Scared by sun

di Rocket Girl
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Tutto iniziò nell'oscurità: L'incubo. ***
Capitolo 2: *** I. Tutto iniziò nell'oscurità: Passione. ***
Capitolo 3: *** I. Tutto iniziò nell'oscurità: Il sogno. ***
Capitolo 4: *** Tutto iniziò nell'oscurità: l'origine del caos. ***
Capitolo 5: *** Tutto iniziò nell'oscurità: La follia. ***
Capitolo 6: *** Tutto iniziò nell'oscurità: destino e realtà. ***
Capitolo 7: *** Tutto iniziò nell'oscurità: sibili dal profondo. ***
Capitolo 8: *** Tutto iniziò nell'oscurità: distillati dello stesso veleno. ***
Capitolo 9: *** Tutto finì nell'oscurità. ***



Capitolo 1
*** I. Tutto iniziò nell'oscurità: L'incubo. ***


«Ero in un buco oscuro, umido e soffocante. L’acqua mi arrivava alle caviglie, ed ero appoggiata ad alcuni mattoni dietro di me, su cui brulicavano enormi scarafaggi che cercavano cibo sulla mia pelle, per la propria sopravvivenza. A volte entravano nelle mie ferite, bruciando nella mia carne; alcuni, i più piccoli, entravano nelle vene. Era un dolore piacevole. Sì, mi faceva sentire bene.
I miei occhi pulsavano. Non li volevo aprire, perché sapevo avrei visto soltanto il nero di fronte, di lato, sopra e sotto di me. V’era soltanto qualche ombra di un punto bianco, lì sopra. Non ricordavo più cosa fosse, ma era malvagio. Brillava di riflesso, ricordavo. Era qualcosa che mi avrebbe distrutta alla sola vista. Per questo non osavo aprire gli occhi.
Elevai le dita al livello del viso, sentendo il tintinnio delle catene che si pungolavano fra di loro. Con i propri sussurri, si raccontavano storie, che io avevo imparato a percepire e comprendere. Ora mi dicevano che avrei trovato qualcosa di molto divertente sfiorando gli occhi. Amavo ridere, amavo la vita. E amavo come quelle catene non mi avessero mai tradita.
Infatti, mi sorpresero. Le dita palparono qualcosa di umido, che, al tocco del naso, iniziò a sfregare, come se si fossero asciugate dolendomi. Era bizzarra, la superficie dei polpastrelli, come irregolare.
Salirono fino agli occhi. Avrei dovuto sentire le mie ciglia troppo corte e rade, che detestavo. Avrei dovuto sentire i miei occhi troppo piccoli e tondi, protetti dalle palpebre.
Iniziai a ridere, un suono roco e duro, quasi simile alla risata di un psicopatico.
Le catene non mentivano mai. Ero libera. Meravigliosamente ed assurdamente libera.
Il mio dio aveva esaudito le mie richieste isteriche. Non dovevo più essere terrorizzata dalla prospettiva di ciò che avrei potuto vedere! Non dovevo più preoccuparmi dell’assurda fobia del buio, né di qualsiasi altra cosa! Il mio dio, colui che mi stava proteggendo dal mondo esterno, mi aveva elargito il prezioso regalo d’essere sua pari. Non dovevo avere più paure, ormai ero lì, le mie fobie erano state rese inutili e non dovevo affannarmi per il mio sostentamento. Era il mio paradiso. Il mio delizioso e silente paradiso.
C’era silenzio, che mi stordiva come se fossi in un locale con il volume alto, oltre il limite della sopportazione, ed i bassi amplificati; e mi piaceva, mi piaceva maledettamente. Dava una deliziosa sensazione d’alienazione che mi permetteva di non urlare quando quei ferri arrugginiti dietro di me laceravano la mia schiena.
Mi chiedevo quanta altra carne sarebbe rimasta. Mi chiedevo quanto ancora sarebbe durata.
Nel frattempo, mi godevo quella silente melodia che era la mia droga, il mio cibo ed il mio sangue.»

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Capitolo 2
*** I. Tutto iniziò nell'oscurità: Passione. ***


Sorrisi, guardando l’inchiostro nero che, umido, ancora brillava sulla carta candida alla luce della candela.  Probabilmente, pochi avrebbero compreso le parole nascoste dietro quelle insensate frasi e pochi ne avrebbero colto la giusta immagine. D’altronde, era perfetta: l’allegoria non era qualcosa perfettamente accessibile, ma soltanto uno dei modi per selezionare quella cerchia di persone degne di attenzione.
Chiunque aveva un particolare talento, il problema era scovarlo.
Certo. Soltanto favolette per egocentrici depressi che continuano a credere d’essere unici e speciali. Non ne avevo mai capito il motivo, e non sarei riuscito a capirlo in quel momento, ma l’umano medio sembrava essere così attratto dalla possibilità di essere qualcuno che si lasciava abbindolare da stupidi giochetti come quello che, in fondo, necessitavano solo di un pizzico d’astuzia. Non credevo d’avere un’intelligenza superiore, per nulla. Ero soltanto meno ingenuo di quanto di norma gli egoisti come me erano. O forse io lo ero fin troppo per poter essere uno fra i tanti. Qualche strizzacervelli avrebbe detto che avrei sofferto di vari disturbi, o mi avrebbe direttamente chiuso in una cella e praticato chissà quale intervento, per aiutarmi. Avevo bisogno d’aiuto! Ero folle, ero incoerente, ero pericoloso! Che paura!
Era la paura che sentivo mentre percepivo i fremiti della pelle che sfioravo?
Oh, ma che tenerezza!
“Già, curioso come si accusi gli altri di ciò che tormenta il proprio, innocente, piccolo animo, vero?”
Il mio fu appena un bisbiglio, ma servì a provocare altri tremiti in quel corpicino così attaccato alla vita da farmi venire la nausea. Aveva già la morte, in sé; peccato che fosse così testardo da non ammetterlo a se stesso. O stessa. A dire il vero, ormai mi sembravano talmente uguali l’uno all’altra che faticavo a distinguerli fra loro. Erano creature così curiose, erano capaci di sperare fino alla fine che arrivasse l’angelo vendicatore a salvarli.
Mi scappò una risata che, sfortunatamente, provocò gemiti in quella cosa. Bastò ciò a farmi tornare impenetrabile, come pochi attimi prima; erano i particolari che odiavo di più, erano così detestabili da poter rovinare il buon gusto di un’ironia eccellente se si lasciavano andare.
Assaporai la voluttuosità della lama sottile, tanto raffinata da riflettere la luce riflessa che cadeva sulla stanza, era in assoluto ciò che preferivo di più: il modo in cui catturava anche i minimi bagliori, la sua infallibilità non dovuta ad una particolare natura, la sua assenza di pietà o di esitazioni; mi sussurrava dolci frasi d’amore, in una lingua sconosciuta che nessun’altra creatura avrebbe potuto comprendere  o imitare, ed i suoi pensieri! Non erano mai banali, superficiali o sciocchi, riuscivano sempre ad arrivare al mio cuore, rendendomi pateticamente sensibile, assoggettandomi al suo potere.
Aveva una forza implacabile, sì. Era spaventosa.
Sarei dovuto essere terrorizzato.
Sarei dovuto scappare.
Sarei.
Purtroppo, non potevo lasciarla sola.
Era la mia unica amante e la mia amica.
Era una sorella, una madre, una nonna, era me stesso. Non avrei saputo dire perché, ma mi rendeva emozionato ed orgoglioso d’essere chi ero.
Mi chinai.
“Ecco il tuo delizioso e divino oltretomba.”
Praticai un’incisione poco sotto l’osso frontale, appena dove finiva il bulbo. Sangue, sangue lucente iniziò a sporcare la pelle vellutata della mia piccola.
Digrignai i denti. Non potevo evitarlo.
Iniziai a sentire le sue urla, spazientito estrassi lei e placò quel rumore. Un pezzo informe di carne cadde a terra, e tornammo ad essere io e lei.
Praticai il pentacolo sulle palpebre, prima di rimuoverle. Continuai la mia opera, e al termine tirai un sospiro soddisfatto. Udii un rantolo rassegnato, e subito dopo la pace calò su noi due come le braccia protettive di una madre che tiene stretti i due suoi figli, per proteggerli. Antonio Egas aveva ragione.

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Capitolo 3
*** I. Tutto iniziò nell'oscurità: Il sogno. ***


Iniziai a scappare.
Fuggivo da quell’incubo.
Evadevo dalla mia realtà, che non distinguevo più.
Cercavo me stessa e la mia vita, lontano da ciò che ero.
Pregavo perché esistesse qualcuno sopra di me.
Impetravo perché mi sbagliassi tremendamente.
Ero una ragazzina che cercava con le unghie, con i denti e con la pelle – quella pelle che rivestiva quelle strette mura, quella pelle che aveva fatto presto a scappare via dalle mie carni – di riavere la sua vita, mossa da un istinto di sopravvivenza che l’avrebbe uccisa. 
Nella mia mente si figuravano prati smeraldini ed infiniti, ero un falco che volava via da quel buio e planava sull’erba umida di rugiada, per poi elevarsi in alto, fino a sfiorare le punte degli abeti secolari, fino ad essere tanto lontano da quella gretta terra da dubitarne l’esistenza. Strillavo, e sentivo repliche come se il mio grido attirasse altri miei simili, ammaliati e sconcertati dalla mia presenza.
Mi guardavano, e m’irrigidivo in una posa d’orgoglio.
Mi ammiravano, e fiera distendevo i muscoli del collo.
Mi idolatravano, e sentivo d’aver raggiunto il mio scopo.
Ero la loro dea, ero la loro fonte d’estasi. In me vedevano un mito ed un punto d’arrivo, erano terrorizzati ed ammaliati dalla mia visione. Le mie ali s’estendevano così a catturare l’infinito, ed ero ovunque, e l’aria, la terra, l’acqua, erano così piene di me da rendere la mia esistenza nulla. ero entrata nel cuore pulsante di quella misera sfera d’universo, ero dentro la vita di ogni suo essere. Il mio battito era quello frenetico di un pulcino, quello possente e calmo di un predatore. Assorbivo lentamente la forza dal sole, silente, inoffensiva, aspettando di esser abbastanza forte per andare oltre.
Non mi volevo fermare.
Non volevo arrendermi.
Assorbivo ogni singolo istante di luce, ogni fotone, nell’attesa che mi caricassi e, producendo quell’ozono tanto caro alla vita, potessi esplodere in una nube di ozono e monossido di carbonio; veleno letale, che si dilaghi ovunque, raggiungendo gli anfratti più nascosti di quel misero pianeta attorno a me. M’infilavo meschina nella lava, nelle vene della Terra, ed istigavo il magma suscettibile, lo provocavo, creavo una tensione che scoppiava e rivestiva l’arida terra quasi priva di vita. Il pianeta si riformava, lavava le sue creature con il proprio sangue, le purificava e faceva tornare quella forza vitale strappata anzitempo a me.
Mi beavo con la vita di tutte quelle creature che un tempo furono indifferenti alla mia lenta morte e diventavo tanto forte da non riuscire a contenermi più entro quei limiti che un tempo erano stati quasi divini ai miei occhi; raggiungevo quelle fredde ed amorfe stelle che non avevano alcuna utilità oltre all’aspetto, e arrivavo al cuore di ogni cosa, arrivai finalmente al centro della vita, e vidi il divino scendere dal suo trono di luce e fuoco e darmi il suo scettro. Io, da atea, arrivai a stendere le mie braccia e raggiungere i confini dell’infinito, arrivai a dominare quello sprazzo d’universo concessoci da una serie di casualità. 
Arrivai al centro esatto dell’infinito e chiusi gli occhi. 
Mi lasciai andare, terminai la mia affannata corsa verso l’irraggiungibile. Avevo spodestato un dio che non era mai stato realmente tale e ne avevo incarnato le forme e le potenzialità. 
Ero fuoco, fiamme e luce. Davo vita ad ogni singolo essere il cui cuore pulsasse in quell’universo, assistevo all’apocalittica rinascita della vita. Ero la causa della morte e della vita. 
Vidi i primi barlumi di candore nascere, nascondendo dentro sé la torbida realtà della propria istintiva essenza.
Sorrisi.
Risi, e scoppiai in un tripudio di nulla.

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Capitolo 4
*** Tutto iniziò nell'oscurità: l'origine del caos. ***



Lo specchio, in quella topaia, rifletteva una figura tutt’altro che inquietante o minimamente degna di nota, e, quasi fosse annoiato da quel manierismo, pigro e sonnacchioso dava oscure immagini di uno spettacolo quotidiano. Un tempo era stato ambito, ammirato, persino combattuto; ora era nient’altro che un ornamento riflettente in un buco che aveva tutta l’aria di star per cadere a pezzi, il cui scopo segreto era coprire una crepa troppo profonda e grossa per esser casuale. Ciò ch’era più inquietante e lampante però era la ruggine che poco si distingueva dalle macchie di sangue, quasi fossero miste fra loro, con a volte percentuali diverse. La superficie era piuttosto lucida, tuttavia, e probabilmente l’unica cosa curata dell’intero appartamento. Il padrone, difatti, sembrava fosse tanto concentrato nell’analizzare i dettagli del suo aspetto da non accorgersi d’essere al mondo: ci si chiederebbe come una personalità simile sarebbe potuta esser tanto pacata nell’avere l’oggetto del suo amore incrinato, o perfino spezzato. Era un assurdo ragazzino rachitico infagottato nei suoi vestiti scuri, benché la temperatura fosse mite; a guardarlo così, con gli occhi infiammati da una causa sconosciuta e lo sguardo assente, si sarebbe pensato fosse sotto gli effetti di qualche siringa, o qualcosa comunque piuttosto simile. I capelli, che sembravano urlare pietà per un intervento drastico, erano tinti – neppure il proprietario probabilmente ricordava la loro colorazione originaria, tant’era netta la distinzione fra le gradazioni del colore – e dichiaravano chiaramente quanto fosse bizzarro il narcisismo di quel becchino fuori età. Gli unici abiti che, difatti, si vedevano oltre ad una voluminosa sciarpa nera – che fra l’altro gli copriva metà volto – e il lungo cappotto funereo era un paio di jeans troppo larghi e lunghi per lui, arrivando a coprire perfino i piedi. Le mani – che tentavano di coprire con il tessuto etereo quanto più possibile del volto, non arrivando peraltro ai profondi sfregi arzigogolati che deturpavano la pelle già malsana tesa al massimo sulle ossa sporgenti. Sorrideva, euforico, quando le dita guantate di nero sfioravano quelle fosse violacee che contenevano un paio d’occhi candidi da cui spiccavano le iridi corvine. Il suo sguardo era raddolcito, e tutto nelle movenze ricordava un amante che accarezzi le guance della sua personale ragione di vita; il motivo di quell’infatuazione era piuttosto oscuro.
Torniamo al primo punto di vista: lo specchio avrebbe potuto tenere un conferenza d’un anno senza pause, sul suo quanto mai inconvenzionale padrone e sull’incomprensibile idolatria verso i propri bulbi oculari.
Avrebbe potuto dare un fotografia di quello sguardo, tant’erano le volte che l’aveva visto; a volte lo sfiorava così da vicino che per un istante si sarebbe detto si fossero incollati. Tuttavia, quel riflesso niente ci poteva dire di cosa s’agitasse nella mente del ragazzino – che, in tutt’onestà, quanto più pareva all’esterno innocuo e banale, tanto più in realtà era il diavolo personificato. Lo si vedeva camminare per strada, come ad un piede nella vita ed uno – seguito a dire il vero da quasi tutt’il resto del corpo – nella fossa. Era il punto di riferimento degli sguardi sonnacchiosi e forzati degli abituali della metro – per un motivo o per un altro – e l’oggetto di pietà di crocerossini troppo utopisti. Quando tuttavia intralciava la solita via di un borghese, ansioso di tornar a casa pregustando la massima aspirazione - trovare al proprio rientro a casa un caldo pasto poco salutare, birre e gli amici – scatenava una violenta reazione contro l’improvvisato becchino, il carnefice in questione veniva dato per disperso dopo pochi giorni.
Nessuno aveva mai sospettato del ragazzino sudaticcio che camminava lentamente, inciampando nei propri stessi piedi.
Nessuno a dire il vero era mai a conoscenza della sua esistenza.
Eppure, lui non s’era mai mosso dal proprio paese.
Ed il paese non aveva mai protestato alle vittime che da diec’anni a questa parte sembravano sparire ritmicamente.

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Capitolo 5
*** Tutto iniziò nell'oscurità: La follia. ***


Era soltanto un ragazzino. Un ragazzino oscuro, bizzarro; probabilmente uno di quelli fissati con la moda del gothic. Traspariva un senso d’inquietudine probabilmente piuttosto ricercata, dato che ovunque fosse, la sua strada era vuota e spianata. Era l’unica persona nel raggio di miglia, e l’unica compagnia era costituita dalle sue ombre, quelle fisiche e dentro la sua anima, dentro i suoi occhi. Quegli occhi così chiari, che facevano a botte con la chiarezza del sole, eppure tanto più freddi quanto questo fosse caldo.
Era un ragazzino.
Era soltanto un ragazzino solitario.
Era un ragazzino che camminava barcollando, quasi fosse ubriaco.
Era un ragazzino con un piede nella fossa e l’altro sull’orlo.
O forse, l’altro era la morte stessa, e il becchino new age aspettava soltanto che lo prendesse interamente, per poter assumere appieno quell’aria decadente da angelo della morte – e che attrattiva, che speranza per uno come lui!
Le sue mani, come artigli neri, erano tese quasi aspettassero di soffocare un collo.
O di spezzare qualche osso, così da poter giocare ancora un po’.
D’altronde la morte e la vita erano soltanto questo, un gioco. Ci si divertiva, si saltava dall’una all’altra senza problemi, sfiorandole ogni volta, rimanendo in uno stato di dormiveglia allucinato che veniva eccitato dall’ebbrezza della paura altrui. Erano così stupide, le emozioni umane.
Lui era diverso.
Era riuscito a salire fino a rendersi un dio, e si nascondeva fra le ombre di una strada solitaria in un giorno nuvoloso, le cui nuvole nere urlavano pioggia imminente. Anzi, urlavano tempesta.
Tutto questo avrebbero dovuto, in una persona normale, provocare angoscia. In un meteoropatico quasi depressione. In un meteoropatico sano, per meglio dire. Perché lui non era normale, non era mentalmente stabile, e ne andava fiero. D’altronde, cos’era follia e realtà?
Si definiva follia lo stato in cui una persona parlava e pensava in modo del tutto incoerente.
Si definiva folle qualcuno le cui reazioni erano anormali, erano eccessivamente violente o inadatte alla causa che le aveva scatenate.
Incoerenza? Normalità? Violenza? Adattabilità?
La coerenza non era adattabile alla vita umana. La coerenza era la capacità di far coincidere ogni atto ed ogni pensiero, e l’uomo non era tale. L’uomo viveva di contraddizioni dal momento in cui era concepito: nasceva per morire. Tentava di rallentare il proprio destino, di andare controcorrente e mostrarsi il più possibile lontano dalla morte. Pensava di volersi innalzare dal proprio suolo delle convinzioni comuni, e mostrarsi nella sua bellezza, e restava miseramente ancorato al terreno per paura del giudizio altrui. Si chiudeva nel proprio guscio d’ignoranza e luoghi comuni, terrorizzato da ogni cosa e protetto dalla sicurezza che strisciando nessuno avrebbe mai notato la sua esistenza. Denominava folle chi spiccava il volo, chi radeva al suolo con tutte le proprie forze quell’inutilità velenosa che tentava d’ostacolare le sue ali che s’aprivano temerarie a coprire l’universo misero di quelle formiche, di quegli insetti che non sapevano far altro che temere l’aquila.
La follia non era altro che desiderio di sentire l’aria che accarezzava la pelle, vedere le gocce che si cristallizzavano sulla pelle e sentire il sole che bruciava questa, umida d’acqua salata, mentre piccoli cristalli salini, che sembravano quasi diamanti, brillavano sulla pelle. Era far quel che si voleva senza paura del giudizio, sfidare dio ed avere l’ardire di proclamare la propria parità.
Era folle.
Era la cosa che più amasse di se stesso.
Vedeva nel suo sguardo l’ardire della differenza, vedeva i riflessi di quella sociopatia – e chissà cos’altro! – che spezzavano le catene che lo legavano al mondo.
Era un ragazzino, sì, ed era meravigliosamente libero dalla mediocrità umana.

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Capitolo 6
*** Tutto iniziò nell'oscurità: destino e realtà. ***


 
Lo videro entrare in un portone che sembrava l’ingresso per l’inferno. Era fra una congrega di una qualche setta religiosa ed una centrale nucleare in disuso, e sopra la catapecchia un’insegna sbilenca portava qualche segno che un tempo si sarebbe detto una parola. Dentro era buio, sembrava d’esser tornati nell’utero ed era meravigliosamente esaltante – perfino l’umidità si trasformava in gocce che scendevano lungo il suo viso, ed avrebbe potuto percepire il cordone ombelicale che gli portava quell’aria che sembrava liquida. Assunse improvvisamente movenze fini, e con gesti estremamente affettati lasciò cadere i vestiti che ricoprivano l’intera figura, rivelando un corpo snello e dalla muscolatura ben tenuta, anche se sottile – si sarebbe anche detto femminile. Sembrava scolpito nel marmo, e d’altronde la pelle candida riluceva dei pochi raggi rossicci che arrivavano, permettendo agli specchi che fungevano da pareti di riflettere una figura che sembrava tratta da un incubo, con l’armonica inquietudine nelle movenze che ricordava quella di un serpente. La sinuosità dei muscoli che si contraevano e distendevano era ipnotica ed aveva un che di letale, le gocce che si rifrangevano su quella marmorea apparizione soprannaturale – e più tendente al demoniaco che al divino - sembravano testimoniarlo. Le dita, che s’erano rilassate, tiravano i capelli maltrattati lasciandone soltanto pochi centimetri, che tuttavia ricordavano le ali di un corvo per forma e lucentezza.
Non si poteva definire bello, né fisicamente attraente- era troppo etereo per poter avere una benché minima carica erotica.
Tuttavia, nel modo in cui anche solo le spalle s’ingrandivano permettendo all’ossigeno di fare il suo circolo nel corpo, ammaliava un qualche osservatore immaginario. Era straordinaria la metamorfosi, quasi avesse accettato dentro di sé la totale presenza di Satana, con il suo lato distruttivo e l’irresistibile eleganza che faceva precipitare ogni essere nel proprio baratro. Era tuttavia meno interessato alla propria figura che mai.
L’oggetto delle sue attenzioni era un oggetto di legno lucido, nero nell’oscurità. Il candore dei polpastrelli si sporcò dell’acqua nera che cadeva goccia a goccia sulla superficie del piano, e arrivò a sfiorare i tasti, che sembravano i denti di una bocca ridente della crudele imperfezione di quella scultura vivente in marmo; al ché le unghie si strinsero su uno di quelli ed una nota dal suono profondo partì, a cui ne seguirono altre, finché una melodia dal suono dolce ed etereo si diffuse nell’aria. E, man mano che il viso del giovane sembrava attraversato da strazianti lampi d’emozioni, le note raggiungevano picchi acuti e gravi nello stesso minuto, in una cacofonia che aveva il suo fascino.  Era apocalittica, ed aveva un tono d’orgoglio smisurato – per sé e per la barriera che fieramente l’aveva sempre separato dalla nascita.
Le note sembravano cantare la storia della sua vita.
Sembrava cantare il pianto che non era mai nato, le urla soffocate da una nascita silenziosa come un aborto. Un bambino che era nato con un aspetto angelico, troppo bello, troppo perfetto.
Era silenzioso, sembrava voler risparmiare le proprie parole.
Ipotizzarono non urlasse perché fosse muto, poiché il respiro c’era, i polmoni lentamente e ritmicamente – dom, dom, dom – si riempivano e tornavano alla normalità quasi come con rimpianto, come se volessero tenere l’aria per sempre.
Era la sua vita. Era appena nato, e sapeva di dover trattenere tutto per sopravvivere. Era nato e già sapeva di dover mantenere un profilo basso,di cercare di strisciare sottogamba per poter colpire nei punti giusti e far franare chi aveva di fronte.
E ci si aspetterebbe che sia nato in una giornata gelida e piovosa, da una madre tutt’altro che in grado di mantenere un bambino ed,essenzialmente, incapace di gestire anche solo la propria vita.
Ed invece no.
Ed invece era nato in una splendida giornata di Maggio, non tanto calda da render perfino i muri madidi di sudore ma neanche fredda da infastidire, essendo la luce solare abbastanza forte da dare il calore necessario a sollevare gli umori e i corpi.
Era nato da madre giovane, ma cosciente di sé e del mondo, cosciente della propria lotta per l’affermazione – che tuttavia, neanche a dirlo, fu sopperita per i propri ideali.
Nacque fra lo splendore di cliniche private e la morbidezza di tessuti ben fatti, fra quasi troppa gente che s’occupasse del suo benessere ed alcun dettaglio che potesse nuocergli.
Nacque per essere un dominatore, un uomo di potere e di carattere che potesse arrivare a comandare il mondo.
Nacque essendo un perdente, un vigliacco che aveva dato i respiri per paura del soffocamento.
Crebbe per essere un uomo di mondo, pieno di cultura e con una dialettica incontrastabile.
Crebbe essendo un gracile esserino che amava ardentemente l’idea della fine ma era troppo codardo per realizzarla.
Visse per essere qualcuno.
Visse essendo nessuno.

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Capitolo 7
*** Tutto iniziò nell'oscurità: sibili dal profondo. ***


  
C’era un foglio su un tavolo marmoreo e nero, la cui lucidità brillava dell’argento della luna. Non un granello di polvere sporcava quello che sembrava la pura oscurità incarnata in una superficie d’ebano, né tantomeno il foglio deturpava l’inquietudine che quella figura affilata nei suoi contorni sprigionava tutt’attorno a sé: sembrava uscire dalla fantasia di uno scrittore decadente sotto i fiumi della fata verde, ed in effetti la personalità che lo possedeva non era di gran lunga differente, tant’era vero che le pareti circostanti erano solcate da pugnalate rosso sangue, l’intonaco a macchie cadeva sul pavimento lurido e v’erano strani simboli mai scritti prima, e al posto di sedie che teoricamente avrebbero dovuto seguire l’oscura armonia del tavolo, v’erano pezzi d’acciaio incrostati di qualcosa di un non ben definito color bluastro. Uno strano occhio tuttavia impediva di focalizzare lo sguardo sui dettagli di quella camera che – per quanto ne avremmo potuto sapere – avrebbe potuto emanare anche fumi radioattivi, e lo sguardo era fisso su quel foglio sgualcito, su cui la grafia era piuttosto  arabeggiante, con ghirigori improvvisati ed una calcata inclinazione verso sinistra. Le linee erano sottili, e fra una lettera e l’altra talvolta c’erano macchie d’inchiostro dovute forse alla fretta, o ad una pausa riflessiva. All’inizio la grafia era incerta, mutevole, quasi lo scrittore fosse incerto di ciò che scrivesse, poi sembrava aver trovato la sicurezza e la decisione che gli mancava, e verso la fine era addirittura incisivo, quasi volesse risaltare i propri pensieri su carta; il che era buffo, perché il legame sarebbe stato meglio spiegato con un poeta melanconico che con un ragazzino con manie sadiche. E tuttavia, spesso son quelli che sembrano più prevedibili a sorprendere…
Probabilmente quel che scriverò rimarrà come cenere nelle sporche fogne di una città sovrappopolata e a bagno nelle tossine d’ogni genere. Cremerò questo pezzo pulsante e fin troppo scoperto dell’animo di una persona che non dovrebbe averne, che l’ha evidentemente ucciso per comportarsi in una maniera tanto bestiale. È orribile la coscienza di chi essenzialmente non ne ha, e bizzarra: non esiste persona vivente che non rifletta prima o poi alle sue azioni, anche se lo nasconde o comunque sopprime quell’acido che corrode la sua candida e perfetta bolla di felicità. Invece quelli come lui, i reietti, sono coscienti dal primo all’ultimo istante delle proprie azioni, ed istintivamente si domandano in quella frazione di tempo se le proprie azioni siano o meno giuste, ma è troppo il rancore verso l’umanità e se stessi per poter razionalizzare. In questo momento mi sento come in un incubo nero, sono in questa stanza umidiccia e una puzza ferrosa arriva al mio olfatto, mentre ogni tanto sento delle gocce cadere su un lembo di pelle scoperto. Urlerei, se avessi voce, e scapperei se non fossi estremamente fiacco e pigro. Mi sembra d’essere in una delle bare che scommetto molti mi ci vedrebbero riposare. Forse una volta o l’altra ne ruberò uno – perché i cadaveri dovrebbero marcire fra velluto e legno? – e mi sveglierò senza qualche fastidiosa sensazione umidiccia o altro. Forse aprirò qualche tomba e nel bisogno mi ci rinchiuderò; sarebbe divertente vedere la confusione del popolino scandalizzato e il piacere soppresso dei sadici atteggiati a santi. Magari un giorno o l’altro trafugherò bara e cadavere. Di un bambino.
Invecchiare mi fa ribrezzo. Penso non ci sia cosa peggiore; la pelle diventa grigia e si diventa pressappoco del colore della polvere, quasi a ricordare la fine che di lì a breve si farà – solo gli occhi rimangono del loro originario colore, se non si va troppo oltre. Altrimenti anche quelli sono andati.
Gli occhi. Gli occhi di lei. occhi di smeraldo, occhi caldi come raggi solari, puri. Occhi mai invecchiati. Occhi macchiati dalla vergogna.
Quant’è la differenza fra la purezza e l’ipocrisia? Qual è la differenza fra bene e male?
Ci si chiede tante cose che alla fine non hanno risultati. Sapere una qualche teoria pseudofilosofica non porta ad alcunché. La mente non è altro che un’unione di logiche varie e pure contrastanti, scelte a caso fra i milioni di tipi. C’è chi dice che ognuno sia diverso e speciale per una qualche lucetta interiore chiamata anima – che poi mi domando cosa sia, energia pura? E come mai quando si sfiora il fuoco o l’elettricità ci si fa del male e con questa anima ci si convive? – e questa cosa sarebbe la spiegazione per la personalità e il carattere di ogni individuo.
Nella mia testa ho il paradiso e l’inferno,tutt’e due lottano a sangue per ottenere la supremazia sul mio agire, e mentre loro urlano e sbraitano, io decido per me. È che a volte vorrei davvero essere compito ed omologato, un credentuccio tutto casa e chiesa con una vita ordinaria e dedita al nulla.
A volte invece vorrei star lì, guardare dall’alto il mondo intero  e sotto lo sguardo di tutti far qualcosa per cui esser ricordato fino all’apocalisse – ossia fino alla nascita della prossima bugia mondiale. Ovviamente il ricordo sarebbe incrementato dalla mia morte istantanea. Un dramma. Una tragicommedia in cui mi vergognerei, fossi il protagonista.
Forse.
Forse no.
È che trovo il mondo terribilmente sciatto, e cerco di distruggerne i dettagli più impercettibili per arrivare alle fondamenta. Un mondo che essenzialmente di fondamenta non ne ha. Forse è questo il problema.
Forse io sono il problema.
Guardatelo, lo schizofrenico ragazzino pluriomicida illuso di poter sconvolgere il mondo!
Anche se effettivamente anche una formica è capace di sconvolgere certuni.
Certe volte penso che una formica possa essere più grande di me. Quegli occhi neri m’attraggono tanto che potrei rimaner ore a guardarle.
Forse tanto formiche non sono.
Non riesco a concluder
Devo iniziar a pensare di scrivere un pezzo coerente, esauriente e minimamente intellegibile.
Meglio dovrei. Ok, ora bas ci proverò.
Chi sono? Neanche io lo so. Un misto di qualche decina di persone del tutto differenti fra loro. Penso abbia una personalità tanto frammentata da esser polvere. La cosa divertente è che comunicano fra loro, e battibeccano. Il tutto nella mia mente.
Sono la feccia più bella e pura che esista. Affetto da sadismo e chissà che altro, in realtà non m’importa molto ciò che un serioso uomo con un posto del mondo direbbe di me. Neanche una donna. Forse neanche me stesso.
Riproviamo.
Sono nato mentre ci si scioglieva dal caldo, e silenzioso come una vipera cresciuto succhiando le linfe vitali a chi tentava di farmi crescer bene. Che poi, non mi dispiace affatto come sia. Sarò l’unico?
Essenzialmente soffro parecchio le temperature, quindi potrei liquefarmi nel sudore in una tempesta di neve e morire per congelamento in piena estate, fra le sabbie infuocate di un deserto.
Sono patologicamente bugiardo, han detto. Io continuo a credere che la loro visione della realtà sia distorta.
Di me han detto tante cose, che ho la nausea. Tutte queste definizioni, questo voler etichettare ogni filone… ha davvero un senso? Porta a qualcosa?
Penso principalmente il problema stia in come cresciamo. Io ho avuto troppi dogmi sociali, sono stato infagottato come un tossico di acidi ed ideologiche polverine che, sul limite dell’overdose, ho deciso di disintossicarmi e diventare un qualcosa di puro. Forse non sarà politicamente corretto, ma è effettivamente ciò che accade. Son diventato un ribelle soppresso che agiva nelle norme sociali pensando l’opposto di ciò che sorrideva ed amando ciò che condannava. Non la chiamerei ipocrisia, piuttosto mi dicevano fossi troppo giovane per dire il mio pensiero, ed io ci credevo ed agivo come tale.
Io sono oggi ciò che altri hanno fatto di me.
Voglio precisare che non è la mia una sorta di vendetta contro un’infanzia oppressiva, o qualche istituzione divina contro cui vado per risaltare. Non c’è nulla di divino, se non la mente che riesce ad astrarsi dai luoghi comuni e raggiungere un legame profondo con le proprie convinzioni.
Io uccido.
Uccido perché mi fa sentire vivo.
Uccido perché amo il cannibalismo.
Uccido perché trovo giusto gli altri soffrano.
Uccido per ripulire l’umanità.
Uccido perché sono dio.”
 

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Capitolo 8
*** Tutto iniziò nell'oscurità: distillati dello stesso veleno. ***


 
“È orribile… come si può essere così crudeli?”
V’era una folla tutt’attorno a quello che chiamavano una pover’anima sfortunata – che poi, ci si domandava segretamente con quale coraggio si chiamasse un pezzo di carne putrefatta anima. O sfortunata. Tal magia era da attribuirsi ad una caduta imprevista o ad una perdita di soldi, non ad un galante incontro con Hannibal Lecter dei poveri, no?
Eppure era proprio così. Quella che era stata una persona con tanto di parola ora non aveva lasciato il minimo indizio per dichiarare chi fosse. In una bigotta comunità sonnecchiante, poi,  aveva seminato il solito panico e la solita diffusione di superstizioni quasi al pari di riti pagani.
Chi semina vento raccoglie tempesta, si dice.
Sarebbe stato più corretto dire che si raccoglie un campo mezzo distrutto e terriccio ovunque. Come si può seminare una forza della natura?
Non la si può ingabbiare o tentare di distruggere. È da sempre esistita, quindi il suo destino non è perire per mano di esseruncoli malfatti che credono in un dio che, alla fine, non è altro che una lode personale.
Nonostante questo, qualche coccodrillo si sarebbe infuriato, notando quasi la totalità imitare le sue lacrime. C’era addirittura chi urlava dal dolore… ma poi, il coccodrillo che verso aveva?
Era buffo che esistesse un detto per le lacrime – che erano una caratteristica umana! – e non per il detto.
Ipotizziamo che fosse un verso immaginario. Ecco, le urla di quel piccolo paese erano strilla di coccodrillo.
Fra l’altro, in tema con ciò una disperatissima madre di due infanti si strappava i capelli con le unghie laccate di verde acido, in tinta con la borsetta di coccodrillo. Tanto per sembrar profondamente addolorata.
Un senzatetto, svegliato con gran fastidio dal baccano, guardava malevolo la scena e rideva ai giochi dei bambini appena poco più in là che imbarazzavano terribilmente le madri. Altro che innocenza infantile, era fatta da veri e propri demoni la fascia umana al di sotto della cosiddetta maturità, ossia una profonda conoscenza dell’arte del savoir faire, equivalente ad una politically correct arte dell’ipocrisia.
Lo stesso vagabondo notò due ragazzi pressoché identici che guardavano la stessa scena l’uno divertito, lontano rispetto al gruppo dei possibili suicidi, l’altro con aria quasi annoiata guardava quasi di continuo una biondina vestita in una strana uniforme che a quanto pare avrebbe dovuto capire chi fosse la “pover’anima sfortunata”.  Cosa pressoché impossibile, ma la speranza dovrebbe essere l’ultima a morire… e la prima ad essere condannata. Purtroppo non è mai nata, se non come misto di falsi ottimismi di stupidità.
Il sosia indifferente s’allontanò quando l’ispettrice sorrise contrita. Di lì a poco, a giudicare dalla sua fretta, si sarebbe scatenato l’inferno.
L’altro, il sadico, sparì fra pini ed abeti, invisibile all’attenzione pettegola altrui, se non a quella del menefreghista che lo seguì.
A vederli, sembravano vittima e stalker di un gioco che conoscevano fin troppo bene. Quando l’uno saltava o svoltava, l’altro silenzioso lo seguiva, addentrandosi nell’oscurità inquieta di un bosco.
Si sentì, piuttosto fievole, il pigolio lamentoso di qualche neonato abbandonato nel proprio nido, tipico di un richiamo affamato. Quasi come risposta v’era il pianto orribile di una civetta, che fece sogghignare entrambi i protagonisti di quell’inseguimento pacato.
Il primo si girò, e fissò il secondo, che aveva ripreso il proprio cipiglio irritante. Scosse la testa e saltò sul ceppo di qualche antico albero, aspettando che l’altro s’accomodasse di fronte a sé.
“Potevi evitare di  renderla inguardabile? Volevo vomitare.”
Suscitò nella copia sadica una risata incontrollata, come a risposta negativa.
“E dire che mi sono limitato…”

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Capitolo 9
*** Tutto finì nell'oscurità. ***


“Limiti… c’è cosa più brutta? Nasci credendo di poter far ed aver tutto, e lo pensi davvero, finché non t’accorgi che devi lavorare duro per ottenere il minimo. Cresci e ne sei sempre più cosciente, arrivi sotto i venti che credi tutto quel che tu possa fare non abbia mai il giusto compenso e arriva uno scienziatello di second’ordine che pensa d’esser chissà chi, e sputa fuori che usi solo il 10% circa del tuo potenziale e poco più ti basterebbe ad esser un genio. Non solo, se usassi interamente le tue facoltà scoppieresti. Bella consolazione dopo esser stato avvelenato mortalmente da una cosetta chiamata cultura, vero? Che poi, è un misto di miti, forse, se e perché pensati da gente più malandata di te. Magari sotto l’effetto dell’assenzio o chissà che. Ma poi…”
Il minaccioso, l’elegante e l’affascinante sparivano nella mimica di quel discorso che, essenzialmente, era un misto del flusso di coscienza di un folle ed i sogni di un ragazzino, provenienti dalle labbra di quel che sembrava comprendesse entrambe le categorie, eppure al di fuori di quelle parole si sarebbe detto né l’uno, né l’altro.
“Sono discorsi insensati e fuori luogo, risparmiamene. Non è che l’essere un omicida psicopatico t’autorizzi a delirare. Perdi tutto il tuo charme, sai… è un peccato, Lecter scommetto ti avrebbe preso in simpatia, per poi far di te la sua cena, spero comunque. Sareste sprecati altrimenti. Storia magnifica! Già immagino gl’articoli, me intervistato da giornaliste annoiate dall’ennesima notizia morbosa, ovviamente resa virale.”
Mr Hyde dei poveri rise, e saltò dal ceppo al ramo più basso, suscitando le perplessità del Dottore senza laurea. O conoscenze mediche che siano tali, il campo anatomico di cui era provetto era piuttosto lontano dalla definizione di tradizionale medicina.
“Curioso come il macabro solo abbia il potere di diventare così famoso. Poi non è vero che il colpevole è un mostro! Io ho rimorsi. Non vorrei dipingessero tutto come un delitto passionale. Il problema non è la foga, farei volentieri a meno di uccidere, se fossi morto. O se tu lo fossi. Sempre insieme, giusto? Quindi sono in questa situazione tanto quanto te.”
il suo riflesso sorrise. I suoi occhi scintillavano, l’incoraggiavano nel discorso. E lui parlava.
Descriveva il suo rapporto, la sua gratitudine. Sì, perché l’aveva salvato.
Rapito dal suo mondo di finti sorrisi ed affetti di cristallo, portato via da una vita perfetta, da un futuro senza problemi. Non voleva essere l’oggetto di quell’ammirazione, era infetto, e il suo marciume macchiava tutto; le candide dita che accarezzavano la sua guancia si tingevano di melma nera visibile solo ai propri occhi, le labbra rosee che sfioravano la sua fronte diventavano purpuree, gli occhi che si rivolgevano a lui diventavano bianchi, patinati, ciechi.
La sua saliva infettava tutto, il suo sguardo bruciava il mondo.
Salvezza. Forse la detestava, forse l’adorava. Quella mano dorata gl’aveva fatto conoscere il disgustoso, il ripugnante,l’orrido, ed in qualche modo ciò per cui era perfetto. Era nato per cambiare pelle come un camaleonte, per vivere nonostante le privazioni come una lucertola, per sentirsi perfetto nel sudicio come un ratto, per strisciare sulla terra umida, mordere ed avvelenare mortalmente come un serpente.
Amava il nero turbinante che si plasmava alla sua mente. Un secondo era un quadro di Picasso, l’altro era un cadavere marcio. Era la Londra piovosa di una domenica di luglio, era Waterloo che dal bucolico tornava indietro e diventava rossa di sangue.  Era la vita che scorreva davanti ai suoi occhi, mille vite, milioni di storie, milioni di idee.
Poteva essere un omicida, poteva essere una ragazzina in preda alla sua più grande ed ultima allucinazione, poteva essere un emarginato, poteva essere una moribonda, poteva essere un ragazzino traviato dalla natia buona società, poteva essere un musicista maledetto, seppur in verità fosse ben distante da ognuno d’essi.
Era vissuto tante volte che aveva dimenticato chi fosse. Non era certo che quella delicata voce sussurrante conforto fosse vera, non era certo che quell’eterno nero sarebbe potuto esser diverso.
Non era certo che la subitanea stanchezza non fosse in realtà causata da un sonno ormai dimenticato.
Era solo certo della realtà del battito che scandiva ogni istante, che sembrava volergli regalare qualche vita in più, rallentando il ritmo.
Lo sapeva, aveva un numero preciso di pulsazioni a disposizione, ed in quel modo sarebbero aumentate.
Rallentava.
Sentiva urla che stavano facendo svanire il suo dottore preferito.
Rallentava.
Di nuovo la puzza metallica, di nuovo il cadavere. Perché?
Rallentava.
Crepitii odiosi e scosse, mentre sentiva aria intromettersi. Era ancora in grado di vivere per sé!
Rallentava.
L’elettricità iniziava a formicolare nelle vene. 
Rallentava.
Sentiva urla insensate, rivide la folla piangente l’omicidio che lui aveva compiuto dagli occhi del cadavere.
Rallentava.
Agitazione ovunque, il cadavere era agitato, Jekyll era agitato, Hyde era agitato, l’allucinogena era agitata, il ribelle era agitato.
Rallentava.
La morte non esiste.
Rallentava.
La morte non esiste.

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