La Notte

di Bess Black
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Prologo: come tutto ebbe inizio ***
Capitolo 2: *** II. Effetti soporiferi, Battaglie di cibo e Intrusi bianchi ***
Capitolo 3: *** III. La festa di Halloween (parte I) ***
Capitolo 4: *** IV. La festa di Halloween (parte II) ***
Capitolo 5: *** V. Al di là del velo ***
Capitolo 6: *** VI. Carpe Diem ***
Capitolo 7: *** VII. Le voci della natura ***
Capitolo 8: *** VIII. Il buio prima della caduta ***
Capitolo 9: *** IX. Caos ***
Capitolo 10: *** X. La Sera ***
Capitolo 11: *** XI. La Notte ***
Capitolo 12: *** Buonanotte - vol. I ***



Capitolo 1
*** I. Prologo: come tutto ebbe inizio ***


 
La Notte
 
I. Prologo: come tutto ebbe inizio
 
 
 
Quella mattina del quattro ottobre faceva freddo. 
Le nuvole si mostravano da tempo indecise a liberare il carico di pioggia e continuavano a oscurare la città.
Astoria gettò, dalla finestra del salone di villa Malfoy, un'occhiata risentita al cielo, sbadigliando assonnata. Nonostante al momento il piccolo Scorpius dormisse sereno e pacifico, la notte prima non le aveva permesso di chiudere occhio.
Sentì il marito ridacchiare in direzione della poca eleganza dei suoi sbadigli e posarle un bacio tra i capelli, prima di avviarsi - seguito dall'Elfo Domestico Hynnie, che aveva in mano il suo mantello - verso la porta d'ingresso, diretto a lavoro. 
La signora Malfoy agitò la bacchetta ed accese il camino.
Si sedette sul sofà al centro del salone, abbandonando il proprio peso superiore con cedevolezza su un unico bracciolo; ritirò anche le gambe sul divanetto singolo, stringendosi e accoccolandosi per trattenere il calore - reduce delle coperte notturne calde - tra la propria pelle e la vestaglia. Esalò un poco d'aria tiepida sulle mani e si rilassò, concedendo finalmente ozio alle sue palpebre stanche ed intorpidite. 
Il calore proveniente dal camino si sparse con maggior intensità e velocità di quanto avrebbe potuto fare una camino babbano, e in un batter d'occhio la temperatura del salone principale e dell'atrio si alzò contrastando il vento tagliente autunnale.
Così, il respiro di Astoria si lasciò cullare, divenendo sempre più profondo e lungo.
A svegliarla fu la voce del marito, che giungeva dalla porta d'ingresso inquieta ed allarmata.  
La signora Malfoy riaprì lentamente gli occhi e cercò di risvegliare i suoi sensi e, in particolar modo l'udito, cosicché da distinguere cosa le stesse dicendo il marito.
« Arrivo, Draco! » 
Si tirò a sedere stiracchiandosi tra uno sbadiglio e l'altro, ed arricciò le labbra infastidita non appena i suoi piedi nudi toccarono il pavimento freddo e duro.
Trovò il signor Malfoy fermo sulla soglia con la mano sospesa in aria, interrotta nell'abituale gesto di chiudersi la porta dietro le spalle. Gli lanciò, dunque, un'occhiata interrogativa - tra l'assonnato e l'infastidito - a domandare spiegazioni sul suo fare agitato.
Il marito, con un cenno sordo, le indicò qualcosa ai suoi piedi, convincendola finalmente ad abbassare lo sguardo e osservandola successivamente sgranare gli occhi.
Astoria si inginocchiò, avvicinandosi maggiormente alla culla indicatale dal marito, la quale - con morta probabilità - giaceva sulla soglia dalla sera prima.
« Oh Cielo, Draco... Vieni a vedere »
Riposta nella piccola culla, dormiva una tenera e candida bambina. Il fagottino che la ricopriva era leggero e sottile, e la neonata fremeva al passare della brezza d'ottobre; mentre le dita della sua manina destra erano chiuse incoscientemente attorno ad una pergamena.
Fu il marito a protrarsi e a sfilarle la lettera dalla mano; così, sotto lo sguardo curioso - seppur ancora sorpreso - della moglie, dispiegò la pergamena.
 
Cari signori Malfoy,
So di chiedervi molto, ma la piccola non è al sicuro con me. 
Sono Evelyn Prewett, la piccola è figlia mia e di Sirius Regulus Black, figlio illegittimo di Sirius Black e Leila Noir, una Veela.
Come sapete, i Mangiamorte liberi danno la caccia ai Black e ai Malfoy, in quanto sono stati scagionati. 
Hanno ucciso mio marito e presto uccideranno anche me. 
La piccola è nata il diciassette settembre e, sapendo della sua esistenza, non avranno pace fino a quando non l'avranno uccisa. Solo voi potete salvarla.
Quando leggerete questo messaggio, io probabilmente sarò già morta, ma mio marito mi disse che lei, signor Malfoy, è suo cugino.
Meglio tenere nascosta la sua vera identità per ora. Assieme  questa lettera vi allego tutta la speranza che mi è rimasta.
Siete i soli parenti che ha. Vi prego di tenerla, crescerla e accudirla come una figlia.
                                                           Con enorme gratitudine,
                                                                  Evelyn Prewett
 
Dopo aver riletto la lettera due volte, si volse verso la moglie, ma Astoria aveva già preso in braccio la bambina, cullandola al petto e cercando di riscaldarla come poteva.
Gli sorrise mestamente, sbattendo più volte la ciglia tra gli occhi lucidi.
Draco seguì sua moglie all'interno della villa con la culla e la lettera dispiegata ancora in mano.
 
 
Quel quattro ottobre, il signor Malfoy non andò a lavoro, ma restò a casa con la famiglia.
In un lettino al piano di sopra, invece, due neonati dormirono beati in un mondo tutto loro, in cui potevano inseguire farfalle o volarci insieme.
 
 
 
 
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Capitolo 2
*** II. Effetti soporiferi, Battaglie di cibo e Intrusi bianchi ***






II.
Effetti soporiferi, Battaglie di cibo e Intrusi bianchi


 
 
« Naturalmente i Folletti sono sempre stati autonomi da noi esseri umani, ci ritengono corrotti. Per loro qualunque specie vivente cerchi di sterminare se stessa è come contaminata, infetta. Hanno ragione, ma io non sono qui per darvi lezioni di esistenza, sono solo un povero e misero fantasma… Dunque, la loro prima rivolta avvenne nel 1073 dopo che un villaggio di Folletti in Corsica fu saccheggiato. Sono così le persone di potere, traggono benefici dalla loro posizione e chiunque si trovi a un livello più basso, non vale nulla né tantomeno merita l’esistenza… Avevo un alunno tempo fa, un ragazzo davvero intelligente, anche se un po’ indisciplinato, una volta quando lo interrogai a sorpresa sul medesimo argomento perché aveva fatto Evanescere la gonna a una ragazza, disse che per conoscere un uomo bisognava guardare come trattava i suoi inferiori e non i suoi pari*. Mai sentite parole più sagge, solo per questo gli assegnai trenta punti. È così che siamo noi umani macchiati d’ingiustizie… » Il professor Rüf continuò a parlare preso dalla sua loquela. 
Rose Weasley, seduta tra i primi banchi, non si perse una parola, annotando tutto con cura nella sua pergamena. Di fianco a lei sedeva uno Scorpius Malfoy piuttosto disinteressato alla lezione, che pareva aver trovato impiego molto più interessante. Studiava, infatti, con cura i moti dei boccoli di Rose e aveva notato con particolare stupore che alcuni roteavano in senso antiorario, ma c’erano alcuni, i più ribelli, che ruotavano in senso orario. Esaminava, così, gli slanci dei moti dei capelli della suddetta ragazza, tra ipotesi, valutazioni, calcoli e formule. Naturalmente il sopracitato ragazzo non si sarebbe mai seduto di suo proposito tra i primi banchi, se non fosse stato letteralmente trascinato dall’altrettanto summenzionata ragazza.
Oltre a Rose c’erano solo altri due che seguivano la lezione, Lavanda Thomas di Grifondoro e Derek Nott di Serpeverde.
In fondo alla classe, infatti, la voce noiosa del professore aveva dato esiti soporiferi. Roxanne Weasley dormiva accasciata sul banco sotto sedativo della voce e della stanchezza, giunta l’ultima lezione. Nelle ultime settimane era rimasta sveglia gran parte delle notti a organizzare i preparativi per la festa e ora che mancava solo una settimana ad Halloween, il lavoro diventava sempre più arduo. Di fianco a lei una certa Evelyn Black alternava momenti di assopimento ad altrettanti di veglia in cui fissava con insistenza un ragazzo dai capelli straordinariamente ribelli seduto davanti a lei.
Albus Potter contrastava la noia accartocciando assieme a Damon con estrema cura piccoli fogli di pergamena, buttandoli in testa a chiunque avessero davanti e soffocando ogni tanto con un tonfo il russare che si levava da Adam Zabini, totalmente in letargo.
Quando la campanella suonò, gran parte della classe sobbalzò, ridestandosi. Scorpius aveva già concluso una teoria sui capelli di Rose (quest’ultima fu l’unica che segnò i compiti), Evelyn e Roxanne si risvegliarono di soprassalto e Albus, Damon e Derek Nott, dopo aver tentato di svegliarlo in tutti i modi, dovettero trascinare Adam mezzo addormentato fuori dall’aula.
 
 
*

 
La Sala Grande era affollata e chiassosa come sempre all’ora di cena. Lily e Hugo testavano i nuovi prodotti Weasley su ragazzini del primo e del secondo anno e Fred annotava le varie e molteplici reazioni in una lunghissima pergamena. Si trattava di prodotti inventati da loro e di cui volevano accertare l’incolumità per poterli mettere in commercio ad Halloween. James era mollemente abbandonato sopra un'intera panca e si sarebbe addormentato certamente se non fosse stato interrotto da un Louis Weasley con gli occhi fuori dalle orbite.
« Dammelo! » quasi urlò il ragazzo.
« Come? » fece James, disorientato.
« Adesso! Dammelo o giuro che ti getto nel Lago Nero! » 
« Louis, cosa ti sei fumato? » chiese James sempre più confuso.
« Il mio diario! Tu me l’hai rubato! »
« Guarda che io non ti preso nessun dia… Aspetta, tu hai un diario? » 
Louis studiò la sua espressione con sospetto come a voler decidere se bruciarlo vivo o dopo averlo ucciso, ma una volta appurata la sua sincera espressione esterrefatta ci rinunciò e prese a sbattere la testa contro il tavolo, dandosi continuamente del « Coglione-coglione-coglione-coglione-coglione-coglione-coglione… »
« Cugino, sul serio hai un diario? » Lo stupore di James stava lentamente sfumando in una risatina, trattenuta solo dopo che Dominique gli ebbe pestato un piede.
« Louis » s’intromise lei con delicatezza. « Cosa è successo? »
« Coglione- coglione-cogl… Ho perso il mio diario! Qualcuno me l’ha rubato! E se non è stato James... » Parve illuminarsi. « Fred! È stato Fred! » Si girò dall’altra parte del tavolo e trovò Fred seduto vicino a Hugo e Lily, impegnato a scarabocchiare qualcosa su lunga pergamena.
« Fred! » lo chiamò. « Vieni immediatamente qui! »
Il ragazzo si alzò sorridente e, ammiccando in direzione di due Corvonero, si avvicinò sorridente.
« Ehilà, Dom, carina la cosa che hai al collo » disse riferendosi al foulard. Aveva deciso, su suggerimento di Rose, di farle complimenti tutte le volte che la vedeva affinché continuasse a dare loro una mano con i decori per la festa. « Jamie, Louis, da quanto non ci si vede? » Li abbracciò come se fosse appena tornato dalla guerra. « Da mezz’ora! Merlino, sapeste quante ne ho passate! » Si fermò un attimo per fare l’occhiolino ad una ragazza che passava in quel momento dal portone della Sala Grande. « Vi sono mancato? » concluse con un sorriso largo.
« Mancato un cazzo! Dammelo! » fece Louis riprendendo la collera di prima.
« Cugino, ho sempre compreso e accettato le tue scelte sessuali, ma non sei il mio tipo, ecco. James, hai fissato gli orari degli allenamenti della prossima settimana? »
« Ma no, idiota! Il mio diario! Tu hai rubato il mio diario! » precisò Louis, agitandosi.
« … Sai, è l’ultima settimana prima della festa e io e Rox saremo impegnatissimi, bisogna fare in modo che gli allenamenti non coincidano con- » Fred distolse lo sguardo da James e si voltò di scatto verso Louis. « Tu hai una diario? »
 « Ho avuto la tua stessa reazione! » lo informò James con complicità.
« Aspetta. Veramente, ha un diario? » chiese Fred a James ancora incredulo, mentre Louis riprendeva a sbattere la testa contro il tavolo.
« Ti rendi conto? È nostro cugino e compagno di dormitorio e veniamo a sapere che ha un diario dopo diciassette anni di vita! Non è tradimento? »
« Un diario? Bah! Secondo me ci sta prendendo per il culo. » Prese posto vicino a migliore amico. « Voglio dire, un diario? Ma dai! »
Dominique scosse la testa esasperata mentre Louis continuò a fare la cosa che gli sembrava più logica al momento.
« Coglione-coglione-coglione-coglione-coglione… »
 
Roxanne ed Evelyn, sedute a poca distanza da James, Fred e Dominique, conversavano a bassa voce aspettando che i tavoli si riempissero per poter finalmente cenare.
« … Cioè la festa è nostra, mia e di Fred, lui deve solo collaborare e invece che fa? Comincia a comandare! Non capisco come Fred possa lasciarglielo fare! E poi ha insistito per il colore del tema, lo vuole verde! Capisci? Solo perché è un Serpeverde! Ora tutte le luci saranno verdi! E Fred che gli dice? Che va bene! E indovina di che colore sono i divani? Argento! Tanto vale trasformare la Camera dei Segreti nella sala comune Serpeverde! »
« Beh, il verde è un bel colore… » rispose Evelyn con tono vacuo.
« Questo non mi consola. Il problema non è il colore, ma il fatto che lui voglia imporsi e decidere tutto! »
« Allora non lasciarglielo fare » sbuffò Evelyn con ovvietà.
« Ma lui mi ricatta! » sussurrò lei. « Ogni volta che provo a dirgli qualcosa, dice che mollerà tutto! E per quanto mi faccia male ammetterlo senza di lui sono spacciata! Non so come faccia ad avere certi contatti… Pensa che è riuscito a farsi procurare dei tavoli di vetro persiano, io fino a martedì non pensavo nemmeno che esistesse, il vetro persiano! »
Evelyn inarcò un sopracciglio. « Scusa, qual è il tema della festa? »
« Teoricamente non potrei dirtelo… »
L’altra inarcò il secondo sopracciglio. 
« E va bene! Abbiamo estratto, beh, io ho estratto ed è venuto fuori ‘Oceano Indiano’. »
« Oh, ma certo! Quel ragazzo è un genio! Ora capisco perché senza di lui saresti spacciata! » proferì Evelyn, improvvisamente illuminata.
Roxanne si limitò a riassumere la stessa espressione che aveva qualche ora prima durante la lezione di Trasfigurazione. 
« Avanti, l’Oceano Indiano! È noto per il suo colore più incline al verde che al blu, rispetto agli altri mari! Si chiama verde ceruleo. E il vetro persiano si estrae dalle perle degli abissi del confine persiano con l’Oceano Indiano. Ciò che, però, rende quest’Oceano terrificante è che si racconta che da lì salirono gli Inferi durante la Prima Guerra Magica, per questo è perfetto per una festa di Halloween! »
I tavoli si riempirono mentre Evelyn concludeva il suo discorso. Roxanne prese una coscia di pollo e l’addentò con ferocia.
« E perché nessuno si è preso la briga di dirmelo? Porca Morgana, l’Oceano Indiano è inculato rispetto all’Inghilterra! Tu l’avrai letto nell’infinità dei tuoi libri di magia oscura, ma lui come diavolo fa a saperle certe cose? » domandò rabbuiata.
Evelyn fece per risponderle, ma proprio in quel momento un pezzo di carta accartocciato colpì con velocità la testa di Roxanne, puntuale come tutte le sere delle settimane precedenti.
Ormai abituata, Evelyn lo raccolse, certa che Roxanne sapendone bene il contenuto non l’avrebbe neanche toccato, e lo stese.
 
Stesso posto. Stessa Ora.
Il tuo bianco preferito
 
« Maledetto Serpeverde! Lo so che ci dobbiamo vedere alle dieci nei sotterranei! Perché cazzo deve ricordarmelo tutte le dannate sere?! » Roxanne alzò il suo sguardo verso il tavolo Serpeverde e intercettò quello di colui che si firmava come il suo bianco preferito e che ora le sorrideva pacifico. « Giuro su quello scostumato di Merlino che questa me la paghi! » afferrò la prima cosa che si ritrovò davanti (che appurò in seguito essere un piatto di purè) e sfruttando le sue abilità da Cacciatrice glielo scagliò contro.
Il piatto di purè fu eccezionalmente schivato dal ragazzo (si dà il caso che anche lui fosse un celebre Cacciatore) e colpì in pieno viso Stephen Warrington, attirando così l’attenzione di tutta la Sala e causando un forte attacco ilare in Damon.
Warrington si alzò in piedi e, dopo un « Ma che Diavolo…? », afferrò una ciotola di salsa alla francese che aveva davanti e gliela rilanciò indietro. Ma Roxanne, prima che la ciotola la raggiunse, riuscì ad abbassarsi e schivarla, facendo così in modo che colpisse Dominique a pieno petto, rovinando il suo nouveau foulard Marocain
James si alzò, allora, e afferrando una bistecca di manzo, la rilanciò indietro al Serpeverde. Il caso volle che proprio in quell’istante Melanie Stewart di Corvonero si alzasse, andando incontro alla bistecca. La ragazza, dopo essersela tolta dal viso con una lentezza esasperante mentre tutta la Sala Grande la fissava, prese del pane imburrato, ma ancor prima che potesse rispedirlo al mittente, Fred Weasley afferrò una manciata di piselli dalla scodella che aveva davanti, si alzò, salì copra il tavolo e si aprì in un urlo bellico: « GUERRAAAAAAAA!!! » 
Fu così che Evelyn si vide passare davanti tutti i primi e i secondi che gli Elfi avevano servito. Tra trote alla griglia, patate al forno, i famosi piselli, cosce di pollo e tacchino arrostito riuscì ad andare sotto al tavolo ed evitare le carote al vapore provenienti dal tavolo Tassorosso.
La situazione peggiorò quando arrivarono i dolci. Vide Roxanne andare avanti, indipendentemente dalle pietanze che la colpivano, nella sua lotta con Damon Harper e urlargli un amorevole suggerimento su dove ficcarsi il bignè alla crema che le aveva lasciato. Sentì di sfuggita il ragazzo chiederle se anche lui poteva ficcarle qualcosa nella stessa parte.
« No, la torta al cioccolato, no! » piagnucolò quando vide Hugo gettarla sul portiere di Serpeverde, Stephen Warrington, con il quale aveva una rivalità personale, in qualità di Battitore Grifondoro.
Fu distratta da Fred che la invitava a prendere parte della battaglia, fece per declinare gentilmente l’invito quando rialzò lo sguardo su di lui. Era messo peggio di tutti. Addosso riportava il primo, il secondo, il contorno ed ora stava subendo il dolce. Era in piedi sul tavolo e bersagliato da tutte le ragazze che aveva intorno e la cosa non pareva dispiacergli particolarmente. Si era spalmato della panna montata in mezzo alle gambe, mettendoci poi una ciliegina, aveva chiesto 'Chi vuole assaggiare?'
Evelyn si ritrovò a ridere, ma dopo aver visto che al tavolo dei professori c’era solo Hagrid, che chiedeva (senza impegno e senza successo) agli studenti di calmarsi, prese a ringraziare Godric e tutti i suoi discendenti.
Allungò lo sguardo verso il tavolo Serpeverde alla ricerca di Scorpius, ma in breve appurò che del ragazzo non c’era nemmeno un residuo biondo. Non si era presentato a cena. Nemmeno Rose.
I Serpeverde, come i Grifondoro, erano particolarmente agguerriti, come se ci stessero mettendo del personale. Al di là dell’affettuosa lotta individuale tra Damon e Roxanne.
Distolse lo sguardo solo quando la colpì una fetta di torta alla crema, oltre la quale Lily Potter sorrideva con innocenza. Le puntò il dito contro minacciosa pronta a vendicarsi con un tiramisù sopra il tavolo fino ad allora rimasto incredibilmente intatto, quando sentì improvvisamente qualcuno prenderla da dietro. Ebbe giusto una frazione di secondo per vedere il corpo di Liam Baston fare da scudo a quello di Molly Weasley, che si ritrovò tra le braccia di qualcuno che la circondava da dietro. 
Urlò d’istinto, ma nel chiasso, della sua voce si udì solo un bisbiglio sbiadito. Chiunque fosse le tappò la bocca con una mano e, dopo averla coperta con un tessuto leggero e trasparente, cominciò a trascinarla fuori dalla Sala Grande. Lei urlava e si dimenava più che poteva, ma le braccia, molto più forti e possenti delle sue, la tenevano saldamente stretta, senza permetterle alcun movimento.
Ad un tratto colui che la stringeva avvicinò la bocca al suo orecchio e le ordinò un « Stai ferma. » secco. Riconosciuta la voce Evelyn non riuscì proprio a rilassarsi, ma almeno smise di divincolarsi.
Lo sentì sollevarla, probabilmente per camminare più velocemente sotto il manto che li copriva e, dopo aver schivato un paio di pietanze tra il tavolo Tassorosso e quello Corvonero, riuscirono ad attraversare la soglia, ma si fermarono solo dopo aver svoltato su un altro corridoio.
La mise giù e tolse il mantello.
« Grazie, ma non rifarlo mai più » gli disse cercando di sorridere, anche se i battiti a livello del petto martellavano rimbombando. 
Albus si limitò a gettarle un’occhiata lunga e piegare il mantello.
« Quello cos’è? »
« Un mantello dell’invisibilità » fece lui, rimettendolo in tasca, sempre grazie all’incantesimo estensivo irriconoscibile.
« T-tu hai un mantello dell’invisibilità? Da quando? »
« Da sempre » disse aprendo le braccia.
Evelyn assottigliò lo sguardo. « E perché io non lo sapevo? »
Albus si limitò ad alzare le spalle.
« Non ci credo! Era così che tu e Scorpius non venivate mai scoperti! » disse riferendosi a tre anni prima. « Tutti quei misfatti senza che nessuno vi riconoscesse, le uscite ad Hogsmeade fuori orario e le vostre escursioni nella Foresta Proibita di cui nessuno si è mai accorto?! Per non parlare di tutte le volte che riuscivate a mettere le Caccabombe nella Sala Comune Grifondoro senza essere visti! » Evelyn era allibita. « Come ho fatto a non accorgermene prima? »
« E così ci hai scoperti » constatò « Dopo sei anni. » Aggiunse con un ghigno.
Lei arricciò il naso in modo infantile e incrociò le braccia al petto. Lui la osservò e poi cominciò a ridacchiare, le si avvicinò e le toccò il naso.
« Che…? »
« Hai un po’ di crema » si spiegò tastandole il naso con delicatezza, pulendola dalla crema, causata della fetta di torta lanciatale da Lily.
La sua mano indugiò qualche istante in più, poi scese lenta verso la guancia, che però non riportava alcun residuo alimentare. 
« Sono così sporca? » chiese Evelyn.
Albus sbuffò una sincera risata. « Sai, non sei poi così bella » fece con tono grave. « Sì, guarda, il tuo naso fa una strana curva, proprio qui. » Finse toccando un punto impreciso del suo naso. « E poi i tuoi capelli » iniziò passando la mano tra qualche ciocca. « Sono crespi. E gli occhi hanno un colore strano. » 
Lei nella sua ingenuità lo guardava seria. 
Albus abbassò la mano verso le labbra, ma non riuscendo a trovare alcun aggettivo negativo da attribuire loro, lasciò perdere. 
Evelyn invece allontanò la sua mano, facendolo pentire di aver anche solo aperto bocca.
« Allora dovresti assegnarmi qualche punto » disse lei, facendogli intuire che dietro l’ingenuità, c’era anche dell’astuzia.
« Spiacente, non posso assegnare punti alla mia casata rivale. » Fece scorrere lo sguardo su di lei. « Anzi, te ne tolgo cinque perché sei tanto brutta che non ti si riesce a guardare. »
« Sei un terribile stronzo, Potter. Nel caso nessuno te l’avesse mai fatto notare » lo informò lei con uno sbuffo di rabbia.
Lui ghignò. « La piccola Black alla scoperta delle prime parolacce. Un punto a Grifondoro per la terza parolaccia della tua vita. Ora, se non ti dispiace, io vado a farmi una doccia… »
« Un punto? » si lamentò lei. « Solo uno? Ma se ne dico altre, mi ridai gli altri quattro punti? »
« La prossima volta » le disse allontanandosi.
« Bastardo » sillabò a denti stretti Evelyn, guardandolo allontanarsi a passo lento e prepotente.
« Ah, Black, sarò pure un terribile stronzo, ma sono altrettanto terribilmente bello e sono sicuro che sei d’accordo con me. »
Un occhiolino arrogante e scomparve dietro le scale che conducevano ai sotterranei.
 
 
 
*
 
 
Fred,
ti aspettiamo in dormitorio, non il mio, il suo. Muoviti.
Rox
 
Piegò il fogliettino, rimettendoselo in tasca e chiedendosi perché la sua adorabile sorellina non avesse lasciato qualche altra informazione, ad esempio, su dove si trovasse quel fottuto dormitorio. Girava a vuoto tra i dormitori Serpeverde da ormai un quarto d’ora, senza contare che per farsi dire la parola d’ordine aveva messo su un’epopea teatrale. Inizialmente chiese gentilmente (più o meno) a tre Serpeverde diversi di farlo entrare, il primo sbadigliò ed entrò senza calcolarlo, il secondo completamente ricoperto di alimenti, probabilmente appena tornato dalla Sala Grande, prese delle carote che aveva tra i capelli e gliele buttò sulle scarpe (corse poi dentro la Sala Comune, schivando la sua fattura), il terzo non lo guardò nemmeno. Cercò addirittura di sedurre una ragazza, ma quella se ne andò dopo avergli riso in faccia per cinque buoni minuti. Infine riuscì a minacciare un primino di metterlo sotto Cruciatus se non avesse aperto immediatamente questo stupido, fottuto e inutile muro del cazzo, e poté finalmente entrare.
Salì le scale che conducevano ai dormitori, ignorando gli sguardi di coloro che si erano accorti che non era un Serpeverde, anche se la maggior parte degli studenti cercava ancora di pulirsi dagli avanzi di cibo. Un Caposcuola cercò di dirgli che doveva uscire, che non si può accedere ai dormitori delle Casate altrui, è severamente proibito, Weasley, mi costringi a togliere venti punti a Grif…, ma le parole mancanti a dare una funzione logica alla frase si schiantarono insieme al secco Stupeficium di Fred.
Finì per quattro volte nel dormitorio sbagliato. Il primo lo trovò abissalmente vuoto, nel secondo trovò il primino che aveva minacciato, il ragazzino appena lo vide si nascose sotto al letto a baldacchino, urlando ai suoi amici di imitarlo, negli altri due chiuse subito la porta dopo aver sentito dei suoni sinistri
Alla fine dedusse che per ogni dormitorio di un determinato anno c’erano due stanze, invidiando i Serpeverde come non mai, perché mentre noi stiamo ammassati in una torre del cazzo, che in questo momenti ficcherei direttamente nel culo a Godric, ‘ste fottute Serpi si prendono tutto il loro spazio! Riuscì finalmente, dopo qualche calcolo ad arrivare al famoso dormitorio.
Non si prese nemmeno la briga di bussare, non l’aveva mai fatto e il suo umore in quel momento non gli suggeriva certo di farlo.
La stanza era davvero spaziosa ed elegantemente arredata. C’erano due letti a baldacchino matrimoniali, dalle tende verdi e le trapunte argentate. Di fronte ai due letti, in adiacenza con la grande finestra (che per Fred era un balcone, altro che le misere finestre della torre!) c’era un divano dall’aria antica, ma maestosa. Roxanne, Damon e Adam erano seduti su un letto e pareva stessero contando gli alcolici che quest’ultimo aveva proccurato.
« Fred! » Roxanne gli venne incontro e lo accolse con l’abituale saluto alla Weasley, lasciano dietro di sé un Damon Harper aperto in una solidale espressione interrogativa di chi assiste ad un rito satanico.
« Che avete fatto alla fine? » chiese sbrigativo e in parte ansioso Adam Zabini, mettendo da parte qualche bottiglia di Whisky Incendiario. 
« Sì, giusto, cos’è successo? » domandò Roxanne ritornando a sedersi sopra letto, invitandolo a fare altrettanto. D’altronde i letti dei dormitori Serpeverde erano così grandi che non ebbero alcun problema a starci in quattro. 
Si sedette, afferrò una bottiglia di Whisky ignorando il “Hey!” indignato di Adam e dopo un lungo sorso disse: « Gazza ha minacciato di spifferare tutto quello che abbiamo combinato alla McGranitt, accusando me, James e Louis di essere stati la causa, non gli è ancora andata giù la storia dei bigodini, ma Louis- »
« Aspetta! » lo interruppe Damon con un improvviso attacco di risate. « Cos’è questa storia dei bigodini? » Ma Roxanne gli rifilò una gomitata intimando a Fred di andare avanti.
« … Louis gli ha fatto un incantesimo di memoria… »
« Ma chi? Il Weasley occhi color spiaggia delle Hawaii? » commentò Adam, beccandosi anche lui una gomitata.
« … E lui se n’è andato borbottando qualcosa riguardo al pelo della sua gatta, quella invece ci ha guardati con i suoi occhi da felino incazzato giurandoci vendetta e lo ha seguito sventolando la coda. Louis non ha potuto fare l’Oblivion anche a lei, non sappiamo che effetto ha sugli animali, anche se per quanto mi riguarda poteva anche gettarle un Avada Kedavra! » Prese un altro sorso e andò avanti. « Hagrid ha promesso che non avrebbe detto niente se solo noi avessimo promesso di non rifarlo mai più, gli abbiamo sbattuto in faccia una promessa e se n’è convinto. Poi è arrivata una Corvonero perfettina del cazzo e ha detto che avrebbe fatto sapere tutto alla preside, ma Lily le ha lanciato una delle sue Fatture Orcovolanti e ‘sta qui non s’è più fatta vedere. Abbiamo chiesto agli Elfi Domestici una mano per sistemare la Sala Grande, anche se eravamo rimasti in pochi dopo l’irruzione di Gazza, ma loro hanno insistito per fare tutto da soli. Quelle creature sono l’ottava meraviglia del mondo, in meno di venti minuti hanno risistemo tutto senza lasciare minima traccia. Al diavolo il CREPA, Essiccati o Suicidati di zia Hermione, costringerò mamma a farcene prendere uno, tanto non credo che papà avrà qualcosa in contrario, basta non farlo sapere alla zia. » Un altro lungo sorso poi li guardò con un sopracciglio inarcato, poiché quelli aspettavano ancora che andasse avanti. « Che c’è? Ho finito. »
Gli altri annuirono distratti.
« Certo che c’è proprio andata di culo, eh, se ci beccava la Preside, addio Quidditch! » disse Adam, prendendo la bottiglia di mano a Fred e bevendo.
« Però è stata la cena più bella della mia vita! Dovremmo rifarla… Magari tra qualche mese… » riflesse Roxanne.
Seguì un lungo silenzio in cui Fred e Adam si passavano tra loro la bottiglia alternando lunghi sorsi, quando Damon, che fino a quel momento era rimasto completamente in silenzio, se ne uscì con un: « Mi sento un intruso. »
Gli altri tre si voltarono a guardarlo interrogativi.
Lui prese la bottiglia di Whisky Incendiario, bevendo e disse: « Un bianco in mezzo a tre neri. »
Ci misero un po’ a realizzare il concetto della sua affermazione. 
« Potremmo ucciderlo e gettare il suo cadavere bianco nel Lago Nero… » propose Roxanne al fratello. 
Quest’ultimo si limitò ad alzarsi e sbadigliare: « Magari un’altra volta, io mi ritiro, sono distrutto! » Qui si stiracchiò, emettendo muggiti dalle straordinarie capacità imitative. « Ci si becca in giro! » Posò un bacio sulla fronte della sorella e batté un pugno a mo’ di saluto ai due ragazzi, uscendo di scena con un ulteriore sbadiglio rimbombante.
 
Chiuse la porta dietro di sé nello stesso momento in cui concluse il suo epico sbadiglio, ma non riuscì a fare un ulteriore passo che finì incontro a qualcuno con un forte impatto.
Il corridoio era illuminato solo da qualche fiacca torcia verde, quindi non riuscì a vedere bene chi aveva praticamente schiantato, riuscì solo a distinguere una figura a terra. Chiunque fosse era di piccole dimensioni, perciò era caduto a causa dell’impatto. Fred si ritrovò a pregare Morgana che non fosse il primino che aveva minacciato di Cruciatus per entrare.
« Ma guardi dove vai, coglione? » La ragazzina si rimise in piedi con estrema velocità e lo guardò con sfida.
« Scusa, non ti ho vista » le disse Fred, sinceramente dispiaciuto. 
Era piccolina, al massimo gli arrivava al petto. Doveva essere del quarto o quinto anno, anche se la fierezza del suo sguardo la faceva sembrare molto più matura della sua età.
« Ti sei fatta male? » cercò di chiedere con garbo.
« Non sono cazzi tuoi se mi sono fatta male o no, idiota! » quasi gridò lei.
« Okay, non ti sto simpatico e l’abbiamo capito, ma ti ho chiesto scusa. Certo che voi Serpi siete proprio permalosi, eh » disse in un soffiò incapace Fred.
« Voi Serpi…? Tu non sei un Serpeverde? Allora mi spieghi cosa diamine ci fai qui, imbecille? » urlò lei. « Sei un Grifondoro! » disse puntandogli il dito contro come fosse un’accusa. « Ecco perché sei così ebete! Razza d'idiota…! »
La sua ulteriore offesa poco colorita venne interrotta da una porta che si apriva al lato opposto dalla stanza di Damon e Adam. La porta si aprì, emettendo un po’ di luce ed illuminando un Albus Potter in boxer e con i capelli più arruffati del solito. Lui strizzò gli occhi, ma nel buio del corridoio non riuscì a distinguere le figure e di conseguenza, non riuscì a riconoscere il cugino, « Ehilà, voi idioti! Potete litigare, scannarvi, schiantarvi, cruciarvi o avadakedavrizzarvi, basta che lo fate altrove! Qui c’è gente che cerca di dormire! »
 
Fred fece per salutare il cugino, ma Albus chiuse la stanza con un tonfo.
La ragazzina lo prese per la maglia e lo trascinò con forza fuori dal corridoio, dall’altra parte, fino a sotto le scale che portavano ai dormitori femminili. Lì una torcia più lampante illuminò il suo volto. Fu così che Fred fece scorrere lo sguardo su di lei con attenzione, notando la delicatezza e l’innocenza del suo corpo abusata dal trucco e dai vestiti troppo grandi e discordanti.
« Quanti anni hai detto che hai? » chiese Fred, la fronte corrugata e la voce un po’ roca.
« Non credo siano cazzi tuoi! Ora porta le tue chiappe nella tua Sala Comune e sparisci! » 
Notò come le sue parole fosse troppo sgarbate e stonate per una voce tanto delicata e dolce. « Aspetta! Tu sei la sorella di Nott! » disse riferendosi al compagno di stanza di Albus e Scorpius. « Alice…? No… Cornelia? Aspetta era più qualcosa tipo Delia? No… Ophelia? »
« Amelia, Amelia Nott » sbuffò lei.
« Oh, ecco, lo sapevo! Se non sbaglio sei in classe con Hugo Weasley… Io sono Fr… ! » fece per darle la mano e presentarsi, ma lei lo guardò annoiata. 
« Non me ne frega nulla di chi sei! Ora te ne vai o vuoi che chiami i Caposcuola? »
Fred studiò un’ultima volta la sua espressione dura, forse troppo dura, poi annuì e, dopo averle augurato la buonanotte, scese le scale che davano sulla Sala Comune, ormai vuota, e se ne andò.
Amelia salì le scale e, nel modo più silenzioso possibile per non svegliare le sue compagne, entrò in dormitorio.
Una volta in bagno, chiuse la porta dietro di sé con la chiave.
Il bagno, se così miseramente lo si poteva definire, era dotato di un enorme vasca e anche di una doccia, entrambe d’argento. Le pareti di ceramica verde acqua riportavano calcografie e dipinti della vita sott’acqua. Sul lato sinistro c’era però una parete non dipinta, completamente spoglia e coperta da un unico specchio. 
Fu verso quella parete-specchio che Amelia si diresse tremante. 
Vide davanti a sé il volto di una quindicenne corroso da una matita nera che metteva in risalto gli occhi e nello stesso tempo li deformava, logorato dal rossetto indaco che voluminizzava e contemporaneamente sminuiva le sue labbra. La camicia stretta intorno alla sottile e non ancora del tutto sviluppata vita ed estremamente scollata per imporre il poco seno. L’esagerata cortezza della gonna della divisa sciupava aggressivamente la bellezza delle sue gambe.
Una mano smaltata miseramente di rosso si pose brutalmente sullo specchio davanti a lei per sorreggere il suo inginocchiamento, mentre l’altra spedita si diresse a soffocare un singhiozzo con forza e dolore, come a voler punire le labbra che avevano emesso tante aspre e sgarbate parole, non solite a pronunciare.
Cos’era diventata a causa di Fred Weasley?
 
 
*
 
« Sono novecento Burrobirre, qui. »
« Sì, è giusto » confermò Roxanne.
« Settecento bottiglie di Rhum e cinquecento di Acquaviola. »
« Vanno bene » approvò Damon, controllando sulla pergamena che lui e Roxanne continuavano  ripetutamente a strapparsi di mano.
« E Novecentonovantanove bottiglie di Whisky Incendiario » pronunciò Adam completando la lunga lista di alcolici. « Questa sarebbe stata la millesima » disse portandosi in bocca la bottiglia che Fred aveva aperto prima.
Roxanne gliela prese di mano e fece per assaggiarla quando fu bloccata da un 'Hey, hey, hey!' ed una mano di Damon Harper. Il Serpeverde le strappò la bottiglia di mano, intimando un autoritario: « Tu no. »
« Io che? Scherzi, vero? » fece Roxanne con un’incerta ironia nella voce.
« No. »
« Scusa, e chi sei tu per dirmi quello che devo o non devo fare? » lo attaccò, cercando di prendergli la bottiglia.
« Damon Stephen Harper, sedici anni, fieramente Serpeverde, figlio di Stephen Harper ed Emily Selwyn, incredibilmente bello, affasciante oltre ogni misura ed altrettanto noto per le sue misure nonché per le sue doti sovraumane… »
« Egocentrico! »
« Ma sentitela…! Permalosa! »
« Megalomane! »
« Isterica! »
Adam pesò bene di filarsela intatto. Spostò con un Incantesimo di Levitazione l’ultima scatola rimasta che conteneva i vari vini e furtivamente si ritirò nel suo letto.
Aprì il suo baule e nascose la pergamena che conteneva lista e prezzi degli alcolici al sicuro. Il suo occhio cadde poi su una scatola di preservativi, soffocando una risata, ne prese uno e lo lanciò da sopra la tenda, agli altri due che all’atterrare del profilattico e successivamente al suo riconoscimento tacquero. Si sentì improvvisamente la risata sguaiata di Damon, di Roxanne, invece, si udì solo un urlo militare, poi la bottiglia di Whisky (senza dubbio lanciata da quest’ultima) lo schivò per un pelo.
« Lo vedi che sei isterica?! »
« No, io vedo solo un coglione! »
« Dov’è? » Il tono canzonatorio di Damon non poté non far ridere Adam, che ancora trafficava nel suo baule alla ricerca di qualcosa.
« Ti prenderei a calci, ma ho troppo rispetto per il mio piede! »
La mano vagante di Adam toccò un solido consistente, poi, dopo sinceri tentativi, tirò fuori un libro dalla rilegatura rossa. Una volta riconosciuto, si diresse verso il suo letto e, dopo esservici comodamente adagiato, lo sfogliò con non curanza.
Stava giochicchiando con l’orlo di una delle prime pagine, perso nell’amorevole scambio di battute tra i due ragazzi, quando si rese realmente conto di ciò che aveva tra le mani. Poi dopo ripetute indecisioni su quanto fosse o meno patetico avere un diario o su quanto Louis Weasley fosse stato furbo a non sottoporlo ad un incantesimo di protezione, si chiuse le tende, si spogliò e si sistemò tra le lenzuola accoglienti e morbide. Gettò un’occhiata dietro la tenda a Damon e Roxanne, ma i due erano troppo impegnati a complimentarsi tra loro per badare a lui. Sistemò un’ultima volta con estrema cura le tende, poi dopo un respiro di decisione, sicuro, aprì il diario e cominciò da come cominciavano tutte le storie. Dall’inizio.
« Plebea! »
« Eccentrico! »
« Negra! »
« Culo Bianco! »
« … Ma bello! »
« Il mio di più! »
« Si, in effetti… »
 
 
 
 
 
 
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Capitolo 3
*** III. La festa di Halloween (parte I) ***





III.
La festa di Halloween
I parte

 
"L'ignoranza è più vicino alla verità del pregiudizio." 
Denis Diderot

Fred Weasley e James Sirius Potter erano due ragazzi molto simili sotto molteplici aspetti. Popolarità, rendimento scolastico, Quidditch, ilarità e spensieratezza, ad esempio.
Tuttavia, molti consideravano la loro fama dipendente da quella dei genitori, subordinata all’eroismo delle loro famiglie, leggevano la loro scarsa e modesta voglia di studiare come ignoranza o addirittura stupidità, giudicavano il loro successo tra le ragazze soggetto a quello sul capo di Quidditch, traducevano la loro ilarità in ingenuità e immaturità e la loro spensieratezza in menefreghismo.
Qualcuno li riteneva un punto di riferimento e cercava di eguagliarli senza successo, altri li ritenevano semplicemente due completi idioti, ma forse questo era principalmente dovuto alla competizione sportiva, qualcun altro, invece, si limitava a guardarli da lontano con ammirazione e venerazione, schiavo dell’idolatria, altri ancora li guardavano dall’alto verso il basso, con superiorità.
Tutti, però, erano fermamente convinti della loro ingenuità e li sottovalutavano ingiustamente.
Ma James e Fred non erano ingenui o immaturi, non erano menefreghisti, ancor meno ignoranti o stupidi. Loro osservavano, ma in silenzio. Capivano, ma non si prendevano il disturbo di farlo notare agli altri. Ascoltavano, ma non giudicavano. Vivevano dietro un sorriso e per strapparne uno anche agli altri.
Quando faceva freddo e la maggior parte delle persone aspettava che il ghiaccio si sciogliesse, Fred Weasley e James Sirius Potter ci pattinavano sopra. Tutto qui.



 
§§§




« Stai sbagliando tutto. »
Amelia sbuffò lanciando un’occhiata obliqua a Denise, ma senza di risponderle, limitandosi a dare una pesante passata di rossetto e allontanandosi poi per osservare finalmente l’opera compiuta.
« Amelia, stai sbagliando tutto. » ripeté Denise dietro di lei.
Erano chiuse in bagno da ormai più di tre ore a prepararsi e da più di trenta minuti, Denise non la smetteva di ripetere la stessa frase, mentre appoggiata al lavandino, già pronta nel suo travestimento da Circe, osservava il riflesso della migliore amica, che ora che dava le spalle.
« Smettila » sillabò acida l’altra.
« Amelia, stiamo andando a una festa di Halloween tu sei travestita da Prostituta per il peggiore dei motivi. » le fece notare indicando con un gesto muto del capo il suo abbigliamento. « Sei solo più attraente, Amy, non più bella. »
« È l’unico modo, lo sai anche tu » sussurrò frustrata Amelia, girandosi verso di lei.
« Forse, » acconsentì con un’alzata di spalle l’altra, « ma è il modo sbagliato. »
« Non m’importa se è quello sbagliato, non m’importa se potrebbe durare solo una notte o due, non m’importa se finirò nella lista delle tante » disse Amelia bisbigliando, come spaventata dalle sue stesse parole. « Non posso buttare tutto all’aria, Denise. Non dopo tutto quello che ho sopportato. È l’unico modo » finì in tono sconfitto.
« Amelia, ma senti quello che dici? » sbottò Denise guardandola con ripugno.
« Deny, ne abbiamo già parlato… »
« Stai annullando te stessa, ti stai sottomettendo, ti stai umiliando! E per cosa? Per uno stronzo che non ti merita. »
« Non è colpa sua se non ricambia a miei sent- »
« E lo difendi anche? » Denise la guardò incredula, facendo passare lo sguardo passare gli occhi su di lei con disgusto. « Guarda che cosa sei diventata. »
« Non ho scelta, solo così posso- »
Denise alzò una mano a bloccare sul nascere le sue parole. « No, non dire nient’altro. Ti prego, non dire nulla. » Uscì dal bagno velocemente, ma solo dopo averle gettato un ultimo sguardo ripugnante.
« Denise! Non- Denise, aspetta! »
Amelia uscì dal bagno per inseguirla, evitando fermamente di guardarsi allo specchio.


 
*

« Evelyn, ti muovi? »
La porta del bagno venne scossa da picchi solleciti e piuttosto celeri, ma Evelyn non ci fece caso.  

Alla mia bellissima fanciulla,
Il più bel vestito da Madre Natura di tutti i tempi. L’ho fatto con le mie mani e sono sicura che addosso a te starà d’incanto.
Con tanto amore,
Mamma.
Ps: sono papà, in realtà trovo quel vestitino un po’ troppo corto, ma Astoria la pensa diversamente. Ho detto a Scorpius di non perderti d’occhio durante la festa--
Tesoro, sono la mamma, non badare a quello che dice papà, deve ancora assimilare l’idea che sei cresciuta e non sei più una bambina.
Ps: ho cucito anche una fascia, per il nostro piccolo problemino.
Un bacio e divertiti alla festa.


Rialzò lo sguardo studiandosi.
Il vestito era floreale, appunto da Madre Natura, a spalline incrociate dietro la schiena e per niente scollato, scendeva poi contornandola fino a sbocciare sotto il bacino. La calzava davvero con precisione, poiché le era stato fatto su misura e anche grazie alle doti stilistiche di sua madre, ma non era il vestito a portarla a osservarsi con cipiglio contrariato e insicuro.
Ciò che sminuiva la sua fiducia e la turbava in quel momento era il piccolo problemino cui si riferiva sua madre.
Il Marchio Nero.
Quel serpente che fuoriusciva dal teschio solcava vivido la sua pelle e spiccava contrastandola con nitidezza.
Le aveva provate tutte, ormai sapeva a memoria Il Marchio Nero: potere ed egemonia. L’aveva letto e stralletto, ma non c’era alcuna soluzione. Madama Chips aveva ragione, non vi era alcun modo di toglierlo, cancellarlo o anche solo coprirlo con un incantesimo, nessuno.
Sarebbe rimasta macchiata a vita e avrebbe sempre dovuto nascondersi.
Sospirò sconfitta e fece per passare una mano sugli occhi, ma s’interruppe sul nascere del gesto al pensiero di quello che avrebbe potuto farle Dominique se solo avesse osato rovinare il trucco che le aveva tanto precisamente fatto.
« Ti dai una mossa? »
Sbuffò sonoramente. Poi prese la fascia dello stesso tessuto floreale che sua madre aveva allegato con il vestito e se la chiuse attorno all’avambraccio sinistro con precisione e cura.
« Evelyn Narcissa Black, se non esci da quel bagno entro cinque secondi, sfondo la porta e ti veng… Finalmente! Quanto diavolo ci metti a lavarti i denti?! » Roxanne l’accolse con le mani sui fianchi.
« Non trovavo il dentifricio… »
Evelyn la guardò meglio, stava davvero bene nel suo vestito da danzatrice del ventre.
Si trattava di una gonna tendente all’indaco, lunga, ma trasparente e di un top dello stesso colore con pendenti di calco orientale, che lasciava scoperto il ventre. I capelli sciolti erano limitati da una benda, anch’essa solcata da scalfitture arabe. Il viso era stato truccato con pertinenza al travestimento e, infatti, gli occhi riportavano uno stampo egiziano che donava la sua pelle scura.
« Avanti, ragazze, andiamo! » le incitò Rose, svolgendo un mantello che aveva tra le mani.
Rose aveva optato per un travestimento da fata, la cui gonna gonfia usciva dal corpicino del vestito, lasciando intravedere dietro due ali leggermente trasparenti e sottili.
« Ma quello… Quello non è il mantello dell’invisibilità di tuo cugino? » Fece Evelyn riconoscendone il tessuto, dopo che Rose lo ebbe gettato attorno a tutte e tre.
Ricevette un cenno di assenso da Roxanne poiché la rossa era troppo impegnata ad assicurarsi che il mantello le coprisse per bene.
Muoversi sotto il mantello in tre fu piuttosto difficoltoso e disagevole, però riuscirono a giungere nei sotterranei senza farsi sorprendere, anche se si dovettero fermare due volte. La prima perché Rose si togliesse i tacchi (dopo che Roxanne ebbe gentilmente sottolineato quanto ci sapesse camminare “Sembri un dinosauro!” ed Evelyn le ebbe cortesemente fatto notare quanto rumore producesse il riecheggiare rintronante “… di quei trampoli, ma perché diavolo te li sei messa?!”), e la seconda quando incontrarono la gatta di Gazza e Roxanne cercò di schiantarla per un qualche conto in sospeso.
Quando giunsero, però, davanti alla porta del dormitorio maschile del sesto anno, oltre il quale si trovava ‘l’idiota Bianco che collabora con me e Fred’, Roxanne pestò il mantello bloccandosi di botto e facendo così in modo che Evelyn le cadesse a dosso e che Rose facesse lo stesso su quest’ultima.
Cascarono così oltre la soglia della porta una sopra l’altra, scoppiando poi a ridere.
« Ma che…? » Adam sdraiato sul suo letto, intento a leggere un libro, si alzò di scatto per controllare la causa del tonfo, ma appena le vide si bloccò di colpo. « Damon! » chiamò senza distogliere lo sguardo dalle tre ragazze che ancora ridevano. « Vieni a vedere! »
« Che c’è? » chiese una voce da dentro il bagno assordata dal getto d’acqua.
« Una cosa lesbo a tre, muoviti! »
Si udì l’arrestarsi brusco d’acqua, qualche colpo, poi Damon Harper comparve in men che non si dica con solo i boxer addosso. « Dove? »
Adam gli indicò le tra ragazze a terra che cercavano di liberarsi dal mantello, ancora scosse dalle risate.
« Non è che potrei unirmi? » chiese in tono cortese Adam.
Rose cercò di tirare fuori il mantello da sotto ‘Evelyn, sposta le tue chiappe!’ E ‘Roxanne vuoi togliere il tuo piede?!’. Riuscì, poi, a rialzarsi rossa in viso, permettendo alle altre due, ancora ridenti, di fare lo stesso.
Si schiarì la gola a disagio, richiamando involontariamente silenzio. « Ehm… Scusate. Siamo inciampate sul mantello e… »
« Siamo cadute » concluse Roxanne piatta andando a sedersi su uno dei due letti a baldacchino, ormai solita a comportarsi come se il dormitorio dei due Serpeverde fosse il suo. « Allora? Che si fa? » chiese senza dubbio a Damon.
« Ehm… Scusate, io vado da Scorpius… » Rose, ancora rossa in volto, si dileguò, uscendo il più velocemente possibile.
« Hey, Rose, aspettam… » fece Evelyn.
« Cuginetta! » la chiamò Adam dopo averla riconosciuta. « Da quanto tempo? » Le passò un braccio attorno alle spalle, spettinandole i capelli.
« Da ieri? » fece Evelyn, sbuffando nel ritrovarsi una cascata di ciocche bionde a impedirle di vedere chiaramente.
La madre di Adam, Daphne Greengrass, era sorella di Astoria e questo aveva permesso che i Malfoy e i Zabini s’imparentassero. Naturalmente Adam sapeva che Evelyn era stata adottata, anche se convinto del suo stato di nata-babbana, ma essendo cresciuti insieme, la riteneva una cugina, nello stesso modo di Scorpius.
« È tutto pronto, direi… Bisogna solo allargare il passaggio. Wilkins e D’Owen faranno i ‘Buttafuori’ all’entrata, hanno già la lista degli invitati… » constatò Damon, trafficando sul suo armadio alla ricerca di qualcosa.
« Come hai fatto a convincerli? Voglio dire, staranno fuori dal portone tutta la notte… » riflesse Roxanne, sdraiata sul suo letto a guardare con cipiglio confuso le tende verdi.
« Wilkins mi doveva un favore, una vecchia faccenda… » dileguò con un gesto noncurante della mano l’argomento. « E D’Owen… » si fermò a cercare le parole giuste. « Credo di averlo ricattato. »
« Ma… è una brutta cosa! » intervenne Evelyn seduta sul letto di Adam, mentre quest’ultimo affianco a lei aveva ripreso la lettura bruscamente interrotta qualche minuto prima.
« E quindi? » fece Damon, gettandole un’occhiata vaga e allontanandosi dall’armadio. « Stiamo dando una delle più grandi feste mai fatte ad Hogwarts, illegalmente, e tu ti preoccupi di un semplice ricatto? »
« C’è gente al mondo che muore di fame… » se ne venne fuori Adam affianco a lei, ancora mezzo immerso nella lettura. « Questa è una brutta cosa. »
Damon si voltò verso l’amico con entrambe le sopracciglia inarcate, rinunciando però a chiedere spiegazioni, quando vide che Adam si era immerso di nuovo nella lettura.
Evelyn schioccò le dita davanti al ragazzo abbassando poi lo sguardo sul libro che aveva tra le mani e prendendoglielo. « Da quando leggi? » chiese confusa e stupita, rigirandosi il libro tra le mani.
« Hey no, Eve, ridammelo! » si agitò Adam, cercando di riprenderglielo .« Evelyn! » Turbato, il ragazzo prese a farle il solletico, che sapeva essere suo più grande punto debole sin da quando erano bambini, finché lei non cedette e lui se lo riprese trionfante.
Evelyn si rimise a sedere smettendo di ridere e guardandolo negli occhi. « Di chi è quel diario? » chiese piegando la testa di lato e parlando senza che Roxanne, intenta ad osservare la schiena nuda di Damon ancora immerso nell’armadio, li sentisse.
« Questo? Oh, no! Hai capito male… Cioè bene- Nel senso… Non è un diario- Voglio dire… » Nascose l’oggetto sotto il suo cuscino e ci si sedette sopra con fare protettivo. « Non capirst- È solo… »
« D’aaaaaaaccordo » constatò Evelyn divertita, alzandosi. « Io vado da Scorpius… A dopo. » Gli diede un bacio sulla guancia e si alzò.
Roxanne, persa ad osservare il lato B di Damon, che incurante (e ancora in boxer) le dava le spalle, si ridestò all'improvviso quando una mano di Evelyn le chiuse la bocca, ricongiungendo la mandibola al resto della fisionomia facciale.
« Stai sbavando » si giustificò la Black con un occhiolino, uscendo poi dopo aver salutato tutti.
Roxanne quasi non la sentì, gli occhi selvaggiamente puntati sulla schiena e sui boxer del ragazzo.
Che fosse grazie al Quidditch o grazie alla madre o al padre, Damon aveva un fisico scultoreo, quasi divino, dalla caviglia fino alla schiena e al collo.
Il ragazzo si voltò all’improvviso in sua direzione e notato lo sguardo perso (e famelico) della ragazza su di sé, le gettò un’occhiata interrogativa.
« Hai dello shampoo nei capelli » si giustificò lei con voce roca, ringraziando mentalmente il suo intelletto iperattivo.
Era vero, era uscito dalla doccia velocemente al richiamo di Adam, senza neanche risciacquarsi. Lo vide passarsi una mano tra i capelli e ridacchiare, e poi dirigersi in bagno dopo aver detto qualcosa che lei non riuscì ad afferrare, persa ad ispezionare, questa volta il lato A, dei boxer del ragazzo.
« … ma mi stai ascoltando…? »
« Dgaaah… »
Damon, inosservante delle guance insolitamente infiammate della ragazza, se ne andò sbuffando verso il bagno, dicendo qualcos’altro che Roxanne, ritrovandosi ancora una volta davanti la parte opposta dei boxer, non afferrò.
Una volta che il ragazzo ebbe chiuso la porta del bagno dietro di sé, si ridestò scuotendo il capo e passandosi una mano sulla fronte. Si sentiva sensibilmente calda, nonostante fuori piovesse a dirotto. Prese un lungo respiro e chiuse gli occhi: doveva calmarsi, non poteva comportarsi come una ragazzina in piena crisi ormonale! Quello era un idiota! Bello, certo, terribilmente bello, ma era pur sempre un idiota. E poi era un Serpeverde, bello, ma Serpeverde… ed era bianco... e poi se non ricordava male, era fidanzato o in una qualche relazione…
Che brutta cosa che erano i boxer, però! Se solo non fossero esistiti… non che a lei importasse degli organi genitali di quel Serpeverde! Assolutamente! Cioè, certamente dovevano avere una certa signoria e ehm… Dimensione… ma questi erano affari che non la riguardavano minimamente!
Sentì la porta del bagno riaprirsi, ma nonostante fu terribilmente tentata, tenne gli occhi saldamente chiusi in una teatrale imitazione di sonno. Damon doveva averla assecondata perché lo sentì sussurrare ad Adam (inutilmente poiché era silenziosamente immerso nella lettura) di non fare rumore, per non svegliarla.
Ancora con gli occhi chiusi, Roxanne cercò d’immaginarsi il ragazzo ancora seminudo davanti a sé. Così, accecata dalla tentazione, decise di sbirciare, dopo tutto un’innocua sbirciatina non faceva male a nessuno, no? Aprì lentamente un occhio cercando di mettere a fuoco la sua figura.
Era in piedi davanti al suo letto, di fronte a lei, che con un solo misero asciugamano a dosso e un altro in mano, cercava di asciugarsi i capelli, dimentico della bacchetta. La schiena era bagnata da goccioline che terse si spuzzavano sparse ed irriganti nello stesso tempo. Deglutì richiudendo subito l’occhio e intimandosi di pensare ad altro.
« Mi spieghi, cos’è che stai leggendo? » bisbigliò Damon ad Adam.
« Niente! Sol- Solo un libro » rispose l’altro, mettendosi improvvisamente sull’attenti.
« Ma dai? Pensavo fosse un basilisco! » rifece sarcastico Damon. « Ultimamente non fai altro che leggere continuamente quel dannato coso! »
« Oh, sì… un co-compito per Babbanologia, sai… »
« Adam, tu non segui il corso di Babbanologia. » osservò Damon perplesso.
« Sì, beh… mmh… » Roxanne poteva sentire gli ingranaggi della mente di Adam cercare una deviazione al discorso. « È meglio se ti vesti in bagno, potrebbe svegliarsi. » Eccola trovata. Damon doveva essersi svestito completamente… Si trattenne con tutte le due forze dall’aprire (spalancare) gli occhi, soprattutto perché percepì addosso lo sguardo dei due ragazzi. Simulò, così, un respiro pesante ed assonnato, proprio come le aveva insegnato James quando erano piccoli.
« Nooo, non vedi come dorme? » Dal tono pareva la stesse osservando. « Sai, se non fosse isterica e non fosse Grifondoro e Weasley nello stesso tempo… Sarebbe anche passabile, no? »
« Già. » Dalla voce sembrava che Adam fosse più intenzionato a cambiare discorso e distrarre l’amico dalla faccenda del libro che a confermare le sue affermazioni.
« Voglio dire, è così fiera, così orgogliosa, così Grifondoro! O no? »
« Sì, sì. »
« Sarebbe anche carina, volendo. »
« Hm, vero. » Adam aveva ripreso a leggere, fermandosi a gettare poi un’affermazione.
« Se solo avesse più tette… »
Nonostante avrebbe voluto alzarsi e soffocarlo con un cuscino, non poté non dargli ragione.
« Ha un gran bel culo, però! » considerò poi dopo uno sbadiglio, riprendendo a vestirsi e concludendo l’argomento dopo una sincera considerazione sui suoi glutei.
Qualche minuto dopo, Roxanne udì la porta aprirsi e dalla voce (e dalle battute idiote) poté dedurre che il nuovo entrato non era altri che Albus. Lui e Damon confabulavano qualcosa riguardo al loro travestimento, così, mentre cercava di origliare la loro conversazione, senza accorgersene scivolò in un sonno impetuosamente invaso dagli organi riproduttivi del giovane Serpeverde.
Alla festa mancavano ancora due ore…


 
*

Quando Evelyn entrò nella Camera dei Segreti con Scorpius e Rose, capì cosa intendeva Damon quando disse ‘una delle più grandi feste mai fatte ad Hogwarts’.
Il soffittò era incantato, a dire la verità faceva un po’ senso guardarlo, ma ciò non ne sminuiva la bellezza. Mostrava impeti e flutti marini, le cui onde si ripercuotevano con forza, spinte dal vento, fino a risolversi in maree. Sopra il loro capo vi era la riproduzione dell’Oceano Indiano.
La base architettonica e sculturale della Camera era rimasta intatta, anche se Rose riuscì a vedere una parte delimitata, per preservarne l’aspetto monumentale e storico. Tuttavia la superficie utilizzata rimaneva estremamente estesa e riportava inserzioni orientali, per rimanere nel tema della festa, a cui l’Oceano era soggetto.
Le pareti erano tappezzate e incalcate da conchiglie che riportavano una venatura verde acqua e risaltavano subito all’occhio. Era come se l’intonazione acquosa del verde, le rendesse acquose nel vero senso della parola, poiché continuavano a luccicare acquitrinosamente diluite.
L’aria era tropicale ma fresca, quasi bagnata, come se delle invisibili e minuscole goccioline la movessero ed umidificassero con delicatezza.
Ai loro piedi la pavimentazione era insabbiata, ma con molta leggerezza. Si percepivano solo delle leggere ariate di sabbia in basso, era come se la sabbia fosse mossa dallo stesso vento che manovrava e spingeva le onde dell’oceano sul soffitto.
Nonostante la sala fosse già affollata e le luci verdi e blu in alternanza non permettessero molta luminosità, Rose riuscì a riconoscere la forma della pista da ballo. Era un enorme cozza blu, senza coperchio, aperta al centro della sala che già ospitava gli invitati a ballare, sotto la musica dettata da una collocazione indipendente dalla pista da ballo, poco elevata ad essa che Rose dedusse essere la posizione del deejay, Fred.
Ma poco dopo aver varcato la soglia, giusto mentre ancora osservavano affascinati la sala, quest’ultimo venne loro incontro.
« Ehilà, bella gente! » Li salutò, avvicinandosi con un bicchiere dalla dubbia innocenza in mano. « Rose, sei uno splendore… Naturalmente anche tu, Evelyn… Malfoy… Ciao. » Il suo sorriso percorreva le sue labbra da un’estremità all’altra. « Venite, vi accompagno io, Roxanne sta mostrando la strada agli altri invitati… » Li condusse verso quella che sembrava essere l’area relax. Si trattava di spazi contenenti qualche divanetto e un paio di poltrone con molta probabilità egiziani attorno ad un tavolino di vetro anch’esso dalla tonalità insolita verde-blu. Queste aree erano separate le une dalle altri da una tenda trasparente e verde, tipica del Sahara. Solo una volta sedutasi, Rose si accorse delle bottiglie alcoliche che levitavano in aria. « Questa è l’area riservata ai famigliari… Malfoy, so che di famigliare con me non hai un bel niente, ma desumo che quello che condividete tu e mia cugina dovrà imparentarci per forza… Scommetto che avete già scelto la data per il matrimonio, se non l’avete fatto, beh fatelo, vorrei vedere la faccia di zio Ron! »
Mentre Scorpius sorrise divertito alle parole di Fred, Rose si limitò ad affondare nella poltrona e arrossire violentemente.
« Da cosa sei travestito… Ehm precisamente? » chiese il giovane Malfoy.
Fred lo guardò come se avesse bestemmiato i padri fondatori della scuola « Come sarebbe a dire da cosa sono travest…? Da '50' Cent, no?! »
« Da chi? » Scorpius guardò con indecisione il ragazzo, dal cappello della ‘NY’ alle scarpe sportive babbane, senza riuscire a comprendere.
« Oh, ti capisco » intervenne Fred notata la sua espressione. « Prima James pensava mi fossi travestito da Eminem! Ammetto che sono stato fortemente tentato, ma alla fine ho optato per '50' Cent. Ora scusatemi, ma il vostro deejay preferito deve tornare alla sua posizione! A dopo, piccolini! »
E se andò con passo lento e tosto, come se stesse assecondando veramente il ruolo del suo travestimento.
« Chi diavolo è Enimem?! E cinquanta Galeoni… O Falci? Cos’erano? » fece Scorpius con le sopracciglia inarcate. Evelyn stava giusto per spiegarglielo, quando James fece il suo ingresso trionfale.
La Black gli saltò al collo, abbracciandolo, e appena vide Dominique, le mostrò orgogliosa la dedizione con cui aveva preservato l’acconciatura e il trucco che le aveva tanto accuratamente fatto.
« Non ci credo! » esclamò Rose notato il travestimento del cugino.
« Sì, lo so, sono bellissimo! » ammise James con un sospiro passandosi una mano tra i capelli.
« È stata davvero un’idea geniale! » aggiunse, indicando il suo abbigliamento, che più che altro consisteva in un semplice smoking, ma la parte, appunto 'geniale', del travestimento erano quel paio di occhiali rotondi e la finta cicatrice a saetta sulla fronte. « Travestirti da zio Harry… Davvero un’idea geniale! »
« So anche questo! » confermò sedendosi tra Evelyn e Dominique.
« Quando Merlino distribuiva modestia agli uomini, tu dov’eri? » gli chiese Rose esasperata.
« Rose, ti pare il momento di ripassare Storia della Magia? Malfoy, non ho avuto nulla contro la tua relazione con mia cugina, ma almeno se dovete passare tempo insieme, fa che non sia coi libri! »
Evelyn fu scossa dalle risate, mentre Scorpius se ne usciva con un « Promesso, amico! » e Rose avvampava ancora una volta.
« Rose, hai visto quant’è magnifique il vestito che mi ha spedito Victoire? » Dominique si alzò facendo un lento ed elegante giro su se stessa. L’abito era lungo, ma scendeva stretto attaccandosi alle sue forme, contornandola e sfumando dal blu più scuro fino in basso al celeste più paradisiaco, senza dubbio ispirato alle code sireniche. « L’ha preso in Marocco, sai, a Marrakech. Lei e Ted, ci sono stati per lavoro e ne hanno approfittato per farsi una piccola vacanza. Lo vedi il tessuto con cui è stato realizzato? È seta pura, sai… »
Mentre Dominique parlava, Rose l’ascoltava con un sorriso comprensivo e Scorpius guadava quest’ultima anche lui sorridendo (solo in modo un po’ più inebetito), James si avvicinò ad Evelyn indicando il suo avambraccio sinistro fasciato.
« Fa ancora male? » chiese in un bisbiglio, per non farsi sentire. Era l’unico a sapere del Marchio Nero.
« Un po’ » ammise lei, toccandosi l’avambraccio. « Ma non brucia mai e la cosa è strana. A detta di papà non è stato marchiato. »
« In che senso marchiato? » chiese James spaesato.
« Papà dice che è stato solo tatuato, ma non marchiato, cioè non gli è stato conferito alcun potere, non hanno fatto in tempo… grazie a te, Sirius » finì sorridendogli.
James scosse la testa. « Se me ne fossi accorto prima, non sarebbe successo… »
« Ancora con questa storia? È solo grazie a te se io qui, Sirius, solo grazie a te se sono ancora viva! È già molto, non ti pare? »
Lui le arruffò i capelli, sorridendo con dolcezza e beccandosi un’occhiataccia da Dominique per averle rovinato l’acconciatura che le aveva fatto. La ragazza si avvicinò alla Black, sospendendo l'enunciazione stilistica del suo vestito, e prese a trafficarle nei capelli, tenendo sotto sguardo minaccioso il primogenito Potter.
« Evelyn, vedi di non allontanarti troppo durante la festa, ho promesso a papà che ti avrei tenuta d’occhio, non so cosa abbia preso a mamma, quel vestito è davvero troppo corto!» Se ne uscì Scorpius irritato.
La Black lo guardò incredula. « Non ci credo che ti ha scritto veramente… » Fece per dirgli che avrebbe dovuto infrangere la promessa fatta al padre, perché lei non aveva la minima voglia di seguire lui e Rose per tutto il tempo e fare la terza incomoda, ma venne interrotta dall’entrata di altri due Weasley.
« Ma vi moltiplicate? » sbottò Scorpius con le sopracciglia inarcate guardando Lily e Hugo sedersi su un divanetto di fronte a loro e appoggiando una scatola (e i piedi) sul tavolino, senza preoccuparsi di salutare.
I due ragazzi vestivano piuttosto normali, fatta eccezione per le due magliette semplici. Su quella di Hugo vi era scritto ‘Gred’, mentre su quella di Lily spiccava la scritta ‘Forge’. Quest’ultima aveva anche raccolto i capelli rossi in un cappello simile a quello che aveva di Fred poco prima, per rientrare completamente nel ruolo. Si trattava di soprannomi attribuiti loro dalla nonna Molly e che loro vantavano con fierezza.
Hugo stava controllando qualcosa su una pergamena e pareva fare dei calcoli particolarmente difficili che evidentemente non gli permisero di calcolare gli altri, mentre Lily alzava lo sguardo per constatare le presenze nell’area riservata ai famigliari, ma appena intercettò James sgranò gli occhi per un buon minuto, rilassandosi poi dopo aver emesso un lungo sospiro: « Giuro, per un momento ho pensato fossi papà! »
Scoppiarono tutti a ridere, tranne Rose che indicò la scotola sul tavolino con fare sospettoso. « Cos’è? »
« Una scatola. »
« Cosa contiene, allora? » sbuffò la Weasley.
« Galeoni. »
« Avete ricominciato con le scommesse?! » Le puntò il dito, minacciosa.
« A dir la verità  non abbiamo mai smesso. »
« Dammela! Subito! »
« No. »
« Dico sul serio! »
« L’importante è crederci, Rose. »
« Mi stai prendendo in giro? »
« Sì.»
« Rosie, siamo a una festa, non puoi lasciar stare i tuoi doveri da Prefetto per una notte? » s’intromise con garbo Scorpius.
« No che non posso...! »
« Oh, Malfoy! » la interruppe Hugo, (accorgendosi finalmente della presenza umana altrui nell’area) guardando Scorpius. « Vedi di non essere sterile, ho scommesso trenta Galeoni sul tuo primo figlio… »
« Co-? Che co-? Aspett- Cosa? »
« Sì, Forge dice che sarà biondo alla Malfoy » enunciò indicando Lily. « Io dico che avrà i capelli rossi di Rose, James dice che avrà i capelli di mamma, Roxanne invece pensa che ne adotterete uno dal Senegal… ma Louis ha detto che se alla fine si scoprirà che sei sterile… insomma, vedi di non esserlo! »
Mentre James ed Evelyn si contorcevano dalle risate, Dominique si tratteneva e Rose reprimeva la voglia di seppellirsi, Scorpius si portò una mano alla fronte con fare esasperato e divertito insieme, poi siccome Hugo parve aspettare una conferma, gliela diede, più che altro per accontentarlo.
« Grazie, cognato, prometto che ti salverò dai Cruciatus di papà, almeno per la prima settimana… Poi dovrai arrangiarti. » Si risedette sul divanetto affianco a Lily e rimettendo i piedi sopra il tavolino.
Quest’ultima si aprì in un sorriso cordiale. « Qualcun’altro vuole scommettere? Non finanzio nessuno, lo dico subito. »
« Io! » intervenne la Black, illuminando gli occhi di Lily. « Vediamo… le hanno dette tutte, ma io dico che potrebbe avere i capelli neri di mamma » scommise riferendosi ad Astoria Malfoy.
« D’accordo, firma qui » le disse la Potter, porgendole un foglio tirato fuori improvvisamente, da chissà dove. « Dal momento in cui completerai la tua firma su questo foglio, non potrai più ritirarti, domani in ogni caso, ovunque tu sia e in qualunque stato di salute o dipendenza, verrò a ritirare trenta Galeoni. Sappi che se falsificherai la firma saprò che sei stata tu » concluse in tono pacifico.
« Dovremmo aprire anche le scommesse anche sul colore di occhi, che dici, Forge? » propose Hugo ad alta voce, ma sicuramente riferendosi a Lily. « E sul sesso anche, secondo me sarà una femmina. »
« Oh, sì, facciamo venti galeoni per il colore di occhi, Gred… e dieci per il sesso, sì, anche secondo me una femmina, chi scommette? »
Scorpius li guardava sempre più esasperato scuotendo il capo.
« Anche io dico femmina. » intervenne Roxanne, scostando la tenda per poi buttarsi sul divanetto affianco ad Evelyn.
« Sì, ma se scommettiamo tutti in modo uguale, non ha senso… » ragionò Hugo.
« Io invece dico che sarà un ermafrodita- » cominciò James.
« Ora basta! » esplose Rose, alzandosi. « Per le più consunte mutande di Merlino, io e Scorpius non stiamo insieme! Tra noi non c’è niente! Nulla, miseriaccia! Quindi smettetela! Tutti quanti! » Li guardò con durezza, poi, senza dare loro il tempo di replicare, uscì dalla tenda.
« Secondo me avrà gli occhi di Rose, comunque, sempre se non l’adotteranno dal Senegal, ovviamente… » riprese tranquillamente Roxanne, mentre Scorpius usciva dalla tenda per inseguire Rose.

« Rose! Rose, aspetta, dai! » la chiamò ad alta voce cercando di farsi sentire tra la musica. « Rose! »
Vide la sua chioma rossa, insolitamente disciplinata, farsi largo tra una folla poco più avanti vicino al Buffet.
La maggior parte delle persone attorno a lui portavano una maschera sul volto, parte del costume, come richiedeva la festa.
« Rose! »
Giunse prossimo al Buffet, dove un attimo prima l’aveva intravista, ma di lei non c’era traccia. Si guardò attorno con fare circospetto, finché non scorse la sua figura farsi largo nella pista da ballo e si diresse nell’esatto punto in cui la vide sparire.
Si guardò attorno, certo che la bassa statura della ragazza lo avrebbe aiutato a ritrovarla e ringraziando Salazar la trovò poco più in là che lentamente cercava, come lui, di farsi strada.
« Rose! » La musica era talmente alta che non riuscì nemmeno lui a sentire la sua voce, così le andò incontro e prima che potesse riconoscerlo, la prese per un braccio, bloccandola.
Lei si voltò di scatto, ma quando lo vide non si allontanò o scappò come si aspettava lui, no. Gli si avvicinò e lo abbracciò tirando su con il naso.
Lui si avvicinò al suo orecchiò e le chiese se stesse bene, sentendola poi annuirgli sul petto. Si riavvicinò nuovamente. « Ti va di ballare? » La musica era così forte e possente che non ci poteva sottrarre.
Rose si allontanò dal suo petto guardandolo con occhi lucidi e annuendo con un debole sorriso. Così, senza darle altro tempo, abbassò le mani e la prese dai fianchi, guardando i suoi occhi dilatarsi dalla sorpresa, ma sentendo poi le sue braccia circondargli il collo in un imbarazzato gesto di assenso e ritrovando il suo viso alla stessa altezza del proprio.
« Mi dispiace. » Lesse le sue labbra emettere: « Non ce l’ho con te… Non proprio, ecco. »
Lui la guardò con un sopracciglio inarcato e sbuffò poi una risata. Era incredibile quanto fosse intelligente finché si trattava di Aritmanzia o Trasfigurazione o una qualunque altra materia scolastica, e totalmente ignorante sul campo sentimentale.
« E con chi ce l’hai? » le chiese, mentre cercava di seguire la musica.
« Non so, cioè forse con… D’accordo, ce l’ho con te » ammise infine.
« E perché? » Lei non se ne stava accorgendo, ma Scorpius oltre a condurre la danza, stava conducendo astutamente anche la conversazione.
« Perché… sì. Continui ad assecondare gli altri! Insomma, pensano che stiamo insieme! E noi non stiamo insieme! » lo accusò lei.
« Quindi è questo il problema? » Sorrise lui. « Il fatto che non stiamo assieme veramente? »
« Cosa? No! Cosa vai a pensare? Guarda che… Che io non… » Anche alla debole luce verde che si alternava a quella vigorosa blu, e guance infuocate di Rose ebbero la meglio. Sentendosi quasi in trappola, la ragazza cercò di allontanarsi, ma lui continuando a sorridere vittorioso la tenne con fermezza.
« No, perché se è così, possiamo rimediare subito. »
Rose lo guardò un attimo disorientata, poi senza lasciarle il tempo di emettere anche un solo monosillabo, le si avvicinò e la baciò, ritraendosi, però, subito dopo e guardandola negli occhi.
Immaginare di baciarla con era nemmeno lontanamente bello quanto farlo veramente. Preso dal desiderio, fece per riavvicinarsi, ma lei fu più veloce. Gli si avvinghiò letteralmente attorno, approfondendo il delicato bacio che le aveva lasciato e lasciandolo senza fiato.
Solo quando sentì che stava per decedere di asfissia, lei gli permise di riprendere fiato.
« Oh, Salazar… »
Ma neanche il tempo di inspirare qualche molecola di ossigeno che lei gli era nuovamente addosso, portandolo a perdere l’equilibrio e a sbattere contro due Tassorosso che ballavano dietro a loro.
S’interruppe poi improvvisamente, salvando dalla perenne disoccupazione i suoi globuli rossi, e Scorpius la sentì dirgli tra la musica, le urla e il martellare ancor più rimbombante che percepiva a livello del petto, che avrebbe fatto di tutto purché loro figlia non ereditasse i suoi capelli, stava ancora cercando di assimilare le sue parole che Rose gli mozzò nuovamente il fiato, imbucandogli la lingua in bocca e stringendolo forte.
La musica si faceva sempre più movimentata.




 
*


Louis Weasley era posizionato nella collocazione deejay e con una mano sullo step reversore e l’altra sul bilanciamento del volume, sostituiva il cugino. Fred era, appunto, sparito da circa una mezz’oretta senza lasciare precisi riferimenti su dove stesse andando, ma con un esplicito suggerimento riguardo a cosa stesse andando a fare. Infatti, comparve qualche minuto dopo, con la cerniera dei jeans completamente aperta e maglia larga messa al contrario.
Louis sbuffò, lanciandogli un'occhiataccia.
« Cos'è quello sguardo, Lou? Non sarai geloso? » fece Fred con un occhiolino.
L'altro continuò a guadarlo male. « Ti preferisco quando ti mandi avanti di riviste porno, sai? »
Fred gli prese la testa tra le braccia e prese ad arruffargli a capelli. « Se sai delle mie riviste porno è perché le guardi anche tu! »
Louis gli rifilò un pugno ben assestato nello stomaco, ridendo e facendolo ridere a sua volta.
Continuarono a prendersi a pugni, gomitate, calci e testate, per i successivi dieci minuti, finché Louis non fermò il cugino all’improvviso. « A proposito! È venuta a cercati una persona. »
Fred si fermò nell’atto di mordergli il braccio « Chi? »
« Non so, non ha voluto dire chi era… una ragazzina, comunque, quarto o quinto anno, credo. Sembrava urgente, ma alla fine se n’è andata, credo a cercarti- » S’interruppe all’improvviso, accorgendosi finalmente di quanto la sala si fosse fatta tutt’un tratto silenziosa e battendosi una mano sulla fronte per la sua stoltezza e quella del cugino.  La musica si era fermata, perché nessuno dei due, impegnato nel lasciare amorevoli lividi all’altro, si era preso la briga di mandare avanti le tracce, e ora tutti avevano lo sguardo rivolto verso la posizione deejay, che però grazie a Merlino e alle luci affumicate, era completamente all’ombra.
Fred, dopo aver smesso ridere con il cugino per la loro sbadataggine, prese la bacchetta e se puntò sul viso, mimando un « Lumos! ». Quella illuminò il suo volto, portando tutti gli studenti travestiti e mascherati, che si trovavano nella pista da ballo, a focalizzare il suo volto, che contrastava nitido l’ombra. Fred sorrise sulla luce della bacchetta, quello che chiunque avrebbe definito un sorriso inquietante e prima che la musica potesse riprendere più alta e rimbombante che mai, dietro acclamazione della folla, il suo urlo animalesco tuonò selvaggiamente: « SPACCATE TUTTOOO! »



 
*

 
27 Aprile 2017
 
Sì, lo so, dovrei essere a letto, visto che sono le tre e mezzo di notte, ma non voglio tornare a dormire, non voglio rifare lo stesso sogno.
Probabilmente ti starai chiedendo cosa sto blaterando, ma credo di aver cominciato a perdere il controllo della situazione e la cosa è peggiorata, quindi, ho deciso che era meglio fare come aveva detto Dom, raccogliere i pensieri e scriverli.
Credo che sia iniziata circa tre o quattro giorni fa, a pranzo, quando nonna Molly stava obbligando Rosie a finire la sua zuppa di cipolle e James e Fred ne chiedevano un’altra porzione.
Vicky dice sempre che sono distratto, che la mia mente vaga troppo e che a volte mi perdo in contorsioni e pensieri complicati, le ho sempre risposto con una pernacchia, ma durante il pranzo, successe. Non so come, ma mi estromisi dalla conversazione nella quale Albus annunciava fiero che sarebbe diventato un Auror come zio Harry e in cui zia Ginny e nonna Molly lo applaudirono fiere e gli garantirono una doppia fetta di torta, e mi persi nelle mie riflessioni.
Grazie a Merlino sei un diario e non puoi prendermi in giro, perché so che se lo dicessi a Jamie o a Freddie, loro mi scoppierebbero a ridere in faccia, se ne parlassi con mamma, credo che mi manderebbe al San Mungo senza pensarci due volte, Rosie, non so, forse lei coglierebbe la parte razionale della cosa e mi darebbe ragione, ma per farla breve, alla fine non ne ho parlato con nessuno. Mi sentivo, mi sento, un’idiota.
Dove eravamo? Ah, sì, il pranzo!
Successe così velocemente che nemmeno ora saprei spiegarti come ci arrivai. Gustavo l’ennesima cucchiaiata di zuppa di cipolla, quando d’un tratto mi venne l’orribile pensiero che mentre io mangiavo, mentre Roxie metteva delle melanzane sopra a sedia di zio Percy, prima che lui si sedesse, mentre nonna Molly riservava ad Al le sue due fette di torta al cioccolato, da qualche parte nel mondo, un altro bambino, magari della mia stessa età, stava morendo di fame, magari aveva anche una sorella e anche lei stava morendo di fame.
È una sensazione orribile… Non puoi immaginare quanto.
Con una scusa, decisamente poco credibile, mi alzai da tavola e me ne andai subito nella casa sull’albero, dalla quale non uscii tutto il giorno.
Stavo pensando a come salvare quel bambino e sua sorella… forse avrei potuto chiedere a papà di salvarli, è bravissimo a fare magie con la sua bacchetta, ma… perché i grandi non fanno nulla? Loro ce l’hanno la bacchetta, perché non fanno una magia grande-grande e salvano il bambino e sua sorella? Tra qualche mese anche io avrò una bacchetta, sai? Una tutta mia, prima di andare a Hogwarts, la più grande scuola di magia e stregoneria, e allora studierò tanto, diventerò un mago forte e bravo, come papà, ma non sprecherò i miei incantesimi al Ministero della Magia, andrò dal bambino e con un incantesimo fortissimo salverò lui e la sua sorellina.
Quella fu la prima notte che lo sognai, il bambino intendo. Nel mio sogno aveva la pelle scura, molto scura, ma non riuscivo mai a distinguere il suo viso… c’era lui e c’ero anche io, eravamo vicini ad un pozzo e lui stava prendendo l’acqua, nonostante fosse troppo pesante. Gli chiesi se voleva giocare con me e lui mi sorrise, quando lo fece, quando sorrise, giusto un attimo somigliò a Fred e forse è per questo che mi sono affezionato a lui tanto velocemente. Da lontano qualcuno gridò quello che il sogno mi fece intendere era il suo nome (Adam, credo) e lui subito sollevò l’enorme secchio d’acqua e mi disse che non poteva giocare, che doveva portare l’acqua a sua madre, perché stava male. Parlava una lingua strana, diversa dalla mia, ma io riuscivo a comprenderlo lo stesso. Se ne andò con passo veloce, con quel gigante secchio d’acqua che lo sbilanciava e lo faceva inciampare. L’ultima cosa che sentii prima che nonna Molly mi svegliasse, fu una sensazione, mentre lo guardavo andare, l’orribile sensazione di non poterlo aiutare a trasportare quel secchio d’acqua.
Quella mattina, la nonna svegliò presto tutti, perché il Ministro della Magia sarebbe venuto a trovarci per discutere insieme ai grandi sulla ‘Festa della Vittoria’ che si sarebbe tenuta circa una settimana dopo, il due Maggio. Ogni anno, mamma, papà e gli zii aprono la festa ed erano gli ospiti d’onore, ma loro odiano quella festa, sentivo sempre zio George dire che per lui non c’era nessuna vittoria da festeggiare, solo sconfitte e infatti è l’unico che non partecipa mai.
Spendevano così tanti galeoni per organizzare una festa così grande per tutta la comunità magica… perché invece di sprecare tutto quell’oro, il Ministro della Magia non aiutava il mio amico a trasportare l’acqua? Perché non portava sua madre al San Mungo dai Guaritori? Perché non dava un po’ di quei dolci che servivano al banchetto alla sorella del mio amico? Insomma, lui è il Ministro della Magia! Il più forte di tutti! Quello che comanda! Non deve sprecare i soldi per le feste! Voglio dire, dove questo potere dell’amore di cui i grandi parlano tanto? Più cerco più vedo solo amore per il potere.
Lo sognai di nuovo. Questa volta non era solo, c’era anche sua sorella. Era piccola, e davvero tanto magra. Erano infondo ad una stanza buia e tremavano, per il freddo credo. Li sentivo piangere, la bambina piangeva molto forte, ma non capivo perché… mi avvicinai loro e chiesi se potevo aiutarli, ma il mio amico continuava a scuotere la testa e piangere assieme alla sorella, abbracciati. Mi guardai intorno. La loro mamma non c’era più.
Il giorno seguente Dom venne da me e mi chiese che cos’avessi, disse che le sembravo un po’ giù. Sai, credo che lei riesca a capirmi più di chiunque altro, credo che mi conosca meglio di quanto io conosca me stesso e forse è per questo che mi ha regalato questo diario, due settimane fa. D’altronde se non mi sfogassi qui, credo che passerei i pomeriggi in giardino a prendere a calci gli gnomi. A Dom, comunque, dissi che avevo solo un po’ di mal di pancia. Non mi ha creduto, naturalmente, ha finto di farlo e se n’è andata lasciandomi solo.
Nel sogno seguente che ho fatto, il mio amico era ancora una volta con sua sorella. Lei gli dormiva in braccio, ma era molto pallida e i suoi occhi guardavano nostalgici il fratello. Lui le accarezzava i capelli e canticchiava una canzoncina. Mi sedetti vicino a loro e cominciai a canticchiare anche io assieme a lui. Non smettemmo nemmeno quando la bambina tra le sue braccia chiuse definitivamente gli occhi. Anche ora, quel canto non smette di risuonarmi nelle orecchie.
Mamma, sin da piccolo, diceva a me, Vicky e Dom che al mondo siamo tutti uguali, che non importa da dove veniamo, chi siamo, chi sono i nostri genitori e se sono un mago e una strega o babbani, perché siamo tutti fratelli. Ma se siamo tutti fratelli, chi è nostra madre? Perché non ci vuole bene in modo uguale?
Credo che il sogno di questa notte sia stato l’ultimo. Sono tornato nello stesso posto, ma il mio amico non c’era. Non c’era più nessuno, il capannone freddo e logorato dalla muffa era vuoto. Il mio amico Adam non c’era più. So che ti sembrerà strano, ma voglio dedicargli questo diario. È stupido, lo so, ma sento che è l’unica cosa che posso fare. Voglio scrivere su queste pagine come se scrivessi a lui, l’amico che non ho mai conosciuto. Il fratello che non ho mai avuto.
Aspetta, sento dei passi nel corridoio… Credo che siano James e Fred che salgono in soffitta dal demone… no, era Teddy. Penso che stia tornando dalla camera di Vicky, prima che gli altri si sveglino… solo che non è proprio silenzioso, il nonno è un po’ sordo, ma gli altri? Come diavolo fanno a non accorgersene? A volte gli adulti sono così sordi. Non vedono e non sentono molte cose, sai… ma non farlo rovina i loro sensi.
Forse è meglio che vada a dormire anche io. Credo che andrò da Dom, non voglio dormire da solo.
Buonanotte, Adam, ovunque tu sia.
 
“« C’è gente al mondo che muore di fame… » se ne venne fuori Adam affianco a lei, ancora mezzo immerso nella lettura « Questa è una brutta cosa. »”








 

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Capitolo 4
*** IV. La festa di Halloween (parte II) ***


 



 

IV.
La festa di Halloween
II parte

 
"Di solito io risolvo i miei problemi lasciando che mi divorino."
Franz Kafka

« S-scus-sa… »
Era la quinta volta che finiva a dosso a qualcuno, la quinta volta che si scusava e ancora la quinta che la persona contro cui finiva non udiva le sue scuse tra la musica, scrollava le spalle e non la calcolava. 
La musica le rimbombava nelle orecchie stordendola e corroborando sempre più acutamente il mal di testa. Le palpebre le si abbassavano da sole, alternando una visione ombrosa ad un’altra rischiarata da un gioco verde-blu di luci che l’accecava, ma era certa che se avesse chiuso definitivamente gli occhi, quello che avrebbe visto, le avrebbe afflitto molto più dolore.
Barcollò dall’angolo buffet fino all’area delle tende trasparenti, rischiando di cadere più e più volte, fino a quando non si tolse i tacchi sproporzionatamente alti, buttandoli per terra, incapace di reggerli quanto di reggersi in piedi. Non erano quei tacchi, però, che continuavano a sbilanciarla, erano le sue gambe, che tremavano in modo incoercibile, per non parlare del tormentoso dolore in mezzo alle gambe che l’affliggeva ad ogni movimento, più tagliente ed acuto di prima.
Portò una mano sulla fonte del dolore, ritraendola sporca di sangue.
Cercò di camminare il più veloce possibile, ma non ne fu capace ed era certa che non sarebbe riuscita a reggere ancora per molto.
Si tolse la maschera, tigrata come il vestito, dal viso, sentendo la fronte sudata e calda e accorgendosi di avere gli occhi bagnati.
Intravide la tenda a cui era diretta e nonostante fosse a solo qualche metro di distanza, la vide irraggiungibile. Mise tuttavia, con tutte le sue forze, un piede dopo l’altro, ansimando, ma quando giunse in prossimità della tenda, il tremore incontrollabile delle gambe la destabilizzò e cadde in ginocchio, gemendo per il dolore.
Le lacrime continuavano ad appannarle la vista e i suoi singhiozzi continuavano ad alternarsi al forte rimbombo della musica, mentre qualcosa di caldo non smetteva di colarle in mezzo alle gambe.
Non trovò la forza di chiamare aiuto, di urlare. Pianse solo.
Pianse per il dolore violento in mezzo alle gambe, per quello acuto alle tempie, per il dolore ancor più forte della sua dignità calpestata, dei suoi sensi di colpa che bruciavano e delle sua innocenza assassinata. 
« Oh mio Dio! Oh… Amelia! Oh Dio, Amelia cos’hai fatto? Am- Amelia? Mi senti? »
« Den-ise? »
« Amelia! Stai sanguinando! O-oh mio Dio! Aiuto! Qualcuno mi aiuti! Aiut…! »
« Che diavolo succede? » Una voce maschile dura.
« Io… non- La mia amica, sta male, aiutatela, vi prego! »
« Cosa le avete dato? »
« No! Lei… sta male! Aiutala, ti prego! »
« Ha ragione, James. » Sentì una voce femminile dolce avvicinarsi, poi un tocco delicato. « La ragazza sta sanguinando. »
Il suo udito si offuscò, dopo una fitta più forte delle precedenti e non udì più nulla. Sentì solo due braccia robuste sollevarla e nello stesso istante cadde nel vuoto.



 
*


« Direi che le scommesse sulla partita tra Grifondoro e Serpeverde, le possiamo aprire già domani, o no, Gred? »
« Pff! » sbuffò in direzione della cugina. « Tanto vinciamo noi. »
Quella gli batte il cinque con fare complice, per richiuderlo poi in un pugno di rispetto.
Nell’area riservata alla famiglia erano rimasti solo loro due e Roxanne ed Evelyn, che ballavano scalze sopra il tavolo, senza preoccuparsi di mantenere un minimo di contegno o portamento.
« Ho promesso ad Hagrid che domani gli avremmo dato una mano con il nuovo Ippogrifo arrivato…  »
« Oh, sì, zio George ha chiesto altre piume d’Ippogrifo per l’ordine settantuno. Se va tutto bene, per Natale si potrà metterlo in commerc- » Lily si bloccò all’entrata di un ragazzo che, era certa, non faceva parte della famiglia. Lo guardò truce sbottando un « E tu chi diavolo sei? »
« Damon, Damon Harper » fece il ragazzo con noncuranza « Cerco… »
« Harper? Battitore Serpeverde? » s’intromise Hugo, controllando una lista che aveva davanti, come a voler trovarci il nome del ragazzo.
« Precisamente. Sapreste dirmi dov’è…? »
« Hay, sei quello che mi ha dotto il braccio destro l’anno scorso con il bolide durante l’ultima partita? » domandò Lily ricordandosi del Serpeverde.
« Ehm… »
« Sì, sì, è lui! » concordò Hugo.
« Beh, può darsi. » Damon guardò Lily a disagio « Sai, è il mio ruolo… »
Quella scrollò le spalle « Non importa. Ho preso una Gelatina Febbre-non-stop, Madama Chips se l’è bevuta e sono stata in infermeria per tutta l’ultima settimana di maggio saltando gli esami. Alla fine mi hai fatto un favore. »
« … ah… »
« Chi è che cercavi? » fece Hugo sbadigliando.
« La Weasley. »
« … »
« La Weasley nera. »
« Intendi Roxanne? » gli chiese Lily, con le sopracciglia offuscate.
« Sì, lei! Sai dov’è? » 
« Tipo… dietro di te? »
Damon si voltò incerto, focalizzando la ragazza a poca distanza che ballava sopra il tavolo di vetro persiano. « Oh, beh, grazie. » Si allontanò il più in fretta possibile dai due ragazzi, che avevano già ripreso a parlare come se non fossero mai stati interrotti e si avvicinò a Roxanne.
« Che la Weasley non avesse un minimo di contegno, lo sapevamo, ma Black, se Scorpius ti vedesse ballare così, credo gli verrebbe un infarto. »
Evelyn trasalì, voltandosi di scatto e scendendo poi imbarazzata dal tavolo, mentre Roxanne la imitava.
« Harper » constatò Roxanne, anch’ella imbarazzata, guardandolo.
« Weasley » sottolineò lui. « Devo parlarti, si può? »
« Immagino di sì… Dimmi. »
Gettò un’occhiata discreta a Lily e Hugo dietro loro che parlavano di come la prima avrebbe distratto Hagrid, mentre l’altro strappava qualche piuma ad un certo Ippogrifo, tranquillamente ad alta voce. « Non qui. Fuori », e le indicò la soglia della tenda.
Roxanne annuì, dicendo ad Evelyn di aspettarla e seguendo il ragazzo fuori dalla tenda. 
Damon la condusse esperto e pratico, essendo stato lui ad organizzare l’area relax, in un’altra delle tende privilegiate, una particolarmente spaziosa, riservata al Serpeverde e i suoi amici.
Nella sunnominata tenda, sedevano comodamente agiati Albus, Adam e Derek Nott. Mentre Adam e Derek occupavano il divanetto egiziano di fronte all’entrata, Albus, impegnato in una conversazione equilibrata con loro, sedeva con eleganza e preminenza occupando una poltrona tutta per sé.
All’entrata della cugina sollevò un sopracciglio considerante, trasformandolo poi in un saluto; Adam le riservò l’abituale sorriso e Derek concretizzò un rispettoso ed educato cenno del capo.
Damon le indicò l’altro divanetto libero e si sedette anch’egli.
« Beh? » fece Roxanne, impaziente.
Il Serpeverde si voltò a guardarla con un sorriso soppesato e dilettato, poi alzò lentamente il braccio destro, porgendole la mano.
La Grifondoro alternò brusca e diffidente lo sguardo dai suoi occhi alla mano tesa.
Damon scrollò le spalle. « Il nostro lavoro è finito » appianò con fare esplicativo. « E dopotutto, sì, stato un piacere lavorare con te, Weasley. »
Lei si aprì in un sorriso nervoso. « Cos’è, un addio? »
Lui scrollò le spalle nuovamente. « Il nostro lavoro è finito » ripeté interpretativo. Fece, poi, per ritirare la sua mano con uno sbuffo seccato, quando la Grifondoro gliela prese.
« Sì, nonostante tutto è stato un piacer. » azzardò lei, sorridendo incerta.
« Sei fredda. » si lasciò scappare Damon guardandola con fare controverso, come a chiederne spiegazione.
« No, tu sei caldo. » 
Lui inarcò un sopracciglio scoppiando a ridere, fece poi per dirle qualcosa quando fu interrotto dall’entrata di una ragazza. 
All’inizio la luce non permise a Roxanne di riconoscerla, in lei distinse solo l’altezza del fisico e il confidente travestimento; dopo che la ragazza l’ebbe salutata, però, si rese conto che non era altri che Penelope, la sua compagna di dormitorio.
Penelope osservò con palesamento la sua mano intrecciata a quella di Damon, portando successivamente Roxanne a sciogliere velocemente il contatto tra le loro mani, ma invece di soffermarsi su tale dettaglio, quella si rivolse al Potter, che insieme ad Adam e Derek osservava divertito Roxanne e Damon.
« Al, posso parlarti un momento? » chiese con voce che alludeva un’ulteriore opzione al parlare.
Albus nascose abilmente un ghigno e la seguì dopo un occhiolino a mo’ di saluto agli altri.
Damon, dopo che furono usciti, sbuffò scimmiottando la voce di Penelope « ‘Al, posso parlarti un momento?’, Pff, p-a-r-l-a-r-e, certo… »
Roxanne scoppiò a ridere senza riuscire a trattenersi quando il Serpeverde simulò la voce della sua compagna di stanza e si alzò, come a voler andarsene. « Se non c’è altro… Io andrei anche… »
« A dir la verità, c’è dell’altro. » Damon le indicò nuovamente il divanetto.
Lei si risedette lanciandogli discretamente un’occhiata interrogativa.
« Beh, sei in debito come me » spiegò asciutto, senza sprecarsi convenevoli giri di parole.
« Oh, sì! » ricordò Roxanne e nonostante tutto il buon animo che la ragazza parve metterci a Damon non sfuggì il tono leggermente incrinato dalla delusione. « Ho messo da parte qualche soldo… non immagini quante scommesse ho dovuto fare… » infilò una mano all’interno del top, dentro quello che doveva con molta probabilità essere un reggiseno e, dopo un dimenarsi contorto di tentativi in cui Adam nascondeva senza successo le risate dietro al giornale di Derek e Damon la fissava con le sopracciglia aggrottate, ne trasse una manciata di Galeoni e qualche Falce che riversò nel divanetto.
« Sono… »
« Ventidue Galeoni, nove Falci e uno Zelino » precisò lei soddisfatta. « Non hai idea di quello che ho dovuto patire per guadagnarli… aspetta c’è un altro Zelino qui da qualche parte… » fece sprofondare le mani all’interno dell’indumento ritraendo in fine, con urlo vittorioso, la moneta. « Ora che ci penso potrei campare di scommesse… anche se baciare Hugo è stato traumatizzante, però ne è valsa la pena, Lily non credeva che l’avrei fatto, ma alla fine ha sborsato quattro Galeoni, non uno in meno… poi ho dovuto baciare lei in cambio di altri quattro Galeoni da Hugo… »
Qui le risate di Adam si arrestarono bruscamente lasciando spazio ad un’espressione vacuamente perplessa assieme a Derek, mentre Damon fermava le spiegazioni incongrue di Roxanne con fare esitante. « Quelli sono soldi? »
« Da cosa l’hai capito? » sbottò sarcastica lei, estremamente infastidita per essere stata interrotta, era chiaro che volesse dare qualche altro dettaglio di come aveva fatto a racimolare il denaro. « Te ne darò altri, giuro! Ho scommesso con Lorcan due Galeoni, anche se di baciare James non ho alcuna voglia, ma me li darà presto e te li farò avere immediatamente. Sono di parola! » Portò un mano al petto, alzando l’altra con fare serio (il che la faceva sembrare decisamente buffa agli occhi del Serpeverde).
« Guarda che io non voglio soldi! » asserì Damon come se anche solo l’idea fosse improponibile.
Roxanne lo guardò vacua. « Come sarebb…?! »
« Secondo te ho passato un mese d’insonnia a preparare questa festa per soldi? » chiese sottolineando l’assurdità della cosa con un calco obliquo della voce.
« Sì? » provò Roxanne con un sorrisetto nervoso.
« No! » sbottò brusco lui. « Ma ti pare? »
« Scusa e che vorresti, allora? » sussurrò a denti stretti Roxanne. Ora che ci pensava, era logico che non volesse soldi, per i preparativi della festa aveva ne sborsato una quantità improponibile.
« Servizio. »
« Che? »
Damon sbuffò, « Io vi ho aiutati con i preparativi per un mese, precisamente trent’un giorni. Tu mi renderai servizio per altrettanti trent’un giorni. Tutto qui. »
Diversamente da come il ragazzo si aspettava, Roxanne si aprì in un sorriso festosamente gioioso. « Dici sul serio? Quindi… i soldi sono miei! » Era così felice che pareva si sarebbe messa a saltare da un momento all’altro. « Me li posso tenere! Sono ricca! »
Adam riprese a ridere, incapace di trattenersi, mentre Damon la guardava con precauzione .« Ehm… già… come dicevo, saranno trent’un giorni di servizio e partono da domani. Farai tutto quello che ti dico senza esitazioni, ripensamenti o rifiuto… »
« Sì-sì » lo dileguò Roxanne con un gesto noncurante della mano e raccogliendo i soldi con fare possessivo. « L’importante è che mi tengo i soldi! Se non c’è altro, io me ne vado… » Non aspettò conferma, semplicemente si alzò in un balzo e se ne andò quasi saltellando in preda alla gioia e canticchiando qualcosa riguardo al suo cambio di rango sociale che si confuse tra la musica.
« Voglio vedere la sua faccia domani quando si renderà conto di quello che ha fatto » dichiarò Adam tra una risata e l’altra, mentre Derek riprendeva a leggere il giornale e Damon nascondeva un ghigno soddisfatto dietro un bicchiere argentato di Whiskey Incendiario. 



 
*


« Avanti! Lo so che lo vuoi! »
« No, veramente non lo voglio… »
« Solo dodici Galeoni! È un’offerta introvabile! »
« Hugo, non lo voglio… »
« Undici Galeoni e nove Falci ed è tutto tuo! »
« Non voglio un filtro d’amore, Hugo! » sbottò Evelyn, cominciando a perdere la pazienza.
« Guarda che non dico niente a nessuno, due Galeoni in più e tengo la bocca chiusa fino alla tomba! Diglielo, Forge! Altri due Galeoni e tiene la bocca chiusa anche lei! » Indicò Lily, che annuì energicamente sventolandole la bottiglietta di Amortentia davanti agli occhi con fare invitante.
La Black stava per cacciare un urlo furibondo, al limite della sopportazione, ma l’arrivo di Rose e Scorpius (o meglio, di Rose che si trascinava dietro Scorpius), riuscì ad evitarglielo, visto che i due Weasley misero via le bottigliette, tornando in un batter d’occhio al loro posto e assumendo un’espressione la cui naturalezza avrebbe dovuto essere premiata con almeno tre Oscar.
Mentre Scorpius si buttava sul divanetto, affianco alla sorella, Rose squadrò con sospetto l’espressione fin troppo serena del fratello e della cugina, che ressero lo sguardo con sfida, poi resasi conto di non avere valide prove per spedirli ad Azkaban, si avvicinò di corsa alla migliore amica aprendosi un sorriso talmente tanto raggiante da fare da torcia tra i deboli alternamenti di luci verdi-blu della festa. « Indovina? » 
Evelyn alternò lo sguardo dal sorriso al settimo cielo di Rose allo scuotere del capo esasperato di Scorpius affianco lei. « Vi sposate? » chiese con voce il cui entusiasmo avrebbe potuto intonarsi perfettamente a quella meteorologo babbano della radio di nonno Arthur.
« No! » arrossì. « Ecco… ci siamo messi insieme! » 
« Scusa, non stavate già insieme? » intervenne Lily beccandosi un’occhiata fulminante dalla cugina.
« Per Merlino, no! Ma perché pensate il contrario? »
« Veramente tutta Hogwarts è convinta che stiate insieme da circa un mese » precisò la Potter.
« Non è possibile! » Rose era sgomenta.
« Se non ci credi, ti posso mostrare le scommesse di Lysander e Frank » intervenne Hugo, tirando improvvisamente fuori un fascicolo e sfogliando pergamene il cui ordine calligrafico e sintattico avrebbe potuto far arrossire i suoi compiti. « Guarda! » le porse una pergamena « Qua ci sono anche quelle di Melanie Stewart e la sua amica nana, com’è che si chiama, Forge? »
« Boh, credo inizi con la ‘D’ o la ‘Z’, non so, ci dovrebbe essere scritto… » si bloccò dopo aver intercettato gli occhi omicidi di Rose. « Oh-oh »
« Adesso voi alzate quelle chiappe e filate subito a restituire il denaro ad ognuna di quelle persone! Ora! »
Hugo e Lily la guardarono seri per almeno un minuto, poi, senza riuscire a trattenersi le scoppiarono a ridere sguaiatamente in faccia, tanto che Lily dovette reggersi al cugino per non cadere dal divanetto in preda ad incontrollabili scatti di risate.
« Perché ridete? » urlò furibonda. « Non c’è niente da rider...! » 
Grazie a Merlino, Morgana, Circe e tutto il Wizengamot, Scorpius intervenne prendendola di peso, allontanandola dai ragazzi con le lacrime agli occhi dal riso e gettando uno sguardo ammonitore alla sorella per invitarla a nascondere più astutamente le risate che faticava a trattenere.
Rose gli si sedette braccio gettando un’occhiata truce a Evelyn, la quale evidentemente non aveva nascosto con tanta furbizia le sue risa, e tirando fuori improvvisamente un mantello, glielo scaraventò a dosso con tutta la forza che aveva.
« Hey! » si lamentò Evelyn « Questo è…? »
« Il mantello dell’invisibilità di Albus » confermò Rose, che ancora la guardava imbronciata.
« E io che dovrei farci? » 
« Restituirglielo. Quando gliel’ho chiesto, ho detto che serviva a te… » la informò Rose guardandosi le unghie.
« Cosa? E perché? » domandò la Black sconvolta.
« Affinché me lo prestasse. » Si aprì in un sorriso, che Evelyn avrebbe potuto giurarlo, era vendicativo. « È meglio se glielo riporti, sai… ci tiene particolarmente. »
Evelyn si alzò in piedi afferrando il mantello con rabbia e uscendo dalla tenda, borbottando riflessioni sul grado di amicizia che condivideva con la rossa e su qualche modifica da apportargli, mentre Scorpius riprendeva a giocherellare con i boccoli di Rose e quest’ultima cercava una scusa per buttare fuori dalla tenda anche Lily e Hugo.

Stava riflettendo sulla minuziosa influenza che suo fratello aveva su Rose quando, calpestando furiosamente il pavimento come a volerci sfogare tutta la frustrazione causatale dalla Gang Weasley-Potter, inciampò in una bottiglia di Rhum. Si rialzò, se possibile, ancor più adirata di prima, rendendosi conto che non aveva la minima idea di dove stesse andando, così, pentendosi di non aver portato con sé la bacchetta per schiantare i due primini che ridevano del suo incespicarsi adirato e sul successivo incolpamento dell’innocua bottiglia di Rhum sull’accaduto, cominciò a darsi un’occhiata intorno (e gettandone una da fare invidia ad un Basilisco verso i due primini).
Era ancora nell’area relax, a poca distanza dal buffet, ma il suo senso di orientamento era sempre stato quello che lei definiva ‘merdoso’ e certo nel buio e in un luogo tanto vasto non l’avrebbe aiutata più di quanto facesse solitamente. Aveva la forte ‘sfiga’ di dare sempre ascolto per principio più al suo intelletto che al suo istinto, si ritrovava quindi a riflettere e rimuginare su una semplice ‘cazzata’ fino a curarne i dettagli nel minimo prima di agire. Ogni minima decisione, azione, parola o gesto, dal più insolito all’abituale e quotidiano le richiedeva una minuziosa cura in ogni singolo dettaglio, ma nonostante l’attenzione con cui curava i particolari, alla fine, la mancanza d’istinto, finiva sempre per rovinarle ogni schema o previsione.
Così, Evelyn, avvertendo che stava perdendo il controllo delle sue azioni, prese un profondo respiro, chiuse gli occhi e ne prese un altro riaprendoli subito dopo, raccolse, poi, la bottiglia di Rhum spostandola accuratamente per evitare che qualcun altro vi inciampasse, prese un ulteriore profondo respiro e si addentrò nella parte più interna dell’area relax, dove si trovavano le tende privilegiate. 
« Penelope! Hey, Penelope! » Riconobbe a qualche distanza la sua compagna di dormitorio e la chiamò, cercando di farsi sentire tra la musica.
Quella si voltò e, dopo averla individuata, le si avvicinò sorridendo. « Evelyn! »
« Sai per caso dov’è Potter? » 
« Se intendi Albus, sì. È in una delle ultime tende, l’ultima a destra se non sbaglio. » Così dicendo le indicò con la mano la collocazione.
« Oh, grazie. » Strinse sottobraccio il mantello dell’invisibilità e si diresse verso la tenda indicatale.
« Evelyn? » Era circa a metà strada quando Penelope la richiamò, facendola girare.
« Sì? »
« Stai davvero bene. » Le sorrise l’altra.
« Grazie, anche tu stai bene. » 
Penelope ricambiò il sorriso facendole un occhiolino, poi si voltò e si diresse dalla parte opposta. Evelyn si guardò attentamente intorno, poi avvertendo un improvviso sgradevole farfallio a livello dello stomaco, si avvicinò alla tenda.
Attraverso il tessuto trasparente intravide il secondogenito Potter solo, cosa che aumentò il farfallio, seduto su una poltrona e intento a sistemarsi il coletto della camicia, di cui, successivamente chiuse le ultime asole.
Spostò leggermente la tenda tossicchiando. « È permesso? » chiese cortesemente.
Albus rialzò lo sguardo sorpreso, sorridendo poi in un modo che non le piacque per niente, una sottospecie di ghigno tra il colto all’improvviso e il vincente, un insieme incongruo che con il luccichio abile e sveglio degli occhi, la convinse ad aspettare che confermasse, prima di entrare.
« Black, quale piacevole sorpresa… »
Evelyn, a disagio, varcò la soglia, prendendo la sua considerazione come conferma e avvicinandosi alla sua poltrona, con passo tremante a causa delle ginocchia improvvisamente molli. Sentì che rischiò di cadere o inciampare un paio di volte, durante le quali il Potter non le tolse gli occhi di dosso ghignando fortemente e ringraziò Godric una volta giunta davanti a lui senza cadere.
« Ehm… i-l-l tuo m-man-tello… » tentennò porgendogli il mantello.
Parve che le sue indecisioni ed esitazioni, nonché il suo tremolio, aumentassero nel ragazzo una forte sicurezza. 
Lui rialzò la mano verso la sua, ma invece di prendere il mantello, le afferrò il braccio tirandolo tanto fortemente da sbilanciarla e farla cadere. Addosso a lui.
Lei dilatò gli occhi dalla sorpresa, comportando un ulteriore ghigno dal ragazzo, sul quale ormai sedeva sopra.
« Ops » proferì Albus con un’invidiabile faccia da schiaffi.
Evelyn parve agitarsi e per un ridicolo istante provò anche a rialzarsi, ma la scarsità con la quale ci provò rese, appunto, ridicolo il gesto. Albus, da parte sua, si sentì fortemente a disagio, giusto per un istante, nel quale non seppe dove mettere le mani, cosa estremamente insolita nel suo caso, perché era come se temesse di mancarle di rispetto, così, dandosi dell’idiota, si riprese subito e le mise innocentemente una mano sulla schiena, tra i capelli, con la quale impedendole di alzarsi, la avvicinò ancor di più a sé.
La Black, disorientata, rialzò lo sguardo su di lui come a cercare di capire, ma l’unica cosa che lui fece fu informarla maliziosamente di un dettaglio che senza dubbio non le era sfuggito: « Siamo soli. »
Lei deglutì, ma non si ritrasse, solo non smise di guardarlo, il che fece capire ad Albus di avere la situazione completamente tra le mani e che doveva stare attento a gestire la circostanza, perché gli parve ancor più delicata di quanto immaginasse.
La mano sulla sua schiena aumentò la pressione avvicinandola ulteriormente, mentre l’altra mano si limitava a posizionarsi poco sopra il ginocchio di lei e non osò azzardare altro, ma fu lei ad avvicinare il viso verso il suo, lo fece con una lentezza esasperante, quella che a lui parve un’eternità, ma proprio mentre le mani di Evelyn scivolavano dietro la sua nuca e lui non riusciva a distogliere lo sguardo avido dalle sue labbra, la vide irrigidirsi. Incerto, controllò le sue mani, ma appurò che erano lì dove le aveva lasciate, poi rialzò lo sguardo su di lei e lo vide puntato su un punto impreciso del suo collo.
Evelyn, con espressione incerta e vacua, portò una mano sul punto su cui aveva gli occhi puntati, ritraendola poi e guardandola con occhi sospesi. « Hai… » La sua voce era un sussurro. « Perché hai del rossetto sul collo? »
La mano di Albus si spostò veloce nell’esatto punto che gli aveva sfiorato lei provocandogli un brivido, ma la ritrasse anche lui purpurea. Evelyn era ancora ferma nello stesso gesto e pareva aspettasse una risposta, che magari smentisse quello che aveva già intuito. « …e-e-h… » Non ce ne fu bisogno, non ci fu bisogno di parole, perché la barriera che lo proteggeva, con Evelyn non funzionava, si scioglieva, come accadde in quell’istante, la barriera si sciolse ed un luccichio colpevole, sostituì quello avido di poco prima.
La Black lo allontanò con forza e si rialzò, guardandolo fare lo stesso e avvicinarsi.
« Non è quello che pensi… » azzardò lui, perché in effetti non era proprio quello che lei pensava.
« Certo che no. » Lei continuava a parlare in un sussurro, il che rendeva la situazione più seria, ma forse aveva solo paura che la sua voce la tradisse.
« No, dico davvero. » Si affrettò ad aggiungere lui « Io e Penelope non abb- »
« Oh, Penelope! » ricordò Evelyn. « Certo. » 
« Lascia che ti spieg- » iniziò lui, provando ad avvicinarsi, ma lei lo bloccò subito alzando una mano.
« Spiegarmi cosa? » sillabò fredda. « Cosa precisamente? E non ti avvicinare! »
« Vien- »
« Ho detto non avvicinarti! »
« Oh, ma che cazzo! » tuonò lui all’estremo. « Non puoi fare così! Non puoi! Non puoi fingere di detestarmi per tre anni, baciarmi e sparire per altri tre, tornare, ignorarmi, farti quasi ammazzare, abbracciarmi e tornare a detestarmi! E in più pretendere di farmi una scenata di gelosia! Eh, no, cazzo! »
Lo guardò incredula, senza trovare modo di rispondergli. Sentendo che ancora una volta stava perdendo il controllo della situazione prese un lungo e profondo respiro, ma mentre il suo intelletto le suggeriva di dirgli che non importava, che andava bene lo stesso e andarsene, questa volta il suo istinto non volle sentire ragioni ed ebbe il sopravvento.
Successe tutto in un istante: annullò la distanza tra loro e gli pestò infantilmente un piede, fece poi per uscire, ma ci ripensò all’ultimo minuto e tornò a pestargli anche l’altro piede, uscendo, infine, subito dalla tenda. 


Era appena uscita che finì a dosso a qualcuno, senza rendersene conto ed era proprio l’ultima persona che avrebbe voluto vedere: Katie Bones, nientemeno che la Serpeverde con la quale aveva una discordia personale (nonostante infondata) da anni. Da come la guardò sembrava aver assistito a tutta la scena, ma Evelyn non le diede minimamente il tempo di screditarla, insultarla o umiliarla più di quanto non fosse già successo, la spinse da parte e soffocando un singhiozzo frustrato si diresse il più velocemente possibile ai bagni.
Una volta all’interno, si chiuse la porta dietro, con un forte sbatto che riecheggiò nel silenzio del bagno vuoto.
Si avvicinò al lavandino e riprovò a calmarsi, provò ad inspirare ed espirare cercando di controllare la situazione, ma più ci provava più aumentava il tremolio e perdeva il controllo. Rialzò lo sguardo e vide il proprio riflesso sullo specchio, ma parve la cosa più sbagliata da fare perché qualcosa in lei si scatenò, si ribellò e mentre incontrollabili singhiozzi di frustrazione rompevano il silenzio attorno a lei, aprendo il getto d’acqua si bagnò con irruenza e ferocia il viso, rovinando e sbavando il trucco e si sciolse con forza la pettinatura passandosi una mano a bagnare e sviare anche i capelli, come a voler distruggere tutto ciò che non rispecchiava com’era dentro, in un estremo ed infantile gesto.
« Patetica. »
Sobbalzò e rialzò lo sguardo per incrociare quello annoiato e sdegnoso di Katie Bones. 
« Vattene » le disse con voce rotta dai pianto.
« Sai, Black, non mi sei mai piaciuta » la informò l’altra senza scomporsi minimamente. « Ma stavolta, stavolta sei riuscita ad essere anche più patetica del solito. »
C'era un indecifrabile orgoglio nel modo in cui parlava e c'erano anche rabbia e fastidio.
« Ti ho detto vattene! » soffiò Evelyn tenendo gli occhi bassi.
« Uno stronzo ti umilia e tu che fai? » sillabò la Serpeverde puntandole il dito contro. « Ti rinchiudi in un bagno a piangere?! »
L'altra non disse nulla, cercò solo di calmare i singhiozzi senza farsi notare.
« Andiamo via di qui » fece Katie porgendole la mano, ma senza smettere di guardarla male.
Evelyn corrugò le sopracciglia titubante.
« Non era una proposta » precisò la Bones secca, arpionandole il braccio e trascinandosela dietro, anche se senza forza, verso l'uscita.
Ad un passo dalla soglia si fermò e tirando fuori un fazzoletto, prese a pulirle le sbavature del trucco.
« Che cosa...? »
« Dignità prima di tutto. »
Cercò di sistemarle i capelli come poté e dopo averle intimato un « Sorridi, dannazione », ed dopo aver aperto la porta dei bagni, uscì al suo fianco.









 

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Capitolo 5
*** V. Al di là del velo ***


 

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V.
Al di là del velo
 
 
“Gli uomini iudicano più agli occhi che alle mani, perché tocca a vedere a ogni uno, a sentire a pochi. Ognuno vede quel che tu pari, pochi sentono quel che tu se’” 
Niccolò Machiavelli – De Principatibus
 
Esiste nella natura un sottilissimo velo, un minuzioso strato che ricopre e fodera l’occhio umano. Si tratta di una nebbia fine, quasi impercettibile, pedante ed evanescente che si pone da sordo strato sul globo oculare, rivestendo l’iride e ombreggiando la percezione visiva dell’uomo, storpiandone l’interpretazione della realtà. Ogni scenario, paesaggio o panorama passante attraverso l’occhio infetto da tale velo viene deformato, insensibilmente alterato e, perfino, disumanamente mutato.
Questo fine velo, atroce e silenzioso, infido e ignaro ma spietato, oggi, è più comunemente noto sotto il nome di pregiudizio.
 

 
§§§
 
 

Quel giovedì mattina, il cielo della Sala Grande era vorace di nuvole. Queste lo serravano, lo soffocavano quasi, impedendogli di propagarsi oltre e lui, diffidente, le stringeva a sé. Così, chiuso e domato dalle sue nubi, sovrastava i quattro tavoli della Sala che, silenzioso ed inespressivo, spiava.
Lysander sedeva nell’ultimo di questi, tra Hugo, che mezzo addormentato si lasciava spalmare purè sulla guancia da Lily, e Lorcan, che parlava preso dalle sue parole enfatizzate ogni tanto da qualche pugno di obiezione, fine a sé, sul tavolo.
« … Dico solo che la politica Babbana è molto più instabile! Insomma, oltre all’idiozia del presidente in carica, io mi preoccuperei per quella dei deficienti che lo hanno votato…! »
Lorcan Scamander, diciassette anni, Corvonero, solito ad inserirsi nel tavolo dei Grifondoro, era un tipo intelligente ma che parlava troppo, a sentire quello che dicevano gli altri.
« …Hm… »
Lysander Scamander, diciassette anni, Grifondoro, era, al contrario, molto silenzioso e taciturno, un po’ troppo secondo molti.
« Al diavolo! La democrazia è bellissima, certo, ma il problema è che votano anche gli stupidi, o peggio, gli ignoranti! Ti rendi conto che gran parte della gente che vota non sa nemmeno per chi sta votando? E certamente questo avvantaggia i candidati… »
« …Hm… »
Riproviamo: Lorcan Scamander, diciassette anni, Corvonero, solito ad inserirsi tra i Grifondoro per fare compagnia al fratello, parlava troppo. 
Lysander Scamander, diciassette anni, Grifondoro, silenzioso e taciturno, preferiva ascoltare.
D’accordo, forse è meglio ricominciare da capo: Lysander Scamander, diciassette anni, Grifondoro, tipo silenzioso e taciturno, ragazzo instabilmente introspettivo preferiva ascoltare. No, non ascoltare, sentire. Lysander amava sentire gli altri. Amava osservarli ma non per giudicarli, non per criticarli, perché non cercava di vedere chi erano; cercava di sentirlo. Eppure rimane laconico e succinto nelle sue parole. Perché ci sono quelle poche persone che preferiscono non concretizzare i propri pensieri per non permettere alla realtà di molestarne la fantasia e Lysander era tra quelle rare persone. Si nascondeva esperto dietro il giornale e, no, non leggeva, non gli piaceva il giornale perché era una delle tante forme di realtà che attentavano alla sua fantasia e ai suoi pensieri. Lysander si celava dietro il quotidiano per oscurarsi la vista, per neutralizzare il velo e sentire.
Era qui che entrava in scena Lorcan. Lorcan Scamander, diciassette anni, Corvonero, solito ad inserirsi tra i Grifondoro. Al contrario del fratello, odiava il silenzio. Lo detestava. Perché il silenzio lascia vuoti, a volte diffidenti a riempirsi, ma che sul momento si colmano di qualsiasi bisbiglio non udito, qualsiasi urlo ignorato, perché il silenzio non è muto, è solo sordo. Allora Lorcan parlava, predicava, discuteva, a volte urlava anche, ma non permetteva a quel silenzio di accecarlo, di stordire il suo udito sensibile; perché mentre Lysander amava osservare gli altri nel suo silenzio, Lorcan ne era spaventato, era spaventato da tutto ciò che il silenzio era astuto a nascondere. Dunque le sue parole si spargevano nell’aria disperate, mentre cercavano di riempire i vuoti del silenzio con angoscia e affanno, senza paura che questo le risucchiasse o se ne impossessasse reprimendole, perché c’era Lysander. Lysander sapeva raccoglierle prima che si disperdessero inquiete nell’aria, le sapeva sentire. Ed eccoci tornati di nuovo a Lysander. 
Perché l’unico modo per sapere chi era Lorcan, l’unico modo per comprendere chi era Lysander, era capire chi erano entrambi. Oltre il velo.
« … Perché, Grindelwald com’è salito al potere, secondo te? Si dice che avesse avuto un carattere molto persuasivo e la retorica è l’arma più forte che possa avere un politico! Se era riuscito a convincere persino Silente… d’accordo, Silente era un caso perso, credeva in chiunque, ma se ci pensi è una bella cosa, no? Cioè, sarebbe una bella cosa… potersi fidare di tutti, non trovi? » 
 
« JAMES POTTER! »
Louis Weasley, diciassette anni, Grifondoro, occhi fuori dalle orbite scossi da un leggero tic schizofrenico, espressione sconvolta.
« Louis. »
James Sirius Potter, diciassette anni, Grifondoro, capelli abitualmente arruffati in ogni direzione, camicia volutamente tenuta fuori dai pantaloni, sopracciglia inarcate prudentemente e bocca sazia di cibo che ancora rosicchiava lentamente, forse per noia.
« Cosa DIAVOLO hai fatto agli orari degli allenamenti?! »
Tono isterico. Sguardi sgranati, curiosi, infastiditi. 
« Li ho triplicati. »
Tono pacato. Bocca semi-aperta, cibo macinato. Sguardo disgustato da Dominique.
« E mi spieghi QUANDO dormo? QUANDO mangio? QUANDO cago, se devo passare venti ore su ventiquattro nel campo di Quidditch?! »
« Quelli sono problemi tuoi, cugino. Io devo solo assicurarci la vittoria… almeno fino a quando non sarò Ministro della Magia e potrò impedire il Quidditch ai Serpeverde… »
« Oh, ciao, Louis! James, mi passi il sale? »
Fred Weasley, diciassette anni, Grifondoro, divisa da Quidditch ben esaltata, capelli corti per convenienza, occhi verde-acqua (troppo) briosi, sorriso (troppo) allegro. Incapacità di produrre, nonché emettere, concetti di continuo ed equilibrato senso compiuto.
« Parlavamo degli allenamenti… tieni il sale… e dei suoi problemi di stitichezza… »
« … Senti quant’è buono il pollo… »
« Mh… Mh… buono… »
« Louis, ne vuoi un po’…? »
Louis, inebetito, li guardò incredulo. « Voi… » Puntò loro il dito contro « Voi siete matti! » Alternò l’indice accusatore dal primo al secondo. « Voi siete completamente pazzi! » 
« Sinceramente, Louis, detto da uno che ha un diario… » riflesse James in tono grave.
« Guarda che non stiamo scherzando, il pollo è buono sul serio… » cercò di intervenire Fred, porgendogli una coscia di pollo. « Assaggia! »
« Voi siete da ricovero! Tutti e due! » urlò fuori di sé. « E io AVEVO un diario e… e… e me ne vado! » Inciampò su se stesso nel voltarsi e se ne andò con i pantaloni tanto allentati che minacciavano di cedere, sotto lo sguardo confuso e incompreso dei cugini e quello bramoso di qualche ragazza che cercava, assieme alla forza di gravità, di far cascare definitivamente i sopracitati pantaloni.
« Mah! Quell’uomo è isterico. »
« Nah, è solo stitico. »
« Però il pollo è buono. »
« Quante ore di allenamento abbiamo? »
« Nove. »
« Sì, il pollo è proprio buono oggi… »
« Hai prenotato il campo, vero? »
« … »
« James! » si lamentò Fred sputando carne addosso a Dominique. « Oh, scusa, Dom… Beh, sei bella lo stesso. » Liquefece le macchie causate sulla divisa della cugina con un gesto svagato e superficiale della mano.
« Hm… ecco, non sapevo… sai, no? Dovevo accertarmi che… e poi… » Si spremette le meningi, giocherellando con la forchetta alla ricerca di qualcosa che in partenza aveva perso da solo, sotto lo sguardo misericordioso di Dominique e dubitante di Fred, ma parve rinunciarsi perché sbuffando, poi, aggiunse: « D’accordo, me ne sono dimenticato. »
James Sirius Potter, diciassette anni, Grifondoro, capelli abitualmente arruffati in ogni direzione e con un’invidiabile incapacità di mentire. James era buono. Non ingenuo, non gentile o cordiale. Buono. James non sapeva mentire, non ne era in grado. James non sapeva tradire, qualsiasi tipo di fiducia, non ne era capace. James non sapeva odiare, non ne era all’altezza. Forse aveva cercato anche di mentire, aveva tentato anche di tradire, qualche volta aveva provato ad odiare ma James non poteva. Non poteva ipoteticamente e concretamente, perché queste due enti contrapposte lottavano e alla fine vinceva sempre quella buona. Perché James era buono e non sapeva mentire. Era buono e sapeva solo amare. 
Fred tirò improvvisamente fuori una pergamena, convertendo il fine alimentare del tavolo, in una base di strategia militare a scopo sportivo.
« Il punto è che la Finta Wronsky non basta! Ormai la sanno fare tutti! Bisogna sorprenderli con qualcosa di nuovo! » Fred accompagnò i suoi gesti con una rappresentazione improvvisata delle sue parole, ma solo per chinarsi sulla pergamena e fingere di non aver visto nulla.
D’accordo, intendiamoci: Fred Weasley, diciassette anni, Grifondoro. Fred era, a giudizio degli altri, menefreghista. Perché ci sono quelle poche, pochissime, persone che non danno valore alle parole degli altri. Non si tratta di ponderare, tenere conto relativamente del parere altrui, si tratta di non prenderlo nemmeno in considerazione. Perché c’è sempre un’assillante e straziante differenza tra come ci vedono gli altri, come ci vediamo noi e ciò che realmente siamo e, mentre lo specchio può fare scherzi, gli altri sono più tormentanti; il primo si limita a riflettere, silenzioso e immobile, ma, per quanto riguarda gli altri, non è nelle loro natura limitarsi, non è in quella umana. Allora Fred con il tempo si era adeguato ed aveva imparato a non stimare niente all’infuori del proprio giudizio e questo, se possibile, lo aveva reso ancor più diverso, perché Fred non era infetto; Fred era una di quelle rarissime persone immuni al velo del pregiudizio. Era come essere ciechi, sordi e muti allo stesso tempo; era riuscire ad ascoltare con il cuore, parlare con gli occhi e guardare ciecamente sempre un punto più lontano degli altri. Al di là del velo.
« Hai ragione. Hai visto la scesa rotante di Viktor Krum che ha fatto Malfoy alle prove? Ormai l’avrà insegnata a tutta la squadra! » lo appoggiò subito James.
« Ehm… » Scorpius tossicchiò « Guardate che sono qui » fece notare.
James agitò la mano come a voler cacciare via un moscerino. « Beh, Rose tappagli le orecchie! Dicevo: bisogna trovare qualcosa che sia all’altezz- »
Rose inarcò le sopracciglia. « Le orecchie? Il massimo che posso fare è tappargli la bocca… » notò con fare secco.
« A me va bene! » intervenne il biondo prima di chiunque altro.
« … »
« … »
« Idiota » sbuffò Rose scuotendo il capo.
« Allora potresti tapparmi la bocca, così la smetto di dire idiozie… » 
« Malfoy, fai schifo » sputò Fred reprimendo un conato di vomito.
« Aspetta che tuo padre lo venga a sapere… »* aggiunse James.
« Siete voi che orecchiate! » si lamentò la cugina. « E poi non dovreste utilizzare il tavolo per fare schemi di Quidditch. È contro le regole! E io sono un Prefett- »
« Malfoy, tappale la bocca! » ci ripensò Fred.
« Agli ordini! » 
 

 
*
 


Adam Zabini si era annidato tra le pieghe della trapunta verde di velluto, sottraendosi allo sguardo invadente di Damon, e con un soffocato ‘Lumos’ illuminava le pagine ruvide e ingiallite tra le quali i suoi occhi vagabondavano insaziabili. 
 
03 Maggio 2017
Caro Adam,
è notte fonda ormai. A casa siamo rimasti solo io, mamma, Dom e la zia Gabriel. Papà è a lavoro, di nuovo, e Vic è dai nonni.
Siamo tornati a Villa Conchiglia lunedì, dopo il ritorno della zia. La zia Gabriel vive in Francia, è venuta a trovarci per una settimana e poi tornerà a Lyon. È molto silenziosa, sai, ma ha due occhioni grandissimi che invadono fin dentro. A volte la vedo osservare ogni mio movimento, ogni mia mossa e esaminare ogni mia espressione, come a volermi studiare, ma non fa così solo con me. Mamma dice che è fatta così di suo, che è sempre stata così, ma la cosa non mi tranquillizza più di tanto. La zia Gabriel dipinge, comunque, anche se ha sempre nascosto tutti i suoi dipinti, ma… ecco, era di questo che ti volevo parlare…
L’altro ieri, la mamma e la zia sono andate a Diagon Alley. Oggi, c’è stata la Festa della Vittoria e loro erano uscite a fare le compere. E… beh, può darsi che io mi annoiassi tanto da essere per sbaglio finito a spiare i quadri della zia dal buco della serratura della stanza degli ospiti. A dire la verità la focalizzazione era piuttosto offuscata dal contorno buio della serratura ma quel poco di luce che ne sopravviveva si apriva dritto su un quadro adiacente alla finestra. Tutto quello che sono riuscito a scorgerne, prima che Dom raggiungesse il corridoio della stanza, è che rappresenta un crepuscolo. Un sole possente che si spegne sconfitto immergendosi nel mare; poi sono riuscito ad imbucarmi nel bagno della stanza degli ospiti giusto un attimo prima che Dom svoltasse sul corridoio della stanza. 
C’è una porta, però, che congiunge il bagno alla stanza degli ospiti ed… era aperta. Così, sono entrato.
Il quadro era al centro della stanza, silenzioso. Mi sono inginocchiato alla sua altezza ed avvicinato tanto da sfiorarlo con il naso.
Non era, però, un tramonto. Non proprio. 
C’erano quei dettagli vaghi e anonimi, qualche sfumatura di luci opaca e inosservata, alcune gradazioni di tonalità nel quale il sole si ergeva con talmente tanta forza, da smentire il crepuscolo in un’alba. E poi c’erano altri dettagli stabili e apatici, dei colori talmente vivi che stordiscono le prime sfumature dando tanta immensità al mare, da riportarne il significato in un tramonto.
Seguivo ogni ombra di venatura, ogni traccia di colore cercando di trovare qualche distinzione tra il primo ed il secondo significato della tela, perché in un primo momento la luce del sole era tanto travolgente ed impetuosa che sembrava stesse soffocando il mare e vincere la sua battaglia, mentre l’attimo dopo la veemenza e l’eternità del mare creava un’illusione tanto continua che sembrava avere la meglio sul sole, spegnendolo lentamente e lasciando di lui solo piccoli raggi sopravvissuti tra i bisbigli di un’onda e l’altra. E il cielo era cieco, diffidavo dall’osservarlo e cercare di trarne qualche riferimento, perché parlava molto e le sue poche nuvole erano mute, ma lo ascoltavano fiduciose. E io non mi fidavo.
Sono tornato lì anche il giorno dopo. Però non capivo, non riuscivo a comprendere se rappresentava un’alba oppure un tramonto, perché ci sono sempre quei dettagli che si smentiscono tra di loro, lasciandomi confuso ed incapace di capire il significato del quadro.
Oggi c’è stata la Festa della Vittoria. Si è tenuta nel Ministero della Magia... Dovresti vederlo, Adam: era bellissimo e il cibo era squisito. Non lo sto dicendo con il giusto entusiasmo, vero? Sai perché per tutta la durata della festa io, Freddie e Jamie siamo rimasti nascosti sotto i tavoli della cerimonia? Sai cosa ha reso una festa in un posto bellissimo e con i piatti più prelibati del mondo, la festa più triste a cui avessi mai partecipato, Adam?
Le persone.
Gli invitati e i loro sorrisi falsi, i giornalisti e i loro ipocriti toni amichevoli, i pochi Mangiamorte scagionati e i loro occhi smarriti. E io mi sentivo fuori posto. Con tutte le persone che mi si avvicinavano solo per la fama del mio cognome, io mi sentivo sbagliato.
Qualche undicenne della mia età mi si è avvicinato, credo volesse fare amicizia, ma io avevo paura di rivelargli il mio cognome, perché quando lo dico, quando mi presento e pronuncio quel ‘Weasley’ dopo ‘Louis’, mi sento di troppo, fuori posto e sbagliato.
Sai, Adam, a volte, quando mi chiedono chi sono, non so cosa rispondere: non capisco se vogliono sapere come mi chiamo o chi sono veramente. 
E oggi mi sono sentito come quel dipinto, Adam, come quel dipinto visto da lontano, scrutato attraverso un’infida serratura e apprezzato per i suoi colori, ma trascurato delle sue sfumature, ammirato per l’evidenza delle venature, ma non curato nei suoi dettagli. Ma che valore ha un dipinto senza i suoi dettagli? Perché ora l’ho capito, Adam: il significato della tela non si risolveva in un tramonto e nemmeno in un'alba; il suo significato si celava tra l’irrisolvibile guerra tra sole e mare, quella continua lotta in cui nessuno riesce mai ad avere la meglio. Si celava tra i dettagli.
E io non sono un eroe, non ho mai partecipato ad alcuna guerra e non ho mai salvato nessuno. Io sono solo io. 
Ma come spiegarlo alle nuvole mute fedeli alle parole del loro cielo cieco? Se solo le nuvole non si fidassero tanto follemente… se solo il cielo non fosse cieco, lo vedrebbe, si guarderebbe attorno e vedrebbe che ci sono fiori dappertutto. Oppure si guarderebbe attorno, non più cieco, ma scoprirebbe di essere rimasto al buio.
Buonanotte, Adam.

Tu sei uno dei miei dettagli più belli.
 
 
« Nox »
« Scusa, Adam, hai detto qualcosa? »
La voce di Damon gli giunse vaga e dissolta tra la compostezza della calda coperta, dalla quale emerse subito dopo avervi nascosto tra le pieghe il libro che tanto gelosamente celava. « No… ehm… niente… tossivo… eh, come sono andati gli allenamenti? »
« Bene, credo. Albus è sempre più isterico, soprattutto dopo che ti sei rotto la gamba e ha dovuto sostituirti con quell’idiota di Avery. » Damon si stese sul suo letto, stiracchiandosi in tutte le direzioni e cercando di rilassare i muscoli ancora irrigiditi, aggiungendo poi un: « Sono distrutto. »
« Com’è Avery, con i bolidi? » gli chiese Adam voltandosi verso di lui e facendo attenzione alla gamba paralizzata da un incantesimo ingessante di Madama Chips.
« Boh, te l’ho detto: è un idiota… certo, non fa tanto schifo… è anche bravino. Insomma, rimane comunque un idiota. »
Adam represse un sorriso soddisfatto. Probabilmente, non prese nemmeno in considerazione l’idea che l’amico potesse aver dissimulato la bravura di Avery, solo per tirargli su il morale. Infatti, fece per supportare le considerazioni di Damon sul suo sostituto, quando lo sbattersi sgarbato ma abituale, della porta represse le sue parole sul nascere.
Roxanne Weasley entrò nella loro stanza come fosse sua, con le sopracciglia corrugate in un cipiglio seccato ed infastidito. Si avvicinò al letto di Damon guardandolo contrariata. « Ho spedito la lettera che mi hai dato » lo informò con voce piatta e dettata da un tono che discretamente controllava « E per informazione, il tuo gufo è molto più simpatico di te » si permise di dire lei, sbuffando. « Ora cosa devo fare? »
Damon, per risposta, continuò a stiracchiarsi per almeno un paio di minuti, in cui Adam ridacchiava sinceramente divertito e Roxanne aspettava infastidita battendo con impazienza un piede per terra a ritmo nervoso. « Ora che ci penso, ho un sincero bisogno di un massaggio alla schiena, me la sento a pezzi. »
Roxanne si lasciò sfuggire una risatina, forse anche sincera, interpretando l’affermazione, che voleva poi essere un ordine, del ragazzo, in una battuta sarcastica.
« Guarda che non sto scherzando » precisò Damon girandosi a pancia in giù ed invitandola a procedere.
« Io non so fare massaggi! »
« Imparerai. Sei negra. »
« Cosa? E che c’entra? »
« Non lo so. Era per ricordarti chi comanda: quello bianco » informò cortesemente. « Io. »
In uno sbuffo innervosito, la Grifondoro si tolse le scarpe, salendo sul letto del ragazzo. « Accidenti a me e al fottuto giorno in cui ho deciso di chiederti aiuto per la festa. »
« Sì, sì, vedi di tacere, ho un mal di testa straziante. »
Roxanne gli rifece il verso scimmiottandolo ben diversamente da come lui si era espresso e prese posizione sedendosi sopra di lui con forza, sperando invano di accentuare il dolore dorsale. Appiattì i palmi delle mani poco sotto le spalle del ragazzo, che si immerse tra la seta del cuscino bofonchiando qualcosa riguardo al rispetto di posizioni e al fatto che lei dovesse usare una forma di cortesia necessaria nel rivolgerglisi. Damon circondò con un braccio il cuscino piegando ad agio il capo e chiudendo gli occhi, stremato dalla stanchezza. Roxanne, invece, continuò a sbuffare sempre più forte, nella speranza di disturbargli ogni tentativo di riposo; uniformò, poi, le mani e le compresse sulla sua schiena in uno scarso tentativo di far passare il gesto per una frizione massaggiante. Sentì sotto la sua sensibilità tattile e sotto la maglietta di lui, i muscoli di Damon allungarsi, per poi rilassarsi nella loro consistenza invariabile e si ritrovò, senza esitazione, ad esplorarli ambente. Le sue dita viaggiavano voraci cercando di penetrare attraverso il cotone della maglietta e di percepirne più a fondo il calore. Così, senza neanche rendersene conto, senza neanche badare allo sguardo intuitivo di Adam che la osservava divertito e sagace, fece scivolare le mani sotto quella maglietta che si rese improvvisamente conto di detestare. Il suo respiro si spezzò in piccole frazioni mentre le sue mani perdevano l’equilibrio al contatto del calore dorsale di Damon. Questo, ignaro, si lamentò per la loro freddezza che aveva violato la calura della sua schiena, ma le orecchie intorpidite di Roxanne non lo udirono nemmeno, perché attutite nel cercare di percepire quel fonema che producevano le sue mani avide contro il calore della pelle del ragazzo ed erano così mitigate che ignorarono la risata sguaiata di Adam, malamente soffocata tra le coperte. Forse la udirono solo arrestarsi bruscamente, ma ripresero in modo definitivo le loro funzioni acustiche solo dopo che Damon ebbe ribaltato la loro proprietaria nel tentativo di alzarsi. Roxanne aprì gli occhi.
Ma quando li aveva chiusi?
Si ritrovò capovolta in una ridicola posizione. Cercò di alzarsi in fretta e di dissimulare ogni grottesca manifestazione della caduta, ma non ne ebbe bisogno, perché entrambi i ragazzi, Damon in un balzo più veloce e Adam zoppicante, erano scattati verso la porta. Roxanne si limitò a fermarsi sul posto e a cercare di riprendere possesso dei suoi sensi e, appena le sue orecchie si ridestarono del tutto, poterono percepire le grida e gli schianti provenienti dal corridoio. E in un secondo si precipitò fuori anche lei.
 
 
*


« Sei sicura che non sia stato marchiato? Il serpente si muove. »
Katie fece scivolare le sue dita in un soffio delicato sul Marchio Nero che tenebroso invadeva l’avambraccio pallido di Evelyn.
« Così ha detto papà » le rispose l’altra spostandosi i capelli dal viso e adagiandosi sul letto della Bones, abbandonando il capo tra le gambe della ragazza.
« Intendi il signor Malfoy…? »
« Beh, sì. »
« …Hm... » Katie raccolse una ciocca dai capelli biondi che Evelyn aveva abbandonato col capo tra le sue gambe e la guardò intensamente. « Come fai a chiamarlo ‘papà’? Voglio dire: lo sai che non lo è… come fai a rivolgerti a lui come se lo fosse…? »
Evelyn distese i suoi occhi Veela sulla ragazza e strinse le braccia attorno al petto cercando di placare i brividi. « Hai mai avuto un vuoto dentro di te? Un vuoto tanto profondo, tanto pungente e perpetuo, da non riuscire ad ignorarlo in alcun modo? Da riuscire solo ad addormentarlo in un sonno illusorio per placarne il dolore? »
Katie divise la ciocca bionda di capelli e cominciò ad intrecciarla cercando di concentrarsi sull’alternanza dei movimenti. « Fino ai sei anni, ho vissuto a Spinner’s End con i miei genitori. Mio padre lavorava precario in un negozio Babbano e mia madre all’ufficio di stampa per la Gazzetta del Profeta. Il giorno stavo a casa con la nonna, qualche volta anche da sola, ad aspettarli. E la sera ci riunivamo tutti insieme per la cena. » Si schiarì la voce roca e riprese subito, con un tono poco più basso « Si amavano. Si amavano tanto che a volte mi sentivo un’intrusa tra loro. Mi sentivo di troppo. Fuori posto. Sbagliata. » Concluse l’intreccio della prima ciocca, ma in un attimo ne distinse un’altra dividendola in tre parti uguali e riprendendo ad annodare. « Mi nascondevo sempre dietro l’appendiabiti del salotto e li spiavo tra un mantello e l’altro mentre erano abbracciati. Lui la stringeva forte lasciando che lei gli solleticasse il collo e prestandole l’orecchio sinistro per sentirsi dire la stessa frase che lei gli ripeteva tutte le sere. Tutte le sere. ‘Ti amo’ » scandì ogni parola ritmicamente reticolando la treccia bionda che aveva tra le mani. « Io avevo poco più di cinque anni. E lei lo tradiva. »
Evelyn trattenne il respiro portandosi una mano sulle labbra ma Katie, per niente scalfita, riprese subito.
« Lei ci lasciò e lui cominciò a stare male. Non aveva più facoltà delle sue azioni, e un giorno ha anche cercato di suicidarsi. » Concluse la terza treccia. « Il giorno del mio compleanno. » Le sue dita distinsero subito un’ulteriore ciocca da intrecciare ma Evelyn balzò a sedere, le mani ancora represse sulle labbra.
« È m-morto? »
Katie scosse il capo, con un sorriso incrinato che delucidava la domanda di Evelyn con malinconia, come se la morte avrebbe potuto essere una sorte più speranzosa. « Reparto Lungodegenti » rispose solo. « Da undici anni ormai. »
« Oh »
« Ogni tanto la nonna lo va a trovare… Io non posso. »
Evelyn fece per aprir bocca ma Katie precedette la sua domanda in una secca risposta. Erano così le sue parole: secche, crude. Non si perdeva in considerazioni, descrizioni. Le parole di Katie erano crude e brutali quanto il loro significato.
« Le somiglio, crede che io sia lei. E i Guaritori mi hanno impedito di vederlo. »
Evelyn si portò una seconda mano sulla bocca e si sentì un vortice concentrico che fece crollare ogni suo tentativo di trattenere i singhiozzi.
E qualcosa cadde. Crollò. 
Qualcuno ha mai sentito quanto è tuonante il crollo di un pregiudizio? Solitamente quando cresce è taciturno e lo fa lentamente ma quando crolla il boato che crea è così compatto, poiché inumano, che non riecheggia. D’altronde, si sa, fa più rumore un albero che cade, che una foresta che cresce. 
« Per Morgana, Black, non guardarmi così. Non cerco la tua compassione » sbuffò Katie « Era solo per dirti che lo so cosa si prova ad avere un vuoto dentro. » Si schiarì un’altra volta la voce, giochicchiando con la trapunta smeraldina ed evitando gli occhi della ragazza. « E che non sei l’unica ad essere orfana. »
Evelyn liberò in un incoercibile gesto estremo i singhiozzi e si ancorò al collo della Bones. « Te l’hanno mai detto quanto sei patetica? » si lamentò questa in un poco convincente tono seccato. Infatti, legò la vita della Black in un gesto istintivo e vi si saldò; poi, resasi improvvisamente conto che tutta quella sdolcinatezza non le piaceva proprio, le sue mani scattarono a solleticare il ventre di Evelyn. Quest’ultima presa di sorpresa, cadde sul letto contorcendosi e pregando Katie di smetterla, tra una risata e l’altra.
« Che diavolo succede? »
Katie si bloccò di colpo e le risate di Evelyn si arrestarono nello stesso istante, stonando con le tracce che qualche attimo prima aveva lasciato.
Dei colpi provenienti dal corridoio violarono, aggressivi, l’abituale silenzio serale dei dormitori Serpeverde. Katie balzò in piedi, mentre gli schianti nel corridoio s’intensificavano e, proprio nell’istante in cui si voltò verso di Evelyn per vedere l’ultima ombra delle risa abbandonarla, tirò fuori la bacchetta puntandola al polso tremante contro la porta.
 

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Capitolo 6
*** VI. Carpe Diem ***



 
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VI.
Carpe Diem


 
Quanto è veloce il Tempo?
Qualcuno ha mai provato a corrergli incontro? 
O contro?
Dicono non aspetti nessuno.
Trapassa. Sorpassa. E passa.
E lascia senza fiato.
Stremati.
Sfiniti.
E perdenti.
E poi ci sono gli ultimi, quelli di cui nessuno racconta, quelli che non possono nemmeno arrivare in ritardo, perché giunto al traguardo, il tempo tornerà sempre indietro a riprenderli.



“Amiam ché non ha tregua
con gli anni umana vita, e si dilegua.
Amiam, ché ‘l sole si muore e poi rinasce;
a noi sua breve luce
s’asconde, e ‘l sonno eterna notte adduce.”


-T. Tasso



§§§


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E Molly corre.
Nel vuoto.
Contro vento.
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No, è Lucy.
Corre.
Trascinando qualcuno.
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È di nuovo Molly.
Corre sempre più velocemente.
Il vento la respinge indietro.
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I polsi di Lucy sanguinano.
I capelli schiariscono.
Continua a trascinare.
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Molly è pallida.
Sanguina dal naso.
Perde capelli.
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Lucy non riesce più a trascinare il corpo.
Cerca di liberarsene.
Non ce la fa.
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Molly piange.
È calva, ora.
Sta cedendo al vento.
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Lucy è libera.
Non ha più alcun peso da trascinare.
Ora può andare avanti.
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Molly.
Non era vento.
Molly!
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Tempo scaduto.


Louis Weasley si svegliò di soprassalto.
Strabuzzò gli occhi, tentando di mettere a fuoco un qualche oggetto che fosse stabile e che - possibilmente - non luccicasse tra le sue ciglia impastate. Cercò di aiutarsi con le mani, ma il tremore gli impediva ogni movimento; così capì che la soluzione migliore sarebbe stata fermarsi, tenere gli occhi chiusi e regolarizzare il respiro.
Lentamente i sensi si risvegliarono e, poco dopo, si regolarizzarono; così il suo udito si ristabilì, ampliandosi oltre i battiti accelerati che gli rimbombavano nelle orecchie e riuscì, inspirando intensamente, ad aprire gli occhi.
Faticava a distinguere bene le forme, ma quel poco che dalla vista riusciva a far filtrare, e sensitivamente classificare, doveva aver un che di bianco, di uniforme e di ripetitivo; ma fu solo grazie all'olfatto - e a quel pungente odore di disinfettante - che capì di essere in infermeria.
Tentò di mettersi seduto, ma un fitto dolore alla gamba sinistra e alle scapole lo costrinse a risdraiarsi sconfitto; inoltre la gamba era anche fasciata e sottoposta ad un Incantesimo Immobilizzante, ciò significava che con molta probabilità doveva essere rotta.
Attorno al suo letto erano tirate delle tende così banali nella forma e nel colore (bianche, s'intende) da risultare nauseabonde e perfino inusuali.
Arricciò il naso contrariato quando non trovò la sua bacchetta, nel comodino a fianco. 
« Signor Fred Weasley! Signor Fred! »
Una vocina squillante ed acuta irruppe nell'infermeria, improvvisamente, facendolo sussultare e conseguentemente imprecare. Solo ad una persona - in tutto il Castello - poteva appartenere una voce simile: Colin Canon. O meglio, Colin Canon e la sua (odiosa) macchina fotografica; quei due erano tutt'uno, come se fosse stato gettato loro un Incantesimo Adesivo Permanente.
« Colin? » La voce di Fred, tra l'annoiato e l'irritato, gli giunse oltre le tende abbastanza vicina, probabilmente il cugino era nel letto a fianco. « Che diavolo ci fai qui, Colin? »
« Eccomi, signor Fred Weasley! »
Louis immaginò, nel suo letto, gli occhi del dodicenne Colin Canon illuminati dall'ammirazione e la macchina fotografica (sempre e comunque) stretta tra le dita, come fosse la sua bacchetta. Era certo che se quel piccoletto si fosse mai trovato in pericolo, tutto ciò che avrebbe saputo fare sarebbe stato scattare una fotografia al criminale e darsela a gambe, nella speranza che quel (odioso, chiaro) flash l'avesse intontito.
« Sono qui in missione, signor Fred Weasley! Mi manda un anonimo! »
« Un chi? E che vorresti da me, scusa? »
« Devo... ecco... » 
Louis udì un scricchiolio ed immaginò che il dodicenne si stesse fregando nelle tasche e che da queste avesse estratto un fogliettino accartocciato.
« Mi hanno mandato qui per... ecco, qui... per chiederle come sta e se le fa male qualcosa. »
« Sto come starebbe un qualunque diciassettenne in un'infermeria: di merda. E mi fa male un enzima pancreatico. »
« Signor Fred, aspetti! Può andare più lentamente? Sto... sto cercando di scrivere... ha detto che... che sta di merda perché è così che stanno i diciassettenni in un'infermeria, ma che le fa male un...? »
« Colin? »
« Agli ordini, signor Fred Weasley! »
« Sparisci. »
A Louis scappò un sorrisino nell'immaginarsi l'espressione minacciosa di Fred e quella (eternamente, siamo d'accordo) ammirata del dodicenne.
Udì un paio di flash, in seguito ai quali Fred imprecò in un mix multiculturale di lingue proponendo un ricercato collocamento un cui avrebbe voluto "ficcare quella fottuta macchina fotografica" al dodicenne.
« Me ne vado, signor Fred Weasley! Ma lei si rimetta presto! E sappia che aspetto ancora il suo autografo! »
« Dov-dov'è la mia bacchetta?! » 
Sentì nel letto sulla sua destra Fred agitarsi e produrre un fruscio secco tra le lenzuola.
« Datemi la mia bacchetta! Voglio far Evanescere questo nano! Magari mi danno anche l'Ordine di Merlino... »
La porta dell'infermeria sbatté e Louis fu certo che Colin se la fosse data a gambe.
In un istante la stanza tornò silenziosa. Tornò placida, zitta in realtà, più che silenziosa, e quei colori inespressivi tornarono banali, come sempre.
Sospirò, cercando di allungare la gamba sana, quella destra, in una posizione più o meno comoda.
Decise, quindi, che si stava annoiando abbastanza e che tanto valeva lasciarsi importunare da Fred, piuttosto che sprofondare in quella noia apatica o - peggio - riaddormentarsi e tornare a rifare lo stesso sogno. Stava giusto per chiamare il cugino e comunicargli di essere sveglio, quando la porta dell'infermeria si riaprì di nuovo.
« Roxanne! »
« Ehilà, Freddie. » 
Due schiocchi gli fecero capire che la sedicenne aveva lasciato due baci sulle guance sorridenti del fratello.
« Madama Chips ha detto quando ti dimette? »
Fred annuì, anche se Louis non poté vederlo. « Ha detto domattina. »
« Oh, ecco. » La voce di Roxanne, meno allegra e chiassosa del solito, si fece ancor più pacata e si ridusse in un bisbiglio. « Papà mi ha scritto, ha detto che lui è riuscito a raccogliere la sua parte di soldi... »
Louis storse le labbra, corrugando le sopracciglia: non voleva origliare, specialmente mentre stavano parlando di questioni famigliari, ma rivelare la propria posizione avrebbe certamente comportato interromperli.
« Ecco... » continuò Roxanne, tirando fuori (dedusse Louis dal tintinnio) un sacchetto colmo di monete. « Io sono riuscita a raccogliere la mia parte, guarda. » Seguì una pausa e qualche altro tintinnio. « Dopodomani c'è l'uscita ad Hogsmeade… tu quanto hai raccolto? Dammi i soldi che li metto da parte! »
Fred si schiarì la voce e dal modo con cui lo fece, Louis chiuse gli occhi e scosse la testa, conscio di quello che sarebbe successo. « In realtà, io... » lo sentì frugare nel comodino. « Ho raccolto qualche cosina, non proprio tutto, ecco. »
Altri tintinnii e monete rigettate sopra il letto.
« Fred, questi sono... dodici... Galeoni... DODICI GALEONI. »
« Lo so, ma è stato un periodaccio e ho avuto poco tempo per... »
« Ne mancano trentotto, Fred! Trentotto Galeoni! » 
Il tono di Roxanne era tra l'incredulo e l'orripilante e ormai non si preoccupava più di tenerlo basso. Louis temette che l'infermiera spuntasse da un momento all'altro.
« Non ce l'ho fatta, ho... ho avuto tanto da fare e ... »
« Tanto da fare?! » sbottò Roxanne sul colmo. « Fare cosa, di preciso? Scoparti quattordicenni? »
« Roxanne... »
« No! No, cazzo, no! Hai avuto due mesi per preoccuparti quei dannati cinquanta Galeoni! E come ce l'ho fatta io, potevi riuscirci anche tu! Come diavolo faccio io a trovare trentotto Galeoni in due giorni?! »
« Io... li troverò, d'accordo? Li procurerò, mi servono solo dieci o quindici giorni e... »
« Ma gliel'abbiamo promesso! L'abbiamo promesso a mamma! »
Fred questa volta non tentò né d'interromperla, né di rispondere. Louis aspettò che qualcuno dei due dicesse qualcosa.
« Questa volta non hai alcuna scusa! » sputò la sedicenne dopo qualche minuto. « Nessuna. Io ho penato per raccogliere la mia parte! Ho venduto tutto ciò che avevo di caro, persino la mia scopa da Quidditch! Ho fatto scommesse di tutti i tipi con gente che nemmeno conosco... Cristo, ho addirittura fatto un pompino ad uno schifoso Tassorosso, Fred! E no, non guardarmi così! Sei tu quello che fa schifo. Sei un egoista. Io ho fatto tutto per la mamma. E tu non ha fatto niente per nessuno. »
Louis aspettò che i passi di Roxanne si spegnessero dietro la porta, violentemente sbattuta, per espirare, rendendosi conto di aver involontariamente trattenuto il respiro.
Si portò una mano sugli occhi per chiuderli un istante e in modo da coprire quel chiarore che, nonostante le palpebre abbassate, gli rimaneva impresso, nitido e fastidioso.
Davanti agli occhi gli continuavano a susseguire una serie di immagini senza alcun ordine e tanto velocemente da non permettergli di mettere a fuoco nessuna di loro; anzi, la loro intensità lo disorientava nella sua stessa testa e non si lasciava dietro nient'altro che dolore.
Si prese la testa tra le mani, sospirando frustrato di non poter né controllare, né eliminare tutti quei ricordi.
« Guarda che lo so che sei sveglio. »
Fred scostò le tende del suo letto con uno scatto che lo face sobbalzare.
Sbuffò ed aprì gli occhi, ritrovandosi il cugino in piedi a nemmeno un metro da lui. Lo guardo meglio, strabuzzando gli occhi, e notò che indossava il pigiama dell'infermeria, un sottospecie di camice bianco che arrivava fino al ginocchio. Fred con quel vestitino era un misto tra ridicolo e il surreale; fece per faglielo notare e, magari, farsi anche due risate, ma, non appena si accorse di indossarne uno uguale, decise di rimanere - giusto per convenienza - in silenzio.
« Come diavolo hai fatto a romperti un femore e fratturarti tutte quelle scapole, dopo nemmeno mezz'ora che sei uscito da qui? »
Con le mani sui fianchi, quegli occhi indagatori e scettici, e quel camice bianco, Fred gli ricordava nonna Molly; ma non glielo fece notare.
Si limitò a scrollare le spalle.
« Ti sei agitato nel sonno » aggiunse poi Fred, con gli stessi occhi socchiusi - quasi minacciosi. « Molto. »
Si morse il labbro e distolse gli occhi. « Ho... ho avuto un altro sogno... un altro di... quelli... »
Fred sgranò gli occhi, sedendosi sul bordo del suo letto. « Chi? Chi stavolta? » deglutì.
Louis sospirò e si portò entrambe le mani a coprire il viso. « Molly. »


Roxanne si sbatté la porta dell'infermeria alle spalle, marciando con i pugni serrati e le sopracciglia corrugate per il corridoio del piano terra. I suoi passi - calpestii, per una precisazione fonetica più appropriata - riecheggiavano tutt'intorno e le monete in tasca tintinnavano l'una contro l'altra, seguendola a ritmo.
Si fermò ai piedi della rampa di scale. Salì i primi cinque scalini, fermandosi al sesto, poi li discese. 
Represse un urlo di frustrazione, producendo - nello sforzo di farlo - un mugolio muto ed impotente. Così, senza pensare, tirò un calcio alla rampa di scale, scalciando con una tale spinta che poté percepire il dolore prima ancora che l'alluce del piede destro la pungesse, allarmandola.
Barcollò saltellando su in piede solo, prima d'inciampare su se stessa.
Decise, dunque, di sedersi su uno scalino per poi, togliersi le scarpe e massaggiarsi l'alluce destro.
Molti degli studenti che scendevano le scale le gettarono occhiate tra il disprezzante e lo schifato, a cui lei rispose con la più minacciosa indifferenza, limitandosi solo a mostrare il dito medio ad un paio di Serpeverde divertiti dai suoi calzini arancioni a pois azzurri.
Aspettò che il flusso di persone diminuisse, poi tirò fuori il sacchettino contenente i cinquanta Galeoni: una cifra che mai si era sognata di possedere. 
Anche solo ripensare a quanto aveva sudato e sofferto negli ultimi due mesi per raccogliere quel denaro, le faceva salire un nodoso ed insistente groppo in gola, che rimaneva ancorato al suo collo, forse a limitarla, forse a ricordarle quanto fosse limitata.
Per quelle dannate monete aveva venduto tutto ciò che aveva di più prezioso e le ci erano voluti due mesi; come diavolo avrebbe fatto a trovarne altrettanti in due giorni? Insomma, chi girava ad Hogwarts con cinquanta Galeoni? E supponendo anche che ci fosse stato qualcuno, come diamine l'avrebbe convinto a prestarglieli?
Prese un forte respiro, perché quel nodo le schiacciava ancora la gola e le dava la sensazione che l'ossigeno non bastasse... che non bastasse.
Scosse la testa, ripetendosi che una soluzione l'avrebbe trovata, che avrebbe fatto di tutto pur di non vedere la delusione (l'amarezza, il dolore, l'impotenza...), ancora una volta, negli occhi di sua madre...
« Ehilà, bei calzini, negretta! »
Una voce inconfondibile nella sua sfumatura derisoria.
« No, Harper, sparisci che non è aria » sospirò Roxanne, incrociando le braccia al petto ed immergendosi il viso.
« Arancioni? Ma dai! E poi a pois azzurri? Dove diavolo li hai presi?! »
« Me li ha fatti mia nonna, d'accordo? A differenza di voi bianchi, noi negri non possiamo permetterci manciate di denaro per degli stupidi calzini. E ripeto: non è aria. » rimase accucciata su se stessa con il viso nascosto tra le braccia.
« Beh, almeno abbi la decenza di nasconderli, no? O voi negri non potete nemmeno permettervi due paia di scarpe? »
Roxanne alzò il capo di scatto. « Harper! » s'illuminò.
« Hai una faccia orribile, accidenti » commentò lui guardandola dall'alto, in piedi sopra il primo scalino, precisamente davanti a lei.
« Merlino! » esclamò Roxanne tra sé e sé, senza aver minimamente udito le parole di lui. « Senti un po', dove stai andando? »
Damon le lanciò un'occhiata lunga, inarcando le sopracciglia. « A cena, no? »
« Hey » abbassò la voce e gli mimò di avvicinarsi.
Il Serpeverde, sopracciglia corrugate comprese, non si mosse, piuttosto si guardò attorno grattandosi la nuca a disagio. « Stai bene? Cioè... hai due occhi... che ti sei fumata? »
« Shh! » avvertì Roxanne alzandosi. « Non mi sono fumata nulla, idiota! » bisbigliò.
Lui la guardò scettico. « L'infermeria è a pochi passi, eh... »
La Grifondoro sbuffò e, dopo aver gettato un'occhiata di prudenza lungo le scale ed oltre il corridoio, lo prese per mano, guidandolo verso i sotterranei.
« Che diavolo fai? » sbraitò lui, dimenandosi dalla sua presa. « Sei impazzita per caso?! »
Roxanne si fermò sul primo corridoio silenzioso e, solo dopo aver appurato che era completamente deserto, parlò: « Li hai cinquanta Galeoni? »
Damon sbarrò gli occhi. « Sei in crisi d'astinenza? »
« No, idiota! » gli diede un pugno sulla spalla. « Non ho fumato nulla! Non sono una... una drogata! » Gli ridiede un altro pugno, per sottolineare l'assurdità delle sue supposizioni. « Li hai o no, cinquanta Galeoni? »
Lui si massaggiò la spalla guardandola truce. « Cinquanta? Beh... sì » fece scrollando le spalle con semplicità.
« Li hai, nel senso che li hai qui con te, nel Castello, vero? » 
Damon sbuffò, ma annuì.
Roxanne si sistemò un ciuffo dietro l'orecchio, con cura e si lisciò la gonna della divisa.
« Ecco, ti dispiacerebbe saltare la cena, per stasera? »
Piegò il capo di lato e si morse il labbro inferiore.
« Sì, mi dispiacerebbe » le sbadigliò in faccia, lui. « Ho fame. »
Roxanne alzò gli occhi al cielo e sbuffò.
« Idiota. »
Lo prese per il colletto della divisa, lo avvicinò con uno strattone e gli ficcò direttamente la lingua in bocca.




 
*



« Lucy! »
Molly corse sul prato bagnato verso le Serre di Erbologia, rischiando di scivolare più volte.
La suola delle sue scarpe, completamente infangata, le rendeva difficile ogni tentativo d'equilibrio, già soggetto all'abituale tremore delle gambe.
« Lucy! » chiamò, nel buio e nel freddo di quella sera piovosa. « Lucy, lo so che sei qui, me lo ha detto Hugo! »
Si fermò vicino alla V Serra, poggiando le mani sulle ginocchia per riprendere fiato.
Il fresco autunnale stava coagulando, quella sera, con il freddo invernale. La pioggia, fitta e celere, riuscì subito a farsi largo tra le fibre dei suoi vestiti, che - istante dopo istante - sentiva sempre più pesanti, mentre ogni goccia le si attillava, lasciandole pelle d'oca.
« Lucy! » annaspò Molly, guardando il fumo uscire dalla sua bocca, non appena il suo fiato si scontrava con l'aria. « Ti prego, vieni fuori, voglio sol- » Si bloccò non appena intravide la sorella seduta in prossimità di un cespuglio di Aquilegie, a poca distanza dalle prime Serre.
Le corse incontro, fermandosi a due passi dal cespuglio. 
« Andiamo, Lucy. » Le porse la mano. « Piove troppo forte. »
La quindicenne, però, parve non udirla, borbottava a capo chino parole indistinte, giocherellando con un fiore appassito.
Molly spostò qualche ciocca bagnata dietro l'orecchio, e s'inginocchiò a livello della sorella, sporcando le calze della divisa di fango. Protese una mano verso di lei, poiché non sembrava accorgersi della sua presenza in alcun modo, ma nello stesso istante in cui le dita di Molly vennero a contatto con la spalla di Lucy, un fulmine colpì, agile e fino, tra i pini della Foresta Proibita.
Molly trasalì, portandosi le mani al petto e, finalmente, l'altra si riscosse.
« Entriamo nel Castello, Lucy, andiamo dentro, ti prego » la scongiurò, tentando di prenderla per mano.
La ragazzina balzò in piedi, allontanandosi dalla sorella e guardandosi attorno, circospetta.
« Tu?! » la squadrò. « Che cosa vuoi? » sputò.
« No... Io non... » Scosse il capo, passandosi una mano sugli occhi. « Lucy, ti prenderai un malanno, fa troppo freddo. Andiamo dentro. »
Cercò di prenderle - ancora una volta - la mano, ma Lucy gliela schiaffeggiò via, guardandola con astio.
« Lasciaci stare! Cosa vuoi da noi? »
Molly si mise la mano nella tasca destra, estraendo un piccolo peluche, un orsetto bianco tanto minuscolo da riuscire a stare perfettamente nel suo palmo.
« Volevo farti gli auguri » soffiò sbattendo le ciglia inumidite, e non solo a causa della pioggia. Le porse il peluche. « Buon compleanno, tesoro. »
Lucy sgranò gli occhi, boccheggiando sorpresa. « Tu non... » Afferrò l'orsetto con la punta delle dita, ancora incredula e decisamente diffidente.
« Ti piace? » tentò Molly. « Sai, l'ho fatto io. Ci lavoro da quest'estate, anche se credo che l'orecchio sinistro sia venuto un po' schiacciato. » Tirò su col naso, sorridendo.
L'altra continuò a rigirarsi l'oggetto tra le mani, quasi volesse appurarne l'effettiva esistenza.
« Ho imparato l'Incantesimo Tinteggiante... se vuoi possiamo scegliere insieme il colore e... » Si avvicinò e le accarezzò una guancia. « Possiamo colorarlo insieme. »
« Sta mentendo. »
« Mi stai mentendo! »
« Non ti ha mai voluto bene. »
« Non mi vuoi bene! »
« Non vuole starti vicino. »
« Tu non vuoi starmi vicino! »
Molly sobbalzò ad ogni urlo della sorella. « Non sto... Sei mia sorella, Lucy, come potrei... »
« Mandala via. »
Le unghie di Lucy si conficcarono nel braccio che Molly teneva proteso verso la sua guancia, facendola urlare dalla sorpresa e dal dolore.
« Stai lontana da noi! » gridò spingendola da parte e iniziando a correre.
Molly la seguì chiamandola a gran voce e pregandola, a fiato corto, di aspettarla.
Dovette fermarsi più di una volta costretta da dolore e dal tremore che, indipendentemente dal freddo o dalla pioggia, si erano sparsi dalle ginocchia alle caviglie e - perfino - ai polsi.
Quando raggiunse la Sala d'Ingresso, cadde sulle ginocchia, bagnando e sporcando il pavimento - prima pulito e lucido - di fango.
« Lucy, ti prego » pianse. « Non stai bene, non... non sei in te... »
« No! Stai zitta! Non sono io quella malata! »
Le labbra violacee di Molly vibrarono ed i denti sbatterono tra loro, impedendole di parlare. 
Strizzò gli occhi non appena una fitta nervosa le trafisse la tempia sinistra, facendole lacrimare gli occhi dal dolore.
 « Non ho pre-so la poz-pozione. » Sbarrò gli occhi dall'orrore, mentre ansimava.
Le fitte aumentarono, in intensità e in numero, fino a sovrapporsi, tra loro e su di lei. 
I lamenti strozzati di Molly fecero vibrare la sonorità silenziosa del corridoio, spargendosi gradualmente, ma rimanendo comunque deboli.
« Lu-cy... a-iu-ta-mi. »
La ragazzina le si avvicinò, piegando il capo di lato e guardandola senza batter ciglio. 
« Vuoi che ti aiuti, Molly? »
« Vuoi che ti aiuti, Molly? »
La sorella la guardò dal basso, inginocchiata, con occhi lucidi e rossi - tutta scossa dal tremore.
« Dov'eri tu quando io avevo bisogno del tuo aiuto? »
« Dov'eri tu quando io avevo bisogno del tuo aiuto? »
Il petto della diciassettenne fece tre stazioni, tre pause, prima di espirare.
« Ti pre-go. » 
Lucy socchiuse gli occhi, ma non disse nulla.
« Andiamocene. »
Diede la mano a Luke e, voltando le spalle alla sorella ancora accasciata, s'incamminò verso la parte opposta del corridoio.

Solitamente si sente parlare di Fantasmi del Passato.
Fantasmi che infestano stanze, dimore, villaggi.
Fantasmi che infestano passi, sogni, pensieri.
Fantasmi che infestano persone.
Reduci del passato, tormenti del presente e consumatori del futuro: Tempo.

 
Tik-tok tik-tok tik-tok...

Ci sono due eccezioni nel nostro caso, però:
Luke non era frutto di un avvenimento passato, era una reazione - uguale e contraria - di tutto ciò che non era avvenuto nel passato.
E, beh, non era un fantasma.



 
*



Adam Zabini era davanti all'infermeria. 
Schiena dritta, sguardo concentrato e sopracciglia corrugate.
Prese un paio di respiri, forzando la loro intensità e mise la mano sulla maniglia della porta.
« Forza, Adam. Non fare il coglione » s'incoraggiò. « Devi solo aprire la porta. Dopodiché basta... »
Sospirò, imprecando sottovoce.
Per un attimo guardò male la porta dell'infermeria, come se fosse lei ad impedirgli di aprirla, poi incrociò le braccia al petto, indeciso.
« D'accordo » annuì tra sé e sé. « Torno dopo cena. »
Si mise le mani in tasca, lanciando un ultima occhiata alla maniglia, ma dirigendosi risolutamente verso la Sala Grande.
Dalla Sala Grande giungeva un sovraffollamento di voci e di tintinni di posate, anche a distanza di due corridoi. 
Si mise le mani in tasca, camminando per il corridoio principale del piano terra e maledicendo Damon per avergli dato buca ed essere improvvisamente sparito dalla circolazione.
« A-iu-to. »
Sobbalzò sul posto, guardandosi attorno circospetto.
Che fossero di nuovo quei Mangiamorte, o chi per loro...? Perché in tal caso - si disse - se la sarebbe data a gambe senza esitazioni.
« A-a-iu-t-to. »
Per quanto chiaramente addolorata, la voce - femminile, constatò - suonava piuttosto debole, ed era certo che provenisse dalla Sala d'Ingresso.
Tirò fuori la bacchetta, facendosi guardingo.
« Chi sei? » domandò girando alla sua destra ed avvicinandosi all'Atrio.
« Ti pre-go, a-a-a-iu... »
Ciò che vide, svoltando sull'angolo, fu una ragazza - coi vestiti bagnati e sporchi di fango - accasciata sul pavimento, tremante.
Non ci pensò due volte ad avvicinarsi a lei, ma non mise via la bacchetta. 
« Cos'è successo? Cos'hai? » 
Le mise un braccio attorno alle spalle, cercando di alzarla un poco.
« L'infermeria è vicina, se riesci ad alzarti... »
La ragazza, che teneva gli occhi strizzati dal dolore - scosse il capo decisa. « No. No-n l'in-fer-me-ria. »
« D'accordo. » Annuì per rassicurarla.
Le spostò qualche ciocca dal viso, scoprendolo pallido.
« Al-bus » soffiò lei. « Pot-ter. »
« Ehm... » Esitò, guardandosi attorno e passandosi una mano sulla frangia, per spostarla dalla fronte.
« Po-zio-ni » spiegò allora Molly. « Aul-a di Po-zio-ni. »
Adam la guardò, incerto. 
« Ti pr-ego. » 
Annuì e rimise la bacchetta nella tasca interna della divisa. 
Dunque, si alzò prendendola in braccio e, guardandosi attorno un'altra volta, rifece il corridoio principale, diretto ai Sotterranei.


Sudato e stremato, raggiunse l'Aula di Pozioni, aprendone la porta con una spinta forzata.
« Sei in ritardo, Mol... Che diavolo è successo? »
Gli occhi di Albus si sgranarono, mentre si allontanava da un calderone e correva loro incontro.
« Mettiamola su quella panca! » suggerì, indicandone una a qualche passo da loro.
La poggiarono il più delicatamente possibile sulla superficie dura della panca di legno. 
Albus lasciò che Adam la sistemasse e si allontanò subito verso il calderone su cui stava lavorando prima che arrivassero.
« Che fai? Non... non dovremmo portarla al S. Mungo? » fece Adam titubante. « Insomma... Io non ne so nulla, ma lo vedo ad occhio che sta male... »
Albus per tutta risposta scosse il capo, sorridendo mesto alla sua affermazione.
Così, mentre si toglieva la felpa per metterla sotto il capo di Molly, Zabini non poté non gettare un'occhiata risentita al compagno di Casa.
« Io non pretendo di sapere cosa è meglio per lei, ma... » Strinse le labbra, mentre cercava d'incrociare lo sguardo del Potter. « Dobbiamo fare qualcosa. »
« E cosa ti pare che stia facendo io? » sbottò infastidito l'altro, indicando il calderone.
« Beh, qualunque cosa sia, falla in fretta. »
Molly era sdraiata a pancia in su ed aveva gli occhi aperti sul soffitto, fermi, ma assenti; non erano più lucidi, ora, solo un poco rossi. 
Respirava. Debolmente, come se inspirasse solo l'ossigeno strettamente necessario, ma intanto respirava. Persino il tremore si era fatto più controllato, quasi spento.
Prese la bacchetta e provò un paio di volte l'incantesimo per asciugarle i vestiti e i capelli e borbottò anche un « Tergeo! » per pulirle le calze e le mani dal fango.
S'inginocchiò a livello della panca e le prese una mano tra le sue, tenendo due dita sotto il lato sensibile del polso.
« Tienila sveglia! » raccomandò Albus. « Non lasciare che... si addormenti. »
« E cosa dovrei fare? »
« Che ne so? Canta, balla, salta, basta che lei non svenga. »
« Bene. » Annuì riflettendo sul da farsi. « Okay. »
Guardò la ragazza 
« Ehm... qual è il tuo colore preferito? » tentò.
Quando gli fu chiaro che la ragazza non avrebbe risposto, decise di optare per un monologo reciproco-produttivo. 
« Il mio è l'azzurro! Mi piace. È... okay. » Scrollò le spalle. « Ma solo quello color spiaggia delle Hawaii, presente? No? Beh, in realtà non sono mai stato nemmeno io... » 
Albus gli fece segno di continuare a parlare ed Adam annuì, tenendo strette le mani di Molly tra le sue.
« Non l'ho mai detto a nessuno, ma quand'ero al terzo anno ho preso un Troll in Trasfigurazione. Faccio schifo in quella materia. E il professore mi odia, ovviamente. Perché è calvo. E io ho dei bei capelli. È invidioso, capisci? »
Le palpebre di Molly iniziarono ad appesantirsi ed Adam scattò allarmato sul posto.
« No, no, no! Non ti addormentare, d'accordo? Non lo fare. È una cosa brutta, una cosa cattiva. Non dormire. » 
Sospirò pensieroso, cercando qualcos'altro da dire.
« Io ho paura dei piccioni » ammise, guardandola. « Sono dei sabotatori. Conquisteranno il mondo babbano, un giorno, vedrai. E i babbani sono così idioti. Pensa che non fanno nulla per le persone che muoiono di fame! Dicono che stanno ancora cercando un modo per aiutarli... » Le lanciò un'occhiata scettica, d'intesa. « Da settant'anni. Mentre la gente continua a morire. Bah. » Scosse la testa, indignato. « Non sarebbe male dopotutto se quei piccioni conquistassero il loro mondo. Se lo meriterebbero. Tuo cugino, quello con gli occhi color spiaggia delle Hawaii, sarebbe d'accordo, fidati. Se diventassi Ministro della Magia aizzerei tutti i piccioni contro i politici babbani, invaderei le industrie e farei portare del buon cibo sano alle persone che ne hanno bisogno! Sì, è un'idea geniale! E poi licenzierei il professore di Trasfigurazione, naturalmente... Avrei preferito la McGranitt, sai? È una tosta lei. Una... figa. »
Albus spuntò improvvisamente al suo fianco.
« Adam, levati! »
Non se lo fece ripetere due volte. Si spostò dalla parte opposta della panca guardando il Potter alzare il capo della ragazza per aiutarla ad ingerire la pozione nel calice.
In un batter d'occhio, con enorme sorpresa di Adam, Molly balzò a sedere, improvvisamente sveglia e attiva.
Albus si allontanò subito, con il calice in mano e il volto corrucciato, verso il calderone su cui stava lavorando, facendo Evanescere - con un agile e secco colpo di bacchetta - la pozione e mettendo via gli ingredienti.
« Albus, mi dispiace » sospirò la voce roca di Molly. 
Il cugino si voltò a fronteggiarla con la mascella serrata.
« È l'ultima volta. »
« Al, com... »
« No » la interruppe lui, alzando una mano. « È un veleno, okay? Potrà far passare il dolore, ma non è solo una pozione illegale: è un veleno! » fece indicando il calderone, ormai vuoto.
« La pozione Rivitalizzante di Madama Chips non funziona! » pianse Molly. « Non più. »
Adam alternò lo sguardo tra i due, sconcertato e decisamente confuso, ma non osò intromettersi.
« Non dovrebbe funzionare, infatti! Nulla dovrebbe più funzionare! » gridò Albus. « È così e basta! »
Molly si coprì il viso con le mani, scuotendo il capo, e Adam - anche se non aveva la minima idea di cosa stessero parlando - non poté non gettare un'occhiata di rimprovero ad Albus.
« Quel dannato veleno ti ucciderà prima che lo faccia quella merda nel tuo cervello. »
Raccolse la sua tracolla ancora colma di libri e si fermò davanti a Molly.
« L'accordo era per otto settimane. Ne sono passate dodici. E io non ho nessuna intenzione di continuare ad avvelenarti. »
Si diresse verso la porta dell'aula ed uscì in silenzio, senza salutare nessuno.
Adam si permise di sospirare senza preoccuparsi di non farsi sentire. Non era proprio stanchezza, più che altro - ciò che lo innervosiva un poco, ma lo frustrava decisamente molto - era il non capirci un bel niente in tutta quella situazione. Il che lo faceva sentire anche tremendamente stupido.
« Sei quello che ha accompagnato Louis in infermeria stamattina, giusto? »
Molly aveva ripreso un colorito più stabile ed uniforme, perdendo il pallore; persino le vene e i capillari - che poco prima erano più nitidi e sporgenti sulle tempie - ora erano quasi invisibili, sotto la pelle; gli occhi erano ugualmente rossi e lucidi, ma svegli e concentrati.
« Come? »
« Louis... » Sorrise, lanciandogli un'occhiata divertita. « Il Weasley-occhi-color-spiaggia-delle-Hawaii. »
« Oh. » Arrossì Adam. « Eh... Devo aver il dono d'incontrare Weasley svenuti in mezzo ai corridoio » fece, sorridendo con cautela.
Molly si alzò senza smettere di sorridere, a sua volta.
« Grazie, sai. » Piegò il capo di lato, guardandolo.
« Niente! Figurati! » Balzò in piedi anche lui. « Comunque io sono Ad... »
« Adam Zabini » ridacchiò lei. « Sei famoso in famiglia. » Gli fece l'occhiolino, sorridendo affettuosa.
Il Serpeverde inarcò le sopracciglia, sorpreso. « Io? Davvero? »
Molly annuì, stringendo le labbra con fare misterioso. Gli sorrise ancora e si avvicinò alla porta. « Devo andare. Sai, è tardi. »
« Sì, giusto! » Saltò su lui. « Certo! Ci vediamo! »
Molly lo salutò con la mano ed uscì lasciando la porta aperta alle spalle.

Aspettò fermo e in silenzio almeno cinque minuti, per assicurarsi che la ragazza si fosse allontanata, poi si alzò e chiuse, attento, la porta dell'aula.
Corse verso la sua tracolla, che prima aveva abbandonato vicino alla panca, e l'aprì estraendo un piccolo libretto dalla rilegatura rossa, marchiato "Diario di Louis Weasley" e lo aprì.
Tenne il segno della pagina fino alla quale era arrivato con la lettura, piegandone il bordo, poi iniziò a sfogliare il diario qualche pagina più avanti.
Si fermò un paio di volte, ma non trovò nulla di ciò che cercava ed andò ancora avanti, fino a quando un nome catturò la sua attenzione, così risalì con lo sguardo qualche riga più in alto per riprendere il capoverso.

  Non so precisamente cosa sia successo, nemmeno io che ero con loro. Era in piedi. E poi è caduta. Non è svenuta, è solo caduta, improvvisamente. Non riusciva più a reggersi in piedi. Sembra strano, ma non riusciva proprio a camminare, come se ne avesse perso la capacità. Gli zii, adesso, le hanno vietato di uscire in giardino, miseriaccia! E la caccia agli gnomi senza Molly non è divertente, perché ora non sono più in squadra con Freddie e...

Si fermò e riprese a sfogliare, fermandosi poco dopo, questa volta.

  Sono salito in camera a scrivere perché l'intero divano è sporco di sangue e giù in salotto le zie e la nonna stanno pulendo. Insomma, è la quinta volta in due giorni che Molly perde sangue dal naso! Comincio a credere sul serio ai Gorgosprizzi di cui parlava Lorc...

Sbuffò impaziente andando ancora avanti di qualche pagina.

  Credo che non mangerò nulla per una settimana. Molly mi ha vomitato addosso. È disgustoso, mannaggia a Merlino! Cioè, in realtà eravamo a tavola, quindi ha vomitato più o meno su tutti, ma io le ero proprio davanti! Mi sono fatto il bagno tre volte, sai, ma fa comunque...

Saltò un'altra decina di pagine e fece per saltarne ancora finché non ne notò una, la cui grafia aveva un'andatura più frenetica e meno ordinata delle altre.

  Caro Adam,
Ieri notte gli zii hanno portato Molly al S. Mungo. Non so cosa sia successo, nessuno lo sa, semplicemente quando ci siamo svegliati, loro non c'erano. 
Per tutta la mattina, gli zii e i nonni, non hanno fatto altro che fare i misteriosi e si sono rinchiusi in salotto a discutere - da quanto abbiamo capito io, Freddie e Jamie, grazie alle Orecchie Oblunghe - su dove sarebbe rimasta Lucy.

Sono saltate fuori frasi del tipo:
« Audrey, non la vuole nemmeno vedere! »
« Beh, con quello che succede a Molly sarebbe meglio per tutti allontanare la piccola Lucinda. »
« Credo che la decisione spetti a loro... »
E, beh, nonna Molly che litigava e lottava contro tutti per tenerla con sé.
Mi sentivo decisamente stordito, stamattina. Non capivo perché Lucy avrebbe dovuto vivere con la nonna, o per zia Audrey ce l'avesse tanto con lei. E né io, né Freddie, né Jamie ci avevamo capito nulla.
Il pomeriggio la nonna ci ha accompagnati a trovare Molly, ha detto che sarebbe rimasta ricoverata ancora per qualche giorno e che voleva che le facessimo un poco compagnia, in modo che non si sentisse sola.
Veramente quando siamo arrivati, lei dormiva, perciò, mentre la nonna era improvvisamente sparita dalla circolazione, noi non abbiamo fatto altro che annoiarci.
È tremendo quel posto, sai, l'Ospedale. Non si può parlare, scherzare, ridere, giocare o divertirsi in nessun modo. È come se facendolo si offende le persone che stanno male. È tutto così triste ed infelice! Infermieri, Guaritori e Pazienti non fanno altro che sorridersi come se fosse l'ultima volta che si sarebbero visti, con dei sorrisi-addio che non si potevano ricambiare.
Ti ho già detto ci stavamo annoiando? Beh, sai cosa vuol dire, quando Freddie e Jamie si annoiano? Vuol dire che si fanno venire in mente un'idea per non annoiarsi. Il che significa guai.
James ha tirato fuori il mantello.
L'obiettivo era quello di andare a zonzo per il piano Ricoveri, almeno fino a quando non abbiamo sentito le urla di zia Audrey venire fuori da una stanza e... indovina? Fred ha tirato fuori le Orecchie Oblunghe.
Nascosti sotto il mantello, ci siamo inginocchiati, nell'angolo tra due corridoi ed abbiamo iniziato ad origliare la conversazione.

« Come sarebbe a dire che è tutto quello che potete fare?! » urlava la zia. 
« La Magi-chemioterapia può allungare i tempi, certo, signora. Può ridurre i rischi, senza presentarne altri ed evitare una serie si conseguenze ed effetti fisici, come capita nella maggior parte dei casi babbani; ma non possiamo curare il tumore, questo no. » Doveva essere il Guaritore, senza dubbio.
« Non potete curare mia figlia?! » sbraitava la zia. « Dannazione, sono un'inutile babbana, ma voi siete maghi! Voi fate magie! Voi siete in grado di risolvere tutto con un colpo di bacchetta! »
C'è stato un lungo silenzio, in cui non ho avuto il coraggio di guardare nessuno dei miei cugini.
Zio Percy e la nonna hanno tentato di calmare la zia costringendola a sedersi.

« Quindi è questo quello che crede. Che una bacchetta sia in grado di spostare, modificare o rimuovere parti del cervello umano? E, mi dica, secondo lei, se noi maghi siamo capaci di risolvere tutto con le nostre magie, e quindi anche curare tutte le malattie, perché non curiamo anche voi babbani...? »
« Beh, per non essere scoperti! » gli ha gridato di rimando la zia.
« Ci crede davvero così miserabili? Non ha pensato che potremmo... come dire? Curarli e confonderli? Guarire le loro, in quanto lei sia babbana, mi permetto, le vostre malattie e fari subito dimenticare di averle avute? »
Zia Audrey non rispondeva più, perché il Guaritore, dopo un breve silenzio, ha ricominciato.
« Sono diplomato con il massimo dei voti, Guaritore da trenta anni e presso questo piano da venticinque. Ho vinto l'Ordine di Merlino, Terza classe, per aver scoperto il tredicesimo uso del sangue di drago, e ho avuto un Riconoscimento Magico Internazionale per aver scoperto la Pozione Anti-Anoressia. In tutti questi splendidi - scusi la sincerità poco modesta - anni di carriera, secondo lei, non ho mai pensato di togliere questi occhiali e risolvere la mia miopia con ‘un colpo di bacchetta'? Signora, esistono magie in grado di toccare solamente la memoria esterna dell'uomo. Esistono Maledizioni capaci di controllare le azioni dell'uomo, ma attraverso i suoi sensi, il suo volere, il suo essere, in quanto tale. Questi 'colpi di bacchetta' in rado di curare ogni tipo di malattia, di cui parla lei, non sono magie, sono miracoli. »
I singhiozzi della zia erano perfettamente udibili anche senza le orecchie oblunghe.
Siamo rimasti tutti e tre in silenzio, fino a quando la voce dello zio Percy non ha fatto sobbalzare tutti.

« Quanto tempo ha mia figlia? »
Non ho mai sentito la risposta del Guaritore, James ha semplicemente strappato via le Orecchie Oblunghe a tutti e tre, e ci siamo allontanati di corsa nella stanza di Molly.
Quando siamo entrati, Jamie ha chiuso la porta e si è fermato guardandoci.

« Quel Guaritore è un idiota! Forse io ho trovato il modo per aiutare Molls! Se è il tempo ad essere il problema, noi potremmo fermarlo! »
È stata un'idea geniale!
Lui è stato di guardia alla porta e io e Freddie abbiamo fermato l'orologio appeso davanti al letto.
Per poco la nonna non ci ha beccati, ma quando siamo tornati alla Tana, abbiamo fermato tutti gli orologi!
Non siamo riusciti a fare nulla per quello dei nonni, nel salotto. Ci vuole un qualche incantesimo strano e nessuno di noi tre ha ancora la bacchetta.
Lì la freccia di Molly è puntata su "Pericolo".
Ma tutti gli altri orologi sono fermi e il tempo non riuscirà a passare, ne sono certo.
E Molly vivrà per sempre.

 
Sempre tuo,
Louis.


Adam sospirò e chiuse gli occhi.
Si sedette per terra, poggiando la schiena sulla panca e stringendo il diario tra le mani, mentre nella testa rimbombavano le ultime parole.

Il punto è che anche un orologio fermo segna l'ora esatta due volte al giorno.

 
Tik-tok tik-tok tik-tok...




 
*



Molly borbottò la parola d'ordine alla Signora Grassa e superò il buco del ritratto.
La Sala Comune Grifondoro era affollata, e dopo cena, anche particolarmente rumorosa.
« Molly! » la chiamò Liam, alzandosi dalla poltrona sulla quale era comodamente agiato, prima che lei entrasse. « Eccoti! »
Aprì le braccia e Molly non esitò a tuffarvici, lasciandosi stringere.
« Cosa... » Si schiarì la gola ed abbassò la voce. « Cosa ha detto Madama Chips? » sussurrò.
Molly rimase stretta al suo petto, per non dover guardarlo negli occhi. 
« Ha detto che va tutto bene. Come sempre. Tutto... bene » mentì.

 
« Mi dispiace, Signorina. Credo che dovremo sospendere i controlli. »
« Sospenderli? È da sette anni che... »
L'infermiera scosse il capo. 
«Temo che non ci sia più nulla da controllare. Abbiamo fatto tutto quello che potevamo. Ormai è solo una questione di
tempo. »

Sentì il sorriso di Liam premerle sulla guancia e sorrise di riflesso.
« Lo sapevo! » 
Lui ridacchiò vicino al suo orecchio e il petto di Molly si alleggerì.
« Hai cenato? »
La guardò assottigliando lo sguardo.
« Certo! » mentì ancora lei, abbassando lo sguardo. « Allora? Mi accompagni in camera? Sono stanchissima... »
Liam annuì e le passò un braccio attorno alle spalle.
Mentre si avviavano verso le scale a chiocciola dei dormitori femminili, Molly gettò un'occhiata lungo i divanetti e le poltrone vicino al camino. Trovò Lily, Hugo e Josh Thomas a cercare di sperimentare dei dolcetti - certamente marcati Tiri Vispi Weasley - su un paio di primini; James, invece, sul divano centrale stava facendo il solletico ad Evelyn Black, sotto lo sguardo infastidito di Dominique; cercò Lucy tra gli studenti del quinto anno, ma non trovò traccia, così si lasciò cullare dal braccio di Liam e salì le scale.
Quando giunsero davanti alla porta, Liam tirò fuori dalla sua tracolla alcune pergamene gliele porse.
« Céline ti manda gli appunti di Antiche Rune e ti saluta. »
« Oh. » Prese in mano le pergamene. « Grazie. »
Lui si lasciò sfuggire un sorriso sciolto che sembrava aver cercato di trattenere; lo faceva spesso.
Molly si alzò in piedi e lo baciò, per sentire quel suo sorriso sulle labbra.
Chiuse gli occhi, lasciandosi andare tra le sue braccia.
« Vuoi... vuoi rimanere? »
Liam la guardò, incerto, allontanandosi un poco dalle sue labbra, ma senza smettere di stringerla.
« Sei stanca » sospirò. « Hai bisogno di riposare. »
Le posò un bacio sulla fronte e - Molly non lo vide - strinse i pugni.
« Domani ti passo a prendere, prima di colazione. »
Le lasciò un altro bacio, prima di allontanarsi un poco. 
« Buonanotte, amore. »
« Sogni d'oro, bellissima. » 

Dopo essersi chiusa la porta del suo dormitorio personale alle spalle, la prima cosa che fece Molly fu inginocchiarsi ai piedi del letto.
Intrecciò le dita delle mani, sulle quali poggiò il mento e chiuse gli occhi.
Pianse.
Molly piangeva tutte le sera e forse era proprio questa la sua preghiera: lasciare le lacrime consumassero le sue guance, si trascinassero le sue ciglia e le finissero salate e grondanti in bocca, facendosi largo tra le parole che scongiurava tutte le sere.
« Ti prego, solo un altro giorno. »

 
Tik-tok tik-tok tik-tok...


 
“Inutilmente invoco qualche istante di tregua:
m’evita il tempo e fugge:
mentre chiedo alla notte: ‘Ti prego, sii più lenta’,
l’aurora la dirada.”


-Alphonse de Lamartine 
 









 
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Capitolo 7
*** VII. Le voci della natura ***



 
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VII.
Le voci della natura
 

Nei suoi primi anni di vita ogni essere umano si interroga sull’espressività della natura: sul perché essa non sia in grado di parlare
Così, nella sua infantile curiosità inizia a cercar d’interpretare i versi degli animali, prima di cominciare a vederli solamente come numerate bestie da macello; fantastica sulla forma delle nuvole, prima di apprenderle come un agglomerato aeriforme di acqua rarefatta; cerca di sentire i fiori, prima di dare loro simboli ordinari e semplificarne la personificazione.
Cresciuto e maturato, l’uomo, sazio di valori e significati che ormai hanno solidificato i suoi sensi, non solo smette d’interrogarsi, ma anche di percepire. Eppure la natura non ha mai smesso di rispondergli: gli animali mai hanno smesso di  accompagnarlo, i frutti mai hanno smesso di nutrirlo, le nuvole mai si sono stancate di distrarlo e i fiori mai di consolarlo.
Gli unici momenti in cui gli uomini esitano e, finalmente, le prestano attenzione sono quelli in cui la natura già si è sacrificata per loro: quando le nuvole cedono e il cielo piange, i frutti, amareggiati, marciscono e i fiori, impietositi, appassiscono.


§§§


 
“Just gonna stand there and watch me burn, but that’s alright because I like the way it hurts.”
Eminem


Amelia allungò le mani verso il camino. Le fiamme verdi si protesero verso di lei, cedendo parte del loro calore e sgelando gradualmente prima le dita, poi i palmi. 
Si mise in ginocchio e, abbandonando il libro di Incantesimi sul tappeto verde, prolungò maggiormente le braccia – impulsivamente e senza accorgersene. Chiuse gli occhi e lasciò le mani ancora esposte, per sentire quel fuoco che iniziava riscaldandola, approfondire il contatto intensificandosi: lasciò che la vicinanza alle vampe, in un primo momento, la scottasse, la bruciasse quasi.
Percepì attenuatamente lo smalto rosso sulle unghie corrodersi e regredire fluidificato, e la pelle sulla punta delle dita - quella a stretto contatto con il calore - rosolare quasi, mentre la cute si consumava e i palmi prima sudavano, poi lentamente scottavano, allarmati. 
« Amelia. » La voce di Denise giunse in capo alle scale del dormitorio, infastidendo la maggior parte degli studenti nella Sala Comune. Amelia sobbalzò, trasalendo, e percepito finalmente l’impulso naturale ed insistente, con uno scatto lesto ritirò le mani dal camino.
Si ridestò, guardandosi attorno allarmata, ma nessuno pareva essersi accorto di lei. Nessuno si accorgeva mai di lei. 
Dunque si alzò, alternando l’equilibrio - o la sua mancanza - tra una gamba e l’altra; si protese per raccogliere la tracolla imbottita di libri, quando la pelle della mano destra scivolò su se stessa, squarciandosi dalla carne; ma la ragazzina, apatica, si portò ugualmente la borsa alla spalla con fare passivo, senza avvertire alcuna dolenza. 
Superò le poltrone argentate sulla destra e i divanetti verdi sulla sinistra, andando incontro alla migliore amica.
Denise inciampò un paio di volte prima di concludere le scale marmoree con l’ultimo gradino. Si blocco davanti alla Nott, ma non si concedette il tempo di riprendere fiato. « Amelia: Derek! » strillò.
« Derek? »
« E Weasley... sì, lui!  Non pensavo che avrebbe reagito cos- » Le ginocchia della piccola ragazzina fremettero irrequieti e timorosi sul posto. « Am, è tuo fratello! Doveva saperlo! » 
« Non l’hai fatto…! » deplorò la gola ustionata di Amelia. « Ti prego, dimmi che non glielo hai detto! »
Lungo le scale riecheggiò uno schianto prepotente, alla violenza del quale entrambe le quattordicenni sobbalzarono. Amelia protese lo sguardo oltre i freddi scalini, per riabbassarlo su quello colpevole e ammettente di Denise; ma lo schianto si susseguì in un altro colpo e la piccola Nott spinse da parte l’amica salendo a lunghi passi le scale - incurante della tracolla, che scivolò pesante dalle sue spalle rotolandosi nelle scale.
La prima cosa che vide - conseguito l’ultimo scalino - fu un’energica luce rossa che la costrinse a regredire, ma una volta affievolitosi l’incantesimo disarmante poté focalizzare la bacchetta di Fred Weasley puntata contro la parte opposta del corridoio, dove subito intravide il fratello rispondere con una Fattura; tuttavia, qualcuno la tirò da parte perché, in un istante, il suo punto di vista cambiò in un’inquadratura laterale e non più frontale.
« Amelia! » 
 « Katie? »
« Amelia! » strepitò Katie con voce acuta. « Amelia, le tue mani! Cosa hai fatto alle tue…? »
La Nott scosse il capo, infastidita dall’irruenza severa e inquietata della Bones. Si guardò attorno, notando Damon Harper, alla sua sinistra, cercare di trattenere i continui tentativi d’intervento di Roxanne Weasley nel duello tra i due.
« Amelia, mi senti? Cosa hai fatto alle man…? »
Le parole di Katie si attenuarono gradualmente, spegnendosi nelle orecchie della ragazzina, mentre gli occhi ardenti seguivano l’incantesimo proibito del fratello che - dopo aver trattenuto il respiro - riuscì a vedere Fred parare, all’ultimo istante. Derek pareva aver perso il controllo: i suoi incantesimi miravano a ferire, addolorare e schiantare l’avversario, mentre quest’ultimo si concedeva solo di pararli e sostituirli con un incantesimo disarmante.
« Che diavolo sta succedendo? » Albus Potter spinse con poco garbo un gruppetto curioso di primini, facendosi largo.
Fred si voltò verso il cugino, Amelia lo vide aprir bocca e dire qualcosa, prima di notare un lampo blu attraversare il corridoio.
« No! » 
In un istante sospeso ed apatico, una deleteria forza spezzò lo spazio del corridoio frammentandone l’aria in diversi respiri trattenuti, grida dilanianti e sussulti troncati, mentre Fred Weasley veniva scagliato indietro dall’irruente Sectumsempra di Derek Nott.


 
*

 
“To wish you were someone else, is to waste the person you are”
Drake

« Ma io mi annoio! »
« Fred, sei ancora debole. Non ti farà mai uscire. »
« Uff! Ma ci sono gli allenamenti! E tra una settimana abbiamo la partita! »
« Hai sentito Madama Chips: resterai qui almeno fino a domani. »
« Ma Louis! »
Molly guardava i cugini – il primo polemizzare e il secondo dibattere – seduta sul letto di fronte.
L’infermeria era detersa del solito pulito limpido ed immacolato, quel pulito troppo pulito; il fetore di disinfettante era aguzzo e s’infiltrava offensivo nelle narici infastidendo l’olfatto; i copriletto, le tende, i comodini si neutralizzavano a vicenda con colori privi di espressione o significato, spogli di qualsiasi vitalità. Solo una striscia di vernice verde - mediana tra due altre fasce di tintura bianca - si sottraeva all’inerzia della stanza, altrettanto monotona per chi speranza non necessitava di domandare e fin troppo sufficiente per i privi a cui, però, speranza taceva.
Invero, Fred non si era nemmeno accorto di quella riga verde di vernice, neppure aveva badato all’insulso arredamento: voleva solamente uscire; Molly, invece, mai si era stancata di pedinare con lo sguardo quella misera e sarcastica striscia, nonostante se la ritrovasse attorno quasi tutti i giorni, nemmeno dopo sette anni nel Castello.
Si distrasse dai suoi pensieri solo quando la stretta di Liam – sulla mano sinistra – si sciolse e ricongiunse, per attirare la sua attenzione.
Si voltò verso di lui, sorridendo e avvicinandosi a posargli un bacio sulla labbra che costrinse anche il ragazzo a sorridere a sua volta.
« Smettetela! » sbottò Fred, fintamente seccato in direzione della cugina e del suo fidanzato.
« Controllo giornaliero? » chiese Louis a Molly, avvicinandosi al suo letto.
La ragazza annuì flebilmente con il capo, mentre il cugino le accarezzava una ciocca di capelli, che, morbida e debole, scivolò tra le sue dita.
Liam Baston circondò le spalle della ragazza con il braccio sinistro, intercettando lo sguardo di Louis e ricambiandolo con un cenno ed un sorriso incoraggiante.
« Ci vediamo dopo a lezione, d’accordo? »
« Certo » annuì Molly mentre Liam le portava un ciuffo castano dietro l’orecchio.
Louis raccolse la sua tracolla, ingombra di grossi tomi, e se la mise sulla spalla, uscendo dalla stanza di riposo dell’infermeria con un ultimo occhiolino d’intendimento - teoricamente indirizzato sia a Liam Baston che a Fred - ma che colse solamente il fidanzato della cugina.
Automaticamente, una volta chiusa la porta dietro, emise un sospiro. Non sapeva nemmeno lui se di sollievo, angoscia, tregua o ansia – o tutte queste assieme. 
Aveva un’ora buca prima della lezione pomeridiana di Pozioni, perciò decise di andare a cercare James in Sala Comune.
Il corridoio principale era privo di luce, non buio o cupo, solo povero di lume. Storse il naso contrariato: i corridoi del piano terra avevano tutte le finestre serrate, le porte sbarrate, per non parlare del portone principale interamente sprangato… come a ricordare che c’era bisogno di protezione, che fuori c’era ancora qualcosa da cui difendersi…
Arricciò le labbra, infastidito, in un gesto di dissenso, e svoltò in un secondo corridoio le cui finestre erano grandi e ampie, ma ancor più serrate e claustrofobiche delle precedenti. 
Aveva giusto notato un florilegio di foglie selvatiche in basso ad una finestra sbarrata e appena dedotto dall’odore nauseabondo che i frutti, a causa della poca luce, stavano marcendo, che dei passi calcati e stridenti con pavimento, lo distrassero. 
« Guardate un po’ qui! Caposcuola Weasley! Qual buon vento? » Colton Hawk sputò un ingombro di saliva sull’angolo appena svoltato. Alle sue spalle i gemelli Haynes sbucarono con lo stesso sorriso beffardo e gli stessi occhi infetti.
« Hawk, il castello non è di tua proprietà. E purtroppo non ti è concesso inquinarlo con la tua personale soluzione salivare » forzò Louis sull’attenti, ma facendo comunque un passo indietro verso gli accumuli di erba secca e frutti marci ai piedi della finestra sbarrata.
« E cosa vorresti fare? Togliermi punti, di nuovo? »
« La Casa di Corvonero ha perso abbastanza punti a causa tua. Per ora sei solo pregato di tenere le tue amilasi salivari per te e in vista di eventuali carboidrati. »
« Ma guardatelo, il frocietto, vuole fare il simpatico… » Hawk scavalcò la metà della distanza che tutelava Louis, con i due Haynes alle calcagna. « A noi, però, stai antipatico. » Il tono – certamente derisorio – si era fatto fintamente serio.
Il Grifondoro indietreggiò ancora. « Beh, ne sono addolorato, ma se le cose stanno così… perché cambiarle? »
« Sei solo, carino? Nessun Potter o Weasley di guardia? » Si era intromesso il gemello Haynes sulla destra.
« Io sono un Weasley. »
« Sì, ma tu sei un finocchio, stronzo. E i finocchi non contano. » Era stato Hawk a riprendere parola, causando un forte attacco d’ilarità nei gemelli, che seppe solo comprimere lo stomaco a Louis. « Che c’è? Tutto qui? Non dici nulla? Nessuna penosa parte in cui neghi pateticamente di non esserlo? Così non c’è gusto! »
« Non devo rispondere di nulla a te, Hawk. »
« Peccato. » Il Corvonero avanzò, fermandosi di fronte a Louis. Tacque, per un momento, osservando le sopracciglia bionde del Grifondoro corrugarsi per la concentrazione; gli occhi compressi sui suoi, mentre il loro azzurro paradisiaco si pressava aumentando intensità; le labbra rosse si contraevano per l’offesa. « Peccato. » ripeté Hawk.
Uno dei due Haynes – Louis non poté appurare quale – si fece avanti. « Hai sempre quella faccia fottuta, Weasley, o è solo perché sei abituato a prenderlo in culo? »
« Faccio questa faccia tutte le volte che mi ritrovo davanti fallimenti della natura » asserì con disgusto.
« Il più grande fallimento della natura sei tu: tu sei il ricchione, qui! » stroncò Haynes a due centimetri dalla sua faccia.
Louis non si trattenne, non seppe farlo, ma in un istante cercò di riprodurre quel disgusto che aveva davanti e tutto ciò che fece, fu l’errore di sputare in faccia al ragazzo.
« Questo non avresti dovuto farlo, Weasley! » Udì queste parole solo dopo essersi ritrovato sbattuto contro il muro e nel mentre un pugno sulla sinistra comprimeva i suoi polmoni, mozzandogli il respiro.
Chiuse gli occhi, convinto che gli sarebbe stato concesso anche solo un attimo per riprendersi, ma così non fu: un incantesimo aveva già congelato i suoi piedi e un altro spalancato le sue mani sul muro, aprendogli le braccia. 
« Adesso non fai più il simpatico, eh, stronzo?! » Il suo petto fu nuovamente pressato da una gomitata sulla destra, la stessa direzione della voce avvelenata.
Tossì almeno tre di volte – le contò e neanche seppe il motivo – prima che un incantesimo gli ferisse il femore della gamba destra, e ne contò altre due nello stesso momento in cui la medesima gamba, sul punto della ferita, veniva calciata.
Poi fu un movimento indistinto nel quale non riuscì più a collegare soggetti ad azioni, ma in cui percepì soltanto l’oggetto dei verbi: calci, pugni, schiaffi, gomitate, urti alternati ad incantesimi lesivi e probabilmente anche insonorizzanti, perché quando un calciò rude lo colpì invadente in mezzo alle gambe, – « A che ti servono le palle, se sei un ricchione? » – fu certo di aver urlato, ma altrettanto sicuro di non aver sentito il suo grido divulgarsi.
Le sue orecchie si erano artificialmente intorpidite – per mezzo di un incantesimo – erano riuscite a cogliere soltanto risate, quelle particolarmente forti, ma improvvisamente, prima che i colpi si arrestassero, Louis non udì più nulla, giusto degli scalpiccii celeri e grevi che si allontanavano nervosi.
Quando riacquistò l’udito era già crollato a terra. Le fitte addominali e toraciche, sovrastavano il supplizio che gli affliggevano le gambe; sulla gamba destra, poi, sentiva qualcosa di denso e caldo scorrervi e fu, sardonicamente, il primo segno d’uscita in un inferno di dolori. 
I suoi sensi avevano ripreso coscienza in un palpito pungente, tornando alle loro funzioni troppo agilmente. 
Inginocchiato, ritrasse su se stesso – raggomitolandosi, quasi – quando una fitta al ventre lo pinzò. L’acerbo e nauseabondo fetore dei frutti marci a fianco a lui, inasprì il suo olfatto. Tossì spuntando un miscuglio addensato nel quale, dal sapore agro, distinse solamente sangue. 
Qualcuno gli tocco una spalla, un tocco irresoluto. Il primo gesto istintivo, fu quello spontaneo – e forse codardo – di ritrarsi, nascondendosi tra le braccia il capo.
« No… sono io. »
Un altro tocco, dalla stessa direzione della medesima voce e – questa volta – Louis si allontanò irrequieto e intollerante. 
« No-no, sono io… »
Una sfiorata tra i capelli fallita, alla quale il Grifondoro si sottrasse nuovamente con la stessa irrequietezza ripugnante, in un bilanciamento corpo-mente che rendeva l’azione troppo autonoma, per essere volontaria o involontaria.
« Sono io, guardami. Sono Adam. »
Louis scattò il capo verso l’alto, incrociando gli occhi scuri del ragazzo. Aprì bocca, piegato ed ancora inginocchiato, li riabbassò su se stesso e si vomitò sulle mani.




 
*
 

“Cerco un prato dove camminare scalzo, un posto dove il sole sia sempre alto e dove non mi sentano se piango.”
-Alice nel Paese delle Meraviglie

« Per venerdì voglio un tema sul processo riproduttivo dei Doxy, venti pergamene. E, Signorina Potter, metta giù le uova di Doxy! O sarò costretto a metterla in punizione! »
« Ma Neville! »
« Ora! »
Lily Potter sbuffò, battendo il piede destro per terra e lanciando al professore uno sguardo capriccioso. Si mise le mani in tasca tirando fuori delle uova giallastre e lubrifichiate, e rimettendole nel sacchetto in mezzo al tavolo, sotto lo sguardo severo e intimamente divertito dell’uomo. 
Mentre la ragazzina procedeva con la prima parte del piano “Distrarre Neville”, Hugo Weasley, a qualche metro di distanza, faceva rifornimento di tutte le uova di Doxy necessarie.
« Lucy! Lucy, dammi una mano! » soffiò alla cugina, che sedeva a circa un metro di distanza.
Lucy Weasley stava raccogliendo i suoi libri nella borsa. Alzò gli occhi verso il cugino. « Dici a me? » domandò titubante.
« E a chi?! » sbottò Hugo. « Dai! » la incitò.
Lucy si torturò le mani con nervosismo, ad occhi bassi, forse estirpati del loro controllo.
« No, non farlo » ingiunse Luke affianco a lei. « Lui per te non lo farebbe »
Lucy si voltò verso Luke, guardandolo dritto negli occhi e contraendo le sopracciglia, irresoluta.
« Lucy, ma che fai? Dai, aiutami! » la sollecitò nuovamente Hugo.
« Mi dispiace » soffiò la ragazzina in direzione del cugino. « Non posso » raccolse le sue cose e seguì Luke verso l’uscita.
« Lucy! » la chiamò il cugino a voce alta, guardandola correre fuori dalla Serra. « Merda! » guaì il ragazzo.
Lily, dall’altra parte della serra stava ancora intrattenendo il professore, ma dall’occhiata ammonitrice che gli lanciò, dedusse che il gioco avrebbe retto ancora per poco.
« Hey, tu! » chiamò una ragazzina che sedeva nello stesso tavolo. « Mi dai una mano? »
La ragazzina lo guardò per un  attimo scettica, ma notato l’espressione allarmata del ragazzo, gli si avvicinò.
« Che vuoi? »
« Quelle uova di Doxy. Tutte. Però da solo non ci riesco! » si lamentò Hugo, gettando un’occhiata a Lily e il professor Paciock, e una sollecitante a lei.
« Scusa, ma… perché non…? » La ragazzina sbuffò un “Grifondoro idioti” e - tirando fuori la bacchetta dalla tasca interna della divisa - mobilitò le uova spostandole con un Incantesimo nelle tasca di Hugo, mentre quest’ultimo si dava ripetutamente del cretino.
« Signor Weasley, cosa sta facendo? » La voce del professore quasi lo fece sobbalzare. Questo si avvicinò, con Lily alle calcagna che faceva segno a Hugo di tacere, in qualunque caso.
« Ehm… »
« Voleva invitarmi ad Hogsmeade! » intervenne la ragazzina Serpeverde, con espressione computa ed esplicante. « Ma l’ho appena snobbato. »
« Oh… eh… immagino non siano affari miei… » Il professor Paciock diede un paio di pacche incoraggianti a Hugo e si allontanò velocemente scuotendo la testa, mentre Lily tirava un sospiro di sollievo.
« Mi hai appena fatto fare una figura di merda! Ora… ora Neville penserà che sono uno sfigato! » si lamentò subito Hugo con la ragazzina.
« Prego » sbottò la ragazzina, acida, raccogliendo i suoi libri. « Denise, andiamo? » chiese rivolgendosi all’amica che era rimasta ad aspettarla in piedi e che subito annuì lanciando uno sguardo lungo e valutante a Hugo.
Le due ragazzine uscirono dalla Serra insieme agli altri studenti appartenenti alla Casa Serpeverde.
« Quante ne hai prese, Gred? »
« Cos-? Che? »
« Le uova! Quante ne hai prese? » gli domandò Lily, esigente ed incalzante.
« Oh, tutte. »
« Grande! » esultò la cugina. « Molly stamattina mi ha detto che Fred sarebbe stato dimesso per pranzo. Possiamo passagli le uova ora! »
« Giusto… le uova » concordò Hugo.
Nella Serra erano rimasti solo loro due e il professor Neville, che di tanto in tanto lanciava occhiate amareggiate al ragazzo.
« Com’è che si chiama quella…? »
Lily si guardò attorno incerta e sospettosa. « ‘Quella’ chi? »
« La Serpeverde. »
« La bionda o la mora? »
« La mora, quella che le mani bendate. »
« Oh, quella è la Nott… credo si chiami Amelia. »
« … ma è la sorella di… »
« Derek Nott » annuì Lily sorridente. « Il belloccio che ha messo KO Fred e il mio futuro marito, sì. »

Lucy Weasley era appena uscita dalla Serra numero cinque. La borsa, carica di libri il giusto, pressava sulla sua esile spalla più del dovuto, e i passi che si susseguivano più lentamente di quanto avrebbe voluto.
« Vuoi andare a pranzo? » chiese Luke.
Lucy fece senso di diniego con il capo, scuotendo i capelli scuri. 
Stava per scoppiare un temporale: si avvertiva non solo dal cielo impiombato e minaccioso, ma anche dall’aria e il vento ammonitore che la governava.
I passi di Lucy si appesantirono maggiormente, mentre le ginocchia tremavano un po’ per il freddo e un po’ per la spossatezza. 
Seguì il verde del prato fin dove s’affoltava sempre più, giungendo ad una parte che considerò essere abbastanza morbida e vi si sedette.
Inspirò tutta l’aria che poteva ed espirò.
« Lo sai che giorno è oggi, Luke? » domandò chiudendo gli occhi.
« Lo so »
A Lucy scappò un sorriso amareggiato.
« Buon Compleanno, Lucy »
« Buon Compleanno, Luke »
Al cielo iniziarono a sfuggire le prime gocce, che scesero ancora timide e filiformi; poi il piovasco si pece più ottuso, sbrigativo ed iniziò a frustare le spalle della ragazzina.
« Tieni » Luke le porse un fiore che – aprendo gli occhi – raccolse sorridente.
Lucy avvicinò il fiore al viso e lo annusò con tensione e urgenza. Non percepì nulla: il fiore era appassito… anzi, no, stava appassendo tra le sue dita, si stava avvizzendo lentamente.
« Grazie, Luke. »

« Ma quella è Lucy! Che fa sotto la pioggia? »
« Affari suoi, Gred! Andiamo! »
« Ma si prenderà un malanno! E poi che diavolo fa…tutta sola, lì nel parco…? »





 
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Capitolo 8
*** VIII. Il buio prima della caduta ***


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VIII.
Il buio prima della caduta


 
Dicono che la paura sia più forte dell'amore.
Lo è.
Perché non ha niente a che fare con ciò che temiamo, in realtà.
La paura è dentro di noi.
È il preciso istante prima di ogni scelta, ogni salto, ogni sacrificio, prima di ogni scontro, ogni pianto, ogni brivido: l'esatto momento prima.
E in quel puntuale attimo, tutto scompare: non c'è più nessuno e nulla ha più senso; tutto ciò che abbiamo attorno smette di esistere.
Si è sempre soli con le proprie paure.
Al buio.
La paura è quel buio - vuoto e pesante - che precede lo schianto.
Il buio prima della caduta.

 
"La mia paura è la mia essenza, e probabilmente la parte migliore di me stesso."
-F. Kafka



 

 
§§§








Grimmauld Place, 21 Luglio 1970

«Regulus, sotto il tavolo del salone c'è qualcosa che si muove! Vai a vedere cos'è!»
«D'accordo, mamma!»
Il bambino salì di corsa le scale con le sue scarpette nere e lucide che stridevano sull'ebano liscio. Tirò su col naso e prese a saltellare lungo il primo corridoio.
«Padron Regulus, non potete entrare! Dovete allontanarvi!»
Piegò il capo di lato e guardò l'elfo domestico sbattendo più volte le lunghe ciglia.
«La mamma vuole che me ne occupi io.»
«No!» Gemette la creatura. «C'è una cosa malvagia lì sotto che voleva fare del male a Kreacher, ma Kreacher è scappato! Kreacher ha paura che faccia del male anche al padrone!»
Il piccolo Regulus scosse il capo facendosi subito avanti ed entrando nel salone. Si avvicinò al tavolino di vetro scuro e, abbassandosi, tentò di sbirciare sotto di esso.
«Padron Regulus!»
Un cadavere cereo, smunto e deperito strisciò da sotto il tavolo, prostrandosi in avanti per mezzo delle unghie sfregiate e dei piedi storti, dinanzi al bambino. Gli occhi ciclopici e grotteschi latravando fame fino all'inedia, fino alla più misera e peccaminosa delle avidità, mentre la gola digiuna emetteva versi animaleschi e cannibali, ma rotti come singulti della più proibita delle colpevolezze.
Regulus incespicò sui suoi stessi passi nel vano tentativo d'indietreggiare. Piagnucolò e cacciò un paio di urli tra un avvento improvviso d'ansia e un altro d'isteria.
Poi l'infero fece il suo primo passo e Regulus non urlò più.
Il vuoto gli pesò sulle corde vocali, strozzandogli il fiato in gola e la vista gli si appannò diverse volte. Si accucciò su stesso, portandosi le mani ai capelli e tirandosi qualche ciocca con forza, per placare il tremolio ed accertarsi dei propri sensi, che oscillavano su un bivio di gelo e rogo. Quando l'infero avanzò ancora ed i suoi versi si fecero più vicini e forti, avvertendo il vuoto della gola spargersi e scendere per divorarlo nelle sue stesse membra, portò le piccole mani a circondargli la pancia.
Tenne la testa china tra le ginocchia e quando avvertì il fiato freddo e fetido soffiargli sulla nuca, si strinse le spalle e sentì la vulnerabilità della schiena lasciata scoperta al predatore pungerlo tra ogni singola colonna vertebrale.
Il vuoto gli si concentrò in un vortice preciso dello stomaco. Si fece caldo, caldissimo; poi si fece freddo. E freddo rimase.
Gli si appesantì il respiro che lottava per farsi largo tra quel vuoto, ma Regulus non aprì bocca - certo che così facendo avrebbe vomitato - e si chiuse in un'interna lotta per la sopravvivenza.
Dovette concentrarsi per placare il tremolio e appena ci riuscì si rese conto che l'odore nauseabondo del cadavere era completamente sparito, lasciando in aria un genuino odore primaverile.
Rialzò il capo e riconobbe l'amico del fratello, coi capelli ribelli ed un paio di occhiali rotondi che teneva per mano una ragazzina dai capelli rossi e folti, e grandi occhioni verdi. Gli undicenni si si guardavano negli occhi e si sorridevano.
«Riddikulus!» Abbaiò la voce di Sirius al suo fianco.
Non appena pronunciò l'incantesimo, la rossa allontanò la mano del ragazzino e lo schiaffeggiò. 
Sirius rise ed il Molliccio scoppiò.
E Regulus crollò sul pavimento, accasciandosi e rimanendo fermo, immobile, incapace di muovere anche solo le palpebre per chiudere gli occhi.
«Ti ho detto che non dovevi intervenire, incosciente!»
«E... lasciarlo morire?»
Qualcuno però urlava.
«Se la sarebbe cavata!»
«Ha nove anni, diamine! Non ha nemmeno una bacchetta! Non è in grado di combattere contro un Molliccio!»
«Sì, invece! Il suo sangue puro...»
«Il sangue non c'entra nulla! Tu... sei una psicopatica!»
«Razza di insolente! Come osi rivolgerti con questo tono a tua madre?!»
Decise che non voleva ascoltare perché quella conversazione non gli piaceva. Decise che il pavimento era abbastanza comodo e che avrebbe trovato la forza di chiudere gli occhi. Decise che avrebbe dormito e che non avrebbe sognato.
Decise di far parte del buio che dominava dietro le sue palpebre, di un buio tutto suo in cui si sarebbe nascosto... non per forza da qualcuno o qualcosa. Decise che voleva solo nascondesri. E così fece.
Il buio non distrugge mai ciò che nasconde.






 
§






 
"Per quanto delicatamente sia mascherata, la carità è sempre orribile; c'è un disagio, quasi un odio segreto, tra colui che dà e colui che riceve."
-George Orwell, Keep the Aspidistra Flying, 1936


Ciò che mi nutre, mi distrugge.
Non era il momento adatto per fermarsi a pensare. Non era nemmeno nella posizione adatta per fermarsi. E l'ultimo dei suoi intenti era proprio pensare.
Tuttavia, mentre i suoi occhi sfioravano di sfuggita il tatuaggio, non riuscì a non ritornare sui suoi passi e a rifermarsi sulla frase. Tentò di tenersi in equilibrio sul gomito destro e rilesse la frase un altro paio di volte.
Irrisoluta, batté le palpebre e pronunciò la frase ad alta voce, nell'intento di comprenderne il significato.
«Ciò che mi nutre, mi distrugge.»
«Eh?»
Lui la guardò e, se la situazione non fosse stata tanto tragica nel suo intimo, sarebbe scoppiata a ridere per la sua espressione incomprensibilmente lunatica.
Roxanne indicò la scritta che Damon aveva tatuata sotto le costole, posta simbolicamente a livello dello stomaco.
«Hai istinti satanici?»
«Istinti... Cosa?»
Aveva l'aria di uno scimpanzé ritardato di razza primitiva appena uscito dallo stato vegetale dopo un paio di millenni. E Roxanne capì che no, non era il momento adatto per intraprendere uno studio filologico sui suoi tatuaggi.
Perciò, mentre prendeva fiato, decise che avrebbe ignorato gli artigli d'aquila che il Serpeverde aveva tatuati sulla spalla sinistra mentre vi posava le mano, e che non avrebbe fatto caso alla conchiglia scheggiata attorno al suo gomito, quando gli sfilò la camicia; fece finta di non vedere l'ape che aveva vicino all'orecchio, quando ne sfiorò la marchiatura col proprio respiro e man a mano che scendeva con le labbra cercò di non pensare che il serpente che gli si attorcigliava attorno alla base del collo gli si addiceva alla perfezione. E quando lui ribaltò le posizioni e Roxanne si ritrovò con il capo affondato sul suo cuscino finse di non aver visto la chiave di Ank a livello del cuore.
Sentì le dita di lui scendere lungo i suoi fianchi e chiuse gli occhi, chiedendosi come diavolo aveva fatto a non vedere tutti quei tatuaggi prima.
«No, fermo!» Ridacchiò isterica Roxanne, all'improvviso.
«C-che c'è? Che succede?» Sobbalzò Damon, sgranando gli occhi.
La Grifondoro fu scossa da risatine. «Dannazione, fermo!»
L'altro alzò le mani sopra il capo, in segno di resa e la guardò. «Che ti prende?»
«Mi fai il solletico, così!» Si lamentò balzando a sedere e puntandogli contro l'indice con fare accusatorio.
«Solletico? Tu hai il solletico sui fianchi? E io come avrei potuto saperlo?» Inarcò le sopracciglia. «Chi diavolo ha il solletico ? Voi... voi negri dovete avere una costituzione anatomica diversa...»
Roxanne gli diede un pugno sulla spalla, poco sotto il tatuaggio degli artigli di falco.
«Io non ho nulla che non va, inutile ritardato bianco! Sei tu che... che hai le mani troppo lisce!»
Damon si schiaffeggiò la fronte con la mano.
«Che razza di accusa è 'hai le mani troppo lisce'?» Sospirò. «Le mie mani sono a posto. Sei tu che sei... negra.»
«Certo!» Sorrise Roxanne con orgoglio dispettoso. «Sempre meglio che uno snob troppo bianco. O un bianco troppo snob, a te la scelta.»
«Guarda che io sono per-fe-tto.» Dichiarò Damon, inginocchiandosi a livello della ragazza.
Roxanne sbuffò. «Sei solo bianco e ricco.»
Gli occhi del ragazzo si assottigliarono mentre la scrutavano e Roxanne mantenne con fermezza lo sguardo. Sembrava un puro scontro tra Serpeverde e Grifondoro, una sfida al primo che avrebbe abbassato lo sguardo, che si sarebbe arreso e sottomesso; ma nessuno dei due osò farlo.
«E tu sei negra e...» Si morse l'interno della guancia un po' a disagio.
La fermezza di Roxanne vacillò. «E...?» Lo incoraggiò con voce roca e labbra strette.
«Petulante.» Decise infine lui.
Lei si sentì poco più a suo agio e si sforzò per non sorridere. 
«Petulante? Io sono petulante?»
«Petulante e sorda, a quanto pare.»
«Idiota.» 
«Permalosa.»
«Serpeverde!»
«...Grifondoro?»
«Troglodita!»
«Dispettosa.»
«Antipatico!»
«Noios- Antipatico?» Riflesse lui, bloccandosi. «Non puoi usare 'Antipatico'!»
«Perché no?» 
«Perché è un aggettivo banale! Non puoi darmi dell'antipatico, per Salazar! Così sì che mi offendo! Non lo senti come suona? 'Anti-pa-ti-co' bleah! È brutto.»
Roxanne lo osservò per un buon minuto prima di scoppiare a ridere, ricadendo sopra la trapunta verde smeraldo, calda e morbida, molto più di quelle Grifondoro. Quando si fu ripresa, non si stupì di vederlo più vicino. Si mise più comoda sul letto, mentre le gambe del ragazzo si frapponevano tra le sue e poggiava le mani ai lati della sua testa.
Era serio ed il fatto che lo fosse la metteva un poco a disagio, in tutta sincerità. Si era aspettata delle battutine idiote, dei sorrisi perversi, e invece niente. Lui era serio mentre la guardava, tanto che avrebbe potuto essere pensieroso e combattuto; ma Roxanne non voleva pensare. E così non fece quando ribaltò le posizioni, sedendosi a cavalcioni su di lui. Non pensò a quanto perfettamente i loro corpi si comprendessero, molto più di quanto non facevano loro stessi. Nemmeno al fatto che ci fossero ancora altri tatuaggi che non aveva notato, come la bussola attorno all'ombelico, attorno alla quale fece girare il proprio indice affascinata, o l'ancora sul basso ventre...
«Damon! Non sai cosa mi è succ-»
Nello stesso istante in cui cadde rovinosamente dal letto ed il suo osso sacro imprecò al posto suo, sentì il tono derisorio di Adam giungere dalla soglia della porta.
«Ehm... Ho interrotto qualcosa?»
Si rimise a sedere, massaggiandosi la zona lombare della schiena e lanciando un'occhiata truce a Zabini.
Damon, ancora sul letto, colpì l'amico con un cuscino, non riuscendo a trattenere qualche imprecazione colorita nel mezzo.
Cercò con gli occhi i suoi indumenti e dopo aver raccolto la camicia da sotto il letto e la felpa alla base del comodino, iniziò a rivestirsi in silenzio. Adam le passò a fianco con occhi bassi e mentre si chiudeva le asole della camicia - notandone spaiata e qualcun'altra tirata via - il ragazzo stette di spalle.
Sorrise incoscientemente tra sé, per il segno di rispetto; un sorriso che le impallidì sul viso non appena vide Damon scrutarla da sopra il baldacchino.
«I cinquanta Galeoni.» Gli ricordò.
«Come?» Si riscosse lui.
«Cinquanta Galeoni.» Ripeté Roxanne, puntandogli l'indice contro. «Avevi detto di averli.»
«Oh.» Comprese lui. «Certo.» Annuì.
Si diresse verso il baule e lei lo seguì. Quando Damon si voltò ed abbassò, iniziando a rovistare tra gli indumenti, Roxanne notò un ulteriore tatuaggio che le era sfuggito, un'altra scritta che occupava tutta la parte superiore della schiena: "Pulvis et umbra sumus". Si chiese cosa volesse dire.
Abbassò lo sguardo sulle sue diverse paia di calzini che spuntavano dalle scarpe e deglutì un groppo denso, misto di vergogna ed umiliazione.
«Tieni.»
Il Serpeverde le porse un sacchettino colmo di monete, che - nonostante l'imbarazzo - non esitò a prenderlo,
«Bene... Ehm...» Esitò, perché ringraziarlo le sembrava una presa in giro. «D'accordo. Io vado, allora.»
Damon annuì col capo, grattandosi distrattamente la nuca.
Roxanne allora si mosse in fretta e si allontanò velocemente dal dormitorio.
Uscì nella Sala Comune stringendo al petto i cinquanta Galeoni come se quel denaro fosse una salvezza; ma non voleva ancora pensarci, non voleva pensare a nulla. Voleva solo arrivare al più presto alla Torre Grifondoro ed andare a dormire. Dormire e non pensare. Non pensare a nulla.
E così fece: non si cambiò, s'infilò sotto le coperte, mettendo i Galeoni gelosamente sotto il cuscino, chiuse gli occhi - ed ignorando ogni pensiero - dormì.
Anche la mattina dopo, mentre Evelyn e Rose facevano a gara per il bagno, si preparò in religioso silenzio, perché per parlare avrebbe dovuto pensare e Roxanne non aveva la minima intenzione di farlo. Anche in Sala Grande, non fece altro che mangiare i primi piatti che si ritrovava davanti, senza prestare attenzione a Dominique che sparlava al suo fianco credendo che lei l'ascoltasse o a Lily, Hugo e Josh Thomas che ridacchiavano insieme per un qualche scherzo fatto ad Hagrid o Rose seduta in grembo a Malfoy che proclamava guerra al maschilismo tra una brioche e l'altra; non rese nemmeno conto dell'atmosfera disagiata che che galleggiava nell'aria, che non era l'unica a cercare di non pensare o di come altri lo stessero facendo molto intensamente: non notò nemmeno Lysander, qualche posto lontano, pallido e sudato e Lorcan insolitamente tacito, non notò i tentativi di Molly di nascondere il cibo che non riusciva a mangiare dagli occhi di Liam, nemmeno Lucy che nell'angolo della panchina parlottava da sola. Non si spostò di un centimetro quando Josh Thomas iniziò a perdere sangue dal dito, schizzandolo su tutto il tavolo, ed ignorò del tutto James quando le disse che stava andando in infermeria a trovare Fred e Louis, chiedendole se voleva accompagnarlo.
Ignorò tutto e tutti, persino se stessa, scivolando lentamente nella miseria di chi perde valore, non per quanto può valere, ma per quanto poco è capace di vendersi.






 
*




«Molly?»
«E Lucy.»
«D'accordo, ma quanto è grave questa cosa...? Qualunque cosa sia...»
Louis scosse il capo.«È che...» Sospirò. «Non so come spiegarlo, ma c'è qualcosa dietro. Dietro Molly, Lucy... Tutte le altre visioni. C'è qualcosa di grosso, che collega tutto.»
Fred e James si scambiarono un'occhiata.
«Credete che sia pazzo?» Fece il biondo, imbronciato.
James scosse il capo, passandosi una mano tra i capelli con fare pensoso. «Temiamo che tu abbia ragione.»
Louis annuì e tenne il capo basso. «Lo temo anche io.»
«Quindi? Che facciamo?» Se ne venne fuori Fred.
James si alzò. «Per ora possiamo solo aspettare. Non sappiamo precisamente di cosa si tratta.»
Louis sospirò. «È questo il problema della veggenza, non si capisce mai nulla.»
«Le tue visioni si avverano sempre, Louis. Questo è il vero problema.» Fece Fred, guardandolo.
La porta dell'infermeria si aprì ed i ragazzi dovettero chiudere e rimandare l'argomento.
Madama Chips entrò trascinandosi dietro una ragazzina e blaterando qualcosa sotto voce riguardo all'orario delle visite.
«Sentite, io ho lezione tra cinque minuti, perciò... ne riparliamo.» Annuì verso Louis, ed uscì prima che l'infermiera potesse accorgersi di lui.
«Che cos'hai?» Fece il bondo in direzione del cugino che si era improvvisamente accigliato.
«Niente.» Rispose Fred secco e corrucciato evitando il suo sguardo.
Louis fece finta di nulla e prese a sistemarsi le coperte, adagiandosi con più comodità sul materasso e già che c'era finse anche di non aver riconosciuto Amelia Nott nel letto esattamente davanti al loro. Si sdraiò e la osservò arrossire ed impallidire con la stessa alternanza con la quale Fred sbuffava e taceva.
Era davvero piccola. Non tanto per l'età o le dimensioni, piuttosto per i suoi gesti disperati ed i suoi occhi temerari. Si comportava come se fosse del tutto fuori posto, ma Louis aveva la forte impressione che c'era qualcosa di più in quel disagio intimo, come se lo fosse più con se stessa: come se si trovasse nel corpo sbagliato e con la vita di un'altra.
La Serpeverde rialzò gli occhi ed incrociò i suoi in un fulmineo lampo di tempo e Louis non poté evitare che accadesse.

Amelia Nott era accasciata ai piedi del tronco di un albero.
«Mi senti?» Urlava una voce, all'esterno. «Riesci a sentirmi?»
Perdeva sangue: le colava dalla tasta, giù per la fronte, dal naso, dalla bocca spoca di fango.
Lei non rispondeva. Fissava solo con orrore quello che aveva davanti.


Louis sbarrò gli occhi, trattendo il respiro.
Madama Chips stava cambiando le bende alle mani della Nott e Fred teneva con ostinazione lo sguardo dall'altra parte dell'infermeria.
Cercò di controllare il respiro, nascondendo il viso tra le braccia.
Sbagliato, ecco cos'era quello che gli stava succedendo. Stava interferendo con il tempo, con la logica e lo stava facendo contro ogni intenzione e senza controllo. Le Visioni nell'ultimo mese erano aumentate, diventate più durature, più intense e complesse, ma tutto - ogni singola Visione - sembrava collegato. E era questo ciò che lo spaventava veramente: il fatto che ci fosse altro, sotto, qualcosa che andava oltre lui e la Veggenza, oltre il tumore di Molly, oltre il segreto di Lucy, oltre quello di Lysander, oltre il problema della zia Angelina, oltre quello della Nott, oltre quel corridoio scuro e quella porta che continuavano ad apparirgli in sonno, oltre tutte le Visioni. Era questo a fargli paura, ciò che non poteva sapere, l'ignoto.
E la verità era che non c'era nulla di sbagliato in ciò che gli stava succedendo. C'era qualcosa di sbagliato, punto.
«Freddie! Fred!»
Chiamò il cugino, intenzionato a dirgli ciò che aveva visto, ma non appena quello si voltò, Louis si pentì di aver aperto bocca.

Fred Weasley era in una foresta.
Correva.
Correva ed urlava. 
Correva, urlava e piangeva.


«Diamine!» Imprecò Louis, chiudendo gli occhi.
Serrò gli occhi e non osò aprirli, nemmeno quando Madama Chips infastidita e stizzita venne a dire a lui e Fred che potevano vestirsi ed uscire; piuttosto prese il cuscino e se lo spiaccicò sul viso, stringendo i denti.
Non voleva più vedere nulla. 

Fred, però, aveva ragione: il problema più grande, era che tutto quello che vedeva, si realizzava sempre.




 
*



«Cosa fai?»
Lucy sobbalzò.
«Niente!»
Nascose l'orsetto che le aveva regalato la sorella il giorno prima dentro il cassetto e si voltò.
«Stai mentendo Lucy.»
La quindicenne sgranò gli occhi.
«No! Non sto mentendo!»
Dopo cinque anni le sue compagne di dormitorio si erano abituate a sentirla parlare da sola, ma non aveva smesso con le loro occhiatacce ed i loro bisbigli, con i loro commenti e i loro pregiudizi. 
Non capivano. Gli altri non capiscono mai. Non possono. Fanno solo finta e questo si può apprezzare. 
Il vero egoismo consiste nel pretendere che gli altri ci comprendano, s'immedesimino nelle nostre paure e nelle nostre sofferenze. Nulla è più egoista che credere loro quando dicono "Ti capisco". No, nessuno capisce. 
Lucy da piccola, quando alla Tana non c'era nessuno tranne lei e nonni, scriveva favole. 
I suoi personaggi erano sempre adulti, belli - dovevano essere belli, a chi piacciono le storie con personaggi brutti? - ed avevano dei superpoteri. Poteri che non c'entravano con le bacchette, poteri che evocavano a loro piacere, senza strumenti o mezzi. I suoi personaggi avevano il potere di capire le persone, il potere di guarirle, il potere di farle tornare in vita: tutti poteri oltre i quali la magia ordinaria non si poteva spingere.
Poi crescendo, i suoi personaggi non erano più adulti, ma erano ragazzi più grandi, poi quando lei stessa divenne ragazzina, i suoi personaggi ormai erano bambini: bimbi brutti, quelli che non vuole adottare nessuno e rimangono nell'orfanotrofio fino a quando non crescono. Bambini cattivi con il potere di comprendere le persone, ma per invadere la loro vita, la loro umanità; il potere di guarirle per poi chiedere loro un ricatto; il potere di farle tornare in vita, ma solo per usarle. E soprattutto non avevano paura. Non temevano niente e nessuno. 
Perché la paura è un'arma e a loro piaceva fare del male e non subirlo.
Erano bambini cattivi, sporchi e bugiardi. Quelli di cui nessuno racconta mai.
Perché non c'è nessuna storia con bambini brutti, ma di bambini brutti ce n'erano e a Lucy piacevano.
C'era qualcosa di troppo bello nella loro cattiveria, qualcosa di estremamente vero; ma a chi piace il vero? La verità non piace a nessuno, perché è più comodo immaginarla.
All'età di quindici anni Lucy Weasley si ritrovava con un mostro sotto al letto nel quale non riusciva a smettere di chiedere. Un fantasma brutto e cattivo, che però aveva un superpotere: era in grado di capirla.
Eppure Luke si stava nutrendo dei suoi segreti, delle sue paure. Luke le uccideva la mente.
Ne valeva la pena?
«Lo sai che non puoi mentirmi, Lucy.»






 
*




Alla Signorina Céline Rousseau,
Il progresso, la ricerca e lo sviluppo dei nostri Indicibili dell'ufficio Misteri in collaborazione coi Medimaghi del S. Mungo, permettono oggi alla MM (Magi-Medicina) di spingersi oltre il fallimento materiale.
La sua condizione di Sordomutismo innato, oggi avrà una cura definitiva. Una stimata statistica indica a favore della sua guarigione il 70% di probabilità di successo.
La invitiamo ad un colloquio il 5 Novembre, presso il nuovo reparto Incurabili del settimo piano del S. Mungo per discutere con lei di come la nuova ricerca potrà giovare alla sua salute.


Molly interruppe la lettura e rialzò lo sguardo sull'amica.
«Ma è magnifico!» Esclamò balzando in piedi, con la lettera ancora in mano. 
Abbracciò Céline e le mimò le congratulazioni col linguaggio dei segni; poi rialzò lo sguardo su Frank, sdraiato comodamente sul divano.
«Frank, non è una bellissima notizia?» Lo sollecitò.
«Cosa? Oh... Sì.»
Liam al suo fianco, gli gettò un'occhiata schifata.
Probabilmente perché Frank Paciock avrebbe dovuto mostrare un po' più di contentezza alla notizia che la sua ragazza sarebbe riuscita a parlare e sentire finalmente, o almeno sforzarsi a mostrarsi partecipe. Invece sembrava che non gli importasse più di tanto, piuttosto pareva annoiato.
Frank non era come Liam, pronto a tutto pur di appoggiare Molly.
Certo, gli piaceva Céline, ma non era quel tipo di amore etereo. Era stato bello conquistarla per primo quando si era trasferita dalla Francia per curare il suo sordomutismo, e vantarsi d'averlo fatto coi suoi amici. Amarla anche - perché lui l'aveva amata, ne era certo; ma poi lentamente aveva iniziato a stufarsi, tutto si era fatto ripetitivo e monotono.
Céline era una ragazza bella ed affettuosa. Era buona, troppo buona. Forse se non fosse stata sordomuta non sarebbe stata tanto buona e gentile, tanto generosa e disponibile. La sua bontà era una conseguenza della sua diversità: Céline era buona perché le conveniva, era buona perché voleva essere accettata.
Ma chi s'innamora di una persona che è troppo buona? La bontà corrompe ed il troppo sazia.
Forse era proprio per questo che Frank la tradiva.
Era stanco di lei, della sua malattia, delle sue difficoltà, stanco persino della sua bellezza; ma non poteva lasciarla: con quale occhi sarebbe stato visto per aver lasciato la sua fidanzata sordomuta?
Allora aveva iniziato a farglielo capire coi baci, con gli occhi, sbuffando, evitandola come se volesse punirla. Punirla perché lo amava, punirla perché era malata.
«Liam, io Céline andiamo un attimo in dormitorio.»
Molly si alzò ed accompagnata dall'amica, salì le scale che conducevano ai dormitori del settimo anno.
Frank le guardò allontanarsi: se non fossero state entrambe malate, entrambe diverse, Molly e Céline probabilmente non sarebbero state amiche. No, decisamente no.


Alla signorina Molly Weasley, 
Il progresso, la ricerca e lo sviluppo dei nostri Indicibili dell'ufficio Misteri in collaborazione coi Medimaghi del S. Mungo, permettono oggi alla MM (Magi-Medicina) di spingersi oltre il fallimento materiale.
Il suo tumore oggi potrà avere una speranza. Una stimata statistica mostra il 50% di probabilità a favore della sua guarigione. 
La invitiamo per tanto per un colloquio il 7 Novembre...


Céline strabuzzò gli occhi, guardando Molly.
«C'est magnifique! Tu hai una chance, Molly! Est bellissimo!» Scrisse in aria con la bacchetta.
La Weasley scosse il capo.
«No.» Mimò. «Non hai letto? Cinquanta per centro di probabilità. Potrei morire, se l'intervento fallisse.»
L'altra riabbassò lo sguardo sulla lettera.
«E Liam? Liam cosa ne pensa?» Mimò Céline, sbarrando gli occhi.
Non rispose.
«Non lo sa?!»
Scosse il capo.
«Devi dirglielo. Deve saperlo.»
«Lo saprà, ma questa è una mia decisione e io non voglio che nessun altro s'intrometta. Deve essere una mia scelta. È del mio cervello che si tratta.»
Céline scosse il capo, abbassando gli occhi in un'espressione dispiaciuta che infastidì Molly. 
«Ora... voglio fare una doccia.»
La francese annuì col capo e si alzò porgendole la lettera. Le promesse che avrebbe mantenuto il segreto e che non lo avrebbe detto a nessuno e di questo le fu grata.
Il sorriso eccessivamente premuroso di Céline si chiuse oltre la porta e Molly rimase sola.
Dopo essersi assicurata che la lettera fosse ben nascosta tra una maglia e l'altra del cassetto, e che questo fosse ben chiuso, si diresse verso il bagno. Tolse i vestiti e scivolò sotto la doccia, sotto un getto d'acqua che - se i suoi sensi non fossero stati tanto intorpiditi dalla pozione antidolorifica - avrebbe sentito essere bollente sulla sua pelle delicata .
L'effetto velenoso della pozione si stava manifestando sempre più ed ora le stava facendo perdere del tutto il senso del tatto. Se n'era resa conto quel pomeriggio, quando Liam l'aveva baciata più di una volta e lei non aveva sentito assolutamente nulla: lo aveva solo immaginato. Ed allora aveva deciso che Albus aveva ragione e che era molto meglio morire di dolore che smettere di esistere, perciò quella sera non prese la pozione.
Molly Weasley aveva i capelli castani, non troppo lunghi. Era quel tipo di capello soffice e non regolare, che partiva liscio e man a mano che scendeva si ondulava. Le era sempre piaciuto quando qualche ciocca le sfuggiva in avanti e lei la rimandava indietro, oppure mettere i capelli da un lato e poi da un altro, passarvi in mezzo le dita, giochicchiare con le punte mentre studiava; non che le venisse naturale, solo le piacevano i suoi capelli e si compiaceva quando lo facevano anche gli altri.
Ora, davanti allo specchio, guardava il pettine portarle via un capello alla volta, poi due paia, poi cinque o sei, ancora altri due e infine un intera ciocca. 
E non capì. Non capì se stava morendo di dolore, non capì se stava smettendo di vivere o semplicemente si stava sfaldando, spezzettando, se stesse perdendo la vita a piccoli pezzi - uno alla volta, per aumentale la sofferenza.
E poi c'era la paura che le ricordava quanto fosse assurdo ed insignificante tutto il resto, tutto quello che c'era intorno. E a questo punto i suoi genitori, Liam, Lucy, Victoire, Céline... forse gli altri non avevano nulla a che fare con quel bivio che Molly aveva davanti e dietro, quel bivio che non le permetteva di spostarsi in alcuna direzione, ma solo di strisciare lungo i bordi. 
C'era qualcosa di più grande in gioco. E allora forse Molly non temeva il dolore, la delusione, l'abbandono, la solitudine, queste erano solo l'involucro.
Lo sentiva dentro, era ciò che viveva di più dentro di lei: la paura della morte. Aveva paura di morire.
Molly voleva vivere.







 
*






Evelyn Black si stava trascinando lungo il corridoio principale del piano terra, insieme a tutta la stanchezza reduce di un venerdì di lezioni pesanti. Il suo intento era quello di ritrovare l'ingresso alla Sala Comune Serpeverde ed aspettare che qualcuno le desse la parola d'ordine per andare a trovare Katie.
Dopo la fine delle lezioni si era ritrovata disagiatamente sola: Scorpius era sparito - Merlino solo sa dove - con Rose, Roxanne aveva addirittura saltato le lezioni pomeridiane ed aveva perso di vista James dalla mattina.
Perciò - a meno che non volesse imbattersi in Pix o in qualche fantasma - le conveniva sbrigarsi a trovare un luogo in cui rifugiarsi prima della cena.
Quando arrivò ad un punto approssimativamente mediamo del corridoio, sentì uno sgradevole odore di fumo giungere dall'atrio.
Strinse la tracolla, pesante di libri, e si affacciò oltre l'impianto architettonico del piano terra.
«Sirius?»
Scorse due figure alte nella parte coperta del cortile, tra cui quella del diciassettenne.
Scese gli scalini e si avvicinò.
Fuori piovigginava e l'aria era fresca e ventosa. James era appoggiato sopra una colonna ed Albus in quella opposta.
La Black spostò lo sguardo dal primo al secondo e viceversa, mentre entrambi contuavano ad ignorare la sua presenza.
Guardò allora con fermezza James, socchiudendo con aria minacciosa gli occhi.
«Tu fumi?» Domandò con fiato corto. 
Potter scrollò le spalle un poco a disagio e scambiando un'occhiata con Albus. 
Evelyn si voltò verso l'altro.
«Anche tu fumi? Voi... fumate?»
«Evidentemente.» Sbottò di rimando il Serpeverde.
«E da quando?» Se ne uscì esasperata lei, ma nessuno dei due si preoccupò di risponderle.
Incrociò le braccia infastidita e si avvicinò ad Albus, guardandolo storto.
«Che c'è?» Fece lui, senza nemmeno guardarla.
«Niente.» Rispose sarcastica lei. «Assolutamente niente!»
«D'accordo.»
Evelyn sbuffò sul posto, guardandolo storta.
«Che c'è?» Ripeté allora Albus, voltandosi a guardarla.
«Oh, mi chiedevo se avessi smesso di evitarmi, nulla di che.»
«Non ti evito.» La corresse, con calma. «Il fatto che io non ti vada in contro, non vuol dire che ti eviti.»
La ragazza sgranò gli occhi guardandolo interdetta. James, a pochi metri di distanza tossicchiò.
 «C-cosa?»
«Evelyn, qual è il vero problema?» Le chiese, spegnendo la sigaretta.
La ragazza lo guardò accendersene un'altra a disagio, cercando d'ignorare il formicolio nello stomaco.
«Sei tu. Tu sei il problema.» Concesse infine.
Albus sospirò, ma non rispose, invitandola a spiegarsi.
La Black raccolse tutto quel poco che c'era di Grifondoro in lei e, promettendosi che avrebbe preso un insetticida a cena, parlò.
«È solo che sei fermo sulla soglia, Albus. E non capisco se vuoi entrare o uscire. Il problema, però, è che blocchi il traffico.»
«Ti sei stancata di aspettare?» Sorrise, senza guardarla.
«Voglio una ragione per continuare a farlo. Mi basta un motivo. Uno solo.»
«E se io non te lo dessi?»
Evelyn boccheggiò.
Lui sorrise ancora, un sorriso quasi timido. «Smetteresti di aspettare?»
«Saresti disposto a non darmelo, solo per vedere la mia reazione?» 
«Stiamo ancora parlando del motivo, vero?»
Gli lanciò un occhiataccia irritata e indispettita, e fece finta di non aver sentito alle sue spalle James tossicchiare ancora.
Batté il piede un paio di volte per terra con nervosismo. «Qualsiasi cosa sia. Basta che ti muova.»
James sembrava aver una tosse al quanto relativa, quella sera.
Albus invece inarcò un sopracciglio studiandola. «È un ultimatum?»
Evelyn sospirò. «Stavolta spero sul serio che tu non voglia ignorarlo solo per studiare la mia reazione.»
Il Serpeverde la fissò inespressivo e poi annuì lievemente.
«Jamie! Dove sei?»
«Dom, sono qui! Arrivo!»
James spense quel poco che rimaneva della sigaretta e rialzò lo sguardo sui due.
«Evelyn, vieni?»
La ragazza rimase per un istante interdetta, ferma sul suo posto con lo sguardo ancorato agli occhi di Albus, sperando e aspettando che le dicesse qualcosa.
«Evelyn, vieni.»
James le porse la mano che, ferma ed imperiosa, protendeva verso di lei.
«Vai, Evelyn. Possiamo finire di parlare domani ad Hogsmeade. Vai.» La sollecitò allora Albus.
Lei annuì, con tutta la speranza che quella frase le aveva suscitato e su indicazione di James rientrò all'interno andando in contro a Dominique e trotterellando improvvisamente leggera, mentre il ragazzo rimaneva a scambiare un paio di parole col fratello.
«Dov'è James?» Sbottò la Wesley, livida in volto.
«Eh... Come? James? Oh, Sirius ha detto di aspettarlo, sta... sta arrivando.»
«Dove eravate?» sillabò ancora l'altra, parandosi davanti a lei.
«Oh, l'ho incontrato per caso... Sirius stava...»
«James!» La corresse Dominique con fastidio. «Si chiama James.»
Evelyn sgranò gli occhi. «Ok, va bene.» Deglutì a disagio. «Comunque sta arrivando. Puoi chiederlo direttamente a lui. Ci ha detto di aspettarlo qui...»
«No, ha detto a me di aspettarlo qui.» Fece Dominique incrociando le braccia sotto il seno.
Evelyn piegò il capo di lato. 
«C'è qualcosa che non va? Ho fatto qualcosa di sbagliato senza rendermene conto?»
«No, tesoro, ma sarebbe ora che tu riconosca i tuoi limiti.» Sorrise melliflua la rossa.
«Non capisco...»
Dominique la guardò con compassione.
«Evelyn, James non è tuo fratello. Questa amicizia platonica, questa fratellanza idilliaca la vedi solo tu. Devi smetterla - e lo dico per il tuo bene - di stargli incollata, solo perché non hai amici. Non vuol dire che se sei orfana devi andare in giro a fare la vittima della situazione, ogni volta che ti si presenta l'occasione. Non puoi strisciargli dietro ovunque vada, non è tuo fratello, non è il tuo migliore amico. Gli fai solo pena.»
La mascella della Black era scivolata lentamente, sotto l'incredulità, mentre il viso prima arrossiva poi impallidiva.
«Ragazze! Manca poco alla cena, andiamo in Sala Grande?» 
James spuntò alle loro spalle coi capelli ed i vestiti un poco bagnati, segno che aveva iniziato a piovere.
«Hey, che succede?» Chiese poi notando le espressioni interdette delle ragazze.
«Niente!» Saltò su Dominique, facendosi avanti e prendendo sottobraccio il ragazzo. «Possiamo andare.»
«Oh, bene. Lyn, non vieni?»
Fece Potter alla Black.
«Evelyn deve andare in dormitorio a fare una cosa.» Intervenì la Weasley. «Sai, roba da donne.» Specificò facendo un'occhiolino.
James scrollò le spalle con indifferenza.
«D'accordo, allora a dopo!»
La Black li guardò avviarsi entrambi in direzione della Sala Grande, ferma in mezzo al corridoio.
Dopo qualche secondo si rese conto di avere la mascella ancora aperta e gli occhi ancora spalancati, così scosse il capo e stringendosi la tracolla attorno alla spalla e si affrettò a dissimulare ogni sentimento; piuttosto percosse velocemente il corridoio, svoltando subito in un altro.
«Perché quella faccia sconvolta, donna?»
Sobbalzò portandosi le mani al petto.
«Katie! Niente... ti stavo cercando.»
La Bones le si avvicinò con le sopracciglia inarcate. 
«Che succede? Sembra che tu abbia visto Potter con un'altra.»
Ad Evelyn scappò un sorriso. «No, è che...»
Sbatté un paio di volte le palpebre e ricordò Albus appoggiato alla colonna che le diceva...
«Oh Merlino!» Urlò, facendo cadere la borsa con tutti i libri.
«Cosa?»
«Godric e Priscilla! Tosca! E anche Salazar!»
«Vuoi stare calma e spiegarmi cos'è successo?» Sbuffò Katie guardandola accigliata.
«Pottmchduscr!»
«Come?»
Evelyn prese un lungo ed intenso respiro, che cercò di farsi largo tra il sorriso che occupava gran parte del viso.
«Potter mi ha chiesto di uscire!»
«Oh beh, era ora.»
La Black prese improvvisamente a saltellare e piroettare lungo il corridoio.
«Diamine, ti vuoi calmare?»
«Katie... ti non capisci! Era lì, con i suoi occhioni bellissimi e verdi e mi guardava... Lo sai come vado in palla quando mi fissa!»
«Aspetta, ma tu stai parl-»
La Grifondoro le saltò addosso, gettandole le braccia attorno al collo e tutto ciò che poté fare la Serpeverde, fu sbuffare un «Patetica.»
«Non credevo che sarebbe mai successo... È il sogno di una vita e...»
«Non esagerare.» La frenò la Bones, alzando gli occhi al cielo. «Comunque, perché mi cercavi?»
«Perché...» Si guardò le scarpe, tenendo il capo chino.
Perché era sola.
Katie sorrise. «Ti va di dormire da me, stanotte? Così mi racconti per bene come è andata.»
«Sì!» Saltò sul posto Evelyn. «Cioè, mi piacerebbe molto. Tu hai già cenato?»
L'altra annuì, trattenendo un sorriso divertito. «Ora vai a cena, ci vediamo dopo da me. La parola d'ordine è 'Bellum carminae'.»
La Black annuì ripetutamente e poi s'incamminò verso la Sala Grande più tranquilla e a suo agio, di prima.
Katie aspettò che scomparisse dietro l'angolo, poi corse verso le scale e prese a salire, fermandosi una volta raggiunto il quarto piano. Controllò furtivamente che non la vedesse nessuno e s'infilò nel bagno femminile, meglio conosciuto come quello di Mirtilla Malcontenta.
Si chiuse attentamente la porta alle spalle ed avanzò lentamente.
«Ci sei?» Sussurrò, fermandosi davanti ad un cubicolo.
«Sì.» Rispose una voce maschile, ferma e bassa.
La Serpeverde si mordicchiò le labbra ed entrò nel cubicolo adiacente.
«Non sei venuto ieri, nemmeno mercoledì. Come mai?» Chiese cercando di sembrare disinteressata.
«Ho avuto qualche problema da risolvere.»
«Qualcosa di grave?»
«Qualcosa di stupido. Tu come stai?»
Katie si sedette sopra il water chiuso, mettendosi più o meno comoda.
«Bene, credo. Sono solo un po' preoccupata.» Sospirò.
«Perché preoccupata?»
«Per vari motivi...»
La voce maschile ridacchiò. 
«Puoi parlarmene.»
Katie si mordicchiò le labbra. «Diciamo che c'è questa... Amica che è innamorata di un idiota. E... Non credo che l'idiota ricambi. Le spezzerà il cuore. E poi domani non posso andare ad Hogsmeade perché quella puttana lavora in un negozio...»
«Intendi tua madre?»
Katie sbuffò. «Sì, lei.»
«Hai paura d'incontrarla?»
«Non ho paura!» Mentì Katie, cercando di sembrare disgustata all'idea. «È solo che non voglio vederla.»
«È tua madre.»
«No, è solo una troia.»
Sentì un sospiro dall'altra parte dell'anta di legno.
«Ma non puoi evitarla per sempre, no?» Riflesse la voce, in tono basso.
La ragazza sospirò, ma non rispose.
«Me lo racconti ancora, quel mito babbano?»
Il ragazzo rise, di gusto.
«Hai un modo particolare per evitare di rispondere alle domande che non ti piacciono.»
«Per favore.»
Lui rise ancora.
«Mi sento un po' idiota a raccontare miti greci babbani, in un bagno. E ad una sconosciuta poi.»
«Okey, in un bagno non è il massimo e, sì, io sono una sconosciuta, ma tu non sei un idiota.» Fece Katie. «E poi, mi piace quel mito.»
Il ragazzo sbuffò. «Va bene, ma voglio che sia chiaro che l'unico motivo per cui lo conosco a memoria è che mia zia era fissata e lo riteneva più istruttivo delle favole.»
Katie rise di gusto, portandosi le ginocchia al petto e cercando di rimanere in equilibrio.
Il ragazzo, dall'altra parte, prese fiato ed iniziò:

 
«Ah! se intorno a quest'urna funesta,
Euridice, ombra bella t'aggiri,
odi i pianti, i lamenti, i sospiri
che dolenti si spargon per te.
Ed ascolta il tuo sposo infelice,
che piangendo ti chiama, e si lagna,
come quando la dolce compagna
tortorella amorosa perdé».






 
*





Ministero della Magia, Ufficio Auror

«Avanti.»
Draco Malfoy si fece avanti, col suo solito passo lento e nobile, tanto che Harry fece in tempo ad alzare gli occhi al cielo e sbuffare più di una volta.
«Malfoy.»
«Potter.»
L'uomo si sedette senza aspettare che l'Auror lo invitasse.
«So che le ricerche sull'attacco ad Hogwarts stanno ancora andando avanti» buttò lì, per entrare direttamente nel discorso, evitando inutili convenevoli.
«Non dirmi sei sei qui per questo motivo, non sono stupido.»
«Concedimi il beneficio del dubbio, Potter. Piuttosto, sono qui per darvi una mano.»
Il moro inarcò accuratamente le sopracciglia. «Credi sul serio che vorremmo farci aiutare da un ex Mangiamorte, nonché uno dei sospettati?»
Draco socchiuse gli occhi, minaccioso.
«Il fatto che tu sia il Prescelto, su di me non ha alcun fascino. Perciò stai attento alle parole che usi.»
«Ti sei solo fatto un giretto. Se non sei un testimone oculare - cosa che non sei - e se non sei nemmeno un Auror - per la grazia di Godric, non sei nemmeno questo! - non hai diritto d'intervento nelle indagini.»
Il signor Malfoy si bloccò sul posto. Alzò il mento e guardò l'uomo dritto negli occhi.
«Sai, Potter, era molto più divertente quando ero io quello stronzo.»
«Malfoy, facciamo finta che sei passato a salutarmi e che ora - dopo esserti reso ridicolo - te ne vai e non torni mai più?»
Draco si alzò, poggiandosi con le mani sulla cattedra di Harry e guardandolo dall'alto.
«Di' un po', Potty, ti sei tutt'un tratto rimbambito? Eh? Niente torture e niente morti: sul serio hai pensato che fossero Mangiamorte?»
«Che diavolo stai-»
«Il Marchio Nero sul braccio di Evelyn è stato forgiato col fuoco, Potter!» gridò. «E il Marchio Nero viene forgiato con l'Ardemonio.»
Harry rimase in silenzio, aspettando che continuasse, ma Malfoy si allontanò verso la porta.
«Non ti è passato per la testa che avessero fatto finta di essere Mangiamorte, per allontanare i sospetti da loro?!» Scosse il capo, lasciandosi sfuggire un sorriso mesto. «Sta succedendo proprio sotto il tuo naso, ma il pregiudizio ti acceca. Sul serio, ti credevo meno stupido.»
E si chiuse la porta dietro, con inimitabile ed arrogante eleganza.



 
"La paura crea il nemico, il nemico crea la difesa e la difesa crea l'attacco. Questo va compreso: se hai paura sei contro tutti."
-Osho Rajneesh







 
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Capitolo 9
*** IX. Caos ***


 

 

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IX.

Caos

 
 

La Giustizia condanna i reati in base alla sequenza delle azioni.
Parte dagli effetti, ne valuta poi le conseguenze ed infine tenta di risalire alle cause.

Ma se non ci fosse alcuna causa, alcun ordine di successioni?

Se avvenisse tutto casualmente?

Se a governare il cosmo fosse il Caos?

Allora, chi incolpare delle catastrofi?

Chi giudicare? Chi condannare?

Chi odiare?

 

In ogni caos c'è un cosmo,
in ogni disordine un ordine segreto.


Carl Gustav Jung.






§§§

 

 

 

 

Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts - I Settembre, 1970

«Regulus Arcturus Black.»
La voce di Minerva McGranitt gli giunse lontana, soffocata da qualche risata distratta in fondo alla Sala Grande, da commenti indiscreti e bisbigli poco più prudenti che il suo cognome aveva suscitato sugli studenti. Riuscì a ridestarsi in tempo solo perché il tono arcigno della vicepreside stonò con l'ordine dei suoni che gli rimbombavano contro.
Si mosse più velocemente di quanto aveva creduto che sarebbe riuscito a fare, ma esattamente come aveva deciso: passi lunghi, ritmo costante, andatura leggera. Quando si voltò, sedendosi sullo sgabello, tenne il mento alto e gli occhi fissi davanti a sé senza concentrare lo sguardo su nulla, imitando l'espressione fiera che aveva visto spesso il padre assumere.
«Mmm... un altro Black?»
La vocina bassa del Cappello Parlante con il suo timbro teatrale gli giunse, invece, immediata.
«Vediamo... Dove ti metto, eh? No, nemmeno tu sei Serpeverde... Per niente. Eppure nemmeno Grifondoro. Non vedo né orgoglio né egoismo, né coraggio né viltà. Dove ti metto?»
«No, aspetta!» Bisbigliò Regulus al Cappello, agitandosi sullo sgabello. «Voglio essere assegnato alla Casa Serpverde!»
Il Cappello tacque un istante, prima di rispondergli con voce ferma. «Tu non ne sei all'altezza, Regulus.»
«Devo essere un Serpeverde.» Insistette l'undicenne.
«Sei riflessivo, paziente, diplomatico e passivo. Tu sei buono: un Tassorosso in tutto e per tutto!»
Regulus scosse il capo, con convinzione. «No, devo essere un Serpeverde. Io sarò un Serpeverde.»
«Non ne sei in grado, Regulus. Non reggerai. Te ne pentirai.»
L'avvertimento del Cappello Parlante suonava come una promessa.
Eppure Regulus se n'era fatto una ragione, molto tempo prima: certo che se ne sarebbe pentito. Avrebbe singhiozzato per il rimpianto e urlato per la frustrazione; avrebbe sudato d'ansia, mentre lo stomaco gli si strozzava per l'angoscia; si sarebbe nascosto sotto il letto, dentro l'armadio, dietro le armature e nei ripostigli pur di stare un po' con se stesso e permettersi di essere finalmente "Riflessivo, paziente, diplomatico, passivo" e la bontà l'avrebbe sepolta, tra astuzia ed egoismo storpiati dalla sua incontrovertibile debolezza.
La sua bontà era la sua debolezza.

Quando il Cappello Parlante annunciò a gran voce il risultato del suo smistamento, il tavolo Serpeverde lo acclamò con lo stesso orgoglio che Regulus mostrò sul viso, dietro pieghe più profonde e ben camuffate che celavano la sua condanna.
Sirius, dall'altra parte della Sala Grande, gli dava le spalle - deluso e amareggiato - mentre le budella di Regulus si annodavano ed incespicavano nella sua bontà infossata.
Se n'era già pentito.

 

 

 

 

§


 

«Stai bene, Louis?»
La Tana profuma di pane.
Lo zio George è seduto sulla sedia di legno scuro, quella che a tavola - da quel che Louis riesce a ricordare - rimane sempre vuota, e lo guarda con un sorrisetto sbarazzino, fanciullesco e forse anche un po' saccente. Indossa il maglione rosso che la nonna gli ha cucito e regalato per Natale, sul quale è stampata una 'G' dorata.
Louis sospira. «Sto sognando, vero?»
«Un sogno?» Valuta suo zio. «Beh, tecnicamente sì. Però, io penso sia qualcosa di più.»
«Se sono qui è perché c'è qualcosa che non va, no?» Chiede.
«Non lo so, Louis.» Gli sorride lo zio. «Dimmelo tu.»
Il ragazzo prende a guardarsi intorno, rassegnato.
La sala da pranzo della Tana è pulita ed ordinata, come Louis non l'ha mai vista; ma profuma di pane, come sempre.
«Non siamo nel futuro.» Nota. «Nemmeno nel passato.»
«No, non si tratta di quel tipo di tempo.» Annuisce lo zio, affiancandolo.
Si avvicina alla finestra. In giardino ci sono Lily, Hugo, Amelia Nott e Joshua Thomas.
«Zio George, perché il cielo è nero?»
«Perché sta arrivando una tempesta, Louis.»
Louis si concentra e guarda meglio. «Lily, Amelia e Hugo piangono. Perché piangono? Dov'è finito Joshua?
Che sta succedendo?»
Cerca di aprire la porta che dà sul cortile, ma la maniglia non si muove, così tenta di forzarla.
«Non si apre! Zio, aiutami!»
Guarda oltre la finestra. Ha iniziato a piovere.
«Sangue? Sta piovendo sangue...»
Lo zio sospira. «Io accendo il camino. Tu vai a dire a Lily, Amelia e Hugo di rientrare: fa troppo freddo fuori.»
La porta si apre. E Louis cade.


La sveglia non era suonata.
Si guardò intorno: era tardi, in dormitorio era rimasto solo lui.
Non aspettò di calmarsi, di pensare a come agire o dove andare. Louis scostò le coperte con impazienza ed occhi chiusi, mentre gocce rosse continuavano a pizzicargli lo sfondo scuro delle palpebre. Scattò in piedi ancora fisicamente debole per il sonno pesante e psicologicamente sconvolto per il sogno; raccolse i primi indumenti che trovò: una maglione di Fred, i pantaloni del pigiama di Liam, una scarpa di James e una di Frank e stava proprio per mettere il primo giubbotto che gli capitò davanti, che qualcuno bussò alla porta.
Sobbalzò, inciampando sui lacci della scarpa sinistra di Frank. Corse in bagno per sciacquarsi il viso, ma finì col bagnarsi le maniche, troppo lunghe per lui, e con lo spruzzarsi acqua addosso.
Si sarebbe preso un malanno col tempo che c'era fuori, ne era certo.
Bussarono ancora alla porta e Louis scivolo un paio di volte nell'acqua schizzata per terra prima d'inciampare sulle pantofole a forma di cervo di James e sul baule al centro del dormitorio di Fred.
Prese la sua bacchetta dal comodino, rotolò sul letto di Liam e raggiunse la soglia saltellando su un piede.
Quando la porta del dormitorio maschile del settimo anno Grifondoro si aprì, Adam Zabini si ritrovò davanti un Louis Weasley confinato in un maglione verde grande il doppio di lui, pantaloni grigi e le scarpe spaiate, con tanto di cufietta rossa sui capelli biondi bagnati.
«Ehm... Tutto bene?»
Louis arrossì e sbiancò con una frequenza decisamente preoccupante. Tossì cercando di nascondere lo stupore, nel ritrovarsi Adam davanti, e il disagio per la situazione in cui si trovava.
«Ciao, mi chiamo Adam Zabini, non so se...»
Louis annuì, abbassando lo sguardo: sapeva benissimo chi era.
«Non è un buon momento?» Si preoccupò l'altro.
«No.» Si lasciò sfuggire Louis. «Cioè sì.» Arrossì, chiudendo dietro la porta il disordine del dormitorio. «Chi cercavi?»
Adam scosse il capo. «Volevo solo chiederti come... stai. Sai...» Agitò le mani, con fare esplicativo. «Dopo quella cosa... Non sono più passato in infermeria e...»
«Oh.» Deglutì. «Bene. Sto bene, nulla di che.»
Non riuscì a non sentirsi ulteriormente imbarazzato: persino un Serpeverde - e per di più del sesto anno - era più coraggioso di lui; se poi il ragazzo in questione era Adam Zabini, la faccenda si complicava non poco.
«Sei riuscito a ricordarti chi è stato? A farti... Insomma, ad attaccarti.»
«No!» Mentì con fare sbrigativo Louis. «Non ne ho idea.»
Aveva passato sette anni della sua vita a sperare che Adam Zabini gli rivolgesse la parola, anche solo per sbaglio. E per la precisione era successo una volta, quando Louis era al quinto anno ed Adam al quarto: gli aveva chiesto la tabella di prenotazione del campo di Quidditch e lui aveva boccheggiato ed era corso via.
Adam Zabini aveva accuratamente scelto il giorno in cui Louis aveva previsto una catastrofe per rendersi conto della sua effettiva esistenza.
Il Serpeverde spostò qualche ciocca nera dalla fronte. «Se ti dovesse tornare in mente, ecco, fatti vivo. Io non credo che riuscirò a tornare, sai, non ci permettono mai di avvicinarci alla Torre Grifondoro. Oggi sono stato fortunato perché sono tutti ad Hogsmeade...»
«Oggi... È sabato!» Louis si schiaffeggiò la fronte, ricordando.
«Sì, stavo proprio per andare... »
«No!» Scattò Louis, allarmato.
«Cosa?» Sgranò gli occhi scuri, Adam.
«Non uscire dal Castello! Non farlo assolutamente, per nessuna ragione!» Si agitò sul posto, guardandolo con gli occhi fuori dalle orbite.
«Perché? C-che succede?»
«Non c'è tempo, mi dispiace.»
Lo superò e prese a scendere le scale, mentre l'altro lo inseguiva di corsa.
«Mi spieghi che diavolo ti prende? Voi Weasley siete affetti da disturbi di bipolarità a livello magi-psichiatrico o siete semplicemente posseduti?» Si lamentò il Serpeverde alle sue spalle.
Louis superò il ritratto della Signora Grassa, uscendo dalla Sala Comune, ma Adam gli si parò davanti.
«Allora?» Lo incitò.
Sospirò. «Senti, sta per succedere qualcosa di grave e se non ti sposti, sarò costretto a schiantarti.»
Non l'avrebbe fatto, ma Adam lo affiancò riprendendo a scendere le scale assieme a lui.
«E cos'è che sta per succedere?»
«Non lo so.»
«Dov'è che succederà?»
«Non ne ho la minima idea.»
«Allora, dove diamine stai andando? Vengo anche io!»
Louis si fermò davanti al portone, col respiro ancora affannato. «Tu non ti muovi da Hogwarts. Non superare l'atrio.»
Adam provò a ribattere, ma il Grifondoro lo precedette.
«Vuoi aiutare? Impedisci ad altri di uscire dall'edificio, usa la forza se è necessario. Cerca la preside o qualunque professore e digli di contattare gli Auror e di mandarli ad Hogsmeade il prima possibile. Vai da Madama Chips e dille di preparare l'infermeria. Raggruppa tutti in Sala Grande e metti qualcuno a guardia dei cancelli. E con qualcuno intendo professori o studenti del settimo anno. Resta in Sala Grande assieme agli altri.» Gli puntò l'indice contro, nonostante la sua mano tremasse. «È un ordine.»
«Stai scherzando? Non posso... Mi prenderanno per pazzo!»
«Benvenuto nel mondo dei disadattati.»
Adam lo fisso con occhi sgranati e labbra asciutte. «E tu che fai, invece?»
Louis sospirò e gettò un'occhiata al cielo carico di nubi, oltre il grande portone.
«Sta arrivando una tempesta.» Ricordò le parole dello zio George nel sogno.
Stava succedendo. Era tutto collegato.
«Allora prendi il mio giubbotto.» Adam si sfilò l'indumento e glielo porse. «Con un diluvio simile, senza giubbotto, sarò meno tentato di uscire.»
Louis lo accettò e, se non fosse stato tanto agitato, si sarebbe vergognato di portare le stesse misure di un ragazzo più piccolo di lui.
«Vedi di riportarmelo indietro così come te l'ho dato.»
Sarebbe arrossito e avrebbe cercato di reprimere un sorriso imbarazzato, se un tuono non avesse mozzato il fiato all'aria, facendoli sussultare entrambi.
La catastrofe era iniziata.

 

 

 

 

 

*



 

Pioveva.
L'acqua le entrava nelle scarpe.
E pioveva.
Aveva i calzini bucati.
Ma pioveva.
La cerniera della giacca si era rotta. L'anno prima.
Pioveva.
La gente correva da tutte le parti, verso un riparo.
E pioveva.
Lei era ferma, al centro della strada.
Ma pioveva.
E non c'era riparo.
C'erano solo la pioggia, il freddo, la gente che correva e quell'abito rosso esposto nella vetrina che aveva davanti. E da qualche parte c'era anche lei.
È solo che pioveva. E la pioggia non faceva distinzioni; non la pioggia, almeno.
Non aveva la minima idea di cosa stesse facendo quando entrò nel negozio di abbigliamento e chiese se poteva provare l'abito, ben sapendo che mai avrebbe potuto acquistarlo.
Quando si chiuse la tenda del camerino alle spalle, si sentì terribilmente stupida.
Aveva in mano velluto rosso; indossava scarpe bagnate, calzini bucati e la cerniera della giacca continuava ad essere rotta.
Vedeva qualcosa di grottesco riflesso nello specchio: l'abito rosso sotto braccio la rendeva ridicola, lei lo derideva. Lei e il velluto erano metaforicamente due prezzi di puzzle omogenei che mai avrebbero potuto incastrarsi, ma solo perché uno dei due era storto e difettoso.
Perché c'erano quelli che indossavano il velluto e quelli che lo lavoravano; quelli per cui il velluto era solo un decoro del loro valore e quelli che sospiravano davanti al suo valore; quelli a cui il velluto donava sotto la meraviglia di coloro che potevano solo guardare.
Ogni persona nasce, vive e rimane in un preciso e deciso posto al mondo. Deciso da chi? Caos o Ordine? Colpa di tutti o nessuno? Colpa di qualcuno?

«E questo? Questo com'è? Damon? Mi stai ascoltando?»
«Mmh? Ma non è lo stesso di prima?»
«No, tesoro, quello di prima era lilla sbiadito.»
«E questo com'è, scusa?»
«È rosa pallido!»
Roxanne si aprì una prudente fessura tra le tende del camerino e spiò nell'atrio. Dalla sua prospettiva s'intravvedeva un divanetto nel quale era malamente stravaccato qualcuno, di cui però riusciva a vedere solo le scarpe di pelle di drago - e non aveva dubbi su a chi potessero appartenere; la seconda figura era in piedi e di spalle, ed il primo elemento che attirò l'attenzione di Roxanne per l'appunto furono i capelli, capelli biondi, molto biondi.
«Allora? Meglio questo o l'altro?»
La bionda fece un piroetta sul posto con garbo e raffinatezza, e si portò le mani sui fianchi.
Roxanne la riconobbe a fatica, doveva chiamarsi Qualcosa Stevenson - non aveva la minima idea di quale fosse il nome - e se non ricordava male doveva essere una Corvonero, oltretutto del suo stesso anno, ma non riusciva a venirle in mente nient'altro.
«Ehm... Perché non li prendiamo entrambi?» Propose risolutivo il ragazzo, accennando un sorriso.
La bionda si lisciò la gonna, guardandosi allo specchio. «Sì, forse hai ragione. Dove è finita la commessa di prima?» Prese sotto braccio un'altra decina di abiti scelti ed uscì dall'atrio dei camerini, commentando l'efficenza del servizio del negozio.
Roxanne aspettò qualche secondo, almeno che Harper concludesse il suo sbadiglio, prima di scostare malamente la tenda ed uscire allo scoperto.
«Hey, ciao!» La salutò lui, quasi cordiale.
Roxanne Weasley corrugò gli occhi minacciosa e gli puntò il dito contro.
«Damon Stephen Harper, tu hai la ragazza?»
Lui sbatté le palpebre, pensieroso. «Sai qual è il mio secondo nome?»
La Grifondoro non poté trattenersi dal tirargli un calcio, anche se era a piedi nudi.
«Diamine, sta' ferma!» Si lamentò lui.
Roxanne si guardò attentamente attorno, poi gli arpionò un braccio e se lo trascinò dentro il camerino - senza trattenersi dal tirargli un paio di pizzicotti nel frattempo; una volta dentro, dopo essersi assicurata che nessuno si fosse che aveva trascinato di peso (giuridicamente: rapito) una persona, chiuse attentamente le tende e lo spinse contro lo specchio.
«Dimmi che quella è tua sorella, ti prego.» soffiò la Weasley, tra l'esasperato e il minaccioso.
L'altro inarcò le sopracciglia. «Tra le mie perversioni non è contemplato l'incesto.»
S'impedì di trattenere il respiro e mostrare quanto era allarmata. «Tu hai davvero la ragazza?»
Damon si grattò i capelli. «Forse dovresti fartela pure tu, una ragazza...» Suggerì, incrociando le braccia e appoggiandosi comodamente alla parete-specchio. «E poi... Che ci fai tu qui?»
Roxanne digrignò i denti, indecisa su come rispondergli: verbalmente o fisicamente, ossia urlargli contro fino a quando l'avrebbero buttata fuori dal negozio o prenderlo a pugni fino a quando non avrebbero sbattuto lei ad Azkaban e lui al S. Mungo.
«Harper, ti do la possibilità di ritirare quello che hai detto.»
Lui sorrise, quasi. «Perché? Avrebbe cambiato qualcosa?» La fronteggiò.
La ragazza gonfiò il petto, inspirando forte. «Certo! Avrei... Non mi sarei azzardata a... Io non sapevo che... Avresti dovuto...»
Il Serpeverde scosse il capo, astenendosi da una presa di posizione sul discorso. Piuttosto soffermò lo sguardo sui suoi capelli ancora bagnati dalla pioggia, sulla pelle d'oca, sull'abito di velluto rosso, sui suoi piedi nudi ed ancora sull'abito.
«È a questo che servivano i cinquanta galeoni?»
Allungò la mano fino a toccare una parte della stoffa di velluto, sul fianco di lei.
«Carino.» Commentò sarcastico, ghignando.
Roxanne gli tolse la mano dal suo fianco con poco garbo, senza dargli alcuna spiegazione o giustificazione - senza nemmeno dirgli che in realtà l'abito costava più di centocinquanta Galeoni. La spiegazione c'era in realtà ed era più che valida, ma ciò che spiega non giustifica.
«Damon? Damon, dove sei?»

Roxanne ebbe la quasi certa impressione che prima di scostare la tenda ed uscire dal camerino, senza nemmeno salutarla, lui avesse aspettato; era stato un istante - di sguardi pesanti e respiri densi - in cui lui aveva esitato. Roxanne non disse nulla però: non smentì e non confermò, si astenne; ignava, si astenne dal dare una motivazione - non per forza a lui, semplicemente di pronunciarla ad alta voce. Perché? Perché dire la verità - non importa a chi - è come offrire un pugnale impregnato di veleno alle persone, dopo aver mostrato loro il tuo punto più vulnerabile. Perché la verità è un segreto e non appena la si confida a qualcuno, quel qualcuno diventa inevitabilmente un nemico. Perché certe verità sono mostri, pronti a sbranare entrambi i suoi custodi.
Nessuno dice mai la verità, la completa verità, sincera e pura, spoglia di illusioni; perché? Perché nessuno è capace di esprimerla e nemmeno di comprenderla.


Pioveva.
L'acqua le entrava nelle scarpe. Non le dava poi così tanto fastidio.
E pioveva.
Aveva i calzini bucati. Non importava, dopotutto.
Ma pioveva.
La cerniera della giacca si era rotta. L'anno prima. E andava bene così.
Perché in realtà quei calzini bucati, così come le scarpe sfasciate e la cerniera rotta erano lei e l'aveva capito nell'esatto momento in cui aveva indossato il vestito, aveva compreso che nonostante le donasse, non era lei.
Roxanne era calzini bucati, scarpe sfasciate e giacche rotte.
«Dannazione, dov'eri finita?» Non appena varcò la soglia dei Tiri Vispi Weasley, Fred le venne incontro con tre scatoloni in mano che gli coprivano il viso. «Papà ti sta cercando.»
Lei non rispose, piuttosto lo aiutò a disporre i prodotti di ogni scatola nell'apposito scaffale.
«La mamma?» Chiese mentre ordinava delle maschere Mutaforma in base all'animale in cui trasfiguravano.
Fred si fece largo tra un paio di studenti curiosi di provare le Scarpe Alate e le si avvicinò. «La mamma, cosa?»
Roxanne lo guardò con disprezzo. «Come sta?» Precisò poi, calcando sulle consonati.
«Sta bene, è di sopra.» Rispose lui in tono basso, facendo finta di nulla.
La ragazza finì di sistemare il terzo scatolone e, cercando di superare una massa di studenti urlanti e sovreccitati per gli ultimi prodotti, raggiunse il padre alla cassa; e Fred la seguì in silenzio.
Cercò di non lasciare trasparire nulla davanti al padre: lo abbracciò, gli sorrise chiedendogli come stava, gli diede una mano alla cassa - il tutto sotto gli occhi del fratello; ma quando tirò fuori il denaro e gli porse i cento Galeoni, capì. Non era il solo disagio di chi tendeva la mano, ma anche chi la porgeva ne era infastidito. E allora non si trattava più di agire a causa delle proprie pene o per pietà, forse non bisognava stare necessariamente da una parte o dall'altra del denaro per sentirsi più o meno a disagio, quando in realtà era il denaro stesso ad essere disagio.
«Ah, ma allora ce l'avete fatta!» George Weasley ignorò i clienti alla cassa che aspettavano di pagare. «Vostra madre sarà contentissima, non vede l'ora di tornare a muoversi.» Esclamò decisamente entusiasta.
Roxanne annuì, lasciandosi scappare un sorrisetto quando vide la fila di studenti alla cassa che guardavano male il padre.
«Quanti sono?»
«Cento Galeoni, papà, come avevamo concordato.»
Percepì gli occhi di Fred farle pressione, alle sue spalle.
«Io sono riuscito a raccogliere i duecento Galeoni, che insieme ai vostri cento... Diciamo, che faremo una bella sorpresa alla mamma!»
Abbracciò il padre, sorridendogli sul collo. «Vado su da lei.» Gli sussurrò all'orecchio, riferendosi all'appartamento sopra il negozio.
Mentre il padre tornava alla cassa, Roxanne si diresse alle scale ben consapevole di essere seguita.
«Dove li hai presi?»
«Vattene.» Sospirò stanca, ma egualmente rancorosa.
«Cinquanta Galeoni in un giorno, Roxanne! Dove li hai presi?» Insistette lui, fermandola sulla rampa di scale. «Non li avrai... Rubati?»
Lei si fermò e lo fronteggiò. «E se anche li avessi rubati? E se lo avessi veramente fatto?» Lo provocò, guardandolo dritto negli occhi. «Tu per la mamma non l'avresti fatto?»
«Non così!» Fece lui, sdegnato. « È sbagliato! Ed ingiusto!»
«Dannazione Fred, guardati intorno! È tutto ingiusto! Noi viviamo nell'ingiustizia!» Gli urlò in faccia. «Leva quei cazzo di paraocchi, esci dal tuo mondo di fatine e guardati attorno!»
«Non mi parlare così...»
«La vita è ingiusta con me - con te, con mamma, con papà - perché io dovrei essere giusta?»
«La vita non è ingiusta, Roxanne. È la gente ad esserlo.» Sospirò Fred. «E facendo così, ti comporti esattamente come loro.»
«Non m'importa. Io sono disposta ad esserlo per mamma e papà.» Deglutì lei. «E anche per te.» Gli diede le spalle.
«Stai sbagliando. Stai sbagliando tutto.»
«Tu non hai il coraggio di farlo.»
Fred non rispose e lei se ne andò.

La sua mamma dormiva sul divano.
Sopra il tavolo c'erano ancora i resti della colazione; vicino al divano, la sedia a rotelle.
A volte, Roxanne scivolava - probabilmente cadeva proprio, perché faceva male - nella speranza. Immaginava come sarebbe stata la loro vita se sua madre avesse smesso di giocare nelle Holyhead Harpies, se non fosse mai caduta dalla quella dannata scopa e non si fosse mai rotta la spina dorsale; nessun incidente, nessuna Pozione Mobilitante, niente trecento Galeoni per la cura; i suoi genitori avrebbero gestito il negozio assieme, non avrebbero dovuto scalare grandi quantità di denaro dai guadagni perché non ci sarebbero state alcune cure da pagare. Sua madre sarebbe stata felice. Avrebbero potuto esserlo tutti.
E così come cadeva, era costretta a strisciare, aggrapparsi alla prima delusione e rialzarsi dall'illusione. Sua madre stava male, aveva bisogno di una pozione per muoversi e loro dovevano sborsare più della metà dei guadagni per la cura. Sua madre stava ugualmente male. Nessuno era davvero felice.
Ed era ingiusto.
Andò in cucina e iniziò a lavare i piatti, senza magia.
Anche in quel momento, all'asciutto, pioveva lo stesso. Le scarpe erano ancora bagnate, i calzini ancora bucati, la cerniera della giacca ancora rotta. E non c'era riparo.

 
 
Chinavo il capo, e pioveva, non dicevo una parola agli amici, e l'acqua mi entrava nelle scarpe.
-E. Vittorini, Conversazione in Sicilia





 

*


 

Il migliore amico di Rose Weasley era un barbone.
Era un mago sulla cinquantina, con la pelle scura e i denti bianchissimi che facevano contrasto, emigrato in Inghilterra qualche anno prima e siccome non aveva trovato lavoro in un'orchestra, si sedeva ad Hogsmeade e suonava il violino su una panchina. Per alcuni era un barbone, per altri un musicista.
Nessuno aveva idea di quale fosse il suo vero nome - nemmeno la ragazza, in realtà - poiché l'uomo non solo non parlava la lingua inglese, ma non l'aveva mai specificato e non era stato in grado di farlo; tuttavia, Rose aveva dovuto improvvisare, prendere l'iniziativa ed aveva così deciso di chiamarlo King, e pareva anche che lui avesse compreso la sua scelta perché rispondeva all'appellativo.
Si conobbero quando lei era al terzo anno: King occupava la sua panchina e suonava "Il Notturno" di Chopin, Rose si era seduta a gambe incrociate vicino a lui ad ascoltare; poi aveva comprato un panino e lo avevano diviso, mentre cercava di insegnargli i nomi in inglese delle verdure nel panino.
Erano ormai più di tre anni che ad ogni uscita ad Hogsmeade, Rose comprava un panino ed un succo di frutta ed andava da King. Lui suonava e lei ballava o ascoltava a seconda del ritmo della musica, poi dividevano il panino ed il succo, mentre lei gli dava qualche lezione di vocaboli.
In poche parole, Scorpius Malfoy si era rassegnato al fatto che avrebbe dovuto trascorrere almeno metà giornata seduto su una panchina arrugginita, a guardare la sua ragazza chiacchierare con un cinquantenne assolutamente sconosciuto. E in tutta sincerità ciò che lo infastidiva di più era che Rose lo trascinava con lei e poi lo ignorava, ed infine lui era costretto a guardare un barbone suonare, la sua ragazza ballare, guardarli dividere da mangiare e da bere, chiacchierare chissà come, visto che l'uomo non sapeva un accidenti d'inglese, mentre lui se ne stava all'angolo della panchina in assoluto silenzio. Oltretutto la Weasley pretendeva che dividesse anche lui del cibo con King e - in nome di Salazar - che ballasse anche lui con lei.
Col senno di poi, Scorpius capì che in realtà King e la sua musica tribale africana erano la parte più divertente della giornata perché a quanto pareva la sua ragazza passava le sue uscite ad Hogsmeade a chiacchierare, non solo con barboni, ma anche con vecchiette mezze sorde.
Mrs Honey era una signora anziana sull'ottantina, con denti e capelli cadenti, che frequentava Testa di Porco. Sedeva sempre sola e, per un motivo a Scorpius totalmente e interamente estraneo in tutte le sue possibili esplicazioni, Rose si sentiva in dovere di sedersi con lei a bere il thè e spettegolare con la vecchietta di alcune sue amiche che nemmeno conosceva.
Ora, un conto era ascoltare musica e dividere un panino con il barbone - che dopotutto, doveva ammetterlo, era anche piuttosto amichevole -, un altro era stare seduto alla Testa di Porco, a bere il thè più disgustoso che avesse mai provato - ammesso che fosse veramente thè - ed ascoltare una vecchietta mezza sorda e mezza ammattita che urlava quanto fosse invidiosa una certa Mrs Geesy dei suoi denti canini non ancora caduti. Quando poi Rose annuiva ed affermava con tono partecipe che Mrs Geesy era davvero "Una sguattera!", non sapeva se ridere fino all'asfissia o piangere fino alla disidratazione. Naturalmente, non solo doveva sorbirsi i pettegolezzi sul marito di Mrs Geesy - e su una presunta amante -, ma Rose pretendeva che lui partecipasse e, come sospettò sin dall'inizio con orrore, che facesse complimenti alla vecchietta e la contraddicesse quando piagnucolava sulla propria veneranda età e prediceva la propria imminente morte. Per quanto gli potesse dispiacere - e non gli dispiaceva affatto, sia chiaro, perché non gliene fregava assolutamente nulla - Scorpius avrebbe voluto urlare a Mrs Honey che, sì, sarebbe morta perché era un'accidenti di vecchietta e che invece di spettegolare avrebbe dovuto passare gli ultimi mesi della sua vita a fare qualcosa di più meritevole, anche solo dormire.
La terza parte della propria giornata libera, Rose Weasley la trascorreva al parco e Malfoy stava quasi per tirare un sospiro di sollievo, prima di vederla andare in contro ad un gregge selvatico di mocciosi urlanti. Avevano tutti all'incirca tre o quattro anni, nonostante la mocciosetta che gli era saltata addosso continuasse a ripetere di averne dieci - e che quindi, si potevano sposare, ma solo se lui le avesse comprato un "anello fucsia scintillante". Il vero problema era sorto quando un bambinetto, geloso, lo aveva rincorso per il parco con la fervida decisione di picchiarlo perché gli aveva "rubato la ragazza". Ed i pizzicotti di quei cinque anni d'organismo pluricellulare erano solo un'anticipazione del suo futuro di Mangiamorte specializzato nella Maledizione Cruciatus.
«Rose, io ti amo, giuro, ma se hai veramente intenzione di passare in questo modo ogni sabato ad Hogsmeade, dovrò ucciderti e preoccuparmi di farlo sembrare un incidente.» Aveva ammesso, mentre risalivano per la strada principale del villaggio. «Con tutte le rosse belle che ci sono in giro, dovevo innamorarmi proprio della più pazza! Salazar, lo so che mi odi, io lo so che ce l'hai con me, che stai complottando con Morgana per rovinarmi l'esistenza, io lo so...»
Rose non parlava mai mentre passeggiavano, se c'era gente, anzi, lo ignorava con la più benevola della intenzioni. Lei saltellava, batteva il cinque ai bambini, dava un bacio sulla guancia agli anziani, accarezzava gli animali e, Scorpius non avrebbe mai potuto farci nulla, sorrideva. Rose Ariana Weasley sorrideva a tutti: uomini, donne, anziani, bambini, criminali, elfi, amici immaginari, folletti, draghi, schiopodi sparacoda, centauri, sirene, fantasmi; insomma, qualunque essere organico trovasse in giro.
E naturalmente non era un caso, c'era un motivo, insomma non è che una persona improvvisamente si sveglia una mattina e va in giro a sorridere a tutti; se incontrassimo per strada qualcuno e questo ci sorridesse, come reagiremmo? Ci allontaneremmo e prenderemmo subito le distanze, giudicandolo come persona strana. Eppure, avrebbe solo sorriso; è davvero così strano incrociare lo sguardo di un completo sconosciuto e sorridergli o ricevere da lui un sorriso? Quanto costa un sorriso? Cosa costa? Una figuraccia? Rischiare di essere classificati come persona strana?
Rose Weasley aveva deciso di essere una persona strana. Aveva deciso che valeva la pena rischiare di fare una figuraccia ed essere evitata, se il compromesso era far sorridere a sua volta le persone.
Ognuno ha i suoi guai, i suoi problemi e le sue paure: la madre che corre appena uscita da lavoro per preparare il pranzo, prima che il marito torni a casa; il signore all'angolo della strada che tenta di mettere insieme delle monetine per comprare il medicinale alla moglie; il ragazzo seduto sul marciapiede che ha appena perso una gara di ballo; la sua migliore amica che è all'incrocio e lo sta cercando per consolarlo; il bambino che cerca di convincere il padre a comprargli le Cioccorane; il che padre ha dimenticato il portafogli a lavoro; la signora fuori dal negozio che aspetta che i proprietari aprano il negozio, dopo la pausa pranzo. Ognuno lotta, ogni giorno, ogni istante, continuamente ed un sorriso, non sarebbe un incoraggiamento? Un sorriso non è solo un altro motivo per cui ne varrebbe la pena?
È solo che di questi tempi la gentilezza va poco di moda.

 

 

 

 

*



 

Lorcan Scamander sedeva all'estremità della panchina di fronte ai Tre Manici di scopa. Aveva le mani strette in un torturato pugno, la pelle pallida e lo sguardo fuggitivo di chi è abituato alla sincerità ed è stato improvvisamente incaricato di custodire il peggiore dei segreti.
Alice Paciock uscì dal locale coperta da un leggero strato di mantello. Saltò in punta di piedi un paio di pozzanghere che separavano i Tre Manici di scopa dalla panchina.
«Sta piovendo, Lorcan.» Lo aveva salutato. «Non potremmo andare in un posto all'asciutto?»
Lui per tutta risposta aveva tirato fuori la bacchetta, lanciando un incantesimo d'impermeabilità attorno alla panchina.
La ragazza sbuffò, ma si sedette. Accavallò le gambe, tirando fuori dalle tasche una lettera che passò subito al Corvonero.
Lorcan si guardò attentamente attorno prima di prenderla in mano e ancor di più quando dovette aprire la busta.
«Che ti prende?» Aveva chiesto Alice, guardandolo.
Lui aveva scosso il capo, deglutendo.

Alla Signorina Alice Paciock,
Il progresso, la ricerca e lo sviluppo dei nostri Indicibili dell'ufficio Misteri in collaborazione coi Medimaghi del S. Mungo, permettono oggi alla MM (Magi-Medicina) di spingersi oltre il fallimento materiale.
La sua condizione di Impotenza Magica, ossia il suo stato di Maganò, oggi avrà una cura definitiva. Una stimata statistica indica a favore della sua guarigione il 75% di probabilità di successo.
La invitiamo ad un colloquio il 27 Dicembre, presso il nuovo reparto Incurabili del settimo piano del S. Mungo per discutere con lei di come la nuova ricerca potrà giovare alla sua salute.

Lorcan mise la lettera dentro la busta e gliela restituì.
«Non capisco.» Enunciò dopo un po'.
«Cos'è che non capisci?» Fece la ragazza.
Lui tenne accuratamente lo sguardo basso. «Sei una maganò da sempre e non è una malattia. Non capisco in cosa consiste questa... cura.»
«Mi farebbero diventare una strega.» Ribatté prontamente lei. «Come avrei dovuto sempre essere.»
«No.» Scosse il capo lui. «Non è necessario, voglio dire... Tu stai bene anche così. Stiamo bene.» Le gettò un'occhiata. «Va bene anche così.»
«No!» Esclamò lei offesa. «Non va bene, così. Questa potrebbe essere l'occasione giusta! Se la cura dovesse funzionare, potrei diventare strega e addirittura frequentare Hogwarts!»
Lorcan ci coprì il viso con le mani e tacque.
Alice incrociò le braccia sotto il seno ed aspettò che parlasse, senza insistere ulteriormente.
La pioggia si buttava contro la bolla d'impermeabilità in modo perpendicolare e poi scivolava lungo i bordi in una cascata più flebile e meno scontrosa.
«Non farlo.» Sospirò infine lui. «Ti prego, Alice, non farlo.»
La ragazza scattò in piedi. «Tu non capisci.» Gli puntò il dito contro. «Non si tratta di te, o di noi. Si tratta di me.»
«Non capisci... Non hai idea...»
«Ho già risposto.» Lo interruppe. «Ho accettato. Farò l'intervento con o senza il tuo appoggio.»
Se ne andò senza salutarlo e la bolla d'impermeabilità s'infranse.

Ora le mani tremavano, la pelle del volto teso era livida e gli occhi rossi. Decisamente, Lorcan Scamander non era in grado di reggere i segreti.






 

*



 

Esistono tante varietà di silenzio.
C'è il silenzio imbarazzato e timido, quello esitante ed insicuro, quello denso e carico di tensione; il silenzio instabile, destinato a crollare da un momento all'altro; il silenzio comprensivo, unanime e concorde; il silenzio vuoto perché nonostante gli sforzi, non si trova nulla da dire; il silenzio obbediente, il silenzio temerario.
Quello del silenzio è un gioco al quale bisogna adattarsi continuamente, perché ama cambiare le regole con altrettanta frequenza. E Frank era maledettamente bravo in questo gioco, perché aveva imparato ad imbrogliare e, quando ci si metteva, sapeva essere veramente disonesto, nel modo più sleale e meschino possibile. Disonesto, meschino ed sleale quanto poteva esserlo un ragazzo che in compagnia della sua fidanzata sordomuta, faceva complimenti alla sua migliore amica con la quale la tradiva.
Bisognava chiedersi però, se Frank era in sé quel tipo di persona o se era stato il gioco del silenzio a costringerlo a trovare una soluzione - anche se disonesta, meschina e sleale - per adattarsi alle sue regole.
Il silenzio di Céline imbavagliato, imposto; era una determinazione, una condizione. Nella più azzardata delle affermazioni: il silenzio di Céline era un'ingiustizia.
Eppure, poteva il silenzio ingiusto che ricadeva su Céline giustificare le mani di Frank sulle coscia di Dominique, sotto il tavolo della biblioteca, quando studiavano insieme? Poteva quel silenzio ingiusto ed imposto discolpare i complimenti, le parole dolci, le provocazioni nei confronti di Dominique, anche alla presenza della sua ragazza che non poteva udire nulla, invece?
Frank Paciock non era sleale o immorale, non proprio. Frank era egoista.
Fino a quale punto l'egoismo è un diritto?

«Frank, per favore.»
Molly aveva tentato di tacere più volte, quella mattinata; di solito era proprio lei a trattenere Liam dall'intervenire e si limitava a prendersela con Dominique al massimo, ma quella volta non era riuscita a tacere.
La stazione di Hogsmeade era meno affollata di quanto si fossero aspettati. Avevano caricato i bagagli di Céline nel treno che l'avrebbe riportata a Londra per l'intervento del mercoledì dopo ed erano rimasti ad aspettare l'orario di partenza assieme a lei. Molly non si aspettava che Frank si mostrasse - figurarsi che lo fosse - preoccupato perché la sua fidanzata sarebbe stata sottoposta ad un intervento ad alto rischio, non si aspettava che la incoraggiasse dicendole che la cura avrebbe funzionato e che sarebbe riuscita ad udire e parlare, non si aspettava nulla di tutto ciò, ma pretendeva rispetto. Perché poteva non amarla ed essere tanto codardo da non aver il coraggio di lasciarla, poteva essere tanto meschino da tradirla e tanto patetico da farlo anche davanti a lei, ma in quel momento no, in quel momento Céline meritava di essere rispettata.
Il treno fischiò e Molly sobbalzò tra le braccia di Liam.
E per un momento, in assoluto silenzio, si chiese come potesse sentirsi Frank quando, prima di salire sul treno, Céline l'aveva abbracciato. Decise che non voleva saperlo.
Salutò la ragazza, le augurò buona fortuna e peccò giurandole che sarebbe andato tutto bene.
Il treno fischiò, partì e Molly sobbalzò una seconda volta.

Vedere Frank e Dominique tenersi finalmente per mano, rincorrersi, baciarsi, non aiutava. Non aiutava perché quello di Frank sembrava molto più che egoismo e l'unico vero problema rimaneva - come sempre era stato - Céline. Perché ora che lei non c'era più, i due non erano altro che due ragazzi innamorati e in quello che condividevano non si riusciva a scovare nulla di sbagliato.
Quando uscirono dalla stazione e Frank e Dominique presero a ballare sotto la pioggia, Liam abbassò lo sguardo e Molly dopo un po' fece lo stesso, perché non si capiva più cosa ci fosse d'ingiusto.
«Ricordami quanti anni di danza classica hai fatto...»
Dominique fece un piroetta tra le sue braccia. «Sei!» Rispose, stampandogli le labbra sulla guancia. «Ho dovuto smettere, quando sono entrata ad Hogwarts...»
«Hai intenzione di riprendere dopo i M.A.G.O.?»
Lei annuì, poi poggiò il mento sulla sua spalla, dondolando nel fango abbracciata a lui.
«E non pensi di tor-» Frank si arrestò di colpo. «Nicky, perché tuo fratello sta correndo vestito come un pagliaccio?»
Dominique si voltò, seguendo la traiettoria dello sguardo divertito del ragazzo.
«Deve essere successo qualcosa... Louis non abbinerebbe mai il verde con il rosso.» Borbottò, agitando le braccia per attirare l'attenzione del fratello.
Chiamarono Liam e Molly e superarono il prato che separava la stazione dalla via principale di Hogsmeade.
Louis Weasley aveva il respiro affannato, gli occhi sgranati e leggermente rossi.
Molly si fece avanti. «Louis! Che succede? Che hai?»
Il ragazzo si fermò per riprendere fiato, guardandosi attorno con fare agitato. «Io sto bene... Lo zio... Credo che lo zio George abbia qualcosa. Insomma, sta per succedere qualcosa e... Ve ne dovete andare, subito.»
Dominique lo guardò, comprensiva. «Hai avuto un'altra visione?»
Louis annuì, respirando a fatica. «Questa volta era diversa... Era più reale. Per favore, tornate al Castello.»
«Non so perché tu stia indossando i miei pantaloni, ma qualunque cosa stia succedendo, noi rimaniamo con te.» S'intromise Liam.
«Esatto, non ti lasciamo.» Ribadì Molly.
«No, tu e Dominique tornate indietro...» La contraddisse deciso il ragazzo.
«Non capite.» Si frappose Louis, bloccando la discussione sul nascere e alzando la voce. «Ve ne dovete andare tutti! Sta per accadere una catastrofe! Tornate tutti indietro, il più in fretta possibile! Io andrò dallo zio, lo avvertirò e tornerò! Andatevene, ora!»
Frank fu il primo a capire: gettò un incantesimo d'impermeabilità attorno a lui e Dominique, la prese per mano, fece un cenno a Louis e due se ne andarono.
Liam annuì. «D'accordo, ma James è nella Stamberga Strillante, va' da lui prima.»
Molly abbracciò il cugino. «Mandaci un Patronus, non appena siete dallo zio! Fate attenzione.»
Louis aspettò di vederli attraversare la strada principale, poi si sistemò meglio la cuffietta rossa e riprese a correre.

 


 

 

*



 

Il negozio Tiri Vispi Weasley era chiuso per la pausa pranzo.
Roxanne aveva improvvisato in cucina qualcosa da mangiare, senza svegliare la madre; aveva apparecchiato e chiamato il padre ed il fratello a tavola.
George Weasley entrò nell'appartamento rigirandosi tra le mani una lettera.
Roxanne lo guardò. «Cos'è?» Domandò, sistemando le sedie attorno al tavolo.
Il padre scrollò le spalle. «Non so, ma arriva dal Ministero della Magia.» Rispose, mentre scrutava il sigillo. «Dall'Ufficio Misteri.»
La ragazza inarcò le sopracciglia, sollecitandolo a rivelare il contenuto.
Si sedettero attorno al tavolo vicini, mentre Fred lavava le mani e li raggiungeva.
 
Alla Signora Angelina Johnson Weasley,
Il progresso, la ricerca e lo sviluppo dei nostri Indicibili dell'ufficio Misteri in collaborazione coi Medimaghi del S. Mungo, permettono oggi alla MM (Magi-Medicina) di spingersi oltre il fallimento materiale.
La sua condizione di Impotenza Motoria, oggi avrà una cura definitiva. Una stimata statistica indica a favore della sua guarigione il 80% di probabilità di successo.
La invitiamo ad un colloquio il 29 Dicembre, presso il nuovo reparto Incurabili del settimo piano del S. Mungo per discutere con lei di come la nuova ricerca potrà giovare alla sua salute.
 
Roxanne afferrò la lettera, scrutandola con sospetto. «È uno scherzo? Avevano detto che non c'era cura, se non la Pozione Mobilitante!»
Fred le strappò di mano il foglio e rilesse le prime righe. «No, anche Joshua ne ha ricevuta una...» Fece, pensieroso. «Si tratta di un intervento. È solo che costano una fortuna.»
Il padre lo guardò. «Quanto intendi per fortuna?»
«Centinaia di Galeoni. Forse migliaia.»
«E allora?» Sbottò Roxanne, guardando male il fratello. «Cosa significa?» Si rivolse al padre. «Non avrai intenzione di rifiutare!»
«Potremmo... Vendere il negozio.»
Fred scattò su. «E morire di fame?» Chiese con una piega sarcastica nel tono di voce.
«E guarire la mamma!» Lo fronteggiò la ragazza.
«Certo, vendiamo tutto quello che abbiamo per un intervento con un esito incerto e andiamo a vivere sotto un ponte!»
«Non venderemo il negozio, infatti!» Ribatté lei. «Ci procureremo i soldi, come abbiamo sempre fatto. Dobbiamo solo fare qualche sacrificio in più. Abbiamo un mese, ce la possiamo fare.»
Guardò il suo papà.
George si passò una mano sugli occhi stanchi. «Hai detto che Joshua ha ricevuto la stessa lettera. Per il diabete, giusto?» Chiese a Fred. «Quanto costava il suo intervento?»
«Non so, Dean e Alicia non hanno accettato la proposta perché le probabilità di riuscita erano troppo basse ed i rischi troppo alti.»
Roxanne sbuffò, dando le spalle a Fred e rivolgendosi al padre. «Non possiamo lasciarci scappare un'occasione del genere, papà. E lo sai anche tu che ce la potremmo fare.»
Il padre sospirò e annuì, ma non appena fece per rispondere venne interrotto dal campanello, suonato con esuberante insistenza, giù al negozio.
Fred si alzò sbuffando e scese le scale, seguito dal padre e dalla sorella, allarmati quando sentirono i colpi forti contro la porta.
«Non sapete leggere? C'è scritto "chiuso fino all'una"!» Si lamentò Fred, aprendo.
«James? Che diavolo...? Louis?»
Per la foga, entrambi i ragazzi inciamparono sulla soglia.
«Ragazzi, che avete? Louis, tu perché indossi il mio maglione?»
Suo cuginò scattò in piedi, allarmato. «Dov'è lo zio? Sta bene?»
«Sì, certo.» Fred annuì, incerto. «Che diavolo ti prende? Sei diventato improvvisamente daltonico o cercavi di fare un arcobaleno di vestiti?»
L'altro lo superò andando incontro allo zio e abbracciandolo, senza riuscire a trattenersi.
George Weasley lasciò che il nipote lo stringesse, limitandosi a lanciare uno sguardo confuso a James che ricambiò con un'alzata di spalle.
«Dannazione, zio! Credevo stessi... Nel sogno...»
 
«Fred, ora tocca a te» disse la donna grassottella.
«Ma io non sono Fred, sono George» disse il ragazzo. «Parola mia, donna! E dici di essere nostra madre? Non lo vedi che sono George?»
«Scusami, George caro».
«Te l'ho fatta! Io sono Fred» disse il ragazzo, e si avviò.
 
Louis cadde a terra, serrando forte le palpebre. Le visioni del passato facevano più male.
James si fece avanti, inginocchiandosi e guardandolo comprensivo. «Lo zio sta bene. Va tutto bene.» Cercò di calmarlo. «Forse il sogno non voleva dire nulla...»
Il ragazzo scosse il capo, coprendosi il viso con le mani tremanti. «Non era lo zio, non era lo zio George.»
Roxanne trattenne il respiro facendo un passo indietro, Fred s'inginocchiò anche lui al fianco di James.
George Weasley chinò il capo, chiudendo gli occhi.
«Cosa ha detto? Riesci a ricordare le sue parole?»
Louis si lasciò sfuggire un singhiozzo. «Ha detto che fa molto freddo e che sta arrivando una tempesta.»
Fred guardò il diluvio oltre la finestra. «E fin qua ci siamo.» Annuì. «Cos'altro ricordi?»
«Non so... Eravamo nella Tana e... E lui indossava il maglione rosso della nonna, con una 'G' grande stampata sopra perciò ho creduto che fosse lo zio da giovane...»
George indietreggiò fino al muro.
Il ragazzo deglutì le proprie lacrime. «Fuori dalla Tana pioveva sangue e...» sgranò gli occhi.
«E?» Si allarmò James.
Louis si alzò, con gli occhi fuori dalle orbite. «Lily e Hugo, la Nott... E Josh!»
«Cazzo.» Deglutì Fred.
«Papà?» Roxanne si avvicinò al padre. «Tutto bene?»
Lui non rispose.
I tre ragazzi si guardarono e distolsero subito lo sguardo.
«Noi dobbiamo andare a cercare Lily, Amelia, Josh e Hugo.» Intervenne James, rivolgendosi a Roxanne.
Lei annuì. «Andate, io e papà facciamo un giro sulla via principale per avvertire i proprietari di non aprire e torniamo subito dentro.»
 
 



 
*


 
Katie Bones nel corso della sua vissuta esistenza aveva sviluppato un sesto senso; parametro totalmente irrazionale, ma decisamente sensato e, per esperienza, affidabile.
Ad esempio, quella mattina, non appena si era svegliata, aveva capito che non era giornata - e il temporale non c'entrava nulla. Così, mentre Evelyn saltellava in preda all'euforia urlando a tutta Hogwarts che "Potter mi ha chiesto di uscire!", lei era tornata a letto, evitando accuratamente di lasciarsi scappare qualche commento sulla gonna bianca e la camicia a fiori che la Black aveva deciso d'indossare per l'occasione.
Una volta uscita Evelyn, aveva tentato di tornare a dormire e, compreso che non ci sarebbe riuscita, era andata a farsi un bagno; quando, invece, nemmeno una vasca d'acqua tiepida e profumata era riuscita a distrarla, aveva sospirato, maledetto Evelyn Black - perché le sembrava logico farlo - ed aveva deciso di seguire quel sesto senso tanto allarmato. Così si era vestita come il sesto senso suggeriva - stivali, giubbotto, guanti, cuffia, sciarpa e l'ombrello che le aveva regalato la nonna, benedetta invenzione babbana -, era scesa a fare colazione e si era diretta al villaggio.
Da quando era ad Hogwarts, aveva accuratamente evitato Hogsmeade per non rischiare di incontrare la madre perciò non sapeva orientarsi. Attraversò una lunga via, superando quattro ragazzini che si rincorrevano al limite della Foresta Proibita ed avanzò ancora qualche metro, prima di scorgere l'orribile camicia a fiori da nonnetta della Black.
Avanzò decisa, masticandosi imprecazioni colorite in bocca.
«Che diamine stai facendo?» Aveva chiesto sospirando.
Evelyn non rialzò il viso. «Mi dispero.»
«Non potresti farlo all'asciutto? O cerchi di prendere una broncopolmonite in modo d'avere un motivo per fare causa a Potter?»
«Voglio morire.»
«Oh, Salazar!» Katie si schiaffeggiò la fronte. «Se mi dici cos'ha fatto, magari potremmo pianificare nel minimo dettaglio...»
La Black tirò su col naso. «Se lo è dimenticato.»
«Tesoro, tu devi imparare a specificare il complemento oggetto.» La rimbeccò la Bones. «Si è dimenticato il preservativo?»
Evelyn scattò su, mostrando gli occhi rossi e gonfi. «No! Ma che... No!» Si lamentò. «Si è dimenticato di me, dell'appuntamento.»
«Stronzo.» Ne dedusse Katie.
L'altra ricacciò il capo tra le ginocchia.
«Da quanto stai piangendo sotto la pioggia?» Chiese, notando i capelli e la gonna completamente fradici della ragazza. «Evelyn Black, sei la persona più scema che io conosca.» Soffiò contrariata, coprendo entrambe con l'ombrello.
«Sei cattiva!» Piagnucolò l'altra.
Katie scosse il capo, scrutandola torva. «Ricorda le mie sante parole: quando un ragazzo fa lo stronzo - e ai ragazzi piace tanto fare gli stronzi perché li fa sentire gli uomini che non sono - tu non devi piangere: lo devi castrare.» Spiegò, con pazienza. «Nel modo più doloroso possibile. E non lasciare che... Che cos'è?»
Si alzarono entrambe guardandosi attorno: a parte i quattro ragazzini che giocavano a poca distanza da loro, non c'era nessuno.
«Non lo senti anche tu?»
Evelyn annuì, tirando su col naso. «Sì, è troppo...»
«Silenzioso.»
Fecero qualche passo indietro, vicino ai ragazzini che ora avevano smesso di giocare e anche loro si guardavano attorno.
Le due ragazze si guardarono, si presero per mano e, un preciso istante dopo, l'aria esplose.

 

 


 
§






 
Si erano divisi prima di buttarsi nella mischia e Fred non aveva trovato particolari ostacoli. Era entrato nella Foresta proibita, seguito da uno, forse due di loro; il primo era riuscito a schiantarlo, il secondo era sparito improvvisamente.
Aveva trovato Hugo ed Evelyn nascosti dietro un folto cespuglio di more selvatiche, nel fango.
«State bene?» Aveva chiesto, asciugando loro i vestiti con un colpo di bacchetta e gettando su di loro l'incantesimo d'Impermeabilità. «Non vi hanno seguito?»
Hugo scosse il capo. «Alcuni all'inizio sì, ma li abbiamo seminati.»
«Che sta succedendo?» Aveva chiesto Evelyn.
«Non lo so... Non capisco perché non ci seguono. Mi hanno visto e sicuramente avranno notato anche voi.»
«Forse... Cercano qualcuno o qualcosa di preciso.» Aveva avanzato Hugo. La Black annuì. «Uno di loro ci stava venendo incontro. Credevamo volesse attaccarci, ma ci ha superati.»
Fred li guardò. «Non... Non ha senso.»
Un urlo improvviso fece sobbalzare tutti e tre; un urlo terrorizzato, soffocato e dal timbro infantile; un urlo che sbiancò le labbra a Fred.
«No!» Gridò, guardandosi attorno.
«Dove vai?» Hugo fece per seguire il cugino, ma Evelyn lo trattenne, stringendolo a sé.
L'urlò si ripeté, ma questa volta venne strozzato sul nascere e Fred terminò il grido al posto di Joshua.
 
Fred Weasley era in una foresta.
Correva.
Correva ed urlava.
Correva, urlava e piangeva.
 
 
Perché Louis aveva già visto ed ora Fred aveva capito.
 
 
 
 
Katie non si era nemmeno resa conto di quando precisamente avesse perso la mano di Evelyn. Semplicemente, ad un tratto si era ritrovata accerchiata da pini. Non si era fatta prendere dal panico ed aveva scaricato l'ansia correndo il più veloce possibile.
A metà di un sentiero aveva incrociato Lily Potter. La Bones l'aveva guardata dritta negli occhi, intimandole una semplice indicazione:
«Tira fuori la bacchetta e schianta qualsiasi cosa ti si avvicini.»
Grazie a Merlino la ragazzina era sveglia ed aveva obbedito senza fare storie; Katie se l'era trascinata dietro ed insieme avevano cercato l'uscita dalla Foresta Proibita.
Qualcuno le aveva seguite, durate la loro fuga. Lo sentivano, ma non lo vedevano.
Chiunque fosse non aveva arrecato loro alcun danno e non appena erano arrivati gli Auror si era smaterializzato.
Lily sapeva orientarsi bene tra i sentieri e l'aveva guidata, riportando entrambe sul viale principale di Hogsmeade.
C'erano due Medimaghi e un Auror chinati su un corpo, al limitare della boscaglia. James Potter parlava con loro.
Katie avanzò tendendo ancora stretta per il braccio la ragazzina che cercava di liberarsi per raggiungere il fratello.
«Amelia?»
L'Auror si voltò verso di lei. «La conosci?»
Katie annuì. «È Amelia Nott. Che cosa... Le è successo?» Avanzò avvicinandosi alla ragazzina, piangente e sanguinante. «Mi senti? Riesci a sentirmi?»
 
Amelia Nott era accasciata ai piedi del tronco di un albero.
«Mi senti?» Urlava una voce, all'esterno. «Riesci a sentirmi?»
Perdeva sangue: le colava dalla tasta, giù per la fronte, dal naso, dalla bocca sporca di fango.
Lei non rispondeva. Fissava solo con orrore quello che aveva davanti.
 
Un Medimago si fece avanti. «Ha perso la memoria.»
 
 
 
 
Quando Fred arrivò, trovò solamente Louis: come aveva temuto.
Suo cugino era inginocchiato davanti ad una pozzanghera di pioggia, fango e sangue.
«O mio Dio.» Aveva esalato, cadendo nel fango e toccando il sangue. «Tu lo sapevi, non è vero?»
Louis piangeva, con le mani che premevano sulla bocca per attutire i singhiozzi.
«Hai insistito per dividerci e hai seguito Josh.» Soffiò orripilato. «L'avevi visto, avevi visto che...»
Si coprì il viso con le mani sporche di sangue.
 
 
 
Alle sette e mezza della stessa giornata, dopo la deliberazione firmata del capo ufficio Auror, Joshua Thomas venne dichiarato disperso.
La stampa lo venne a sapere nel momento stesso, la madre un'ora e mezza più tardi.
Il corpo di Joshua Thomas verrà ritrovato tre mesi dopo, congelato e privo di organi enterici.
È necessario però, alla Memoria, dire due parole su Joshua.
Josh aveva ereditato la pelle scura del padre e gli occhi nocciola della madre; da entrambi, il talento e la passione per il Quidditch. Era di statura media e di corporatura leggera. Scoprì i suoi poteri all'età di quattro anni, quando diede fuoco alla parrucca della nonna, all'età di cinque anni andò in coma diabetico e da quel momento convisse con la malattia.
Aveva sei anni quando divenne l'ombra di Fred Weasley; sette, quando i due divennero assolutamente ed irrimediabilmente inseparabili, sempre sette anni quando Fred gli regalò la maglietta con scritto "Bro".
All'età di otto anni diede fuoco al tappeto dei Finnigan.
All'età di nove anni si prese una cotta per Lily Potter.
Non appena era entrato ad Hogwarts, aveva insistito - e litigato espressamente con la preside a riguardo - per mettere i jeans al posto dei pantaloni di cotone della divisa; gli fu proibito di indossarli, lui lo fece lo stesso. Aveva dodici anni e la cotta per Lily Potter non era ancora passata.
All'età di tredici anni diede fuoco alla capanna di Hagrid.
All'età di quattordici anni, precisamente il 27 Novembre, venne dichiarato disperso.
All'alba di quelli che sarebbero stati i suoi quindici anni, venne dichiarato deceduto e, il giorno dopo, sepolto.

 

 

§§§
 




Proviamo a fare qualche passo indietro:
Se il Caos fosse solo un diversivo?
Se la realtà avesse un suo ordine segreto?
 
Louis scosse il capo. «È che...» Sospirò. «Non so come spiegarlo, ma c'è qualcosa dietro. C'è qualcosa di più grande, che va oltre e che collega tutto.»

 

 
Ma se non vi è alcuna casualità negli eventi, ciò significa necessariamente che sono causati.
Dunque ogni catastrofe avrebbe il suo promotore.
 
Non si spostò di un centimetro nemmeno quando Josh Thomas iniziò a perdere sangue dal dito, schizzandolo su tutto il tavolo...


 
 
E se questo promotore non fosse il destino o il fato, se fosse qualcuno?
«Non ti è passato per la testa che avessero fatto finta di essere Mangiamorte, per allontanare i sospetti da loro?!» Scosse il capo, lasciandosi sfuggire un sorriso mesto. «Sta succedendo proprio sotto il tuo naso, ma il pregiudizio ti acceca. Ti credevo meno stupido.»
E si chiuse la porta dietro, con inimitabile ed arrogante eleganza.
Il signor Potter, però, non fece in tempo a ricongiungere la mascella al viso, che la porta si riaprì, lasciando intravvedere un lato solo del viso pallido e contratto di Malfoy.
«Un'ultima cosa, Potter: quella sera, qualcuno ha aperto i cancelli del Castello. E come ben sai, i cancelli si possono aprire solo dall'interno.»
Harry Potter balzò in piedi, scuotendo il capo allarmato. «Stai insinuando che...»
«Ad Hogwarts c'è qualcuno che fa il doppio gioco.»



Ma chi è il vero assassino:
Colui che ordina l'assassinio o colui che lo esegue?
 
Non si rese nemmeno conto dell'atmosfera disagiata che che galleggiava nell'aria, che non era l'unica a cercare di non pensare o di come altri lo stessero facendo molto intensamente...
 
 
 
Quando una persona passa dallo stato di Innocente allo stato di Vittima, nulla è casuale.
Incidenti, coincidenze, caso, eventualità, fato non sono altro che maschere, dietro alle quali sono nascosti le cause, le ragioni e i motivi.
Sul fondo di un pozzo di Caos e Cosmo si celano, invece, i Colpevoli.
 
 
"Io, come Dio, non gioco a dadi e non credo nelle coincidenze."
-William Shakespeare & V per Vendetta
 
 
 
 

 

 

 

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Okkey, voi non avete idea di che delirio sia stato aggiornare. Credo che l'editor sia uno spirito sadico e malefico che si diverte a burlarsi di me, ma alla fine ce l'ho fatta! *balla la salsa anche se non sa come si fa*
Cretinate a parte, voglio fare un discorso serio che mi ero prefissata non appena avevo finito di piangere per Josh.
Come sicuramente avete notato - e come qualcuno mi ha segnalato - questa storia è decisamente diversa dalle altre sulla NG di HP, perché porta con sé obiettivi etici - ed è proprio per questo che i personaggi sono vari e diversi. Quando ho fatto la scelta di dare questo ruolo alla storia, ho accettato fin dall'inizio le possibili conseguenze: so ad esempio che è particolarmente complicata, che è faticoso stare dietro a tutte le vicende e carcare di capirci qualcosa; o addirittura, ma in tutta sincerità, che non è proprio persuasivo leggere vicende simili e non solo Teen-Drama.
E proprio per questo non mi sono sorpresa più di tanto nel vedere le recensioni calare.
Ma rifarei mille volte la stessa scelta perché so che trattando questi temi, questi argomenti, dando spazio alle voci dei personaggi che solitamente non avengono presi in considerazione perché "Non hanno nulla di speciale", dando spazio ai più deboli, ai silenziosi, agli impotenti e a quelli che non sanno raccontare la propria storia da sé, avrei fatto qualcosa di giusto, di utile e di importante. Importante per me e spero anche per altre persone.
Perciò voglio ringraziare tutte le persone che sono arrivate con me fino a qui, che non hanno detto "che barba 'sta storia, non succede nulla di figo!" e che sono andati avanti.
Grazie per essere arrivati fino a qui.
Voglio ringrazie Roxanne perché non è solo una ragazza con le palle, ma una donna coraggiosa e forte.
Voglio ringraziare Molly perché sta aiutando molti lettori ad eccettare a superare le loro malattie.
Voglio ringraziare Louis perché è un ragazzo buono, gentile e generoso e perché ha fatto capire a molte persone che l'orientamento sessuale non fa la persona, ma che è solo un fatto personale.
Voglio ringraziare James perché nessuno lo vede, nessuno si accorge di lui, ma lui è sempre stato lì.
Grazie.

Bess
 

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Capitolo 10
*** X. La Sera ***


Riassunto dei capitoli precedenti: Siamo rimasti con il rapimento (probabile morte, in effetti) di Joshua Thomas durante l’uscita ad Hogsmeade, rapimento che ha visto il coinvolgimento dei due suoi migliori amici, Lily e Hugo, ed Amelia Nott (la quale ha perso la memoria, dopo essere stata schiantata contro un albero); sono state accidentalmente coinvolte anche Evelyn e Katie, vicine ai quattro durante l’attacco, ma ne sono uscite fisicamente indenni (non si può dire lo stesso per il loro stato psicologico). In seguito, su previsione di Louis, sono intervenuti Fred e James, tuttavia questo non è servito ad evitare il danno e Joshua è stato ugualmente portato via.
Abbiamo scoperto che Roxanne e Fred hanno problemi economici a causa delle cure costose della madre (Angelina, infatti, ha avuto un incidente durante una partita quando ancora giocava con le Holyhead Hapies che le ha causato la paralisi di entrambe le gambe); allo stesso tempo, è arrivata una lettera dal Ministero (dall'ufficio Misteri) che proponeva loro un intervento – seppur con un margine di rischio – il quale avrebbe potuto permetterle di tornare a muoversi e, naturalmente, tale intervento è assai assai costoso. La stessa lettera era stata recepita da Céline (per guarire il suo sordomutismo) ed infatti la ragazza è al S. Mungo per l’intervento, da Molly (per guarire il suo tumore), però lei ha rifiutato (perché nel suo caso il rischio di morire era troppo alto) senza avvertire né la famiglia né Liam e, si scopre poi, Joshua stesso (per il diabete), i genitori del quale hanno rifiutato per lo stesso motivo di Molly; anche Alice Paciock (Maganò dalla nascita) ha ricevuto la stessa lettera e, seppure Lorcan, in qualità di suo ragazzo da anni, le abbia chiesto di rifiutare, la ragazza ha accettato.
Adam è ancora in possesso del diario di Louis; le visioni di Louis continuano ad aumentare (e peggiorare); Evelyn è convinta di aver (dovuto avere) un appuntamento con Albus e che lui se ne sia dimenticato, quando in realtà lui aveva solo proposto con distrazione di parlare con più calma in un'altra occasione; Luke (questa sorta di amico immaginario, ma che si è capito per certo essere molto più) continua a prendere il sopravvento su Lucy; Molly sta rinunciando a tutte le minime cure perché la stanno distruggendo; Dominique ha avuto una relazione abbastanza lasciva con Frank mentre il ragazzo era impegnato ufficialmente con Céline; Damian pensa che Roxanne abbia utilizzato i cinquanta Galeoni, che pareva necessitare con urgenza, per futili scopi personali, quando in realtà Roxanne li ha consegnati al padre per aiutarlo con le cure della madre. Regulus ha chiesto insistentemente al Cappello Parlante di smistarlo tra i Serpeverde, nonostante quello insistesse sul suo essere Tassorosso. Draco Malfoy ha avvertito il capo del Dipartimento Auror che ad Hogwarts c'è qualcuno che fa il doppio gioco
 
 
 
 
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X. 
La sera


Riflessi ed illusioni
 
 


 
Con la creazione universale, la natura cedette all’uomo parte di sé nella sostanza più mallea­bile e fragile mai generata: la Verità.
La natura, nella sua fede pura, non poté presentire che il fato e la vita da lei stessa conce­pita avrebbero offeso il dono concesso loro, e nemmeno trovare rimedio al virus vele­noso che rapido si sparse nell’universo che aveva procreato; in effetti, il contagio si dif­fuse velocemente infettando ogni forma umana incontrata, intossicandola tanto in profon­dità da prenderne parte.
Oh, sicuramente avrete sentito parlare di questo virus, più probabilmente sotto altre denomi­nazioni; esso è tanto celebre ed adoperato da aver preso diversi sinonimi nella lin­gua – certamente altrettanto infetta – dell’uomo: menzogna, bugia, falsità, inganno.
Esiste, però, un’altra forma di epidemia che ha inquinato la sincerità, un’infezione che tuttavia nessuno è capace di accusare poiché è nata assieme alla verità stessa e questo morbo è il riflesso della verità, l’illusione. Tanto prudente, l’illusione non corrompe la sincerità, ma ne consola solamente l’autoritaria giustizia; per questo l’illusione si ef­fonde nella mente umana, per questo nessuno è capace di accusarla: perché nessuno può farne a meno.
Perché le illusioni sono quelle singolari bugie a cui, però, vale la pena credere.
 
 
 
 
Forse perché della fatal quiete
tu sei l’immago a me sì cara vieni
o sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive ed i zeffiri sereni,


e quando dal nevoso aere inquiete
tenebre e lunghe all’universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.
 
Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme
 
delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirito guerrier ch’entro mi rugge.
 
 
Ugo Foscolo, Alla sera

 
 
 

 
§§§



 
 
Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts – 21 Ottobre 1972
 
 
Il ripostiglio delle scope del settimo piano era freddo ed odorava di polvere e pelle d’oca.
Regulus era accucciato accanto ad una piccola vetrata che dava sul prato anteriore del Castello e cercava di capire se stesse piovendo o meno poiché non si vedeva con precisione da tutti quei piani d’altezza. 
Era sera e di lì a poco sarebbe dovuto scendere in Sala Grande per la cena, indossava ancora la divisa e teneva sottobraccio il tomo di Trasfigurazione dell’ultima lezione pomeridiana. Non appena avevano terminato la lezione e la professoressa si era allontanata, Serpeverde e Grifondoro avevano iniziato una disputa volutamente accesa, e lui si era allontanato in fretta senza che nessuno se ne accorgesse. Non gli piacevano i Grifondoro, non gli piacevano i Serpeverde; si somigliavano eccessivamente ed in modo parallelo, erano gli uni il riflesso distorto degli altri,  il tutto stava nel'asse di simmetria. Non gli piaceva nessuno in verità, non si piaceva nemmeno lui. Preferiva stare da solo, in disparte dagli altri e di se stesso. Non gli piaceva alcuni compagnia, nemmeno quella che era in grado di offrirsi da solo
Era questa la vera solitudine: non avere nessuno per obbligo e per scelta, e non avere nemmeno se stessi. Era ritirarsi in un piccolo spazio nel proprio Io, avere un frammento della propria persona come unica arma contro il mondo, quello esterno e quello interno. Era biasimare il proprio esilio, incolparlo, mentre lo si costruiva attentamente.
Contrariamente a ciò che si credeva, Regulus si era sacrificato molti anni prima della propria morte, si era sacrificato rinunciando alla vita stessa.
«Tu!»
Un ragazzino magrolino avanzò tra il buio e le ragnatele del ripostiglio puntandogli la bacchetta contro. 
«Pagherai tu per il tuo amico!» Sbraitò, avvicinandosi affannosamente. «Levicor-»
Balzò a sedere, facendo cadere il Primo manuale di Trasfigurazione che si aprì ed attirò l’attenzione dell’altro. Regulus recuperò precipitosamente il libro, tenendo ugualmente gli occhi puntati sul ragazzo che si era intrufolato nella sua solitudine, in silenzio e senza chiedergli il permesso.
«Oh.» Disse solo quello, il cui tono si era ristretto in una vocina acuta, ansimante e stridula. «Credevo fossi… Mi sembravi… Scusami.» Mise velocemente via la bacchetta, con uno scatto schizzante.
Regulus lo guardò, limitandosi ad un cenno. Il ragazzo portava anch’egli la divisa – sulla quale era ricamato lo stemma Serpeverde, come nella propria –, tuttavia questa era stropicciata e sgualcita in alcuni punti; dedusse che fosse reduce della precedente disputa tra le due Case. Cercò di adattare la propria vista, ancora pennellata dalla pioggia che cercava oltre la vetrata, all’effettivo buio in cui era fermo l’altro, giusto in tempo di distinguere il pallore della sua pelle.
Il Serpeverde, che Regulus identificò poco dopo come uno studente del secondo anno, annuì. «Posso stare anche io qui?» Chiese gettando occhiate attente alle sue spalle.
Lo guardò senza rispondere, creando un silenzio durante il quale non prese nemmeno in considerazione la possibilità di rispondergli. Strinse il Manuale sotto braccio e tornò a sedersi dov’era esattamente qualche minuto prima e questa volta non faticò a notare le gocce di pioggia che picchiettavano contro la vetrata.
Il ragazzo si sedette nella parte opposta. «Black, non è vero?»
«Regulus Arcturus.» Precisò prontamente, sull’attenti.
«Lo so.» Sbuffò l’altro, annuendo. «Severus Piton.» Aggiunse con un cenno, prima di incominciare anche lui a guardare oltre la vetrata.
Regulus annuì e sospirò, senza voltarsi. 
Era l’arte di stare soli, in compagnia.
 
 
 
 
Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c’è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggièra.
Nel giorno, che lampi! Che scoppi!
Che pace, la sera!
 
 


 
 
§
 
 
 
 

 

 
Louis sospira ed apre gli occhi.
È sera.
Il blu innaturalmente vivido del cielo lo aiuta a prendere coscienza del fatto che ciò che sta vivendo non è reale e che quindi lui non sta veramente camminando sopra il Lago Nero.
«Zio?» Tenta, dopo essersi accertato che non sarebbe caduto in acqua e che vi sta veramente camminando sopra. «Zio, ci sei?»
«Non c’è nessuno.» Lo assicura una voce. «Nessun’altro a parte noi.»
S’incammina, guidato dall’eco della voce, fino ad uno scoglio particolarmente pronunciato. Vede una ragazzina, una ragazzina minuta, pallida, gracile, che lo fissa con gli occhi sbarrati; una ragazzina con la coda da sirena.
«Tu.» Louis indietreggia, prima di avvicinarsi di più. «Tu sei Amelia Nott.»
Muove la coda, senza smettere di guardarlo e senza rispondere.
«Che ci fai qui, Amelia?» 
«Io sono qui per andarmene.»
«E perché te ne devi andare?»
«Non devo.» Gli sorride. «La Musa dice che ora posso andare.»
«Andare… dove?»
«Dove le strade finiscono.»
Louis deglutisce.
«Ricorda.» Lo guarda, senza battere ciglia. Non batte le ciglia. «Ricorda che sono stati gli uomini a costruire le strade.»
Lo guarda selvaggia, graffiandolo con gli occhi. Poi questi si trasformano, non sono più scuri, ma azzurri, la forma non è più tonda, ma lunga e tagliente; i capelli non sono più neri, ma ricrescono biondi, anche se più corti.
Céline Rousseau ha la bocca cucita col ferro e sanguinante, e la coda da sirena poco più lunga di quella che aveva Amelia un istante prima.
Sta gemendo e mugugnando nel tentativo di parlare, ma le labbra suturate l’una all’altra non glielo permettono. Louis capisce che Céline tenta di dirgli qualcosa da come protende verso di lui lo sguardo, quasi scongiurandolo di comprenderla nonostante la mancanza di parole. E prima che lei inizi a piangere, quelle che poi notò con orrore essere lacrime di sangue, Louis si chiede se, una volta liberata la bocca dalla cucitura, sarebbe effettivamente riuscita a parlare.
Perché cucire la bocca ad una sordomuta?
Louis le si avvicina e la guarda dritto negli occhi, come mai è riuscito a fare prima. «Mi dispiace.»
Gli occhi sanguinosi di lacrime tramutano in una forma più aperta, ma non meno inquietante. Il colore inumano degli occhi di Evelyn Black è ancor più feroce, quasi erosivo, alla luce baluginante della sera. La sua coda scende dallo scoglio e sfiora la crosta del lago.
«Oh mio Dio.» Louis sgrana gli occhi, però non riesce ad impedirsi di spostare lo sguardo. «Evelyn, ti prego, dimmi che non è… Oh Dio.»
La ragazza agita la coda perforando la superficie dell’acqua e non sembra udirlo; continua a togliere schegge di vetro – specchio, osserva poi Louis, non vetro – da un cumulo di carne e sangue che stringe nella mano destra.
«Ho il cuore in mano.» Lo dice canticchiando, ma con tono grave. «Ho il cuore in mano.»
«Basta.» Geme Louis, portandosi le mani ai capelli. «Voglio andarmene, basta.»
Evelyn allunga una mano verso il suo braccio, ma non lo tocca. «Anche io voglio andarmene.»
«Ti aiuto io.» La parole gli escono solidali, teatrali, come se fossero una promessa lontana e non sua.
«Tu non puoi aiutarmi da solo, Louis. Hai bisogno della Musa.» Tira via una scheggia dal cuore che stringe in mano e vi si rispecchia. 
Louis si asciuga il sudore sulla fronte col manico del maglione di Fred che aveva indossato la mattina prima, ancora sporco del sangue di Joshua Thomas.
«Però la Musa può aiutare solo una di noi. E solo tu deciderai quale.»
Quando si ferma e lo guarda, a Louis sembra solo una bambina, felina e disumana nel tratti, ma piccola. Anche quando si porta il frammento di specchio in bocca e lo morde, mentre lui volta il capo dall’altra parte.
«Puoi aprire gli occhi, Louis.» La voce di Molly lo riscuote dall’orrore che rivestiva le sue palpebre e lui decide di fidarsi della cugina.
Molly non ha la coda, ma le sue gambe sono cucite l’una all’altra in modo da sembrarlo.
«Che cosa ti hanno fatto?» Soffia Louis, avvicinandosi.
«Oh, sono stata io.» Gli sorride lei, mesta.
Il ragazzo deglutisce. «Perché, Molly?»
«Autodistruggersi o vivere nell’angoscia mentre si aspetta di essere distrutti?»
Scuote il capo e le si avvicina, vincolando le proprie parole al verde famigliare dei suoi occhi. «Perché ti fai del male?»
«Io sono malata, Louis. Non mi sto facendo del male, me ne hanno fatto. Io sto cercando di guarire, noi stiamo cercando di guarire, ma la Musa dice che io non posso. Lo sai anche tu, lo hai visto.»
Deglutisce ed inspira. «La Musa?»
Molly si strappa i capelli con un gesto solo e questi non cadono, ma perdono consistenza, come se non ci fossero mai stati. «Ricorda, Louis.Ricorda che sono gli uomini a distruggere le strade, le stesse che costruiscono.»
«Perché?» Domanda disperato, aprendo le braccia.
«Perché hanno paura di finire di costruirle e scoprire dove portano.»
La voce gli trema quando parla, la voce gli trema sempre quando parla con Molly. «Vorrei solo… Voglio… Dimmi come aiutarvi.»
Quando Molly gli risponde, non è solamente il suo tono a musicare la voce, ma anche il timbro di Amelia e l’intonazione di Evelyn. 
«Risveglia la Musa.»
                                           
 
Aprì gli occhi prontamente perché questa volta sapeva di stare sognando, lo aveva capito sin dall’inizio. Ed era tutto ciò che aveva capito.
«Buongiorno, signorino.»
Fu la voce di Madama Chips a ricordargli di essere in infermeria, questa volta; non gli odori, non i colori, nemmeno il braccio fasciato.
«Posso uscire?» Si affrettò a chiedere all’infermiera, scattando a sedere.
La donna socchiuse gli occhi, scrutandolo attraverso due fessure lineari. «Sia chiaro che ti dimetto solo perché non sembri avere nulla di grave e perché la professoressa Cooman ha insistito affinché iniziassi il tuo tirocinio col nuovo programma dell’ordinamento.»
«Chiarissimo.» Le assicurò Louis, cercando la scarpa destra di James e quella sinistra di Frank che aveva indossato il giorno prima. «È passato qualcuno a trovarmi mentre dormivo?»
Madama Chips gli passò una pila di vestiti. «Più o meno tutta la tua famiglia.» Glielo disse in tono stretto, che non si sforzava nemmeno un poco a dissimulare la scocciatura dell’essersi ritrovata una ventina di gente che le faceva domande esistenziali sulla salute del ragazzo. «E gli Auror che volevano interrogarti.» Uscì e tirò le tende tutt’attorno al letto.
Louis prese a svestirsi in fretta, diversamente da come era abituato a fare. «Chi hanno interrogato?» Chiese, mentre chiudeva la cerniera dei pantaloni.
«Nessuno, alla fine. Tuo zio l’ha impedito.» La voce dell’infermiera gli giunse vicina ed immediata, appena dietro le tende bianche.
Guardò la camicia, il maglioncino e la cravatta rosso e oro. «Perché la divisa?» Chiese alzando la voce affinché lo sentisse chiaramente.
«Perché devi andare a lezione, ragazzo.»
«Ma oggi è domenica.»
La donna sospirò. Perché doveva sempre darle lei, le cattive notizie? «Hai dormito per più di trentasei ore. Oggi è lunedì.»
Louis Weasley spuntò da dietro le tende ancora mezzo svestito. «Non è vero!» Trattenne un poco il fiato. «Io non posso andare a lezione, Madama! Deve giustificarmi!»
L’infermiera gli puntò contro un fascio di bende che aveva in mano. «A meno che tu non voglia passare un altro giorno qui per altri controlli – e non sarebbe una cattiva idea date le urla che cacciavi nel sonno – dovrai filare a lezione come è tuo dovere. Prima di trasformarsi in una base di attacco per psicopatici questa era una scuola e, purtroppo per te, formalmente lo è ancora.»
«È dispotico da parte sua minacciare i suoi pazienti.» Brontolò Louis con una striscia neutra di voce, non abbastanza indispettito da lasciarsi udire.
«Se tra dieci secondi non sei fuori dalla mia infermeria, ti somministro una soluzione rettale con la forza.» Gli voltò le spalle e si diresse verso il suo tavolino mobile di pozioni.
Louis la guardò preparare un intruglio con lavanda e crine d’unicorno, cercando di capire quali incantesimi stesse recitando e pensò quasi di chiederglielo perché la coppa emetteva un buon profumo, quando lei lo fece sobbalzare, interrompendosi e tuonando un «Cinque secondi.»
Fu tentato di urlare, ma non lo fece perché in infermeria c’erano altri pazienti e non era il caso di attirare l’attenzione più di quanto non avesse già fatto. Afferrò la camicia, la cravatta e il golfino sporgendosi tra le tende e rischiando di rimanervi impigliato quando cercò di uscirne, andò a sbattere contro il letto vicino alla porta d’accesso all’infermeria, ma non si prese il tempo per lasciar trasparire il dolore, spinse l’anta con una spallata ed uscì sul corridoio sudato e affannato. Per un momento pensò di tirarsi uno schiaffo, escluse l’ipotesi solo quando si rese conto che degli studenti del secondo anno lo stavano guardando e lui era ancora mezzo svestito.
Entrò nel primo bagno del piano terra che gli capitò davanti, precipitandosi dentro di corsa e prendendo a vestirsi velocemente.
«Questo è il bagno delle ragazze.» Dominique lo guardò attraverso il riflesso dello specchio centrale.
Louis per poco non si strozzò con la cravatta. «Non ti ci mettere anche tu.» Sbottò tossendo e allentando il nodo.
«No!» Fece prontamente lei. «Non era una battuta, questo è davvero il bagno delle ragazze!»
«Mmh» Mugugnò il ragazzo, alzando lo sguardo sul proprio riflesso. «Per Godric, sono orribile!» Piagnucolò, osservando i propri capelli spettinati e cercando di appiattire qualche ciuffo. «Sembro James.»
Voleva farsi un’accidenti di doccia. Poteva cercare di sistemarsi con qualche Incantesimo d’Igienizzazione, ma voleva avere un momento tutto suo e farsi una doccia.
Niente visioni o sogni; nessuna morte imminente o passata; alcun segreto o inganno. Voleva solo avere un istante per stare solo e lavarsi.
«Louis.» Lo chiamò la sorella, alle sue spalle. «Ti stavo cercando.»
Il biondo lasciò perdere i propri capelli, ma non si voltò. «Scusami, ma non ho tempo, ora.»
Si sciacquò un’ultima volta le mani ed uscì dal bagno, certo che Dominique l’avrebbe comunque seguito. Camminò infatti speditamente fino al termine del corridoio, con i passi della ragazza alle calcagna.
«Non è il momento giusto per fare due chiacchiere tra fratelli, davvero.» Le disse, mentre accelerava il ritmo. «Dico sul serio, sta per succedere qualcosa di nuovo e…»
Dominique lo fermò prima che potesse entrare in Sala Grande. «La stai facendo a posta?»
Il fratello sospirò, fermo all’angolo del portone d’ebano. Non notò le occhiaie della sorella, così come non fece caso alle guance rosse e le labbra sec­che.
Non aveva il tempo per lei e non voleva nemmeno trovarlo.
Lei lo prese per il braccio e lo allontanò dalla folla di persone che si dirigevano verso la Sala Grande, spostan­dosi. Le tremava il labbro inferiore. «Come sta?» Il tono era acuto, strozzato, ancorato alla stessa disperazione che traspariva da ogni altro movimento che compiva. «Devi dirmi come sta, ti prego.»
Al Grifondoro sfuggì un sorriso tirato. «Adesso t’importa?»
«Louis.» Il dolore le danzava sulle corde vocali, la voce andava e veniva, il tono vibrava. «Ti scongiuro. Dimmi solo com’è andato l’intervento.»
«Visto a cosa ti sei ridotta? Banali sensi di colpa?» Si avvicinò, costringendola a retrocedere fino a toccare il muro. «Ti sei comportata da misera e sei finita per diventarlo.»
«N-no.» Faticava a respirare perché tutte le sue energie, già stremate, si concentravano per trattenere il pianto.
Avanzò ancora, guardandola dall’altezza che poteva vantare su di lei. «Non so cosa ti ha spinto tanto in basso, sorellina. Sappi solo che sei inciampata in una pozzanghera e ti sei completamente sporcata di fango. Solo che ora non riesci più a lavarlo.»
Dominique si guardò attorno allarmata. «Non farmi questo…»
«Che c’è, Nicky? Hai paura?» Poggiò le mani sul muro, ai lati delle sue spalle, chinandosi un poco. «Finalmente provi anche tu questo sentimento misterioso, eh? Si sta di merda, vero?»
«Smet-tila.» Sussurrò lei, la voce ormai schiacciata dal groppo di singhiozzi che tratteneva.
«Ti fa male lo stomaco, le ginocchia tremano tutto il tempo, non riesci a parlare, non vuoi guardarti allo specchio, non dormi, non fai altro che pensare… È Orribile, dico bene?» Continuò a parlare a piccoli sbuffi, nonostante il tono rimanesse neutro poiché non si sforzava certo ad evitare che qualcuno sentisse. «Sai qual è il fatto più divertente di tutti? Che a te Frank nemmeno piace. Sei stata stramaledettamente brava, lo ammetto. In questo modo sei riuscita a far del male a due persone innocenti, tre contando te stessa.» Fissò gli occhi concatenandoli ai suoi. «Tre persone in un colpo solo ed in così poco tempo, Domini­que! Lucifero stesso si sta complimentando dall’epicentro dell’Inferno.»
La ragazza chiuse gli occhi. «Ti scongiuro.» Respirava annaspando ed esalando dolore dall’interno delle sue viscere.
«Ora, invece, sai qual è il fatto triste?» Continuò imperterrito. «Che a te di Céline non importa veramente, hai solo paura che qualcosa vada storto in quell’intervento. Non vuoi averla sulla coscienza.»
Dominique scosse il capo, già piangeva. «Io le voglio bene, non volevo…»
«Non importa cosa volevi o non volevi.» Scosse il capo e fece qualche passo indietro. «Non voglio giudicarti perché per fare quello che hai fatto devi essere stata davvero disperata.» Ammise, alzando le mani in segno di resa. «È solo che non riesco a giustificarti. I sensi di colpa non ti donano.»
 
 
Louis e Dominique Weasley erano difficili a ritenersi fratelli, per questo motivo la reazione scettica delle persone che venivano a sapere che per di più erano anche gemelli, era decisamente comprensibile. Non avevano nulla in comune: gusti separatamente diversi, lineamenti e caratteristiche fisiche dissomiglianti, atteggiamenti quasi opposti.
La madre credeva di aspettare solamente un bambino, quando in sala parto il Guaritore si rese inaspettatamente conto che ve n’era un altro; tuttavia, in famiglia, i due gemellini non avevano portato altro che gioia e curiosità per il loro aspetto differente: il biondo chiaro di Louis Prometeo ed il castano intenso di Dominique Calliope non si accumunavano in nessun aspetto, così come gli occhi azzurri di lui e quelli verdi di lei. Se il loro aspetto fisico non combaciava in alcun dettaglio, nemmeno il loro carattere rispondeva alla parentela o aveva qualcosa da dire all’altro.
Si rispettavano, si amavano, si supportavano e comprendevano, ma non avevano nulla da dirsi. Quando si trovavano riuscivano a dimostrare la loro sintonia, il punto era che non si trovavano. E non si trovavano perché non si cercavano. Non si cercavano perché non si pensavano. Non si pensavano.
Non si pensavano ed il guaio era che nessuno dei due si era mai chiesto il perché.
 
 
 
 
 
*
 
 


«Evelyn»
«Ngah…»
«Evelyn»
«Mmh?»
«Evelyn!»
«Che c’è?»
«La Cooman! Si sta avvicinando!»
Evelyn Black si tirò su e si guardò attorno. Non poté impedirsi di sgranare vistosamente gli occhi non appena scorse la professoressa puntare al loro tavolino.
Pizzicò Roxanne tre, quattro, cinque volte per risvegliarla dal sonno profondo al quale si era coraggiosamente concessa e cercò di sistemare i capelli in modo che non si notasse che fino a poco prima stava sonnecchiando anche lei. La Weasley si svegliò bestemmiando i Mari del Nord e dell’Est, con gli occhi rossi e gonfi, mentre sbadi­gliava e guardava male in tutte le direzioni che le permetteva di scorgere il suo campo visivo.
Katie si ricompose e si mise dritta sulla sedia, invitando le Grifondoro a fare lo stesso, pronta a mettere in gioco tutta la sua cinica e pessimistica fantasia su una serie di eventuali morti tragiche ed imminenti, non appena la professo­ressa di Divinazione le avrebbe domandato di farlo.
Tossicchiò ed alzò una mano per attirare l’attenzione dell’insegnante. «Professoressa, posso incominciare io?» Domandò educatamente.
La Cooman non ebbe nulla da ridire e si mostrò invece entusiasta per la sua proposta. «Prego, mi dia le vie dello sguardo della signorina Weasley.» Annuì.
Katie si spostò un poco con la sedia, avvicinandosi a Roxanne e sollecitandola ad imitarla. Questa sbuffò, igno­rando la presenza della professoressa, alzando gli occhi al cielo, prima di fissarli in quelli della Bones.
Roxanne aveva gli occhi di un azzurro vivido contrastante col resto delle sue cromature naturali e che incremen­tava il fascino dei suoi lineamenti; il taglio dello sguardo aperto e lungo, le palpebre spaziose ed alte, le sopracci­glia ridefinite e curate il giusto.
«Il globo oculare è ampio.» Iniziò prontamente Katie. «Significa che perderà qualcosa nel suo cammino.»
«Eccellente quanto promettente inizio, ti ringrazio.» sbuffò Roxanne, facendo sì che l’intera aula si concedesse a risate assolutamente spropositate, data la reazione infastidita della professoressa.
«Le ciglia sono di lunghezza pari e questo indica la mancata concessione di fiducia che porta certamente alla solitudine e…» La Bones si mordicchiò il labbro inferiore poiché non si ricordava nient’altro. «Perderai tutti i tuoi averi a causa di un affetto eccessivo e, quando li riavrai, perderai te stessa.» Concluse in tono grave, improvvisando sul posto e facendo alla Grifondoro un occhiolino cauto.
«Ma come?» Fece Roxanne, portandosi le mani al petto. «Non morirò investita da un Nottetempo?»
Katie cercò di sovrastare le risate in modo che la professoressa non se ne accorgesse. «No, morirai molto prima.» Guardò l’occhio sinistro della ragazza, cercando di scorgervi qualche segno conosciuto. «Morirai durante la partita di Quidditch di sabato prossimo, cadendo alla scopa.»
Roxanne sbatté le palpebre più volte, senza commentare; deglutì, piuttosto, e tossicchiò. «Ora tocca a me.» Si avvicinò alla Black e tentò di reggere il suo sguardo. «Bene, il colore è… insomma, non è… Nel Manuale c’è scritto…»
Evelyn sospirò, ormai abituata. «Puoi dirlo.»
La Weasley annuì e si avvicinò un poco alla Black per non lasciare che il disagio improvvisamente creatosi si propagasse oltre. «Beh, il colore non è umano. E questo significa che morirai suicida.» Lo disse con un tono particolarmente irritato, sembrava quasi voler che qualcuno la contraddicesse. «Le ciglia non sono pari, probabilmente il climax indica una degradazione interna o di una propria parte.» Parlò in fretta, nella speranza che alcuni dettagli avessero meno impatto e si equivalessero agli altri. «La perdizione di una parte può verificarsi in caso di dolore estremo…» Si guardò attorno in cerca di ispirazione per concludere l’interpretazione, fermandosi ad osservare il tavolo Serpeverde alla spalle della Black. «È probabile che tu perda la persona che ami più al mondo.» Affermò con enfasi, sorridendo all’occhiata divertita della ragazza, la quale sapeva benissimo quanto in là era capace di spingersi la sua fantasia. «Oppure potrebbe coincidere direttamente con il logoramento interno e quindi col suicidio.»
L’entusiasmo sul volto della Cooman era decisamente promettente, quanto la Bones che scuoteva il capo, sorridendo quasi mesta.
«Oppure ancora, cara amica mia, perderai il tuo amore e per questo morirai di dolore per mano tua.»
Evelyn ci pensò su. «Lo farò presente ai miei, così capiranno quanto poco indispensabile è la mia istruzione al momento.»
«Signorina Black, vuole favorire?» La professoressa di Divinazione fece un cenno a Katie e lei si accostò all’amica, sorridendole.
Piegò il capo di lato. «L’occhio è molto aperto e questo si rifà al solco tra realtà e fantasia oppure tra infanzia e maturità. Può indicare l’incapacità di staccarsi dai ricordi oppure l’impossibilità di farlo.» Si avvicinò ancora al viso della Serpeverde. «Il tono scuro del colore indica ottime capacità osservative e deduttive. Si può supporre che questo si risolva in un’eccessiva attività pensante che la tiene legata ad un modo astratto, e quindi irreale – e allo stesso tempo, ai ricordi ed ai fantasmi dell’infanzia.»
«Evelyn…» L’ammonì Katie a bassa voce.
«Le ciglia sono medie e sono un chiaro segno di superamento dell’ostacolo attraverso un aiuto.» Continuò imperterrita. «La cadenza delle palpebre è ampia e sparge lo sguardo. È senza dubbio il simbolo del sacrificio.»
La Cooman ascoltava ancora indecisa se lodare le deduzioni e declinarle, aspettava con ansia il momento in cui la Grifondoro avrebbe accennato alla morte della Bones.
La Black guardò l’amica. «Incontrerai un ostacolo che chiederà un sacrificio, ma lo supererai.» Le sorrise. «E sarai felice.» Aggiunse, fiera di se stessa.
Katie rise, insieme a Roxanne ed a qualcun altro nell’aula. «Ti sei appena rovinata la media in Divinazione.»
Ed in effetti, l’espressione contrariata della professoressa, mentre si allontanava verso il quarto tavolo, lo prometteva.
«Stavo iniziando a deprimermi!» Sbuffò la Black. «Dannazione, qualcuno le spieghi che non c’è solo fango in questo mondo!»
«Beh, no dai.» Convenne Roxanne. «Se non pesti il fango, ‘sta certo che potrai sempre pestare la merda.»
Evelyn le rifilò una gomitata. «Non ti ci mettere pure tu!» Sbottò, esasperata. «Quando morirò suicida, ti sentirai tremendamente in colpa.» La informò, incrociando le braccia sotto il seno.
«Non credo proprio che ne avrà il tempo, visto che morirà sabato.» Intervenne Katie, solidale. «E comunque» Sussurrò avvicinandosi con un sorriso scaltro. «Potter ti sta fissando.»
La Black sbarrò gli occhi, irrigidendosi. «Mi fissa? Nel senso che fissa me? Io? Ma perché? Ho qualcosa nei capelli? Sono sporca? Ho una caccola? Puzzo? Ho qualcosa tra i denti? Non dovevo mangiare quel muffin! Sei sicura che guarda me? Magari guarda te, no? Oppure Roxanne? Sei certa che sia lui? Magari è qualcun altro, che dici? Guarda bene! Non farti vedere, però!»
Roxanne scosse il capo, coprendosi il viso e lo sbadiglio con le mani. «Non avresti dovuto dirglielo.» Borbottò in direzione della Bones.
Katie osservò Evelyn raddrizzare la postura e lisciarsi i capelli, mentre con l’altra mano appurava la qualità del proprio alito. «No» convenne subito dopo, amareggiata. «Non avrei assolutamente dovuto.»
«Mi sta guardando ancora? Secondo te perché mi guarda? Ma sei sicura che stia davvero guardando qui?»
 
Damon Harper aveva un mistero da risolvere. E, detto francamente, quest’aurea enigmatica lo faceva sentire in un qualche modo profondamente realizzato e anche potenzialmente autorevole.
Sin da bambino aveva preferito risolvere indovinelli e comporre puzzle piuttosto che disegnare o colorare, e quando all’età di dodici anni aveva annunciato ai suoi genitori di voler fare l’Auror Interno – una sorta di carica corrispondente a quello che i babbani definiscono investigatore – non si erano stupiti particolarmente; certo, aveva borbottato sua madre, con un nonno Mangiamorte ancora detenuto ad Azkaban non sarebbe andato lontano. Aveva deciso, dopo una lunga seduta spirituale e mistica con se stesso, che suo nonno poteva andare a quel paese – purché questo paese fosse stato molto lontano – o che, per quanto lo riguardava, poteva marcire in quella cella fino a risvegliarsi direttamente nel Sesto Cerchio dell’Inferno; non l’aveva mai conosciuto e non ci teneva certo a rimediare.
È il principale problema del sangue: non scorre solo nelle tue vene e non sei tu a decidere con chi condividerlo.
Damon era fermamente convinto che quelle corbellerie che sentiva predicare sull’unione data dalle radici e dalla parentela non avessero nulla a che fare con gli affetti. Ed era certo che se molte persone non fossero state costrette a vivere insieme per motivi famigliari, non si sarebbero mai guardate in faccia. Era deciso e convinto che le famiglie andassero costruite e non aggiustate, riparate, assestate con qualche adesivo artificiale.
Fu al suo secondo anno che ne prese pienamente coscienza. Allora portava ancora la cravatta stretta come si doveva, la camicia dentro i pantaloni e le scarpe ben allacciate; si era ritrovato nella stessa situazione claustrofobica di tutti gli ereditari di ex Mangiamorte, i quali non potevano certo permettersi di vacillare o lasciarsi scappare un solo sbaglio, senza che un gruppo di ragazzini della loro stessa età, solamente molto più stupidi, facesse pesare loro le azioni di un qualche parente defunto o rinchiuso in una gabbia – per la maggior parte nonni, zii o cugini che non avevano nemmeno mai conosciuto. E così, su due piedi, si era chiesto perché loro, che non erano altro che bambini, stessero scontando una pena assieme a sconosciuti, per delitti che non avevano mai commesso, solo perché condividevano con loro qualche disgrazia cromosomica. Aveva trovato risposta non appena aveva rotto il naso al Corvonero che gli aveva bruciato il libro di Cura delle Creature Magiche, dopo averlo accusato di praticare Arti Oscure perché suo nonno materno aveva fatto la stessa cosa decenni prima che nascesse.
La preside gli tolse una ventina di punti, ma non lo mise in punizione; sua madre non gli mandò i dolcetti della domenica per un mese intero, sostituendoli però con severe lettere di ammonimento; suo padre spuntò tra le fiamme del camino della Sala Comune Serpeverde, solo per complimentarsi con lui ed esprimere il suo eterno orgoglio.
Il Damon dodicenne si era allentato la cravatta, aveva appoggiato i piedi sopra il tavolino ed aveva deciso di fare l’Auror Interno checché dicessero le persone – sia quelle con cui spartiva codice genetico che quelle con cui evitava di vantare l’appartenenza alla stessa specie.
E, in quel momento, seduto al tavolo assieme ai suoi compagni di Casa, durante l’ora di Divinazione – o Allenamento di Fantasia, a seconda dei punti di vista – aveva tra le mani un mistero nuovo da analizzare.
«Albus?» Aveva bisogno di interrogare eventuali testimoni, prima di iniziare a formulare delle tesi. «Tu che ne pensi?»
Potter si era voltato a guardarlo con le sopracciglia corrugate e lo sguardo in un incrocio tra due sentieri. «Penso ai fatti miei.» Sbottò quello, fissando davanti a sé.
Damon gli pestò il piede, irritato nell’incontrare futili ostacoli di pigrizia nelle sue indagini. «Che pensi di lui!»
E fece un cenno ad Adam Zabini, come se il ragazzo non fosse seduto al tavolo con loro e non fosse ad immediata portata d’orecchio.
Albus mugugnò contrariato e minaccioso. «Pensa ai fatti suoi anche lui.» Sbuffò, poggiandosi allo schienale della sedia e grattandosi la nuca. «Dovresti provare quest’esperienza prima o poi, sai?»
Damon gli mollò un pugno sul braccio, indicandogli il ragazzo in tavolo con loro. «Dannazione, Al! Sta leggendo!» Fece, attirando l’attenzione di più orecchie del dovuto. «Lo conosco da quando portavamo comodamente ancora i pannolini e giuro di non averlo mai visto leggere!»
«Scusa, ma perché non glielo chiedi?»
«Perché devo scoprirlo da solo, mi sto esercitando.» Lo disse sistemandosi il colletto della camicia e la cravatta, come se stesse facendo una presentazione formale. «Puoi iniziare già a chiamarmi Auror Interno Harper.»
Albus si limitò a guardarlo nel tentativo di farlo sentire almeno un poco a disagio. «E quali indizi hai raccolto finora sugli intenti demoniaci di un ragazzo che legge?»
Damon sorrise estasiato: era la domanda che aspettava sin dall’inizio. «Bene, allora.» Tossicchiò tre volte di seguito, nella volontaria intenzione di creare un’atmosfera di mistero. «Il libro ha una rilegatura rigida e scarlatta, ignifuga e idrofoba, il volume è approssimativamente simile a quello del Manuale d’Incantesimi, quindi circa settecento pagine di pergamena antica, assorbi-inchiostro; non è protetto da alcun Incantesimo di Riconoscimento o Antifurto; non vi è alcun segnalibro, quindi il contenuto è eterogeneo e la lettura possibilmente frammentaria; l’inizio e la fine di ogni lettura è ripetitivo, quando inizia o termina i suoi occhi scorrono più veloci e ripete automaticamente le parole a bassa voce.»
Albus, che era rimasto a guardarlo fermo nella stessa posizione, non osò dire nulla.
«Sai, all’inizio credevo si trattasse di lettura sacra – Corano, Vangelo, Bibbia – e invece no. Ho controllato la lista dei prestiti bibliotecari e solo la donna di Scorpius ha avuto il prestito di questi testi, negli ultimi due anni.»
«Si chiama Rose Ariana Weasley.» Precisò d’istinto Albus.
«Poi mi sono reso conto che la copertina non era rivestita.» Continuò tranquillamente Damon. «E, contando che non è protetto da alcun incantesimo, posso affermare con certezza che il libro non è di proprietà né della nostra biblioteca, né di nessun’altra.» Sorrise, con uno sguardo che fece sentire il Potter a disagio. «Adam tiene sempre il libro con sé, ma lo legge solamente durante le lezioni e quando siamo in Sala Comune o in dormitorio. Questo significa che non appartiene ad un Serpeverde.»
«Aspetta un attimo, hai detto che non è protetto da incantesimi?» Lo fermò l’altro, prima che potesse andare avanti. « E perché non l’hai Appellato o Duplicato? Sapresti già di che si tratta!»
«Perché sarebbe irrispettoso.» Rispose con ovvietà Damon.
«Ma sei idiota?»
«No, sei tu che sei noioso.» Lo informò Harper, oltraggiato. «Io ho tratto comunque le mie sagaci conclusioni.» Bofonchiò, fiero e sinceramente offeso per lo scetticismo dell’amico.
«Bene, rendimi partecipe.»
«Dici? Sono davvero riuscito ad incuriosirti con la mia indagine avvincente ed allettante o cerchi una scusa per distrarti dalla Black?» Damon gli sorrise mentre glielo domandava, sottolineando con una piega di labbra il poco rancore che serbava nei suoi confronti per aver interrotto la sua esposizione delle osservazioni nel caso.
«Black? Non mi ero nemmeno accorto che seguisse Divinazione.» Disse Albus, sistemandosi comodamente sulla sedia.
«Ah-ha.» Annuì l’altro. «Senti, se ti piace perché non glielo dici e basta? Ti muore dietro da… Da quando Adam non sapeva ancora leggere – ed ora legge libri di settecento pagine.»
«Non ho mai detto che mi piace.» Chiarì prontamente il Potter, voltandosi a fronteggiarlo.
«Bene.» Concesse Damon, scrollando le spalle. «Allora dille che non ti piace, così lei smette di morirti dietro, tu smetti di sentirti a disagio tutte le volte che è nei paraggi e Scorpius smette di far finta di non avercela con te.»
Albus ebbe uno scatto, ma lo frenò in un gesto solo, col risultato di essersi avvicinato poco più al lato del tavolo che occupava Harper. «Da quando sei diventato un osservatore tanto perspicace?»
Non intuì se fosse ironico o meno, ma data la reazione decise che non era nemmeno necessario domandarselo. «Da quando ho deciso di non nascondere più di esserlo.»
«E cosa ti ha portato ad un così grande sacrificio?» Sputò Potter, socchiudendo gli occhi.
«Non lo so.» Gli sorrise Damon. «Forse il fatto che quarantott’ore fa, un ragazzino è stato dissanguato a nemmeno un chilometro da qui.»
 
 
 
Caro Adam, 
 
Tu a cosa pensi quando abbracci le persone? 
Forse, cerchi di decifrare il loro profumo, io lo facevo sempre prima. Probabilmente, ti concentri più sul modo in cui ti abbracciano, se ti stringono o aspettano che lo faccia prima tu, se non si preoccupano e ti avvicinano il più possibile o si sentono in imbarazzo per la vicinanza. Forse, pensi a qualcosa da dire per consolare, per non creare disagio, per non dare troppo peso al gesto. Per non farlo sembrare un addio.
Io quando abbracciavo mamma, lasciavo che mi stringesse lei perché sapevo che la sua stretta sarebbe bastata per entrambi. Quando abbracciavo papà, mi aggrappavo per farmi prendere in braccio e sollevare, ero sempre certo che l’avrebbe fatto.
Quando abbracciavo la nonna, la stringevo perché è morbida come il pane. Quando abbracciavo lo zio Charlie, mi allontanavo subito perché mi faceva il solletico, lo fa sempre anche a Hugo.
Quando abbracciavo Freddie, lo annusavo perché profuma di buono e quando abbracciavo Jamie mi concentravo sulle pacche che mi dava sulla spalla, anche quando non ce n’era bisogno; quando abbracciavo Rosie, invece, giocavo coi suoi capelli.
Quando abbracciavo Teddy, mi sentivo a disagio perché si sbaciucchia mia sorella ed io dovrei avercela con lui per questo; l’ha detto lo zio Ron.
 
Posso dirti questo, come abbracciavo le persone e perché lo facevo, questo riesco ancora a ricordarmelo; ma non posso darti più dettagli ed erano proprio i dettagli a contare.
Dimmi, a cosa si pensa quando si abbraccia le persone? Ti prego, ricordamelo.
Perché io ho appena abbracciato Molly. Ed ho visto il suo funerale.
 
Disperatamente tuo,
Louis
 
 
 
«Scusi il ritardo, professoressa!»
Louis Weasley comparve dietro la botola rotonda che dava sull’aula di Divinazione, col viso rosso e sudato. E Damon Harper tirò un calcio sotto il tavolo al migliore amico.
«Ma che diavolo fai?» Adam sobbalzò facendo stridere la sedia ed attirando l’attenzione.
«Scusa, amico.» Fece con noncuranza l’altro. «Mi sono spaventato quando Weasley è entrato.»
«Weasley? Nessuno dei Weasley maschi segue questa lez-» Voltandosi, e guardando vicino all’entrata, ad Adam andò di traverso la saliva e si ritrovò subito a tossire.
«Già.» Borbottò Damon a bassa voce, dando qualche colpetto all’amico che si affrettò a mettere via il libro che stava leggendo, senza curarsi innanzitutto del proprio stato d’asfissia.
La professoressa Cooman superò i tavolini rimasti al suo interrogatorio e corse verso il ragazzo del settimo anno, aprendo le braccia ed alzandole in alto, come se stesse annunciando la discesa di un deus ex machina.
«Signor Weasley, sapevo che avrebbe ritardato! L’avevo visto ieri sera!»
Louis si schiarì la voce a disagio, sorridendo educatamente. «Chiedo scusa, ma sono appena uscito dall’infermeria.»
«Ma certo, caro. L’ho visto!» La donna gli fluttuò attorno, spingendolo in avanti dalle spalle. «Ragazzi, sono orgogliosissima di annunciarvi il futuro professore della sublime ed inestimabile materia di Divinazione in questo illustre castello, dopo che sarò felicemente andata in pensione.» La sua vocina fece qualche acuto soprano mentre pronunciava l’annuncio. «Naturalmente, io lo sapevo ancor prima che nascesse, sapevo che sarebbe stato l’erede, l’unico ed il solo, dell’Occhio Interiore, ma dovevo mantenere il segreto e proteggerlo affinché si realizzasse.» Questa volta le note erano basse e gravi, nel tentativo di essere profonde ed enigmatiche.
Louis fissò a testa alta tutte le faccine scandalizzate, curiose, indifferenti o annoiate che lo guardavano. «Ciao.» Azzardò risoluto.
«Oh, non essere timido, caro!» Squittì la donna, tanto vicina che per poco Louis non sobbalzò sul posto. «Sono sicura che tra voi giovincelli avrete molte discussioni pertinenti alla materia da avanzare.» Sorrise, riunendo le mani e guardando i suoi studenti commossa. «Perciò immagino che non ci sia alcun problema se vado a prendere un tè e vi lascio soli soletti a condividere intimamente il vostro amore per l’eterea magia del futuro.»
Louis, che annuiva impercettibilmente da tre buoni minuti per non dover intervenire nel discorso, ebbe un brusco torcicollo quando comprese il significato delle sue parole e le imminenti conseguenze che avrebbero provocato. «Cosa? Professoressa, no! Non può!»
«Sì, invece.» Sorrise la donna, facendogli un occhiolino. «Devo avvertire Hagrid di tenere in capanna la selvaggina perché gliela ruberanno.»
«No, che non può!» Insistette, seguendola fino alla botola e dando le spalle agli studenti che fissavano la scena interdetti, ma per nulla contrari all’allontanamento della Cooman.
«Vuoi che rubino ad Hagrid la selvaggina?» Lo guardò con gli occhi spalancati e lucidi.
Louis fu tentato di correggere la sua previsione e dirle che gli avrebbero rubato le zucche la settimana dopo, ma come sempre si trattenne, limitandosi a ricambiare lo sguardo oltraggiato. «Ed io che dovrei fare?»
«Oh, caro.» Tirò su col naso lei, stringendosi attorno la sciarpa e superando la soglia. «Siamo in pari col programma, stavamo solamente ripassando l'Oculomanzia. Puoi riprendere da lì.»
Louis scosse il capo. «Non posso gestire venti sedicenni da solo!»
«Sì, che puoi! Addio!»
Fece un balzo indietro quando la porta della botola gli si richiuse in faccia e sospirò, cercando di non dire nulla di compromettente.
«Louis, ti dispiace se vado a prendere un tè anche io?» Fece Roxanne, sul punto di alzarsi.
«Sì, mi dispiace.» Rispose prontamente, voltandosi a fronteggiarla.
«Oh avanti, biondino.» Una Corvonero lo guardò di lato, sorridendo. «Nessuno di noi è qui perché è veramente interessato alla materia.»
«Veramente, io…» Evelyn provò a contraddire la Corvonero, ma un’occhiata di Roxanne la stimolò a tacere.
«Signorina Down, non può rivolgersi a me come se fossi suo cugino e chiamarmi biondino, in questo momento sono un’autorità e la invito pertanto a…»
«Ma io sono tuo cugino.» Intervenne Albus. «Posso chiamarti biondino e posso anche andare a prendere un tè.»
«Ma tu nemmeno lo bevi, il tè!» Si lamentò Damon.
«Mi sono preso una licenza poetica, mai sentito parlare di allegorie?» Sbuffò Potter, sarcastico.
Un Tassorosso spostò la sedia, voltandosi a guardare Louis meglio. «Bene, allora andiamo tutti a prenderci allegoricamente un tè. Non credo che tu sia tanto stupido da pensare di poter fare lezione per davvero, biondino. Ne abbiamo tutti abbastanza delle menzogne di Divinazione.»
Un coro di assensi più o meno omogeneo seguì le sue affermazioni.
Louis raddrizzò le spalle. «D’accordo.» Annuì. «Mettiamola così» scese qualche scalino, fermandosi al centro dell’aula, «se qualcuno di voi qualsiasi osa chiamarmi diversamente da professore o signore, prosciugherò immediatamente tutti i punti della sua Casa e metterò due Troll e cinque Desolante, non solo sul registro di Hogwarts, ma sul suo curriculum vitae et studiorum, assicurandogli la disoccupazione per il resto dei suoi giorni e rovinandogli incontrovertibilmente la vita.»
«Ma tu non ce l’hai nemmeno, una licenza per insegnare questa materia!» Sbottò una Corvonero, dall’ultimo tavolo dell’aula.
«Credimi, non gli serve.» Rispose Roxanne a bassa voce, ma con un tono abbastanza monocorde affinché potessero sentirla tutti.
«Sentite, non sono qui per minacciarvi o obbligarvi a seguire le lezioni.» Chiarì Louis, facendo qualche passo indietro. «Dovrò solo sostituire la professoressa Cooman qualche volta, ecco. E non so che impressione abbiate di questa materia, anche se non mi è impossibile dedurlo, però se proprio dovete fare qualcosa, tanto vale farla bene, no?» Prese in mano il Manuale del sesto anno e diede un’occhiata all’indice. «Ora, francamente, c’è qualcuno qui che è veramente interessato alla Divinazione?» Sospirò, mettendo da parte il Manuale.
La mano di Evelyn Black scattò prima che Roxanne potesse intercettarla, ma fu subito supportata da quella di Katie Bones e, con grande meraviglia generale, si alzò anche quella di Damon Harper.
«Tre su venti.» Contò Louis, incrociando le braccia al petto. «È un inizio.»
«Quattro su venti!» Adam Zabini portò in alto entrambe le mani, sbracciandosi ed agitandosi per essere notato, nonostante non ce ne fosse alcun bisogno.
«Quattro su venti, allora.» Sorrise Weasley, tossicchiando.
«Puoi abbassare le mani ora.» Sussurrò Damon ad Adam, senza voltarsi a guardarlo.
«Cosa?» Fece l’altro. «Oh sì.»
«Prima di iniziare ad introdurre la tematica del prossimo modulo, vorrei sapere che cosa sapete di questa materia, se non vi dispiace.» Propose Louis, cercando di mantenere la sua professionalità – o perlomeno di acquisirla.
«Io dico che è un mucchio di cazzate.» Sbottò lo stesso Tassorosso di poco prima, scrollando le spalle e fronteggiando il professore. «Insomma, io non ci credo in queste… scaramanzie.»
«Nemmeno queste scaramanzie credono in te, Wayne.» Lo rimbeccò Evelyn. «Io ci credo.» Mise in chiaro fin da subito. «Credo veramente che al di là dei segni si celi un vero messaggio.»
«Anche io.» Katie si attaccò al discorso della Black. «Insomma, non penso che ci siano sempre i mezzi e le capacità di interpretare i segni, però… Non riesco a non pormi certe domande ed a fare finta di nulla solo perché è difficile trovare una risposta.»
«Ma che diavolo state dicendo?» Intervenne Melinda Hood di Corvonero. «Divinazione è e rimarrà sempre una materia inutile in questa scuola. Non è dimostrabile sotto alcun aspetto…»
«Ma non è nemmeno indimostrabile.» La interruppe Damon. «Avanza dei propositi di cui generalmente non si può dimostrare la veridicità, ma non puoi nemmeno dimostrare il contrario.»
«Mio zio Sebastian diceva sempre a papà che la nostra famiglia poteva essere composta solamente da diciassette persone e che se fossi nato io qualcun altro sarebbe morto.» Philip Owen di Tassorosso parlava guardando Louis. «Blaterava di questa profezia continuamente e cercava di convincere mia madre a prendere una pozione per abortire.»
«Era… pazzo?» Propose Melinda.
«No, per niente. Aveva ragione.» Assicurò Philip. «Quando sono nato io, è morta sua moglie.»
Nessuno osò dire nulla, tranne la Corvonero che scosse il capo. «Ma potrebbe essere una coincidenza, magari stava male già prima o ha fatto un incidente…»
«Senti, è morta quando sono nato io.» S’irritò il Tassorosso. «Nell’esatto momento in cui sono nato.»
Le sue parole si lasciarono dietro un eco di brividi tra il silenzio a cui tutti contribuivano volutamente.
«Ti ringrazio, Owen, per aver condiviso questo… evento con noi.» Disse Louis al ragazzo, annuendo.
Roxanne alzò la mano, evitando che il suo riconoscimento nei confronti di Philip creasse disagio. Si affrettò così a farle un cenno col capo, invitandola a parlare.
«Io non dico di non crederci.» Si precipitò a dire. «Insomma, anche io ho vissuto episodi che mi hanno dimostrato che non sono cavolate – e tu lo sai.» Parlò guardando negli occhi Louis e senza osare spostare lo sguardo altrove, e la sua voce lasciava trasparire un disagio poco celato. Sembrava disagiata dalla presenza degli altri, come se volesse semplicemente confidare dei pensieri al cugino, in segreto. «Solo non mi piace. Mi fa venire l’ansia, ecco. Voglio dire, uno già se la deve vedere col suo passato e con il presente… Avere pure il peso del futuro è troppo. Credo nella Divinazione, ma non voglio sapere nulla sul futuro.»
Louis annuì, comprensivo. «Certo, hai ragione. Perfettamente comprensibile.» Vide che nell’aula si era creata un’atmosfera densa e che il silenzio continuava ad essere voluto, e decise di approfittarne. «C’è però un piccolo equivoco nel quale siete ricaduti, più o meno tutti quanti da quanto ho potuto verificare. Vedete, la Divinazione non è esclusivamente predizione del futuro, come generalmente si crede. La Divinazione è innanzitutto rifiuto della casualità, perciò tutti gli avvenimenti sarebbero concatenati tra loro e le coincidenze non esisterebbero in alcuna forma.» Si schiarì la voce, fiero di se stesso per non essere stato interrotto. «Da questo presupposto, muove la questione temporale e cronologica secondo la quale determinate cause produrranno specifiche conseguenze e totalizzeranno specifici risultati o effetti. Si presuppone, in parole semplici, un’interconnessione tra passato, presente e futuro, ed il compito della Divinazione è di svelare tale connessione. Essendo il futuro la dimensione che meno conosciamo, nella storia – quasi ironicamente – ci si è concentrati molto più su questa che sulle altre; passato e presente sono sempre apparsi meno criptici e più accessibili.»
«Quindi un Veggente o Vate non prevede solamente il futuro, ma anche passato e presente?» Domandò Damon Harper con gli occhi sgranati.
«Precisamente! Dieci punti a Serpeverde!» Annuì e si congratulò Louis.
«Ma a cosa serve? Voglio dire, il presente e il passato li conosciamo già.» Fece Melinda, incrociando le braccia al petto.
Louis non si lasciò intimorire. «Non c’è nulla, in questo mondo, che possiamo onestamente affermare di conoscere per intero e con incontrovertibile certezza. E se così fosse, sarebbe fede e non conoscenza.» Rialzò lo sguardo, indirizzando le sue parole a tutti gli studenti. «Non dovete immaginare passato, presente e futuro come cronologie nettamente separate, in realtà sono tutt’uno e siamo noi ad orientaci solamente contraddistinguendole. La Divinazione non determina nessuna delle tre dimensioni, interpreta solo le interconnessioni che riesce a distinguere; i segni che porta non sono mai legati soltanto a ciò che sarà, ma anche a ciò che è e ciò che fu.» Quando poté essere certo di aver guadagnato l’attenzione della classe, non esitò a continuare. «La Veggenza consiste nel percepire ciò che è celato; il Veggente, per l’appunto, non vede il futuro, ma ciò che è nascosto, indipendentemente da quando o dove è accaduto, che sia concreto o astratto.»
«Sembra bello, accidenti!» Si lasciò sfuggire Damon, facendo sorridere il professore. «Voglio dire, a me piacerebbe esserne in grado.»
«Non è così… semplice.» Rispose Louis, cercando di spiegare la questione obiettivamente. «Tutto ciò che vede sono segni, nella maggior parte dei casi sono simboli, allegorie, emblemi, metafore… Raramente le immagini sono chiare, difficilmente ne comprende il senso. Ciò che vede gli è stato rivelato: ha il diritto di vedere eccezionalmente elementi che ad altri non è concesso vedere, ma ciò che vede è appunto ri-velato, ricoperto, rivestito e la forma non è chiara.»
«Come un sogno.» Proferì Evelyn, pensierosa.
«Esattamente, signorina Black! Dieci punti a Grifondoro!» Le sorrise Louis, facendola arrossire. «E grazie a questo coerente e pertinente paragone, arriviamo al più importante ambito della Divinazione, col quale avrete a che fare fino alla fine di quest’anno e anche all’inizio del prossimo.» Louis prese la bacchetta e scrisse sulla lavagna che la Cooman non utilizzava da più di un mezzo secolo: Oniromanzia.
«Interpretazione dei sogni?» Fece Katie, gettando un’occhiata eccitata ad Evelyn.
Louis annuì. «Qualcuno vuole condividere la propria esperienza in merito all’argomento?»
«Io non ricordo quasi mai i miei sogni, a meno che non siano spaventosi. Se sono incubi me li ricordo sempre.» Ammise Katie. «Significa qualcosa di preciso?»
«Certamente, tutti di minimi dettagli di un sogno sono sempre di vitale importanza per la sua interpretazione.»
Evelyn tenne la mano alzata fino a quando Louis non annuì, facendole un cenno. «Ecco, io riesco raramente a distinguere i volti nei sogni… È come se sognassi persone che non conosco.» Borbottò a voce strascicata la Black. «Oppure, li conosco, so chi sono, ma non è il loro volto quello che vedo nel sogno.»
«Professore?» Damon lo chiamò attirando la sua attenzione. «I miei sono piuttosto brevi, e cambiano in fretta e all’improvviso. Sono tanti piccoli e diversi sogni che non hanno alcun senso.»
«I miei sogni finiscono sempre bruscamente e ho una strana sensazione di vertigine.» Disse Philip, impensierito.
«Anche a me succede!» Intervenne Roxanne. «Soprattutto quando ancora non mi sono addormentata del tutto. Il sogno è breve, ma finisce sempre in un modo che… mi sento come se stessi per cadere.»
Quando Albus Potter tossicchiò, il coro di voci si affievolì gradualmente fino a minimizzarsi. «È normale non riuscire a comprendere se un sogno è un incubo o meno?» La sua voce era bassa, il tono vellutato; sembrava essersi pentito di aver parlato.
«Prova a spiegarti.» Lo sollecitò Louis, avvicinandosi e facendosi improvvisamente più attento.
«A volte faccio sogni che sembrano essere incubi, ma quando ci ripenso mi rendo conto che forse non lo erano.»
«Ti capita mai il contrario?» Domandò inquieto l’altro.
Albus annuì, il meno percettibilmente possibile.
«D’accordo.» Si allontanò un poco per non attirare troppo l’attenzione sulle parole del cugino. «Per la prossima volta, provate a descrivere un sogno che considerate essere lieto e sereno per voi, e poi un incubo. Cercate di essere il più rigorosi possibile nella descrizione dei dettagli di entrambi i sogni.» Raccomandò lentamente, in modo che potessero prendere appunti. «Li metteremo a confronto ed inizieremo dalle basi, ossia l’ambientazione di un sogno.»
«Ma… Abbiamo già finito?» Chiese Philip, guardando l’ora. «La prossima volta ci sarà lei, professore?»
Louis arrossì un poco e rispose a capo chino. «Se la professoressa Cooman preferirà andare a prendere un altro tè invece che fare lezione…»
Fu piuttosto imbarazzante in effetti, constatò mentre riordinava i libri che aveva estratto e cancellava la lavagna, sentire circa venti persone borbottare azzardati metodi per sbarazzarsi della professoressa di Divinazione quando lui era a pochi passi e non riusciva a sgridarli, piuttosto nascondeva il rossore.
«Albus, puoi rimanere un attimo?» Chiamò, mentre un gruppo di Serpeverde si dirigeva verso la botola.
Il ragazzo richiamato arrestò il passo ed annuì in sua direzione, facendo poi un cenno agli amici; posò la tracolla sopra un tavolino e si avvicinò, infilandosi le mani nelle tasche.
«Che succede?» Chiese, siccome il cugino lo fissava negli occhi e non accennava a parlare. «Se è per il mio intervento di prima, lascia stare. Non sono sicuro di…»
«No.» Sussurrò Louis. «Non è per quello.»
Il Serpeverde inarcò le sopracciglia, ma non disse nulla.
Louis scosse il capo e sospirò. «Hai fatto un Sortilegio di Protezione oppure un incantesimo di Mimetizzazione?»
L’altro rise. «Ti sembro in grado di evocare incanti del genere?»
«Albus, per favore. Ultimamente mi basta incrociare lo sguardo di una persona per vedere qualcosa che la riguardi, ma quando guardo te non vedo assolutamente nulla. Non mentirmi.»
Potter ghignò, avvicinandosi al cugino. «Vedi, non è proprio il caso che sia tu a parlami di menzogne, sai?» Sussurrò. «Sarai pure il principe della Divinazione, ma l’Occlumanzia è il mio campo.»
«Non cambiare discorso, per favore.» Sussurrò Louis, guardando oltre le sue spalle per assicurarsi che tutti gli studenti fossero usciti. «So che c’è qualcosa che non vuoi che veda…»
«No!» Soffiò Albus, riprovato. «Non venire a fare il moralista con me, d’accordo?» Il tono era esplicitamente minaccioso, non aveva alcuna intenzione di nascondere il timbro intimidatorio. «Tu sei il primo ad aver preso per il culo tutti senza nemmeno che se ne accorgessero.» Gli puntò il dito contro. «Stai fuori da ciò che mi riguarda. Stai lontano da me.»
«Sto solo cercando di aiutarti…»
«Non ho chiesto nessun aiuto, Louis. Non voglio nessun aiuto. Non ho bisogno di aiuto.» Chiarì Albus senza allontanarsi.
«Stai mentendo…»
Albus avanzò fino a spingerlo e ritrovarsi esattamente davanti a lui. «Giuro. Giuro che se non ne starai fuori, giocherò sporco. Osa accennare della questione a qualcuno ed io non divulgherò solamente la cazzata dietro la quale ti sei accomodato, ma i motivi che ti hanno spinto a farlo.» Saldò i suoi occhi a quelli del ragazzo, rifiutandosi di battere le ciglia. «Io sono quello che fa lo stronzo e tu sei quello che fa il frocio, e non c’è nulla dietro, d’accordo?»
Louis impallidì un poco alla volta sotto i suoi occhi.
«Bene.» Constatò soddisfatto il Potter. «Torna il cuginetto sofisticato ed altero che eri fino ad un paio di annetti fa.» Gli suggerì poi, facendo un passo indietro. «Ti rispettavo di più quando ci parlavamo di meno.» Sputò infastidito, allontanandosi definitivamente. «Alla prossima lezione, professor Weasley.»
 
 


 
 
 
*
 
 

 
 
Le scale, particolarmente ripide com’erano, le facevano venire voglia di saltellare, ma resistette all’impulso an­cor prima di proporselo – non era il caso di fare certe figuracce, con le voci che giravano su di lei. Forse però, si disse dopo un po’ mentre superava una vetrata cortese, mettersi a saltellare avrebbe potuto far ridestare coloro che sostenevano con fermezza e convinzione che lei fosse una Mangiamorte o una loro spia; insomma, si la­mentò tra i suoi pensieri, se fosse stata una spia, si sarebbe vestita in modo molto più rispettabile o perlomeno ele­gante, non sarebbe certo andata in giro con un’accidenti di divisa scolastica qualunque. Doveva ammettere, tutta­via, che l’altra parte dello scolaresco che supportava la tesi secondo la quale lei era un ibrido nato dall’unione di Voldemort ed una ninfa marina era piuttosto affascinante; certo, se si escludeva la loro mesta ignoranza in Cura delle Creature Magiche poiché le ninfe erano a tutti gli effetti Vegetali Magici, impossibili ad unirsi ad esseri umani. Portò una mano a tastarsi il viso e si trattenne dall’imprecare perché, per Morgana e Circe, lei aveva il naso all’insù che più su non poteva certo andare, non poteva essere figlia di Voldemort prima di tutto per ragioni fenotipiche.
Katie le aveva suggerito di rivelare apertamente le sue origini, quando un ragazzino del secondo anno le aveva urlato dietro che aveva gli occhi da Dissennatore ed il tono del ragazzino era stato tanto allarmato che aveva pensato addirittura di metterla sul ridere e cucirsi sulla divisa la scritta “I’m Black”, lasciando ai cu­riosi libera interpretazione. E poi, se quello che dicevano era vero, se lei aveva davvero i lineamenti tipici della famiglia Black, qualcuno con quel poco d’intuito indispensabile per spettegolare avrebbe potuto tirare le somme ed evitarle la fatica di una dichiarazione anagrafica in Sala Grande perché nella sua mente “Scusate, posso aveva la vostra attenzione, prego? Ecco, volevo dirvi di smetterla di far circolare certe voci su di me solo perché siete persone inutili e con discutibili gusti per gli hobby perché io non sono un ibrido, ma nipote diretta di Sirius Black, perciò smettetela di dannarmi l’anima perché sono figa quanto voi” non suonava tanto bene come scena ed era il caso di evitare di metterla in pratica, visto che nemmeno le scene che nella sua testa suonavano bene avevano un buon effetto nella realtà. In parte, sapeva di non doversela prendere tanto e che in fondo era più che altro una questione di impressioni, che gli altri in fondo giudicavano in base a quel poco che sapevano – il quale, nella scala dei fatti, non contava assolutamente nulla – e traevano le loro personali o collettive conclusioni; se quello che avevano davanti era una ragazza dalle dubbie provenienze, con gli occhi inumani, precedentemente coinvolta in azioni criminali e con il Marchio Nero sul braccio sinistro, non c’era da stupirsi che non ci fosse un minimo d’empatia.
Certo, la sorte non aveva giocato a suo favore, Dominique Weasley aveva circa la stessa discen­denza Veela che aveva lei, ma mentre la Corvonero aveva ereditato il lato sublime e seducente, celestiale ed ammaliante della creatura, ritrovandosi così ad essere senza dubbio la ragazza più bella del Castello, ad Evelyn era rinvenuta la parte bestiale e mostruosa, inquietante e tenebrosa; ricordava che, quando era piccola e girava qualche volta con la madre, molti Babbani si facevano il segno della Croce non appena incrociavano il suo sguardo, qualcuno le urlava dietro “maledetta!” o “dannata!”. Non riusciva a fare a meno di chiedersi quanto sarebbe stata semplice la sua vita se avesse avuto un altro colore di occhi.
Non provava rancore verso queste persone, solo non riusciva a spiegarsi come diavolo facessero ad avere tutti quanti tanto tempo per spettegolare, quando lei – tra bisogni primari e studio – non aveva nemmeno il tempo di districarsi i nodi che aveva tra i capelli. Voleva solo che la gente si trovasse occupazioni più degne, che si guardasse più attorno.
«Dovreste guardarvi più spesso attorno anche voi, Madamigella.» Proferì una voce che riecheggiò lungo corri­doio del settimo piano. «E dovreste anche esercitarvi nell’Occlumanzia contro coloro che la praticano con de­strezza prima di annaspare tra le acque burrascose del pensiero filosofico dal quale vi accolgo naufraga.»
Restò ferma dov’era, nell’esatto punto sul quale – senza accorgersene – aveva arrestato il passo. Prima di cercare d’identificare la voce virile ed il tono solenne fece mente locale cercando le vie di fuga più vicine – l’aula di Aritmanzia e il bagno dei maschi – e ricordò a se stessa che era il caso di tirare fuori la bac­chetta.
«Oh, non tentate di difendere la vostra ammaliante persona da colui che ne è accecato per primo.» Enunciò sempre la medesima voce. «Piuttosto permettetemi di espormi al vostro splendore e di rivelarvi la tenacia del medesimo che solo è disposto a lasciarsi incenerire dal vostro lume, mia amata fanciulla.»
Evelyn tirò fuori la bacchetta senza ripensarci e si guardò intorno alla ricerca della fonte della voce. «Chiunque tu sia, sappi che sono armata e che non esiterò a farti del male!» Tentò di minacciare, cercando di celare il tremore.
«Già me ne avete fatto, del male.» Espresse, questa volta più vicino. «Nel momento in cui ho potuto udire il suono soave della vostra anima pura.»
«Okay, ho capito.» Annuì Evelyn, finalmente convinta. «Sei un pazzo.»
«Solo l’amor smisurato che avete dolorosamente infuso nelle mie vene potrà condurmi alla follia.»
«Fatti vedere!» Alzò la bacchetta davanti a sé, aspettando. «Fatti avanti, non ho paura.» Qualcosa al suo lato sinistro si mosse ed Evelyn si voltò lentamente con gli occhi sgranati. Puntò la bacchetta contro ciò che le si muoveva incontro cercando di rimanere un minimo lucida per pronunciare uno Schiantesimo. «Ma che...?»
«Col vostro consenso, Madamigella, mi presento. Sir Tristano di Lioness, diretto erede della fortezza di Lioness e Cavaliere della Tavola Rotonda, al vostro servizio.»
«Perché hai un’armatura addosso?» Esalò Evelyn, dimenticandosi gli Incantesimi di Difesa che stava ripassando a bassa voce.
La corazza argentata davanti a lei vibrò un poco. «Mia amata fanciulla, io non mi celo dietro alcun rivestimento, mi introduco a voi ora come fui forgiato un tempo e vi propongo il mio cuore, per la vostra mano.»
«Tu…» Evelyn tenne la bacchetta ben puntata contro le armi argentee che le stavano parlando. «Tu sei un’armatura?»
«Ebbene sì, mia sola ed unica amata.» Dichiarò quello, facendo un profondo inchino.
«Tu sei un’armatura e mi stai chiedendo di… uscire con te?»
«Oh, non giudicatemi dalla poca lucidezza del mio scudo, col vostro permesso io vorrei chiedere la vostra mano.»
«E per fartene cosa?» Tentò Evelyn, con gli occhi ancora sbarrati.
L’armatura si rialzò dall’inchino e si mise sull’attenti. «Mia amata, io vorrei chiedervi in moglie, se me ne concederete l’immensa prosperità.»
Evelyn si portò una mano al petto e l’altra sulle labbra. Arrossì improvvisamente ed insolitamente, senza riuscire a parlare. «Io…»
«Oh, mia fanciulla.» Sospirò l’armatura. «Sapeste quanto il mio cuore ha atteso e bramato rivelarsi…»
«Ma per favore, sei un’armatura, nemmeno ce l’hai un cuore!» La voce di Albus Potter fece sobbalzare Evelyn tanto bruscamente che Sir William dovette tirar fuori la spada ed infocarla.
«Chi osa intimidire la mia amata e dubitare del mio sentimento per lei?» Lo sfidò, portandosi avanti lo scudo.
Albus rise, sinceramente divertito. «Nulla di personale, amico. È solo che sei argento del VIII secolo e dubito che la tua amata potrà in un qualche modo… Ecco, soddisfare le tue brame. A meno che tu non voglia recarle seri danni all’apparato riproduttore…»
«Potter, quando mai ti ho dato il permesso di parlare a posto mio?» Evelyn si ridestò facendosi un poco avanti.
Albus alzò le braccia e scrollò le spalle. «Vuoi spiegarglielo tu il motivo per il quale non potrete avere figli? Fai pure, mi accontenterò di assistere dall’angolo.»
Evelyn socchiuse gli occhi. «Sei un insensibile!» Lo accusò, puntandogli il dito contro.
Sir William si fece avanti. «Mia amatissima, ho il vostro permesso di sfidarlo a duello?» Domandò brandendo lo scudo in avanti.
«No!» Si affrettò a chiarire la ragazza. «Niente duelli, mio ehm… amato.»
Albus rise con lo stesso gusto spontaneo di poco prima. «Perché non mi sono portato dietro un magi-registratore?»
«Così non mi aiuti!» Si lamentò la Grifondoro, sul punto di una crisi di nervi.
«Chi dice che ti voglio aiutare?» Fece Albus, guardandola serio.
Evelyn arrossì. «Per favore.» Sussurrò dando le spalle a Sir William, in modo che non la potesse udire. «Non voglio spezzargli il cuore, è una brava... armatura.»
«Problema risolto, allora.» Dichiarò lui, sorridendo. «Non ce l’ha un cuore, non potrai spezzarglielo nemmeno volendo.»
Evelyn sbuffò, rossa in viso. «Ti prego.» Supplicò, esasperata. «Aiutami a…»
«A rifiutare la sua proposta di matrimonio?» Completò la richiesta lui, sbuffando una piccola e divertita risata sotto i baffi.
«A rifiutarla in modo delicato, se possibile.» Precisò l’altra, nervosa e tesa fino al tremore.
«Black, contieniti. Stai per svenire.» Sbuffò Albus, tirando fuori la bacchetta e facendosi in avanti. «Pietrificus pietrorum
L’armatura di Sir William tornò alla sua postazione al centro del corridoio del settimo piano e si irrigidì, perdendo vitalità.
La Black per poco non urlò. «Ma cosa hai fatto? Che diamine ti passa per quel cervello? Rilascialo immediatamente!»
«È un’armatura.» Disse Albus, esasperato. «Probabilmente qualcuno avrà lanciato un contro-incantesimo che gli è rimbalzato addosso e dopo tredici secoli di letargo il tuo amato è rimasto fulminato dalla prima creatura femminile che gli è capitata davanti.»
Evelyn trattenne il respiro. «Stai supponendo che i sentimenti di Will nei miei confronti non siano veri?»
Albus sorrise. «Will?»
«Tu pensi che lui si sia innamorato di me solo perché sono la prima donna che ha visto dopo tanto tempo?»
«Rilassati.» Fece il Serpeverde. «È così, non c’entra quello che penso io.»
«Non sei insensibile, allora. Sei solamente stronzo.»
Albus avanzò di qualche passo, avvicinandosi. «Hey, è un’armatura.» Chiarì, esitante.
«Un’armatura che mi ama e vuole sposarmi.» Precisò lei, stizzita.
Il ragazzo la guardò con fermezza, concentrando lo sguardo sulla pelle ancora arrossata del suo viso. «Vuoi che provi a darti una spiegazione razionale?»
«Una… Cosa?»
«Ti immedesimi in Sir William, Black.» Le disse lui in un soffio, sotto gli occhi concentrati. «Il che è decisamente preoccupante e difficile a spiegarsi, visto che tu sei fatta solo di nervi e non d’argento.»
Evelyn si limitò a guardarlo, abbassando le braccia lungo i fianchi e mettendo su un’espressione che gli fece intuire quanto fosse stato scadente il suo tentativo di metterla sul ridere.
«Peccato che l’Occlumanzia non si insegni ad Hogwarts, la tua immedesimazione in un oggetto inanimato ha addirittura un nome… Sindrome di Nathanael, se non erro.»
«Chi diavolo è Nathanael?» Chiese Evelyn, improvvisamente stanca.
«Un giovane morto suicida dopo aver scoperto che la ragazza di cui si era innamorato era un automa robotico.» Spiegò lui, un poco a disagio.
«Stai profetizzando anche tu la mia morte per suicidio?» Chiese in modo eccessivamente cortese, riferendosi alla profezia di Roxanne durante la lezione di Divinazione.
«Ma no, non credo che rimarrai traumatizzata più di tanto, non hai avuto il tempo di conoscere Sir William per innamorarti lui.» Le disse, grattandosi la nuca e gettando un paio di occhiate all’armatura, ora ferma ed immobile.
Evelyn deglutì. «Quindi sei convinto che bisogna passare tanto tempo con una persona per innamorarsene?»
«Non è di una persona che stiamo parlando, Black. Quello è…»
«Un’armatura, sì. Ho capito.» Lo anticipò lei. «Vuoi che provi a darti una spiegazione razionale?» Chiese lei, usando le sue stesse parole. «Tu non hai la minima idea di cosa stai dicendo perché non hai mai provato nulla di simile.» Lo informò, stizzita ed irritata, accusatoria.
Albus rimase fermò un po’, prima di ridacchiare a disagio. «Devo seriamente denunciare la tua sindrome di Nathanael al S. Mungo, allora.»
«Oh, ma smettila.» Rise Evelyn, facendo un passo indietro. «Come se non lo sapessi.»
Il sorriso di Albus si congelò, raffreddando gradualmente ogni lineamento del suo viso, tanto che gli tremarono le labbra prima di parlare. Fece un passo avanti, avvicinandosi alla ragazza. «Senti, parliamone.» Concesse, lentamente.
Evelyn si appoggiò al muro ed incrociò le braccia sotto il seno; piegò il capo di lato e lo guardo con la precisa intenzione di essere ricambiata. «Facciamo un patto, Albus.» Pronunciò il suo nome con straziante dolcezza, come se lo avesse fatto tutte le sere della loro vita e avesse avuto l’opportunità di farlo anche tutte le mattine dopo. «Solo la verità. Per una volta, una sola, diciamoci la verità.»
«La mia verità non giustifica nulla.»
Evelyn si raddrizzò, ma non si mosse da dov’era. «Me la merito.»
Il ragazzo scosse il capo.
«La verità, Albus.» Rimarcò lei, mantenendo lo sguardo fermo.
«Non la so, la verità, va bene?» Aprì le braccia, come in segno di resa. «Non me la sono mai raccontata.»
Lei sgranò gli occhi, spostandosi dal muro ed avvicinandosi al ragazzo. «Albus» parlò sussurrando, come se gli stesse confidando il più terribile dei segreti.
Hanno questo strano vizio, le persone, di abbassare la voce quando insolitamente non mentono, come se si vergognassero di essere sinceri. Come se la verità fosse un tradimento, come se avessero ingannato se stessi e si aspettassero di essere puniti per questo.
«Va bene. È giusto, così.» Deglutì le menzogne che tentavano di sopraffare quell’unico attimo di onestà. «Tu dimmi solamente di andarmene e me ne andrò, te lo giuro. Tu lasciami andare ed io me ne vado.»
Si chinò in basso e cercò il suo sguardo perché voleva che sentisse quanto era sincera, che lo sentisse anche con gli occhi.
Albus rialzò gli occhi, fissandola.
Evelyn lo guardò a sua volta e lui la baciò.
 
 
 
 

 
*
 
 
 
 

Si era allontanata dall’aula di Divinazione con una scusa improvvisata, tanto frettolosa che nemmeno Evelyn se l’era bevuta, figurarsi Roxanne.
Aver a che fare con l’ingenuità della Black era snervante quanto comodo: non la poteva lasciare nemmeno un attimo sola senza essere prematuramente certa che l’avrebbe senza alcun dubbio ritrovata in un qualche guaio apocalittico; d’altra parte, mentirle era davvero immediato. Tuttavia, da quando la Weasley aveva recentemente iniziato a stare con loro durante le lezioni ed i pomeriggi di studio, Katie aveva intuito istantaneamente quanto fosse necessario che iniziasse ad essere più cauta ed accorta nelle menzogne. Se Evelyn era una bonacciona distratta, Roxanne era la sua versione opposta, era vigile, perennemente sull’attenti, provveduta, era sospettosa e diffidente. Le ricordava se stessa, per certi tratti.
Per quanto fosse cosciente di cosa significasse mentire su piano etico – per quanto potesse dispiacerle mentire ad una persona che le concedeva senza pretese la propria onestà – Katie si aggrappava al fine delle sue menzogne. La verità è sempre la scelta migliore, ma non sempre quella giusta. È ciò che meritano le persone, ma non sempre ciò di cui hanno bisogno.
È che certi avvenimenti sembrano accadere proprio per non essere raccontati e, nel momento stesso in cui si realizzano, sono già segreti e nessuno può testimoniarlo. Sono bugie ancor prima di essere raccontate.
Katie era bugiarda. Mentiva tutte le volte che si presentava la necessità di farlo, mentiva perché la verità non era mai stata un’alternativa nella sua vita, mentiva e mentire le aveva permesso di sopravvivere. Mentiva perché la verità era un lusso e lei dalla vita aveva avuto solo miseria e qualche avanzo dell’abbondanza e mai della sazietà. Mentiva e non le importava a chi stesse mentendo perché nessuno aveva mai fatto nulla affinché lei non si ritrovasse a dover mentire. Mentiva senza alcun rimorso, nascondendo la verità sotto il cuscino, dentro l’armadio, tra le pieghe dei vestiti – anche quelli che indossava, e quando nemmeno lì aveva trovato più posto, aveva dovuto sgomberare il cassetto da tutti i sogni per infilarci quel che rimaneva; aveva svuotato anche il cassetto delle speranze, sostituendole con un’arma.
Era stata la sua autoeducazione alla vita e in tutti quegli anni non era mai intervenuto nessuno ad impartirgliene una alternativa: non c’era stato suo padre quel primo giorno al binario, non c’era stata sua madre per il suo primo mestruo, non c’erano stati per la prima punizione, primo esame, primo bacio, prima difficoltà; ma soprattutto, non c’erano stati per la seconda, per la terza, per la quarta, quinta, sesta, settima, fino all’ultima. E lei non li aveva aspettati nemmeno alla prima.
Aveva otto anni, quando il Ministero l’aveva affidata alle cure di un orfanotrofio; ne aveva quasi dieci, quando la nonna l’aveva ritirata affinché i soldi del mantenimento passassero a lei. Però, era stato ad otto anni che si era detta la verità, seduta per terra, vicino al lavandino e, senza guardarsi allo specchio, aveva pronunciato il suo credo: “Mi chiamo Catherine Bones. Ho otto anni. Vivo nel centro di ospitalità per minori disagiati.”. Schietto, diretto, terribilmente sincero, spaventosamente vero ed orribilmente onesto. Qualcuno aveva bussato alla porta del bagno e lei aveva risposto dicendo di aspettare; non si era spostata da dov’era ed aveva ripreso: “Mi chiamo Catherine come mia madre. Ho otto anni e mezzo. Sono in un orfanotrofio.” Non sussurrava, non bisbigliava, non aveva alcun modo di nascondere la verità in quel momento, da sola, in uno sudicio bagno, da sola, al freddo, da sola, quella sera, da sola, mentre bussavano ancora alla porta. “Mia madre si chiama Catherine, però non è la mia mamma. Sei mesi fa mio padre ha cercato di suicidarsi e non può essere più il mio papà. Questo posto fa schifo e non è casa.” Ignorò la porta che continuava a cigolare e riprese a voce ugualmente alta: “Mia madre non è mia mamma perché se n’è andata. Mio padre non è più mio papà perché non può. La casa l’hanno venduta per pagare questo orfanotrofio.” Non aveva pianto, nemmeno una lacrima, solo qualche singhiozzo, poi si era messa a ridere ed aveva confessato tutto: “Mi chiamo Catherine. Ho otto anni. Vivo nel centro di ospitalità per minori disagiati. Mia madre ha tradito mio padre. Mio padre è impazzito. Hanno venduto la casa. Mio padre pensa che io sia mia madre. Non posso vedere mio padre. Mia madre ha rifiutato il mio affidamento. L’orfanotrofio fa schifo. Fa freddo. Sono sola. Non mi piace. Sono sola. Perché non la smettono di bussare? Sono sola. Ho detto di aspettare. Sono sola. Anche fuori da questo bagno? Sono sola. Fuori dall’orfanotrofio? Sola. A casa lo sono stata? Sono Sola. Però mi piaceva. Sola. Le volevo bene. Sola. Lui me ne voleva. Sola. Ora non c’è. Sola. Se me ne vado? Sono sola. E se rimango? Sola. Tra gli altri? Sono sola. E qui da sola? Sola. Se dico la verità? Sono sola. Se mento? Sola. È giusto? Non importa.” 
Si era alzata, piccola com’era raggiungeva il lavandino a fatica, si era lavata le mani in punta di piedi ed era uscita. Non bussava più nessuno. Era rientrata e si era seduta esattamente dov’era un minuto prima, si era ripetuta tutto, dall’inizio. Come un dogma, se l’era ripetuto a mensa, mentre mangiava carote al vapore e zuppa di fagioli; la sera, mentre si toglieva l’uniforme e metteva il pigiama; la notte, in ogni singolo incubo e tra l’uno e l’altro. Lo ripeteva come una preghiera, una confessione, un principio, la verità.
Era l’unica verità in cui credesse e se la ripeteva anche quando mentiva. Era giusto? Non importava. Perché era sola.
Quando spinse la porta del bagno non la varcò subito, esitò. Più o meno consciamente si chiese dove fosse quella disgraziata di ragazza e se era stata o no una buona idea abbandonarla subito dopo la lezione e sparire senza ammettere dove si stesse dirigendo veramente, fu effettivamente tentata di lasciar perdere per quel pomeriggio, fu tentata di tornare in dormitorio, magari con Evelyn, saltare le lezioni e non fare altro che chiacchierare di questioni irrilevanti, sconsiderate ed insensate, mangiare schifezze e dormire senza farsi un’accidenti di doccia, svegliarsi tardi il giorno dopo e con un mal di testa che non le avrebbe permesso di pensare. Pensare a ciò che invece era rilevate e considerevole, ma comunque insensato: che senso poteva avere la morte di un bambino?
«Ci sei?» Domandò sulla soglia della porta, irrisoluta ancora. Guardò alle sue spalle il corridoio ancora vuoto, certa che non lo sarebbe stato per molto.
«Sono qui.» La voce maschile echeggiò dal secondo cubicolo, quello in cui solitamente sedeva lei. «Sei sola?» Chiese poiché aveva notato sia l’esitazione della ragazza che la lontananza delle sue parole.
«Sola.» Borbottò Katie tra sé e sé, chiudendosi definitivamente la porta alle spalle ed avvicinandosi alla porta che dava sul gabinetto dentro il quale era chiuso il ragazzo. «Come mai ieri non c’eri?» Posò la borsa per terra e si sedette di fronte alla porta, poggiando le spalle sul lavandino.
Udì un sospiro al di là del legno, un paio di movimenti ed uno sbuffo prima di ricevere una risposta. «È… diciamo che non è un bel periodo.»
«Che succede?» Chiese lei immediatamente, non proprio capacitata del fatto che lui si stesse davvero lamentando: era sempre stata lei la lagna.
«Come, non sai cos’è successo?» La sua voce le giunse sinceramente sconfortata.
Katie annuì. Lei ed Evelyn non avevano chiuso occhio per due notti di seguito a causa del ricordo di quello che era successo. «Sì, lo so. Ero lì vicino.»
«Eri ad Hogsmeade? Avevi detto che non ci saresti andata, tu non ci vai mai!»
Katie incrociò le gambe ed anche le braccia. «Ho avuto un contrattempo. Ero nel luogo dell’attacco proprio perché non ero ancora entrata al villaggio. Non ci sono mai stata e la prima volta che sto quasi per metterci piede, un gruppo di psicopatici rapiscono un bambino ad un passo o due da me.» Scosse il capo e sorrise mesta.
«Lo conoscevi?» Domandò lui in fretta.
«Il ragazzino, dici? No, cioè lo vedevo qualche volta con le due pesti rosse, la Potter e Weasley. Due anni fa hanno allagato il nostro dormitorio, quei tre.» S’inumidì le labbra e scrollò le spalle. «So che portava i jeans nonostante siano proibiti dal regolamento e… nient’altro.»
«Era solo un bambino.» Soffiò la voce dall’interno del cubicolo. «Era così piccolo, per Dio.»
La ragazza, ancora seduta a terra, rialzò lo sguardo puntandolo sulla porta. «Perché dici era? Voglio dire, potrebbero ritrovarlo, anzi è molto probabile, suo padre è un Auror, no? Magari… magari l’hanno rapito per un ricatto. Che vuoi che se ne facciano di un ragazzino?»
La domanda di Katie si sospese nell’aria come un’accusa, rimbalzò contro gli specchi del bagno, contro le mura, la porta, il pavimento, la vetrata e si perse nel dubbio. Quel dubbio che aveva preso forma senza che se ne accorgesse, proprio mentre ignara lo pronunciava.
«È questo ciò di cui ho paura.» Sussurrò il ragazzo oltre la porta. «Temo che abbiano davvero qualcosa a che farsene.»
Katie strinse le ginocchia, cingendole ed abbracciandole. «È strano che non siano ancora intervenuti qui, nel Castello. Che nessun insegnante abbia voluto accennare all’accaduto… Stanno cercando tutti di…» Le uscì un basso ringhio di frustrazione che non era stata in grado di placare.
«Stanno tutti facendo finta di nulla.» Concluse per lei il ragazzo. «Come se il bambino non fosse morto.»
Abbassò lo sguardo dalla porta, fino al pavimento. «Pensi davvero che sia morto?»
Udì un altro sospiro, solo molto più frustrato. «Giuro di non aver mai pianto in vita mia. Mai. Non sono il tipo, capito? Non… È che tutto sta andando a rovina…»
Katie gattonò fino alla porta del cubicolo e la guardò, come se fosse lui.
«Evito di lamentarmi o… commiserarmi, perché lo so che non cambia nulla. Non piango perché so che le lacrime non servono ad un bel niente, che posso prosciugare tutte le mie accidenti di ghiandole, disperarmi, rinchiudermi in camera e saltare ogni lezione che mi pare, ma… Nulla. Nulla, cazzo. Stessa merda.» Esitò un poco prima di riprendere. «Non sono pessimista perché lo so che è cosi e mi va bene. So che non posso sempre prenderla sul ridere e…»
Si avvicinò ancor di più ed alzò la mano, poggiandola contro la porta. «Hai paura?» Suggerì la ragazza in un soffio di voce.
«No.» Ammise il ragazzo, dall’altra parte. «Non è paura… Non per me almeno.» Tacque per qualche secondo di troppo. «Penso di essere triste.»
La mano di Katie scivolò un poco e lei chiuse gli occhi, appoggiando la fronte contro la porta di legno, verniciata con un intenso verde acqua.
«Credo sia la prima volta in assoluto. Per la prima volta in vita mia sono triste. Solo triste. Triste e nient’altro.»
Katie tenne gli occhi chiusi, mentre iniziavano a scottarla di un fresco e dilatato torpore sotto le sue palpebre. Rimase in ginocchio davanti alla porta e non disse nulla, aspettò che lo facesse lui e quando questo non avvenne, prima di trovare un centinaio di motivi per non farlo, allungò la mano da sotto l’uscio della porta, protraendola in avanti. All’inizio il suo tocco andò incontro ad un paio di jeans e ne rimase sorpresa, sia perché le gambe del ragazzo sporgevano molto in avanti e quindi doveva essere parecchio alto, sia perché i jeans erano proibiti dal regolamento. Si chiese se non l’avesse fatto come gesto di ribellione proprio per il fatto che i professori stavano ignorando l’accaduto e, senza rispondersi, si promise che si sarebbe cambiata e ne avrebbe indossato un paio anche lei. Dimenò la mano ancora un poco, per nulla intenzionata a fare una figuraccia ritirandola, fino a quando non sentì una risata dall’altra parte.
«Quelle sono le mie scarpe.» Il ragazzo, ancora vibrante per le risate, chiuse la mano di Katie tra le sue. «Credo che tu stessi cercando queste.»
Anche lei sbuffò una risata, chinata in basso, in una posizione tutt’altro che comoda. «No, volevo mostrarti il mio nuovo smalto, se vuoi te lo presto.»
Lui rise ancora e lei lo seguì a ruota, legittimando la sublime bellezza della tristezza quando la si condivide.
 
 
 
 
Si dèvono aprire le stelle
Nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
Singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
Di tutta quell'aspra bufera,
Non resta che un dolce singulto
Nell'umida sera.
 
 
 


 
 
*
 
 
 
 
 

Ciò che non sapeva, in quel momento tanto povero di tempo, era che se ne sarebbe pentita. Non sapeva che sarebbero passati strazianti giorni, tormentose settimane, poi confidenti mesi e fiduciosi anni, ma lei si sarebbe sempre pentita al ricordo di loro due – in quel solo istante in cui finalmente erano loro – e di come lei, vigliacca, si era allontanata.
Albus non ne era rimasto sorpreso in alcun modo, aveva solo abbassato il capo, permettendole di spostarsi un poco da lui.
Però Evelyn l’aveva sentito, l’aveva capito da come le respirava addosso che lui non provava ciò che, invece, provava lei.
E tutto ciò che le riusciva in quel momento era chiedersi se quello che aveva lei e soltanto lei dentro bastasse per entrambi: si può essere amati per quanto si è capaci di amare?
Eppure Evelyn aveva cercato di farglielo capire – anche se miseramente – a baci, quanto lo amava. Aveva premuto con veemente frenesia contro le sue labbra e tremato quando lui aveva fatto lo stesso, sfogando sulla sua pelle la stessa foga che lei si era limitata a strangolare dentro di sé, per non sentire nient’altro che lui e la sua bocca e le sue mani che la cercavano e la volevano e lui ancora e di nuovo le sue labbra e lui e lui soltanto. L’aveva capito proprio dall’intensità con la quale l’aveva cercata e la decisione con la quale l’aveva toccata. Lei aveva solo tremato, sobbalzando e sussultando e fremendo e rabbrividendo e lui di nuovo e lui e solo lui.
Ciò che le accadeva dentro la ustionava ad ogni boccata d’aria che la divideva da lui, anche solo ad un centimetro di distanza: era stata tanto coinvolta dentro che non aveva pensato a ricavarne piacere fisico – per un momento volle abbracciarlo soltanto e sentirlo solo ricambiare quel gesto, sentire lui su di sé solo per amarlo, amare lui e lui solamente e nessun’altro.
C’era in lei un qualcosa di estremamente egoistico che pretendeva d’essere amato solo per quanto lei era stata capace di amarlo e temeva che tutto ciò che lei aveva dato in quell’amore andasse perduto. Aveva passato la vita ad amarlo e non aveva fatto nient’altro che amare lui e lui soltanto, ancora lui e per sempre lui. E non aveva mai preteso che Albus l’amasse allo stesso modo perché lei esigeva di amarlo di più, però aveva pensato che continuando ad amarlo, che con tutto ciò che aveva dato per quell’amore… Se ne vergognava, si vergognava da morire perché l’aveva davvero creduto, aveva davvero creduto che il suo amore sarebbe bastato per entrambi. E il loro amore era stato il punto di fuga di ogni sua prospettiva, l’incrocio a cui portavano tutte le vie che aveva percorso, il chiodo a cui le aveva appeso tutti i suoi averi, il perno al quale era aggrappata con le mani – con entrambe. Aveva vissuto in nome del loro amore.
«Mi dispiace.»
E l’unico vero peso era e rimaneva la brutale verità delle sue parole. Ed il fatto che nulla, in quel momento, poteva persuaderla che stesse mentendo per un qualche motivo. Forse era sempre stato quello il problema: la verità.
«Posso aspettare.»
Non era un nodo quello che le pesava sulla gola, nemmeno un groppo; era un groviglio fatto di ultime speranze e prime consapevolezze.
«Sono disposta ad aspettare il tempo di una vita.» E anche oltre. «Se me lo chiedi ti aspetto anche tutta la vita.»
Il pallore di lui le fece capire che la sincerità era una conseguenza che stava pagando anche lui; non solo lei.
«Quando avrai finito di aspettare, io non ci sarò.» Teneva gli occhi socchiusi perché rivolti in basso.
Evelyn sorrise. «D’accordo.» Il sorriso persisteva e poteva giurare tutto ciò che aveva – ed aveva solo l’amore nei suoi confronti – che era sincero. «Va bene.» Annuì, sicura.
«Mi dispiace, lo giuro.» Lui rialzò lo sguardo, accostandolo al suo. Ed i suoi occhi non le erano mai sembrati tanto belli, mai così tanto, mai così tanto verdi, mai così tanto sinceri.
Annuì ancora, ma finché Albus non l’aveva guardata era stato più facile farlo, così come sorridere. «Ora io me ne andrò.» Percepì il dolore della sua gola che mordeva ed inghiottiva tutti gli ultimi appigli ai quali la parte più debole di lei – la maggior parte di lei – cercava di aggrapparsi. «No, no. Ora io me ne vado.» Si era corretta, senza guardarlo. «Ora io me ne vado, Albus. E tu mi lasci andare.»
Si rese conto che non stava tremando e, per un ironico istante, ne fu felice. Gettò così un’occhiata a Sir William e fu impaziente di muoversi ed allontanarsi.
Si rialzò, rendendosi finalmente conto del dolore alle gambe per quanto era rimasta inginocchiata – si concentrò su quel dolore mentre muoveva il primo passo, mentre si voltava e ne faceva altri due più spinti, altri tre e poi cinque frettolosi ed infine voltava l’angolo senza fermarsi o rallentare.
Se ne andò così, col viso asciutto e solo un poco rosso, ed il dolore alle gambe che non riusciva più a distrarla. Se ne andrò contando i propri passi, a bassa voce all’inizio e man a mano che si allontanava alzò il tono per disturbare i pensieri. Se ne andò con le spalle più curve ed il capo più chino di quello che il suo orgoglio assopito lottava per mantenere. Se ne andò perché ora che non aveva più il diritto di desiderare alcunché, andarsene era tutto ciò che voleva.
Se ne andò e lui la lasciò andare.
 

 
 
 
 
 
 
*
 
 

 
 
«Che ci fai qui?»
Roxanne non rispose. Aveva deciso da qualche minuto che avrebbe definitivamente scritto una lettera di denuncia alla preside nella quale segnalava tutto quell’insieme di comodità e benessere gratuiti di cui beneficiavano i Serpeverde, a differenza dei Grifondoro – e senza dubbio, delle altre due Case – e in cui chiedeva che fosse fatta giustizia; stava, in effetti, facendo mentalmente una lista nella quale indicava, catalogava e commentava tutti i lussi di cui la loro Sala Comune ed i loro dormitori godevano: innanzitutto gli ampi letti matrimoniali e la morbidezza piumosa e quasi malleabile delle trapunte verdi, così come l’utilizzo della seta per le lenzuola argentate, poi i bagni accessoriati e la vasca larga quanto la Magi-Piscina che suo zio Charlie le aveva regalato per il suo ottavo compleanno, sicuramente avrebbe incluso nell’elenco anche i divanetti soffici di lino, stava giusto per aggiungere le scrivanie rotonde molto più estese rispetto alle loro, quando la porta del dormitorio si era aperta e lei si era distratta, perdendo il filo logico della sua enumerazione a climax da proporre alla preside.
Non si era mossa o agitata, si era solo infastidita perché era certa che quando avrebbe dovuto scriverla, quell’accidenti di lettera, ne sarebbe venuto fuori un tema sull’ingiustizia tra Case insensato e assolutamente inefficace. Non era brava con la retorica, non era minimamente in grado di persuadere le persone, non era propensa al dialogo con l’altro. Non ci sapeva fare con le parole, preferiva dimostrare, preferiva che gli altri capissero senza che lei definisse, nonostante l’alto rischio di ambiguità.
Roxanne stava sempre zitta, anche quando gli altri non capivano e forse era proprio per questo che nessuno si sforzava a farlo.
Sua madre le diceva sempre che persino il più lieve bisbiglio poteva essere udito, se questo diceva la verità e lei annuiva e se lo teneva a mente, certa che un giorno ne avrebbe avuto conferma.
Non era vero. Nessuno sentiva le grida, figurarsi i bisbigli; e la verità non poteva in alcun modo essere detta perché non c’era nessuno disposto ad ascoltarla.
E Roxanne stava zitta.
«Forse ti sorprenderà, ma il mio dormitorio non è un centro di accoglienza per negri senza tetto.»
Però, come spesso capita, le persone troppo silenziose finiscono col diventare eccessivamente sensibili, così tanto da ridursi all’insensibilità, alla spietatezza, alla crudeltà. Ecco, Roxanne ci aveva riflettuto parecchio ed era certa di non essere disumana o brutale, però sapeva anche di essere diventata immune a certi aspetti – troppo cruda, troppo violenta, troppo cinica, troppo diffidente, troppo insensibile; troppo sensibile.
«Non dirmi che ti hanno cacciata fuori dal dormitorio perché altrimenti dovrò complimentarmi per il razzismo dei Grifondoro e, allo stesso tempo, riconoscere quanto sono abili a nasconderlo. In ogni caso, Hagrid ti può dare la cuccia del suo cane se lo aiuti a pulire il guscio agli Schiopodi.»
Le persone che non esitano mai ad esprimersi sono generalmente più leggere, più innocenti forse, meno rancorose, meno complesse, e di certo meno menzognere; i silenziosi invece sono fatti di segreti, di bugie e dubbi che lì rimangono fino a quando non vengono esportati con la forza.
Roxanne non era sempre stata una persona silenziosa, tutto il contrario una volta. Però le parole, quelle dannate parole: parole essenziali, parole superflue e parole dolorose; quelle parole che non hanno alcuno scopo se non ferire. E non c’entrava il menefreghismo perché il parere degli altri è come l’ombra: ce lo si trascina dietro ovunque, soprattutto quando si è in piena luce.
«Ho un problema.» Gli disse, senza muoversi da dov’era o spostare lo sguardo.
«Oh, ne hai parecchi.» Le assicurò lui sornione mentre frugava nel suo baule.
«Dormo qui sta notte.» Aveva aggiunto, piatta e risoluta.
«Qui nel Castello o qui nel mio dormitorio?» Bofonchiò lui, ancora nascosto dietro il baule e le tende.
«Qui.» Rimarcò Roxanne, stiracchiandosi sul letto. «Qui e basta.»
«Beh…» Sbadigliò il ragazzo, chiudendo il baule. «No.»
Si era più volte chiesta se i segreti fossero bugie, se tacere equivalesse a mentire in un qualche modo e non era mai giunta ad una risposta compiuta. Non era questione di segreti, semplicemente certe cose non potevano essere dette, non si poteva raccontarle. Come poteva pretendere che gli altri mantenessero segreti se nemmeno lei era in grado di reggerli? Non tutte le persone che tacciono sono timide o insicure; molte non hanno nulla da dire, altre non sanno come dirlo, altre ancora si vergognano – se ne vergognano tanto da non riuscir a parlarne nemmeno con se stesse.
«Ho bisogno di soldi.» Buttò lì, lasciando che l’argomento scorresse come avrebbe potuto, in ogni caso certa di aver finalmente attirato la sua attenzione. «Parecchi soldi.» Udì un tonfo e capì che lui aveva chiuso il baule, ma non reagì in alcun modo.
«Quanti?» Fu abbastanza diretto, ma poco perspicuo. Non aveva motivo di supporlo, ma avrebbe scommesso il suo unico intimo firmato che il ragazzo aveva i nervi più alterati dei suoi.
«Circa cinquecento.»
Harper mise giù ciò che aveva in mano – con la coda dello sguardo aveva notato che erano indumenti – e si avvicinò. «Che accidenti intendi fare con tutto quel denaro? Comprarti tutto il dormitorio?»
Roxanne fece un cenno indistinto. «Ne ho bisogno.»
«Dove diavolo pensi di trovare tutti quei Galeoni in un colpo solo?» Il tono che stava usando era molto più irritato di quello che lei si era aspetta sarebbe stato, ma persino lui si rese conto dell’inutilità della domanda. «Cinquecento sono troppi anche per me, non troverò mai nessuna scusa da propinare a mio padre. Non posso andare alla Gringott e ritirare una somma del genere senza che lo venga a sapere.» Si lamentò, ancora infastidito. «E lui è un genio coi numeri.»
«Non mi servono adesso, adesso.» Chiarì prontamente lei. «Mi servono entro Natale.»
Il Serpeverde si allentò la cravatta, riservandole un’occhiataccia nel mentre. «Credevo che la peggior disgrazia fosse il mio nome, o al massimo lo zio Hoock… ma non una Weasley. Non a me.»
La ragazza piegò le gambe, grattandosi la caviglia giusto per fare qualcosa. «Cos’ha che non va tuo zio Hoock?» Chiese quando si rese conto fino a che punto sarebbe potuta arrivare l’irritazione del ragazzo.
Lui la guardò ancora storto, prima di rispondere. «Ha lasciato tutta l’eredità a mio cugino Thomas.»
«E?» Lo incitò a spiegarsi lei, mettendosi a sedere e guardandolo.
«E niente, Thomas è un idiota.»
Roxanne sbuffò, accavallando le gambe. «E il tuo nome? Cos’ha che non va il tuo nome?»
«Damian Stephen Orpheus Rahab Loki Seth Harper.» Proferì inespressivo. «Tu che dici?»
«Aspetta aspetta, quindi tu non ti chiami Damon?»
Lui scosse il capo. «È un soprannome di Adam al quale hanno deciso di affidarsi tutte le persone che non sono di famiglia.»
«Ma Damian non ha nulla che non va.» Fece la ragazza, scrollando le spalle.
«Certo, nemmeno Rahab, Loki e Seth se è per questo… finché non vieni a scoprire che sono nomi di demoni mitologici e religiosi.» Bofonchiò il ragazzo a denti stretti. «Mia madre è fissata con la filosofia e la mitologia, non è colpa mia. Se mio padre non avesse insistito per tutti i nove mesi, Stephen e Orpheus sarebbero stati sostituiti con Lucifero e Voldemort, probabilmente.»
La Grifondoro non si preoccupò di trattenere le risate, ma quando lo sguardo truce del ragazzo persistette cercò di metterla più sull’umorismo e meno sull’ironia. «Avanti, un po’ ti capisco, anche mia zia è fissata con la mitologia babbana. Quando eravamo piccoli, ci leggeva i miti al posto delle fiabe o delle favole.» Confidò, con tono solenne. «Però non a tal punto da dare nomi di demoni ai suoi figli, chiaro…»
Il ragazzo ringhiò. «Poco cambia, per te rimango comunque Harper.»
Roxanne si portò una mano al petto, simulando un dispiacere non del tutto improvvisato. «Pensavo che Rahab sarebbe stato il nostro piccolo codice segreto.»
Sorrise senza guardarla e si tolse la maglia e la camicia in una volta sola. «Non mi servono accertamenti per fottere, basta qualche Galeone a quanto pare.»
«E a me basta chiedere, evidentemente.» Rispose ferma Roxanne, sciogliendosi i capelli. «Fotto al comando, impressionante vero?»
«Trovo più impressionante il fatto che porti più etichette tu che i tuoi vestiti.» Le concesse affabile, senza distogliere da lei lo sguardo mentre si slegava la cintura.
«Significa solo che ho valore anche a tasche vuote.» Sussurrò togliendosi il più lentamente possibile le calze.
«Significa che non hai idea di quale sia la differenza tra valore e…» Tirò via con uno scatto la cintura e la getto sul letto di Adam, senza spostare gli occhi. «Prezzo.»
«Vedi, la differenza la decido io.» Tolse la gonna, senza provare un minimo di vergogna – fiera, onesta in un modo che nessuno avrebbe potuto capire e decisa. «Non tu. E questo è un po’ meno impressionante.»
Damian le si avvicinò velocemente e per un momento prese seriamente in considerazione l’opzione allettante che, ormai da diverse decine di minuti, la persuadeva a schiantarlo, sia con un incantesimo che con un destro ben assestato – magari proprio in bocca, giusto per fargli passare l’improvvisa voglia di fare battute sarcastiche fino a quella che si sentiva di poter definire slealtà. Però lui non fece altro che sputarle sul viso un «Vado a fare la doccia» prima di voltare le spalle sia a lei che alla porta del bagno, dopo averla sbattuta.
Le era capitato tante di quelle volte di essere insultata che ormai le sembrava una parte fondamentale di una qualsiasi discussione. Era chiaro e logico l’itinerario di un qualsiasi discorso che non veniva troncato, il percorso avveniva lungo un binario e le possibilità, seppur parallele, erano scisse: si andava d’accordo oppure si litigava. Era qualcosa che aveva sempre dato per scontato e, dato il suo caratteraccio, era abituata ormai che il discorso sfociasse in una litigata contornata di insulti e provocazioni, e magari anche vere e proprie aggressioni. Ricordava sempre con un sorriso quando, da piccola, picchiava tutti coloro che si beffavano di lei o dei suoi cari. Era un po’ la conseguenza dell’essere una persona di poche parole, passare suscettibile ed irritata direttamente ai fatti. O forse, ora che ci pensava, magari erano stati i fatti a far in modo che divenisse poi una persona di poche parole. Il punto era che la maggior parte degli insulti ricevuti in tutta la sua vita nemmeno li ricordava per quanto fossero irrilevanti, non contavano perché non erano veri, perché erano stati pronunciati per infastidire, da persone di cui non le importava alcunché. 
Ed è questa la differenza tra un insulto ed un’offesa. Chi vuole offendere usa la verità. Chi usa la verità, chi se ne serve, chi la strumentalizza, chi ne fa un mezzo la trasforma in un’arma. E la verità sotto forma di arma non si limita a difendere, ma anche ad attaccare. E non lo fa per infastidire, tediare od irritare. Lo fa per ferire, trafiggere, lacerare; lo fa per umiliare, mortificare, annullare. Ed il tutto senza assumersi alcuna colpa delle sue parole perché il suo unico gesto è stato quello di svelare la verità.
Ma i motivi, gente. Le cause, le ragioni, i pretesti, i moventi. Perché nessuno si chiede mai cosa c’è dietro la verità?
«Gli si è arricciata la scopa?» Adam Zabini spuntò da dietro l’angolino tra la soglia e la porta. «L’ultima volta che l’ho visto tanto incazzato… Nemmeno me la ricordo.»
Roxanne si voltò verso di lui, incrociando le braccia sotto il seno. «Che fai, spii?»
«Piuttosto non avevo alcuna intenzione di farmi vedere da lui.» Fece qualche passo in avanti, avvicinandosi un po’ troppo. «Che diavolo hai fatto per fargli perdere le pluffe in questo modo?» Sussurrò, come se temesse che potesse sentirli.
La ragazza ricambiò lo sguardo indignata. «Cosa ti fa credere che sia colpa mia?»
Adam scrollò le spalle, superandola per andare incontro al suo letto. «Perché mezz’ora fa non era così.» Si buttò sul letto, sospirando.
La Grifondoro si avvicinò a Zabini corrucciata e si sdraiò affianco a lui. «Io non ho fatto proprio niente.» Sbottò accigliata, affondando il viso nella trapunta verde del materasso.
«Non ha nemmeno fatto battute sulla tua gonna di jeans al posto di quella della divisa?» Mugugnò Adam, distratto il giusto.
Roxanne scosse il capo, facendo sì che i capelli le ricadessero in avanti.
«Allora è grave.» Dedusse il Serpeverde.
«È così orribile?»
«La tua gonna? O Dam in collera?»
«Tu che dici?»
Affondò anche lui il viso nella trapunta e vi soffocò la risposta.
«Posso… chiederti una cosa?» Tentennò il ragazzo dopo un poco.
Roxanne non rispose e nemmeno annuì, era tanto stanca che sperava solamente che lui parlasse senza aspettare sollecitazioni o che lasciasse perdere definitivamente.
«Ecco…» Adam azzardò ugualmente i suoi dubbi, col volto semi nascosto dalle coperte. «Tuo cugino è gay?»
La ragazza aspettò qualche secondo di troppo prima di voltarsi e guardarlo con le sopracciglia inarcate. «Hai idea di quanti cugini abbia?»
Lui sbuffò, giusto per mascherare un poco il proprio disagio. «Quello biondo, sai… Insomma, Louis.»
«Louis.» Annuì Roxanne, mettendosi più comoda e coprendosi un poco con l’orlo della trapunta. «Hugo dice di sì, ma James dice di no. Fred anche dice di no, ma Lily dice di sì. Nonna Molly dice di no e zia Ginny dice di sì. Zio Charlie dice che magari è bisessuale, ma Teddy dice che non lo è. Victoire pensa che…»
«Non…» Adam aveva l’espressione tanto corrucciata che ormai nascondeva l’imbarazzo. «Non ci sto capendo nulla!»
La Grifondoro sbuffò. «Ma perché me lo chiedi?» Sorrise poi, tirandogli una gomitata. «Sei interessato?»
Il ragazzo arrossì in maniera eccessiva. «A me piacciono le donne.» Dichiarò in tutta sincerità, senza lasciarsi intimidire dalla curiosità invasiva della Weasley. «E mi piacciono parecchio. Ne sono più che certo.»
Roxanne sorrise ancora. «Comunque zia Hermione dice che non lo è e lo zio Percy dice che è probabilmente che lo sia quanto è improbabile… Il ché non significa assolutamente un…»
Adam sbatté più volte le palpebre, confuso. «Non m’interessa il parere del tuo gregge di parenti… senza offesa, è solo che siete infiniti.» Sospirò, grattandosi distrattamente il mento. «Tu che pensi?»
La ragazza rise lentamente da quanto era assopita, ma non per questo meno divertita. «Louis è molto cambiato da quando è entrato ad Hogwarts. Un po’ come Albus, solo in modo opposto.» Sospirò, togliendosi i capelli che le erano ricaduti sul viso per guardare Adam negli occhi. «So che è davvero strano, quasi nessuno ci crede, ma Al non era così.»
«Così come?» Domandò Zabini, appellando poi silenziosamente un cuscino per metterlo sotto le loro teste.
«Così… Riservato, distaccato, menefreghista, freddo… Non era così bastardo. Al contrario, Louis era quello riservato. Sai, lui e Dominique sono sempre stati quelli con la puzza sotto il naso.»
«La Corvonero?» Fece il ragazzo, socchiudendo gli occhi pensieroso. «Quella bellissima?»
Roxanne annuì. «Se ne stavano sempre sulle loro, capisci? Gli unici coi quali Louis era in confidenza sin da sempre sono Fred e Jamie.» Sbuffò, prima di riprendere a parlare. «Dominique non è cambiata più di tanto, ma Louis… Non so cosa gli sia preso per diventare improvvisamente tanto… Insomma, l’hai visto com’è, no? Deve essere sicuramente a causa delle vision-» S’interruppe all’improvviso, sgranando gli occhi. «Ecco, solo che non era così, tutto qui.»
Adam parve non voler insistere né tanto meno lasciarsi scappare qualcosa, perciò si limitò ad annuire.
«E al contrario Albus era molto espansivo, era una versione più astuta di James… e, per Merlino, erano inseparabili. Erano così legati…» Tirò ancor più su la trapunta, coprendosi meglio. «Non è facile da immaginare ora, vero?»
Il Serpeverde fissò lo sguardo su di lei. «Per niente. A guardarli ora, se non fosse per la somiglianza, non si direbbe nemmeno che sono fratelli.»
L’altra annuì. «Hogwarts ci ha cambiati così tanto… Forse l’unico ad essere rimasto lo stesso è proprio James…»
«Tu in cosa sei cambiata?» Domandò improvvisamente Adam.
Roxanne rifletté con un sorriso storto sulle labbra. «Ero più allegra, credo. Molto più spensierata e decisamente più innocente.» Sospirò. «Ero onesta. Lo eravamo tutti. Ora… Ora, abbiamo tutti qualcosa da nascondere come se il mondo potesse crollarci addosso da un momento all’altro.»
Adam la guardò, senza la forza di annuire. «Sembra che stia crollando davvero, sai? Tutto quanto.»
Lei resse il suo sguardo, senza commentare ulteriormente. «Ti va di saltare la cena?» Chiese d’un tratto. «Non chiudo occhio da più di tre giorni.»
Il Serpeverde annuì, rotolando su se stesso per coprirsi per bene. «Mi rifarò domani a colazione.»
Roxanne si adagiò comodamente scivolando tra la seta del lenzuolo argentato e il velluto della trapunta verde. «E comunque» riprese poi, ridendo mentre affondava il capo nel cuscino, «quando eravamo piccoli, Louis mi palpava sempre il culo. Perciò non m’importa quello che dicono solo perché magari è un ragazzo sensibile ed educato, quello è più etero di me e te messi insieme.»
Girata dall’altra parte, non poté vedere l’espressione sconcertata del Serpeverde, ma udì la sua risata sguaiata qualche istante dopo. «Voi siete una famiglia di psicotici depravati ed il peggio è che siete dappertutto. Uno non può distrarsi un attimo che si ritrova qualcuno di voi da qualche parte.»
«Tipo nel letto?» Fece Roxanne, unendosi alla risata del ragazzo.
«Esattamente, quindi stai alla larga dal mio amatissimo materasso se non vuoi che muoia per mano del mio migliore amico un mese prima del mio compleanno.»
«Mmmh.» Bofonchiò la Weasley, chiudendo gli occhi per quello che pensava sarebbe stato un istante solo prima di alzarsi, ma che le bastò per addormentarsi.
 
 
 
 
 
 
È, quell’infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fiumi fragili restano
Cirri di porpora e d’oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
Fu quella che vedo più rosa
nell’ultima sera.
 
 
 
 
 
 
*
 
 
 
 


Era arrivata alla Sala Grande senza rendersene conto.
Solo quando si era ritrovata sulla soglia del portone, con le punte dei piedi che spuntavano tra la luce ed il fracasso di voci e posate, mentre il resto del corpo era ancora in ombra ed intorpidito dal silenzio dell’atrio, si era finalmente resa conto di dov’era.
Non avendo alcuna intenzione di rimanere sola ed iniziare a pensare, entrò nella Sala ed andò a sedersi direttamente nel tavolo, al suo solito posto al limite della panca. Ancora una volta le era necessitato del tempo per connettere un pensiero logico all’altro, tra quelli che volevano, invece, prendere il sopravvento nella sua mente.
Guardò il cibo che aveva davanti per qualche minuto, ferma ed in silenzio con se stessa.
«Cos’hanno che non va le patate al forno?» Rose spuntò alle sue spalle con un sorrisone e la giacca di jeans esageratamente in mostra.
Evelyn sgranò gli occhi, focalizzando lo sguardo su ciò che aveva davanti e constatando che era, effettivamente, il vassoio delle patate al forno. «Stavo…» Si schiarì la voce, deglutendo due volte prima di riprendere a parlare. «Ero un poco distratta.»
Rose si fece spazio vicino a lei nella panca, prendendo la sua forchetta ed infilzando due patate. «E cosa ti distrae tanto?»
La Black scosse il capo e prese a guardarsi intorno, distinguendo a fatica le persone che aveva attorno. «Perché sono vestiti tutti coi jeans?» Chiese quando lo sguardo di Rose si era fatto più insistente.
«Per Josh!» Rispose prontamente la Weasley. «Stiamo organizzando una piccola ribellione, vuoi unirti?»
«Io non… Non ho vestiti di Jeans.» Rispose traballante sul posto l’altra.
«Ho una gonna, io! Te la posso prestare!» Le propose immediatamente la rossa. «Puoi metterla sopra i collant di Roxanne, sono abbastanza caldi.»
Evelyn sentiva delle mani attorno al collo strozzarla, invisibili, ma assolutamente percettibili, che le impedivano di mangiare e di parlare. Guardò Rose rendendosi finalmente conto di quanto fossero belli i suoi capelli sciolti e di quanto le donasse il blu vivido della giacchetta leggera di jeans. Aprì la bocca per farglielo notare, ma non riuscì ad emettere un minimo d’aria e la richiuse colpevole, annuendo e scolpendo sugli angoli delle guance un sorriso troppo appuntito.
Si guardò attorno ancora una volta e solo in quel momento si rese conto che in realtà l’aveva sempre fatto, come se si aspettasse che qualcuno le rivolgesse la parola o volesse fare amicizia con lei. Si rese conto di quanto disperatamente sperava che qualcuno a caso, non importava chi, incrociando il suo sguardo, non si lasciasse sopraffare dai suoi occhi spaventosi, ma si scoprisse invece interessato a conoscerla.
E solo questo poteva testimoniare quanto fosse profondamente sola.
«Donne, che fate?» Scorpius spuntò alle loro spalle, con la tracolla ancora piena di libri sulle spalle. «Stai ancora portando avanti la tua propaganda contro l’ignavia dei professori?» Domandò, chinandosi su di Rose.
«Esattamente.» Confermò lei, sporgendosi un poco a baciarlo, per niente imbarazzata.
«E stai cercando di far passare mia sorella al lato oscuro?» Borbottò il ragazzo, facendosi spazio tra le due ragazze e sedendosi.
«Tua sorella fa già parte del lato oscuro, vero Ev?» Fece Rose allusiva, sporgendosi oltre la spalla di Scorpius con tanto di occhiolino. «O preferisci, Lyn
La ragazza, sentendosi chiamata in questione, li guardò alternando lo sguardo dall’uno all’altra. «Dici a me?» Chiese poi in un soffio spinto ed irregolare.
«E a chi, altrimenti?» Chiese Malfoy sorridendole e spettinandole i capelli.
«Oh.» Fece di rimando la bionda, abbassandogli gli occhi sul tavolo. «È solo che io non sono tua sorella.»
La forchetta che Rose aveva in mano cadde tintinnando sonoramente ed attirando l’attenzione di qualche curioso con le orecchie lunghe, nel tavolo. «Evelyn!» Proruppe la Weasley, sbarrando gli occhi.
«Che c’è?!» Sbottò allora la ragazza, senza alzare lo sguardo. «È la verità, no? Io non ho fratelli, non ho genitori, sono una fottuta orfana! È la cazzo di verità!»
«Ma che le prende?»
«E beh, c’era bisogno di urlarlo perché ce ne accorgessimo?»
«Secondo te la Cooman ha ragione? Perché che ce l’ha davvero, la faccia da suicida.»
Non credeva di aver parlato tanto forte né tanto meno che bastasse umiliarsi per attirare l’attenzione delle persone, soprattutto non credeva che la sua dignità fosse di per sé tanto ignorata da permettere agli altri di ridicolizzarla ed insultarla senza nascondersi o preoccuparsi di farlo a voce bassa. Ci sono persone che vogliono essere ascoltate anche mentre parlano di nascosto e, per quanto possa sembrare subdolo, converge con l’unica forma di cattiveria che non può essere perdonata.
E, mentre si allontanava ancora una volta, non poté non chiedersi perché ogni volta che se ne doveva andare, nessuno la seguiva. Perché la lasciavano sempre andare via?
 
 
 
 
 
 
*
 
 
 

 
 
Derek Nott avrebbe potuto giurarlo davanti a tutto il Wizengamot: era colpa dei Potter e dei Weasley. Qualsiasi disgrazia accadesse era colpa loro e nessuno l’avrebbe mai convinto del contrario.
E non era tanto il fatto che ovunque accadesse la minima problematica, sicuramente vi sarebbe stato presente uno di loro, piuttosto l’intollerabile e tediosa certezza che, di qualunque sciagura si trattasse, loro ne sarebbero sempre e comunque usciti indenni – e, la storia poteva dimostrarlo, eroi.
Non importava la gravità dell’accaduto o il numero delle persone che ci avevano rimesso la pelle – o, nel caso di sua sorella, la memoria – tutti quanti avrebbero sempre e solo ribadito l’eroico intervento dell’illustre famiglia Potter-Weasley e di come nessun altro aveva osato sacrificarsi per il prossimo come avevano fatto loro.
“Credimi, figliolo” aveva proclamato suo padre, anni prima oramai “Non importa quello che lascian credere, qualunque disastro accada è colpa dei Weasley o dei Potter, oppure entrambi”. E Derek non poteva contraddirlo in alcun modo. “Pensaci, il Signore Oscuro avrebbe ucciso tutte quelle persone se lo sfregiato non fosse nato?” aveva argomentato Theodor Nott con fervida convinzione “Te lo dico io, no! Sono morte migliaia di persone nelle due Guerre Magiche solo per la vita di uno stecchino magro quanto un elfo domestico precario”.
Derek Nott l’avrebbe giurato davanti a tutto il Wizengamot, il corpo docente ed i tribuni dell’Ordine di Merlino: era colpa dei Potter e dei Weasley. Tutto quanto. La Guerra Fredda, la schiavitù, la fame nel mondo, l’estinzione dei dinosauri e pure quella imminente dei panda, lo scioglimento dei ghiacciai, il buco nell’Ozono, il surriscaldamento globale, la scarsità delle risorse petrolifere, le dittature in Oriente, il suo voto in Astronomia, le scarpe che la zia Astoria gli aveva regalato e che non gli entravano e persino il fatto che lo zio Hoock avesse lasciato tutta l’eredità a quell’idiota di suo cugino Thomas. Non c’era assolutamente nulla in quella stirpe maledetta che lo persuadesse ad assolversi da tali accuse, erano e rimanevano una disgrazia non solo per il mondo magico, ma per l’intera specie umana e tutte quelle animali e vegetali.
Ed il fatto che in quel momento sua sorella stesse condividendo la stessa infermeria con due esemplari della progenie di quella famiglia, lo disturbava alquanto. Tanto che più volte l’infermiera aveva insistito che l’orario era troppo tardo per le visite e lui aveva faticato a lasciarsi assuefare da quella regola: non poteva tollerare che sua sorella respirasse la stessa aria di quelle forme di vita, figurarsi permettere che lo facesse da sola.
«Ciao.»
Derek piegò la Gazzetta del Profeta e la mise da parte ad agio, senza la benché minima premura o sollecitudine. E con la stessa pacatezza lo adagiò sul comodino affianco al capezzale della sorella – che, ci teneva che tutti lo notassero, a differenza dei comodini delle due pesti rosse, accoglieva fiori e non nocivi e dannosi dolci. Concentrò la stessa pazienza nello girarsi ed accomodarsi sulla poltrona – da precisare ancora una volta che non era una sedia, ma una poltrona.
Sbatté placidamente le palpebre e si chiarì la voce con sincera serenità, prima di concedere un responso al suo interlocutore.
«Sì?» Sillabò con la più melliflua delle incitazioni.
Si ritrovò davanti una ragazza – probabilmente ragazzina – e prima di poter in tutta onestà apprezzare qualche dettaglio del suo aspetto, scattò l’allarme progenie Potter-Weasley, non appena notò l’indubbio colore rosso dei capelli.
Questa fece qualche passo in avanti con quella spavalderia tipica dei Grifondoro che lo irritava come nient’altro – a parte, la più volte sopracitata famiglia – al mondo. Si ritrovò ad imprecare qualche mago antico nella sua mente, perché in tutta sincerità era molto più stimolante denigrare i Potter-Weasley quando non erano ragazze obiettivamente di – più che – gradevole aspetto.
«Madama Chips mi ha invitata a chiederti di abbandonare l’infermeria. E ti ricorda che l’orario delle visite è finito diciassette minuti fa.»
Il sopracciglio sinistro di Derek si era inarcato gradualmente mentre la sua interlocutrice parlava fino a raggiungere un punto estremo e lì era rimasto.
«Puoi informarla che non nutro alcun proposito ad allontanarmi da dove sono finché mia sorella non si addormenta.» Scandì con voluta lentezza, poggiando gli avambracci sui braccioli della poltrona.
L’altra rise di gusto, passandosi una mano tra i capelli per spostarseli di lato. «Ti sembro un gufo? Ho chiesto a Madama un favore e lei mi promesso che me l’avrebbe concesso se ti avessi riferito il messaggio.» Spiegò, ancora divertita.
«Dunque?» La incitò Derek a concedere un punto d’arrivo alla sua spiegazione non richiesta.
Lily Potter rise ancora, poggiandosi la mano sul fianco e senza distogliere lo sguardo svagato da quello austero di Nott. «Niente» fece scrollando le spalle. «A me di certo non dispiace se rimani.»
Prima di voltarsi, scuotendo la chioma vermiglia, gli fece un occhiolino al quale Derek reagì con l’innalzamento dell’altro sopracciglio.
«Però.» Commentò Amelia, sdraiata tra le lenzuola.
«Quella è la Potter.» Commentò disgustato il fratello, riprendendo in mano il giornale.
«E significa qualcosa?»
«Potter è sinonimo di peste.» Le spiegò, amareggiato e contrariato. «Non a caso iniziano con la stessa lettera.»
 
 
Lily si chiuse dietro la tenda, prima di svegliare Hugo.
«Ho convinto Madama Chips.» Si spiegò, infilandosi tra le coperte del letto singolo del cugino.
Lui brontolò qualcosa d’impreciso e si stropicciò gli occhi, prima di aprirli. Passò una mano attorno alla vita di Lily, avvicinandosela assonnato. «Non dormo da più di Quarantott’ore. Se mi risvegli, ti soffoco col cuscino.»
L’altra sbuffò e gli tirò una gomitata. «Io non riesco a dormire, però.»
«Affari tuoi.» Si lagnò lui, richiudendo gli occhi nella speranza che non lo risvegliasse più.
La Potter gli tirò un’altra gomitata e si voltò verso di lui per fronteggiarlo. «Ho bisogno di parlare.»
«E non puoi farlo da sola? Magari anche a bassa voce?» Propose Hugo, sornione.
«No.» Chiarì lei. «Credo di avere troppa adrenalina nel sangue.»
Il ragazzo sospirò sconsolato, sperando che le bastasse come risposta.
«Sono troppo felice, credo. Perché siamo vivi.»
«Siamo vivi!» Annuì Weasley, entusiasta. «E possiamo dormire!»
«Quando ero nella foresta, avevo solo paura di morire.» Riprese tranquillamente Lily, sussurrando affiatata. «Avevo paura di non diplomarmi, di non sposarmi, di non avere mai dei figli.» Spiegò agitandosi e rischiando di cadere dal materasso. «Poi mi sono ricordata di te e mi sono detta che se ti fosse successo qualcosa non avrebbe mai avuto senso diplomarmi, sposarmi ed avere figli.»
«Questo dovrebbe farmi passare il sonno, suppongo…»
«Ma non ho pensato a Josh.» Ammise, non più sussurrando, ma bisbigliando come se avesse raggiunto l’argomento al quale mirava sin dall’inizio. «Pensavo solo a salvare me stessa ed a te. E lui era il nostro migliore amico, ma non… mi capisci? Io gli voglio bene, però non…»
«Nemmeno io ci ho pensato.» Mentì Hugo, ma non era di certo il sonno a spingerlo a farlo. «È accaduto tutto in fretta, non credevamo che sarebbe successo qualcosa del genere, tanto meno a lui.»
«Credevo che se la sarebbero presa con noi, non ho pensato che avrebbero potuto prendere lui…»
Il ragazzo scosse il capo, contro il cuscino che condividevano. «Suo padre è un Auror quanto i nostri.»
Lily si fece piccola sotto le coperte, stringendosi le ginocchia al petto anche col rischio di far cadere entrambi e finché rimase in silenzio, Hugo non glielo fece notare, confidando nella probabilità che si addormentasse e che potesse finalmente farlo anche lui. Si accontentò della striscia di materasso che la cugina gli aveva lasciato pur di mantenere il parziale silenzio che gli aveva concesso. Non era solo una questione di sonno, non era solo infastidito, temeva davvero di affrontare l’argomento.
«Forge?» L’aveva per l’appunto chiamato poco dopo Lily in un sussurro.
Aveva sospirato ancora una volta, pronto a mentire sulle sue paure pur di alleviare quelle della cugina. «Gred.»
«Se piango, prometti di non dirlo a nessuno?»
Hugo tirò la coperta sopra le loro teste. «Promesso.»
E, in quel momento, nemmeno quando Lily aveva smesso finalmente di parlare ed il silenzio pacato dell’infermeria si era fatto sentire con prepotenza ed imposizione, nemmeno quando la cugina si era girata supina, lasciandogli uno spazio sufficiente a garantirgli di non cadere, nemmeno quando Madama Chips aveva spento le luci del suo studio, si era riproposto di tornare a dormire. Non che gli fosse passato il sonno, non ce l’aveva nemmeno prima.
«Secondo te, dov’è adesso?» Aveva chiesto dopo un po’, ad occhi aperti nel buio.
«È in dormitorio.» La voce di Lily era un poco appesantita, sussurrava troppa aria tra le parole. «Ti ha messo ancora una volta le uova di Doxy sotto il lenzuolo e sta ridendo di noi perché siamo finiti di nuovo in infermeria. E sta preparando la cronaca della partita di sabato per demoralizzare i Serpeverde.»
«E indossa ancora i jeans?»
«Non se li è tolti nemmeno per un istante.»
«Quelli blu, vero?»
«Quelli blu.»
Madama Chips chiuse l’infermeria e la ragazza si lasciò scappare un singhiozzo mentre rispondeva.
«Gred?» Hugo le si avvicinò di più.
Lily aveva tirato su col naso, strofinandosi il viso sulla sua maglietta. «Forge.»
«Se piango prometti di non dirlo a nessuno?»
 
 
 
 
 
E che voli di rondini intorno!
Che gridi nell’aria serena!
La fame del povero giorno
Prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
Nel giorno non l’ebbero intera
Né io… e che voli, che gridi,
Mia limpida sera!
 
 
 
 

 
*
 
 
 
 
 


I sotterranei erano freddi.
Non era riuscita a trovare Sirius ed era tornata con la coda tra le gambe mentre si ripeteva “Non è tuo fratello, nemmeno tuo amico. Gli fai solo pena.” inconsciamente nella speranza che le desse forza necessaria per non cercarlo altrove. Era riuscita ad entrare nella Sala Comune Serpeverde a fatica e non aveva trovato nemmeno Katie, d’alcuna parte. E quando era uscita nel corridoio principale dei sotterranei, completamente vuoto, le era venuto da ridere, forse aveva riso davvero, senza rendersene conto. Perché si era resa conto di non avere nessun altro da cercare.
Si era seduta nel corridoio, cullandosi nel freddo e pregando che bastasse a congelarle le lacrime dentro, insieme alle grida, ai singhiozzi, ai gemiti, i pianti ed ai lamenti; lasciò che gelasse tutto quello che aveva da dire.
Contò le piastrelle del corridoio adiacente fin dove riusciva a vedere, contò i quadri, contò le finestre, contò le porte; sommò e sottrasse gli uni agli altri nei modi che le sembravano più e meno logici. Ripassò Trasfigurazione a mente, ripassò anche le formule d’Incantesimi, si ripeté gli ingredienti di qualche pozione a mente, si ripeté qualche poesia che gli istruttori le avevano fatto imparare a memoria quando era bambina, si ripeté i nomi degli insetti che mangiavano gli Schiopodi Sparacoda, si ripeté qualche canzoncina del Cappello Parlante. Poi scoppiò a piangere.
Fu molto meno silenzioso di come era abituata a piangere. Solitamente piangeva in confidenza con se stessa, compremendosi il fiato dentro pur di non farsi sentire, ma in quel momento non fu un pianto ciò che le uscì assieme alle lacrime, furono i più tormentati dei lamenti che aveva sigillato dentro tappandosi la bocca con le mani, anche col rischio di soffocare. E soffocando per davvero, qualche volta. E non ebbe il coraggio di domandarsi per quale motivo stesse davvero piangendo, non era mai stata tanto forte per i perché.
Sentì voci e passi confusionari nella nebbia di lacrime e l’appannamento dei singhiozzi. Pensò che non le importava che la vedessero in quello stato, che ormai non importava più nulla. Ebbe il coraggio di alzarsi solo perché sentiva un vitale e primordiale bisogno di stare sola. Strisciò lungo il muro del corridoio, tastando le maniglie delle porte nel tentativo di trovarne qualcuna aperta. Al quarto tentativo, al limite del passaggio e nella parte meno illuminata, riuscì a sfociare in una porta socchiusa. La spinse con le spalle, cadendo a terra sulla schiena e, non trovando la forza o la voglia di muoversi, richiuse la porta con un calcio.
Rimase sdraiata a bearsi del dolore dorsale e lombare, il perfetto diversivo ai suoi pensieri e, se le fitte non fossero state tanto forti, si sarebbe rimessa in piedi solo per cadere ancora una volta ed aumentare il dolore sempre più, fino a quando non avrebbe intorpidito il tormento straziante che aveva nelle viscere. Si tastò la pancia, timorosa di trovarvi delle ferite, rialzò la mano fino alle costole, poco sopra lo stomaco e fu quasi certa di trovarvi del sangue. Eppure non c’era nulla, se non la camicia della divisa un poco impolverata. Se c’erano delle ferite – e ce n’erano troppe – allora erano interne, probabilmente coperte con lo stesso mantello dell’invisibilità che aveva annusato ed abbracciato prima di restituirlo al suo proprietario.
Il freddo ed il dolore si alternavano e supportavano a deviare ai mali, quelli più spontanei ed in quel momento, sdraiata tra la polvere e le lacrime, smise in un istante solo di piangere. Di qualunque cosa si trattasse, faceva troppo male per piangerne. Tenne gli occhi aperti, spalancati fino a quando non la pizzicarono; si guardò attorno in cerca di qualcosa che fosse abbastanza dolorante, che si mimetizzasse con lei. Ebbe, così, la forza di girarsi di lato e lusingarsi di altre fitte, più forti, che le diedero il coraggio di strisciare e spostarsi dalla soglia.
Doveva essere una vecchia aula in disuso, della quale si erano dimenticati tutti. Un po’ come lei.
Si mise sulle ginocchia e gattonò, gemendo per dolore alla schiena, fino ad un punto mediano della stanza. Gridò ancor più forte quando, voltatasi dalla parte opposta, s’imbatté nel suo riflesso. Si fissò a distanza e fu quasi naturale cercare di sistemarsi qualche ciocca fuori posto, conscia che, coi capelli meno in disordine, non avrebbe fatto alcuna differenza. Non aveva mai fatto differenza.
Si avvicinò, guardandosi ammaliata, nostalgica di se stessa, fino a quando non fu ai piedi dello specchio e non poté toccarlo con le mani. Si accarezzò la guancia, pulendo una striscia di polvere dal suo riflesso e pensando che fosse troppo bello per essere velato in un qualsiasi modo. Ci mise ancora qualche istante in più prima di iniziare ad avvertire la differenza: l’Evelyn nello specchio sorrideva.
Si portò le mani sulle labbra nonostante fosse assolutamente certa che nulla in lei stava sorridendo in quel momento e mai aveva l’aveva fatto in quel modo. Lei si nascondeva quando sorrideva, paurosa di attirare l’attenzione su di sé o di non riuscire a farlo nonostante tutto. Il suo riflesso sorrideva temerario, fanciullesco ed assolutamente fiero – capì subito che quel sorriso non era il suo, ancor prima d’incrociare il proprio sguardo negli occhi scuri e caldi che aveva sempre desiderato di avere e che, ancora una volta, non era a lei che appartenevano; così come i capelli – avevano il taglio di Rose? – le ciglia lunghe – Roxanne? – le guance definite – Katie? –.
Non era un riflesso, era un’illusione.
Si trascinò lo sguardo oltre, cercandosi anche dove non si rispecchiava e vide che non era sola. Il suo primo istinto fu quello di voltarsi e cercare le stesse figura che le si manifestavano di fronte, anche alle sue spalle. Trovò solo la sua ombra mimetizzata nell’oscurità e nient’altro.
Rialzò, dunque, gli occhi, ancora inginocchiata, e deglutì l’incertezza di quello che vedeva quando i suoi genitori ricambiarono lo sguardo e le sorrisero mesti, come se non avrebbero potuto. Ed, in effetti, non avevano potuto farlo.
Ancorò le mani, aggrappandosi allo specchio e anche alla polvere, e le bastò per pensare che sarebbe riuscita a penetrare la superficie riflettente, che sarebbe riuscita ad entrare e toccare le mani di sua mamma. Voleva la sua mamma. Si puntellò sulle ginocchia più in alto possibile porgendole le mani che, però, andavano a sbattere contro il vetro dello specchio e lì rimanevano.
Pulì lo specchio con l’orlo della sua camicia e col pullover fin dove riusciva ad arrivare, e cercò gli occhi di suo padre. Baciò il suo riflesso, lasciando l’orma delle sue labbra a ricordarle che anche il bacio lì era rimasto. Le avevano detto spesso che somigliava molto alla madre, probabilmente solo perché nessuno aveva mai incontrato suo padre: constatò, con le labbra ora tremolanti, che somigliava molto più al suo papà.
Ricadde a terra ed appoggiò il capo tra le due immagini, tenendo il collo piegato per non smettere di guardarli, per sorvegliare la sua mamma ed il suo papà, per assicurarsi che non sarebbero scomparsi all’improvviso – ancora una volta.
E non importava più niente: il dolore, il freddo, la fame, la sete, la paura; non importava nessuno perché non c’era nessuno – tranne loro.
La sua mamma piegava il capo quando accoglieva il suo sguardo naufrago di dolore, freddo, fame, sete e paura – un po’ come era solita a fare lei; suo padre sospirava quando poi spostava gli occhi su di lui – quei sospiri le ricordavano molto di sé e troppo di altre persone, persone che ora non importavano più. Abbracciò la fredda parete dello specchio e non spostò più il braccio.
E lì, da naufraga, ebbe il tempo di immergersi nelle acquee anche solo attraverso gli occhi, sfiorando più volte gli abissi.
 
Ma la verità non può passare attraverso gli occhi perché lo sguardo umano è in grado di focalizzarsi su un occhio solo alla volta.
 
 
«Beh, il colore non è umano. E questo significa che morirai suicida.»
«Le ciglia non sono pari, probabilmente il climax indica una degradazione interna o di una propria parte.»
«La perdizione di una parte può verificarsi in caso di dolore estremo…»
«È probabile che tu perda la persona che ami più al mondo.»
«Oppure potrebbe coincidere direttamente con il logoramento interno e quindi col suicidio.»
«Oppure ancora, cara amica mia, perderai il tuo amore e per questo morirai di dolore per mano tua.»
 
 
 
 
 
Don... Don... E mi dicono, Dormi!
Mi cantano, Dormi! Sussurrano,
Dormi! Bisbigliano, Dormi!
Là, voci di tenebra azzurra...
Mi sembrano canti di culla,
Che fanno ch'io torni com'era...
Sentivo mia madre... Poi nulla...
Sul far della sera
 
G. Pascoli, La mia sera
 
 
 






 
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Innanzitutto, sappiate che questo capitolo è composto da due capitoli. Dato che avevo ritardato un po’ con gli aggiornamenti, ho deciso di farlo in grande. QUINDI, niente. Spero solo di essermi fatta perdonare.
*sparge cuori e fiori*
Ora, parlando seriamente, riporto alcune formalità: ospiti illustri di questo capitolo sono…
*rullo di tamburi*
FOSCOLO e PASCOLI.
Citare “Alla Sera” e “La mia Sera” – nonché due delle mie poesie preferite – è stato davvero… sono troppo stanca per cercare un aggettivo.
Già che ci sono, vi informo che se questo capitolo è stato “La Sera”, il prossimo sarà “La Notte”, quindi aspettatevi di tutto.
Questo capitolo è “figlio d’affanno”, insonnia, schizofrenia, dolore, e parecchi capelli strappati. Ci tenevo a renderlo come meritava. E, se mai velo foste chiesti, la “sindrome di Nathanael”, del quale si trova un riferimento, è inventata fino ad un certo punto. Esiste infatti un racconto di Hoffmann, “L’uomo della sabbia”, il cui protagonista va incontro alla stessa sorte per gli esatti motivi riportati.
 
Mi è davvero difficile esprimere quanto io sia contenta del fatto che c’è ancora chi segue la storia ed aspetta i capitoli. A causa di diversi plagi sono stata costretta a sospendere “Capolinea 51” ed “I sette comandamenti”, però, come ho già precisato, non ho alcuna intenzione di abbandonare HSS nonostante non sia stata diversamente risparmiata dalle scopiazzature. È solo grazie a questa storia se ora, a distanza di anni, mi ritrovo ad essere la persona che sono – da quando a tredici anni ho iniziato a caratterizzare i primi personaggi ai miei attuali diciannove anni in cui consapevolmente ho rinunciato alla stesura di romanzi pur di portarla a termine. È stata la prima promessa che ho fatto ad Albus.
Dunque *asciuga le sue lacrime e quelle di Lily e Hugo*
Voglio ringraziare Evelyn perché, a differenza di quello che tutti credevano, non è né la protagonista né l’eroina di questa storia; deve ancora scoprire chi è.
Voglio ringraziare Katie per la sua forza, l’unica a fare concorrenza a quella di Roxanne.
Voglio ringraziare Damian e solo io e lui sappiamo perché.
Voglio ringraziare Albus per la sua sincerità, ancora e ancora.
E, già che ci sono, ringrazio anche Derek Nott. Perché è un figo.
 
Voglio portare questa storia al termine che merita e conto di farlo entro la fine di questo anno, che Dio mi assista, perciò a presto signore e signori (*fa ciao ai maschietti che seguono la storia*)!
 
Sempre vostra,
Bess
 
 
Ps: Il mio precedente account Facebook è deceduto nel peggiore dei modi, ma ne ho creato un altro sul quale potete aggiungermi per chiedermi chiarimenti, per parlare (di qualsiasi cosa) e per tutto quello che volete: https://www.facebook.com/profile.php?id=100008537466058(troverete anche l’album dei personaggi :3)
 
Ps2: Ho dovuto creare  nuovamente il gruppo ed è codesto: https://www.facebook.com/groups/776890892377548/

Ps3: Nessuno ha ancora indovinato l’identità del ragazzo del cubicolo e la cosa mi fa sentire molto, molto malvagia. Naturalmente, le scommesse sono ancora aperte!
Ps4: Non so se ve ne siete accorti, ma la "profezia" che ha fatto Roxanne (in Oculomanzia, durante la lezione di Divinazione) si è, in un qualche modo realizzata. Ora terrei d'occhio Roxanne e Katie perché nulla vieta che si realizzino anche quelle su di loro. *suspense*

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Capitolo 11
*** XI. La Notte ***


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XI.
La Notte

 
 
 
 
Solo la notte, io, per me, tess’un manto,
madre pelle nera di freddo e buio;
se sacra la solitudine in pianto.
 
Solo se la miseria sola mena 
contro il vento d’altri il manto mio;
m’è sacra la solitudine in pena.
 
Solo, e di manti e d’ombra per sorte,
io, come la notte, davanti a Dio;
vivo sacra la solitudine in morte.
 
In pianto, pena, morte
Sacra solitudine
In vita ed in morte.
 
 
Assolo, I
 
 
 
 
 
Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanità del tutto.
 
Giacomo Leopardi, A se stesso
 






 
§§§
 
 

 
 
 
Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts – 21 Ottobre 1972
 
 
 
«Mocciosus!»
«Mocciosus, lo sappiamo che sei lì dentro!»
Una risata galleggiò e arrivò in onda al fiato fin dentro il ripostiglio; l’altra galoppò ed arrivò fin dentro Regulus. Una era divertita ed allarmante; l’altra era divertita, dolce perché cara, ed allarmante.
I due Serpeverde si guardarono. Calcolarono quanto erano soli e quanto, di conseguenza, erano in compagnia; sottrassero dal risultato che ne trassero simultaneamente quanto era concesso loro esser soli e quanto, inversamente, conveniva loro esser in compagnia. Essere soli in compagnia era pittoresco, sublime perché splendido e spaventoso – splendido perché spaventoso e spaventoso da quanto splendido – ma la solitudine ne era l’imperativo. Potevano esser soli in compagnia solo quando avevano la possibilità di essere soli e la possibilità di scegliere di esserlo; la solitudine doveva essere imposta e voluta; doveva esser accusa e confessione; castigo ed espiazione. Assassinio e sacrificio.
Con lo sguardo, con lo sguardo solo si chiesero il permesso e se lo negarono. Con lo sguardo solo si accusarono e si confessarono, reclamando una tregua e rifiutandola. Con lo sguardo solo si castigarono ed espiarono per aver esatto un armistizio e averlo respinto. Con lo sguardo solo si assassinarono e sacrificarono per aver sporto e ritirato un congedo dal loro diritto all’esilio. Coi soli occhi fecero una strage della solitudine in quanto principio ed in quanto diritto all’egoismo, e mai nessuno poté testimoniarlo o commemorarlo.
«Mocciosus, guarda che se non vieni fuori entriamo noi!»
«Spostati, ci penso io!»
Non smisero di guardarsi perché negarsi la compagnia nella solitudine significava premettere l’egoismo, accettare la definizione di Serpeverde egoisti e farla propria – e, soprattutto, non vergognarsene. L’avevano rifiutato prima di proporlo ed avevano scelto la solitudine senza compagnia in nome dell’egoismo che spettava loro, per non vergognarsene. Ma fieri perché egoisti o egoisti perché fieri? Egoisti perché soli o soli perché egoisti? Che vergogna.
Al di là della porta le risate si sovrapposero e non fu più prioritario distinguerle. In quel momento, che nessuno avrebbe mai riportato alla memoria, la porta di legno sfregiato del ripostiglio fu la più artistica asse di simmetria che la scienza, in tutte le sue forme, avrebbe mai vantato.
Perché Regulus Arcturus Black e Severus Piton non furono mai amici, ma seppero come vergognarsene.
 
«Bombarda Maxima!»
Regulus ebbe i riflessi pronti, senza volerlo; riuscì ad indietreggiare fin dove poté e ad urlare a Severus d’imitarlo, allo stesso tempo. Non ce ne fu alcun bisogno perché il ragazzo aveva già evocato un Sortilegio Scudo tra loro e le schegge di legno che esplosero, abbastanza efficace laddove risparmiò loro lesioni o abrasioni, ma non abbastanza padroneggiato da evitar loro di schiantarsi contro il muro.
Si rimisero in piedi in fretta perché le risate – seppure non più filtrate da una porta, ma da un varco – erano ancora sovrapposte, incastrate tra loro come rime incatenate nelle quartine di un sonetto. Regulus spazzò via la polvere prima dal libro di Trasfigurazione e poi dai propri vestiti e dai capelli, con le mani.
Si guardarono ancora, ancora, ancora. Sempre la logica sarà grata all’ambiguità dei rapporti tra cause e conseguenze per il solo modo in cui si guardarono: seppur decisero che sarebbero stati egoisti e – e perché – soli, seppur decisero di esser soli e – e perché – fieri, continuare a domandarselo era conferirsi una possibilità seppur ritrattandola, ammetterla attraverso la negazione. Era confessare in poesia il coraggio, solo abiurandolo.
Ogni volta che Regulus e Severus si guardavano, si chiedevano l’un l’altro il permesso di non essere egoisti, non esser soli e vergognarsene; se lo negavano, certo, ma per domandarselo ancora, ancora, ancora. Che vergogna.
James Potter spinse il suo sorriso tra la polvere e l’aria, fino a toglierne a Regulus. Inforcò al meglio gli occhiali, nonostante le lenti rotonde fossero imbrattate di polvere, per vederlo meglio; tuttavia non si avvicinò, non s’inginocchiò al suo livello, piuttosto lo afferrò dall’avambraccio, e lo alzò con uno strattone garbato.
Regulus si sollevò sollecitato da tale garbo, inciampando nella maniglia della porta finita tra i suoi piedi e negli occhi di James Potter. «Avevi ragione, Sirius.» continuò a guardare lui, ma parlò a qualcuno alle proprie spalle. «Sei più bello tu.»
«Bene bene, Mocciusus. Sei furbo a scegliere i nascondigli, quanto a scegliere le compagnie.» rise, risero entrambi, ma le loro voci non si sovrapposero questa volta perché quella di James fu solo una smorfia più distratta che sinceramente divertita, un riflesso involontario di chi è abituato a vedere solo il lato comico dell’ironia.
Regulus non seppe muoversi e forse fu questo a far sì che nemmeno James smettesse di stringere il suo avambraccio sinistro. «Perché mi guardi così?» sussurrò, infine.
Scosse il capo, lasciando il braccio proteso affinché l’altro non smettesse di stringerlo.
«Che c’è?» chiese ancora, bisbigliando con la voce e col sorriso che stava solleticando le guance e lo stomaco di Regulus. Che vergogna.
 
Nessuno dei due avrebbe potuto saperlo, ma James Charlus Potter aveva la mano intorno al punto esatto in cui sette anni dopo sarebbe stato inciso il Marchio Nero sulla pelle di Regulus Arcturus Black.
 
 
 
 
 
§
 
 
 
 
 
Louis chiude gli occhi una seconda volta, già dormiente.
Si sente ancora accoccolato e caldo, come se fosse rimasto tra le coperte del suo letto, nel dormitorio, nella Sala Comune, nella Torre Grifondoro, ad Hogwarts. Ancora al sicuro.
E invece, è nel peggior territorio di battaglia: il suo.
Si trova a galla sulle nubi. È paradossalmente assurdo, ma cerca di consolarsi ripetendosi che non è la realtà, che è un sogno e che, come nel precedente aveva camminato sopra il Lago Nero senza cadere in acqua, anche questa volta ha ottime possibilità di non cadere nel vuoto e, se dovesse mai accadere, al massimo si risveglierebbe. Non è nulla di tutto ciò a preoccuparlo.
Si siede ad un soffio freddo dalle nuvole sotto di lui, incrocia le gambe perché sa che deve aspettare; sa che qualcuno arriverà e solo così lui se ne andrà. Incanala il proprio sguardo sulla conca dolce che creano le sue mani, l’una nel grembo dell’altra, timoroso di ciò che avrebbe visto di lì a poco perché sapeva che avrebbe dovuto ricordarlo anche da sveglio.
Tutt’attorno iniziano a piovergli addosso piume bianche; eppure quando se ne accorge nota anche che il loro modo di precipitare è perpetuo persino nell’aria, come se fossero nate per cadere ancora, ancora e ancora, e fosse lui ad essere di passaggio. Si chiede, dunque, senza alzare gli occhi raccolti nelle proprie mani, chi stia cadendo davvero.
«Ti piacciono?»
Molly gli accarezza i capelli e Louis chiude gli occhi. Ed è così che lei fa scivolare le mani dai suoi capelli ai suoi occhi, incoraggiandolo – comprensiva laddove solo lei aveva mai saputo esserlo – a tenerli chiusi. Chiusi nel sonno e nel sogno, sradicandolo da realtà e irrealtà, e lasciandogli solo l’immaginazione.
«Se me ne vado, rimango. E tu lo sai, Louis, lo sai.» E immaginazione e verità mai più avrebbero raggiunto un connubio tanto compiuto, tanto fedele, tanto artistico. «Tu sei il mio miglior modo di restare, Louis.»
Le parole di Molly piovono dall’alto come piombo tra la morbidezza delle piume; gravate dal significato di cui si facevano carico e aggravate dai significanti che celavano i significati dei significati.
«Se me ne vado ora, rimarrò sempre.»
Questa è la frase incisa sulla lapide della tomba di Molly Andromeda Weasley tutte le volte che Louis ha visto, previsto, sognato e vissuto il suo funerale.
«Portami via, Louis. Andiamo dove le strade finiscono.» lo supplica avvicinandosi, solo perché ormai si stava allontanando. «E lasciami sulla soglia del precipizio più alto, prima di tornare indietro a costruire strade.»
E, finalmente, Louis si permette di piangere lacrime che nascono – e muoiono – nascoste nelle mani di Molly sui suoi occhi, come una carezza, come una promessa che voleva seppellire tutti i segreti coi quali solo loro due – e loro due soltanto – avrebbero mai vissuto e con cui solo lei – e lei soltanto – sarebbe morta. Era disposta a condividere la propria tomba coi loro segreti, così come lui avrebbe fatto coi propri incubi.
«Gli uomini costruiscono strade e poi le distruggono per paura di terminarle e scoprire dove portano.» gli sfugge un singhiozzo che si affretta ad ingoiare assieme a tutto ciò che sapeva non avrebbe mai più avuto l’opportunità di confidarle. «Me lo hai detto tu.» commemora lui, raccogliendo alla memoria le parole di sua cugina come care reliquie.
Molly gli lascia un bacio tra i capelli. «Ricorda, Louis. Ricorda che la costruzione così come la distruzione è arte di vivere, ma finora i ponti sono gli unici capolavori. Riesci ad immaginare perché?»
Ad occhi chiusi Louis scuote il capo contro il petto della ragazza, alle sue spalle. Sa già quello che lei sta per fare e non vuole che lo faccia: se queste sono le ultime parole di Molly, vuole sentirla pronunciarne altre.
«Perché sono i primi a crollare, sempre prima delle strade, ma solo dopo le coscienze.» toglie le mani dai suoi occhi, senza lasciare ogni traccia di tatto; come se le sue mani non ci fossero mai state – come sei lei non ci fosse mai stata, mai vissuta, mai esistita né nella realtà né nei sogni; solo nell’immaginazione.
«È un ponte quello che mi stai chiedendo di costruire, vero?» E gli va bene, finché Molly è lì, è qui, ora, va bene; finché è dietro di lui, le mani sui suoi occhi o nei suoi capelli, qui e ora, va bene; finché Molly rimane ora prima di rimanere per sempre, va bene. «Questo significa che non potrò costruire strade, non potrò distruggerle.» Eppure non è questo il punto, non finché va bene e lo sa; lei lo sa.
«Chiedimi di chi è il sangue, Louis.» Molly gli sorride sul collo, gli sorride brividi sulla pelle ed è il suo commiato: vuole che lui la ricordi sorridente, anche ai suoi pianti; perfino ai propri.
«Di chi è il sangue, Molly?» ora che le mani di lei non gli bendano più gli occhi, anche le lacrime piovono assieme a piume e parole di piombo, sul suo grembo.
«Di chi rimane.» Finché va bene.
Louis apre gli occhi perché non sente più Molly alle sue spalle, ma non si volta.
«Non piangere per chi se ne va, Louis.» lo consola con condoglianze sarcastiche di chi sa, ma non capisce. «Se io me ne vado, a te e per te lascio quel che è rimasto del mio tempo. Se io me ne vado ora è giusto e tu lo sai, Louis, lo sai.» E allora non è più l’unica a sapere e non capire. «Se io me ne vado ora, rimarrò sempre.»
Quando Louis si volta è Molly a dargli le spalle. Infine, vede che le piume che precipitano, cadono dalle ali che spuntano sulla sua schiena nuda. Non sa non piangere e non sa come può continuare ad andare bene, ma sa che non è piangente che vuole ricordarsi con lei, perfino negli incubi – e nelle tombe.
«Se te ne vai ora, rimarrai sempre.» giura.
Allora, solo allora, Molly respira; spiega le sue ali spelacchiate, ormai spoglie di piume, e si butta giù dal cielo.
 
 
Come il giacinto che i pastori pestano per i monti, e a terra il fiore purpureo sanguina.
 
-Saffo, fr. 105 b Voigt (trad. S. Quasimodo)
 
 
 
 
Aveva gli occhi aperti ancor prima di svegliarsi: aveva assistito alla morte di Molly ad occhi spalancati nel sogno e nella realtà; la morte era troppo onesta, troppo giusta per l’immaginazione, perfino quando era in perfetto connubio con la verità.
Portò le mani sul viso a cancellare lacrime che non trovò perché ancora premature e, ricordò a se stesso, perché Molly le aveva cancellate con le sue mani e se l’era portate dietro – nella tomba.
«Ho parlato nel sonno? Ho detto qualcosa?»
L’orologio sul comodino di Frank, esattamente di fronte a lui, segnava le quattro e venti minuti. Fred aveva solo pantaloncini addosso e, nonostante provasse chiaramente freddo, non si era ulteriormente coperto. Rispose a testa chinata quando capì che James non l’avrebbe fatto.
«Urlavi, piuttosto.» sbottò con distrazione. «Abbiamo gettato un Muffiato attorno al letto perché stavi svegliando tutto il dormitorio.»
«Molly dov-»
Lo precedette, frapponendo tra i ricordi del sogno e le prime consapevolezze un cenno fermo, saldo e risoluto. «Siamo andati a controllare, Lou.» si voltò verso di lui, lo guardò finalmente in faccia, ma rimase ancora costante nella sua tenacia, esattamente quanta ne richiedeva il momento. «Molly dorme.»
Louis trattenne il fiato fino a privarsene, così come le parole di Fred l’avevano spronato ad immaginare la cugina.
Tuttavia il ragazzo non si mosse; rimase coerente coi suoi propositi. «Louis, Molly dorme. Dorme davvero.»
Era raro che Fred Weasley guardasse qualcuno negli occhi, inconsueto perché occasionale, o meglio, eccezionale, tanto che Louis riusciva a dimenticare il verde acqua vivido delle sue iridi pugnalato al centro dal contrasto con la pupilla nitida di nero, come se fosse un obiettivo che lo inquadrava e riprendeva da qualche dettaglio in più d’altezza – e Louis, in fede, gli lasciava il tempo di rigirare il pugnale e prendere la mira. Un obiettivo è pur sempre bersaglio e Fred aveva sempre avuto un modo tutto suo di pugnalarlo.
Fino agli undici anni aveva passato ogni fase primaverile nel cuore dell’Africa, dai nonni materni e questo aveva fatto sì che istintivamente subisse un’educazione completamente dislocata da quella del mondo tradizionalmente occidentale. Guardare negli occhi le persone è una responsabilità, piccolo Freddie. Suo nonno reggeva due secchi di legno di baobab battuto sulle spalle, procedeva a passo istintivo, primordiale e gli parlava con quel suo inglese rude e paratattico. Guardare negli occhi le persone è sacro, piccolo Freddie. Aveva fatto in modo di reggere entrambi i secchi con un unico braccio, attento a non versare l’acqua che avevano appena riempito dal pozzo, pur di liberare quello destro ed indicargli così il sole. Devi sapere, piccolo Freddie, che gli occhi sono forgiati dallo stesso materiale del sole. Louis non ricordava molto il mito che il nonno di Fred gli tramandò quel giorno, più che altro non riusciva a rievocare in pieno il ricordo, a farlo suo in quel momento perché, come spesso accadeva negli ultimi anni, la sua mente lo aveva preceduto, aveva strategicamente anticipato la sua mossa ed era arrivata al termine, all’obbiettivo; al bersaglio. Perciò, mentre Fred si assumeva la responsabilità di guardarlo negli occhi, Louis vedeva un campo di grano maturo improntato da un uomo anziano ed un bambino che camminavano perpendicolari alle loro ombre e alla frase incisa in aria battuta che pendeva contro gravità sulle loro teste, la conclusione del mito. Perché credi che non siamo capaci di guardare il sole, piccolo Freddie?
Louis sbatté le palpebre tanto che balbettarono al posto delle parole che non conseguì a pronunciare. Si era trascritto quella frase nel diario lo stesso giorno in cui Fred aveva a sua volta trasmesso a lui e James quel mito e se l’era recitata, sussurrandosela da solo nelle proprie orecchie, ogni singola volta che Fred si nascondeva da lui, ma alla sue spalle e si assicurava per primo di perdere prepotenza d’esistenza, insistenza di presenza. Come Molly nel sogno, nell’ultimo sogno – e tu lo sai, Louis, lo sai – lo amava alle sue spalle, ad occhi chiusi e a bassa voce. Finché va bene.
«Louis.»
Fred riprese la mira, senza batter ciglio e Louis pianse sangue in cuore pur di non piangere lacrime nei suoi occhi; perché quelle, ancora e per sempre, rimanevano per gli incubi e le tombe. E sapeva che Fred in quel momento si stava caricando in spalla il sacro pur di ricordargli che c’era anche lui, che lui c’era, che era lì e sapeva anche lui, capiva anche lui, soffriva anche lui. Era il suo modo di ricordagli quanto bene andasse, ma Louis e Molly sapevano che andava bene solo ed unicamente finché andava bene.
«Molly dorme, Louis.» Finché va bene.
«Hai- hai detto che urlavo nel sogno.» bisbigliò come si cammina in punta di piedi; bisbigliò come si poteva solo bisbigliare e non sussurrare. «Che cosa stavo urlando?»
«Di non svegliarti.»
James gli voltava le spalle come Molly nel sogno, nell’ultimo sogno – e tu lo sai, Louis, lo sai – ma prima di buttarsi. Vestito di fardelli, James si abbinava alla più bella delle domande che Louis riusciva a porsi, da sveglio: perché non siamo capaci di guardare il sole? Ma il fatto che persistesse a dargli le spalle appaiava alla domanda il gesto medesimo e allora Louis poté portarsi nuovamente le mani in grembo e tormentarsi: adesso che faccio? Adesso, io, che faccio?
Qualcuno gli mise una mano sulla spalla e Louis non ebbe dubbi che fosse Fred – per ricordargli che lui c’era e che Molly dormiva – perché James ancora gli voltava le spalle per rispondergli.
Molly dormiva, Fred era lì e James? James era ancora lì. Finché va bene.
«Ci pregavi di non svegliarti.»
 


 
 
 
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Derek Nott era certo che fosse colpa dei Potter.
Quell’aria sinistra che rabbuiava il clima nel castello, la pioggia che andava avanti ormai da una settimana intera, i quattro temi di cinquantacinque centimetri di pergamena ciascuno che gli erano stati assegnati il giorno prima, le gite ad Hogsmeade cancellate fino a data da decretare, le lettere binominali e perentorie che riceveva nell’ultimo periodo dai genitori, gli Efli Domestici che non preparavano più millefoglie per colazione, le lezioni pomeridiane di Cura delle Creature Magiche annullate per il resto del semestre, la pratica durante le lezioni di Trasfigurazione improvvisamente proibita per gli studenti di tutti i corsi, le ragazzine dei primi anni che sobbalzavano al suo passaggio sussurrandosi percentuali di probabilità che fosse coinvolto nel caso Joshua Thomas, lui che reprimeva la voglia di far sì che non avessero bisogno di arrotondare per difetto per aver azzeccato la giusta percentuale di violenza repressa che gli circolava più delle proteine, Alexander Rosier che interveniva personalmente per evitare che scoppiassero vere e proprie risse, il suo alto rischio di perdere la carica di Prefetto a causa della terza e quarta delle risse che alla fin erano comunque scoppiate, Adam Zabini e i suoi attacchi epilettici notturni che l’avevano svegliato due volte nell’arco di tre ore solo nell’ultima notte, quindi le sue occhiaie e quell’interrogativo cruciale che lo tormentava fino ad infastidirgli l’involontaria attività respiratoria e pure quella cardiaca: mi uccido o uccido tutti?
Sembrava che fosse una peste, dunque non poteva che essere colpa dei Potter – o, era disposto ad accettarlo in alternativa, dei Weasley; Weasley e Potter insomma, perché comunque almeno uno di quest’ultimi era indubitabilmente il boss mafioso della situazione.
Boss mafioso. La similitudine sinaptizzata nella sua mente gli piacque fino a compiacerlo, tanto che – mentre vestiva l’uniforme Serpeverde di Quidditch – se la ripeté, utilizzandola come sinonimo valido a Potter. I Potter erano la peste e la mafia – e anche qualcos’altro di squallido e tangibilmente deleterio per le specie non ancora estinte, doveva solo trovare i termini o coniare i neologismi giusti e propri in cui sintetizzare il concetto.
Poggiò con attenzione la sua scopa accanto a quella di Malfoy e si sedette sul bordo del suo letto per allacciarsi con calma le scarpe, approfittando del fatto che Albus Severus Potter fosse ancora in bagno, probabilmente a sceneggiare davanti allo specchio il discorso d’incoraggiamento pre-partita meno ridicolo che gli riuscisse – ammesso che gliene riuscisse mezzo. D’altronde, si sgridò a bassa voce, il Potter Serpeverde era il prodotto meno nocivo mai congeniato da quella sciagurata progenie, i sospetti nei suoi confronti erano sospinti dal cruciale fatto che fosse un Potter, a giudicarlo inoffensivo invece era solamente la remota possibilità che potesse essere stato scambiato col neonato di un’altra famiglia al S. Mungo: Albus, per quanto lo riguardava, rimaneva un individuo autistico camuffato da essere umano con una complessa personalità.
Sciolse il nodo che aveva macchinosamente composto, quasi dando forma ai pensieri attraverso due lacci di lino e lo iniziò nuovamente, scuotendo il capo contro le ginocchia e digrignando i denti in un sorriso agro. Personalità complessa ‘sto cazzo.
Non riusciva proprio a tollerare l’idea di essere vissuto in contemporanea con l’essenza più banale che l’antropologia potesse comprendere: l’uomo del ventunesimo secolo. Cercava in un qualche modo di placare quell’arteriosa e venosa disposizione allo scempio di quelle convinzioni mediocri e fasulle che ogni homo sapiens-sapiens si ergeva attorno a colonna portante, facendogli notare quanto fosse asimmetrica con la profondità che vantava e quanto, in realtà, fosse solo dell’amor proprio scadente. Eppure una rivoluzione sociale o addirittura comunista non sarebbe bastata per convincerli della più cruciale verità che potevan vantare: no, loro non erano tanto importanti; no, la vita non era tanto scontata; no, il mondo non era tanto ovvio; ma le persone proprio non riuscivano ad accettare la più che logica, valida ed effettiva possibilità che loro potessero non valere assolutamente nulla, e non era una questione filosofica, era solo un’osservazione accorta, con tanto di deduzione ragionevole. Avrebbe dovuto tenere una conferenza, prima o poi, e rimproverare al mondo la sua totale banalità, nel negare la sua parziale banalità: non valete un cazzo!
Le persone sentivano il bisogno di rendere drammatico, commovente, forse elegiaco, ogni fatto che li riguardava o riguardava ciò che li riguardava, ma non era così: a volte il fatto prescindeva da qualunque spiegazione, la frase reggente da qualunque subordinata, il nome da qualunque attributo. A volte, dietro una persona morta – fatto – potevano esserci le più scientifiche constatazioni sulle modalità di decesso, il luogo, l’orario, i dati anagrafici del defunto – spiegazioni – ma una persona morta era una persona morta; e morta rimaneva. A volte, ad una frase semplice come, ad esempio, sei stato adottato potevano seguire tutte le proposizioni causali – perché i tuoi genitori sono morti, avversative – ma noi ti vogliamo bene lo stesso, coordinanti – e ti abbiamo accolto in casa nostra come un figlio, temporali – da quando avevi quattro anni soltanto, finale – per darti un futuro migliore, comparative – che altrimenti con difficoltà avresti avuto, concessiva – nonostante non sia stato facile, aggiuntiva – oltre che poco conveniente, modale – abbiamo fatto il possibile.
«Fanculo!» imprecò ancora chinato contro le sue scarpe, con le dita ingarbugliate tra i fili che incastrava e scioglieva di continuo.
Un abbandonato era un abbandonato; ed abbandonato rimaneva.
Dietro la timidezza poteva non esserci la scontata voragine di un animo tormentato, ma solo una persona che non aveva nulla da dire, nulla da dare al mondo. Dietro l’astuzia poteva non esserci l’immediata presa di posizione reazionaria dell’Io a danno degli altri, ma solo dell’effimera abitudine. Dietro il coraggio potevano non esserci valori abissali o idee portanti, ma solo una reazione involontaria ed istintiva. Dietro la conoscenza poteva non esserci dottrina o arte, poteva non esserci alcuna passione od intenzione, poteva non esserci nemmeno intelligenza, ma solamente consolazione ripetitiva.
Dietro un vaso rotto poteva esserci stato lo sfogo della rabbia o il gesto sbadato di un qualunque imbecille: il vaso rimaneva rotto. Dietro una porta chiusa poteva esserci qualcuno o assolutamente nessuno: la porta rimaneva chiusa. Ed ancora una volta e per sempre, i morti erano morti.
Spesso, la risposta era più ovvia della domanda stessa perciò si perdeva d’occhio. A volte dietro la cattiveria, la rabbia, la cupidigia, il pregiudizio, la violenza, l’ingiustizia, l’indifferenza non c’era nulla di profondo o radicato, nulla di spiegabile o sensato, nulla di valoroso o potenziale; spesso, dietro c’era solo stupidità – e la stupidità era solo un altro fatto da pesare sullo stesso piatto della bilancia.
La definizione spoglia dei fatti, delle persone gli aveva insegnato a stare solo e a gradire il più possibile i rapporti con gli altri, laddove fossero necessari e anche qualora divenissero piacevoli. L’eliminazione del dettaglio irrilevante o superfluo lo aiutava e spronava all’accettazione, in un qualche modo lo aiutava a vivere.
La porta del dormitorio si aprì e si chiuse, ma Derek stette fermamente inchinato sulle sue scarpe, con la voluta insistenza di dare le spalle a chiunque fosse entrato.
Allacciarsi le scarpe era il suo antistress per eccellenza. Cercava di creare il nodo più aggrovigliato, ingarbugliato e talvolta intricato che potesse, cercando di superare la complessità dei suoi pensieri. Aver tra le mani qualcosa di più disordinato della sua mente lo rinsaldava, lo aiutava a stabilizzarsi, a limitarsi al fatto e a ricordarsi che non c’era nulla dietro. Anche a costo di metterla su piano ironico, forse sarcastico; beffardo, amaro.
Ad esempio, i Potter erano un dettaglio per lui personalmente irrilevante – potenzialmente dannoso, ma questo marcava ancor di più la loro futilità in termini obiettivi; una volta eliminata la loro presenza, più della metà dei problemi politici, economici, sociali, ecologici, fisici, biologici, psicologici, chimici, astronomici e metafisici si sarebbero conseguentemente risolti. Peccato che tale eliminazione a scopo umanitario implicava la commissione di crimini e reati, nonché offendere la sua etica kantiana e passare il resto della sua vita ad Azkaban. Era colpa dei Potter pestiferi e mafiosi, e non c’era nulla dietro.
«Pronto per la partita?»
Scorpius Malfoy era tutto sommato un bravo ragazzo; lo era anche tutto sottratto, in realtà. Era un bravo ragazzo e non c’era nulla dietro: i lacci avviluppati glielo stavano mostrando che non c’era assolutamente nulla dietro. Per questo motivo gli rispose e si preoccupò anche di farlo gentilmente, ma prima che Albus Potter uscisse dal bagno si affrettò a sistemare i lacci delle scarpe con un colpo fermo di bacchetta ed a chiudere la conversazione con Malfoy. Sempre in termini di educazione, lo salutò e gli disse che si sarebbero rivisti poi in campo.
Uscì sbrigativamente dopo aver afferrato la sua scopa ed essersela caricata in spalla. Il corridoio era animato da passi sgattaiolati ed echi sfuggiti che gli facevano da sfondo e da sottofondo, mentre si guardava giudizioso le scarpe. Mise le mani in tasca, dove aveva un paio di nastri di seta, strappati dalla vestaglia di sua madre – dodici anni prima – e camminò rigirandoseli tra le dita, attillandoli tra un dito e l’altro, certo che poi, la notte, quando li avrebbe tirati fuori, sarebbero stati incastrati come un tranello, in cui far cadere tutti i pensieri in agguato che si erano insidiati nella sua mente, sotto la sua pelle, dietro i suoi occhi durante il giorno. Allora, solo allora avrebbe potuto dormire.
«È aperto.»
Aveva bussato, due colpi erano bastati a profanare il silenzio di pergamena e libri che c’era nei dormitori del settimo anno.
Alexander Rosier era vestito con la quotidiana divisa Serpeverde, abbinata ad un libro rilegato di ocra scolorito che, sdraiato ancora sul baldacchino, leggeva a pochi centimetri dal viso, tanto che glielo copriva interamente.
Derek entrò furtivamente nel dormitorio del ragazzo, ma più ad agio di come era uscito dal proprio. Rimase in piedi ad aspettare, come gli era di consuetudine, che Alexander finisse il paragrafo o il capitolo che stava leggendo.
Giravano voci tumefatte sui fratelli Rosier. Di loro di parlava solamente dopo aver esaurito tutte le possibili maldicenze sui Nott o sui Zabini, dopo aver indiscretamente riportato le dicerie più diffamanti sugli Harper ed i Rowle, successivamente ad un accenno illuminante sui Malfoy, perfino in seguito ad ogni diceria sui Carrow, gli Yaxley ed i Travers – o per lo meno, ciò che ne era rimasto. Per ultimi arrivano Alexander e Denise Rosier, qualche commento superficiale su di loro – le solite malignità radioattive al rispetto – sul loro modo di vestire, sulla loro reclusione dagli altri che immediatamente veniva collegata alla bancarotta della famiglia, Derek un giorno aveva addirittura sentito un la loro famiglia torturava ed assassinava, già che c’erano non potevano metter da parte qualche soldo per i nipoti? Guardali sembrano usciti da un mercato dell’usato rinascimentale! che gli fu tossico fino a fargli vomitare la colazione ed anche il pranzo e la cena che non aveva mangiato, fino a fargli saltare le lezioni pomeridiane e fargli passare l’intero pomeriggio ad allacciare e slacciare le scarpe ed a ripetersi che non c’era nulla dietro, se non stupidità – e il cerchio si chiudeva lì perché stupidità non aveva ragioni.
I genitori di Denise ed Alexander erano entrambi reclusi ad Azkaban, da dodici anni oramai. Un’indagine condotta dal Ministero aveva provato che – sì, più di dieci anni prima dell’accusa, durante la guerra – il signor Rosier aveva preso parte a crimini contro i Babbani ed i Natibabbani e che la moglie gli era stata complice. Gli Auror erano semplicemente entrati in casa Rosier e li avevano catturati, reclusi per gli interrogatori ed infine imprigionati; avevano confiscato loro proprietà e beni perché non assicurati, finiti direttamente nelle casse del Ministero degli Interni. Alexander aveva cinque anni, Denise tre.
«Vuoi scendere già?»
Continuava a nascondersi dietro il libro, ma Derek non pretese che si facesse vedere. Annuì, anche se sapeva che non poteva vederlo e lasciò che finisse di leggere con calma.
L’affidamento di Denise ed Alexander era passato ai Nott. E non fu un problema, all’inizio, anche perché non se lo pose nessuno. Furono ospitati nella loro dimora per qualche mese, prima che questioni di affidamento prioritarie e la gravidanza della signora Nott di Amelia non fecero sì che i coniugi si ponessero il problema, ma per risolverlo. Decisero di mantenere i due Rosier a distanza per concentrarsi sulla loro famiglia. Derek lo seppe ad un’età esasperatamente precoce, ma quando lo capì era già maturato a sufficienza per prender coscienza di ciò che accadeva perciò non ebbe modo di chiedere cosa ci fosse dietro; non ebbe modo di chiederselo, ma solamente d’imporselo. Semplicemente sostituì al punto interrogativo un punto fermo che gli facesse lo sgambetto ogniqualvolta fosse tentato di andare oltre; il punto, lo sgambetto serviva a farlo inciampare, a far sì che notasse che le sue scarpe non erano allacciate e che c’era un altro nodo da fare per dimostrare che non c’era nulla dietro, un altro nodo ingarbugliato di prime ed ultime coscienze abbastanza complesso da sublimarci la parte della verità che non serviva alla storia. Perché non c’era nulla dietro, nessuno dietro: nulla l’aveva fatto inciampare, nessuno gli aveva fatto lo sgambetto, in realtà; erano solo le scarpe slacciate.
Quando i Zabini e gli Harper erano venuti a sapere che Alexander e Denise vivevano in uno squallido appartamento di Edimburgo, con una balia a crescerli, sono intervenuti personalmente.
Decisero immediatamente di assumersi la tutela – e ci vollero anni prima che il Wizengamot gliela concedesse – e di dividersi le spese ed i termini d’adozione. Erano più di tredici anni che Alexander e Denise Rosier si trasferivano continuamente dalla dimora Harper a quella Zabini, e viceversa. Senza dimora alcuna.
«Devo assicurarmi che Amelia stia migliorando.»
Alexander scostò il libro, col gesto arreso di chi decide di togliere l’ombrello anche se non ha mai smesso di piovere.
Derek gli fece un cenno e tirò fuori l’ultima delle ultime lettere ricevute, buttandola sul letto, vicino alle sue ginocchia. L’altro immediatamente l’afferrò, la aprì e la lesse.
«Ho la nausea.» disse, mettendosi seduto e porgendogliela nuovamente. «Perciò direi che salterò la colazione e verrò con te.»
Qualche anno prima aveva origliato una conversazione tra la signora Zabini e la signora Malfoy. Aveva sentito la prima lamentarsi preoccupata sui Rosier e confidare alla seconda che non avrebbe voluto che facessero continuamente avanti ed indietro tra casa loro e quella degli Haper; disse che aveva proposto di trovare una soluzione affinché non dovessero trasferirsi continuamente, che aveva proposto ai due, allora poco più che bambini, di vivere ognuno da una famiglia, senza doversi più spostare. Naturalmente, Denise ed Alexander rifiutarono di separarsi e la signora Zabini ne fu tanto mortificata quanto commossa, ma Derek se ne andò prima che potesse udire altro, prima che le due donne potessero avanzare propositi o spiegazioni sul perché della loro scelta.
Derek sapeva perché, lo capiva e lo viveva: perché non si fidavano. Alexander e Denise non si fidavano di nessuno, e qualunque cosa ci fosse dietro non sarebbe mai importata abbastanza.
Era stato Alexander a crescere la sorella e, successivamente, era stata lei a prendersi cura di lui, ma erano stati e rimanevano soli in un modo che faceva male alla vista perché non era il quanto fossero soli, ma il come lo fossero. Derek ci aveva pensato molte volte allacciandosi le scarpe e sciogliendole in fretta quando non riusciva a fare un nodo altrettanto imbrogliato che gli permettesse di fermarsi al solo fatto e non divagarsi a cercare ciò che c’era dietro.
Non aveva ancora creato un nodo più intricato di quello che i suoi pensieri gli suggerivano a riguardo e per convincersi che non ci fosse assolutamente nulla dietro aveva dovuto ingarbugliare tutti i fili di tutte le scarpe che aveva. Si era seduto dopo aver disposto tutti i lacci annodati davanti a lui e li aveva guardati, come soleva sedersi e guardare di nascosto Denise ed Alexander ancorati l’uno all’altra dalla fiducia che non avevano per gli altri. Aveva guardato i fili con le mani tra i capelli e si era autoimposto ignoranza. Il fatto, guarda il fatto e fermati lì, per favore. Aveva ordinato alla sua intelligenza. Lo vedi? Non c’è nulla dietro, c’è solo il fatto e tu non c’entri niente. Ripeti con me “non c’è niente dietro”, ripetilo! “Non c’è niente dietro!” quello che vedi è solo il nulla che si trascina dietro la solitudine. Il vaso è rotto, la porta è chiusa ed i morti sono morti.
 
«Non c’è nulla dietro.»
Alexander si voltò a guardarlo. «Cosa?»
«Niente.»
Esattamente, niente. Finché va bene.
 
 

 

 

 
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«Volevo sposarla, sai?»
James era uscito poco dopo, nonostante fossero le quattro del mattino; non aveva detto dove sarebbe andato, non aveva detto nulla – era solo uscito. Sempre di spalle.
Fred anche era uscito, ma più lealmente; almeno aveva atteso che il sole sorgesse. Gli aveva detto che sarebbe sceso a far colazione e che l’avrebbe aspettato lì. Forse a dimostrargli ancora che lui c’era; sapeva, capiva, soffriva.
Frank e Liam si erano svegliati presto anche loro. Il primo era uscito non appena aveva capito che non era aria, che non c’era abbastanza aria per tutti nella stanza ed il secondo era rimasto a contendersi la stessa poca aria con lui.
«Era tutto perfetto. Il diploma, il matrimonio, il trasferimento, le selezioni di Quidditch in Ungheria del prossimo anno, la sua specialistica in Architettura, una bella casa al confine con la Turchia, un figlio o una figlia, una seconda casa in Grecia, magari un altro figlio. Era tutto perfetto.»
I corti capelli castano chiaro rabbuiati dal sole che sorgeva in seno alla notte e vi rimaneva nascosto a spiare di luce il buio. Sedeva sopra il suo baule, con addosso la divisa stirata nelle parti sbagliate come un vagabondo che errava, ma in terre conosciute; la postura scorretta e storta di chi sapeva reggersi in piedi solo zoppicando con stampelle sproporzionate perché imprestategli da qualcun altro.
Louis non disse nulla perché aveva già visto quel momento, anni prima ed ora doveva solo farci i conti.
«Avrei dovuto saperlo che sarebbe finita così.» sorrise. «Anche solo da quanto ne parlava, da comecome ne parlava presa, entusiasta… Non ci credeva davvero.»
Si sedette vicino a lui nonostante il sipario fosse abbassato e le luci fossero puntate dietro le quinte; nonostante quel momento non fosse destinato ad essere condiviso, Liam non fosse destinato ad essere compreso e la sua sofferenza non fosse destinata alla gloria.
«Non so se era il suo modo di accontentarmi o di accontentarsi.»
Louis lo sapeva, ma non lo disse per pietà e perché anche i microfoni del palco erano spenti.
Ad ogni parola che Liam scontava, l’aria si consumava per brinamento e cadeva a grandini per coprire l’eco della sua voce.
«L’ho amata davvero. Prima che fosse necessario, prima che fosse scontato.» annuì, ma non lo guardò; non c’erano spettatori da impressionare. «Prima di diventare quello che sta con la Weasley malata.»
Louis mise una mano sopra quella Liam, ancora una volta per pietà. Avesse dovuto far parte della scena ed assisterla allo stesso tempo a tende chiuse, avesse dovuto esserne personaggio e spettatore, ad occhi chiusi prima ed aperti dopo, lui solo: gli avrebbe trovato un pubblico.
«Credo sia giusto così. Farmela mancare, dico.»
La mano sudaticcia di Liam sotto la sua s’irrigidì e tremolò piano, ma contenuta perché arresa – proprio come zoppicava lui sullo stesso posto – perché non c’era un pubblico da commuovere e chieder tregua attraverso la pietà era stato il modo più gentile in cui avrebbe mai potuto ammetterlo.
Louis sentì il suo affanno arrancare per conficcare ed inchiodare parole e pause all’aria che non reggeva il peso di entrambi, non permetteva loro di riuscire a dire quello che c’era davvero da dire: come era successo a lui nel sogno – e tu lo sai, Louis, lo sai.
L’aria non resisteva alle lacrime d’entrambi, l’aria non garantiva per i sospiri d’entrambi, l’aria non supportava le vite d’entrambi. In pianto, in pena, in morte.
Ma l’aria stava fallendo ai loro piedi, stava condensando in terra – terra viva e rugiadosa d’acqua com’era solo la terra dei cimiteri – e gli stava mostrando che uno tra loro due non ne sarebbe uscito – in pianto, in pena, in morte – e non solo da quella stanza o da quel palco spoglio d’aria e gloria.
«Forse tutto quello che posso è farmela mancare e andare prima che se ne vada lei.» chinò il capo da un lato. «Non voglio rimanere dietro di lei.»
Louis non pianse perché non si era visto farlo quando all’età di tredici anni aveva visto quella scena; in un qualche modo, non faceva parte del copione – o perlomeno, non di quella scena del copione. Proprio come era successo, quella stessa notte, appena si era svegliato dal sogno: aveva sanguinato lacrime a battiti pur di non mostrarle sul viso. Di ciò che stava accadendo aveva pianto già ed avrebbe pianto poi, ora poteva solo lasciare che accadessero – e tu lo sai, Louis, lo sai.
«L’ho lasciata. Ieri. Le ho detto che la amo, poi l’ho lasciata. Forse mi aveva già lasciato lei ed io l’ho solo detto. Non importa. Non dopo che ha rifiutato l’intervento senza dirmi nulla, non dopo che ha permesso che l’amassi più di quanto lei amasse noi. Non importa più, non ora che se ne sta andando.» aveva parlato in fretta, stimolato dal conto alla rovescia dell’aria, che gli franava addosso e lo seppelliva prematuramente di morte d’altri. «Non rimarrò dietro di lei.»
«No.» lo consolò, infine, perché sapeva che Liam era l’unico segreto che Molly si sarebbe portata dietro nella tomba, ma che lui non avrebbe conservato negli incubi perché l’aria mancava per gli spettatori e mancava la gloria per la quale fingere che ce ne fossero. E non c’entrava nulla il sogno in cui seguiva Liam nei bagni di una stazione ferroviaria ungherese per vederlo morire di overdose, all’età di ventitré anni.
Quando gli chiese di uscire e lasciarlo solo, Louis lo fece immediatamente, in nome della pietà per i vivi, il rispetto per i morti, lo scadere dell’aria, l’epilogo tronco della scena nel copione ed il silenzio funebre della notte. Finché va bene.
 
 
 
 
 
 
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«Non trovo nulla da mettere!»
Le lamentele di Roxanne uscivano cotonate dagli strati di vestiti in cui si era spontaneamente sepolta.
Damian si fermò nel gesto di chiudere le cinghie dei parastinchi della divisa di Quidditch, solamente per voltarsi ed allargare le braccia. «Quello è il mio armadio!» portò sconsolato una mano, con tanto di parastinchi destro, ad indicarla seduta a gambe incrociate tra tutti i vestiti – una volta ordinati, ora scomposti come solo un Grifondoro avrebbe potuto renderli – nel tentativo di mostrarle tutto ciò che lui ci vedeva e ne risultava di sconsolato. «Certo che non trovi nulla di mettere, quello è il mio armadio!»
«Sì, anche il letto è tuo, se è per questo.» Gli lanciò contro una camicia blu in ricami bianchi, tre paia di calzini e fece per lanciargli anche qualcos’altro prima che lui la minacciasse di fare lo stesso col parastinchi che aveva ancora in mano. «E non è colpa mia se hai fatto Evanescere la mia divisa!»
Scoprì che l’ultimo degli indumenti che aveva voluto lanciargli contro era una canottiera bianca, semplicemente perché comunque gliela lanciò.
Il ragazzo scostò la canottiera dal viso e gliela rilanciò a sua volta. «Sì, tre giorni fa! E non ti sei mai posta il problema. Cos’è, voi negri non siete ancora arrivati al periodo d’evoluzione in cui l’uomo bianco ha strutturato il tempo o semplicemente vi è troppo complicato assimilarlo?»
Roxanne si alzò in piedi, facendo cadere le giacche a vento e qualche altra camicia, ed uscì dalla massa di vestiti. «Il mondo è ancora bloccato nel tartaro della libertà di parola, concessa senza restrizioni, nemmeno nei confronti dei bianchi idioti.» gli puntò il dito contro, con tanto di smorfia, affinché non avesse libertà d’interpretazione.
«Bianco idiota è una contraddizione in termini, quanto Guerra Santa.» non mise via il parastinchi perché era chiaro che ormai lo ritenesse parte integrante del confronto verbale, nel caso avesse dovuto all’improvviso non essere più esclusivamente verbale.
Roxanne trattenne scenicamente il fiato, indignata tanto da lasciar perdere i pantaloni del ragazzo che cercava di accorciarsi addosso con la bacchetta. «Ma se eravate voi bianchi a fare le guerre e spacciarle per sante?»
Lui aprì bocca per risponderle solo dopo aver ostentato un’espressione che mostrasse quanto poco lo mettesse a disagio ciò con cui la ragazza aveva obiettato, ma la comodità che si concesse prima di rispondere fece sì che non riuscisse a concludere prima che bussassero alla porta.
Roxanne alzò le sopracciglia con ammirazione. «C’è ancora gente al mondo che bussa prima di entrare?»
Le fece segno di tacere e le intimò un «mettiti qualcosa addosso, dannazione!», prima di avvicinarsi alla porta e chiedere chi fosse.
Facendogli il verso con enfasi assolutamente spropositata rispetto all’irritazione con cui lui aveva parlato, s’infilò il pantalone del pigiama che Adam aveva lasciato sul suo letto – dopo averlo rifatto secondo un principio che aveva a che fare con l’abnegazione e gli Elfi Domestici – sopra una maglietta che aveva raccattato nell’armadio di Harper, con impresso il volto di un uomo dai capelli verdi ed un inquietante sorriso folle.
Entrarono due ragazzi verso i quali Roxanne evitò di allungare lo sguardo più di quanto l’avesse spronata la curiosità per l’incognito perché la stava prendendo una viscerale voglia di entrare nuovamente nell’armadio, chiudersi le ante e rischiare di morire soffocata all’interno.
Erano la personificazione di tutto ciò che era concepibilmente Serpeverde, persino nell’ombra che proiettavano e l’altezza da cui la proiettavano. Erano entrati senza aprir bocca, con alcun movimento a coordinarli perché incastrati di presenza e d’espressione. Incastrati anche d’altro, ma lei non poteva saperlo.
Si era seduta sul letto di Zabini perché era il più lontano dalla porta, prendendo in mano il libro rilegato in rosso che Adam si portava dietro ovunque andasse, come lei avrebbe fatto solo col denaro ed un amuleto repellente per la sfortuna. Lo sfogliò adagio, quasi pagina per pagina, ma la pergamena era spoglia di segni: era chiaro che il ragazzo ci aveva gettato un incantesimo di protezione perché nonostante il bianco consunto, odorava di vissuto e inconfessato. Se lo rigirò tra le mani, come se lo avesse già visto fare, nell’oblio di ricordi involontari. Non c’erano altre scritte, ma c’era un’incisione mal tracciata, come se fosse stata riportata con le unghie. Roxanne ruotò il libro e ne sillabò i graffi in parole.
 
Segue e insegue anche se in realtà è fermo. Che cos’è?
 
Perché fosse circondata da persone che cercavano di complicarsi la vita, più di quanto non lo fosse già da sé, non lo avrebbe mai compreso. Quando Adam sarebbe uscito dal bagno turco al quale si stava concedendo da ormai un’ora, gli avrebbe fatto tutt’un discorso netto, ma tondo sul masochismo.
«… sai che lei non dovrebbe essere qui.»
Si voltò verso i tre Serpeverde, sentendosi chiamata in questione.
«Oh Derek, per favore.» fu riconoscente allo sbuffo annoiato di Damian e non si risparmiò di annuire alle sue parole, anche se il ragazzo dai capelli neri con la divisa da Quidditch che stava parlando non aveva alzato lo sguardo su di lei nemmeno una volta da quando era entrato.
«Stai infrangendo almeno cinque decreti, di cui tre da soli basterebbero per farti espellere. Che diamine pensi, di essere in luna di miele?»
Roxanne digrignò i denti, socchiudendo gli occhi e buttando di lato il libro di Adam per incrociare le braccia sotto al seno: che importasse un minimo anche il suo rischio di espulsione?
Fu grata alla loquela immediata e deviatrice innata in Harper per una volta nella vita. Incrociò le gambe sul letto, strisciando i piedi nudi sulla morbidezza della trapunta verde, disfacendo il letto per infilarli tra la seta del lenzuolo argentato.
«…abbia fatto a fargli smettere di cantare quando fa il bagno, ma io e Denise ti saremo grati…»
Stava cercando di trattenersi dallo sdraiarsi perché sapeva che gli amici di Harper certo non avrebbero apprezzato il suo buon costume – e fin qui fu solo un motivo in più per cui sdraiarsi bellamente, dato che non la stavano apprezzando a priori – e perché sapeva che poi il ragazzo avrebbe avuto qualcosa da ridire, ma quando volle trovare una posizione di compromesso il piede sinistro le scivolò in un liquido denso e liquefatto.
«Non ha mai smesso…»
Si levò a sedere composta all’improvviso, come punta sotto le scapole, spostò la trapunta e spogliò l’argento del lenzuolo sporcato di un violaceo diluito non del tutto assorbito a causa della poca permeabilità della seta. Si alzò immediatamente in piedi, macchiando il pavimento col quel fluido che le aveva sporcato il piede e le dita della mano.
Non era stata l’unica a spostarsi velocemente e ad allarmarsi all’improvviso. Harper ed i due Serpeverde le passarono affianco di corsa quasi travolgendola.
«Adam!»
«Adam, apri la porta!»
« … prendi la bacchetta!»
Derek Nott tirò fuori la bacchetta immediatamente dalle tasca interne della divisa ed in un istante, risoluto e fermo, fece saltare i cardini che fissavano la porta, incurante del danno che avrebbe poi riportato. Una volta rotti i perni inchiodati fu più facile rompere il lucchetto ed allora bastò un pugno per buttar giù l’intera porta.
Damian lo precedette entrando per primo nella polvere e nel vapore dato dall’acqua calda che scorreva da ore, ormai. Prima di raggiungerlo lo sentì chiudere i rubinetti.
«Dov’è?» Alexander alle sue spalle aveva la bacchetta in mano e almeno cinque incantesimi di difesa sulla punta della lingua.
Il vapore era esageratamente denso, non riuscivano a distinguersi tra loro in tre: Derek fu pratico ancora una volta a cercare d’eliminare quanto vapore riuscisse, subito aiutato da Alexander.
«Ehi, quello cos’è?» Damian indietreggiò su di loro. «Quello che accidenti è?»
Un mantello nero, squarciato in più punti, che si dimenava davanti a loro. Un mantello che pendeva da più di due metri d’altezza e, man a mano che il vapore diminuiva, il nero era sempre più nitido, insistente. Pensarono di immobilizzare la figura, forse di schiantarla, ma fu Roxanne ad agire. Li superò e si lanciò sulla figura, iniziando a strappare gli stracci neri ed allora fu istantaneo, quanto perturbante.
Alexander la seguì velocemente, Damian la allontanò prima di unirsi, seguito a ruota da Derek che la spinse col solo sguardo, senza posarlo su di lei però. Roxanne indietreggiò fino ad inciampare sulla porta rotta e abbandonata sulla soglia del bagno, con gli stracci neri ed umidi strappati ancora incastrati tra i suoi pugni. Vide il ragazzo biondo riuscire a trovare un solco di spacco strategico nel tessuto del mantello e lacerarlo a mani nude, aiutato da Harper, mentre il terzo cercava di tenere ferma il più possibile la figura.
Caddero piume.
Precipitarono dallo squarcio sul mantello, prima sulla vasca da bagno e addosso ai tre ragazzi, successivamente arrivarono fino a lei; tantissime, grandi, sporche di bianco e bagnate, quindi prive della presupposta morbidezza. Non se ne accorse, ma aveva urlato.
Adam Zabini era in piedi, fermo al centro dello sfogo di tutto ciò che lo aveva soffocato. Non tremava dal freddo in modo innaturale.
Il ragazzo dai capelli neri, che continuava a voltarle strategicamente le spalle, lo scosse e lo chiamò per nome, ad alta voce. Harper fu il primo a toccarlo, sulla spalla nuda e poi sull’avambraccio. Si avvicinò anche lei, senza vergogna e prima che il biondo lo coprisse con un panno pulito.
«Era una maledizione, quella? Come hai fatto ad evocarla, Adam?»
Le piume bagnate sparse a grumoli per terra, attorno al lungo mantello nero le causarono una nausea stordente, un fastidio distraente, perciò non capì chi dei tre gli avesse posto la domanda e si limitò solo a rispondere, senza deglutire.
«Non è stato lui, la sua bacchetta è sul comodino.»
A quella ravvicinata, seppur prudente, distanza riuscì a riconoscere Nott nel ragazzo dai capelli neri non appena lui ebbe uno scatto, l’impulso immediatamente frenato che altrimenti lo avrebbe portato a volarsi per guardala e chiederle di più.
«Adam come hai fatto tutto questo?»
«Non è stato lui.» ripeté ancora incerta a chi si stesse rivolgendo. «La sua bacchetta è di là.»
Nott uscì dal bagno a passo pesante ed interrogativo, probabilmente voleva verificare personalmente che fosse vero e lei lo seguì.
«Credi che stia mentendo?»
Il suo modo di non rispondere fu di una spontaneità talmente vissuta che Roxanne non ebbe il dubbio, ma la certezza illogica che lui non l’avesse sentita – o, addirittura, che lei non avesse proprio parlato.
Nott prese in mano la bacchetta di Adam e rievocò con un sortilegio non verbale tutti gli ultimi incantesimi di cui era stata capace, ma parve non averne tratto alcunché di considerevole perciò la rimise immediatamente al suo posto – esattamente nella posizione incompiuta ed obliqua in cui era prima che la toccasse. Mirò allora al baule, chiuso ai piedi del letto e fu allora che notò le macchie sul pavimento, scese a gattoni di Roxanne dal letto.
Ma non si avvicinò per vedere meglio, continuando ugualmente ad osservare la sostanza in piedi e dall’alto. Non seppe né come appurarlo né come ritrattarlo, ma nella sua precisa volontà di non inginocchiarsi, Roxanne lesse una dichiarazione di poetica.
«Alexander.»
Pronunciò il nome con spontaneità tanto piana che lei, ancora dietro di lui, ci mise un po’ a capire che stava chiamando qualcuno e non stava parlando con lei; smaltì l’ambiguità solamente quando dal bagno uscì il ragazzo biondo – le maniche ripiegate, ma sotto i gomiti ed i vestiti bagnati a macchie indefinite – e guardò direttamente Nott, come se lei fosse coperta con un mantello dell’invisibilità.
Si valicarono un paio di sguardi dai quali lei era, ed era giusto che lo rimanesse, esclusa.
«Che c’è, che succede?»
Damian entro nella stanza con l’amico contro costola, ancora avvolto dallo stesso panno, ma poco più asciutto. Andargli incontro fu istintivo, fermarsi al fianco di Adam invece che al suo fu prudente.
Alexander Rosier guardò prima Nott, poi la soluzione liquida violacea, prima di azzardare gli occhi verso il cipiglio affannato di Harper. «Non siamo sicuri.» saldò lo sguardo e continuò. «Sembrano inchiostro ed acqua ossigenata.»
«E qual è il problema?» non stava rinfacciando alcunché, la sua voce era angoscia melodica; la sua era una domanda sincera.
Nott non si mosse, rimase fermo a sovrastare l’immagine irrisoluto, come se stesse scalando un monte la cui vista già s’intravedeva. «Ci sono boccette d’inchiostro vuote sul comodino.» disse, senza sprecarsi in espressioni più o meno significativamente suggestive. «Ma l’acqua ossigenata è concentrata, l’odore è troppo forte e non è incolore quanto dovrebbe.»
«In tutto il castello si trova solo nelle dispense di Pozioni ed in infermeria.» aggiunse Alexander.
Harper s’allontanò improvvisamente, facendo sì che il peso di Zabini ricadesse altrettanto improvvisamente sulla Weasley. Ebbe il buon senso d’avvicinarsi alla sostanza, ma senza chinarsi, e di annusare il miscuglio liquido, solo per ritrarsi immediatamente.
Roxanne non disse nulla e non si lamentò del peso del ragazzo che storceva il suo; aveva imparato velocemente a riconoscere lo sguardo illuminato di Harper quando indagava – o credeva d’indagare – su un fenomeno qualsiasi; semplicemente s’adeguò all’equilibrio di ruoli, non appena notò la serietà cucita di travaglio in pelle, che ora vestivano tutti e tre i ragazzi.
Fece scivolare in una carezza la sua sinistra attorno alla vita di Adam e, prima di arrivare a tenergli la mano, gli accarezzò i capelli, seppure il ragazzo tenesse il capo troppo basso perché potesse riconoscere l’effetto del suo calore su di lui.
Un cenno immobile, come un sintomo cieco e sordo deviò la colonna portante della figura di Nott e lo indusse al cedimento. Allora, capì anche lei, suturandosi il travaglio ogni dove il suo corpo non fosse coperto dai vestiti.
Fu Damian a togliere la trapunta e Roxanne notò che lo fece con la stessa foga intrepida di quando si alzava fulmineo la mattina presto, quasi brusco, come se si fosse svegliato nel cuore della notte solo per incoraggiarsi a farlo. Ricordava di averlo apostrofato nel peggiore dei modi, due mattine prima, quando con lo stesso gesto aveva scoperto anche lei – perché sonno, freddo e vergogna erano un’alleanza infida.
Riuscì a conferire un minimo di significato al suo gesto, e alla reminescenza che ne era scaturita, solo quando Rosier si spostò e poté distintamente leggere gli scarabocchi d’inchiostro sul lenzuolo che chiedevano pace in lettere e punti interrogativi.
 
Segue e insegue, anche se in realtà è fermo. Che cos’è?
 
La frase era scritta almeno tre centinaia di volte, in una calligrafia miope, come una maligna punizione assegnatali per il suo bene. Riuscì a leggerla da lontano solamente perché la sua mente già l’aveva vista e si era appigliata all’amo del punto di domanda, come se la penitenza includesse anche lei – come se fosse un castigo cui erano soggette tutte le persone che leggevano l’enigma, ma non sapevano controproporgli una soluzione.
«Adam» Harper parlò con un dolore la cui fitta arrivò anche a lei. «cosa diavolo è tutto questo?»
Nott raccolse da terra il cuscino e quando lo rigirò, trovò lo stesso inchiostro criptato in un maiuscolo punto interrogativo; se lo rigirò in mano e lo rimise sul letto con una delicatezza adempiente solo al rispetto. Dunque, fece qualche passo indietro e si guardò le scarpe con le mani in tasca.
«Segue e insegue, anche se in realtà è fermo.» Adam li guardò, senza posare gli occhi su di loro, ma solamente alzando il capo: il suo pallore li guardò. «Ditemelo voi, che cos’è
 
 
 


 
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Denise Rosier guardava a braccia conserte i comodini dei letti delle due pesti rosse.
Hugo Weasley e Lily Potter erano stati dimessi due giorni prima e figurarsi se si erano degnati di svuotare il loro capezzale da tutti i dolciumi che avevano ricevuto durante il ricovero. Nelle saltuarie ore in cui era passata per l’infermeria, aveva avuto l’occasione d’incontrare almeno una ventina di parenti che, in un qualche modo assolutamente misterioso alla statistica, riuscivano rigorosamente a sbagliare l’orario delle visite. E figurarsi se Madama Chips li aveva rimproverati o anche solo ammoniti. Forse Derek aveva ragione, dopotutto. Senza il forse, ma con il dopotutto.
Ora, Denise non aveva alcunché contro i Potter o i Weasley, ma per esperienza empirica non poteva negare o ritrattare la comodità sfacciata con la quale vedevano la vita, annessi tutti i dopotutto ed esclusi tutti i forse del caso. Come, ad esempio, il fatto che in quel momento Lily Luna Potter fosse sfrontatamente entrata in infermeria, si fosse seduta nel letto di fronte alla sua poltrona e avesse preso a fissarla.
Aveva sorvolato sulla sua presenza con una disinvoltura leggera e profondamente sincera. Perché il principale motivo per cui non aveva nulla contro quella famiglia era perché francamente non le importava nulla di ciò che li riguardava – non erano finali alla sua sopravvivenza o al suo benessere, nemmeno strategici o ispiratori perché, davvero, non erano così importanti e non lo pensava con cattiveria o rancore, semplicemente, per quanto la riguardava, erano persone con un accesso alla felicità più immediato in confronto agli altri; il motivo secondario era ancor più nobile da parte sua: Denise stimava i dopotutto perché era certa che al posto di una qualunque erede Weasley o al posto della Potter stessa, avrebbe fatto inno del suo sangue con la stessa sfrontatezza molesta ed autocelebrativa che veniva loro tanto naturale. Insomma, sì, Derek aveva ragione, ma la ragione era solo una consolazione e, in termini funzionali, una distrazione.
Alexander aveva un’opinione più audace a riguardo, invece. Ne avevano parlato una sera estiva, a casa Zabini, nella stanza degli ospiti che dividevano le prime due settimane di luglio e le ultime due di agosto, quando tornavano da villa Harper. Derek era passato a trovarli, senza avvertire della sua presenza prima o giustificarla dopo il suo improvviso arrivo. Lui e suo fratello ne avevano parlato seduti sul davanzale della finestra, guardando la sera calda ma ventosa dall’interno di una prigionia ereditaria; in realtà avevano cominciando discutendo d’altro: formalità convenzionali, formalità confidenziali, approfondimenti di specifiche formalità sfociati in spiegazioni o giustificazioni, la presa in considerazione di una di queste in particolare e, com’era prevedibile data la presenza fisica e verbale di Nott, l’inevitabile colpa dei Potter. Anche Alexander aveva convenuto che Derek aveva ragione, con un po’ più di discretezza, propria di chi non si fida per reazione volontaria, la stessa di uno starnuto e la presa di posizione volta ai fini del dibattito confidenziale, ma che lo aveva tradito, snudando il suo fallace disinteressamento a quella famiglia. Qualcuno deve accontentarsi dei ruoli secondari. Non possiamo essere tutti protagonisti. Aveva detto scrollando le spalle, come se fosse giunto ad una tale consapevolezza solo dopo essersi arreso; ma ad una consapevolezza tanto intima e molesta si giungeva solo dopo essersi arresi milioni di volte. Qualcuno si sacrificherà nel ruolo dell’antagonista; qualcun altro reciterà la parte del mendicante all’angolo della strada e sarà solo una comparsa. Non possiamo essere tutti eroi.
Denise aveva dodici anni. Era sdraiata sul tappeto centrale della stanza e cercava una posizione dalla quale potesse giungerle la brezza serale, ostacolata dai due giovani sul davanzale della finestra, all’epoca ragazzini, che si sprecavano a cercare di capire la vita degli altri, a danno della propria.
 
«Ne vuoi una?»
La Potter stava protendendo verso di lei una gelatina rosa e una richiesta di conversazione che rifiutò con la premura di un gesto di diniego e una parola di ringraziamento.
«Mmh.» commentò l’altra, scegliendo dal pacchetto un’altra gelatina. «Questa va bene?» gliene porse una verde.
Denise si voltò verso la dormiente Amelia Nott, prima di respingere nuovamente la sua offerta. Così, Lily Potter decise che porgerle l’intero pacchetto raccattato dal comodino del letto che aveva occupato Hugo durante il suo ricovero fosse un’azione molto più risolutiva. Denise non si sentì a disagio perché nel suo fare, non c’era nulla d’intenzionale: a lei non piacevano le gelatine sul serio.
«Stamattina mi sono svegliata tardi.» incominciò Lily, quando capì che la Rosier non l’avrebbe sollecitata a farlo. «Il che non succede mai quando ho una partita.» specificò immediatamente, con fare impulsivo. «In dormitorio non ho trovato nessuno, così sono rimasta sdraiata a pensare e ho deciso che saremmo diventate amiche.»
Denise batté le palpebre un paio di volte percependo lo stesso sapore delle gelatine che non mangiava mai in quelle parole.
«Perciò mi sono detta che era il caso di avvertirti, insomma è giusto che lo sappia anche tu.» le concesse, buttando le gelatine su un lettino senza badare quale. «Naturalmente l’ho detto a Hugo e lui ha suggerito di approcciare regalandoti le Orecchie Oblunghe di edizione limitata, sai è un segno di fiducia… non so, non mi convinceva. Ho pensato che le gelatine fossero un’idea migliore per battezzare la nostra lunga amicizia.»
«Ehm… frequentiamo gli stessi corsi da cinque anni e non ci hai mai rivolto la parola.» nessun rancore, solo verità meno improvvisata di quella della ragazza. «Ora tutt'un tratto vuoi diventare nostra amica?»
«No.» Lily scosse il capo. «Solo tua.» guardò oltre le sue spalle Amelia sdraiata sotto le lenzuola slavate di biancore. «Senza offesa, non ho nulla contro di te!» le urlò congiungendo le mani ad imbuto. Guardò, dunque, Denise con lo stesso fare confidenziale di poco prima e sussurrò: «Civetta con Hugo.» come se una tale constatazione fosse la parafrasi del suo dire e fare dialogico.
Denise si volse verso la Nott ancora addormentata e fu la seconda avveduta omissione di risposta da parte sua.
«Lo so.» sbuffò l’altra. «Preferisci le Orecchie Oblunghe.» roteò gli occhi ed incrociò le braccia contrariata. «Volevo portarne un paio in più con me, ma ora che hanno chiuso tutti i sottopassaggi non so come procurarmele e Hugo si è messo in testa che deve convincere Molly a fare quell’intervento ed è andato via in fretta, James non si stacca dalla Mappa, Fred fa da balia a Louis tutto il tempo, Roxanne convive con un Serpeverde, Dominique è fuori dai cancelli ad aspettare Céline, Lucy preferisce parlare con la sua ombra che con me e Rose è presa dalle sue cerimonie illegali di beneficenza.»
«Veramente io non ho idea di cosa siano.»
Lily Potter la guardò scandalizzata. «Tiri Vispi Weasley, piano terra, primo reparto, quarto e quinto scaffale. Come fai a non averle viste?»
Perché non c’era mai stata.
«Oh, non importa!» le disse con indulgenza, frugandosi tra le tasche. «Ho le mie, te le faccio vedere.» estrasse dei lunghi fili a tre estremità e le offrì quelle più sottili. «Chi vuoi origliare?»
«Nessuno.»
«Perfetto, allora iniziamo con qualcosa di accomodante.» annuì, arricciando le labbra. «Ti farai gli affari di Madama Chips, ma è per una buona causa.»
Denise osservò le sommità dei fili che le aveva dato, di un colore ocra chiaro e tenue, quasi lo stesso del biondo grano dei suoi capelli.
«Devi metterli nelle orecchie.» la informò, mentre faceva aderire il terzo cavo alla parete che divideva lo studio dell’infermiera.
 
«… schedato in tempo…»
 
Denise sobbalzò ed allontanò dall’orecchio le prolunghe. «Sta avendo un colloquio, Potter.»
«Chiamami pure Lily, cara.» fece l’altra rimettendole gli auricolari.
 
«… che al reparto Inguaribili non è mai stato segnalato nulla.»
«Certo che no, i protocolli delle visite vengono archiviati tre giorni dopo. Io passo al S. Mungo solo ciò che è urgente.»
«Se permette, Madama, il ragazzino aveva il diabete, era necessario che fosse continuamente monitorato.»
«E lo era, Auror Watson, due volte a settimana! Non c’è stata alcuna anomalia, tranne l’unica che ho comunicato al reparto la mattina stessa!»
«Io non sono una Guaritore, Madama. Ho bisogno di sapere da lei cosa è successo, mi servono i dettagli e le circostanze, non i sintomi.»
«Nessun sintomo, Auror Watson, niente dettagli o circostanze. Semplicemente il ragazzino si è presentato dicendo che non si sentiva bene. Quando ho effettuato un controllo, ho visto che aveva perso molto sangue, tutto qui. Come potrà capire lei stesso, anche se non è un Guaritore, la perdita di sangue non ha nulla a che fare col diabete.»
«Io qui leggo… Primo novembre, Joshua Thomas, perdita sostanziosa di sangue, ricovero di quattro giorni e dieta a base di carni rosse… Questo alle quattro del mattino. Come mai così presto?»
«Beh, invece di perdere tempo con me, potrebbe andare a cercarlo, metterlo in salvo e chiederlo direttamente a lui!»
 
La Potter la guardava con mani sui fianchi e un sorriso pieno sul volto. «Che dicono là dentro?» Denise tolse le Orecchie Oblunghe e gliele consegnò. «Ti piacciono non è vero? Il prossimo finesettimana di Hogsmeade le andiamo a prendere!»
«Le uscite sono state sospese fino a data da destinarsi… probabilmente per il resto dell’anno.» le fece notare.
«Significa solo che saremo amiche fino a data da destinarsi.» sospirò sentita Lily. «Intanto ci sono cinque cose che dovresti sapere.» si avvicinò, chiuse la mano a pugno per enumerarne le dita. «Sono allergica alla zucca.» Via il pollice. «Il mio colore preferito è il viola.» Anche l’indice venne scartato. «Mi piace ricevere collage per il mio compleanno perciò faremo tante foto, in modo che tu possa farne uno bellissimo e decorato con nastri viola il trentun marzo di ogni anno a venire.» contò il medio. «Ci tengo personalmente che tu assista alle mie partite future e faccia il tifo per me.» anulare. «E già che ci sei, ti chiedo gentilmente di sposare mio fratello, così potremo vederci più spesso, abitare vicine e imparentarci.» il mignolo chiuse il cerchio.
Denise cercò di mettersi comoda sulla poltrona che Derek aveva sostituito alla sedia al capezzale di Amelia. «Sinceramente…»
«Naturalmente parlo di James. Albus non è mutuabile finché non rendiamo inoffensiva la Black… credo che potrebbe essere capace di avvelenarti la colazione, il pranzo e pure la cena solo per l’illusione di averti uccisa tre volte.»
«No sul serio, io ti-»
«Oh, non sentirti in imbarazzo! James una volta ha detto che sei affascinante.» le confidò con fare risolutivo. «Ha aggiunto peccato che sia piccolina, ma ci possiamo lavorare.» promise annuendo con occhi semichiusi, riflessiva e minacciosa.
Denise inspirò aria in cerca di pazienza e diplomazia. Era disposta ad includere anche una forma di riconoscenza nella risposta disinteressatamente opinionista che cercava di profilarle con gentilezza e cortesia, ma Lily Potter ebbe l’impulso puramente opinionista di risparmiarle il tutto.
Si chinò su di lei e le lasciò uno sbarazzino bacio sulla guancia. «Dopo la partita passo da te. Mangeremo schifezze e ci racconteremo i nostri segreti imbarazzanti.»
 
Ora, Denise non aveva alcunché contro i Potter o i Weasley, ma per esperienza empirica non poteva negare o ritrattare la comodità sfacciata con la quale vedevano la vita, annessi tutti i dopotutto ed esclusi tutti i forse del caso. Questo perché Denise Rosier non sapeva che ad essere stato incaricato del mandato di arresto dei suoi genitori, dodici anni prima, fu l’attuale capo del dipartimento Auror, il signor Harry J. Potter.
 
 
 
 
 
 
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«Per un’accidenti di volta, dico una sola va giusto qualcosa in questo posto. Sapete da quanto non viene nominato un Serpeverde a fare la cronaca per le partite? Professore, io non la sto accusando di favoreggiare i Grifonrame, sto solo discutendo la questione pubblicamente… no, non ci rimanga male, se esistesse un circolo di tutte le persone che hanno reso facile la vita agli studenti di quella a casa, a danno di quelli delle altre, lei sarebbe in buona compagnia… dovreste affittare una diga per i vostri incontri e probabilmente non basterebbe…»
«… le permetto di-»
«Lasci qui il microfono! Le ho dett- Molli questo dannat- Oh, ecco le squadre che entrano! Figurarsi se i Grifonalluminio non erano i primi! Entra Potter, seguito da Weasley, da Weasley, ancora da Weasley e poi da Potter… Notate qualcosa di strano?»
Il professor Neville Paciock dovette aver cercato di lanciare un incantesimo perché dal suono acuto che il microfono aveva prodotto, fu chiaro che l’incanto era rimbalzato contro le onde sonore.
«No! Ehi, non ho detto nulla che non fosse evidente! Ma- senta un po’, vuole per caso...? D’accordo, ma lasci qui! Come dicevo, entra Potter primo, nonché capitano e cacciatore seguito dagli altri due, i Weasley neri. Subito dopo i battitori, le due pesti rosse, la Potter e Weasley e… Non ci posso credere! Quello è Baston! Non sarà un altro Weasley travestito? D’accordo, professore! Dopo il portiere Baston, segue la nuova nomina da Cercatore, Frank Paciock… Oh, ecco perché è tanto coinvolto, eh professore…»
La cronaca saltò per qualche secondo di troppo, abbastanza da attirare l’attenzione degli studenti sugli spalti.
«-co! Uno non può nemmeno fare una batt- non ho- La squadra di Serpeverde, signore e signori! Si sposti! Dicevo… finalmente accade qualcosa d’interessante! Guardateli quanto sono belli… sì, così si applaude, gente! Entra il cercatore e capitano Potter rinnegato, seguito dal portiere Warrington, i cacciatori Malfoy, Nott e Davies ed infine, belli come il sole, i due battitori Harper e Zabini!»
Derek prese alta quota, allontanandosi immediatamente al cerchio che Albus aveva creato per recitare il suo approssimativo discorso d’incoraggiamento al quale seguiva una stretta di mano in squadra. Nonostante indossasse i guanti imbottiti della divisa, l’unico modo che avrebbe avuto per disinfettarsi dal contatto con un Potter sarebbe stato usare l’acido e farsi corrodere la pelle.
Aspettò a distanza che avessero finito, prima di abbassarsi il giusto, accostandosi al fianco di Adam. «Cerca di stare o vicino a me oppure a Damian e se qualcosa non va, scendi immediatamente.»
Albus si avvicinò, cauto e comunque a distanza. «Che succede?»
«Nulla!» si affrettò a contrattare Adam, dando all’improvvisa risata liscia di Derek il tempo di dissolversi.
«Hai qualcosa da dire Nott?» il cielo burrascoso che li sovrastava era la perfetta metafora alla quale rimandare l’umore di Albus.
«Sì.» Derek non lo guardava, ma parlava come se lo stesse facendo. «Prendi quel cazzo di boccino il prima possibile.»
«… Non mi fermo certo a farvi notare la varietà anagrafica della squadra Serpeverde a differenza di quella Grifonzolfo, giusto per evitare che il professor Paciock cerchi di maledirmi un’altra volta… non mi guardi così, professore, stava per farlo sul serio, non si preoccupi resterà tra noi… Bene, i capitani fingono di stringersi le mani… accidenti che disagio… ringrazio chiunque abbia deciso di nominare entrambi i Potter capitani per questo momento di soddisfazione… Non può togliermi il microfono proprio ora che la stavo ringraziando! La partita sta per iniziare, si tolga!»
Derek sentì il fischio lontano, appiattito dal peso dell’atmosfera che lo divideva a brezze di vento freddo dal campo.
«Pluffa in mano alla Weasley… Qualcuno gliela leva! Zabini non fare il gentiluomo, tirale il bolide contro!»
Dovette scendere a picco per evitare che la pluffa passasse in mano a Potter, già fermo vicino agli anelli Serpeverde.
«Nott, che tu e la tua progenie siate benedetti a vita! Nott passa a Malfoy e Malfoy schiva il bolide di Weasley peste rossa giusto in tempo! Passa a Davies già posizionata, brava ragazza! Weasley marca Davies perché è un fallito e non sa che fare, Weasley e Davies hanno la pluffa, non capisco chi dei due, sono troppo… ma fanno a botte? Pluffa cade di mano a Davies ed è intercettata dalla Weasley… ma perché sono sempre in mezzo, qualcuno li tolga di torno! Harper colpisce la Weasley con un bolide ben assestato, grande! Malfoy prende immediatamente la pluffa e sfugge da Potter, anche lui sembra non aver aspirazioni nella vita quindi decide di marcarlo, ma gli va male! Haha! Malfoy fa in tempo a passare la pluffa a Davies, Davies fa una finta ben riuscita e la ripassa a Malfoy, Malfoy la passa a Nott e Nott… Se la tiene. Le due pesti rosse lo prendono di mira coi bolidi, sta’ attento! Sì, così ti voglio, uomo! Tira! Tira! DIECI PUNTI A SERPEVERDE!»
Derek riafferrò la pluffa prima che Liam Baston gliela potesse sottrarre, facendo un giro attorno agli anelli della porta Grifondoro e, seppur a ravvicinata distanza, tirò un’altra volta.
«Baston pare sia oppresso da tutti quei Potter e Weasley attorno perché si lascia sfuggire due tiri, uno dopo l’altro! Siamo venti a zero, stronzetti!»
Non fu inverosimile prevedere l’ennesimo scontro di ruoli tra il professor Paciock e Conrad, dalla torre centrale degli spalti e la cronaca saltò per almeno tre minuti di confronto tra i due, in cui Grifondoro fece in tempo a riprendersi e segnare un paio di volte, frapposte da un’altra Serpeverde per mano di Atlanta Davies.
«Qual è la punizione per aver pietrificato un professore? No, sto scherzando, è qui che m’inveisce contro, però non è una cattiva idea… va bene, va bene, insomma addolorato vi comunico che la pluffa è in mano a Potter primo e che ha appena schivato il bolide di Zabini… Zabini dov’è finita la tua mira?! Ma… sono io o fa sempre più freddo, insomma una giornata peggiore in cui fissare la partita non l’avete trovata? Dicevo, a rimediare ci prova Harper, ma il suo bolide viene deviato dalla mazza della Potter e rispedito contro Malfoy… oh, ma che diamine, ce l’hanno con lui! Potter passa a Weasley, ma interviene Nott a marcarlo e Warrington si prepara a parare il tiro… ehi, fermi tutti, è il boccino quello che Potter e Paciock stanno inseguendo…? Per Salazar, stanno precipitando, ma… non vedo nessun bocc-»
Derek si arrestò all’improvviso a mezz’aria, ritrovandosi tra Potter – che come lui si era fermato bruscamente, con la pluffa ancora in mano – e Malfoy – sospeso nell’atto di guardarsi attorno.
«Oh, mio Dio, cosa sono quei…? Non saranno…?»
 
 


 
 
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Lysander si cercò sul fondo di un bicchiere.
I lineamenti del suo viso barcollavano da fermi prima nel Whiskey, poi nel doppio strato di vetro sul fondo del bicchiere. Le sue occhiaie riuscivano a diluirsi nel liquido, facendo del suo volto un unico livido appannato e trasparente. Si cercò ancora e non seppe se trovarsi nell'alcol o in tutto ciò che c'era prima, non capì se l'immagine di sé che lo spiava da quel fondo d'idee liquefatte fosse riflessa nel liquido o nel vetro: se fosse la metà piena o la metà vuota del bicchiere.
«Ci vuoi del ghiaccio?»
Alice si sporse sul bancone e il piccolo giullare sul fondo del vetro sorrise di presenza, deformando il suo volto di quel poco che sarebbe bastato a chiunque per confonderlo con Lorcan.
I Tre Manici di Scopa era uno dei pochi locali di Hogsmeade che avevano un orario settimanale continuo; la maggior parte dei negozi aprivano solo il finesettimana, altri addirittura solamente in occasione delle gite degli studenti di Hogwarts: l'apertura infrasettimanale richiedeva un dispendio che non riusciva ad essere ricompensato dalle entrate, soprattutto dopo che gli Auror avevano chiuso diverse strade e si erano insediati a turni nella via d'incrocio principale, dal rapimento di Joshua Thomas. Gli affari andavano a rilento, per certi versi non andavano proprio, solo un locale ormai storico come I Tre Manici riusciva a campare il giusto con una ventina di bevande vendute nel migliore dei giorni.
Da più di una settimana Alice Paciock gestiva sola il locale. Nelle ultime sere, Lysander era passato a ridosso della pioggia e aveva spiato dal vetro appannato – come il giullare violaceo che gli rifletteva il bicchiere – che gli fu cornice dello stesso quadro di cui ora faceva parte anche lui: i tre barboni nell'ultimo tavolo in fondo che parlavano a tono rude e voce premeditatamente piana anche e soprattutto laddove non era d'onore che fosse udita; i signori anziani sul bancone, affacciati sulle ultime edizioni della Gazzetta del Profeta e due altri quotidiani locali che commentavano animatamente scontrosi, supponendo tutti i possibili complotti dietro il caso del ragazzino negro, per me sono stati i tedeschi, ci rimetto la gamba buona se non c'entran qualcosa! E la questione non si risolveva lì perché l'amico di vecchia data e di Vodka del signore anziano era certo che, invece, fosse colpa dei russi.
Il punto di fuga partiva e terminava dal bicchiere pulito che Alice reggeva con una mano e asciugava con uno straccio nell'altra; lei, del punto di fuga, era l'aureola. Eppure il giullare nel bicchiere aveva il suo stesso occhio di rigurgito per il quadro che stava osservando, ma ne faceva parte: la finestra dalla quale spiava prima di entrare a passo d'ombra non era che una cornice interna del quadro, anch'essa solo acqua e tempere a toni scuri, gli stessi del bancone, i tavoli e le sedie.
Lui era stato pennellato di spalle, bicromo e in chiaroscuro, come il bicchiere che aveva in mano, perché il pittore lo conosceva bene, senza cornici. Perché aveva visto nel suo volto la risata sincera del giullare sul fondo del bicchiere e aveva deciso di rifletterla nel vetro della finestra dietro la quale spiava il suo quadro e, dolcemente, lo profanava di sublime. Per la pioggia che picchiettava il vetro e, finemente, anticipava la metà piena del bicchiere che lui non era.
Si alzò non appena Alice mise giù il vassoio che aveva in mano - lucido, come il riflesso che gli restituiva - e gli si avvicinò con la vaschetta di ghiaccio, in cambio delle poche parole che da lui avrebbe mai preteso.
«Vai già via?»
Le sue parole avevano lo stesso sapore del Whiskey, lo stesso retrogusto amaro, la stessa dose di alcol. Per questo il giullare ne rideva in quel modo strascicato e derisorio, perché riempivano la metà piena del bicchiere. Per questo lui se ne andava lasciando il bicchiere mezzo pieno, per riuscire a vederlo mezzo vuoto. Finché va bene.
«Ti saluta Lorcan.»
Non era vero. Era solo la bugia più bella che sapesse dire ad alta voce.
Alice s'indebolì in un sorriso dolce - perché amaro, un sorriso sciolto come il ghiaccio che aveva voluto offrirgli in cambio della bugia e il dolore nella sua bellezza, un sorriso agiato in confidenza sulle sue labbra e sugli occhi di Lysander.
Gli rispose, rispose di timidezza e debole felicità, chiedendogli di ricambiare il saluto e lui proibì severamente al giullare che lo seguiva, ora aggrappato alle sue spalle, di trascriversi le parole di Alice che, in ogni modo, rimanevano aggrappate in gola e sullo stomaco - come il Whiskey, perché sapeva che altrimenti il giullare gliele avrebbe recitate e cantate, tenendolo sveglio tutta la notte - come l'alcol.
Una volta lui e il giullare avevano fatto un patto, sul fondo di un bicchier d'acqua che non aveva bevuto: Lysander avrebbe ascoltato ogni opera che il giullare avesse voluto recitare, in cambio il giullare non avrebbe mai raccontato la storia di Lysander.
Le disse che sarebbe passato per les toilettes prima di uscire, col sorriso di Lorcan pizzicato sulle guance e la risata del giullare a solleticargli le orecchie.
Camminò a passo intruso, come quello di un peregrino in una terra sacra, che gli giurava di cancellare le sue orme, non appena fosse passato. Le avrebbe cancellate con vento e sabbia, nebbia e pioggia in chiaroscuro.
Camminò a passo amputato come quello di un condannato a morte per impiccagione. Il giullare se ne accorse e gli mostrò come sistemarsi la ghigliottina attorno al collo: per la prossima volta, cantò.
Camminò a passo muto e solitario, che cancellava il precedente e non sapeva anticipare il successivo. Il passo di chi va via, va solo via, non resta, non è da nessuna parte, non c'è; il passo di chi non ha storia cantata, lo tormentò il giullare aggrappato alla sua gobba.
Via, Lysander. Va’ via.
Nel bagno non c'erano specchi, non c'erano finestre e la luce non era abbastanza nitida da rimarcare la sua ombra; nulla che potesse provargli quanto fosse solo, quanto sostanzialmente e tangibilmente fosse solo. E lo sentiva, come un mal di pancia vertiginoso – illusorio, ma dolente. Da parecchio tempo, ormai, la solitudine era l’unico rumore che sentisse – ed era un rumore piatto, di fondo, echeggiava ovunque; da parecchio tempo, ormai, la solitudine era il dolore più bello che avvertisse. Ovunque andasse c’era l’eco della sua solitudine che rimbalzava contro specchi, ombre, vetri di finestre chiuse e riecheggiava: via, Lysander. Va’ via.
Erano momenti di buio – il rumore era così forte per l’udito da freddargli gli altri sensi. Il giullare non c’era più, non c’era più nessuno perché nessun altro sapeva impersonare meglio il ruolo del giullare. C’era solo lui, la metà vuota del bicchiere, cieco e sordo di solitudine – in chiaroscuro, come le due metà della metà che lui era. E l’altra metà, piena com’era stato il bicchiere delle dolci ed amare parole di Alice, che lo seguiva sottoforma di Lorcan. Finché va bene, Lysander. E va bene se vai via. Va’ via.
Camminò a pioggia contro il primo cubicolo, s’infranse imponente e consacrato contro il legno ruvido ed inespressivo.
Si chiuse l’anta alle spalle, girando la serratura due volte.
Espirò aria mai inspirata, spalmando le mani contro le piastrelle del bagno, sudate di sporco. Sudò anche lui, sudò segreti sudici e volgari che immediatamente si mimetizzarono nel lerciume delle piastrelle. Restò fermo. Inchinato in una pace immobile nel suo dolore frenetico alla pancia perché in realtà inesistente: non era pace, era solitudine. Ma era il modo più bello in cui potesse andar bene, perché era il più doloroso in cui potesse andare via. Va via.
Si chinò e vomitò, abbracciandosi la vita: abbracciando la sua solitudine.
E finì di vomitare prima di piangere.
Quando il giullare, il giullare sì, gli aveva mostrato come stringere il cappio attorno al collo, aveva detto per la prossima volta: prima il vomito, poi le lacrime. Una morte alla volta.
Forse per questo rimase in ginocchio e pianse prostrato in preghiera di perdono al pittore e tutte le pennellate che avevan violato e disertato il quadro. Pianse, solo, per altri.
Aspettò di aver pianto anche il Whiskey, prima di concedersi un singhiozzo, uno solo, il singhiozzo solista di un uomo che non sa piangere per abitudine e solitudine; aspettò di aver pianto la metà piena del bicchiere, la sua metà e le dolci parole, solo quelle dolci, della metà della sua metà, prima di elargire vergognoso un singhiozzo per la metà vuota che era; aspettò di aver pianto anche la vergogna per quelle lacrime, nel sottofondo delle risate beffarde del giullare.
Sono tre i momenti in cui ogni uomo è indissolubilmente solo e nulla al mondo è in grado di negarlo: pianto, pena e morte. E quel bagno odorava di tutti e tre.
 
«Lysander!» la porta esterna delle toilettes maschili fu scossa a colpi. «Lys, i Dissennatori! Dissennatori ad Hogwarts!»
 
Lysander si cercò sul fondo del suo vomito, questa volta.
Fu il suo modo di guardare in faccia la solitudine. Ora che lo stava tradendo come lui stesso stava attento a tradire: in faccia.
Perché ora che non c’era più modo che andasse bene, non riusciva più a vedere la metà vuota, ma solo quella piena del bicchiere, di tutto ciò che restava: lacrime, vomito, sangue; pianto, pena, morte.
Perché il vuoto non esiste. Il giullare non esiste. Il quadro non esiste. Tu non esisti, Lysander.
Ora, non hai più modo di andartene.
Ora, non c’è più modo perché vada bene.
 
 
 
Che fatale mi sia l'ombra mia dove,
come il fato, per angoli me insegue,
me pedina, e ombre manca e fugge.
Che cara m'incomba l'ombra mia quando
per mano la prendo e con piè fermo erro,
in giro, come risa d'altri su me di scherno.
Ma di scherno mi son'i cari senza sorte,
ma di scherno mi è sorte senza i cari,
mancati cari, fuggiti cari: in morte.
-Assolo, II
 
 
 
 
 
§
 
 
 
 
 
Adam Zabini aveva trovato Lucy Weasley nell’aula di Antiche Rune del terzo piano.
«Avete visto Weasley, Louis Weasley?» aveva chiesto precipitoso, ancora affannato e stremato per la corsa tra corridoi e scale. «Che ci fate qui poi? Dovete andare in Sala Grande!»
Il professore aveva precipitosamente ordinato a tutti di rinchiudersi in Sala Grande e chiamato all’appello chiunque sapesse evocare un Patronus, quindi studenti del settimo anno, a fare di guardia ai portoni. Tre Dissennatori erano stati contati, ma Adam non era rimasto abbastanza per verificare se ce ne fossero altri.
Il suo primo istinto era stato quello di urlare, il secondo quello di cercare Damian nella confusione nel campo e sugli spalti. Subito dopo esser giunto al giusto compromesso urlando il suo nome, volle solo trovare Derek e Alexander per andare immediatamente in Sala Grande e non uscirne; ma Alexander era stato reclutato tra gli studenti del settimo anno, Derek era dovuto scappare in infermeria per cercare la sorella e Damian stava litigando con la Weasley per un motivo che per loro pareva aver la sua coerenza logico-cronologica.
Era quasi caduto dalla scopa nel tentativo di evitare che iniziassero a picchiarsi, ma la Weasley gli era corsa in contro, nel fango della pioggia in campo, e gli aveva gridato addosso. Adam ci aveva messo qualche secondo tardo a comprendere le sue parole. Il mantello nero in bagno, non capisci? Lo stesso dei Dissennatori!
Era atterrato anche lui tra il fango, buttando la scopa di lato, in una pozzanghera. Damian stava scuotendo il capo, chiedendogli mimeticamente di lasciare stare, in qualunque caso doveva lasciare perdere.
Idiota d’un Zabini, devi andare a cercare Louis, ora! Roxanne lo aveva afferrato dalle spalle ed aveva preso a scuoterlo. Devi dirgli tutto! Raccontagli tutto quanto!
«Non è sicuro che rimaniate qua, dovete andare in Sala Grande dove stanno evocando i Patronus.»
Lucy Weasley lo pungeva con uno sguardo spigoloso, lo sguardo di chi sta sempre all’angolo ed è abituato a guardare solo con la coda dell’occhio. «Ho visto Louis.» gli disse con voce roca ed affievolita, una voce che in un altro momento, in un’altra situazione Adam avrebbe notato e ricordato. «Stava salendo le scale centrali.»
Quasi gli mancò l’aria quando cercò di associare il danzare delle sue labbra nel suono ventoso che emettevano. «Ehi, stai bene? Va… va tutto bene?» voleva avvicinarsi e cercarsi una risposta da solo, nel pallore lampeggiante della sua pelle e quell’innaturale schiarimento a chiazze nei capelli e negli occhi di lei, ma il modo in cui lo stava guardando era come una punta affilata ad un pelo di contatto con il suo petto che non solo gli impediva di muoversi di un solo passo, ma addirittura d’espirare tutt’un groppo d’aria che non si era reso conto di star trattenendo.
«Sì, stiamo bene, grazie.»
«D’accordo.» Aveva fatto un passo indietro, ma cercava ancora conferma nelle macchie verdi degli occhi di Lucy ed il bellissimo luccichio col quale lo stavano ingannando.
«Vattene.»
«Sì, vattene.»
 
La porta dell’aula venne sbattuta con esitazione, ma Lucy stava ancora contando i passi che l’avevano superata in entrata e quelli che l’avevano raggiunta in uscita. C’era una differenza di tempi ed intenzioni che le parlava in rumori teneri e promettenti.
Luke le accarezzò i capelli, abbandonandola tremante alla sensibilità del suo tocco impalpabile come un soffio d’aria assiderata.
«Non siamo più soli, ora.» sorrise, sorrise col suo sorriso; le stava rubando il sorriso. «Non sarà mai più come prima.»
«Non sorridere per me, posso farlo da sola.»
«Allora perché stai piangendo?» la accarezzò ancora sui capelli dove, innaturalmente, già da diverso tempo, si stavano schiarendo. «Perché, Lucy? Perché non riesci a capire cosa significa tutto questo? Perché non sei in grado di vivere, Lucy?»
«Smettila di sorridere.»
«Ora ci è concesso vivere. Ora ci è permesso esistere.» Rise, allora. E quella risata era oltre la sua. «Perché non riesci a sentirlo?»
Perché stava morendo. Lei stava morendo. Lei… lei chi?
«Lo sai cosa significa tutto questo?» riprese ad accarezzarla.
Non significava niente, nulla.
«L’abbiamo trovato.» le rubò di nuovo il sorriso e lo battezzò sul proprio volto informe. «Abbiamo trovato la sua parte migliore.»
«Non… non ne siamo sicuri… non credo, Luke. No.»
Rise sguaiatamente, istericamente. «Non vedi? Ora ne ho una anch’io.» si guardò alle spalle, raccogliendo la sua risata in un sorriso unico, con due fossette profonde come sue buche: una delle due sicuramente per lei.
Lucy guardò oltre la sua spalla i vetri ottagonali sopra i lavandini, ma lui scosse il capo davanti a lei e la nuca nel riflesso sugli specchi appannati di sporco come occhi di lacrime – in pianto, in pena, in morte. Continuò ad esprimere diniego con un ticchettio occlusivo dentale che non andava a ritmo dei secondi perché era troppo eccitato per l’impazienza, finché lei non fece penzolare lo sguardo a qualche soffio d’aria – come le sue carezze – dal pavimento.
Allora Luke batté le mani con la stessa mancata musicalità del suo diniego vocale. «Non è bellissima?» si commosse, sorridendo orgoglioso.
Eccola lì, nitida come una certezza: l’ombra di Luke che accarezzava i capelli alla sua.
«Ora che abbiamo trovato la sua parte migliore, non ci resta che distruggerla, ma lentamente.» promise. «Come lui ci ha creati.»
 
 
 
 
 
E tu morta giacerai né mai ricordo di te
ci sarà nemmeno in futuro. Tu non partecipi alle rose
della Pieria. Ma ignota nella casa di Ade,
volata via, vagherai qua e là tra i morti.

 
-Saffo, 168 B
 
 
 
 
 

 
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Un capello biondo gli era caduto in grembo e curioso l’aveva guardato a testa in giù.
«Mama, das gehört dir!»
Aveva un po’ camminato, un po’ gattonato verso di lei, ma l’uomo incappucciato l’aveva sottratto alle braccia della madre con un altro strattone, lo stesso delle due volte precedenti.
Suo padre urlava, ma parlava in inglese e le poche parole che ai suoi quattro anni vantava di sapere erano tedesche.
«Dadi, das ist Mom!»
Strinse il capello biondo in un pugno impacciato e cicciotto e lo guardo di nuovo a testa in giù.
Un altro signore incappucciato gli stava puntando contro quello che, ad una tale tenera età, aveva visto come un bastone di legno. Trovò il gesto buffo e si mise a ridere, ma poi sua madre urlò e si mise, invece, a piangere.
Qualcuno, uno dei tre uomini col mantello nero che si erano intrufolati in casa loro quella notte, lo aveva sollevato dal suo maglioncino di lana e lo aveva portato dalla madre. Non poteva saperlo, ma l’uomo le aveva ordinato di zittirlo.
Lui aveva abbracciato la sua mamma, questo lo ricordava bene, benissimo; ma, invece di smettere di piangere, aveva continuato più forte perché quegli uomini stavano colpendo il suo papà.
 
Il Dissennatore alle sue spalle riproduceva glaciale le urla di sua madre, facendogli sanguinare le orecchie.
Il corridoio stava ghiacciando e Derek stava gelando, ma trovò la forza d’imbucarsi nella prima stanza di cui trovò la porta aperta, lungo il corridoio ghiacciato dei sotterranei.
 
«Nicht mein Sohn!»
Sua madre non stava più gridando, li stava pregando.
«Er tat nichts! Nimm mich! Töte mich! Sparen mein Sohn, bitte! Bitte!»
Quando l’uomo alle spalle di sua madre la prese per i capelli, lui tirò su il capo dal suo seno e riuscì a voltarsi il giusto per vedere suo padre steso a terra in una pozza di sangue alimentata dalla lama che aveva conficcata sotto le costole. Era ancora vivo. Sobbalzava a ritmo dei singhiozzi della madre dal tremore, ma era ancora vivo.
 
Riuscì anche a chiudersi la porta dietro e fu qualche secondo di speranza nel buio che ebbe gli stessi brividi della vista di suo padre agonizzante nel pavimento della cucina, dietro le sue palpebre.
 
Prima che l’uomo lo prendesse per il maglione di nuovo, fece in tempo ad aggrapparsi alla vestaglia della madre.
La vide morire in un battito di ciglia: vide solo il prima ed il dopo. Un momento aveva gli occhi aperti e sua mamma gridava in lacrime, l’attimo dopo li chiudeva e si sentiva tirare indietro con veemenza, la stessa con la quale lui stringeva i nastri della vestaglia di seta della donna e li stappava; e infine, quando apriva gli occhi blu bagnati, aveva appena la visuale del collo spezzato di sua madre ed il silenzio. Silenzio assoluto, rotto, tronco. Il silenzio di un vaso, il vaso d’argilla fatto da sua mamma, che crollava a terra in mille e mille scaglie, mentre lui aveva gli occhi troppo annebbiati dall’orrore per vedere chi era stato a farlo cadere. Il silenzio di una porta chiusa, dietro la quale venne nascosto il cadavere di sua madre e, subito dopo, quello di suo padre. Il silenzio dei morti.
 
C’era silenzio anche in quella stanza perciò, quando cadde a terra, il tonfo che produsse fu piatto e scomparì senza rimbombare.
Un fruscio alla sua destra lo allarmò e credette che il Dissennatore gli avesse rubato anche quei pochi secondi di vantaggio.
Quando riaprì gli occhi, sua madre gli dava le spalle, accucciata al suo fianco.
Tossiva d’affanno di vivere, Derek riusciva a sentirlo nelle vene.
«Mama, bist du?»
Strisciò tra la polvere fino alle sue spalle e le accarezzò i capelli biondi con il respiro, cingendole la vita.
«Mama… Alles ist gut, wir sind zusammen, jetzt.»
 
 
Derek Nott non si chiamava Derek Nott. Non importava quanto lo fosse.
Il suo nome era Henri, il suo secondo nome Christopher; il suo cognome, invece, un’altra storia.
Era nato a Freiburg, in Germania, da madre tedesca e padre di origini anglofrancesi. All’età di quattro anni tre uomini non identificati uccisero i suoi genitori e lo portarono via, in Inghilterra. Nessuno indagò mai abbastanza sulla morte babbana dei suoi genitori, ma quando ci pensava col senno di poi, si rendeva conto che gli Auror erano troppo impegnati ad arrestare i Rosier per preoccuparsene.
Henri Christopher fu raccattato, non si seppe mai esattamente come o dove, da Theodor Nott e la moglie, i quali rinunciarono all’affidamento di Alexander e Denise persuasi dall’eredità che spettava a lui, una volta raggiunta la maggiore età. Avevano stabilito le regole immediatamente: sei stato adottato perché i tuoi genitori sono morti, ma noi ti vogliamo bene lo stesso e ti abbiamo accolto in casa nostra come un figlio da quando avevi quattro anni soltanto per darti un futuro migliore, che altrimenti con difficoltà avresti avuto, nonostante non sia stato facile, oltre che poco conveniente abbiamo fatto il possibile; dividere l’eredità con noi, una volta che sarai maggiorenne è il minimo che puoi fare.
Ecco ciò che c’era dietro: ecco perché non importava. Semplicemente perché il vaso continuava ad essere rotto, la porta ad essere chiusa ed i morti, per sempre, morti.
 
 
«Stiamo morendo?» chiese Evelyn, stringendo le mani che l’abbracciavano ed infilando le dita nei nastri tra i loro palmi.
Henri Christopher le sospirò nei capelli. «Nicht noch einmal.»
 
 
 
 

 
 
________________________
 
 
 


 
 
Adam lo aveva trovato seduto al centro del corridoio del quinto piano, a gambe incrociate, con il suo Patronus alle spalle.
Il corridoio era assolutamente deserto, fatta eccezione di loro due. La notte improvvisa era una ninna nanna, delicata e senza fondo, in sottofondo.
Louis lo guardava ad occhi chiusi. Adam s’inginocchiò di fronte a lui e con un sospiro gli baciò la fronte.
«È una musa.» gli disse soltanto. «Il mio Patronus è una musa.»
Alzò lo sguardo verso la fonte di luce, guidato dalle sue parole, ma quando le riabbassò accecato, Louis era scomparso.
 
 




 
 
§§§
 
 
 



 
Venticinque giorni dopo
 
 
 
Louis alzò le mani ed i cancelli si aprirono.
Vibrarono interrotti all’indietro prima che potesse toccarli, cigolarono contro vento precoci, pur di precederlo, si aprirono un varco, rinunciando alla loro unione, ansiosi di approdare al momento giusto. Era lui ad essere fuori tempo.
Il pavimento freddo del quinto piano si era dissolto in erba alta ed umida sotto il suo tocco.
Barcollò su un piede, sull’altro, su entrambi e poi sulle ginocchia. Barcollò a quattro zampe, gli barcollò l’aria dentro e il vento attorno; si rimise in piedi solo dopo aver capito come barcollargli contro.
Camminò, allora, in avanti, mantenendo il ritmo che aveva instaurato con le ginocchia ed il vento tremanti; camminò in avanti, percependo il sangue uscire caldo dalle ferite sulle gambe ed accarezzarlo come avrebbe potuto far meglio solo il vento; camminò in avanti perché non c’erano altre strade, non c’era nessun’altra via, alcun incrocio o varco, scorciatoia o sottopassaggio. C’era una direzione: la fine; un solo verso: l’inizio.
Aprì gli occhi.
Il suo sguardo andò a sbattere direttamente contro il portone del castello, inciampando sulla soglia. Louis lo soccorse tenendolo fisso e non spostandolo altrove, e cercando di andargli incontro più fretta.
Guardò in basso, l’erba di un prato già tosato, le scarpe bagnate della pioggia che doveva arrivare, il fango di una stagione passata, il sangue prematuro; guardò le sue mani, le schegge, i graffi, le ustioni, le ferite che si chiudevano ad ogni fugace secondo di quel perenne momento, per riaprirsi quando avrebbero dovuto.
Così, guardò in alto, guardò il cielo. Sarebbe piovuto da lì a poco.
Fu il primo motivo per cui volle piangere.
Erano gocce quelle che gli pizzicavano le palpebre ogni qualvolta socchiudeva lo sguardo: era la stessa pioggia che si era lasciato dietro; amichevole, affettuosa, premurosa, pronta a ritrovarlo. Pioveva già prima di piovere davvero, pioveva sin dall’inizio, prima e dopo la fine, pioveva mentre aspettava che cominciasse, subito dopo che il tutto si era concluso, pioveva mentre andavano incontro alla fine, ricorsi dall’inizio.
Si asciugò gli occhi sulla manica del maglione, imbrattandoli coi residui di sangue ormai incrostato. Si fermò non appena giunse ai piedi del portone centrale, spalancato. Si guardò attorno, contemplando il silenzio tacito, fugace nel perenne.
Chiuse gli occhi e gli scappò finalmente il primo singhiozzo; poteva permetterselo, era tornato a casa.
 
Hogwarts ridacchiava sottovoce, sibilando le stesse profezie che aveva esalato prematuro ed esagitato il vento sulla pelle di Louis. Gli confidò il futuro che celava in ciascun mattone scuro all’angolo acuto ogni muro. Gli giurò il migliore dei benvenuti, tra cori di saluti ed assoli di congedi, ornati tappeti rossi srotolati ai suoi piedi, profumati strati di alissi or colorati or candidi, chinati ad alti e folti cipressi congiunti e separati da ombre in cui nascondere i segreti precedenti ed antecedenti tutti i suoi invalidi ed avventati tormenti. Allora lo derise, sorrise e poi rise, delle sue paure improvvise alle quali promise speranze indecise, incise sulle lapidi insieme alle pretese recise tra le quali frappose tutti i se con cui in principio lo offese ed infine lo uccise. Fu il suo modo di scusarsi cortese quello d’indicargli dove nascondere gli scudi delle armature, concessi in nome delle battaglie future e non delle perdite premature, e di accoglierlo esiliato, mostrandogli il suo futuro nel passato.
Louis prese parte al rito da bentornato, con un singulto ridacchiato che fu il suo commiato da benarrivato, chinato sul varco duettò coi solisti col solo fiato e si beò dell’applauso quando l’ebbe oltrepassato.
 
L’atrio era caldo, musicale e natalizio.
Fred e James furono i primi che vide, i primi che lo videro ed allora fu un momento di grida ovunque attorno a lui.
«Voglio dormire.»
Fu l’unico suo desiderio, come se fosse l’ultimo; ma Louis sapeva di tormento, e ne odorava anche, che in realtà era solo il primo degli ultimi.
Fred lo stava sorreggendo, ci aveva messo un po’ a realizzarlo. James era andato a chiamare qualcuno.
«Credevamo fossi…!»
Non smettevano di dirlo e smentirlo. Credevamo fossi morto. Eppure non era della sua morte ad essere reduce, ma avrebbe dato tutto ciò che aveva affinché lo fosse.
«Voglio dormire, ti prego.»
«Vai a chiamare gli zii!» stava urlando una voce alle sue spalle. «Dì a Dominique e Molly di scendere!»
«Molly?» ebbe il coraggio di chiedere.
«Louis, il tuo sogno non c’entrava niente con lei.» gli disse Fred e lo disse guardandolo negli occhi. «Ha fatto l’intervento ed è riuscito. Louis, Molly è guarita.»
«Oh Dio, io voglio solo… voglio solo dormire.»
«Dove sei stato tutto questo tempo?!» James.
Alla fine, ma come dirtelo?
 
 
Segue e insegue anche se in realtà è fermo. Che cos’è?
Il tempo.
 
 
 
 

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Capitolo 12
*** Buonanotte - vol. I ***


Rimembranze:
  • Nello scorso capitolo abbiamo saputo che c’è qualcun altro che riesce vedere Luke oltre a Lucy, una persona sola - ed è Adam. Abbiamo anche appreso che Luke è in possesso di un’ombra tutta sua e questo prova quanto si stia rafforzando ai danni di Lucy (e Molly).
  • Durante l’attacco dei Dissennatori Derek Nott (che era corso in infermeria a cercare la sorella, senza trovarla) finisce in una stanza dei sotterranei asfissiato ed in ipotermia a causa dell’effetto che i Dissennatori hanno su di lui. Attraverso un’analessi abbiamo scoperto che il suo vero nome è Henri Christopher e che fu adottato dai Nott. Questi, in cambio di metà della sua eredità una volta divenuto maggiorenne, hanno rinunciato alla tutela dei Rosier (Alexander e Denise) e l’hanno preso in custodia. Il Cielo volle che finisse nella stessa stanza in cui era rimasta rintanata Evelyn da qualche giorno, all’insaputa delle poche persone che si erano accorte della sua assenza.
  • Per quanto riguarda Amelia eravamo rimasti alla sua morbosa cotta per Fred e ai suoi infortuni che l’hanno costretta a rimanere in infermeria per settimane, togliendola dalla scena centrale della narrazione: dapprima l’ambiguo avvenimento alla festa di Halloween; successivamente azioni autolesioniste; ancor dopo, la sua presenza, assieme a Hugo e Lily, durante l’attacco che ha portato al rapimento di Joshua Thomas.
  • Per quanto riguarda Joshua ed il suo rapimento/morte-non-ancora-confermata abbiamo saputo qualche cosina in più che potrebbe essere fondamentale: quando Denise Rosier ha per puro caso origliato una parte di conversazione tra l’infermiera e un Auror ha sentito loro dire che si era presentato all’inizio di novembre, fin troppo presto, in infermeria perché aveva perso troppo sangue.
  • Roxanne è in una situazione di disperazione estrema, tale che le ha fatto mettere da parte la propria morale: sappiamo che sta tentando di accumulare denaro il più possibile per l’intervento della madre e che a suo modo Damian la sta aiutando, senza far passare l’aiuto per gesto caritatevole.
  • Ad Hogwarts qualcuno fa il doppio gioco.
 

 
XII.
Buonanotte
Vol. I - Il riposo di Louis


 
Si riavvolge il nastro strappato sott’occhi
del colpevole e di chi colpa volle
ma non svolse, non sconvolse i fiocchi
valori vuoti, dolci in si bemolle

così, gli strappi vertono in rintocchi
sovversi dal vero dell’avvenir folle
verso l’avverso, com’il nastro sott’occhi,
volge al termine ciò che virtù non volle.

Mai più, tu dici? Dico io, sentiti!
Mai più, sì, mai più nastri di menzogne
in si bemolle, di cui m’hai fatto concerto.

Guardami e menti, giura e pentiti,
ora sul tuo volto riconosco le vergogne,
ti guardo e mento, giuro e mi converto.

Sonetto I, Il folle verso





E come a gracidar si sta la rana
col muso fuor de l’acqua, quando sogna
di spigolar sovente la villana;

livide, insin là dove appar vergogna
eran l’ombre dolenti ne la ghiaccia,
mettendo i denti in nota di cicogna.

Ognuna in giù tenea volta la faccia;
da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo
tra lor testimonianza si procaccia.

Dante Alighieri, Commedia, Inferno, XXXII


 
§§§


 
Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts – 21 Ottobre 1972
 
Peter Minus lo guardava mentre rideva.
Ed era grottesco: Peter che rideva, come Peter rideva e Peter che lo guardava mentre rideva in quel modo.
Era bastato il Levicorpus di James e la conseguente battuta azzeccata di Sirius: era bastato Severus Piton a testa in giù e Peter aveva squittito la più acuta e fastidiosa risatina che Regulus avrebbe mai udito in un totale di diciannove anni di vita sacrificata.
Eppure Severus a testa in giù non era, davvero non lo era, così divertente – anche da quello che poteva essere l’altro punto di vista; così come la battuta sulle sue mutande: davvero nulla in quel momento faceva ridere.
«Non fa ridere.» aveva osato proferire quando Peter aveva suggerito di far sparire gli indumenti del Serpeverde ancora a testa in giù.
«Ah, allora parli!» James Potter gli aveva sorriso ed era stato quel sorriso, in quell’istante spropositato, a fargli davvero paura: il Grifondoro sembrava piacevolmente sorpreso sul serio, quasi aspettasse solamente la sua reazione. Ma quanta paura gli facesse la bellezza del sorriso di James era un’altra storia che non potrà mai essere raccontata perché non sarà mai vissuta.
«Mettetelo giù.»
Per un istante, mite e frazionario, che Regulus avrebbe rivissuto ed alimentato di significato fino alla morte pochi anni dopo, gli sembrò che James Potter avesse sinceramente ascoltato le sue due parole, che le avesse sinceramente prese in considerazione. Ma Peter Minus aveva nuovamente riso, squittito acutamente, facendo delle sue parole, due parole, due soltanto, grottesca intromissione ed allora gli occhi di Potter si erano improvvisamente illuminati, distratti.
«Difendi Mocciosus?»
Aveva una voce fresca, vigorosa ed intonata, omogenea nella melodia. Regulus avrebbe avuto tristi possibilità, in occasione e in contesto, di sentirla nella vita; mai l’avrebbe dimenticata.
«Reggie, sul serio?» S’era intromesso suo fratello - suo chi? «Non dirmi che in tutto il castello la cotta te la dovevi prendere proprio per Mocciosus?»
James Potter sorrise, non a lui, ma guardandolo; l’orgoglio di chi ama aver ragione e la fierezza di chi gode nel piacere.
«Nah, lascialo fare, è tenero.» l’aveva provocato James, ancora rivolto verso Regulus, le spalle voltate a chiunque altro nella stanza; mai più sarebbe riaccaduto: da quel giorno in poi, lui sarebbe stato l’unico a cui James Potter non si sarebbe rivolto, l’unico a cui avrebbe dato solo e soltanto spalle. Ma Regulus sapeva di non aver posto nella vita di James Potter; non pretendeva altro: almeno dalle sue spalle, sporgendosi un poco al limite, avrebbe potuto scorgere un terzo del suo sorriso senza precipitare.
«Fottiti, James!» aveva sbottato Sirius Black alla battuta accorta del migliore amico, provocandogli sul volto una risata per la quale Regulus sarebbe sempre stato grato al fratello.
«P-potrebbero espellervi per questo.» era stato istintivo rispondere alla provocazione con un’altra; che si trattasse di due tipi dissimili di provocazione era contribuito dal fatto che la sua non era altro che una reazione.
«P-prima dovrebbero venirlo a sapere.» Aveva sorriso James, imitando la sua stessa balbettante labiale sorda. Aveva poi fatto un passo in avanti, ma Regulus non non aveva saputo indietreggiare - e si vorrà sempre bene per non averlo fatto nell’unico momento in vita in cui avrebbe avuto quell’occasione. «Cos’è, sei una spia?»
Sirius aveva fatto un verso di disgusto a cui Regulus non era più famigliare, ma che aveva saputo riconoscere. «Reggie, va bene tutto, ma non la spia.» aveva commentato. «Non li scagioniamo i traditori.»
«Già, ci fanno schifo i traditori!» s’era intromesso Peter Minus.
«Oh oh, Mocciosus deve essere svenuto, ragazzi.» Sirius aveva aspettato di comunicarlo a voce lampante, prima di piegarsi in due dalle risate.
James aveva ridacchiato, ma senza girarsi a vedere la fonte della sua ilarità; solo per continuare a guardarlo e Regulus non poteva che sentirsi vivo. Si sarebbe sentito altrettanto vivo solo in punto di morte, pochi anni dopo: il sorriso caldo di James e la risata gioiosa del fratello addosso assieme a centinaia di inferi che lo stavano già divorando mentre annegava in acque che avevano lo stesso colore degli occhi di sua madre - dei suoi.

C’era energia sanguigna, tra Sirius e James. Era chimica, ma in flusso, non statica; rigenerativa. Era a ritmo cardiaco, era integrale e vitale; organica. Era incisa nei lineamenti, rilassati o contratti - in sistole o in diastole - ogni qualvolta ridevano o sorridevano perché era energia vitale e non c’era muscolo che non irrorasse, densa e fluida; non c’era gesto, persino insignificante, che non alimentasse, diramata e reticolata, veloce e ritmica. E, ancora, non c’era momento in cui non sorridessero o ridessero, dunque era energia autorinnovabile.
Era genetica. James e Sirius erano fratelli.
Erano tutto ciò che poteva essere definito l’ideale fraterno. Ma se Sirius e James erano fratelli dove poteva stare lui? Il flusso tra i due l’avrebbe solo portato via, lontano e tramortito, come la corrente selvaggia di un torrente, la cui sorgente lo rifiutava, destinandolo a stagnare in un emissario buio e fangoso, senza mai sfociare.
Dove poteva mai stare lui in quella stanza polverosa, il cuore a mille come non avrebbe avuto la possibilità di essere mai più, puntato assieme ad una bacchetta tremante contro il fratello di suo fratello?
Dove poteva stare lui laddove non gli spettava posto, dove non gli spettava stare? Come poteva essere lì dove non poteva stare? Dove poteva mai trovare un punto, uno solo se non aveva le coordinate per tracciarlo? Che dovesse strisciare lungo sul bordo delle assi in attesa di essere collocato anche lui, fino a precipitare? Che dovesse precipitarsi per trovarlo? Che dovesse...che dove... Dove? Dove poteva mai nascondersi per vivere?
Che potesse solo scavarserlo un posto suo?
Se ne sarebbe convinto per i pochi anni restanti di vita, ma noi sappiamo che Regulus Arcturus Black nemmeno in tomba avrà mai posto.

Nella realtà presente, quella dove nessuno poteva provare quanto il cuore stesse battendo, solo ridere del perché - e rideva, James rideva, ma la risata era chiave di violino contro la pelle vergine di Regulus. Nella realtà vera, Sirius non aveva capito nulla e Regulus non avrebbe mai potuto saperlo, ma James non gliene avrebbe mai parlato, nemmeno in scherzo: l’unico vero momento di vita di Regulus sarebbe scomparso in segreto all’unica persona che glielo aveva donato, soli due anni dopo la sua stessa morte. Era poco, ma James avrebbe sepolto con sé la vita di Regulus, anche solo nell’unico istante in cui era esistita. Era poco, ma era rispetto e se Regulus lo avesse saputo prima di morire avrebbe avuto una ragione in più per morire lo stesso. Nella realtà reale, Peter Minus rideva di lui ed era una vergogna che dovesse fare da colonna sonora finale all’unico momento della sua vita che Regulus avrebbe voluto ricordare mai. Nella realtà, l’unica possibile, l’unica che aveva, il contorno era nero ed i colori neri, su sfondo nero.
Sì, James gli stava sorridendo, ma James sarebbe tornato a Sirius. E Sirius sarebbe tornato a James. E Regulus sarebbe ritornato al nero.



L’unico episodio che Regulus avrebbe rivissuto di quella sera del ventuno ottobre 1972 sarebbe stata la risata roditrice di Peter Minus giungere dal salone di Villa Malfoy otto anni dopo.
Regulus l’avrebbe riconosciuta all’istante ed avrebbe scritto una lettera a James Potter per informarlo di chi fosse la spia, il traditore all’interno della sua cerchia; l’avrebbe bruciata poi e, piangendo, ne avrebbe scritta un’altra con lo stesso contenuto, ma indirizzata ad Albus Silente.
Tale lettera sarebbe stata intercettata da terzi e mai giunta al destinatario.
Ancora oggi si trova tra le pagine dell’enciclopedia nella biblioteca dei Malfoy. Le ceneri della lettera scritta per James le avrebbe spazzate via Sirius Black stesso dal camino di Grimmauld Place, tredici anni dopo.




 
§





 
All’ombra d’ cipressi e dentro l’urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro?
Ma perché pria del tempo a sé il mortale
invidierà l’illusïon che spento

pur lo sofferma allimitar di Dite?
Non vive ei forse anche sotterra, quando
gli sarà muta l’armonia del giorno,
se può destarla con soavi cure
nella mente de’ suoi?





Louis dorme seppellito.
È steso avverso, col capo verso preghiera e contro redenzione, volto verso la lapide in marmo sacro di bianco liscio poiché spoglio d’immortalità: nessun nome la irruvidisce per incisione o sporgenza, solo quella che Louis sa essere una caricatura del tempo. Ed arredarsi di saputo e non capito ormai gli è ritornello in sonno, in sogno, in veglia, in memoria.
La data di nascita è stata invertita con quella di morte in un’anastrofe chiasmica che vede, ma non è capace di decifrare perché i numeri sono segni grafici sconosciuti a tutte le facoltà interpretative che ha, e per giunta, ogni numero incurva in semicerchio fino a sostituirne un altro e lasciarsi sostituire, a catena.
Sdraiato conficcato nel buco geometrico conta i numeri sconosciuti che piroettano su marmo in una danza matematica tra data di nascita e di decesso; tra vita e morte. Capisce, capisce solo e lo tormenta ma non lo preoccupa, che quella è la fossa di una tomba che mancava, una tomba che non c’è e non ci sarebbe stata nemmeno in seguito, ma gli appartiene. Non sa e non capisce che in sogno soltanto l’abiterà mai.
Scivola tre volte contate quando tenta d’alzarsi e rinascere dal fango che puzza di vita, cercando d’uscire dalla cavità, ma quando è finalmente in piedi il terreno gli dista per illusione ottica ad uno scalino melmoso di terra innacquata.
Nel cimitero c’è Lucy.
È seduta a gambe incrociate davanti ad un cadavere arrotolato in lenzuola bianche di misero e non di sacro, questa volta. Non si muove e Louis sa che lei del cadavere è custode, altrimenti è custode di ciò che significa.
Si siede vicino a lei, a gambe incrociate a parteggiare la custodia di quel corpo privo di ragione di stare nel suo sogno e privato di ragione di stare in vita per mancata ragione d’altri o giusta ragione di vita.
«Lo dobbiamo fare.»
Lucy traccia un cerchio sul terriccio fangoso, ma non lo chiude. Louis la guarda circoncidere la linea curva e fermasi prima d’unirla – il cerchio ha così un inizio ed una fine e, quindi, non è un cerchio.
«E tu lo sai, Louis, lo sai.»
Sorride, perché forse sa di aver pronunciato le stesse parole di lei nel sogno di piume che piovevano come parole di piombo. Lei? Lei chi?
«È quello che facciamo quando crollano i ponti. Portiamo a termine le strade, ma lo facciamo con asfalto distrutto di altre ed coi resti spogli delle coscienze.»
«Costruzione e distruzione sono arte di vivere.» ricorda Louis con voce tratteggiante, come la rugiada tra fango ed erba a scacchiera con le tombe sul cimitero. «Ma i ponti sono gli unici capolavori perché sono i primi a crollare, sempre prima delle strade, ma solo dopo le coscienze.» tiene gli occhi aperti nell’aria umida e vivida di freddo, mentre evoca carezze care alla memoria. «Me lo ha detto lei.» Lei? Lei chi?
«Chiedimi perché i ponti sono i primi a crollare, Louis.»
Guardò il cadavere insaccato in bianco e glielo chiese. Si assicurò di tenere lo sguardo fisso anche mentre lei rispondeva.
«Perché quando crollano le coscienze, nessuno sa più sorreggere i ponti.» fece una pausa, una sola, scandita. «Lo sai cosa significa questo, Louis?»
«Cosa significa, Lucy?»
Si volta verso di lui e lo fa toccandolo, prima sulla spalla, poi sul petto che lui le ha immediatamente rivolto. «Forse tu non hai mai sentito un ponte crollare.» con l’altra mano gli accarezza il collo ed il tocco gli fa male di torpore e calore perché è lo stesso tatto di lei. Lei? Lei chi?
«Cosa… cosa si sente quando un ponte crolla?»
«Dolore.» Gli occhi di Lucy non erano mai stati tanto verdi, verdi quanto quelli di lei. Ma lei chi? «Dolore, Louis, si sente dolore.»
«Io lo sento.» mise le mani sopra quelle di Lucy sul suo petto e sulla sua nuca. «Sento dolore adesso.»
«Lo so.» lo cullò. «Ma non è tuo.»
«È tuo?» chiese allora.
«È suo.»
«Di lei?»
«Di lui.» Lui? Lui chi?
«C’è qualcosa… si può fare qualcosa per evitare che i ponti… per evitare che crollino?»
«Non lo so, Louis, dimmelo tu. Si possono curare le coscienze?»
Lentamente, come una carezza regressiva, decrescente per durata ed intensità, involutiva nel suo torpore, Lucy lo priva del tocco delle sue mani che apre nell’aria ventosa, dopo averle poggiate sulle ginocchia tremanti.
«Pecchi di virtù, Louis. Erri di magnificenza. Tu sei l’apogeo e lo sarai da ogni volta in cui tangerai il perigeo, e per questo non avrai mai tomba.» Era una profezia – lo aveva capito dal tono greve, grave, gravido di significanti che celano i significati dei significati. «Per questo sarai tu a seppellirci e commemorarci. Noi viviamo in morte della tua perpetua immortalità in vita ed in morte.»
Louis si porta le mani al viso e si tocca gli occhi: di lì a poco piangerà.
«È per questo che lo dobbiamo fare. E tu lo sai, Louis, lo sai
Guarda il cadavere. Certo che lo sa: devono seppellirlo.
Lucy lo prende per mano, mentre s’alza, elevandolo in un’aria ancor più ventosa e fredda; tremendamente viva. Lo guida oltre il cadavere, verso un gonfiore di terriccio limaccioso, poco verde.
Cadono sulle ginocchia all’unisono e all’unisono scavano nel fango, violando con le mani la terra ed estraendola dalle sue mancate radici.
Louis estrae manciate di terriccio madido, lo estrae col pugno e lo guarda prima di metterlo da parte – ecco ciò che resta, ciò che rimane alla fine: fango. Alla fine sarebbe rimasto solo fango.
Lucy immerge le braccia fin sopra i gomiti e lui la imita perché sa – e lo sa come se glielo avessero sussurrato per notti – che quella tomba deve essere scavata con le mani, che deve essere strappata alla terra così come la morte strappa i suoi figli da lei.
Incavano una conca di terreno vuota – vuoto, ecco ciò che rimane alla fine – e Lucy gli prende le mani, palmo contro fango e fango contro l’altro palmo, ma le dita intrecciate consolidano l’unione.
«Non ho mai voluto che tu soffrissi, Lucy. Volevo solo aiutare, non credevo ci sarebbero state conseguenze. Io ci tengo a te. È sempre stato così e sarà sempre così.»
«Guardati.» gli sorride – e quel sorriso è troppo funesto, troppo consapevole. «Come puoi non essere tu la parte migliore di te stesso? Come puoi non essere tu il tuo dettaglio più bello?»
Scuote il capo e vuole solo fermarsi al centro del fango e parlarle o ascoltarla farlo, ma un occhio gli si chiude e metà della sua vista viene deviata, spinta contro vento e schiaffeggiata in un altro momento e in un altro luogo. Le immagini si sovrappongono in sembianze coagulanti, personificazioni disperse oltre i contorni, metamorfosi rovesciate sulle sue palpebre che tentano di riconciliarsi per addensamento – chiude entrambi gli occhi, ma le incarnazioni non diradano, si fanno più nitide, rafforzate dalla sua immaginazione in sogno, dal sogno nel sogno ed il sogno nel sonno.
L’occhio destro vede Lucy davanti a lui tendergli la mano e stringerla con, di e nel fango; l’occhio sinistro vede Lucy seduta in un gelido pavimento e gli mostra la nitidezza delle due ombre che proiettava il suo corpo sotto un’unica luce. Una delle due ombre al cospetto di Lucy, quella che chiaramente non era sua, si divide e coniuga in altre due ombre simmetriche e, terminata la mitosi, le due metà uguali parlano.

«Ora che abbiamo trovato la sua parte migliore, non ci resta che distruggerla, ma lentamente. Come lui ci ha creati.»

L’immagine sinistra muore nel cimitero quando Louis riapre gli occhi e la vista s’ingloba nell’unica realtà onirica nell’immaginario che ha davanti, si riconcilia a cerniera e, allo stesso tempo, per dissolvenza; barcolla sul posto e sbatte più volte le palpebre.
Lucy è più vicina perché è entrata nella buca che hanno scavato, tutt’un tratto più profonda così come tutt’un tratto era stata meno profonda quella da cui era risorto lui.
Si sporge verso di lui, in punta di piedi, e gli tocca il viso accarezzandolo con, di e nel fango.
«Hai lasciato che divenisse la tua parte migliore perché vivessi, perché mi salvassi, non è vero? Io per questo ti perdono, Louis. Perché ho lasciato che lui, invece, divenisse la mia parte peggiore perché vivesse. La tua parte migliore è la tua espiazione.»
«Luke?» le domanda – ed ora sta piangendo. «È sempre stato lui la tua parte peggiore, non è vero? Com’è possibile?»
«Non si può negare la vita, Louis. E, soprattutto, non si può negare la morte. È la morte che nega.» lo cerca con le mani, lo accarezza con la punta delle dita. «Non temere, io ucciderò la mia parte peggiore pur di salvare la tua parte migliore – e tu lo sai, Louis, lo sai
Lo avvicina a sé e Louis si lascia avvicinare e baciare. Le sue labbra e le labbra di Lucy si abbracciano.
«Brucia.» Non contiene l’impulso che lo persuade a toccarle le labbra con le dita.
«Brucia da morire.» Lucy chiude gli occhi per piangere sotto le palpebre al dolore di ciò che lui le ha detto e fatto.
«E continua a bruciare.» lo disse toccando le proprie labbra, questa volta.
«Si spegne ora, per bruciare per sempre.»
Louis tenta di scendere nel buco di fango con lei perché anche lui vuole chiudere gli occhi e piangere, ma lei lo ferma e pur di farlo riapre gli occhi.
«Voglio che tu sappia che io ho scelto e sceglierò sempre la tua parte migliore.»
È solo quando il cadavere alle sue spalle s’alza in piedi, strappandosi di dosso le lenzuola, che Louis si rende conto che anche il corpo di Lucy, ora affondato nella buca, è sempre stato nudo al suo fianco. E sta già capendo, ma vuole che lei esca dalla fossa che l’ha aiutata a scavare; sta già capendo chi è la sua parte migliore, solo che non vuole vedere Lucy in una fossa.
La stringe con, di e nel fango perché teme che sprofondi nella tomba che hanno scavato al centro di quella terra rugiadosa.
«No, non temere, Louis. È in tua fede che io, oggi e per sempre, mi affido alla tua parte migliore.» pronuncia il suo voto e per questo ritrae le mani dal suo petto.
Il cadavere alle sue spalle non è un cadavere, è la sua parte migliore e gli passa a fianco, scendendo nella fossa con Lucy.
«Adam.» Louis piange il suo nome.
Conficcati nella frana, Adam e Lucy si tengono per mano e guardano verso l’alto per raggiungerlo nell’unico modo in cui possono: con gli occhi. Louis li raggiunge con lacrime, prima d’inginocchiarsi e cercare di raggiungerli, invece, con le mani, le stesse con cui ha scavato loro la tomba e sa – perché tu lo sai, Louis, lo sai – che con le stesse mani dovrà anche seppellirli.
«Mi dispiace.»
Non è la loro morte, per questo il terreno è tanto rugiadoso, vivo: è la loro unione e non può che essere commemorata dalle sue mani.
«Tornerò a prendervi.»
«No, non lo farai.» gli disse la sua parte migliore. «È per questo che io sono qui. Perché tu non ci sarai.»
Adam e Lucy si stringono l’uno all’altra, sdraiati nella fossa e Louis copre, ripara, apparta i loro corpi col terriccio; vincolandoli al connubio, in nozze funebri.
Trascina una pietra di lapide bianca frantumata a metà sul fianco destro della loro sepoltura e non a capo, per indicarne l’anomalia. Con una scaglia appuntita della pietra si ferisce un dito più volte, finché non sgorga abbastanza sangue da permettergli di tracciare sulla superficie liscia della mezza lapide il suo commiato ultimo:

Vivete in fede della mia parte migliore

L’avrebbero letto al loro risveglio – quando lui non ci sarebbe più stato.
Celeste è questa
corrispondenza d'amorosi sensi,
celeste dote è negli umani; e spesso
per lei si vive con l’amico estinto
e l’estinto con noi, se pia la terra
che lo raccolse infante e lo nutriva,
nel suo grembo materno ultimo asilo
porgendo, sacre le reliquie renda
dall'insultar de’ nembi e dal profano
piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,
e di fiori odorata arbore amica
le ceneri di molli ombre consoli.


Ugo Foscolo, Dei Sepolcri







Louis urlò, prima di svegliarsi. E anche dopo essersi svegliato.
Era stato lo stesso urlo a risvegliarlo del tutto, non era stato il soffocare sottoterra della sua parte migliore nel sogno o il suo vago soffocare nero nel sonno, ma il soffocare nella sua mente; per questo aveva urlato una seconda volta, per sconvolgersi quanto era necessario al fine di non morire sepolto né sotto il fango, né sotto le sue palpebre – in nero.
«Stai fermo.»
Febbricitante, scostò la coperta infervorandosi del frigido freddo fermo che sarebbe crollato addosso al sudore cristallizzato in una fodera invisibile sulla sua pelle, come vento perpendicolare l’avrebbe sepolto d’aria – quanto di terra la sua metà migliore stava soffocando.
«Fermo.»
Una mano grande e aperta gli impedì d’alzarsi, ma nessuno lo ricoprì. Fu la seconda consapevolezza, per associazione, a sollecitarlo a rendersi conto che non era solo; non era postumo, non era reduce di ciò che c’era di Lucy e ciò che c’era di Adam nel sogno – forse solo di ciò che c’era e non c’era di lui.
Aprì gli occhi, allora, e cercò quelli di Fred per primi. Cercò il suo sguardo verde acqua tra i recami smeraldini della trapunta vellutata che aveva spinto da parte, in quello delle tende che gli incorniciarono il contesto caldo e stabile della stanza; lo cercò al suo fianco, alle sue spalle e chiuse gli occhi quando non li trovò.
Li riaprì una seconda volta per non piangere, in cerca degli occhi di James, come una cara consolazione, seppur istantanea come erano sempre stati i suoi abbracci poco permissivi, buoni e reali; cercò l’azzurro vivido e sempre lucido, quasi fulgente, ma lo trovò cristallizzato e fessurato in uno sguardo affilato e ferrigno, fosco.
«Che… che giorno è?» pose la domanda a bocca chiusa perché la sua voce era stata consumata dalle urla durante il sonno. Aprì la linea curva che creavano le sue labbra supine, fiducioso che nonostante tutto ciò che c’era di burrascoso negli occhi che lo stavano scrutando, senza guardarlo, l’unica altra persona in quella stanza con lui sarebbe rimasta ad aspettare che finalmente parlasse. «Che giorno è oggi, adesso?»
Associò il grigio metallico a capelli neri e tratti pronunciati, marcati e li congiunse, disegnando a mente il volto nonostante fosse esattamente di fronte al suo. Abbozzò nella tela ad olio che aveva dipinto dietro le sue palpebre due spalle larghe, alte e perpendicolari alle lunghe gambe parallele. «Io so chi sei.»
«Puoi sederti, ma lentamente.» rispose l’altro. «Non alzarti, sverresti.»
Louis allungò una mano, sapendo che non sarebbe riuscito a toccarlo perché si stava già allontanando verso la porta. «So chi sei, io lo so.»
Il ragazzo abbassò la maniglia della porta per troncargli la frase. «Finché non so cos’hai e non gli trovo rimedio, non posso lasciar passare nessuno.» lo disse guardandolo, come se fosse il debutto dell’unico vero scambio di parole. «Un solo nome.»
Dunque Louis distolse gli occhi e rinunciò a sedersi, accontentandosi di girarsi sul fianco a cercare con una mano chi non c’era, ma avrebbe voluto ci fosse. «Non c’è rimedio per l’avvenire.» ci volle qualche momento in più, ma arrivò a dargli il nome: non fu il primo a venirgli in mente, ma fu l’unico a rimanerci.

Derek Nott scese le scale che portavano dai dormitori maschili alla Sala Comune contando tutti i presenti. Era solito a scenderle contando i gradini, uno ad uno, saltando il solo primo o l’ultimo – per principio d’esclusione.
Quando contò i presenti applicò la stessa teoria: contò la sorella di Louis Weasley perché fu la prima a venirgli incontro; contò il ragazzo Paciock che l’aveva seguita; contò Roxanne Weasley perché non appena sceso aveva cercato Adam e per trovare Adam aveva dovuto cercare prima Damian; contò allora il fratello della Weasley, che teneva ancora la testa tra le mani e non accennava a rialzarla; affianco a lui sedevano Hugo Weasley e Lily Potter, contò anche loro, ma in un’unica somma; Scorpius fu il primo a parlare – il primo tra coloro ai quali avesse intenzione di rispondere – dunque contò Rose Weasley, seduta tra lui ed Albus Potter. A quel punto Evelyn Black dovette contarla.
«James Potter.» ripeté il nome con la stessa inclinazione che aveva assunto la voce di Louis nel pronunciarlo. «E nessun altro.» aggiunse ristabilendo il suo tono.


 
Ventinove giorni prima del ritorno di Louis – Sala Grande



Evelyn mise giù il cucchiaio nel piatto ancora mezzo pieno di zuppa di verdure verdi e fu tentata anche di risputare ciò che aveva ingerito dopo aver assistito al loro scambio di parole. «Ti stai fingendo amica di Denise Rosier per avere informazioni?»
Lily non sbuffò solo perché stava masticando un pezzo di pollo particolarmente poco cotto, rubato dal piatto di Hugo. «Nah.» parlò prima di deglutire. «Mi sto fingendo amica di Denise Rosier per avere informazioni che potrebbero salvare il culo a tutti, anche il tuo.» precisò senza deviare alcun tipo di attenzione verso di lei, dai piatti che si era servito il cugino. «A proposito dell'ingratitudine di Evelyn... James?» prese la forchetta di mano a Hugo ed infilzó malamente le sue patate al forno, rivolgendosi poi verso James e puntandogli contro la forchetta ripiena, ma non i suoi occhi. «Ho detto alla Rosier che la trovi affascinante. Così, per stimolarla.»
Il Potter rialzò il capo dalle pergamene che studiava a tre scatti, i primi due tentavano di constatare l'importanza di ciò che gli poteva essere o meno rivolto, ancor prima di comprenderlo del tutto. «Tu... aspetta, tu... tu hai fatto cosa?!»
Lily scrollò le spalle e mise finalmente in bocca le patate. «Hai detto di tentare di tutto per avere la sua fiducia.»
Evelyn spinse il piatto di zuppa fino a farlo tintinnare col vassoio che aveva davanti e la divideva dal ragazzo. «Sirius!» si rese conto di aver strillato in modo particolarmente acuto e fece un pausa, cercando di calmarsi e reprimere ogni manifestazione fisica della sua indignazione. «Sirius, per l'amor del Cielo, è una ragazzina!»
«Ha la mia età.» fece notare Lily poco impressionata. «E poi non capisco qual è il problema, credevo fosse Albus a piacerti?»
Evelyn trattenne il respiro su un altro già trattenuto. Improvvisamente il capo di altre tre o quattro rialzato, mentre la guardavano reagire: Lily era stata musicale abbastanza da far suonare la frase come interrogativa,
«Oppure hai proprio una cosa per i Potter? Mi devo preoccupare?»
«No-non-» era sicura di essere rossa in volto, mentre si sforzava per non sbattere più volte le ciglia.. «Lily, questo non ha nulla a che fare con me.»
«Appunto.» concordò la ragazzina, i cui toni continuavano a restare leggeri, soffici. «Dovresti cercare di dare una mano, invece di fare la melodrammatica. Se la Rosier non ha aiutato a far rapire il mio migliore amico, sono solo contenta.» continuava a mangiare nel frattempo. «Nessuno ce l’ha con lei e francamente lei non è nemmeno nella lista.»
Evelyn non era sicura di quale fosse il preciso motivo del bruciore nello stomaco, ma sembrava glielo stesse sciogliendo dall’interno. «Lista?» senza volerlo si era voltata verso James.
Il Potter la stava già fissando e si prese qualche istante ulteriore di tempo per farlo anche ora che lo ricambiava, prima di tirar fuori una pergamena spiegazzata invece che arrotolata da sotto il mantello.
Evelyn la prende in mano con più noncuranza con quanta ne avrebbe messa per restituirla.
LISTA SOSPETTATI PRIMARI:
(in ordine ascendente)
A. Rosier
A. Zabini
D. Nott
S. Malfoy
D. Harper
H. Huxley

Aveva spalancato gli occhi leggendo. «Scorpius? Sul serio?»
«Ci spiace…» aveva brontolato James, guardando la sua zuppa. «ma dobbiamo essere prudenti.»
Il labbro inferiore della Black aveva tremato e lei s’era affrettata a ricongiungerlo a quello superiore in modo da non dare a vedere alcunché. «Dispiace a te e a chi?»
«Beh… io, Fred, Lily e Hugo, Nicky e chiunque stia contribuendo alle indagini.» aveva parlato in fretta e James Sirius parlava sempre in fretta quando era a disagio. Riusciva a riconoscerlo anche in come stesse evitando di reggere il suo sguardo.
«A me in realtà non dispiace.» Lily si spostò al suo fianco, lasciando Hugo al suo piatto e servendosi immediatamente due coscia di pollo. «Cioè, sono affari suoi se ci rimane male.» scrollò le sue spalle ed i capelli rossi le coprirono un poco il lato del viso a cui Evelyn stava per rivolgersi, prima che James l’anticipasse.
«Sì, voglio dire, non c’è bisogno di allarmarsi se sa di essere innocente.» fece prima di riempirsi la bocca di una cucchiaiata di zuppa di cipolle.
Evelyn sentì un bisogno di respirare aria fresca incontrollato e vitale, e questo la distrasse dal senso delle parole di James e dalla loro risonanza: «Rose.» fece, allora. «Rose che cos’ha detto?»
Ci furono un paio di sguardi scambiati. Tra Lily e Dominique, così come tra Dominique e James.
Egualmente, fu quest’ultimo a risponderle e lo fece con le maniere d’un portavoce ufficiale, composto e diplomatico. «Rosie sa benissimo di cosa si tratta, sa che non riguarda Scorpius. Sa che stiamo solo cercando di risolvere tutto… tutto questo disastro.»
«Ma… possibile che…» s’interruppe da sola. Ciò che avrebbe detto era il caso che lo confidasse e non che lo dicesse semplicemente.
«Evelyn, Louis è sparito.» James aveva messo da parte la zuppa, ma ancora non s’era servito altro. «È di Louis che stiamo parlando… è mio fratello
La Black non poté che annuire. «Hai ragione.» si sforzò. «Anzi, se qualcosa che posso fare per dare una mano, non es-»
«In realtà c’è qualcosa che potresti fare.» s’intromise Dominique, abbastanza serena. «Parli con la Bones, giusto?»
Evelyn esitò, due volte in più di quanto intendesse. «Cosa c’entra Katie?»
«Nulla, non sospettiamo di lei.» la rassicurò James immediatamente, scuotendo il capo.
«Cerchiamo qualcuno che abbia confidenza con Rosier e Nott, quei due sembrano abbastanza impenetrabili.»
«Oh.» s’affrettò ad annuire, il più tranquillamente possibile. «Certo, le chiederò se sa qualcosa.» non le avrebbe chiesto nulla; l’avrebbe solo avvertita.
James allungò una mano per cercare la sua ed Evelyn non esitò a concedergliela, nonostante si vergognasse del tremore. «Non devi, se non ti senti a tuo agio.»
Strinse la sua mano mentre rispondeva perché almeno così gli altri non avrebbero notato il tremore; a Sirius poteva confidarlo, anche se imbarazzata. «No, io… vorrei aiutare.»
Lily sorrideva guardando le loro mani strette sopra il tavolo. «Potresti provare a parlare tu stessa con Nott, giurerei di averlo beccato un paio di volte a guardarti il culo.»
Evelyn stava guardando già James, quindi poté notare l’inarcamento curioso delle sopracciglia - e nessun’altra reazione.
«Oh Lily!» Dominique stava ridendo, piuttosto sinceramente. «Non c’è bisogno di mentire, non vorremmo mai che la piccola Black si mettesse strane idee in testa.»
Per quanto rendesse solamente la situazione più imbarazzante, Evelyn continuò a tenere gli occhi congiunti a quelli di James, mentre si sentiva impallidire per l’umiliazione; non voleva offrire altri momenti di debolezza e raccoglierne altri di vergogna ed imbarazzo, ma solo negli occhi fraterni di James non vedeva la differenza.
James non aveva detto nulla, non s’era permesso di far battute così come non s’era azzardato a parole consolatorie: era sparita per una settimana, rinchiusa in una fredda e polverosa stanza qualunque tra quelle in cui nessuno entrava mai, in ipotermia e in inedia; nessuno si era accorto di nulla. Eppure in una settimana i pettegolezzi avevano fatto in tempo a girare e rigirare in tutte le forme ed avevano raggiunto il grado di sviluppo e di maturità che, a quanto pare, permetteva a chiunque di tirare fuori l’argomento, in termini comici o drammatici che fosse; ma agli occhi di James nulla era mai successo: lei era sempre stata lì. Poteva riprendersi laddove si era lasciata riflessa sugli occhi grandi e meravigliati di James
.



 
Il ritorno di Louis: l’indomani


«È… è mio fratello! Sono… Io sono la prima che dovrebbe aver il diritto di vederlo!» Dominique Weasley parlò attraverso le lacrime. «Tu non puoi decidere… non puoi…»
Rose Weasley s’affrettò a raggiungerla e lo fece abbracciandola direttamente – tre secondi di interazione umana ai suoi occhi superflua che gli diedero il tempo di trovare una risposta meno diretta di quella che aveva intenzione di propinare ai presenti. «Finché è sotto la mia custodia posso.»
«Forse avremmo semplicemente dovuto portarlo al S. Mungo.» Albus Potter non mancò di mettere in dubbio le proprie capacità intellettive per la quinta delle volte in meno di tre ore. «Sarebbe stata la scelta più sensata.»
Rispose come credeva fosse giusto rispondergli: senza guardarlo. «Puoi ancora portarcelo. E magari spiegare loro perché il suo cuore batte al contrario.»
Fu silenzio, allora. Una piccola rottura, malcelata in crepa che creò un precipizio sonoro sottile, ma profondo.
Sorrise. «Finché non mi dite una volta per tutte che cos’ha non posso aiutarlo.»
Adam non smetteva di muovere le mani, iperattivo e tremolante. «È a rischio?»
Andò a sedersi nell’unica poltrona libera, dato che quella che occupava solitamente ospitava Evelyn Black in vestaglia da notte.
«Come?» La vestaglia era bianca d’un bianco troppo bianco.


 
Ventotto giorni prima del ritorno di Louis


«Prenda un biscotto, signorina Black.»
«Pren- prendo che cosa?»
«Un biscotto, prego.»
Con un cenno basso la incitò alla ciotola di vetro cristallino che a chioccia raccoglieva rotondi frollini zuccherati. Timida di mano più che di verbo, Evelyn ne prese uno e si affrettò a portarlo alla bocca prima che la professoressa indicesse ed intavolasse discorso. Lo addentò in quattro morsi, almeno uno in più del necessario, e lo masticò con inaspettato agio, tanto quanto riuscì poi a deglutirlo con cedevole scioglievolezza.
«L'incontro d'orientamento d’oggi è per gli studenti Serpeverde. Quello dedicato agli studenti Grifondoro era invece la settimana scorsa, signorina. Posso sapere il perché del suo disimpegno?» la guardò attraverso le lenti degli occhiali corrugando le sopracciglia, poi abbassò il capo per guardarla al di sopra di esse.
Evelyn rimuginò sul sapore zuccherato del biscotto in bocca. «Io sono- non sono stata bene.»
La professoressa srotolò una pergamena in cui la Black lesse distintamente i nomi: Amelia Nott; Céline Rousseau; Molly Weasley. «Eppure il suo nome non figura nel registro dei ricoverati in infermeria.» stabilì la professoressa.
La ragazza, in risposta, si sedette meglio, dondolandosi a disagio sul posto ed improvvisando una schiarita di tono non del tutto superflua alle circostanze.
«Prenda un altro biscotto, signorina.» la sollecitò, mettendo da parte alcuni documenti in favore di altri. «Poi mi spieghi gentilmente perché non si è presentata al colloquio di orientamento ed in più si è anche assentata durante di corsi dell'intera settimana.»
«Io davvero non sono stata bene, professoressa.» mise le mani tra le coscia, incrociandole, ma a dita aperte - era un'abitudine di un paio di giorni alla quale era diventata avvezza dopo la prima volta che l'aveva praticata e si era trovata straordinariamente confortata dalle sue stesse mani su di sé: aveva scoperto con quanta gentilezza era capace di toccarsi da sola, lei stessa.
La preside tornò a guardarla per un istante solo. «Questo lo vedo, sì.»
Evelyn si dondolò ancora una volta sulla sedia, in cerca di agio che era certa non avrebbe trovato nello studio con gli occhi dei predecessori della preside puntati contro ed i loro commenti a bassa voce che tanto bassa non era.
«Ciò che non vedo è la giustificazione delle assenze.» riprese la McGranitt, il cui tono attutì quello del preside uno dei quadri alle sue spalle.
«Mi spiace.» ed il suo dispiacere le uscì come una protesta.
«Vedo anche questo.» dispose. «Vorrei tuttavia che si recasse in giornata da Madama Chips per un controllo generale, l'infermiera si incaricherà personalmente di comunicarmi i risultati ed io provvederò ad inoltrarli ai signori Malfoy. Mi auguro che la sua famiglia sia al corrente delle sue assenze durante la scorsa settimana, nonché delle cause di queste. In caso così non fosse, la sollecito ad agire immediatamente di conseguenza contattando i suoi genitori.» la cercò e la trovò sfuocata, ma più vicina, al di sopra degli occhiali.
«Malfoy? Ho per caso sentito bene, Minerva?» fece all’improvviso uno dei presidi nei quadri alle spalle della professoressa; Evelyn, ch’era sobbalzata, non riuscì a distinguere quale. «Non sarà questa la reduce Black di cui discutevi con gli Auror, Minnie?»
«Un discendente Black biondo?» intervenne l’abitante d’un altro quadro, ridacchiando. «Phineas, guarda un po’! Pare proprio che i vostri geni si siano estinti lo stesso, dopotutto!»
Evelyn identificò il ritratto interpellato con lo stesso che stava già osservandola da quando era entrata nell’ufficio di presidenza, ma solo in quale momento realizzò che era stato egli stesso un Black in vita.
«Non che ci aspettassimo che da quella testa calda di Sirius venisse fuori una progenie promettente.» commentò infatti, ad agio con le sue parole, come se non fossero in alcun modo offensive.
«Signorina Black, ha ben compreso ciò che le ho detto?» la professoressa l’aveva richiamata alla realtà tangibile alzando il tono: probabilmente era il suo modo di chiedere cortesemente ai suoi predecessori di fare silenzio.
«Sì, certamente.» annuì a capo basso, toccandosi le guance con le mani fredde per rinfrescarle da un insistente torpore.
«In merito ai M.A.G.O. ha già deciso quale percorso intraprendere, signorina?»
«Ohm... un po'.» deglutì, ignorando i commenti dei presidi nei quadri dall'altra parte dello studio. «Mi piacciono i bambini.»
«Prego?» la professoressa la fissò prima al di sopra poi al di sotto degli occhiali, con l'aria d'aver finalmente individuato un ché da osservare.
«Mi piacerebbe lavorare coi bambini.» nel dirlo ebbe l'impressione che, in modo o nell'altro, la preside l'avrebbe indotta a servirsi d'un altro biscotto per farle poi ripetere la stessa frase a bocca piena; la McGranitt, invece, si limitò ad incrociare le mani sopra il tavolo e tener stabile il più recente contatto visivo stabilito coi suoi occhi. Entrambe finsero di non aver sentito Phineas Black sbuffare.
«Certo.» annuì anche col capo. «La scienza della pedagogia infantile è altamente richiesta per gli anni che precedono l'accesso alle scuole di Magia e Stregoneria. È imprescindibilmente indispensabile l'educazione e l'istruzione primaria di ogni mago e strega prima degli undici anni. Il Ministero della Magia mette a disposizione dei genitori o tutori una lista di Educatori referenziati ai quali affidare la formazione primaria del minore in questione.» con un cenno di bacchetta di cui Evelyn scorse solo gli effetti fece sì che una pergamena con su scritto i suoi dati anagrafici le si posasse davanti gli occhi. «Al fine d'entrare nella lista dei Magi-educatori Referenziati è necessario che lei ottenga il massimo del punteggio in Storia della Magia, Incantesimi e Astronomia.» nella pergamena si materializzarono in fresco inchiostro le materie nominate dalla professoressa. «Oltre Ogni Previsione in Pozioni, Difesa Contro le Arti Oscure e Trasfigurazione. Inoltre è necessario che lei inserisca nel suo piano di studi Babbanologia e Aritmanzia.»
Annuì, mentre la pergamena si arrotolava. «La ringrazio, professoressa.» la prese e s’alzò, raccogliendo la sua borsa. «Mi spiace ancora per… ehm, le mie assenze.»
Si scusò sotto lo sguardo circospetto della donna anziana che la guardò uscire frettolosamente, dopo averla congedata poco a suo agio.
«Signor Nott, prego.»
Chiamò il primo della lista Serpeverde per il colloquio d’orientamento, ignorando l’esagitazione che si stava diffondendo tra i quadri di ex presidi appartenuti alla medesima Casa.
«Nott, ha detto?»
«… finalmente qualcuno d’interessante
«M’ero appisolato, che mi son perso?»
«Questo lo conosco
«Phineas, scommetto il mio finesettimana nel quadro di Gogh che questo ti piace
La preside tossicchiò per richiamare il silenzio, senza doversi scomporre.
«Signor Nott, può accomodarsi.» sollecitò nuovamente lo studente.
«Silly? Silly, sei sveglio? Silente!»
«Mh?»
«Facciamo cambio poltrona? Dal tuo quadro si vede meglio!»
«Signor Nott?»
«Severus, mi passeresti gentilmente uno dei cuscinetti della tua poltrona? Ho questi crampi…»
«Silente, te li ho già dati entrambi stamani!»
La preside spostò indietro la sedia, facendo per alzarsi, ma proprio in quell’istante un ragazzo dai capelli corvini si fece avanti dopo aver cortesemente bussato.
«Signor Nott, prego s’accomodi.» propose la preside, osservandolo sorridente.
Derek trovò la sedia calda ed una pergamena già compilata davanti a lui.
«Eravamo rimasti ai GUFO necessari per accedere a Magimedicina e da quanto mi risulta ha soddisfatto i risultati necessari. Se non ha cambiato idea riguardo alla sua futura carriera, le suggerirei di dare un’occhiata ai risultati che dovrà raggiungere in questi ultimi due anni.» gli indicò la pergamena. «Come vede, è richiesto il massimo del punteggio in tutti i corsi impartiti, tranne… i corsi a scelta dal terzo anno da cui è esonerato in vista dei corsi extracurriculari che dovrà seguire col nuovo semestre. Generalmente, gli studenti coi requisiti dovuti sono scortati ogni martedì e giovedì per orari di tirocinio all’ospedale S. Mungo, ma questo solamente il settimo anno.»
Derek lesse attentamente i corsi che avrebbe seguire i due anni successivi: gran parte degli argomenti li aveva già approfonditi da solo, ma non avrebbe certo condiviso l’informazione con la preside. «La ringrazio» incominciò alzandosi e prendendo con sé le pergamene che erano state disposte di fronte a lui.
«Un ultimo disturbo, signor Nott» fece la McGranitt alzandosi e poggiando le mani sulla cattedra. «Lei sa qualcosa di una certa lista? Una lista che pare raccolga nomi di studenti sospettati di aver a che fare con la scomparsa di Joshua Thomas o i recenti attacchi al Castello?»
Derek, che fosse cosciente o meno, era pronto a rispondere. «Solo voci di corridoio, professoressa.»
«Certo.» Annuí la signora anziana. «Perché proprio di questo si tratta, di voci di corridoio. Non permetterei mai che uno studente sotto la mia custodia venga imprigionato nonostante la minor età.» Disse con tono fermo, l’intenzione di rassicurare, probabilmente prevenire. Infatti aggiunse: «Confido che non permetterà ai suoi compagni di compiere gesti impulsivi e che ricorderà loro che si tratta di un pezzo di pergamena irrilevante la cui unica conseguenza sarà un’immediata sospensione per il suo artefice.»
Derek la guardò, si prese un attimo e fece attenzione a non farlo durare significativamente. «Chiaramente.»



 
Il ritorno di Louis: l’indomani


Andò a sedersi nell’unica poltrona libera, dato che quella che occupava solitamente ospitava Evelyn Black in vestaglia da notte.
«Come?» La vestaglia era bianca d’un bianco troppo bianco.
«È… insomma, non lo so, si può fare qualcosa?»
Diede le spalle alla poltrona affianco alla sua e al camino di fiamme verdi. «Non saprei, nelle sue vene scorre sangue ossigenato e nelle sue arterie c’è anidride carbonica. Dovrebbe essere l’esatto contrario e nemmeno una trasfusione avrebbe senso se il problema parte dal cuore.»
Adam si agitò sul posto e fu l’unico movimento nella sala: nessuno pareva aver una contro risposta a ciò che stava osservando.
Rose aveva gettato poi uno sguardo prima a Fred e poi a James. Nessuno dei due aveva ricambiato.
«Diteglielo!» Lily Potter aveva scrollato le spalle, indicandolo con l’indice e con un cenno. «Al massimo possiamo fargli perdere la memoria di tutto ciò, dopo che avrà finito!»
«Oh, Potter.» sospirò Derek, sarcastico fino all’ultima vibrazione delle sue corde vocali. «C’è di bello che persino tuo cugino col cuore che batte al contrario ha più speranze di guarigione.»
«Beh, non fai parte della famiglia!» anche Hugo alzò le spalle, allo stesso modo della Potter. «Non hai diritto di saper alcunché.»
La voce di Evelyn arrivò tiepida e tremula come il calore flebile e discontinuo emanato dalle fiamme verdi. «Nemmeno io e Scorpius, eppure siamo qui.»
«Io ed Adam neanche.» Damian intervenne senza scrollarsi dalla posizione svogliata alla quale s’era abbandonato sul divanetto nero: aveva braccia incrociate e capo ricaduto sullo schienale in pelle, i rossi occhi socchiusi e lucidi. «Non mi sembra sia questa la priorità.»
«James, se non glielo dici tu sarò io a farlo.» roca e bruciante, la voce di Fred Weasley s’era fatta sentire perché supportata dal silenzio notturno.
La stessa quiete della notte si protrasse a causa di un mancato responso ed allora il supposto di oberate tensioni fu indubitabile quando queste giunsero in superficie divenendo materiali, sostanziose, quasi corporee di fronte a tutti i presenti.
James dovette parlare, a un certo punto. «Ci sono conseguenze da prendere in considerazione.»
«Non…» Fred fece una pausa perché rise, ma sospirando. «Non importa quello che sa o non sa Nott.» scrollò le spalle e scosse il capo. «Guardalo…» rifece ancora una volta la stessa pausa sarcastica «… probabilmente l’ha già capito. Se non è così, dagli il tempo di fare un paio di ricerche e lo verrà a sapere.»
«Potrei scrivere a papà e sentire che propone, dobbiamo comunque informare gli zii…»
«Sì!» concordò dunque Fred. «Certo! Certo James, potresti! Oppure potremmo agire e darci anche una mossa, dato che è esattamente il tempo il nostro problema!»
Gli occhi vispi di Rose Weasley rimbalzavano tra i due giovani. Derek scorse con la coda dell’occhio un ghigno esasperatamente compiaciuto sul volto di Damian nell’assistere alla discussione; lo stesso compiacimento che lo pervadeva, ma che era fin troppo coscienzioso per esternare espressivamente: dannata etica kantiana che lo vincolava ad essere corretto perfino nelle poche impreviste situazioni di soddisfacimento personale che gli capitava di riscontrare nel recente intervallo di crisi dei Potter e dei Weasley.
«Potremmo stringere un patto Fidelius.» l’idea fu di Scorpius Malfoy e non seppe quanto inaspettatamente recepire la sua proposta: Malfoy non era abbastanza schierato, solo motivato. In lui non aveva mai notato adempimento in nome di secondi fini, mai le sue gesta erano state dettate da obiettivi terziari, intenzioni oblique, intenti indiretti: era chiaramente l’arbitro della partita.
Lily si voltò verso Rose in attesa di una sua reazione e, quando non ne ebbe alcuna, si permise d’essere la prima ad esporsi. «Patto F-cosa?»
«L’Incanto Fidelius è un accordo di fiducia reciproca e vincolante. Viene pronunciato o scritto un segreto che, una volta condiviso, i membri dell’intesa non possono essere capaci di riprodurre in alcun modo.»
«Che fiducia è se sei impossibilitato a spifferare il segreto da un incantesimo?» sbottò Roxanne sollevandosi dalla sua postura non esattamente aggraziata.
Rose scrutò James fugacemente prima di concedere altre spiegazioni. «Viene scelto un membro, uno solo, che custodisce il segreto. Non si può semplicemente… far sparire il segreto. Deve esistere nel reale per essere negativizzato altrimenti non si potrebbe impedire che venga divulgato, non si può evitare che “non venga detto” qualcosa che non esiste. Il segreto è come un peso che invece di essere sostenuto da tutti coloro che ne sono a conoscenza, è interamente addossato sulle spalle di una persona sola.»
«Perché?» sussurrò in imbarazzo Evelyn accoccolata nel suo pigiama bianco, molto bianco, sulla poltrona. «Perché ammassare tutto su una persona sola? Voglio dire, immagino che il tuo paragone fosse figurativo, ma…»
Rose annuì prima che lei finisse di parlare. «Perché un segreto non può essere spezzato, ma solo riprodotto ed è così che smaltisce peso. Smettendo cioè di essere un segreto perché divulgato perde la sua efficacia.» si trattenne un secondo di troppo in cui cercò gli occhi di Albus, prima di continuare – perché erano gli unici che non la seguivano. «Ma… non si può proteggere qualcosa di inconsistente. Del segreto non si possono conservare e preservare le riproduzioni.»
Adam alzò la mano, come se fosse a lezione. «Mi sono perso.» ammise, un poco pallido. «Circa a metà.»
Rose fece per riprendere il discorso, ma James la precedette inaspettatamente. «Del segreto non possono esistere due o più versioni. Perciò il custode è uno solo, è più sicuro.» la voce era un poco roca, quasi sbiadita. «Una copia non è mai uguale ad un’altra e non si saprebbe più qual è quella vera, perdendo così il segreto. Si sfocerebbe nell’assurdo.»
«Tutta quest’ansia mi sta facendo venire il mal di pancia.» Roxanne sbuffò e si massaggiò lo stomaco. «Insomma, il punto è che c’è un custode, no? Che fa, il custode?»
Rose ebbe bisogno di istanti sconnessi in più per udire l’intervento sollecito e drastico della cugina, ma rispose sufficientemente in fretta per non attirare l’attenzione sul perché della sua improvvisa ed allarmata distrazione: per non attirare altra attenzione su James. «Il custode non è soggetto al vincolo, può arbitrariamente riprodurre, cioè condividere il segreto. Il segreto non gli può essere estorto in alcun modo possibile, non esiste ad oggi alcun incantesimo che rompa il vincolo, nemmeno la Madelizione Imperius. Per questo è un patto Fidelius, cioè di fiducia e di alleanza. Perché l’unico modo per romperlo è che il custode decida di sua spontanea volontà di farlo.»
«In poche parole, James sarà il custode.» sbuffò Lily.
«N-no.» aveva risposto il fratello maggiore, ma il tono era debolissimo perché sfiduciato. «No.» aveva ripetuto più in fretta, al fine di dissimulare. «Se lo facciamo non… non sarò io il custode.» aveva deglutito, ma a capo basso. Nessuno l’aveva notato, tranne l’unica persona alla quale si stava per rivolgere. «Se lo facciamo dovrai essere tu, Freddie.»
La pelle scura del volto di Fred era ingrigita da un torpido pallore, le labbra asciutte. «Per Louis.» aveva annuito.
«Stiamo sul serio prendendo in considerazione l’idea?» s’intromise Dominique, ma rivolgendosi inequivocabilmente a James. «Con tutti i rischi?»
«Quali rischi? Non hai sentito?» Roxanne suonò stizzita, anche se involontariamente. «Nessuno potrebbe dire alcunché, tranne Fred. Il che significa che nessuno dirà nulla.»
«Posso essere io il custode?» tentò Hugo, venendo ugualmente ignorato a causa del livello di tensione già instauratosi che faceva sì che la conversazione procedesse su un’altra frequenza.
Infatti, Dominique non sembrava ugualmente soddisfatta. «E se trovassero un modo per aggirare l’incanto ugualmente?»
«E come? Non hai sentito Rose?» Roxanne indicò con la mano il divanetto nero in pelle in cui Rose sedeva tra Scorpius ed Albus. «Ha detto che il solo che può dire qualcosa è Fred!»
«Oppure Hugo.» azzardò nuovamente il ragazzino, alzando i pollici di entrambe le mani.
«Con tutto ciò che sta succedendo… sparizioni, Dissennatori, gli incendi…» la bionda, rossa in viso, incrociò le braccia.
Derek sospirò soltanto, non d’offesa, ma di sincera e scocciata stanchezza; di Adam invece rispose il pallore contrastante sulla sua carnagione olivastra; Scorpius, sulla stessa lunghezza d’onda di Nott, non seppe trattenersi dal roteare gli occhi.
Piuttosto fu Damian a riderne. «Adoro il fatto che vi permettiate di continuare ad accusarci di essere criminali con tanta sfacciataggine, anche quando siete nella nostra Casa ed avete disperatamente bisogno del nostro aiuto! Wow…» solo la cadenza degli accenti, pronunciati con più spinta,, accompagnava le parole dal contenuto provocatorio; null’altro però era stizzito o veemente: ancora sedeva smoderato, completamente riverso di schiena e capo sullo schienale del divanetto nero, gli occhi arrossati erano puntati in alto sulle candele che volteggiavano vicino al soffitto e l’unico modo che aveva d’abbassarli su un qualsiasi altro dei presenti era socchiuderli e concedere uno sguardo, di per sé lungo e tagliente, pungente. «… è sinceramente ammirevole.»
«Non ha detto nulla di così grave, se permetti.» intervenne Frank, piuttosto prontamente – come se fosse finalmente il momento giusto per provare verbalmente la sua presenza.
Tuttavia ad Harper scappò un’altra risatina – questa volta più sicura e limpida. «Paciock, potrai rivolgerti a me con tanta convinzione solo quando avrai mai toccato un boccino in vita tua e non per liberarlo.»
«E tu a me con tanta sfacciataggine se i tuoi nonni usciranno mai vivi da Azkaban.»
Rose trattenne il fiato ed Evelyn si era già portata una mano alla bocca, mentre Scorpius scuoteva il capo, sconsolato; Adam cercò e trovò gli occhi di Derek, che a differenza di lui era meno allarmato e più vigile; Fred sbuffò piuttosto sonoramente e mise a tacere i sussurri di Hugo e Lily quando James non lo fece.
«Figlio di…»
Roxanne fu la sola a muoversi e lo fece tanto prontamente che quando Adam scattò per trattenerla il secondo pugno percosse l’aria e non l’altro lato del volto di Frank che non era riuscita a colpire. Però non riuscì ugualmente ad impedirle di scalciare furiosamente in direzione del ragazzo, finché non intervennero anche James e Rose.
«Così non andiamo da nessuna parte…» incominciò la Weasley, cercando con gli occhi il supporto di Malfoy, mentre Dominique controllava il naso di Frank
Harper rise ed anche piuttosto sinceramente. «Avete messo i nostri nomi in un’accidenti di… lista di… una sottospecie di lista di proscrizione e “si dovrebbe andare da quale parte”?»



 
Ventotto giorni prima del ritorno di Louis


C’è un effetto intimamente distruttivo nello stato di vigilanza attiva e voluta.
La mente tende naturalmente al riposo, alla distrazione, all’infruttuoso, a vagare tra l’inutile e l’inconsapevole, ma se si interviene sollecitandola con la forza rientra nello stato vigile turbata: inefficiente quanto inefficace nella concentrazione, la mente è disturbata dal cercare di individuare ciò che le impedisce la naturale stasi neutra a cui tenderebbe. Infine, se tale meccanismo è ripetuto nell’arco della giornata è per più giorni consecutivi si creano le premesse per una condizione psicofisica scientificamente denominata paranoia.
Si svegliava nel sonno, Evelyn: pensava dormiente a quanto l’avesse congedata la notte prima e quanto l’aspettasse il mattino incombente. Il suo corpo era già rigido quando incominciava a percepirlo nuovamente: la tensione muscolare della schiena e delle spalle non riusciva a rilassarsi nemmeno sul materasso, così come i denti serrati ed il solco corrucciato sulla fronte. Glielo aveva fatto notare Katie durante una lezione pomeridiana di Cura delle Creature Magiche: “come se non bastasse, quel bastardo ti sta facendo venire anche le rughe”.
Eppure Evelyn non riusciva a vedere la linea di congiunzione, non diretta almeno, tra il suo dolore ed Albus, nonostante fosse evidente a tutti. Tutti quanti, la vedevano. Quando aveva cambiato pettinatura s’era sparsa la voce una suo goffo tentativo – chiaramente inutile, “povera ragazza” – di autoconvincersi di passare ad altro e dimenticarlo; quando s’era truccata si era sparsa la voce che stesse cercando di sedurlo – per averlo almeno una volta nella vita, “povera ragazza”; quando aveva iniziato a passare del tempo con Adam invece stava cercando di usare un suo amico per farlo ingelosire – quanta disperazione, “povera ragazza”.
Riconducevano tutta la sua persona ad Albus e al fatto che le avesse spezzato il cuore e solo in questo modo, con la lucidità dell’umiliazione incominciava finalmente ad ottenere il filtro che le permetteva di avere una visione del ridicolo.

«… cosa c’entro io con la lista?!»
Evelyn sobbalzò pesantemente e si affrettò a nascondersi all’angolo del corridoio principale dei sotterranei. Si stava persuadendo a recarsi alla lezione di Pozioni, ma evidentemente la discussione che Roxanne stava avendo con qualcuno le avrebbe risparmiato lo sforzo.
«… da tuo cugino e tu mi dici che non c’entri nulla?!»
Si sentì terribilmente a disagio: gli ultimi avvenimenti le avevano fatto comprendere quanto fosse fondamentale la riservatezza.
«Oh, per favore, trovati una scusa più convincente, James mi ha addirittura tolto il saluto da quanto sto c- da quando ti parlo.»
«Sapevi o non sapevi della lista?» La voce maschile era più adirata in confronto a quella di Roxanne che era piuttosto irritata.
«Per l’ennesima volta, Harper, no!» Roxanne si prese una pausa per sospirare. «Sapevo solo… sapevo della storia di una… non so, una sottospecie di talpa nel castello, tutto qui. Solo questo.»
Una risata tanto sarcastica che Evelyn non poté non sentirsi a disagio per Roxanne. «Esattamente come sospettavo.»
«È solo perché James e Lily stanno giocando agli investigatori e mi hanno tartassata di domande, non-»
«Ah quindi hanno anche la coscienza sufficientemente pulita per accertarsi che siamo criminali prima di spedirci in fila indiana ad Azkaban?! Lo sapevo che non potevano c’entrare solo i soldi…»
«Non è vero! Tutto ciò di cui m’importava erano i soldi, non volevo fare da spia e comunque non ho dett-»
Damian doveva aver riso nuovamente, questa volta il sarcasmo era meno evidente.
Evelyn ne fu tanto raggelata che perse completamente qualunque curiosità la stesse sollecitando e spiare dall’angolo le due figure, l’una contro l’altra al centro del corridoio, se l’avesse fatto avrebbe scorto il cipiglio affaticato e confuso di Roxanne, davanti a quello tanto gelido di Damian.
«Se sono i soldi ad interessarti, prendili e vattene.» Freddo e lento, scandito.
«Smettila, lo sai che cosa intendo.»
«No, non lo so.» Aveva risposto non appena lei ebbe pronunciato l’ultima sillaba, senza darle il tempo di realizzare le parole, le proprie e le sue. «E non importa.» Le proprie contro le sue. «Tu hai quello che volevi.» Le sue contro le proprie. «Io sono soddisfatto di quello che avuto.»



 
Il ritorno di Louis: l’indomani


Harper rise ed anche piuttosto sinceramente. «Avete messo i nostri nomi in un’accidenti di… lista di… una sottospecie di lista di proscrizione e “si dovrebbe andare da quale parte”?»
«Maledizione, Damian, smettila!» sussurrò Adam, ma con incontrollata foga. Stava ancora convincendo Roxanne a tornare a sedersi al suo fianco, ma non aveva smesso per un istante di seguire il dissidio al centro della scena.
«Che c’è?» rialzò il capo finalmente nel tentativo di guardare negli occhi il migliore amico, mentre assottigliava i suoi, risentito ed indignato. «Come hai intenzione di giustificare il tuo nome al secondo posto in una lista di terroristi?»
«Possiamo… possiamo per favore parlare un attimo?» Adam abbassò la voce nel tentativo di spronarlo a fare lo stesso. «In privato?» s’alzò immediatamente, ma l’amico ci mise fin troppo a seguirlo, tanto che dovette sia guardarlo esortativo che esortarlo poi più esplicitamente tirandolo per un braccio – e la svogliatezza di Damian Harper era tale che si oppose alla mano Adam con una spintonata indispettita. «Derek?»
«Sì.» rispose Nott alzandosi, ma stava guardando Scorpius.
Adam li appartò dietro un separé che qualcuno s’era permesso di portare via dalla Camera dei Segreti, dopo la festa di Halloween. Della privatezza concedeva solamente una parvenza, ma evidentemente era tutto ciò di cui Adam Zabini aveva bisogno per sospirare, passarsi le mani sul viso e guardare negli occhi le uniche persone di cui si fidava in quella sala.
Damian già scuoteva il capo, prima che lui parlasse o tentasse di spronarsi a farlo. «Ci mancava solo che perdessi la testa in un periodo così…»
«Non sto… non sto perdendo la testa, sto cercando di capirci qualcosa.»
«Perché?» e forse quella di Damian non era svogliatezza. «Perché dovresti? Perché dovremmo sforzarci di capire? Perché immischiarci? Insomma, co-cosa ne viene in tasca a noi? Perché mai dovremmo fare qualcosa per loro dopo quello che ci hanno fatto?»
Adam impallidiva sempre più. «Stai… stai generalizzando.»
«Sto generalizzando?» gridò – e il separé non attutiva nemmeno i loro sussurri, di certo non avrebbe contenuto il furore di Damian.
Derek non guardò nessuno dei due. «Sì, stai generalizzando. James Potter ha scritto la lista.» scrollò le spalle. «Di certo non è stato il cugino scomparso da un mese.»
Damian sbuffò, quasi volesse ridere. «Come se a te servisse un’altra scusa per avercela coi Potter.»
«Io non ce l’ho coi Potter, li disprezzo.» mise in chiaro, ad agio. «C’è una differenza d’azione e reazione che mi permette di mantenere più distanza possibile tra me e loro mentre li giudico.»
Harper roteò gli occhi. «Certo, come no! Ed è stringendo un Foedus con loro che vuoi mantenere questa distanza?!»
Derek scrollò le spalle ancora. «Dobbiamo sapere cosa sta succedendo. Che ci piaccia o no, siamo coinvolti ugualmente. Tanto vale entrare nel raggio di movimento.»
«Ce ne tireremo fuori.» Adam sembrava stesse promettendolo e non suggerendolo. «Se le cose si mettono male, ce ne laviamo le mani.»
«Pensi che sia così semplice? Aver a che fare con quella stirpe e tirarsene fuori quando conviene?»
«Non saprei, dimmelo tu!» sbottò Zabini, ancora pallido, nonostante accaldato dalla discussione.
Harper socchiuse gli occhi ancor di più. «E con questo cosa vorresti dire?»
«Che dovresti essere il primo qui a cercare di collaborare da quanto sei coinvolto!»
«Io non sono coinvolto in un bel niente, Adam, smettila.» aveva parlato velocemente ed improvvisamente abbassato la voce.
Sembrava che Adam stesse per scoppiare a piangere da un momento all’altro. «Fallo almeno per me.» la voce sgorgava a scaglie dal groviglio pesante in gola. «Non so cosa mi sta succedendo.» aveva sospirato dolore, le parole accompagnavano soltanto. «Sento… non capisco cosa sento addosso tutto il tempo… non capisco nulla


 
Ventisette giorni prima del ritorno di Louis


A volte il dolore era viscerale, corporeo. Diveniva dolore fisico: non era più solo la sua mente in tormento continuo e paradossale; non più solo pressione sul petto che le ibernava il respiro e le insabbiava i polmoni, soffocandola; non era più solamente angoscia insussistente, inconsistente, impalpabile.
A volte il dolore condensava divenendo materiale, carnale e lei lo deglutiva in un groppo di lacrime trattenute durante le lezioni, i pasti o nei corridoi quando non aveva il coraggio di toccarlo con gli occhi, ma avvertiva la sua presenza sulla pelle d’oca che la graffiava; solidificatosi, il dolore fondeva poi nel suo stomaco mutando in angoscia allo stato liquido, melmosa e densa, ma bollente scivolava liquefatta nel suo intestino attorno al quale s’attorcigliava ad elica.
E non sapeva raggiungerlo. Era dolore interno, interiore, come intrinseco; intangibile, intoccabile, inavvicinabile. Non aveva alcun modo di lambirlo, accarezzarlo, tamponarlo, confortarlo. Poteva solamente provarlo a piena lucidità, vivido e possente, poteva solo viverlo.

«Anche tu in ritardo?»
Quel mattino di metà novembre era freddo, sospeso – un po’ irreale. Adam l’aveva raggiunta davanti alla porta dell’aula di Incantesimi correndo. L’aveva trovata piegata su se stessa, curva, quasi attorcigliata mentre s’abbracciava il ventre.
«Che fai?» s’era chinato anche lui alla sua altezza, poggiando le mani sulle ginocchia e, tentando di spiare tra le ciocche biondo cenere, le si era rivolto con una spensieratezza tanto serena che non ebbe la forza di pensare ad una menzogna. «Evelyn, che stai cercando?»
Le aveva spostato un poco i capelli ricaduti in basso per vedere finalmente il volto esangue, scolorito, di un pallore spento, segato da due linee parallele lucide che partivano dagli occhi e non terminavano.
«Hey, che… che succede?» le aveva toccato e scosso le spalle. «Stai…» doveva aver deciso che chiederle come stesse non era tanto leale. «Ehm… guarda che il professore non se la prende così tanto per un ritardo.» aveva ridacchiato, tentando di sdrammatizzare.
La risposta che gli aveva concesso era stato un dolce singulto – dolce perché concesso, ma trattenuto.
«Chiamo… vuoi che chiami qualcuno?» s’era guardato attorno, aveva allungato la prospettiva fino al termine del corridoio, da una parte e dall’altra, dove non c’era nessuno tranne loro due.
Era rabbrividito tanto che la mano sulla spalla di Evelyn ne aveva tremato un poco: l’ultima volta che s’era trovato solo nel mezzo d’un corridoio con qualcuno, l’altra persona era scomparsa davanti ai suoi occhi.
Cercò la mano della ragazza. «Chiamo Scorpius?» l’accarezzò chiedendoglielo affinché lei fosse a suo agio a rispondergli sinceramente.
Tuttavia, la ragazza ebbe un cedimento e crollò urtando il pavimento duro e freddo con le ginocchia prima che potesse sorreggerla. E fu in quel terrificante, raccapricciante istante in cui lei ricadde all’indietro che Adam poté finalmente vederla ed urlare.
«Oh mio… Evelyn, stai sanguinando! Aiuto! Sta… Aiuto! Aiutatemi!» chinato a terra, aveva permesso che il corpo della ragazza ricadesse supino.
«A-Adam…» aveva smesso di piangere all’improvviso – singhiozzava solamente – e lo guardava con gli spalancati, allarmata dalle sue grida di cui le giungevano echi sovrapposti e disarmonici, ma sufficientemente nitidi e distinti da spaventarla.
«Ferma!» aveva infilato una mano sotto la sua camicia, lasciandola spiazzata nonostante se ne accorse diversi secondi in ritardo. «Evelyn, devi- stai perdendo troppo sangue, devi stare ferma!» faceva pressione sul suo addome, comprimendole il fiato e, allo stesso tempo, si puliva le mani sul pantalone e sulla felpa.
La porta dell’aula a pochi metri da loro s’era aperta senza cigolare e le due, tre persone che s’erano precipitate allarmate a vedere la ragione di grida tanto terrorizzate in corridoio si moltiplicarono facilmente in tredici, quattordici che circondarono immediatamente il corpo a terra di Evelyn che debolmente tentava di allontanare le mani di Adam dal suo ventre.
«Che succede? Evelyn? Che cosa… Adam che cosa stai facendo?»
Scorpius aveva spinto da parte i curiosi e s’era fatto spazio, bucando il cerchio creatosi ed avvicinandosi alla sorella accasciata esanime ed Adam Zabini inginocchiato su di lei.
«Scorpius! Scorpius, aiutala!» esagitato, spingeva ancora i palmi aperti sulla pancia della ragazza. «Devi chiamare l’infermiera, ha una ferita profonda! Chiama… chiama anche Derek, lui saprà…»
«Sono qui.» Nott era alle sue spalle, ma immobile.
«Adam.» solo Roxanne Weasley si avvicinò tanto tra tutti, fino ad inginocchiarsi anche lui. «Così le fai male.» aveva detto, prendendogli una mano.
«No! Lei… sta perdendo troppo sangue e…» tremava e li guardava sconcertato, inorridito, turbato, incapace di spiegarsi perché stessero assistendo al dissanguamento della ragazza inermi.
«Adam, ti devi allontanare prima che qualcuno arrivi.» Damian aveva allungato una mano pallida per raggiungerlo.
«Cosa stai dicendo?» domandò esterrefatto Zabini.
«Adam, non c’è alcun sangue.»


 
Il ritorno di Louis: l’indomani


«Sento… non capisco cosa sento addosso tutto il tempo… non capisco nulla
Derek aveva sospirato. «Non è solo questione di saperne di più.» con un movimento di bacchetta aveva alterato le loro voci al di là del separé, in modo che fosse impossibile ricomporre le loro parole, anche se udite attentamente. «abbiamo bisogno di guadagnare tempo.»
Damian aveva rialzato lo sguardo dal polso tremante di Adam al volto teso di Derek. «Cosa mi sono perso di nuovo?»
«Potter» aveva sbuffato, perentorio ed abbastanza svogliato. «lui avrebbe voluto essere il custode, ma non poteva.»
Adam ebbe una reazione involontaria che lo portò a voltarsi – come per accertarsi che ciò che non stava notando non fosse già esploso senza che se ne fosse accorto. «Che cosa intendi dire?»
«È un segreto vitale, tanto che avrebbe preferito mettere a rischio la vita del cugino piuttosto che rivelarlo, ma quando si è trattato di stringere un accordo vincolante non ha potuto farsi avanti e ora… guardatelo, si sta mangiando le mani.»
Adam deglutì, ma non seppe rispondere, si guardo di nuovo alle spalle, attirando lo sguardo di Damian: assieme spiarono oltre il separé, dove Potter sedeva ancora nella stessa posizione disarmonica da cui non s’era scosso da prima che si alzassero.
Damian sospirò di stanchezza. «Cosa mai al mondo può impedire ad un mago maggiorenne di essere custode di un Patto Fidelius?»
«Perché stiamo parlando di quello s…» la sibilante si troncò in un vortice tra i denti, quando voltandosi incrociò il suo sguardo. «No.» trattenne il fiato. «È già custode. Potter è già custode di un Patto Fidelius.»



 
§§§


 
Qualche ora prima – Villa Malfoy

«Granger…?»
«Malfoy?»
«Granger. Suoni il campanello di casa mia e sei sorpresa di vedermi?»
Hermione assottigliò lo sguardo tanto quanto sottile era stato il sarcasmo dell’uomo, seppur inerme. «Non credevo che aprissi tu il portone di casa tua.» suonò pungente, ma anche lei inerme. «Credevo avrei dovuto convincere qualche miserabile, sfruttato e sottopagato elfo domestico a chiamarti nonostante l’ora tarda.»
Draco riuscì a ridere ed allora tutto il sarcasmo s’affievolì in un attimo. «Mi dispiace deludere le tue aspettative tremendamente mediocri e prevedibili, ma gli unici elfi domestici che lavorano da me hanno un orario prefissato per il quale sono pagati all’ora.» appuntò abbastanza leggermente. «Ora, permetti a me d’essere altrettanto mediocre e prevedibile chiedendoti di abbandonare la soglia del mio portone, i Weasley non sono ben accetti in questa dimora.»
Hermione si permise un attimo di stasi. «…Weasley?»
Lo sguardo dell’uomo fu veloce e toccante come la brezza di una serata estiva e non autunnale, quando saettò dal sentiero poco illuminato alle sue spalle alla fede attorno al suo anulare, e ritorno.
«Malfoy, avrò pure una famiglia ora, ma rimango una Granger. Anzi, lo sono anagraficamente, dato che non ho assunto il cognome di mio marito.» Precisò velocemente e senza evitare di roteare gli occhi castano chiaro alla luce del lampione. «Ora che le nostre mediocrità non ci possono interrompere, devo scambiare due parole con te.»
Draco la guardò negli occhi un paio di momenti in più del dovuto. «Mi spiace, non ricevo a quest’ora tarda.»
«Credo proprio di sì, invece.» si oppose lei, mettendo le mani nelle tasche per tirare fuori un pezzo di pergamena arrotolato.
«Credo proprio di no.» ripeté alternativamente ignorando l’oggetto che lei stava porgendogli e facendo un paio di passi indietro per permettere ai cancelli di chiudersi. «Non ho intenzione di chiuderti il portone in faccia, Granger, dunque fammi il favore di smaterializzarti prima che riattivi gli incantesimi di difesa.»
Attese guardandola negli occhi e scrollò le spalle quando la donna non si mosse, facendo per chiudere le porte ugualmente, quando finalmente lei reagì.
Abbassò il tono quando parlò di nuovo, ma non il volume. Suonò solo greve e pacata, ma più vibrante e chiara. «Lo so, Malfoy.» disse. «So che la lettera è un falso.»
«Non so cosa tu stia blaterando. Buonan-»
«Evelyn lo sa? Sa che è tutta una menzogna?» chiese, guardandolo soltanto. «Sa di non essere una Black?»





 
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Non so chi sia ancora qui, è passato parecchio tempo e sinceramnete non so nemmeno da dove iniziare per dare almeno uno striscio di spiegazione del perché di un ritardo così esorbitante. Di mezzo ci sono stati viaggi vari per motivi vari, la laurea, la vita, la gente, l'ansia, i Bangtan, la rottura del PC, disagi vari e numerosi; però non ho mai e poi mai, ma nemmeno per un secondo, smesso di scrivere. Questa è e rimane a tutti gli effetti la mia storia principale, quella a cui sono maggiormente affezionata e non se ne parla che la lascio andare.
Ora, con molte di voi sono in contatto in privato, parecchie le ho su Instagram, alcune sono amiche oramai (S/O a coloro che sono venute alla mia laurea), molte ancora mi scrivono e mi chiedono "We Bess, ma Louis? Ma Evelyn? Ma Derek? Ma Roxanne?" ed io rispondo che ho il capitolo, ma lo devo ricopiare a computer, ma che il computer si è rotto e così via.
Ora, questo capitolo doveva essere lungo almeno una cinquantina minima di pagine, per questo motivo ho deciso di dividerlo. Spero sia più o meno tutto chiaro, ho inserito un riassunto all'inizio per aiutare, ma sapete anche che potete scrivermi privatamente.
Poi, EFP ha messo su ragnatele (sorrynotsorry, Erika) e ormai è quasi in disuso quindi non mi aspetto manco mezza recensione però mi farebbe sentire benissimo un messaggio anche via privata, davvero davvero tanto. ♥ Plus, stavo pensando di spostare la storia su Wattpad e qualcuno mi ha anche proposto di metterla su Ao3, offrendosi di tradurmela in inglese e se la prima opzione la sto contemplando (fatemi sapere anche questo magari, se preferite Wattpad), la seconda penso la postponerei ad un fatto, cioè quello di cui vorrei parlare solo in separata sede.
So che in questo caso nemmeno si tratta di un ritardo e che mi avete data per dispersa manco Louis, ma sapete anche che ci tengo tantissimo ai bimbi e non potrei mai lasciare andare la storia. Per questo, vi dico che ci sono buone notizie hehehe
Il prossimo capitolo è già scritto su un quaderno, deve solo essere ricopiato perciò posso anticiparvi che avremo diversi ribaltamenti di diverse situazioni e qualche risposta a domande pendenti quali: che diavolo succede? Cos'è che nasconde James con questa storia del patto Foedus? Cosa faranno i ragazzi sospettati? Che cos'ha Louis? Damian accetterà l'aiuto di Roxanne? Perché Rose non ha reagisto al nome di Scorpius scritto nella lista? Cosa nasconde Dominique? Perché Louis ha visto il funerale di Molly tra qualche giorno se lei ha fatto l'intervento ed è guarita? Cosa significa la congiunzione tra le anime di Adam e Lucy? E quella tra Adam e Louis? Se Evelyn non è una Black, allora chi è? Dov'è stato Louis tutto questo tempo?

Prima di andare via, vi lascio qualche spoiler del prossimo capitolo:
1.
La mano di James era troppo ferma perché non stesse trattendendo il tremore. «Louis?»
Nott, per quanto si fosse tenuto in disparte, non poté ignorare la voce rotta e stretta di James. «Cosa c'è che non va?» si era avvicinato, abbastanza spedito.
Louis si lascio accarezzare i capelli permettendosi di chiudere gli occhi perché nulla oramai poteva ferirlo di più che tornare per dire il suo vero addio. Non ci sarebbe mai stato altro fatto al mondo che l'avrebbe torturato più di quanto lo stesse facendo un momento già vissuto, mentre lo stava vivendo per l'ultima delle continue volte. E guardare James era un cara sofferenza nostalgica perché James era molto più bello adesso, col volto fanciullesco, e non ancora impresso da smorfie di pentimento.
«Lui è diverso.» aveva sentito dire, ad occhi ancora chiusi. Ma James lo vedeva anche senza guardarlo, quindi quale pace poteva avere il suo riposo? «I suoi capelli e la sua pelle sono... più scuri e il suo viso è...» perché quello era il suo ultimo ritorno per un risposo a casa. «Louis.» perché quello doveva essere l'ultimo tempo concessogli per riposare, a casa, senza sogni. «Louis, quanti anni hai?» perché quello era l'ultimo tempo donatogli per riposare, a casa, prima che i peggiori sogni arrivassero.
Rispose, anche se James non avrebbe mai saputo. «Credo... venticinque.»

2.
Le aveva dato i soldi una fredda e nuvolosa mattina della settimana prima in cui era tutto freddo e duro, compresso e massiccio: l'aria, le mura, l'assegno che aveva tra le mani. L'aveva fatto al mattino, quando gli era più facile essere lucido e meno ammalliato.
Lei era sdraiata sul fianco e gli dava le spalle nude e scure sulle quali le sue mani erano abbozzi di tempera bianca su tela ambrata.
La notte prima avevano dormito e già da qualche settimana le notti non erano altro che un dormiveglia di carezze senza pretese, ma necessarie. E si disprezzava per quanto ne avesse bisogno, ogni sera, inevitabilmente. Che fosse mettere le mani tra i suoi capelli, inspiegabilmente più chairi dei suoi; che fosse mettere una mano sul suo fianco e spostarla poi sul ventre durante la notte; che fosse sulla coscia o sul fondoschiena. Dormire era infilarsi tra le coperte e toccarla, trovandola inspiegabilmente più fredda di lui.

3.
«Sai cosa dicono alle tue spalle?» non le diede il tempo di rispondere. «Immagino di sì, ma...» fece un passo in avanti, prima di farne tre indietro, scendendo due scalini. Evelyn la raggiunse. «Dicono che sei ridicola. Ridicola e debole. Che sei ossessionata e che hai campato tutto in aria. Che Albus non c'entra niente, che tu ti sei immaginata tutto e ne hai fatto un dramma.» Si era seduta mentre parlava, ma la Black s'era irrigidita sul posto, limitandosi ad ascoltare, gli occhi inconsciamnete spalancati.
«Ma io c'ero.» soffiò allora Roxanne. «Ricordo quello che faceva, io ricordo come ti guardava, lo ricordo così vividamente.» aveva un che di commovente nella voce, ma ne parlava disgustata.
[...]
«Penso che lui ti abbia voluta, Evelyn, ma non abbastanza. Io penso che se non fosse stato per Malfoy, Albus ti avrebbe anche voluta avere, ma non ti avrebbe tenuta. Perché lo sa, lui lo sa che potrebbe averti, che tu ti doneresti, che rischieresti, eppure non ti ha. E se non ti ha, se non ti sa volere per averti, allora non ti vuole. Perché lui lo sa e non ha scuse: se ti volesse, ti avrebbe.»

4.
«Non sei curioso di sapere chi sono?» chiese senza impappinarsi, ma approfittandosi delle pause.
«Sì.» la risposta era arrivata immediatamente, segno che il ragazzo ci aveva già pensato e non si trattava di una riflessione improvvisata sul momento.
«E perché non me lo chiedi?» Katie non era nemmeno sicura se glielo avrebbe mai detto, eppure...
«Perché non volgio saperlo.» fu una confessione dolce e pura, soave a sentirsi e molto meno letale da percepire.

5.
Albus s'era alzato. «James, non essere ridicolo.» sembrava stesse trattenendo una risata vuota. «Che cosa stai facendo? Non puoi arrestare nessuno.»
«Scusa, io non ho ancora capito...» Damian si dimostrò sinceramente confuso. «In tutto ciò tu chi credi di essere?»
«Tanto non può fare nulla!» Roxanne s'era voltata a cercare i suoi occhi. «Non ti preoccupare, non è un Auror!»
«In realtà...» James si frugò la tasca interna del mantello per estrarne una pergamena. «Sono autorizzato alla reclusione sotto sorveglainza del sospettato.»


Ok, stavo mettendo un sesto ed un settimo spoiler, ma poi mi stavo lasciando andare con le scene. Ora, James sospetta di qualcuno in particolare e non gli si può dire nulla a quanto pare... chiaramente, non si tratta della vera spia, non prendiamoci in giro, quindi riapro le scommesse: chi credete che sia?
Let me know, se avete dei sospetti o in generale qualcunque appunto o in generale anche solo se volete sclerare.
Io vi saluto e vi auguro belle cose, spero di sentirvi prestissimo ♥
Vostra,
Bess

PS. I FOOLED ALL OF YOU WHO REALLY THOUGHT THAT EVELYN WAS ACTUALLY A BLACK MUAHAHAHA (rendiamoci conto che mi tengo questo segreto da quasi otto anni)
PS2.
https://www.youtube.com/watch?v=_MwibQu6dq0 (questo è un trailer che ho fatto per la storia, nel caso ve lo foste perso)
 









 

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