J.

di Nadir de Orpheus
(/viewuser.php?uid=78821)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte I -Memories. ***
Capitolo 2: *** Parte II -Mirrors. ***
Capitolo 3: *** Parte III -The Angel. ***
Capitolo 4: *** Parte IV -The Connection. ***
Capitolo 5: *** Parte V -Autumn. ***
Capitolo 6: *** Parte VI -The Closing Circle. ***



Capitolo 1
*** Parte I -Memories. ***


Io mi ricordo di lei.
Ho questo ricordo di lei che si ferma lungo la strada, piega il collo, ed apre la bocca per catturare la pioggia. Scendeva torrenziale lungo ogni fibra del mondo –lungo ogni fibra di me. Ogni fibra di lei.
Non sorrideva e non piangeva, restava solo lì, solo a raccogliere pioggia sulla lingua. Esile, lei, bianca come la porcellana, sottile come un capello. E quegli occhi quasi troppo grandi per il suo viso, di quel verde che addolciva tutto. Il suo sguardo. In mezzo alla strada, non sentiva i clacson.
Non sentiva niente –nemmeno me, che la chiamavo. Raccoglieva la pioggia.
La raccoglieva e la beveva come fosse l’ultima pioggia della sua vita.
Io mi ricordo di lei. Me la ricordo avvolta nella luce, e chiusa in un’ombra fangosa. La ricordo.
Bella come solo le cose fragili. Bella come solo le condanne e le rovine. Bella.
Ricordo. E non ha significato dire che la ricordo, ora che lei è distesa accanto a me –una mano posata sull’onda dei capelli sparsi sul cemento. Sparsi sul suo viso sottile, e sparsi come sul mio cuore. Lo sento rallentare. Venisse il sonno. Venisse l’oblio, ora che scende la sera.
Voglio ricordare di lei ancora una volta, mentre le guardo le ciglia.
 
 

J.

 
 

I
Memories.

Mi chiamo Jamie.
Di me non c’è molto da sapere –se mi incontraste per strada non vi voltereste a guardarmi. A chi interessa un ragazzo di ventidue anni né alto né basso, con dei ricci bruni che non restano fermi neppure in assenza di vento, e che porta sempre occhiali da sole? Forse questo ha poco senso, perché probabilmente i miei occhi sono la sola cosa degna di nota che abbia, grigio-azzurri come sono. Ma la luce mi è nemica –quando batte contro la retina sembra ucciderla.
Mi vedreste camminare con gli auricolari nelle orecchie, ma non sapreste che non sto ascoltando musica, né altro. Nessun suono, non dalle cuffie. Ed oscuro il rumore del mondo.
Forse avrei addosso la maglietta del college di Jacksonville, che ho frequentato per un anno, o forse avrei la divisa blu dei commessi di Blockbuster. Non importa a nessuno. Mi vedreste e vi voltereste.
Io non me la prendo, non m’interessa –e so come vanno queste cose. Camminereste. Io farei lo stesso, e le nostre strade incrociate sarebbero irrilevanti, un momento perduto nel caos, come tanti altri. Nessuno di voi si farebbe delle domande –io invece sì.
Me le farei –me le facevo, anzi, prima che crollasse il cielo. Ho smesso di farmele.
Mai stato un filosofo, ho preso i miei giorni e li ho vissuti. Avevo una vita normale. Una vita semplice fatta delle piccole banalità che possono renderla piacevole –e i grandi interrogativi, le questioni che Gauguin scioglierebbe in un quadro non mi sono importate mai, o comunque non ancora, allora. Ero al college. Tutto scivolava. Il futuro era domani, il futuro era racchiuso nella sequela di giorni che pensavo di avere –c’era l’idea che hanno tutti appena usciti dal liceo, che il futuro non sia ancora, non davvero, qualcosa che li riguarda da vicino. Il futuro è infinito.
La quantità di respiri, è infinita. E respiravo. Ho continuato a farlo –anche quando non sembrava avere più senso, anche quando mi ha toccato la tragedia. Quella che per me, era la tragedia.
Il mondo era cambiato –il mio mondo aveva assunto nuove forme, suoni sconosciuti. Ero mutato.
Allora imparai il sapore del sangue, e a coprire gli specchi quando la luna s’attondava in cielo –un cerchio pieno. Ed io, a respirarne l’argento blu, in attesa. Anche questo, ricordo.
Ricordo com’era rannicchiarsi nei bagni che nessuno usava aspettando che la notte passasse, con preghiere distorte nel cuore. Guardarsi e non riconoscersi –questo sì, questo sì che ti ammazza.
A volte prendevo la strada. Scricchiolava sotto di me che non avevo scarpe e cercavo di non provare nulla –cercavo l’ebrezza del vuoto, ma c’erano solo schianti. Continui schianti di carne e di ossa, e lacerazioni di stoffa –tutto, mi restava sotto le unghie con cui avevo graffiato la terra.
Mentre invocavo al cielo.
Non avevo la speranza che durasse, quel mio nascondermi. Potevo fuggire e farmi minuscolo nella notte –potevo cancellare le tracce. Ma ero diventato un lupo. Ululavo omelie alla luna piena.
Senza avere in me nessuna libertà, e neanche nessuna logica.
Che sapevo dei lupi? Non potevo imparare niente se non da me stesso.
Ed accadde che quasi uccisi un ragazzo, e lasciai il college –mi rintanai nella periferia, lasciai ogni cosa. E mi presi addosso la notte –ne sfilacciavo ogni sfumatura, la ricamavo sulla mia pelle, con una goccia della sua essenza all’angolo della bocca.
Respiravo ancora, come tutti.
Ma capivo che non avevo mai respirato prima, perché niente era come la luna piena –la scarica di vita che grattava le vene e tendeva i muscoli tanto da piegare le ossa.
La passione. Niente.
Al mattino non restava niente. Eppure ero un lupo.
Un lupo che non trovava nemici ed inghiottiva necessità –qualche volta sceglievo zone malfamate sperando di trovarmi incastrato in criminali da punire. Trovai che sbranare era inumano.
E che mi piaceva –che al lupo in me, quello che non si chiamava Jamie e che aveva un folto pelo rossiccio, a lui piaceva. Gli cercavo un nome, nei pomeriggi silenziosi e nelle mattine arrancanti –perché quello era ancora il tempo in cui lui ed io eravamo divisi, due nuclei in un corpo, due specchi posti di fronte che rimandavano immagini differenti. Ed un diaframma di vuoto, tra di noi.
Che solo la luna colmava –il lento dipanarsi dei suoi raggi, uno sull’altro, come radici.
Non ero più Jamie, e non sapevo cosa fossi. Chi fossi, né perché. Come ci fossi caduto, nella trama fantascientifica della mia vita, in cui non ero né l’eroe né l’antagonista. Ero niente ed ero troppo.
Passavano i mesi e passarono gli anni.
Una notte dopo l’altra.
In silenzi lacunosi.
Credevo di aver imparato cosa fosse la violenza. Credevo di conoscerne l’intimo sapore, di averci fatto sesso, con la violenza –che la violenza mi avesse fecondato come fossi una donna e lei il mio uomo, perché in me c’era altro, c’era del nuovo, c’era quell’altra vita. Il selvaggio della naturalezza con cui ero capace di dimenticare cosa fosse un uomo. Di essere io stesso, un uomo.
Mi tenevo lontano dalla gente, ed inselvatichivo. Lento, facendomi animale –facendomi sensi ed istinto, pronto a lasciarmi scivolare in gola il sangue. Quello era il punto. Il non ritorno.
Nessuno sa quale sia, finchè non l’ha superato e non ce l’ha alle spalle –finchè non sbriciola tutto tra le proprie mani, e non deve pagare delle conseguenze. Non c’erano conseguenze, per me.
Qualche bastonata ogni tanto. Ma lo specchio del lupo si ingrandiva. Ed io non c’ero quasi più.
Più nessun Jamie, più, da nessuna parte –senza sentirne la nostalgia.
Perché la mia vita era diventata febbre, ed era diventata caccia, e non valeva altro. Avevo la luna.
Avevo la solitudine più pura, sublimata nell’istinto e nel parossismo dell’inseguire, sempre, qualcosa –e non sapere che cosa, verso cosa correvo, da cosa fuggivo, scappando così, verso o da quale mondo. Non c’era modo di saperlo, e non erano domande che mi facevo. Io ero.
Esistevo, ed esistevo così. Avevo smesso di scacciare il lupo o rinchiuderlo –mi ci ero abbandonato.
Come ci si abbandona all’acqua, quando ci si addormenta.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Parte II -Mirrors. ***


II
Mirrors.

 
E poi qualcosa si muove –e poi, scopri che si chiama destino.
Ora ci penso, e non so trovare un altro nome da dare a questa sequela di istanti che a ripercorrerli mi avrebbero portato comunque da lei, anche se avessi fatto cose diverse. Scelte diverse. Non sarebbe servito. Sarebbe accaduto anche se quella mattina avessi perso il treno –sarebbe accaduto anche se non mi fossi fermato a prendere quel caffè al chiosco ambulante, e sarebbe accaduto anche se fossi arrivato in ritardo. Sarebbe comunque accaduto che il mio capo mi licenziasse. È stato quello.
Ho sentito il lupo ringhiare, e gli specchi infrangersi, o forse unirsi. Forse fondersi o forse andare in pezzi, crogiolando sul pavimento del mio essere –tappeto drappeggiato sui muscoli dorsali della mia anima, ed ascoltarli ululare. Io e lui –una cosa sola. Al mio capo non dissi niente.
Me ne andai facendo del silenzio una compagnia sufficiente, e la sola che in quell’istante potessi accettare. Era uno spasmo –una contrazione intima, fibre e mialgia del mio spirito separato che si coagulava in un solo, unico, rarefatto essere indiviso. Ero io. Ero Jamie, ad un livello più alto.
Un livello più arcaico –il sapore del me stesso primordiale, prima di nascere, quando lupo potevo venire al mondo oppure uomo, e quando la mia anima non aveva saputo scegliere, e si era spezzata.
Ora, era ricomposta. La ascoltavo risuonare come il fruscio di piume sparse nel vento, mentre camminavo –mani in tasca, e i sensi che ondeggiavano su ondate di sublimazione. Lentissima.
Sentivo ogni cosa. C’erano i cuori che battevano lungo la strada accanto a me, e respiri nelle vie adiacenti –c’era la polvere della città che incontrava il sole, e c’erano foglie che cadevano nella danza dell’autunno. Quasi, la lunghezza d’onda con cui la luce incontrava le cose e risvegliava i colori –quasi aveva un suono, o un movimento. Potevo sentirlo, anche se era veloce. Tutto.
C’era tutto. Ed io lo sentivo, ma non lo possedevo.
Era contemplazione, ed era dislocazione sui vari piani del mondo.
Una decriptazione quieta e vagamente nostalgica della frequenza a cui ogni forma di vita esisteva, estendendosi nel mondo –e poi venne il destino, dicevo. Si alterò la frequenza in un punto, non lontano, iniziò a vibrare con un’atrocità che mi sfondava il cranio, e mi deragliava il cuore.
Il vecchio Jamie sarebbe fuggito, sarebbe fuggito qualsiasi uomo, perché era la sensazione torbida del terremoto, e di un’onda più alta che ti travolge e trascina al largo –quando tu sei il mare e la tua razionalità è un puntolino minuscolo, visto dall’alto. Io, il lupo Jamie, correvo. Nessuno aveva sentito nulla, la gente continuava a muoversi in quel pendolarismo della vita che è ogni strada, ma io correvo verso il terremoto. Al centro del sisma c’era un punto cieco, lo percepivo. Un buco nero.
Mi avvicinavo, e si oscurava la luce infrangendosi nella pioggia, e non c’era anima viva che fosse.
Niente. Solo pioggia ed agitazione molecolare –solo le mie scarpe da ginnastica sull’asfalto, il mio cuore che batteva regolare nonostante la corsa, il mio respiro. Che quando s’ingolava, non era colpa del correre. Era quel terremoto, con il suo sapore d’implosione. Alterazione del mondo, ecco.
Ora sì, ora la percepivo chiaramente, la disumanità.
Altri lupi?
Il sentore era differente –ma che ne sapevo, io, di che sentore avesse un lupo altro da me?
E se lo erano, anche loro mi sentivano così, con quest’urgenza spasmodica di arrivare?
Pioveva. Ero fradicio dalla testa ai piedi, e scivolai un po’, sulla pietra più lucida del sagrato di una chiesa –neanche me ne accorsi. C’era l’orbita di una luce, nell’aria –come una macchia solare puntata a centro del cervello, intensa, da frastornare e sciogliere la retina, facendola colare sul marmo bianco e nero. Un agitarsi che era come quello di grandi uccelli –ali nella luce, e sagome, sospese dentro quel sole che la pioggia non poteva sfiorare, lì, a tre metri dal terreno.
Raggi di sole diramati nell’aria come saette –come spade.
E lei. Lei, in piedi davanti alla luce, braccia sollevate quasi steli di fiore contro un aratro. Lei.
Da lontano sembrava nessuno. La sua schiena era stretta, ma distesa e fiera, senza paura –non c’era paura nei suoi movimenti, nel modo di restare ferma. Non era paralizzata. Era solamente lì, ad affrontare la luce –ma era piccola, piccolissima, così la vidi. E non pensai.
Andai verso quel sole artificiale ringhiando, trasformato in lupo prima che potessi accorgermene –la voce di lei che pungeva l’aria con ritrosia, con alterigia. Senza bisogno di niente, davanti alla luce, sulla sua soglia agitata dai lampi d’ali bianche. Io ringhiai, e la luce svaporò.
Come se non fosse mai stata lì. Come se l’avessimo solo immaginata –e da subito, iniziai a pensare al plurale. Dal momento stesso in cui la guardai –la bellezza che ti lascia imbambolato mentre la guardi dietro le palpebre chiuse, oppure oltre un finestrino. Fragilità da non sfiorare.
Le sue mani piccole e gli occhi grandi –bocca effimera di rosa e i capelli fradici, che le decoravano le guance e la fronte, e la spalla, lungo la treccia sfatta. Scuri come ricami d’ebano su seta bianca.
“Che pensavi di fare?”
Pensavo al plurale. Ero un lupo, e pensavo al plurale –non come umano, non come un doppio. Ma come un unico e solo Jamie, che guardandola trovava il collante. Il gancio tra l’animale e l’uomo.
Lei. Mi avvicinai, accostandomi alla sua gamba lasciata nuda dai pantaloncini, ma senza toccarla.
Lei sorrise. E il gancio tintinnò, argentino.
Era lei. Il suo odore era come il mio –ma più fragrante e più di fiore, un fiore secco, lasciato troppo tempo nell’acqua. Dai suoi occhi, si affacciava un’anima in guerra, ma che stava appassendo.
Non mi toccò, né la toccai io. Sarebbe sfumata nel vento, se l’avessi fatto.
Attaccata da angeli e salvata da un ragazzo lupo.
Che strana vita la sua vita.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Parte III -The Angel. ***


III
The Angel.

 

Da qualche tempo abitavo in una casa in periferia. Cadeva a pezzi, non solo l’intonaco, che ormai sembrava l’eccezione, sulle pareti, ma le pareti stesse, le finestre, le porte. C’erano falle nel pavimento e spesso più terra che legno, assi divelte nei muri, tegole che sprofondavano nella gravità e minacciavano di crollarmi in testa mentre dormivo. Mi importava ben poco.
Non potevo permettermi un appartamento, e non potevo trovare una stanza, avere dei coinquilini.  Con la vita che facevo, mi serviva un posto in cui nessuno si stupisse di sentir ululare nella notte, o vedere un grosso cane che si aggirava nei dintorni. I miei vicini erano spacciatori. Mi lasciavano in pace, e io lasciavo in pace loro –anche se la voglia di azzannarli e farli smettere di appestare la città con la loro merda raffinata era sempre molto forte. Però quella casa mi serviva.
Lei era sparita.
Aveva sorriso per un istante così balenante che era stato come volare. Restare accecati dal sole –ma come Icaro, mi schiantai a terra nel rendermi conto che se ne era andata. Così, in un lampo. Lungo la strada, correndo, senza dire niente. Senza voltarsi. Ricordavo il suo odore come se mi fosse rimasto imbrigliato nelle narici, e si fosse fatto strada nel cervello avvolgendo i miei nervi. Era lì.
Lei era lì, con me, in qualche modo che non avrei saputo spiegare.
Ma solo dopo averla sognata per sette notti di fila mi decisi a fare qualcosa. Andai alla biblioteca, cercando testi sui lupi come me –più che altro leggende che di vero avevano ben poco. Ero sicuro, però, che ci dovesse essere qualcosa, da qualche parte, che mi avrebbe spiegato quella scintilla che mi si era accesa dentro, e bruciava lentamente i fili della mia vita, ora che avevo incontrato lei.
Qualcosa che mi avrebbe detto perché sentivo di amarla. Perché lei. Perché in quel modo.
Come se non potesse esistere un altro domani, se non l’avessi incontrata ancora. Se non avessi potuto tenerla con me –farle da scudo e baluardo contro gli angeli. Non m’importava perché l’avessero attaccare, se fosse una peccatrice, o un’anima sfuggita. Importava lei.
Profumo e spirito di fiore appassito. La mia rosa che perdeva petali nella pioggia. Volevo lei.
Nessun libro mi spiegò seriamente perché un licantropo avesse tanto bisogno di un’umana, se non aveva intenzione di sbranarla. D’amore non se ne parlava. Ma lei non era cibo, per me.
Era l’incastro del mio essere lupo ed essere uomo –era la luce che colmava lo spazio tra gli specchi, ed era un nuovo specchio. Vedevo me e vedevo lei. Separati, ma simili. Rassomiglianti.
E quando guardavo il lupo, i suoi tratti variavano dai miei, a quelli di lei. Un mutare come il mare.
Lei, come la marea.
La biblioteca non mi era stata di alcun aiuto –nemmeno cercare tra i testi sui lupi veri e propri mi era servito. Niente spiegava quell’intensità disastrosa che mi teneva chiuso in casa, a guardare la luna, con un ululato spento in un uggiolio che mi serrava la gola. Una voragine che si spalancava lenta, lì dove il pensiero di lei bruciava la mia esistenza –un tratto riarso alla volta. Nel vuoto di me.
“Cercala.”
“Dove dovrei cercarla?”
Non ero sicuro che non fosse un’allucinazione.
Se ne stava seduto lì, sul davanzale della finestra, come se ci fosse sempre stato ed io, semplicemente, non l’avessi visto. Una gamba piegata ed appoggiata alla cornice, una distesa.
“Sei un lupo. Tu puoi sentirla.”
La nuca adagiata indietro –occhi grigi al cielo.
Capelli troppo biondi.
“Non ci riesco. Ho tentato.”
“Tenta ancora.”
“Perché dovrei darti ascolto?”
Non mi guardava, non lo fece mai.
Era come collegato alle nuvole da un filo, ed aspettava di risalirlo, e tornare a casa. Mi passai le dita tra i capelli, con un mezzo sospiro, mentre lui non rispondeva. L’avevo cercata a lungo, senza mai riuscire a rintracciare il suo profumo. Mai, da nessuna parte. Era davvero sfumata nel vento.
“Perché qualcuno deve trovarla. Se non saremo noi, saranno loro.”
“Loro, chi?”
“Loro. Con le anime è sempre così.”
La cosa che mi stupì, fu il fatto che non mi stupisse. Avevo sentito che non era viva –non c’era sangue che scorresse, in lei, né il tepore della carne –il suo era un profumo invisibile, come non ne avevo mai sentiti, se non a mezzanotte nei cimiteri. Lo sapevo, eppure mi faceva male.
Amavo un soffio di vento. Qualcosa di perduto che era solo un’impronta, e sarebbe stata cancellata.
Il rumore di uno specchio che s’incrinava, dentro.
“Se la trovo, che cosa succede?”
“Quello che deve succedere. Già lo sai.”
“Voglio stare con lei.”
“Avrai il tuo tempo.”
Ma non potevo. Avremmo avuto qualche giorno, forse, qualche ora, più probabilmente. Non mi chiesi mai, se lei volesse vedermi. Se volesse stare con me. Sarebbe stato logico porsi il problema –del resto, era stata lei ad andarsene senza dirmi una parola. Eppure. Sentivo quel legame così forte.
Lei, anima sola. Anima che non riusciva a lasciare il mondo degli umani.
Guardarlo, con quegli occhi così grandi.
“Perché siete venuti da me?”
“Perché tu hai creato il problema, e tu devi risolverlo.”
“Quale problema?”
I suoi occhi non erano grigi, come mi era sembrato. Erano luna. Forse di giorno sarebbero stati sole, ma adesso, di notte, erano luna che si specchiava in me, e mi scoperchiava. Mi resi conto che non muoveva mai le labbra: lo sentivo parlare nella mente, echeggiando tra gli specchi.
“Il legame. Prima di te, era solo un’anima testarda. Adesso ha un’àncora, qui a terra.”
“E cosa c’è di male?”
Luna lancinante.
“Lei è morta. Deve stare con i morti. Non può attardarsi ancora qui.”
“Come si chiama?”
Non mi stava ascoltando, ora. Si alzò in piedi, sulla cornice della finestra, proteso verso l’altro.
Come se stesse catturando le parole delle nuvole.
“Tu morirai.”
“Quando lei se ne andrà. Sì, lo so. Come si chiama?”
Stava già svanendo. E io sentivo quell’eco nel cuore, e la certezza che non ci fosse posto per me, nel mondo, senza di lei. Così era per i lupi. Non sopravvivevano, alla morte di chi amavano.
Era la sola cosa che avevo capito, tra le pagine.
L’angelo tornò alla luna, o qualsiasi fosse il suo posto, senza lasciarmi un nome.
Cercala come se dovessi trovare te stesso.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Parte IV -The Connection. ***


IV
The Connection.


 

Come se fosse un filo trasparente.
L’avevo sentito, nei giorni prima, quando avevo iniziato a cercarla –ma subito l’avevo perso. Era come se non facesse parte di questo mondo, ma solo di me. Lì, annodato intorno al cuore, o in un recesso più profondo, nel punto in cui lo specchio di me era stato forgiato. E lo percepivo. Teso.
Teso, ma scosso dal vento e dalla mia imperfezione, svaniva e si scioglieva nell’aria, e si riformava, ma ancora non riuscivo a coglierlo. Mi collegava a lei. A quando eravamo nati, come se fossimo stati tagliati, ma un filamento ancora ci unisse –infrangibile, ed impalpabile. Una fibra dell’anima.
All’inizio non ne ero cosciente, e la cercai in modo banale. Traccia di fiore appassito nel vento.
Da lupo, il mio olfatto era anche troppo sviluppato, come tutti i miei sensi –eppure non la trovavo. Il suo profumo, che era quello dei piccoli negozi di fiori e delle grandi serre variopinte, svaporava in un bouquet di cui non restavano altro che residui ed impronte. Lei era stata in quel punto –sì, ma chissà quante ore prima. Ed io correvo. Inutilmente.
Finchè non percepii quello strappo.
Lei tirava, all’altro capo del filo. Tirava con il pensiero –tirava me, verso di lei. Mi pensava.
Mi pensava?
Impiegai giorni che apparvero infiniti, per catturare il sentore di quel legame –ed avrei dovuto capirlo subito, che era un’essenza. L’angelo me l’aveva detto, di cercarla come me stesso. Dovevo soltanto dare la caccia alla sensazione che mi dava la mia anima. Non c’è un altro modo di spiegare, ma era come cercare un arto che mi era stato strappato, e riceverne un segnale. Era così. Come muoversi lungo viali declinanti di memoria –come ripercorrere tutta la mia storia, al contrario, fino al punto zero. Il punto in cui ero stato tagliato in due. Il punto in cui noi eravamo diventati lei ed io.
Quando la trovai, lei era al centro della strada, sotto la pioggia.
La mia forma umana era perfettamente fradicia.
Lei, a bocca aperta con il viso rivolto verso l’alto.
“Finalmente. Sei qui.”
Ancora adesso, non so se sia stato io a dirlo, o se sia stata lei. Abbassò lo sguardo su di me, con un sorriso che era vago come un sole filtrato da nuvole spesse in un’aria densa, di quelli dal riflesso potente, che ti accecano anche di spalle. Quanto era bella. Mi rivolse un cenno lievissimo, e la seguii al riparo, sotto una tettoia. Il mondo risuonava di pioggia, in un pentagramma grigio –ma l’acqua, l’acqua di cielo era la tenda che ci separava da tutto. Oppure, forse, la tenda eravamo noi.
Un legame come un diaframma di vetro smerigliato.
“Mi hai salvata.”
“No.”
“No, lo so. Hai ragione.”
Non riuscivo a capacitarmi che fosse morta. Sembrava così reale. Così viva, a guardarla, anche se non a sentirla. Sapeva di fiori morti e di sconfitta, sapeva di terra, e di una benedizione evitata.
Chissà dove era sepolto, il suo corpo. Se andava a trovarlo, ogni tanto.
“Sei un fantasma.”
“Tu dici? Sono soltanto io.”
“Perché sei ancora qui?”
“… non lo so.”
Tese una mano verso la mia, ma scivolò attraverso le mie dita. Era come essere toccato dal niente, o da uno spostamento d’aria, infinitamente leggero. Si morse il labbro –e non poterla baciare.
Non poterle accarezzare i capelli scuri, lunghi, o sentire le sue ciglia contro le mie.
“Forse… sì, forse sono un fantasma. Non mi ricordo niente. Solo… te.”
Aveva un modo strano di guardarmi. Strano e bellissimo, con il viso di tre quarti, un po’ inclinato in avanti, e quegli occhi grandi che ogni tanto si assottigliavano, come per mettermi meglio a fuoco. I suoi capelli che scivolavano sulla spalla, oscillando in avanti, sul petto, una ciocca alla volta.
Uno sguardo alla volta, ed ognuno come una carezza timida. La voglia che avevo di stringerla.
“Me?”
“Stavo camminando, sai, come quando devi andare da qualche parte. Non sapevo dove, ma sentivo che avrei riconosciuto il posto quando ci sarei arrivata. Però, c’era qualcosa che mi richiamava indietro. Qualcuno, non chiaramente, ma c’era. E mi sono voltata. Ho iniziato a camminare nella direzione opposta. Che cosa volevi da me?”
“Credo niente. Credo tutto.”
Lei annuiva arricciando le labbra. Giocava di continuo con il castone di un anello. Mi sarebbe piaciuto tenerla con me, non lasciarla andare. Intrecciare le dita alle sue per tenerle ferme, come se potesse servire a fermare quel velo sottile d’angoscia che si portava negli occhi. Curarla. Guarirla, qualsiasi fosse la sua malattia –la cosa che la rendeva così pallida. Non c’entrava che fosse un fantasma, era lei, era stata così anche quando era viva. Assurdo, ma ne ero sicuro.
“Come ti chiami?”
“Julia Jensen. Julia.”
Avevamo le stesse iniziali. Sollevai una mano, mostrandole il palmo. “Jamie. Johnson.”
Sorrise appena, mentre posava la mano contro la mia –come toccare la superficie bagnata del mare. Freddo, e la sensazione rarefatta di qualcosa di accostato, ma che non avrei mai potuto afferrare. Il lupo in me guaiva, senza sapere se fosse di dolore o di gioia. Era lei, era lì. L’avevo trovata.
E già perduta.
“Andiamo.”
Non c’era modo di fermare la marea.

 
 



Angolino.
Grazie a tutti per le letture, le recensioni. Scusate se ci metterò ancora qualche giorno, risponderò a tutti.
Con quello che sta succedendo qui a Genova, ho la testa da un'altra parte.
Nadir_de_Orpheus.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Parte V -Autumn. ***


V
Autumn.


 

Aveva avuto la sua prima aritmia nel momento in cui io mi ero trasformato in lupo per la prima volta. Mi raccontò della sensazione di un cuore spaccato in due di colpo, mentre era al cinema a guardare un horror sui vampiri e i licantropi. Era lì da sola. Lei era sempre sola.
“Le persone non mi piacciono. E io non piaccio a loro.”
Mi venne naturale dirle che a me piaceva. Naturale e un po’ scontato –ma il suo sorriso spazzava via anche la banalità. Era bellissimo. Anche se una parte di lei non sorrideva affatto. Quel suo cuore spaccato, però, ci aveva uniti in qualche modo. Forse, senza non sarebbe accaduto. Lei non mi lasciava il tempo di riflettere su questo destino assurdo e così profondamente condiviso, perché di tanto in tanto faceva qualcosa che mi lacerava. Sfiorare un fiore in un giardino, guardare un albero con la voglia di arrampicarsi, e la coscienza di non poterlo fare. Oppure, ridere. Piano piano.
Ero lacerato dal desiderio di lei, e dal terrore di quelle ore che scorrevano implacabili.
Tic tac.
Stavamo andando verso il luogo che lei aveva scelto per morire –stavolta, definitivamente. E parlavamo della vita che avevamo vissuto parallela, senza mai incontrarci, presentendo l’esistenza l’uno dell’altra, ma in maniera così vaga da apparire solo un’incolta ispirazione. E le cose che avremmo voluto fare –che avremmo potuto vivere, insieme. Cene e lanci con il paracadute.
Lo spirito di Julia era foschia. Il suo modo di attraversare il tempo umano era stato discreto, dolce, tranquillo. Non aveva mai avuto le grandi aspirazioni, le era bastato fare le sue scelte, selezionare le sue alternative nel modo più ragionevole e meno traumatico.
“Ho sempre sentito una direzione, sotto i miei passi. La mia vita sapeva dove stava andando. Io mi lasciavo trasportare, come sulle scale mobili. Non avevo grandi passioni, ma sentivo che ne avrei trovata una. Di un altro genere. Mi stava aspettando, ne ero sicura. E poi mi sono ammalata.”
Mi guardava, parlando della passione latente della sua esistenza. A testa un po’ inclinata, come faceva spesso –e si sistemava la sciarpa, quando era imbarazzata. Aveva una serie di piccoli modi di fare, quasi dei tic, che imparai a memoria subito, neanche li conoscessi già da prima.
Ma io la conoscevo. Senza conoscerla, sapevo tutto di lei. Senza sapere niente. Quelle che lei mi raccontava erano le contingenze umane di un’anima che era la metà perfetta della mia.
Jamie uomo e lupo. Lo capivo solo in quel momento –tutto il mio inseguire una definizione, inventare la teoria del doppio specchio, portava soltanto a questa coscienza: ero un uomo lupo.
Ero entrambe le cose, ma in maniera assolutamente semplice. Essenziale.
Erano entrambe componenti di me, e non erano in conflitto tra loro –era come essere alto ed essere castano. Per tutto il tempo, invece, avevo pensato al contrario, a due varianti di una stessa categoria, l’essere, che si escludessero a vicenda. Non era così. Erano due categorie, e non c’era facoltà di scelta. Non potevo essere uomo oppure lupo. Ero entrambi. Lo compresi così, guardando lei.
Lei, al centro della strada a fingere di poter bere la pioggia.
“Ecco perché amo l’autunno. Guarda come diventa scintillante il grigio.”
“Incredibile.”
Guardavo lei, mentre lo dicevo. E la mia mente correva in cerca di scenari impossibili in cui le chiedevo di restare con me, e lei lo faceva. Io, che la proteggevo da chiunque volesse portarmela via –il resto della vita a combattere angeli e demoni, solo per avere il suo sorriso al mattino. Per lasciarle altre giornate d’autunno e di pioggia, di asfalto brillante in una patina d’acqua.
L’avrei fatto. Ma sentivo che lei aveva preso la propria decisione, ormai.
“Sono stanca.”
Mi aveva aspettato finchè il suo fantasma non si era sentito logoro, troppo sfilacciato per resistere ancora ai venti che la strappavano via. La stanchezza del suo corpo di nebbia, così densa da apparire solida –ed io camminavo tenendo una mano immersa nella sua, neanche potessi stringerla davvero.
“Siamo quasi arrivati.”
Il portone era aperto –metallo e vetro, lucidati dalla pioggia. Appena dentro il palazzo, mi appoggiai con la schiena al marmo del rivestimento delle pareti, trattenendo un sospiro. Stavamo per perderci.
Ed io non potevo farci niente. Nella mente e nel cuore, pregavo non so quale dio che la rendesse reale, anche solo per un momento, per poterla toccare. Respirare, respirare davvero.
Posare la fronte sulla sua, e baciarle un addio.
“Dai, Jamie. Dopo, tutto tornerà come prima.”
Lei non lo sapeva, che sarei morto anche io. Non sapeva che già stavo morendo, come se la vita mi si staccasse dal corpo, un rilievo osseo alla volta, lentamente, come pelle. Mi si scuoiava l’anima.
Ma non le dissi niente, ed assentii con la testa, mentre fingevamo di prenderci per mano.
Era una sua scelta, e l’avevo trattenuta nel mondo anche troppo.
Cigolava l’ascensore, nella sua struttura di metallo rosso scuro.






Eccoci qui. Questa è la penultima parte, il finale sarà anche più breve.
Sono atroce, non ho ancora risposto alle recensioni. Incolpate l'università.
Dunque, al link in fondo trovare la mia pagina su Facebook. Per il momento il profilo è stato basso, ma vi incoraggio al delirio. ^^
Grazie ancora, ecco, di tutto.
Vostra, Nadir.


  https://www.facebook.com/groups/199845473382004/

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Parte VI -The Closing Circle. ***


VI
The Closing Circle.

Io mi ricordo di lei.
Mi ricordo come è arrivata su questo terrazzo, senza spiegarmi perché proprio questo posto, che non ha una vista spettacolare sulla città grigia resa scintillante dalla pioggia. È solo un terrazzo, e lei camminava qui sopra come se danzasse. L’ha osservato tutto, percorso tutto, in ogni angolo.
Ed io, dietro di lei, accanto a lei. Ha scelto un angolo e si è seduta, semplicemente. Io, accanto a lei.
Intanto si apriva il cielo, un poco, verso ovest –e c’era il tramonto, di un arancio scuro e nuvole ingrigite rese blu dalla luce. Lei sembrava arrossire. E non ha detto più una parola, Julia, ma mi ha sfiorato impalpabile una guancia, le labbra con le proprie, e si è sdraiata sul cemento.
Nemmeno io ho parlato. Mi sono trattenuto sulla bocca la sensazione evanescente di quel bacio dato al ricordo di lei, e mi sono disteso accanto al suo corpo irreale. A lungo, ci siamo guardati negli occhi –e le ho trasferito un Ti amo, che non so se lei abbia percepito. Però ha sorriso. Dolcemente.
Le sue palpebre ora sono abbassate. Sta svanendo. Sembra affondare nell’acqua.
Io sono un lupo.
Resterò qui finchè non sorgerà la luna, e le canterò questo amore senza vita e senza passato –canterò d’ululati il dolore scarnificante che mi attraversa le membra e le squassa in singhiozzi, e poi, smetterò di cantare. Smetterò di fare ogni cosa. Resterò qui, ancora un po’.
Con gli occhi cementificati nel punto in cui lei era distesa, e non sarà più.
Già ora, non è più. Julia è scomparsa. La mia metà, è svaporata nella nebbia. Julia.
Julia.
La mia Julia.

 


Questa era la fine.
Non ho ancora risposto alle recensioni (mea culpa) ma intanto volevo concludere la storia.
Spero che sia piaciuta a qualcuno <3

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=841926