sospirone, quindi proseguii per la mia strada.

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Capitolo 33
*** Capitolo 32 ***


- Ermanno! Francesco! –

Li vidi entrare trafelati e col viso bagnato da lacrime che si erano prontamente asciugati prima di entrare. Il mio fratellone ed il mio inquilino/amico erano lì. Mio padre e mia madre sarebbero arrivati a momenti, ma per adesso ero contento che ci fossero almeno loro ad accogliermi. Nonostante fossi fasciato alla testa ed il mio braccio destro fosse ingessato, loro non persero tempo: mi abbracciarono una, due, tre volte, ripetendo il mio nome all’infinito.

- Donatello! Donatello! Donatello! Il mio Dodò! Sei vivo! –

- Sì, sono vivo – dissi, lentamente – Ma non stringere troppo, fratellone! –

Francesco si abbandonò ad effusioni un po’ meno innocenti. Mi baciò entrambe le guance e poi mi baciò le labbra. Io non chiusi gli occhi, anzi li spalancai nel momento in cui le sue labbra entrarono in contatto con le mie. Quando ci staccammo, lui arrossì violentemente. Io guardai Ermanno, preoccupato. Lui mi guardò di rimando, assumendo un’espressione truce. Guardai anche Francesco, che sorrideva come un deficiente. Non vi dico che voglia avrei avuto di strozzarlo, dopo quello che aveva fatto per dimostrarmi il suo affetto.

Riportai lo sguardo su Ermanno. La sua espressione truce si sciolse, divenendo un sorriso. Infine, esplose in una fragorosa risata. Non comprendendo, io sorrisi timidamente e guardai Francesco. Lui sollevò il pollice, come per dire è tutto a posto, adesso e mi sorrise.

 

Nel pomeriggio, Francesco tornò al suo albergo a fare i bagagli. Gli avevo detto di tornare a Bologna, a sorvegliare la casa. Lui obbedì, forte del fatto che non c’era più nulla da fare, lì a Pavia. Ormai mi aveva visto, salutato, omaggiato… baciato di fronte a mio fratello (per quello scherzo gli dissi che ne avremmo riparlato a quattr’occhi e lui si fece piccolo dalla paura, arrossendo violentemente), per cui poteva tornarsene da dov’era venuto. Con tutta la mia felicità per averlo rivisto.

- Non so bene perché sei finito qui – spiegò Ermanno, mentre io mangiavo – immagino che a Lodi non avessero posto, o che non ci fosse il reparto adatto. – scosse la testa – Ad ogni modo, non è più un problema. – Concluse, con un sorriso.

Io gli sorrisi di rimando. – E… e la mia macchina? – gli domandai.

Un’espressione amara si dipinse sul volto di mio fratello. – Eh… - cominciò – Purtroppo lei non … non ce l’ha fatta. – disse – l’autotreno che le è venuto addosso, l’ha completamente distrutta. Mi dispiace. – concluse Ermanno, ed io annuii grave, sospirando dal dispiacere. Così adesso non avevo nemmeno più la mia amata macchinina.

- Senti ma … - iniziò mio fratello. Io deglutii un boccone di carne e lo guardai.

- Cosa? – gli chiesi.

- E… io… - fece per incominciare, ma poi si bloccò e alzò una mano – Niente. Non importa. Lascia stare. –

- No dai, dimmi. Voglio rispondere alla tua domanda, fratellone. – Era da tempo che non lo chiamavo così. Lui alzò lentamente lo sguardo verso di me, e infine mi sorrise.

- Ecco, io… mi stavo chiedendo. Che cosa si prova quando si è in coma? –

Una domanda, innocentissima quanto ricca di possibili risposte. Alzai un po’ la spalla (quella che non era ingessata), in un gesto di incertezza.

- E’ come dormire. Io … ho sognato. –

Ermanno si sporse un po’, incuriosito. – Cosa hai sognato? –

- Ho sognato… i personaggi dei miei fumetti, per esempio. Erano lì, che mi volevano far rimanere nel mondo di carta. E c’era il protagonista che avevo creato io stesso, che voleva essere il mio… - non trovai la parola, forse perché in parte non sapevo se Ermanno era d’accordo a conoscere i miei retroscena gay.

- Coraggio, dillo pure – mi esortò Ermanno – ho parlato con Francesco, questa mattina. Mi ha aperto gli occhi su molte cose. – concluse, sorridendo stancamente.

Io gli sorrisi timidamente, quindi continuai - …Voleva essere il mio fidanzato. Ad un certo punto però ho dovuto decidere se restare con loro o tornare qui. Ed ho deciso. – conclusi, sorridendo.

A mio fratello gli si inumidirono gli occhi di lacrime. Si avvicinò ancora una volta e mi abbracciò, piangendomi sulla spalla. Io in quell’abbraccio sentii tutto il suo amore, tutto il bene che mi voleva. E ne fui commosso, tanto che versai anch’io qualche lacrimuccia.

- Grazie, Donatello… Grazie. Ti voglio bene, fratellino. –

- Ti voglio bene, fratellone. – gli sussurrai, e lo baciai sulla guancia.

 

Scoprii di aver dormito ben più di due giorni. In quel letto ero rimasto circa un mese e mezzo, raggiungendo la metà di Agosto. Mi ero svegliato proprio due giorni dopo Ferragosto, e da lì a un mese, avrei avuto il colloquio con la Fondazione Rambaldi, che mi aveva inviato quella proposta di lavoro a seguito della mia vincita del concorso. In ospedale avrei dovuto rimanerci fino alla fine di Agosto, quindi i tempi per presentare un buon lavoro al colloquio si riducevano drasticamente rispetto a ciò che avevo preventivato prima di andare in vacanza con mio fratello e Chiara.

A proposito, lei non aveva mai scoperto che Ermanno l’aveva tradita, quel giorno nei boschi. Il giorno in cui mi scacciò di casa ed io ebbi l’incidente, Ermanno si tirò addosso tutti i sensi di colpa disponibili nella psiche umana. Di conseguenza, troncò immediatamente il rapporto clandestino con Marika (“Tanto lei abita a Como… Se proprio voglio fare sesso, lo farò con mia moglie Chiara” mi aveva detto mio fratello, provocandomi un po’ di fastidio che tuttavia non diedi a vedere, perché ero solo contento che avesse ritrovato i binari) e cambiò frettolosamente la SIM del cellulare, per non essere più raggiunto. Inutile dire che così facendo si era anche allontanato da Flavio. Non che Marika fosse la sua ragazza, ma pensava che sarebbe stato saggio scomparire dalla circolazione per un po’. Si sarebbe dedicato soltanto al lavoro… e alla persona con cui aveva scelto di dividere la vita. Chiara.

Per quanto mi riguardava, i pomeriggi in ospedale passavano lenti. All’oziosa pigrizia caratterizzata dalla mia vita precedente, dove non avevo un orario fisso di risveglio, si contrappose la vita monotona e schematica dell’ospedale: sveglia alle otto. Pranzo a mezzogiorno. Pisolino pomeridiano dalle due alle quattro. Televisione nel pomeriggio e nanna alle dieci di sera. Finché il ciclo ricominciava per un altro giorno. Le uniche variazioni sul tema delle mie giornate erano le visite di Ermanno e Chiara, le telefonate con Francesco (a proposito, sembrava che il mio buon amico si fosse fidanzato, con un ragazzo di diciotto anni di nome Nicholas) e le visite dei medici, che continuavano a cercare punti di rottura nella mia testa, salvo poi decretare, immancabilmente “Figliolo, hai la testa dura come il marmo” ed ottenere in risposta un mio timido “Sciocchezze… sono stato solo molto fortunato”. Una notte sognai addirittura di essere improvvisamente invecchiato e costretto a passare il resto dei miei giorni in un ospizio, solo, rincoglionito e abbandonato da tutti perché non avevo mai avuto un compagno, Ermanno era morto e Francesco chissà dov’era sparito con il suo nuovo boyfriend. Quella fu una notte che non avrei dimenticato facilmente.

Dio, fa che arrivi presto fine mese… Non ne posso più di stare qui.

E finalmente, come per magia, la fine del mese arrivò.

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Capitolo 34
*** Capitolo 33 ***


Dell’ospedale conservai soltanto l’ingessatura al braccio destro. Per fortuna ero mancino, quindi disegnare non sarebbe stato un problema. Il giorno del mio colloquio con la Fondazione si avvicinava, dunque dovevo avere qualcosa di pronto da mostrare a chi mi avrebbe fatto il colloquio. Mi misi in testa di lavorare sodo e così feci. Nei giorni che separavano il mio colloquio, disegnai come un matto, facendo correre la matita su e giù per i fogli, ore ed ore ogni giorno. Fu quasi una liberazione per me tornare a disegnare così bene. Dopo quell’avventura onirica, Dandy era ormai un personaggio che rimaneva solo sulla carta, e rigorosamente in secondo piano: avevo infatti sviluppato una nuova storia, che vedeva lui come co-protagonista. E proprio quella storia avrei presentato al colloquio che mi attendeva nei giorni successivi.

Presi in mano i fogli, stando bene attento a non sporcare i quadri di grafite. La mia mano sinistra teneva il lavoro su, illuminato dalla luce che filtrava dalla finestra alle mie spalle; l’altra mano, quella ingessata, sembrava come un’inferma che osserva il lavoro compiuto dalla sorella gemella. Sorrisi, compiacendomi con me stesso per l’impegno che ci avevo messo.

Misi la tavola in un raccoglitore plastificato, dove erano contenute le altre sequenze, e lo chiusi accuratamente. Professionalità e fantasia sarebbero state le mie parole d’ordine, quel giorno al colloquio. Volevo assolutamente ottenere quel posto, e nessuno mi avrebbe fermato.

 

Fui soddisfatto dei miei lavori solo a due giorni dalla partenza. In quei due giorni mi dedicai a frequentare un po’ di più Francesco, che nonostante si fosse fidanzato con Nicholas, voleva a tutti i costi mantenermi come amico. Scoprii che Francesco da fidanzato mi piaceva moltissimo, così innamorato e gentile. Per contro, scoprii anche che il suo ragazzo mi era un po’ antipatico.

Nicholas aveva diciotto anni, un corpicino mozzafiato da atleta, capelli biondi e riccioli come un angioletto, e occhi azzurri che ti attiravano a guardarlo. Purtroppo, come molti belli, aveva il disprezzo per quelli come me, un po’ in sovrappeso. Faceva battute sconvenienti sul mio corpo, a volte era maleducato, e in generale non è che si comportasse proprio bene con me, nonostante quando venisse a trovarci, era al cospetto del padrone di casa ogni giorno.

- E’ fatto così, Donatello… Ha diciotto anni, è giovane… insomma, chi non è stato come lui, a diciotto anni? –

- Io! – ribattei, stizzito – Io a diciotto anni avevo già dato tutti gli esami del mio anno di corso, e prendendo solo voti accettabili. E di certo non andavo a dire ai magri che erano patiti o che sarebbe stato meglio se avessero fatto un po’ di palestra! –

Imbarazzato, Francesco rispose – Sono d’accordo con te, i belli credono sempre di avere il mondo un po’ sottomano. Forse… forse i suoi attacchi sono un tentativo di difesa. –

Camminando sotto il portico, diedi un calcio ad una lattina che stava lì, facendola finire proprio sotto il cassonetto adiacente, pensando Goal!

- Difendersi? Da me? – sbuffai – Ah, questa è proprio bella. Ma chi se lo fila, quel coglioncello? Cosa crede, che solo perché ha diciotto anni, può essere considerato carne fresca da tutti? Se sapesse che a me i bimbiminchia non piacciono, farebbe una retromarcia paurosa e… e… - mi bloccai, per un momento non sapendo cosa dire. Francesco mi guardò alzando un sopracciglio.

- … e beccherebbe dritto il tuo pene nel buco del culo! Sì, così almeno godrebbe un po’! – esclamai.

Francesco si fermò e mi guardò con occhio sconcertato, tanto che per un attimo ebbi la sensazione di averlo offeso, e che dopo avermi guardato così, avrebbe girato i tacchi e sarebbe tornato indietro. Ci guardammo un lungo istante, poi Francesco piegò gli angoli della bocca verso il basso e…

- Ah! Ah! Ah! Ah! Ah! –

…e scoppiò in una risata fragorosa, talmente forte che i pochi passanti che attraversavano il portico di fronte alla stazione di Bologna si girarono incuriositi. Di rimando, mi misi a ridere anch’io con lui, ancora più forte. Ci mettemmo le mani sulle spalle, ridendo e ridendo. Mi sembrava di essere tornato bambino, quando una risata così era all’ordine del giorno. Ridemmo per un bel po’, fino a raggiungere le lacrime. Riprendendo fiato, annunciai – Si sta facendo tardi… non vorrei perdere il treno. –

- Hai ragione – disse Francesco guardando l’orologio sul display del cellulare – Andiamo. –

 

La stazione risuonava di tutti i rumori tipici di un luogo di transito: lo speaker che annunciava gli arrivi e le partenze, il rumore dei trolley che trullavano sulle piastrelle, la gente che parlava. Un frastuono inebriante che a me era sempre piaciuto, ma che oggi mi piaceva particolarmente. Stavo andando a Roma. A scommettere sul mio talento.

- Sai già dove andare, una volta là? – domandò Francesco.

- Sì, ho preso tutte le informazioni. – con un cenno della mano indicai il mio trolley con attaccata la mia cartella per le tavole, dove c’era forse la cosa più preziosa di tutte: il mio lavoro.

- Sei sicuro che ce la farai, con quel braccio ingessato? – Francesco sembrava in apprensione, quasi come mia madre.

- Certo, perché non dovrei? Se proprio non ce la faccio, mi farò aiutare da qualcuno, no? – Gli sorrisi, cercando di tranquillizzarlo un po’. Lui annuì, e mi sorrise a sua volta.

Di nuovo ci guardammo per un lungo istante. Ah Francesco, Francesco… quanto ti invidiavo. E quanto ancora t’invidio, tu non lo saprai mai. Nonostante tu sia il mio migliore amico, sei la dimostrazione di come un proverbio sia così vero: a chi troppo e a chi niente.

Ad un certo punto, ad interrompere la nostra conversazione telepatica, fu lo speaker.

- Treno intercity per Roma delle dieci e quarantacinque in partenza sul binario due. Ferma a … -

Io sospirai. Il momento era giunto. Francesco mi guardò, e annuì.

- Beh… ciao, Francesco. Telefonami, se dovesse servirti qualcosa. –

- Certo. Anche tu. –

- E ricordati di farmi il bonifico per l’affitto, eh! –

Francesco sbuffò – Uffa, non cambierai mai. – e sorrise.

Io gli strizzai l’occhio, salutandolo di nuovo mentre mi avviavo al sottopassaggio. Arrivato, lo vidi che si dirigeva verso l’uscita della stazione. Lo seguii con lo sguardo, finché non si confuse tra la folla e scomparve alla mia vista.

 

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Capitolo 35
*** Capitolo 34 ***


Un sorriso sulle labbra. La sensazione di essere ascoltato e capito. L’ebbrezza di trasferire conoscenze da me ad altre persone.

Insegnare i rudimenti del fumetto, dal disegno della figura fino all’impaginazione finale, passando per le inquadrature, il disegno degli ambienti, la caratterizzazione dei personaggi. Tutte cose che un buon disegnatore dovrebbe sapere a menadito, ma che io, purtroppo, a volte non sapevo. Così, tra un ciclo di lezione e l’altro, studiavo le tecniche di disegno cercando di integrarle al mio insegnamento, in modo tale che prima imparavo, e poi insegnavo.

Il colloquio andò bene. Il responsabile della selezione, appena mise occhio sui miei lavori, fece un salto sulla sedia.

- Mai visto niente di più bello, perfetto, preciso! E non c’è neanche un canovaccio di sceneggiatura! Tutto rigorosamente a cervello! – l’uomo, che si chiamava Gianfranco Paolucci, mise l’accento su quella parola, cervello, ribadendo successivamente Donatello, ragazzo mio, sei un ragazzo che ha cervello! Ed io non ti lascerò scappare!

E così fece. Non mi lasciò scappare.

 

La maggior parte del mio tempo libero, la trascorrevo alla caffetteria del Centro, in solitudine. Roma era anche una bella città, ma per girarla tutta ci voleva una voglia che io, francamente, non avevo. Passavo le ore a leggere o scrivere, nonché ad osservare, di tanto in tanto, i ragazzi che frequentavano i corsi. Se avessi dovuto descriverli in una parola, Alternatività sarebbe stata senz’altro quella adatta; potevo imbattermi in creste multicolori, abbigliamenti strani e misteriosi di ogni colore possibile (travestimenti inclusi), nonché atteggiamenti che ricordavano molto il mondo dei fumetti. Il tutto perpetrato da ragazzi dai diciotto anni ai cinquanta, che frequentavano la scuola.

Ogni pomeriggio che passavo là (a volte anche qualche mattina), mi sembrava di entrare in una fabbrica dei sogni, dove io non ero più Donatello Tarasconi, terzo insegnante del corso di Tecniche di illustrazione fumettistica, bensì un normale visitatore che si affacciava timidamente in un mondo parallelo. E avrei sfidato chiunque a controbattere a questa mia convinzione, una volta varcati i cancelli antistanti all’edificio.

L’edificio era stato ricavato da una vecchia scuola privata, ceduta ad un certo sig. Rambaldi, il quale, nella sua infinita magnanimità ed amore per il mondo del cinema d’animazione, l’aveva adibita ad una piccola fabbrica dei sogni, affidandola all’estro ed alla creatività dei migliori cervelli in circolazione del duemila. Molti anni erano passati da allora, e tanti erano stati i fumettisti ad aver dato il loro contributo, facendo sì che il Centro fosse ancora vivo, vegeto e pieno di energia creativa.

Solo ricordando la vita che facevo prima, mi venivano i dolori di stomaco. Come avevo potuto essere così cieco, così statico da fermarmi alla vita dietro allo schermo del computer? Anche se esso mi aveva fatto trovare questa grande occasione, il tempo che io ci avevo perso dietro per tanti anni era ancora una macchia nel mio cuore.

Di bei ragazzi lì ce n’erano a iosa, e un giorno fui addirittura sorpreso di ricevere sulla mia casella di posta elettronica, dei messaggi di ammirazione molto dolci da parte di studentesse ed addirittura studenti. Non mi era però ben chiaro che cosa ammirassero più di me, se il mio corpo ancora un po’ deforme (nonostante stessi perdendo qualche chilo), oppure la mia capacità di insegnare loro come creare mondi dal nulla. Sorridevo, ogni volta che ricevevo una di quelle mail, e ne ero anche contento. Tuttavia, le mie risposte si limitavano a laconici ringraziamenti e timide osservazioni.

Le mie ferite in campo amoroso erano ancora aperte, e ci sarebbe voluto un miracolo, per rimarginarle.

 

Come ho già accennato, di ragazzi e ragazze omosessuali tra i frequentanti i corsi ce n’erano a bizzeffe. Forse la quota superava di poco il 50% più uno. Qualche dubbio lo avevo sugli insegnanti.

I miei colleghi erano tutti molto taciturni. Con le loro classi parlavano e discutevano, ma tra di loro sembravano non scambiarsi una parola. Logicamente perché i corsi non erano interdisciplinari (salvo alcuni casi come il mio, che oltre alle tecniche di disegno prevedeva l’insegnamento della progettazione di una storia, il che mi portò a stringere amicizia con il mio collega, Antonello Scaravalli), bensì ciascuno aveva solo gli insegnamenti previsti, senza incroci con altri corsi.

Antonello “Lello” Scaravalli era un giovanotto di trent’anni. Bello, atletico, proporzionato, con la sua carnagione scura ed i suoi capelli ed occhi neri da somigliare così tanto ad Antonio Banderas, faceva impazzire quasi tutti i frequentanti il Centro, soprattutto le ragazze. Era bisex, e non ne faceva mistero con nessuno. Forse era questa la cosa che amavano tutti, in lui: che si concedesse a chiunque. Uomo o donna che fosse. Quando me lo disse, dovetti trattenere una risatina nervosa, che esplosi successivamente in bagno.

Nonostante la sua propensione per il sesso, era un ragazzo molto attento e soprattutto amichevole. Laureato al DAMS di Bologna, era esperto in sceneggiature e soggetti, ma, diceva, sapeva riconoscere le belle cose quando le vedeva, e quando vide i miei lavori… Beh, s’inchinò al mio cospetto. Una cosa che mi fece un po’ rabbia fu che era preso in particolare dal personaggio di Dandy. Cazzo! Avevo fatto di tutto per tenerlo lontano dalle scene principali, ed un bietolone come Lello si faceva incantare? Se fosse stato una persona vera, avrei cercato in tutti i modi di liquidarlo, quell’invadente di Dandy.

- E’ proprio un bel personaggio! Ma perché lo tieni in secondo piano? Non sarebbe meglio farlo agire da protagonista? – disse Lello, guardando con attenzione le mie tavole, mentre sorseggiava un caffè, a gambe incrociate al tavolo della caffetteria.

- Beh… Sai Lello – cominciai, sorseggiando un po’ della mia Sprite - …ritengo che la bellezza non debba essere condizione primaria per essere protagonisti. –

Lui alzò un dito e mi lodò – Giustissimo, Dodò – anche lui usava quel nomignolo che usavano tutti – Ma io credo che sia un bel personaggio, non solo perché è bello fisicamente, anche perché dimostra di avere una statura. Sembra quasi… vivo! –

Quel commento mi fece andare la bibita di traverso. Tossii, e Lello accorse subito in mio aiuto, battendomi una mano sulla spalla.

- Cazzo! E bevi un po’ più piano, testa di condominio! – commentò lui, allegramente.

Io tossii una volta ancora, scuotendo la mano a segnalargli che andava tutto bene. In realtà ero scosso perché io l’avevo conosciuto, il mio Dandy. E per come l’avevo conosciuto io, non mi aveva trasmesso nulla di buono, deludendo le mie aspettative.

- Ci penserò. – dissi io, tra un colpo di tosse e l’altro, chiudendo l’argomento.

A mettere un sigillo definitivo a quella conversazione su Dandy fu la comparsa di una persona nuova all’interno della caffetteria.

Camminava a passo sostenuto e sicuro di sé, passando tra i tavoli come un modello ad una sfilata di moda. E sì che avrebbe potuto esserlo, dati gli abiti che indossava: una giacca di jeans con le maniche rimboccate a metà, pantaloni bianchi molto raffinati, ed una camicia a quadri. I suoi capelli biondi e morbidi ondeggiavano ad ogni suo passo, nello stile di un ciuffo alla moda EMO che lasciava trasparire i suoi occhi azzurri ed un orecchio costellato di piercing a forma di perla dai colori cangianti. Ad una spalla teneva uno zaino piuttosto malandato, pieno di scritte e intarsiato di spille. Quello zaino, pensai, come minimo deve aver visto i tempi in cui a scuola si ascoltava ancora la musica con il walkman.

Lo seguii con lo sguardo, finché non si fermò alla cassa, attese un secondo e prese un panino, raggiungendo un gruppo di ragazzi che lo salutarono sorridendo.

- Oh, oh… - commentò Lello, osservandolo – è arrivato Manuel. –

- E chi è…? Non mi sembra di averlo mai visto prima… - dissi io, bevendo ancora un altro sorso della mia bibita. Questa volta per calmare uno strano senso di non-sapevo-nemmeno-io-cosa che mi era venuto a guardarlo.

- Lui è il nuovo insegnante di tecniche di cinematografia d’animazione. Un genio. Per quelli come me, invece, il più bello, carino, incredibile, incommensurabile, indiscutibile, inculabile…. Inarrivabile pezzo di figo che abbia mai messo piede su questa infelice terra. – arrossi imbarazzato al penultimo aggettivo usato da Lello, non tanto perché l’avesse quasi urlato provocando l’interesse di molti avventori, quanto perché forse avevo capito cos’era quel certo nonsoché da cui ero stato assalito prima. Arrossi ancora di più, e Lello se ne accorse.

- Bè, che ti prende? Ti sarai mica strozzato un’altra volta? –

- No, no. – risposi io. – E’ solo che… - volli dire qualcosa, ma mi bloccai, quindi buttai lì una domanda a caso. – Ma tu lo conosci bene? –

- Se lo conosco? Cazzo! Ho provato a fargli il filo da quando è arrivato al centro. Ma non c’è stato nulla fare. Più incorruttibile di un macigno, il cucciolotto. – Ridacchiò divertito – Fortunatamente non tutti sono come lui. – disse, strizzandomi l’occhio.

Io abbozzai un sorriso, pensando da un lato che talvolta Lello esagerava con le sue smanie di portarsi a letto qualunque cosa fosse accettabile fisicamente e dall’altro che se Lello non aveva avuto speranze con Manuel, allora io mi sarei dovuto rassegnare all’istante, magari sotterrandomi sotto due metri di terra ogni volta che avrei incrociato la sua strada.

Lo osservai da lontano. Parlava amabilmente con tutti quei ragazzi e ragazze al suo tavolo, ascoltando e talvolta ridendo… Era un bel ragazzo, senza dubbio. Ma perché non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso? Perché non riuscivo a dire a me stesso che, non essendoci speranza, non avrei dovuto nemmeno guardarlo?

Perché?

Sospirai, pensando che forse il mio periodo felice a Roma stava per finire, un’altra volta stroncato da problemi di cuore.

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Capitolo 36
*** Capitolo 35 ***


In quei giorni il lavoro mi aiutò moltissimo. Alla poca fatica di spiegare le lezioni, si aggiungeva lo studio di altre nozioni sul disegno e la colorazione, nonché (non potevo dimenticarlo) lo studio delle mie materie universitarie.

Benché avessi abbandonato le lezioni alla facoltà di Giurisprudenza, ero ancora formalmente iscritto, e quindi, in obbligo di dare gli esami se non volevo sperperare inutilmente i pochi soldi che ogni tanto comparivano sul mio conto corrente da mio padre. Mi restavano solo cinque esami da dare, e giurai che entro il 2011 li avrei dati tutti, finalmente laureandomi.

Ogni tanto Lello cercava di convincermi ad uscire, venendomi a trovare nel mio appartamento senza nemmeno avvisare (all’inizio le sue visite a sorpresa mi piacevano, ma dopo un po’ iniziai a stancarmi), ma senza mai riuscire a smuovermi. Non che fossi stanco. Tutt’altro: solo non mi sentivo di uscire. Non era un buon periodo.

Vedevo Manuel tutti i giorni al Centro. Lui insegnava nell’aula in fondo a destra, io nella prima a sinistra. Anche in quella destinazione di luoghi c’era un certo Karma. Le due aule erano esattamente agli antipodi, proprio come me e lui. Per contro, io non facevo nulla per cercare di avvicinarlo. A volte capitava che io guardassi una bacheca per vedere se mi avevano spostato gli orari o se c’erano novità da comunicare ai corsisti, e poco dopo Manuel si avvicinava anche lui; Nel parcheggio, quando io camminavo per andare alla fermata dell’autobus, lui camminava accanto a me per raggiungere la sua auto (Una Fiat Multipla targata Torino); Alla caffetteria, mentre stazionavo al bancone per prendere un caffè, lui appariva lì a due passi, ordinando un succo di frutta o una coca cola; Persino nei bagni! Mi sembrava di vederlo dappertutto. In tutti i casi mi limitavo a lanciare una fugace occhiata con la coda dell’occhio e poi fuggivo via, stringendo i miei libri sottobraccio con una presunzione di sicurezza e snobismo che sicuramente ogni regista avrebbe lodato per l’intensa realisticità, quando in realtà dentro soffrivo perché sapevo che se un belloccio come Lello non ce l’aveva fatta a conquistarla, io avevo ancor meno speranze, fisicamente ridotto com’ero.

 

Continuai con quella tiritera di fughe pianificate per due mesetti buoni. Passò ottobre, con le sue giornate uggiose ed i pomeriggi che andavano accorciandosi; Novembre, con il suo preannuncio di freddo e le foglie morte nel parco che assumevano quei colori rossi e gialli che mi piacevano così tanto; e arrivò Dicembre, freddo e ventoso, dai pomeriggi che non si distinguevano più dalla sera.

- Dov’è che vorresti andare, tu? – domandai a Lello, che mi aveva fermato accanto alla bacheca degli annunci. Quel giorno mi ero deciso a mettere gli occhiali, perché a furia di studiare, sentivo che la mia vista era calata un po’, abbastanza da non permettermi più di vedere bene le lettere scritte in piccolo sugli annunci. Meditai di andare a fare una visita da un oculista, per vedere di quanto avevo peggiorato la mia situazione oftalmica con la mia pessima abitudine di non mettere mai gli occhiali.

- In discoteca! Qui a Roma ce n’è una (gay, ovviamente) piena di un certo tipo di fauna che a Bologna ve la sognate! – il fatto che Lello descrivesse i ragazzi come fauna, mi dava il voltastomaco. Feci una smorfia di disappunto, prima di dire – Ci penserò. –

- Eddaaai, non farti pregare come al solito! – mi incitò lui, sorridendo a trentadue denti. Il fatto era che non mi andava di andare lì e magari vedere lui che riusciva a beccare gente mentre io avrei dovuto passare la serata seduto su un divanetto a guardare la gente divertirsi. La odiavo, la discoteca. Se c’era una cosa che avrei evitato nel mio soggiorno a Roma, era proprio la discoteca.

- Ma… Lello, io devo… - accennai timidamente una risposta, prima che Lello mi interrompesse, mettendomi entrambe le mani sulle spalle. Il mio braccio ora non era più ingessato, ma se mi si spingeva troppo forte, mi faceva ancora un po’ male.

- Ahi! – gemetti – Fai più piano! Ti ricordo che ho avuto una frattura, a questo braccio! –

Lui sembrò non curarsene, e rispose – Scusami. Lo so che devi studiare, ma almeno un sabato potresti venire a farmi compagnia, no? E poi… quest’aria natalizia, questa frizzantina e dispettosa bimba… Ma non ti viene voglia di sperare che possa colpire anche qualcuno che ti guarda, facendogli venire voglia di conoscerti? – Assunse un tono così teatrale che per poco non mi misi a ridere. Cercai di calmarlo, ma ormai era partito.

- Non ti viene voglia di prendere a te un ragazzo e di stringerlo a te, magari sussurrandogli – e qui cambiò tono di voce, abbassandolo di almeno tre ottave, in una goffa imitazione del cantante Barry White – Baby, I love you, let’s go to f… - Si interruppe, proprio mentre le sue labbra andavano verso il mio orecchio. Un bel po’ di ragazzi si erano fermati ad osservare quella sceneggiata che aveva messo su Lello, ridacchiando divertiti. Molti di loro lo conoscevano, e lui si affrettò a togliermi le mani di dosso e ad assumere la posa più innocente possibile. Era un farfallone, ma capiva quando esagerava.

- Tutto a posto, ragazzi! – li rassicurò – Stavo solo cercando di intortare il mio buon amico Donatello, l’incredibile insegnante di tecniche di fumetto! – rise. Ed i ragazzini risero con lui.

- Certo che potresti intortare qualcosa di meglio, eh? – disse uno di loro, ad un certo punto. Un ragazzo con una cresta viola ed un piercing nero sul labbro inferiore. Avrei avuto voglia di prenderlo a schiaffi.

In quel preciso momento passò Manuel. Camminò nel mezzo. Alla sua sinistra c’eravamo io e Lello, alla sua destra il gruppetto di ragazzini. Io guardai in basso, mentre Lello lo salutò allegramente.

- Ehi Manuel! – attaccò – Che tempo fa lassù? – domandò, alludendo non tanto all’altezza di Manuel (contavo che superasse abbondantemente il metro e ottantotto), quanto alla sua altezzosità.

Questi si fermò e si voltò verso di lui, rivolgendogli un sorriso di circostanza.

- Non lo so , Lello. Ma quando mi installeranno una centralina meteorologica sulla testa, sarai tu il primo a saperlo. Ciao. – tagliò corto, andandosene.

- Anche oggi di ottimo umore, vedo! Evviva la vita! – gli urlò dietro Lello, ridacchiando.

- Sempre evviva. – rispose Manuel, e la sua voce apparve come un mormorio, alla distanza che aveva raggiunto allontanandosi. I ragazzi di fronte a noi fecero delle facce di circostanza, dalle quali io potevo leggere chiare frasi: quanto se la tira, quello… oppure ma chi si crede di essere, la Granduchessa di Bulgaria? Oppure ancora quella che mi sembrò la più crudele, che avevo già sentito negli ambienti bolognesi: non ha ancora trovato il pisello giusto da infilare nel suo culo esigente.

Mentre io, in quel preciso momento, desiderai che la terra mi inghiottisse, ma non lo fece.

 

La prima cosa che pensai quando varcai le porte della discoteca, scendendo le scale che portavano alla pista, fu che la discoteca di Bologna nulla aveva da invidiare a quella di Roma. Forse un po’ lo spazio, ma per quanto riguardava la cosiddetta fauna, il logotipo era sempre lo stesso. Ragazzi bellissimi, tiratissimi, che si imbellettavano il sabato ed anche gli altri giorni. Come sempre in discoteca mi sentii gli occhi addosso per il mio peso, ma questa volta immaginai anche come potesse essere la vita di ognuno di questi. Cosa facessero quando non si divertivano, se studiavano, se erano fuori corso all’università, se fossero felici o tristi della loro vita.

In un certo senso in una discoteca non c’era molto da capire. Si andava lì, si vedeva di racimolare qualcuno da portare a letto, si faceva bim bum bam e poi grazie e a non rivederci. Quindi era normale che un individuo come me, già fisicamente inadatto, si sentisse particolarmente a disagio anche per ciò che aveva in testa. Guardavo i ragazzi con occhio diverso da come li guardavano tutti, e anche questo mi precludeva molte strade. Inutile dire che il senso di oppressione generato dalla smania di confronto mi scattò immancabilmente anche quella volta, e ripensai a Fiorella (con cui avevo avuto l’ultimo colloquio circa una settimana prima di partire per Roma, in Settembre. Il mio lavoro termina qui, ma solo in termini di tempo, Donatello. Invece il suo lavoro continua. Mi creda, vorrei tanto poterla accompagnare ancora, seguire i suoi notevoli progressi che in un anno ha fatto… ma non mi è concesso. Perciò mi limiterò a dirle che è stato un piacere lavorare con lei. Così mi disse, e ci lasciammo), a quella volta in cui mi chiese se era veramente necessario per me essere attraente. Sospirai tra me e me. Se quella volta con lei avevo risposto sicuro che sì, avevo bisogno di sentirmi attraente, quella volta in discoteca non ne ero più tanto sicuro, avendo provato l’ebbrezza di sentirmi attraente per delle creature che non esistevano. I miei personaggi.

- Vieni – mi disse Lello all’orecchio, cercando di farsi sentire nonostante il frastuono della musica. – Ti presento i miei amici! –

A dire la verità non ci sarebbe stato nemmeno bisogno di fare le presentazioni. Metà dei ragazzi del suo gruppo erano del Centro, quindi li conoscevo bene di viso ma quella sera imparai i loro nomi. Nonostante l’apparenza, sembravano ragazzi simpatici, se non altro con loro ebbi degli argomenti di discussione: disegno, tecnica di disegno, impaginazione… Per un momento mi sembrò addirittura di essere in pace con me stesso.

Guardai verso Lello, che aveva già fatto serata: era lì in pista che ballava con un ragazzo un po’ più basso di lui, con i capelli argentati, vestito come un importante figlio di papà. Le uniche due cose alternative che si era concesso erano un braccialetto multicolori, ed un brillantino fosforescente al naso. E come al solito, la storia si ripeté.

Lello che guardava negli occhi il ragazzo, lui che ricambiava lo sguardo. Ballavano avvinghiati per un po’ di tempo, finché non cominciavano a baciarsi teneramente le labbra. E come loro, tante altre coppie. Un girotondo di fisicità travestita da affetto, tra ragazzi bellissimi ed irraggiungibili.

Ma anch’io avevo avuto la mia parte, non era forse così? Con tutti quei ragazzi che avevo incontrato, con quelli che avevo baciato, con quelli con cui ero stato a letto… con Simone… con Dandy.

Dandy, già. Per la prima volta dopo sei mesi, ripensai a lui e a come ero stato bene nel mondo di sogno in cui io stesso mi ero ficcato e dal quale io stesso avevo deciso di uscire. Forse sarebbe stato meglio se non ne fossi mai uscito. Sarei rimasto lì, in quell’ospedale a Pavia, tenuto in vita solo da una macchina, fino a che il mio corpo non fosse diventato deforme e definitivamente infermo, magro ma brutto. Mentre io continuavo a spassarmela nel mondo dei sogni.

Ripensai a quello che mi aveva detto Humphrey. Che in questo mondo avevo una vita. A questo proposito, pensai a mio padre e mia madre. Essi erano venuti a trovarmi più volte all’ospedale. Mia madre era al colmo della gioia quando mi vide sveglio e cosciente, e mio padre altrettanto. Per il resto, da quando mi ero svegliato, non mi avevano fatto nemmeno una telefonata, non si erano fatti sentire prima della mia partenza per augurarmi che tutto andasse bene, né mi avevano chiesto cosa andavo a fare. Erano o no, poco interessati a me?

 Un po’ meglio era stato mio fratello. Aveva accettato che fossi gay e, prima della mia partenza, mentre stavo facendo i bagagli, mi fece una lunga telefonata in cui alternammo allegria e gioia, tristezza e comprensione… Ermanno aveva accettato che io fossi gay, ma più che accettare ciò, altro non poteva fare. Non poteva certo provvedere al mio bisogno di dare affetto ad un ragazzo. Figurarsi… Non riuscivo da solo con le mie forze, figuriamoci se ci sarebbe riuscito mio fratello.

Francesco? Lui era stato addentro al mondo gay per anni, addirittura prima di diventare maggiorenne. Di ragazzi ne aveva conosciuti di tutti i tipi, che addirittura avevano avuto l’intenzione di allacciare rapporti con lui. Ma lui si era fermato con il simpaticissimo Nicholas, che mi aveva in antipatia per com’ero fatto fisicamente. Anche lui, avrebbe mai potuto presentarmi un ragazzo, se tutti quelli che incontrava erano come Nicholas?

Ad aggiungere dolore al dolore, arrivò anche, con un colpo di clacson, il pensiero della mia povera Audi, la mia povera piccola macchinina schiacciata dal camion e mai più rivista se non accartocciata su sé stessa, in un trafiletto di giornale che annunciava il mio incidente. A che serviva vivere se non c’era nemmeno più lei?

In questo girotondo di pensieri, sentii che non riuscivo più a reggere. Facendomi velocemente strada tra i ragazzi presenti nel locale, raggiunsi la porta del bagno. Entrai, era incredibilmente vuoto. Immaginavo che fosse perché il locale aveva una spaziosissima dark room un piano più sotto, quindi il bagno serviva solo per la sua funzione istituzionale. Nel mio caso servì al mio sfogo.

Mi chiusi dentro e iniziai a piangere. E piansi, piansi tutte le lacrime che avevo trattenuto fino ad allora, per tutti i ragazzi che mi avevano deluso, per ciò che avevo perso, per come la vita era cambiata almeno in parte, ma per l’altra parte restava ancora un inferno di piattezza…

I miei singhiozzi erano intervallati dal tunz-tunz della musica, tanto che il mio pianto assunse addirittura un qualcosa di stranamente ritmico.

Quando fui sicuro di essermi scaricato, almeno per un po’ dei miei dolori, uscii dal bagno e mi diressi ai lavandini. Mi guardai nello specchio. Dietro le lenti degli occhiali, i miei occhi erano gonfi e rossi. Sospirai, cercando di calmarmi un po’. Nella mia testa, un pensiero ricorrente: Lo sapevo che dovevo dirgli di no, lo sapevo, lo sapevo, lo sapevo.

Mentre pensavo, aprii il rubinetto. Un getto d’acqua gelida uscì dalla bocchetta, io vi misi le mani a coppa sotto e mi sciacquai il viso. Quando li riaprii, una persona era comparsa alle mie spalle, allo specchio.

Era Dandy, che mi guardava con espressione neutra. In quei suoi occhi c’era tutto il dispiacere, unito al desiderio di consolarmi, in un’incredibile carica emotiva che mi paralizzò per un istante. Strabuzzai gli occhi, rendendomi conto soltanto dopo che quella persona riflessa nello specchio non era Dandy, ma bensì ...

- Ciao – mi salutò Manuel – Perché piangi? – mi domandò.

Io mi voltai lentamente, e lo guardai per un secondo. Indossava un paio di jeans grigio scuro, un’elegantissima camicia bianca e sopra di essa un gilet nero. I capelli erano biondissimi, quasi di platino, e mi accorsi anche di un’altra cosa: i suoi occhi azzurri erano ora circondati da un paio di occhialini neri. Non potei esimermi dal pensare che l’aveva fatto per seguire me: anch’io mi ero messo gli occhiali soltanto quella mattina.

Non sapendo cosa dire, mi limitai soltanto a dire – Scusami! Adesso devo andare! – e feci per avviarmi, quando lui mi fermò.

- Eh no – disse – da qui non te ne vai se prima non mi dici cosa c’è che non va. Me ne sono accorto di come ti dilegui quando ci sono io. Allora? Cosa devo pensare, di esserti antipatico? –

La sua voce era bella, velata di un leggerissimo accento romanesco, che di per sé era parecchio affascinante. Lo guardai dal basso verso l’alto, avendo voglia di rispondergli che no, non mi era antipatico. Anzi, tutt’altro. Avrei voluto passare la serata con lui, parlargli e conoscerlo.

- No, è solo che … - scossi la testa, evitando di continuare la frase. – Io non ti conosco. Come faccio a stabilire se mi sei simpatico oppure no? –

- E allora, conosciamoci. – disse lui, alzando le spalle. – Io sono Manuel. Ma sicuramente conosci già il mio nome, se hai come amico quello sgallettato di Lello. Tu come ti chiami? –

- D… Donatello. – feci io, balbettando un po’ per l’emozione. Lui annuì, e rise.

- “D… Donatello?” – ripeté. – Sei balbuziente oppure l’impiegato dell’anagrafe era uno stronzo? – e rise. Io lo guardai un po’ sorpreso, ma senza tuttavia darlo a vedere. Feci una risatina anch’io, rimettendomi gli occhiali. Adesso che lo vedevo meglio, era veramente, ma veramente carino.

- Eh-eh – farfugliai – Molto divertente. –

Lui mi guardò e mi strizzò l’occhio. – Allora, hai visto che non mangio nessuno? –

Io non risposi. Tuttavia, lui fu lesto a riprendere il discorso.

- Senti – mi disse – Ho un problema. –

Io lo guardai sollevando un sopracciglio, perplesso.

- Di che si tratta? –

- Mi vedi? – fece un gesto con le mani, indicando sé stesso – Ogni volta che vengo in discoteca, attiro sempre dei bavosi che vogliono provarci. Non riesco ad avere un attimo di pace. Pensavo che tu… - disse, e poi mi guardò con aria furbetta.

- Io… cosa? – gli chiesi, incrociando le braccia sul petto.

- Mi chiedevo se tu potevi farmi da … cavaliere, per questa sera. – disse, senza paura. Ovviamente, carino com’era, avrebbe potuto ottenere tutto ciò che voleva.

Imbarazzato, e con il cuore che mi martellava nel petto, gli domandai – E perché proprio io? –

Lui sbuffò. Tipico dei ragazzi carini, che sono quasi sempre un po’ capricciosi. – Perché sei un gran figo e anche se sembri Fantozzi ringiovanito penso che tu sia un ragazzo a posto. Ti va bene come risposta o devo tornare fuori a cercarmi un altro accompagnatore? –

- No, no! – risposi prontamente io – Ti faccio io da accompagnatore. –

Lui fece un sorriso artefatto. – Grazie. Non te ne pentirai, te lo assicuro. –

 

Non vi dico la faccia che fece Lello quando mi vide uscire dal bagno a braccetto con Manuel. Il mio buon amico era sconvolto, quasi che avesse visto la Regina Elisabetta alzarsi il vestito e mostrarla a tutto il Regno Unito, ed il suo stato d’animo era sottolineato dalla sua mascella: ancora un po’ e sarebbe cascata sul pavimento. Il ragazzino che era con lui provò a scuoterlo un po’, ma immaginai che dopo quel giro di ballo, se ne sarebbe andato in bagno anche lui come avevo fatto io prima. A piangere, forse, o a chiedersi che cos’avessi io più di lui.

Fui solo contento quando non lo vidi più per tutta la serata, perché tutto quel tempo lo passai insieme a Manuel. Chiacchierammo parecchio, io e lui. Scoprii che anche lui aveva vinto lo stesso concorso che avevo vinto io, ed era stato destinato ad insegnare cinematografia d’animazione, presentando un cortometraggio sulla guerra in Iraq in formato animato. Non era pagato abbastanza, ma il lavoro gli piaceva. E comunque, poteva contare su una famiglia molto ricca.

Dopo i convenevoli, arrivammo alle note dolenti: mi disse che lui era ambito da un sacco di ragazzi, che purtroppo volevano soltanto portarselo a letto, mentre lui desiderava qualcosa di più. Lui desiderava trovarsi con una persona. Ma finora, non era mai successo.

- Ci tenevi ad Antonello, come amico? – mi domandò, ad un certo punto della serata.

- In che senso? – gli domandai io, di rimando. Eravamo fuori nel giardino, a fumarci una sigaretta. Raramente io fumavo. Spesso Francesco lo faceva, fumando addirittura spinelli, e mi invitava a partecipare. Non avevo mai incominciato e in ogni caso rifiutavo sempre quando mi veniva offerto. Eppure sentii di dover accettare la sigaretta che mi porse Manuel. Aspirai con piacere il suo fumo, immaginando che quella sigaretta fosse stata il tramite tra le mie labbra e le sue.

Lui fece un tiro dalla sua Marlboro – Nel senso che – cacciò fuori il fumo – ci tenevi come persona, ti piaceva stare in sua compagnia? –

Mi strinsi nelle spalle – Beh, è un bravo ragazzo, anche se è un po’ troppo farfallone. Nel complesso mi trovo bene… ma… perché usi il verbo al passato? –

Manuel rise. – Perché ho idea che dopo averti visto con me, non vorrà più parlarti per almeno un decennio, se lo conosco bene. – rise un po’ più forte, ed io, dopo un iniziale sconforto, lo accompagnai nelle risate. Ridemmo per un bel pezzo, come due ragazzini che avevano fatto una marachella. Poi ci guardammo negli occhi. Lui mi sorrise. Ed io distolsi lo sguardo.

Ballammo e chiacchierammo ancora un po’, ed io fui felice che lui si fosse avvicinato a me. Ballammo addirittura un lento, abbracciati. Stare vicino a lui confermò ciò che avevo stimato: che fosse più alto di me. Infatti mentre ci guardavamo negli occhi dovevo alzare un pochino lo sguardo, ma ciò che vedevo bastava a ripagarmi.

Cavallerescamente, cercai sempre di evitare di mettergli le mani sul sedere, tenendogli soltanto i fianchi. Le sue mani, grandi e con qualche anello al dito, erano intrecciate dietro la mia nuca. Mi sorrise.

- Grazie – mi disse all’orecchio.

- Per cosa? – domandai io.

- Sei l’unico che non mi tocca il sedere mentre balla con me. Grazie. – rispose, ed io mi sentii di nuovo in imbarazzo.

 

Uscimmo insieme dalla discoteca. Io feci per salutarlo, dichiarando che dovevo prendere l’autobus (Manuel ci aveva azzeccato, Antonello si era dileguato in fretta, sicuramente per ciò che aveva visto. Il pensiero mi fece ridere, ma gliene avrei dette quattro non appena l’avessi visto), o rischiavo di rimanere a piedi.

- Nemmeno per scherzo. – disse Manuel – Tu vieni con me. Ti accompagno io. – disse.

- Beh, non vorrei disturbare. Mi sentirei in debito, dopo… -

- Quanto la fai lunga! Va bene, se vuoi andare a piedi vai pure! – esclamò, girando i tacchi e andandosene.

- Ehi, aspetta! – gli corsi dietro, ma lui non sembrò fermarsi. Lo afferrai per un polso, ed i suoi braccialetti tintinnarono. – Vengo con te. – dichiarai. Lui fece un mezzo sorriso.

Salii sulla sua Multipla, e lui si accomodò al posto di guida.

Di solito ero sempre stato io ad accompagnare le persone. Un gesto così non me l’aveva mai offerto nessuno. Se non altro nessuno che avevo conosciuto in una serata. Sentivo di potermi fidare di Manuel, non soltanto perché lavoravamo nello stesso posto, ma anche perché mi piaceva. Mi piaceva da morire.

Vacci piano, idiota… non farti prendere troppo la mano. Altrimenti va a finire che anche qui ti becchi la solita delusione, e dopo chi ti consola più? Disse la mia vocina interna.

Finito il viaggio, feci per scendere. – Bè, io sono arrivato. È stata una bella serata, grazie. Anche per il passaggio. –

- Tu dici troppi “Grazie” – mi disse, facendomi l’occhiolino. Io feci una risatina nervosa, quindi aprii lo sportello e misi un piede all’esterno.

- Aspetta – mi fermò lui – non mi dai il tuo numero di cellulare? Almeno così se Lello ti lascia di nuovo a piedi, puoi chiamare me. –

- Mi faresti da tassista, dunque? E cosa vorresti in cambio per il servizio? – scherzai.

Lui si strinse nelle spalle e roteò gli occhi – Chissà. Potrei chiederti di farmi di nuovo da accompagnatore, oppure potrei volere qualcos’altro… -

Io arrossii leggermente, quindi gli dettai il mio numero. Lui lo salvò. Mi dettò il suo, e lo salvai.

- Grazie – disse – Adesso sarà meglio che me ne vada a nanna anch’io. Sono quasi le cinque del mattino. –

- Già – dissi io – Meno male che è domenica. –

- Già… - rispose lui – Che noia, la domenica. – sbuffò – non so mai cosa fare. Specialmente in questo periodo. –

- Qualcosa da fare la troverai – gli dissi, e senza accorgermene gli misi una mano sulla spalla. Lui la guardò per un secondo, ed io fui lesto a ritirarla.

- Beh – dissi – Vado. Ci… ci vediamo, Manuel. –

- Ciao bello. Ci vediamo presto. – mi rispose. Io scesi dall’auto e andai verso il cancello che accedeva al palazzo dove alloggiavo. Chiusa la porta, mi nascosi dietro una siepe e lo osservai. Se ne andò dopo pochi secondi, ed io tirai un sospiro di sollievo. Corsi in casa mia, al decimo piano, e mi buttai sul letto.

Dormii per quasi dieci minuti, quando sentii il mio telefono squillare.

Un sms. Manuel.

“Andiamo a fare una passeggiata, domani?” diceva il testo. Io feci un sorriso e gli risposi.

“Sì.”

 

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Capitolo 37
*** Capitolo 36 ***


La domenica insieme a Manuel andò benone. Per la prima volta in tre mesi, feci un bel giro turistico di Roma, dov’ero stato soltanto da piccolissimo, con la mia famiglia. Da allora erano cambiate molte cose, ma le bellezze architettoniche restavano sempre quelle.

Il Colosseo ad esempio non aveva più le impalcature del restauro. Era di nuovo in ottima forma, nonostante i secoli che si portasse addosso.

In Piazza San Pietro incrociammo un gruppo di giapponesi che ci chiesero informazioni. Sorprendentemente, scoprii che Manuel parlava giapponese. Lo osservai stupefatto parlare così bene con i nipponici (che a suo confronto sembravano dei patetici omuncoli bassi, e lui un gigante, con quelle sue gambe lunghe e slanciate).

- Dove hai imparato il giapponese? – gli domandai ad un certo punto.

- In Giappone. Ho fatto un viaggio lì quando avevo sedici anni, e ho soggiornato lì dopo la laurea, per un perfezionamento sulle tecniche di animazione. E non sono nemmeno tanto bravo. –

- Scherzi? Cavoli! – esclamai – Sembrava di sentire un giapponese purosangue! –

Lui ridacchiò, mentre camminava – Perché tu non lo conosci, e ti sembra che io lo parli perfettamente. – non solo parlava bene come un giapponese, ma era anche bravo a non parlare troppo e non lodarsi tanto.

Continuammo il giro, ormai stava già diventando buio. Erano solo i primi di dicembre, ma il pomeriggio era già sera da molti giorni.

- Andiamo a farci una cioccolata calda? Offro io. – proposi ad un certo punto.

Sorridendo, lui annuì.

 

Scegliemmo un locale in centro, gremito di gente ma abbastanza gradevole. Mentre ero in fila per pagare, mi soffermai a guardare meglio Manuel.

Sedeva lì al tavolino, le lunghe gambe incrociate, a guardare fuori dal vetro. Era un bellissimo ragazzo, ma non solo: sembrava anche avere la testa sulle spalle. Mentre passeggiavamo mi aveva raccontato di tanti viaggi che aveva fatto, di tutte le passioni che coltivava… era in particolare un collezionista di fumetti manga e di macchinine. Non solo: adorava fare dei diorami, ovvero riproduzioni in scala di luoghi reali o fantastici. Dopo il suo diploma d’istituto d’arte era andato a studiare cinema alla Sapienza di Roma, specializzandosi in cinematografia d’animazione. Il suo sogno era di andare a vivere in Giappone e lavorare allo Studio Ghibli, la fortunata casa di produzione messa in piedi da Hayao Miyazaki, il creatore de “La città incantata” ed “Il Castello errante di Howl”. Manuel andava pazzo per tutti i suoi lavori, e mi confessò di aver pianto dopo aver visto “Il Castello errante di Howl”… così com’era stato toccato da tanti altri suoi film d’animazione. Un genio, un vero genio. Il tutto in soli ventisei anni.

- Eccomi – dissi, avvicinandomi al tavolino reggendo due tazze di cioccolata calda e fumante. Lui mi sorrise. Sinceramente, i suoi sorrisi erano i più belli che io avessi mai visto.

 

Continuammo a frequentarci nei giorni a seguire. Ci vedevamo al Centro e ci salutavamo come dei buoni amici, andavamo a pranzo insieme alla caffetteria e passavamo gran parte del tempo libero insieme.

- Sei sicuro che non vuoi stare da solo? – gli domandai, mentre raggiungevamo casa sua in auto. Guidavo io, e lui era il mio passeggero. Prima di darmi il volante, mi confessò che non lasciava mai guidare la sua Multipla a nessuno, nemmeno ai suoi amichetti del Centro, nonostante li conoscesse da un bel po’ di tempo. Aveva paura della loro troppa esuberanza, e che quindi gliela rovinassero. La sua auto non era nuovissima, aveva appena quattro anni, però Manuel voleva bene alla sua macchinina, un po’ come io avevo voluto bene alla mia Audi, prima che finisse distrutta nell’incidente in cui ero stato coinvolto. Sapendo anche questo, si era fidato lo stesso. Mi aveva visto con il braccio ingessato, i primi giorni in cui giunsi alla Fondazione, ed aveva intuito che io ero stato vittima di un incidente, però, per tutti i diavoli, s’era fidato. Non avrei saputo dire quanto la cosa mi lusingava.

- Sicuro – rispose lui, tranquillamente – E poi voglio farti vedere la mia casa. – Mi guardò, alzando un sopracciglio. – Non ti starai mica annoiando di me, no? –

Cambiando marcia, io sgranai gli occhi. Guardavo la strada, ma in realtà stavo parlando con lui – Ci mancherebbe! No che non mi sono annoiato di te, Manuel. Solo non vorrei risultarti troppo… appiccicoso, ecco. – conclusi.

A quella mia confessione, lui mi venne vicino e mi mise un braccio sulle spalle. – Non sei appiccicoso. – e mi strizzò l’occhio. – Gira qui a destra. –

Obbedii. Anche lui abitava in uno di quei palazzi popolari, un alveare di almeno venti piani. Ero curioso di vedere il suo appartamento, il luogo dove il genio pensava di notte, dove esprimeva la sua vita privata.

 

Arrivammo al pianerottolo dove abitava. Curiosamente, anche lui aveva un appartamento al decimo piano, proprio come me. Infilò la chiave nella toppa e aprì la porta, invitandomi ad entrare.

Titubante, io entrai. Lui si accorse di questo mio esitare e mi spinse dentro allegramente. – Su dai, coraggio. Entra! – esclamò, dandomi un colpetto sulla spalla.

- Benvenuto nel mio regno – disse, accendendo la luce. Davanti ai miei occhi si aprì un salotto molto ben arredato, pieno di mobili di tendenza e illuminato come uno studio fotografico. Per intenderci, non c’erano lampadari pendenti dal soffitto, né lampade da pavimento. C’erano solo faretti che proiettavano una luce intensa, che illuminava tutto molto bene. Alle pareti un sacco di quadri raffiguranti disegni, e manifesti di film d’animazione. In un angolo, c’era la zona studio: un tavolo da disegno ribaltabile (come quello che io avevo lasciato in camera mia, a Bologna) retroilluminato, ed una scrivania completa di scaffalature per libri e CD con sopra un computer portatile. Più in là si poteva vedere un tavolo con quattro sedie e la cucina, separata dal soggiorno da un muro basso, che dava una sensazione di libertà e tranquillità. Nel corridoio si aprivano due porte: una doveva essere chiaramente la camera da letto, e l’altra il bagno. Pensai che chiunque avesse visitato quell’appartamento per la prima volta, senza conoscere il mestiere del proprietario, non avrebbe certo detto che apparteneva ad un impiegato del catasto. Era fin troppo chiaro che ci si trovava al cospetto dell’appartamento di un artista.

- Allora? – mi domandò, sorridendo mentre si parava innanzi a me, mentre io guardavo l’ambiente con occhi sgranati.

- E’… è stupendo. – mormorai, sorpreso.

- Oh, via – si schermì lui, gesticolando con la mano destra – è solo un trilocale. L’ho soltanto abbellito un po’. – sorrise, e mi prese la mano, invitandomi al centro del salotto, dove c’erano due divani e, in un angolo, un televisore con impianto stereo.

- Vuoi un po’ di musica? – mi chiese.

Io mi strinsi nelle spalle – Come vuoi. – dissi, continuando ad ammirare. – Quello cos’è? – domandai, riferito ad un apparecchio che non avevo mai visto prima, una specie di scatola sormontata da un proiettore.

Lui mi si avvicinò, a braccia incrociate. Nel frattempo, le note di una canzone di James Blunt uscirono dall’impianto stereo.

- “Quello” è una macchina da presa per animazione. Si infilano i fotogrammi disegnati e si vedono lì, sul piano orizzontale. – indicò con il dito il piano orizzontale bianco – Naturalmente è caduta in disuso da parecchio tempo, soppiantata dalla tecnologia del computer. La uso ogni tanto, ma prima o poi la metterò definitivamente in soffitta. –

Immaginai che un macchinario del genere costasse un bel po’ di soldi, ma sapevo che a Manuel il denaro non mancava. Solo mi sfuggiva dove se la fosse procurata.

- L’ho presa ad un’asta giudiziaria – disse sorridendo, guardandomi in faccia come se avesse intuito ciò che stavo pensando – l’ho pagata milleduecento euro. Nuova viene circa ottomila euro. –

Sgranai gli occhi. Anche se io venivo da una famiglia benestante, proprietaria di un appartamento in periferia, dubitavo che mio padre o mia madre riuscissero a portare a casa così tanto di stipendio.

- Vieni – disse lui – ti faccio vedere la mia stanza da letto. –

 

Anche lì, le luci erano costituite da faretti pendenti dal soffitto. La sua camera da letto era molto sobria ed accogliente, con un bel letto matrimoniale in stile moderno, due comodini ai lati ed un comò con alcune fotografie. Manuel si avvicinò al letto, saltellandovi un po’ sopra con il sedere. Si tolse le scarpe, e ci salì sopra continuando a saltellare.

- E’ divertente! – esclamò, ridendo. Io risi con lui, osservandolo con le mani in tasca, come un padre osserverebbe il suo bambino che gioca. – Vieni anche tu! –

Senza dire nulla, obbedii. Mi sedetti, e lo osservai mentre si fermava e mi veniva accanto.

Sentivo che c’era qualcosa tra noi due, ma forse avevo ancora paura ad ammetterlo. Ero troppo spaventato al pensiero di venire ferito di nuovo, o di non essere all’altezza di mantenere in piedi una relazione. Guardai Manuel, e lui guardò me. Arrivati a quel punto, non mi sembrava vero di essere con lui, nel suo appartamento, dopo aver condiviso giorni bellissimi senza mai un disagio. Proprio lui, Manuel Chiaravalle, il bellissimo ed irraggiungibile insegnante di cinematografia della Fondazione Rambaldi, irraggiungibile persino da un belloccio come Antonello, aveva invitato me, Donatello Tarasconi, soprannominato Sfigato Numero Uno di Bologna, che non riusciva a trovare altro che delusioni e che si piangeva addosso nei momenti di solitudine. Era troppo bello per essere vero. Lui mi piaceva, mi piaceva da morire, ma non sapevo come dirglielo. E forse mai gliel’avrei detto. Sarebbe stato un segreto che avrei gelosamente custodito fino alla tomba, perché avevo paura che dicendogli di amarlo, avrei rovinato quel bellissimo rapporto che avevamo costruito in pochi giorni.

Come un gatto, Manuel si sedette accanto a me, e mi mise un braccio attorno alle spalle.

- Cos’hai? – mi chiese. Lessi nei suoi occhi una sincera preoccupazione. Io abbozzai un sorriso.

- Niente. Va tutto bene. –

Lui scosse la testa – Non fingere con me, Donatello – mi disse – Io sono abbastanza bravo ad intuire se c’è qualcosa che non va, nelle persone che mi stanno accanto. E tu mi sembri un ragazzo che ha tante cose che gli hanno fatto male. – Mi guardò con più convinzione – O sbaglio? –

Sospirai. Per quanto fosse grande la mia voglia di contraddirlo, altrettanto grande era la mia tristezza e frustrazione. Presi un po’ di tempo, prima di rispondere. Sospirai ancora, cercando le parole giuste. Anche lì, avevo paura che se avessi detto qualcosa di sbagliato o se mi fossi mostrato troppo piagnone, lui si sarebbe allontanato da me. Ed era una cosa che non avrei mai tollerato.

- Non sbagli, Manuel. – sospirai ancora – Effettivamente non vengo da un buon periodo. Quest’anno è stato particolarmente devastante. –

- Me ne vuoi parlare? – propose lui, sporgendosi un po’ di più, e abbracciandomi teneramente.

- Non… non lo so. Non vorrei poi annoiarti, o… o farti scappare via. – dissi io, arrossendo.

Lui scosse la testa. E mi carezzò i capelli. – Dimmi ciò che ti turba, Donatello. – tagliò corto lui, senza aggiungere un “puoi fidarti di me”, “parla liberamente ed io non ti abbandonerò”… eppure sentivo di potermi fidare di lui.

E così, iniziai.

Gli raccontai di tutte le mie delusioni in campo relazionale, di quanto mi sentissi demoralizzato e triste, ma anche di come fossi stato contento di aver ritrovato un fratello maggiore ed un amico… Bologna non era luogo per me, gli dissi, troppo piena di ragazzi falsi e a cui non piacevano quelli un po’ in carne come me… Parlai di come percepivo i ragazzi, di come loro mi avevano fatto soffrire… Gli raccontai di Simone, e dell’incidente che avevo avuto. Mi astenni dal raccontargli la parte in cui sognai Dandy Landy ed i suoi personaggi che volevano tenermi morto, ma nel complesso fui abbastanza fedele alla realtà. Manuel ascoltava, attento, annuendo e senza perdersi una parola del mio monologo. Quando terminai, lui sospirò a sua volta.

Quel sospiro mi tenne sulle spine per un bel pezzo. Pensavo di avergli fatto cambiare radicalmente idea su di me, e che da un momento all’altro mi avrebbe sbattuto fuori di casa. In più, restammo in silenzio per un bel po’. Un lungo momento in cui ci guardammo negli occhi, come se quella sera fosse stata l’ultima in cui ci vedevamo… Era troppo, per me.

- Donatello – disse infine Manuel – Hai sofferto un bel po’, a quanto ho capito. –

- Così è, Manuel – confermai io, stringendomi nelle spalle, nel tentativo di minimizzare tutto il nero che gli avevo raccontato.

- Per prima cosa – mi disse, sbattendo le palpebre – ti faccio i miei complimenti per essere ancora tra noi. Dopo tutto quello che hai passato, penso che se tu sia ancora vivo è un miracolo… - abbozzò un sorriso, ed io finalmente intuii che cosa stava provando. Avrebbe voluto piangere, ma si stava trattenendo strenuamente.

- In secondo luogo – continuò – Penso che tu sia un ragazzo straordinario. E che i ragazzi siano solo una massa di imbecilli, che non sanno guardare oltre l’aspetto fisico, che non sanno cosa vogliono ma sanno benissimo dove lo vogliono! – alzò un po’ la voce, mentre pronunciava quel “dove”, visibilmente stizzito.

- Sai, non credere che la vita di un ragazzo bello come me sia facile. Anzi, se vogliamo è più difficile. Tutti i giorni devo fare i conti con dei maiali che vorrebbero portarmi a letto. E con quel termine intendo annoverare anche il tuo amico Lello, che nel dare una possibilità a tutti, non sa a cosa va incontro. Mi fanno schifo quelli come lui, perché io sono stato preso in giro molte volte. – mi guardò. I suoi occhi erano gonfi di lacrime. – Credimi, essere belli non è facile. – Sospirò, e a quel punto ebbi il segnale di svolta. Mentre lui abbassava lo sguardo, io colsi l’occasione. Sembrava così fragile, in quel momento… un bambino sperduto, che voleva piangere ma che si tratteneva.

Oh Manuel, tu non sai quanto forte mi fai battere il cuore. Sei un ragazzo stupendo, fuori dal comune. E non solo sei bellissimo fuori. Sei bellissimo anche dentro. Quanti prima di me hanno avuto l’occasione di vedere la tua fragilità, anche solo per un secondo… E quanti altri ti hanno fatto male, piccolo Manuel? Chi ti ha fatto diventare la creatura così altera che si aggira per i corridoi della Fondazione perché non vuole più essere preda del dolore, chi ti ha lacerato il cuore così tanto da indurti a difenderti…? Vorrei soltanto essere qualcuno per te, vorrei essere colui che ti accompagnerà nei tuoi giorni, ma soprattutto vorrei che tu… mi salvassi da questo dolore che sento dentro.

Mentre pensavo queste cose, la mia mano scivolava verso la sua. Lambii leggermente le sue nocche, chiuse a pugno. Quando sentì le mie dita, come per magia si aprirono, accogliendole. Intrecciai le mie dita alle sue, sentendo il freddo dei suoi due anelli d’argento, e avvertendo allo stesso tempo la morbidezza della sua mano, con quelle lunghe dita da pianista e le unghie ben curate.

Sì, ce l’avevo fatta! Cogli l’attimo, Donatello! Esclamai dentro di me, mentre mi avvicinavo a lui per consolarlo.

Manuel alzò lo sguardo, guardandomi con quegli occhi azzurri così belli, dai quali fuoriuscivano delle rade lacrimucce. Mi avvicinai a lui, socchiudendo gli occhi. Lui fece lo stesso, e si avvicinò a sua volta. I nostri visi erano vicinissimi, le nostre labbra pronte a toccarsi, quando all’improvviso…

dlin-dlon!

Il campanello del suo appartamento suonò. Sospirando, Manuel si alzò e andò verso la porta. Sentii il rumore del citofono che veniva preso e lui che parlava.

- Chi è? – una pausa. – Ah, ciao ragazzi. – altra pausa – No, non mi disturbate affatto. Non stavo facendo nulla, ero con un amico. – risata da parte di Manuel – Non sono cazzi vostri. Salite, se volete. –

Io mi alzai dal letto, e nello stesso momento Manuel entrò.

- I miei amici. Sono venuti a trovarmi. Che fai, resti a cena con noi? – mi domandò, poggiato allo stipite della porta.

- Ehm … è abbastanza tardi e mi farebbe piacere restare, ma l’ultimo autobus passa alle ventitré. Se lo perdo sono fregato. –

Manuel fece uno sguardo sconsolato. – Neanche se ti accompagno dopo io, in macchina? –

- Ah, non disturbarti – risposi io, facendo un gesto con la mano – Sul serio, non mi dispiace andarmene. E poi… Ci vedremo anche domani. – gli sorrisi, guardandolo negli occhi.

Restammo lì così, per minuti interminabili, finché lui non ricambiò il sorriso. Mi avvicinai a lui e gli baciai una guancia.

- Vado… buonanotte, Manuel. –

- Ah… Donatello? – mi fermò.

- Sì? –

- Tra una settimana sarà Natale… e sarà anche… il mio compleanno. Lo festeggerò a Torino, con la mia famiglia. E mi chiedevo se… - si morse il labbro, come imbarazzato.

- Cosa, Manuel? Dimmi, non aver paura. –

- Mi stavo chiedendo se… se volevi venire con me, ecco. –

Natale coi tuoi, Pasqua con chi vuoi, pensai io, mentre fuori dalla porta si sentivano già i rumori dei suoi amici che erano arrivati. In verità avrei dovuto passare il Natale con la mia famiglia, ma l’idea non mi attraeva più di tanto. Ero sicuro che saremmo passati anche da Bologna per raggiungere Torino, e forse avremmo fatto una scappatella dai miei, e se ero abbastanza fortunato, riuscivo anche a trovare mio fratello e Chiara, così avrei potuto augurare loro Buon Natale.

- Ci penserò, d’accordo? E ti farò sapere al più presto possibile. –

- Promesso? – domandò lui.

- Promesso. – confermai io.

Lui sorrise, e mi salutò agitando la mano.

- Buonanotte, Donatello. –

- Buonanotte, Manuel. A domani. –

Dissi, e mi avviai verso la porta. I suoi amici mi salutarono ed io salutai loro, mentre Manuel veniva verso la porta per accoglierli. Salutai tutti e mi dileguai, scendendo le scale anziché l’ascensore. Avevo bisogno di calmarmi.

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Capitolo 38
*** Capitolo 37 ***


Il fatto che Antonello si fosse allontanato da me, mi dispiaceva. Non era un cattivo ragazzo, gli piaceva soltanto fare il farfallone e riuscire a conquistare più gente possibile. Avevo già tentato di avvicinarlo in un paio di occasioni, ma lui si era fatto sbrigativo e inavvicinabile. Un giorno, però, mi arrivò un suo messaggio sul cellulare.

“Vediamoci alla caffetteria” diceva il testo.

Velocemente, senza nemmeno prendere i libri dall’aula, andai lì. Era ancora vuota, perché a ridosso dell’inverno, lavorava ad orari differenti. Però rimaneva aperta, per quei pochi coraggiosi che volevano andare lì e studiare ai tavolini. L’unico difetto era che dovevano aspettare per essere serviti, in quanto il personale sarebbe arrivato soltanto alcune ore dopo.

Spinsi la porta a doppio battente che conduceva nel grande salone della caffetteria. Lì, in fondo, c’era Lello, in piedi, che mi guardava attentamente. Non chiedetemi come, non chiedetemi perché, sentivo una certa carica negativa nell’aria. I fatti accaduti dopo non mi avrebbero smentito.

Lello stazionava là, senza dire una parola. Io mi avvicinai lentamente, salutandolo – Ciao Lello – dissi, piano. – Come va’? –

Dopo una lunga pausa spesa a guardarmi in cagnesco, lui rispose – Lo sai benissimo come va. – disse, asciutto. – Me l’hai portato via. –

Soltanto due mesi prima, non avrei mai immaginato che Lello Scaravalli, il simpaticone insegnante che insegnava a progettare le storie dei fumetti, quello che dava una possibilità a tutti, si sarebbe trasformato in un uomo rancoroso come quello che stavo vedendo io quella mattina. Vi dirò anche che non avrei mai immaginato di doverlo tenere a distanza di sicurezza. Infatti, mi fermai ad una distanza di tre metri da lui, timoroso di non sapevo nemmeno io cosa.

- Io, Antonello Scaravalli, bello e aitante, che tutti i ragazzi dovrebbero volere, sono stato scavalcato da te… un insulso ragazzino obeso e brutto. – le sue parole furono come pietre per me.

- D… di cosa stai parlando, Antonello? – balbettai. Tremavo dalla testa ai piedi.

- Fai lo gnorri, eh? – mi incalzò lui, con gli occhi iniettati di sangue. – Sto parlando di Manuel. Ti ho visto, quella sera in discoteca. E ti ci avevo portato io! Speravo che me lo portassi da me e lui m’invitasse a ballare, e invece… invece è rimasto lì avvinghiato a te. Stronzo. Fai schifo. – Mentre diceva queste parole, si scrocchiava le nocche. In quel momento ebbi paura.

- Siamo… siamo soltanto amici. Non l’ho sfiorato con un dito, il tuo Manuel… - dissi, sulle prime. Poi però ebbi un’illuminazione. – E poi se ci tieni a saperlo, lui non ti vuole. Non gli piaci! Non sei un tipo affidabile, e lui non è uno di quei ragazzini ventenni che ti fai ogni giorno. Ha una testa, lui! È diverso dagli altri! – Parole, affermazioni, aggettivi. Fu tutto quello che riuscii a sparare in quegli attimi, dove l’adrenalina scorreva insieme al mio sangue ad una velocità supersonica, ed il cuore mi batteva forte nel petto dall’emozione mista a paura.

- Balle! Lo so che te lo sei fatto, lo so benissimo! Uno dei ragazzi mi ha detto che ieri sei stato a casa sua! non negarlo!!! – urlò.

Visto che urlava lui, urlai anch’io.

- Sì, è vero! Sono stato a casa sua, ma non ho fatto niente. Abbiamo soltanto parlato come due buoni amici! E comunque non sono affari tuoi! Tu sicuramente non l’avresti rispettato! Gli saresti saltato addosso come il lupo con Cappuccetto Rosso! – vi confesserò che stavo per scoppiare a ridere, a quell’affermazione, ma il mio senso di protezione verso Manuel mi frenò. Istintivamente, allungai le mani dietro di me, presagendo che stava per succedere qualcosa.

- Mi hai veramente deluso, Donatello. Ma adesso te la farò pagare. – disse, e venne avanti, mettendomi le mani addosso.

Con una rapidità che non mi riconoscevo, scartai di lato tra due tavolini, facendone cadere uno. Agile come un gatto, Antonello li scavalcò, cercando di agguantarmi il braccio. Io corsi verso un angolo della stanza, guardandolo come un topo avrebbe guardato il gatto.

- Non ti servirà a nulla fuggire, Donatello. Regoliamola da uomini, questa faccenda. Chi rimane vivo, vince. Come si faceva ai vecchi tempi. –

- Non… non siamo più negli anni settanta. Siamo nel 2010. – Nel frattempo, vidi con la coda dell’occhio che fuori dalla caffetteria si era formata una piccola folla di curiosi. Andate a chiamare qualcuno, imbecilli! Andate, prima che questo mi riempia di botte! Pensai, ma nessuno si mosse.

E fu allora che Antonello mi sorprese. Mi tirò uno schiaffone talmente forte da farmi volare via gli occhiali. Io barcollai su un tavolino, finendoci seduto sopra. Lui venne avanti, incazzato e ghignante, ed io reagii malissimo al suo violento tentativo di sopraffarmi: La mia gamba si mosse e partì all’attacco, calciandogli uno stinco.

- Ahhhh! – gemette – Figlio di …!!! – esclamò, zoppicando. Io cercai di andare via, ma lui mi trattenne per un braccio. Io lo acchiappai per quel braccio e lo tirai, facendolo barcollare e finire su un mucchio di tavolini. Cadde rovinosamente, ma non abbastanza da impedirgli di afferrarmi una caviglia e farmi cadere a mia volta. Sbattei la testa contro una sedia lì vicino, il colpo mi stordii per un attimo. Come una belva affamata, Antonello mi trascinò a sé, senza che io avessi la possibilità di ribellarmi, e in un attimo mi fu addosso. Mi riempì di sberle, mentre io cercavo di levarmelo di dosso. Le sue ginocchia sul mio stomaco mi stavano facendo un male atroce, tanto che urlai. Con le mie dita cercai di artigliargli la faccia, ma a causa della mia onicofagia (mi mangiavo le unghie), non gli feci male più di tanto.

- Bastardo! Pezzo di merda! Te la faccio pagare!!! – disse, e prese a sbattermi la testa sul pavimento talmente forte che per un attimo vidi le stelle. Quella testa che non mi ero rotto con l'incidente, voleva scassarmela lui, a suon di craniate sul pavimento. Urlai fortissimo dal dolore, ma ciò non mi impedì di reagire. Con quell’ultimo briciolo di lucidità rimasta, gli afferrai un polso e me lo misi in bocca, iniziando a mordere.

I miei denti affondarono nella sua carne, e lui lanciò un urlo di sorpresa. E più mordevo, più lui si dimenava dal dolore.

- Ahhh!! Lasciami, figlio d’un cane!!! –

Ma io non smisi finché lui non mi scaraventò su un altro tavolino dove battei un’altra volta la testa. Qui il colpo fu un po’ più forte.

Nel frattempo, nella sala entrarono il direttore della Fondazione e un paio di altri insegnanti anziani, appena arrivati. Insieme a loro c’era Manuel, che cacciò un grido di sorpresa nel vedermi accasciato a terra, con la testa sanguinante.

- Che sta succedendo qui, in nome di Dio?!? – tuonò il direttore. Due insegnanti mi soccorsero, chiedendomi se stavo bene. Insieme a loro sopraggiunse Manuel, che mi prese la mano nelle sue e mi domandò cosa fosse successo.

Con un filo di voce, risposi – Antonello.. mi… mi ha picchiato. –

- Cristo – bestemmiò Manuel, alzando lo sguardo verso Antonello, che stava massaggiandosi il polso che io gli avevo morso.

- Signor Scaravalli, vuole spiegarmi cos’è successo? – domandò il direttore, furente. 

Antonello non rispose. E fu lì che ebbi la convinzione che non avrei mai più rivisto la faccia di Antonello Scaravalli lì alla Fondazione.

 

Due giorni dopo, il ventitré dicembre, seppi che Antonello era stato espulso dal Centro. Normalmente una cosa del genere non si sarebbe risolta con una soluzione così drastica, ma il Consiglio di Fondazione non approvava la violenza, in nessuna forma. Dopotutto quella era una fabbrica di sogni, non un ricettacolo di picchiatori. Ovviamente mi chiesero di spiegare l’accaduto, ed io risposi che il signor Scaravalli mi aveva picchiato per gelosia nei miei confronti. Dopo il mio interrogatorio, il caso fu archiviato.

Visto che avevo avuto occasione di essere ricoverato all’ospedale di Pavia soltanto sei mesi prima, non poteva mancare occasione per visitare quello di Roma. Questa volta mi fasciarono la testa, applicando due punti di sutura al sopracciglio destro, che si era aperto durante l’incontro-scontro con il tavolino. Dovevo forse aspettarmi di visitare un altro ospedale, dopo sei mesi a quella parte?

L’unica cosa positiva fu Manuel. Non mi biasimò per aver usato violenza contro Antonello, anzi fu contento che venne licenziato. Ed io che lo credevo una brava persona! Dopo il suo sfogo, questa mia credenza fu smantellata totalmente, perché era fin troppo chiaro che lui cercava una persona meno bella di lui perché voleva primeggiare… Patetico e puerile. Ecco gli aggettivi giusti per descriverlo.

Tuttavia, prima che Antonello raccogliesse le sue cose e sparisse per sempre dalla mia vita, così rapidamente come era apparso, ebbi l’occasione di assistere ad un colloquio che ebbe con lo stesso Manuel.

Ero appena tornato dall’ospedale, e volevo aggiornare Manuel sulla mia situazione. Così andai nella sua aula, sperando di trovarlo. E lo trovai, però non era solo. Insieme a lui c’era Antonello, e stavano parlando abbastanza animatamente.

Mi acquattai accanto alla porta per non essere visto, ma non riuscii a cogliere granché della conversazione. Capii soltanto che Manuel si stava difendendo, che non voleva più saperne di lui e che trovava riprovevole il modo in cui voleva sistemare la questione con me. Disse anche, il bel Manuel, che se c’era stata qualche possibilità di preferire Antonello a me, quell’infima possibilità si era spenta quando mi aveva visto accasciato a terra, sanguinante e tumefatto. Decisi che avevo sentito abbastanza, e mi allontanai. Poco dopo, ricevetti un sms sul cellulare. “Buona fortuna con lui. Ne avrai bisogno. Addio.” Era di Antonello. Non gli risposi, non capendo a cosa si riferisse. L’avrei scoperto il giorno dopo, il ventiquattro dicembre.

 

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Capitolo 39
*** Capitolo 38 ***


Il ventiquattro dicembre, in occasione delle ferie natalizie, il Centro doveva essere chiuso, ma così non era. Dato che oltre che un posto per insegnare era anche una specie di centro ricreativo, capitava che alcuni dei suoi frequentanti andassero lì per svagarsi un po’. Nel mio caso, per studiare un po’.

Sì, avrei potuto starmene in casa a studiare in tutta tranquillità, ma vi dirò una cosa, in tutta onestà: mi sembrava di essere in prigione. Nessuno attorno a me, nemmeno un Francesco con un qualche amante (ah già, dimenticavo che lui si era fidanzato) a farmi compagnia. Quindi andare in un posto dove c’era un minimo di vita, era per me una tappa obbligata.

Oltretutto, non vedevo Manuel da tre giorni. Non c’era nemmeno la sua Multipla nel parcheggio, quindi pensavo che si fosse ritirato a casa. Alle mie chiamate non rispondeva, e ciò mi faceva abbastanza male. Cercavo di non pensarci, leggendo avidamente i miei manuali di diritto (avrei dato un esame a Gennaio, così sarei andato a quota meno tre dalla laurea), ma ugualmente il pensiero andava a lui. E mi faceva male.

Pensai anche di andare a trovarlo a casa, visto che non reagiva male alle visite a sorpresa, ma il mio spirito di bolognese corretto me lo impedì. Per cui aspettai.

Mentre studiavo, seduto ad un tavolo della biblioteca del Centro, vidi Manuel che si avvicinava. Anche quel giorno era vestito bene, come sempre. Mi sorrise.

- Manuel – dissi, alzandomi – Sei tornato. Che cosa è successo…? –

Lui si strinse nelle spalle, sorridendomi. – Niente di grave. Avevo solo bisogno di un po’ di tempo per pensare. E poi… ho dovuto preparare le valigie. Ti ricordo che non mi hai ancora dato una risposta alla mia offerta di passare il Natale a Torino con me. – incrociò le braccia e mi guardò con una punta di severità, sebbene stesse sorridendo.

- Ecco, io… - cominciai, ma lui mi fermò con un gesto della mano.

- Aspetta. – mi interruppe – Qualunque sia la tua decisione, prima devo farti vedere una cosa. – mi disse.

- Che cosa? – chiesi io.

Lui mi strizzò l’occhio, e allungò una mano inguainata in un paio di guanti senza le dita.

- Seguimi. – mi ordinò.

 

A quell’ora del pomeriggio il Centro era semivuoto, occupato soltanto da qualche impiegato che se ne stava chiuso negli uffici a leggere il giornale. Dolce vita romana…

- Dove mi stai portando? -  domandai io, mentre Manuel mi precedeva a passo spedito, con quelle sue gambe lunghe.

- Shh. – mi zittì portandosi un dito alle labbra. – E’ una cosa che voglio farti vedere. Ti fidi di me? –

- Io… ma sì che mi fido di te, ma…-

- E allora non fare domande. – concluse, asciutto, strizzandomi l’occhio e largendomi un sorriso furbetto.

 

Giungemmo in un corridoio che terminava con una porta a doppio battente. Su uno dei battenti c’era applicata una targhetta con su scritto “Aula Proiezioni”. Mi domandai chi avrebbe potuto vedere quella scritta da una targhetta così piccola, da lontano. Manuel prese un mazzo di chiavi dalla tasca dei pantaloni, ne infilò una nella toppa e la girò, sbloccando la porta.

- Prego – mi invitò ad entrare. Io entrai, mentre lui rimase fuori. Improvvisamente poi, mi chiuse la porta alle spalle. Io mi voltai e la riaprii, e lo vidi che si avviava da un’altra parte.

- Ehi, dove stai andando? –

- Uffa, che rompiscatole. – disse lui ridacchiando – Entra lì dentro e prendi un posto, e non rompere! – concluse, facendomi una linguaccia. Poi scomparve dietro l’angolo del corridoio, saltellando allegramente.

- Mah…? – mugugnai io. Chiusi la porta e osservai l’ambiente. Era come un grande cinema, con la differenza che oltre allo schermo bianco c’era anche un palco con un leggio, il pavimento foderato da una moquette blu scuro, e le poltrone dello stesso colore. Guardai in alto, dove alla fine della scalinata che conduceva alla balconata, c’era una porticina, probabilmente l’accesso alla cabina di regia.

Improvvisamente, le luci si abbassarono, e io mi affrettai a trovare una poltrona prima che si spegnessero del tutto. Capii che era Manuel che stava manovrando tutto quanto, ma non volevo rompergli ulteriormente le scatole con una qualche esclamazione di troppo. Mi accomodai su una poltrona al centro della sala.

Le luci si spensero del tutto, e per qualche minuto la sala fu immersa nel buio. Dopo pochi secondi, lo schermo si illuminò come succede al cinema, proiettando quello sfarfallio senza immagini che prelude all’inizio del film. Avevo capito, voleva farmi vedere qualcosa che aveva creato lui. Ma se sperava di ottenere un mio parere tecnico sulle sue proiezioni, cascava male. Io ero un fumettista, un illustratore… non un esperto di cinematografia d’animazione come lo era lui. Sorrisi, e mi predisposi a guardare la proiezione.

Il filmato incominciava con le note di una canzone che conoscevo fin troppo bene…

Sullo schermo comparve poi un personaggio. Rotondetto, paffutello, eppure carino nel suo complesso. Era disegnato in stile manga, sembrava timido ed indifeso, ma ad un occhio esperto come il mio, non era sfuggito che era un “seme” (un attivo). Seduto su una panchina, guardava la sua immagine riflessa in uno stagno. Non c’erano parole a descrivere la scena, soltanto la musica di Cesare Cremonini… Eppure era tutto chiaro. Il ragazzo non si piaceva.

Proprio come me.

*** Vorrei, vorrei...
esaudire tutti i sogni tuoi,
vorrei, vorrei...
cancellare ciò che tu non vuoi ***

Il campo si allargò, e l’immagine sfumò in una specie di flash-back, dove il ragazzo immaginava tutte le sue fiamme precedenti. Quel pezzo mi toccò parecchio nel profondo, perché tutti avevano rifiutato quel ragazzotto carino ma un po’ in carne, chi buttandolo in acqua, chi spingendolo via, chi evitando di rispondere alle sue chiamate. Mi si strinse il cuore, ma cercai di resistere.


*** però, lo sai che io vivo attraverso gli occhi tuoi... ***


*** Vorrei, vorrei...
che tu fossi felice in ogni istante
vorrei, vorrei...
stare insieme a te, così, per sempre
però, lo sai che io vivo attraverso gli occhi tuoi… ***

Ad un certo punto i ricordi finivano, ed il ragazzo tornava a guardare l’immagine riflessa nello stagno. Accanto a lui era comparso un altro ragazzo. Questi aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri, e lo guardava con tanto affetto. Anche questo ragazzo era disegnato in stile manga; Il ragazzo paffuto alzò lo sguardo, e vide che accanto a lui il ragazzo riflesso nello stagno c’era sul serio. Questi era di bellissimo aspetto, magro e slanciato, un po’ più alto del personaggio principale, il ragazzotto paffuto. Somigliava tanto a Manuel.

Improvvisamente capii. E gli occhi mi si inumidirono di lacrime.

Manuel aveva creato quel filmato perché…


*** E vorrei poterti amare
fino a quando tu ci sarai
sono nato per regalarti quel che ancora tu non hai, così se vuoi portarmi dentro al cuore tuo, con te… io ti prego, e sai perché... ***

Perché….

- Vorrei, vorrei… esaudire tutti i sogni tuoi… -

Alle mie spalle, il profumo dolce di Manuel mi entrò nelle narici, insieme alla sua voce morbida e sensuale. La sua mano si era posata sulla mia spalla, e l’altra mi stava carezzando i capelli. Le sue labbra mi sussurravano la canzone all’orecchio, mentre io ero incredibilmente toccato dall’emozione.  La sua mano mi toccò la guancia, ed io presi l’altra nella mia, carezzandogliela. Intanto, il cartone animato mostrava i due ragazzi che ballavano insieme, fino a che entrambi decidevano che era arrivato il momento per…

- Vorrei, vorrei… cancellare ciò che tu non vuoi… però… lo sai, che io vivo attraverso gli occhi tuoi…. –

Mentre la musica continuava, concludendo la canzone, Manuel balzò accanto a me, guardando gli ultimi fotogrammi del cartone. Finalmente i due personaggi si baciavano.

Dissolvenza a scomparsa a forma di cuore.

*** Vorrei, vorrei...
esaudire tutti i sogni tuoi,
vorrei, vorrei...
cancellare ciò che tu non vuoi
però, lo sai che io vivo attraverso gli occhi tuoi... ***

- Ti è piaciuto? – mi chiese Manuel, accoccolandosi accanto a me.

- Moltissimo… -

- Hai capito il messaggio sottinteso? –

- Sì… - risposi - …Penso che sia lo stesso messaggio che io ho tenuto dentro fin dal momento in cui ti ho visto. –

Dolcemente Manuel mi prese a sé, ed io feci lo stesso. Mi baciò la guancia, mormorandomi quelle due parole che ogni ragazzo vorrebbe sentirsi dire dal ragazzo che gli piace…

- Ti amo, Donatello. –

Toccato nel profondo, io risposi senza paura alcuna.

- Ti amo… Manuel. –

Ci guardammo negli occhi un solo, lunghissimo istante. Poi ci avvicinammo, quasi in sincronia… e le nostre labbra si toccarono, in un bacio sensuale e appassionato.

In quel momento mi sembrò che tutte le brutture che avevo passato durante quell’anno se ne stessero andando lentamente, aiutandomi a respirare di nuovo. Ripensai a Francesco e Nicholas, ad Ermanno e Chiara… a Dandy che era soltanto un pallido ricordo ed alla lezione che avevo imparato ovvero che un umano non può vivere in un mondo di carta, ma che la fantasia può a volte essere la migliore amica per non perdere la ragione…

Ma ora non è più fantasia. Questa è la realtà. Finalmente.

- Allora? Mi vuoi dire se vieni con me? – mormorò Manuel, mentre io lo accarezzavo.

- Certo che ci vengo. Avevi creduto che non volessi venire? –

Lui annuì, e ridacchiò furbescamente.

- Ma dai, sul serio?!? Allora non vengo più con te, ecco. – dissi io, scherzosamente.

- Eh no – mi bloccò lui – Adesso con me ci vieni. Ho bisogno di qualcuno che guidi la mia auto quando sarò stanco durante il viaggio, che mi faccia compagnia, e che a letto mi faccia un po’ di… - non concluse la frase, si limitò a leccarsi le labbra. Io lo guardai sorridendo e gli feci l’occhiolino.

- Hai scelto l’uomo giusto, baby. – dissi, abbassando la mia voce di parecchie ottave, rendendola il più possibile simile a quella di Humphrey Bogart.

Felice come una pasqua, Manuel si avvinghiò a me e mi baciò con passione. Io lo strinsi dolcemente a me, pensando ancora una volta che un ragazzo, quanto più duro vuole sembrare agli altri, tanto più dolce è nell’intimità. Sotto le mie coccole Manuel si beò come un gattino. Ci baciammo di nuovo, nel silenzio della sala, felici di essere l’uno insieme all’altro. Più di entrambi, ero felice io; felice di sapere che quella era la realtà. E non soltanto un sogno popolato di bei ragazzi vuoti, per cui… troppo bello per essere vero.

 

 

Troppo bello … per essere vero

Fine.

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Capitolo 40
*** Making of - appunti dello scrittore ed opinioni dei protagonisti ***


MAKING OF

Frammenti di opinioni dei protagonisti

E appunti del regista.

 

 

Dagli appunti di Notrix, scrittore della fan-fiction

Tema centrale: la bellezza esteriore ed il suo rapporto nel mondo omosessuale.

Critica: tutte le fiction che ho letto finora su EFP, ma tutte le fiction shonen-ai in generale, vedono come protagonisti personaggi bellissimi e pieni di problemi. Ma Cosa??? Nella realta i ragazzi bellissimi tutti questi problemi non li hanno!!! Un ragazzo bellissimo, conclusa una storia damore, va subito a rifarsi con un altro, con tanti saluti alla tanto decantata sensibilita del mondo omosex. E con tanti saluti alle fiction che vedono trionfare l’amore tra ragazzi bellissimi.

 

Notrix – Scrittore

…Sì, è vero, ho scritto questa fiction con l’intento di far vedere il brutto del mondo omosex. Magari scrivendo quelle righe ho leggermente tracimato, tanto che magari adesso penserete che i ragazzi carini siano tutti delle gatte in calore. Ebbene, non è così. Mi auguro che non sia così. Però per la maggior parte dei casi le mie teorie sono confutate… E lo dico con dispiacere, perché tutti vorrebbero una storia d’amore come quelle decantate dalle fiction, solo che questo ovviamente non è possibile: non esisterebbe il termine “Fiction”, ovvero “Finzione” se nella realtà ci fossero solo storie d’amore perfette.

 

Donatello Tarasconi – Protagonista

L’intento di Notrix è stato quello di mostrare, quanto più fedelmente possibile, come un ragazzo come me si relazioni al mondo omosex, così esigente e superficiale da non tollerare le differenze fisiche. Infatti la storia è narrata da me in prima persona, che osservo, faccio considerazioni, mi emoziono. Cercando di tenere a bada quel dolore sotteso che è alla base di chiunque si trovi in una situazione di, se così vogliamo chiamarla, emarginazione…

 

***

Donatello: mi sta sulle scatole Nicholas che pensa di poter avere tutto solo perché si crede bello.

Francesco: Perdonalo, ha soltanto diciotto anni. Sarai stato così anche tu, alla sua età…

Donatello: No, mio caro! Alla sua età io avevo già dato tutti gli esami del mio anno in corso! E non andavo certo a dire ai magri di andare a fare palestra, io!

***

 

Francesco Arduini – Amico di Donatello

Francesco, il mio personaggio, è un ragazzo un po’ “ibrido”: nel senso che ha un sacco di ragazzi, e, anche se nella storia non è espressamente detto (perché Donatello non lo sa, quindi non può nemmeno immaginarlo) è che Francesco, in ogni sua avventura amorosa cerca il fidanzato ideale. Questo è un po’ un alibi che ogni ragazzo si crea, ovvero “non riesco a trovare quello giusto, quindi nel frattempo mi diverto” – non è sempre detto. Perché chi va all’avventura, nella maggior parte dei casi non sa cosa vuole, oppure lo sa benissimo, ma non è certo una relazione stabile.

Il mio personaggio è molto poco visibile; per lo più si limita a qualche comparsa per evidenziare lo stato di invidia che Donatello prova per me, o per risaltare le differenze fisiche e psicologiche tra me e lui, salvo poi “rivelarsi” verso la fine, come unico nonché miglior amico di Donatello.

 

Daniel D. Taylor – Dandy Landy

*parlando con accento anglosassone* Che bello sarebbe se i nostri sogni potessero realizzarsi! Purtroppo però non è possibile, perché altrimenti… non sarebbero più sogni ma sarebbero realtà, oppure… avrebbero comunque una differenza da ciò che avevamo sperato. Mi spiego? *fa una risatina* …questo è il caso di Donatello, che una volta che vede vivere Dandy Landy, viene deluso un’altra volta, poverino… perché il Dandy che aveva immaginato lui è totalmente diverso da quello che veramente è.

 

Ermanno Tarasconi – Fratello di Donatello

Nella fiction, il mio personaggio rappresenta la famiglia, ovvero la “piattaforma della realtà” per eccellenza… Ermanno vuole bene a suo fratello, finché non scopre che Donatello è omosessuale e lo ripudia. È una cosa molto simbolica ed esplicativa della realtà, dove troppo spesso le famiglie, che fanno fatica a capire una cosa così normale, quasi sicuramente non riuscirebbero a capire i disagi interconnessi ad una tale situazione, qual è quella di Donatello. L’unica soluzione a questo problema è l’amore. Ermanno alla fine capisce di aver sbagliato e accetta suo fratello per quello che è.

 

Antonello Scaravalli – Collega di Donatello.

Mettendo su uno stesso piano i personaggi, si potrebbe dire che Francesco e Antonello sono due opposti: l’uno è lo Zenith bianco, mentre l’altro è lo Zenith nero. Infatti, Francesco ha tante avventure perché magari sta cercando l’anima gemella fra le sue frequentazioni; l’altro invece, si diverte, senza un obiettivo preciso… E oltretutto dimostra una falsa maschera di amicizia nei confronti di Donatello, solo perché gli fa comodo avere un amico bruttino che sottolinei la sua bellezza… Quando poi questo meccanismo s’inceppa, ovvero Donatello riesce ad entrare in contatto con il ragazzo più bello, che addirittura aveva rifiutato Antonello, quest’ultimo reagisce male, picchiando Donatello.

 

Manuel Chiaravalle – Collega di Donatello e poi fidanzato

Se questa fosse stata una favola, sicuramente si sarebbe potuto dire che il mio personaggio era il principe azzurro che va a consolare la principessa triste e zitella. Dato che questa è una fiction un po’ più di spessore, dirò soltanto che Manuel è uno dei pochi ragazzi carini che vivono in modo diverso la loro omosessualità. Sono praticamente quelli a cui non piace essere considerati degli oggetti, e che vorrebbero tanto avere qualcuno al loro fianco che non li guardasse solo per il loro fisico, quanto per ciò che sono dentro. Manuel dichiara a Donatello che è stato deluso più volte da ragazzi che lo volevano soltanto per farci sesso. In Donatello invece sembra aver trovato qualcuno che non guarda solo al fisico ma anche all’essere. In poche parole, uno con cui ci si trova. E infatti le scene finali vedono Donatello e Manuel fidanzati.

 

Finale: Dichiarazione d’amore di Manuel per Donatello.

 

 

Backstages!!!

(durante la lavorazione della pellicola ^_^)

 

*inquadratura del Ciak con su scritto TROPPO BELLO PER ESSERE VERO – scena 18 take 3 *

Notrix: Silenzio… Motore… ciak! AZIONE!

 

*Scena di Donatello che disegna Dandy Landy, con il ragazzo dietro che sorride e fa l’occhiolino alla cinepresa*

 

Notrix *passeggiando per la città* : questo è il centro di Bologna, città dove è ambientata la fiction… lì *la telecamera si sposta verso una costruzione* c’è via Zamboni, che porta direttamente alle Due Torri e dove c’è l’appartamento di Donatello e Francesco.

 

Notrix *a tutti gli attori*: Ragazzi, che ne dite se ognuno di voi dice una frase o fa un saluto ai propri parenti nel proprio dialetto? Chi comincia?

Francesco: Sì.. allora… *Si prepara, poi di colpo si illumina e urla*  UELLAAAA’ ^___^ Zao ragaziiiii!!! Mi go recidado la fiction de Notrix!!! Fora ì schei, che go vinto la scomesa!!! Ahahah!

Donatello: ‘Sto veneto… ahahah XD I veneti sono i terroni del nord!

Notrix: Molto bene… Tu, Manuel?

Manuel: Io cosa? °_°

Notrix: dai, dì qualcosa in piemontese per … hmmm… ecco, per descrivere come sono le giornate delle riprese!

Manuel: Ah… Va bene, ci provo… *Ci pensa su* …mmmm… Ah ecco! Esse pi long che na giornà sensa pan, néh!

Donatello: e cosa vuol dire?

Manuel: che sono più lunghe di una giornata senza pane XD

*Tutti si mettono a ridere*

 

…Durante le pause…

Donatello: Orco boia, ma quanto mangi, Francesco? °-°

Francesco: Eh, quando faccio l’amore mi viene sempre un po’ di fame…

Donatello: NO! Non mi dire che…

Francesco: Sì sì, te lo dico… *indica Antonello che si sta aggiustando i pantaloni*

Donatello: ahahah… oddio, te se non lo prendi almeno una volta, non sei contento eh? XD

*Francesco alza le mani e gli occhi al cielo, come un santarellino*

 

*Nicholas abbraccia Donatello*

Nicholas: Ehi ragazzi non è vero che io lo odio, questo qui… gli voglio un bene dell’anima, invece ^_^

*Donatello fa dei gesti come per dire “Non è vero”* :P

Nicholas: Brutto stronzo! Non fare gesti! XD

Donatello: XD

Nicholas: adesso ti faccio vedere io! *si avvinghia a Donatello e lo bacia appassionatamente*

Donatello: MMMMFFFHH OxO

*Da dietro passa Dandy Landy che se la ride*

Notrix *fuori campo* vuoi aggiungere qualcosa, adesso che l’hai slinguato per bene?

Nicholas: Sì… *si avvicina alla telecamera* Bacia anche tu un panda. Lo salverai dall’estinzione.

*Tutti i presenti ridono, Francesco va a baciare Nicholas*

Donatello: Ma vaffanculooooo!!! >____<

 

Notrix: Signore e signori vi presento… i due spilungoni!

*La telecamera si sposta su Dandy Landy e Manuel, che sono effettivamente molto alti*

Dandy: Hi :3 ciao!

Manuel: Sì vabbé Notty, ma non è che puoi presentarci come degli spilungoni, su dai…

Notrix: siete i miei due spilungoni preferiti XD

*Dandy ridacchia, non sapendo cosa dire*

Manuel: Che cazzo ridi tu! XD Why the hell are you laughing?

Dandy: Because you, ya’ll are sooooo freaky funny :D

Manuel: che facciamo, gli mettiamo I sottotitoli per questa? °-°

Notrix: ma che sottotitoli … ma traduci tu quello che ha detto, no?

Manuel: Ehm… vabbé… che hai detto, Dandy?

Dandy: What? °3°

Francesco: demente di Collegno, non ti capisce! Parla poco l’italiano, è australiano!

Manuel: puttana di Castelfranco Veneto, allora vieni tu a tradurre visto che sei tanto bravo! >_>

Francesco *in un inglese molto maccheronico, da bagnino di Riccione*: Schiusmi sir, chen iu ripit bicouse non abbiam capit?

Dandy *si mette a ridere e con lui tutta la troupe* hahahahaahaa

Nicholas: amore che figura di merda…

Francesco: Ma andate tutti in mona, … >/////>

 

*Problemi di inquadratura…*

Notrix: Manuel è veramente troppo alto… come possiamo fare per fargli un piano americano senza far sembrare Donatello un tappo?

Donatello: Mi metto le scarpe coi tacchi? Heheheh!

*Manuel ridacchia insieme a lui*

Johnny: Un bel problema.. *scatta una foto a Manuel e Donatello, che sorridono*

Notrix: ho trovato!

Johnny: eh? °_°

Notrix: Manuel, monta in groppa a Donatello e la giriamo così!

Manuel: Subito! ^_^ *sale in groppa a Donatello*

Donatello: Azzo, sarai magro ma pesi come una bestia… ma quanto sei…??

Manuel: sono novantadue chili per un metro e novantasette ^_^

Johnny: Sei una bestia XD

Manuel *dalla groppa di Donatello*: XD Yaaaaa!!! Corri cavallo, corri!

*Donatello ansima per lo sforzo*

*Notrix se la ride di gusto XD*

 

*Si sta riprendendo una nuova scena. Mentre Donatello e Manuel stanno parlando e camminando, cade un microfono*

Donatello: è caduto il microfono …

Manuel: L’abbiamo fissato male, mi sa XD

*Subito accorrono Notrix e il fonico in presa diretta  a fissarlo sull’asta*

Notrix: ma porca… *urla* OH, non c’è del super attak da qualche parte? S’è spezzato il gancio di fissaggio…!

Nicholas: L’avevo detto io che si sarebbe rotto.

Notrix: taci, UCCELLACCIO DEL MALAUGURIO! >_<

Nicholas: hihihihih XD *ridacchia malignamente*

 

*la visualizzazione dei girati in sala montaggio, negli studi di EFP*

Notrix: In ‘sta scena si vede troppo il pene di Donatello… dovremo rifarla mi sa…

Ermanno: E come facciamo? Torniamo all’autogrill e la rimontiamo?

Notrix: No, vabbé… al limite spostiamo un po’ più in su l’inquadratura… cambiamo il copione, mostriamo solo l’espressione di Donatello…

 

*Inquadratura dei vari attori che ripassano le battute prima di una scena. Donatello saluta, Dandy Landy ed i suoi amici fanno l’occhiolino e mandano baci.*

 

*Inquadratura di Notrix che mette l’occhio dietro la cinepresa, poi di una piccola folla di curiosi che guardano le riprese del film.*

 

Donatello *canticchia*: Johhnny… è quasi magia, Johnny…

Johnny: Smettila di prendermi in giro, scemo xD

Donatello: Dài che scherzavo :D Sai che eri il mio idolo quando ero piccolo??? Tu, Sabrina, Tinetta, tutti quanti :D Vi amavo!

Johnny: Eh beh, grazie ^_^ Sono passati tanti anni…

Donatello: Eh infatti… e adesso cosa fai? *bisbiglia* lo so benissimo cosa fai, ma qui stiamo girando i backstages… quindi fai finta di rispondermi come se non mi conoscessi :P

Johnny: Sono il direttore della fotografia *mostra orgoglioso la sua macchina fotografica* il mio compito è di decidere, insieme a Notrix, il taglio, la luce e l’inquadratura di tutte le scene, nonché di tenere un book fotografico dell’intera fiction J

Donatello: Grazie Johnny! *si rivolge di nuovo alla telecamera* e voi… non perdetevi la prossima puntata de “I mestieri del cinema” condotta da Me! Ya-huuu! ^_^

 

Manuel: Ragazzi, voglio presentarvi… una persona che voi conoscete bene. ^_^

*nell’inquadratura appare Marco, delle precedenti fiction di Notrix, “Semplicemente… Un bacio”*

Marco: Ciao ^_° vi ricordate di me?

Manuel: Sicuramente si ricordano di te, Marco… Grazie per essere venuto a trovarci… Comunque volevamo dire che presto io e lui saremo insieme in una nuova fiction… Ve lo diciamo in anteprima, Notrix ci ha dato il permesso ^_^

Marco: sì! Esatto ^_^ Io e questo spilungone qui...

Donatello: I due Stanlio e Ollio del Canavese XD

Manuel: :P scemo!

Marco: hahahah!

Manuel: Comunque sì… io e lui ci conosciamo da quando frequentavamo il liceo… solo che non ci siamo mai parlati, e ci siamo ritrovati qui, per puro caso. :P

Marco: a fare gli attori per delle fan-fiction :P che ca…………so!

Manuel: restate sintonizzati su questo canale, che poi ci vedrete con la nuova storia di Notrix, ci raccomandiamo!

 

* inquadratura di una sala cinematografica con tutti gli attori che guardano il finale della fiction. Qualcuno sorride, qualcun altro si commuove. Manuel e Donatello s’inchinano e si abbracciano, sorridendo all’obiettivo*

* saluti finali *

 

Donatello: Ciao a tutti, grazie per averci apprezzati ;)

Manuel: Un saluto a tutti, grazie!!! ^_^

Daniel Taylor (Dandy Landy) e tutti gli altri “personaggi immaginari”: Ciao Italians! Siete Favolosi! :3

Ermanno e Chiara: Ciao… Ciao! J

Francesco e Nicholas: Ciaaaaaaaaaaaaao!!! :D

Antonello e i ragazzini del centro: Ahòòòòò!!! Abbelli capelli!!! Ciao a tutttiiii Grazie Grazie Grazieeee!

Simone: anche se sono comparso in poche scene… Vabbé… Ciao, grazie anche da parte mia ^_^

 

 

Fanfiction ideata, scritta e diretta da

Notrix

 

Prodotta da

EFP Fanfiction

 

Locations:

Bologna, Alma Mater Studiorum

Bologna, Giardini Margherita

Milano, quartiere Lorenteggio-Giambellino

Bressanone (BZ)

Roma, studi cinematografici Cinecittà

 

Si ringrazia:

Comune di Bologna e la Regione Emilia Romagna

Regione Lombardia

Ufficio Turistico Sϋdtirol

La società Autostrade del Brennero

Audi Zentrum Bologna

BlackBerry

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