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Autore: Rocket Girl    03/04/2011    2 recensioni
Iniziai a scappare.
Fuggivo da quell’incubo.
Evadevo dalla mia realtà, che non distinguevo più.
Cercavo me stessa e la mia vita, lontano da ciò che ero.
Pregavo perché esistesse qualcuno sopra di me.
Impetravo perché mi sbagliassi tremendamente.

L'intero mondo distingue ogni singola persona fra i folli e i retti.
I folli fra gli psicopatici e gli anticonformisti.
Il problema è che, a volte, la linea fra malattia mentale e la semplice voglia di apparire e scandalizzare si fa talmente sottile da dubitare che esista.
Il problema è che, a volte, le differenze si riducono al nulla.
Genere: Dark, Drammatico, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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«Ero in un buco oscuro, umido e soffocante. L’acqua mi arrivava alle caviglie, ed ero appoggiata ad alcuni mattoni dietro di me, su cui brulicavano enormi scarafaggi che cercavano cibo sulla mia pelle, per la propria sopravvivenza. A volte entravano nelle mie ferite, bruciando nella mia carne; alcuni, i più piccoli, entravano nelle vene. Era un dolore piacevole. Sì, mi faceva sentire bene.
I miei occhi pulsavano. Non li volevo aprire, perché sapevo avrei visto soltanto il nero di fronte, di lato, sopra e sotto di me. V’era soltanto qualche ombra di un punto bianco, lì sopra. Non ricordavo più cosa fosse, ma era malvagio. Brillava di riflesso, ricordavo. Era qualcosa che mi avrebbe distrutta alla sola vista. Per questo non osavo aprire gli occhi.
Elevai le dita al livello del viso, sentendo il tintinnio delle catene che si pungolavano fra di loro. Con i propri sussurri, si raccontavano storie, che io avevo imparato a percepire e comprendere. Ora mi dicevano che avrei trovato qualcosa di molto divertente sfiorando gli occhi. Amavo ridere, amavo la vita. E amavo come quelle catene non mi avessero mai tradita.
Infatti, mi sorpresero. Le dita palparono qualcosa di umido, che, al tocco del naso, iniziò a sfregare, come se si fossero asciugate dolendomi. Era bizzarra, la superficie dei polpastrelli, come irregolare.
Salirono fino agli occhi. Avrei dovuto sentire le mie ciglia troppo corte e rade, che detestavo. Avrei dovuto sentire i miei occhi troppo piccoli e tondi, protetti dalle palpebre.
Iniziai a ridere, un suono roco e duro, quasi simile alla risata di un psicopatico.
Le catene non mentivano mai. Ero libera. Meravigliosamente ed assurdamente libera.
Il mio dio aveva esaudito le mie richieste isteriche. Non dovevo più essere terrorizzata dalla prospettiva di ciò che avrei potuto vedere! Non dovevo più preoccuparmi dell’assurda fobia del buio, né di qualsiasi altra cosa! Il mio dio, colui che mi stava proteggendo dal mondo esterno, mi aveva elargito il prezioso regalo d’essere sua pari. Non dovevo avere più paure, ormai ero lì, le mie fobie erano state rese inutili e non dovevo affannarmi per il mio sostentamento. Era il mio paradiso. Il mio delizioso e silente paradiso.
C’era silenzio, che mi stordiva come se fossi in un locale con il volume alto, oltre il limite della sopportazione, ed i bassi amplificati; e mi piaceva, mi piaceva maledettamente. Dava una deliziosa sensazione d’alienazione che mi permetteva di non urlare quando quei ferri arrugginiti dietro di me laceravano la mia schiena.
Mi chiedevo quanta altra carne sarebbe rimasta. Mi chiedevo quanto ancora sarebbe durata.
Nel frattempo, mi godevo quella silente melodia che era la mia droga, il mio cibo ed il mio sangue.»
  
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