Antologia di Godric's Hollow

di elecam28
(/viewuser.php?uid=4701)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Collina ***
Capitolo 2: *** Amelia ***
Capitolo 3: *** Dedalus ***
Capitolo 4: *** Cedric ***
Capitolo 5: *** Colin ***
Capitolo 6: *** Ginevra ***
Capitolo 7: *** Rodolphus ***
Capitolo 8: *** Neville ***



Capitolo 1
*** La Collina ***


La Collina

 

La Collina

 

 

Dove sono Bartemius, Regulus, Aberforth, Nicholas e Tom,

il rigido, il secondogenito, l’originale, il dotto e l’arrogante?

Tutti, tutti, dormono sulla collina.

 

Uno trapassò per mano della sua progenie,

uno fu arso tra le fiamme del dolore per aver tradito il suo eterno padrone,

uno fu ucciso da una malattia che lui stesso aveva sperimentato,

uno morì per mancanza di un elisir prezioso,

uno cadde nel suo salotto, colpito dall’odio di un figlio rinnegato –

tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.

 

Dove sono Amelia, Berta, Rita, Dolores e Ginevra,

la realizzata, l’ingenua, la perfida, la stolta e la pungente?

Tutte, tutte, dormono sulla collina.

 

Una morì di mancata protezione in una sera d’estate,

una di stupro della mente e dei ricordi per mano di un mostro tornato dagli Inferi,

una sotto le pressioni del mondo che la indusse a togliersi la vita con quella pozione,

una di sorda ignoranza della forza dei propri avversari,

una inseguendo l’amore suo fuggito, lontano, in Roma e Parigi,

ma fu riportata alla fine di tutto qui nel suo piccolo posto con Amelia, con Berta, con Rita –

tutte, tutte dormono, dormono, dormono sulla collina.

 

Dove sono Lily e James,

e i buoni Alice e Frank Paciock,

e il vecchio, saggio preside Albus che aveva conosciuto

le origini del mondo magico e i suoi fondatori?

Tutti, tutti, dormono sulla collina.

 

Portarono qui i loro corpi in diverse epoche ma con eguale tristezza,

e avrebbero presto seguito quei fiori recisi nelle dimore di pietra

dove gli orfani delle donne e degli uomini morti in guerra

piangevano e piangono tutt’ora –

tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.

 

Dov’è quell’ormai vecchio mago Harry

che giocò con una rete di vite per tutti i suoi lunghi anni,

stando impavido di fronte al nemico, sanguinante,

gridando, uccidendo, non pensando né a dolore né a paura,

né all’amore, né alla vita, né all’oblio?

Eccolo! Cammina silenzioso tra i nomi incisi su pietra, pensando ai sorrisi di tanto tempo addietro,

alle regole infrante di notte con amici perduti,

a ciò che il suo incubo

sussurrò morendo.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Amelia ***


Nuova pagina 1

 

Amelia Bones

 

 

Non sono morta di malattia, purtroppo o per fortuna.

No,

non ho concluso i miei giorni in un morbido letto, attorniata dai miei cari.

Mi assassinarono in un vicolo buio,

sul calar del giorno,

con il freddo in corpo e cuore.

E mentre la mia vita finiva, subito dopo quelle di diversi uomini a me così fedeli da sacrificar la vita per proteggermi, ho udito una risata.

Non il riso dei bimbi alle prese con la prima volta che usano la bacchetta paterna,

no,

non le risa dei miei figli, ora sepolti poco distanti da me.

Un riso duro e freddo, come il lampo che mi consegnò alle Chere.

Ebbene sì,

confesso,

a scuola sbirciai i libri sull’epica babbana.

Amavo tanto i libri… e invece che dedicarvi la vita la persi per il mio mondo,

per chi amavo.

Col passar degli anni qui,

sulla collina,

sono venuti tanti altri.

Troppi, troppi qui a dormire sulla collina.

Dopo che la Speranza si rivelò tale,

le lapidi si sono sfoltite nella bottega del loro mastro,

e ora giungono solo anime canute e bianche, stanche in ogni ruga di viver la vita.

Ma in quegli anni lontani...

che lacrime! che sangue! e che fiori sulla fredda pietra!

La Speranza...

era un giovane quando lasciai la vita.

Solo, dicevano,

e solo lo si vedeva.

Così alto, così fiero nel giustificar i suoi gesti davanti ai giudici in quel giorno lontano!

Grazie al suo cuore potrei sorridere in questo istante,

potrei ridere e voler rivivere per goder la pace.

Pazienza; ah, gran virtù; ne ebbi sempre in abbondanza.

Oh...

ma quel vecchio che cammina verso di noi non è forse egli?

Sì, come ogni giorno.

Viene sempre, sapete?

Un fiore per ogni pietra, una lacrima per ogni nome,

e svanisce com’è venuto.

Tristi sono i suoi ultimi giorni,

cupi come i primi.

Per dar la luce la tolse a se stesso per sempre,

e non ebbe mai più altro che ricordi e lettere incise nel marmo bianco.

Eppur non credo se ne penta.

Troppo puro il suo cuore.

Troppo verdi le sue stanche iridi.

Quelle iridi di giada che furono lo stendardo di un mondo crudele,

lo stesso che in fondo non rimpiansi di aver lasciato in quel vicolo,

quella notte,

quando il mio lavoro mi procurò la condanna irreversibile.

Non rimpiango,

in certi momenti,

l’aver perso tutto.

Ma in altri sì.

L’odore dei libri del Ghirigoro,

profumo di nuovo e di saggezza,

lo schiamazzo dei giovani per la strada,

intenti a comperar per la scuola,

e il profumo dei dolci di Mielandia,

visitata quasi in incognito quando il Ministero non richiedeva i miei servigi.

Non l’ho qui, sulla collina.

Qui ho solo silenzio, il silenzio del sonno più profondo.

E i fiori di colui che non mi conobbe quasi ma m’ama come mai mi son sentita amare.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Dedalus ***


Dedalus Lux

 

 

Dedalus Lux

 

 

So cosa pensate, leggendo il mio nome su questa pietra,

perché è lo stesso pensiero che ha attraversato ogni mente il cui proprietario mi ha rivolto parola:

chi sono?

Io mio nome compare solo qui con un poco di eleganza,

- dovuta più che altro alla raffinatezza dell'incisione, come potete notare -

ovunque altro si sia letto o si sia parlato di me, sono sempre stato posto accanto alla parola scherzo,

o, persino con più frequenza, e con più riso, all’aggettivo che ben poco bene mi descrive, eccentrico.

Ebbene sì, confesso,

dedicai la vita al divertimento;

deve sembrare strano anche a voi,

che un canuto vecchio passi il tempo in scherzi e burle da bambini.

Ma la vita non è forse una sola?

A che scopo sprecarla fingendoci privi di debolezze e inadeguati alla gioia, mi chiesi ogni giorno e mi chiedo ora.

E non che io sia stato l’unico,

ma pare che agli occhi di chi visse insieme a me quei tristi anni fossi l’esponente più conosciuto di quella strana specie.

Invero, non avevano tutti i torti a chieder ai loro capi il motivo che mi spingeva a rider,

quando il dolore era l’aria quotidiana.

Nemmeno io so dire cosa spingesse il mio cuore a far ridere le mie labbra,

proprio io che a causa di quei conflitti senza fine persi la famiglia, la vita, la pace.

Ora so dirlo, so dirlo davvero,

e vi prego di credere che non mento, né rido.

Fu la speranza.

E la Speranza con lei.

Vedete che non ho perso il senso del buffo?

La Speranza mi ha concesso di serbarlo,

salvando la mia vita insieme a molte altre

a discapito del suo intero mondo.

Non quello in cui vissi anch’io, no;

quello lo salvò, lo salvò anche se non lo meritava, anche se non aveva fatto altro che chiedergli, senza dargli.

No, io parlo della sua vita fatta di amici, parole, risa, suoni, abbracci.

Perse tutto, tutto questo.

Ma non pianse.

E io fui orgoglioso come non mai,

e non per aver suscitato lo stupore di tutti indossando un mantello color porpora con macchie gialle

- un altro mio talento era quello di stupire per i miei gusti, non l’avreste indovinato, vero? -.

Fui orgoglioso di avergli stretto la mano quando era ancora troppo piccolo per le sue responsabilità,

come lo è sempre stato, ma ha tenuto alta la testa e sconfitto demoni oscuri per tutti noi,

fui orgoglioso di aver incrociato le sue giade non una volta sola,

le stesse che avevo scorto tempo prima in un viso angelico, spento poi dall’odio più atroce,

fui orgoglioso di aver incendiato il cielo di fuochi splendenti per la sua vittoria,

quando fu parziale in quel lontano fine ottobre e quando fu reale, vero, sancito dalla terra intrisa di sangue.

Sono stato fiero di lui come lo sarebbe stato suo padre,

come lo sono stati tutti,

come lo sono adesso,

che lo vedo dall’ombra del mio stretto ed eterno giaciglio di polvere ed erba,

camminare lento tra di noi,

miracoli del suo miracolo,

ormai spenti da tempo.

E’ vecchio,

segnato come lo fui io,

ma lo stesso splendido fuoco brilla nel suo sguardo,

lo stesso per cui ridevo e facevo ridere,

e per cui ora rido nel silenzio.  

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Cedric ***


Nuova pagina 1

 

 

Cedric Diggory

 

 

Immagino che non possiate sapere quanta gioia mi dona

la vostra visita priva di lucida ed estasiata meraviglia.

Io,

il giovane ucciso per errore,

il Tassorosso che meglio impersonava le qualità della propria casa,

il figlio che ogni padre anela di avere,

sono divenuto alla mia morte un eroe come quelli delle favole babbane

che in parte eliminano la spessa cortina che avvolge il mio mondo,

rendendoci parte dei sogni e delle fantasie di migliaia di bambini.

Mi prendete per pazzo, vero?

Beh, non vi nascondo che lo sono forse divenuto.

A causa dei vostri visi, di come mi pensate.

Io non sono nato e non sono vissuto eroe,

né tanto meno sono morto tale.

Eppure le lacrime che tutti versano e versarono per me sono e furono per un eroe.

Stolti, che non sanno.

Che non vedono.

O che non capiscono,

mi chiedo?

Qui, sulla collina, ci sono eroi di cui io non valgo l’iniziale,

e di loro il migliore non mi giace accanto.

No,

il migliore è in vita, se così la si può chiamare.

Speranza era il suo destino,

eppure io, prima di morire, lo vidi bramarla la speranza, 

lo vidi bramare la dama che tenevo al braccio,

lo vidi bramare l’alba del giorno successivo.

Cose che non aveva, che non credeva di poter trovare.

Le spille e le persone lo deridevano,

mentre lui faticava anche solo a respirare,

solo contro la morte,

solo contro la vita.

Mi salvò, quel giorno che mi parlò dei draghi,

ma non mi chiese più nulla.

Me ne stupii, e allora, solo allora capii.

Io sono cresciuto con l’amore dei miei genitori,

con i loro sorrisi,

il loro affetto,

i loro pianti.

Ero e sono stato anche dopo che mi deposero qui l’orgoglio di mio padre,

la ragione del suo sorriso,

e dovunque mi voltassi vedevo il mio passato sorridermi,

vedevo la ragazza dei miei sogni starmi accanto,

vedevo la mia Casata sostenermi insieme all’intera scuola.

Oh, se sapeste com’è stata facile la mia vita!

O forse lo sapete, e leggete aspettando il finale?

Ve lo dirò, dunque.

Ho capito, in quel dì di sole, che non ero che un ragazzo,

che non ero che un granello di sabbia.

Avevo tutto, ero tutto, ma in realtà nulla.

E la Speranza, la Speranza mi ha salvato una volta,

e ha fallito la seconda.

Chi, almeno una volta, non gliel’ha rimproverato?

Oh uomini, oh donne, oh bambini che conoscete la mia storia!

Io vi dico ora ciò che nessuno ha mai capito,

ciò che nessuno mai vedrà.

Noi non meritavamo la Speranza.

Nessuno, nessuno di noi,

nemmeno chi l’ama e l’ha amata.

Nessuno perderà mai più tutto per chi non crede in lui,

pensate che non sappia?

Ebbene, sia chiaro ora e mai più sia detto.

Sono lieto di esser morto allora, giovane e fiero,

perché così non ebbi tempo di vedere la Speranza cadere,

abbandonata,

sola.

Iporiti, blasfemi, traditori, voi che l’avete usato e gettato via!

Non è mai stata la Speranza per voi,

ma solo lo Scudo.

E ora ecco che viene, viene a parlarmi senza saper ch’io sento.

Oh vita delle vite,

cos’hai mai fatto per meritare questo vento freddo,

noi pietre silenziose,

e quel cuore infranto?

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Colin ***


Nuova pagina 1

  

Colin Canon

 

 

Molti di voi di certo non mi rammentano,

o se lo fanno associano il mio viso ad un insetto fastidioso.

Sì, beh, ammetto:

era petulante, da ragazzo.

Sempre parole spezzate dall’ansia,

sempre ansia, più che altro.

Voi certo ricordate la mia fissazione:

fotografie.

Ridete, ridete pure.

Ma io ho avuto qualcosa che nessun altro al mondo ha,

tanto meno voi che mi ascoltate.

Avevo i ricordi ancora vivi, ancora giovani.

Quanti di voi possono vantare di poter vedere,

ogni ora di ogni giorno,

immagini rubate di chi tutto il mondo adora?

Speranza, lo chiamavano e lo chiamano molti che mi giacciono vicini.

Harry, è il suo nome.

Un nome che ho pronunciato più di ogni altro, credo.

Sempre ad affannarmi per rincorrerlo,

sempre dietro di lui, speranzoso di cogliere uno scatto felice,

sempre con gli occhi brillanti di meraviglia per la sua fronte così celebre.

Ecco cosa fu Hogwarts per me, quando lui c’era.

E quando lui se ne andò,

quando tutto finì,

mi sembrò che la vita in quel castello si fosse spenta.

Tutti ridevano,

vivevano,

sognavano ormai sereni.

Lui aveva perso tutto.

Aveva vinto, sì,

ci aveva salvati,

ma quante vite, quanti cuori, quanti anni d’amore ha sepolto?

Harry, la Speranza.

Io continuai a guardare le sue foto,

anche dopo che sparì, nascondendosi al mondo ipocrita che aveva protetto;

chi avrebbe mai potuto biasimarlo?

Mentre tutti vivevano,

io guardavo ciò che di lui avevo colto.

Sfumature d’imbarazzo,

di rabbia, di gioia, di stanchezza, di angoscia.

Momenti di riposo,

di studio, di festa, di concentrazione, di divertimento.

Occhi splendenti,

offuscati, assonnati, vigili, maliziosi.

Occhi d’un verde mai visto, d’una lucentezza mai sognata.

Ricordo che mi sorrideva,

quando lo importunavo per quelle immagini.

Raramente mi gridava dietro o mi chiedeva di smettere,

ma non perché fosse troppo stanco della celebrità;

lo era, ma era meravigliosamente gentile, lo sapete.

No, mi rivolgeva parole di diniego solo quando aveva altri a cui pensare,

quando i suoi amici avevano bisogno di lui,

o quando,

più spesso,

ne aveva bisogno il mondo intero.

I lunghi anni della mia vita sono trascorsi col ricordo dei suoi cenni,

con nello sguardo le immagini materiali della sua vita,

dei suoi sogni,

delle sue speranze.

Io, che non ero nulla, avevo pezzi di ciò che lui sognava,

di ciò che lui aveva perso e bramava negli incubi

E così,

quando la morte mi annunciò di lontano la propria venuta,

gliele spedii.

Decine, centinaia di fotografie,

decine, centinaia di ricordi, di momenti strappati al passato e al dolore.

Non mi servivano, dove stavo andando.

E infatti ancora le ricordo, quelle immagini.

Forse qualche dettaglio mi sfuggì, col tempo;

Colin Canon è il mio nome, dopotutto.

Ma non dimenticherò mai i suoi occhi.

Credo che tutti noi,

qui, sulla Collina,

lo ripetiamo spesso.

E credo anche di aver detto troppo in questo giorno di vento.

Ora aspetto.

Perché,

silenzioso come sempre,

Harry verrà.

Guarderà il mio nome, sorriderà, e mi parlerà di una fotografia.

Una lacrima, e mi ringrazierà.

E io come vorrei gridargli di tacere,

di non ringraziarmi,

perché quelle immagini non sono altro che colore su carta.

e lui meritava di poter vivere quei  volti,

non di guardarli!

Come vorrei vedere i suoi smeraldi brillare ancora,

un’ultima volta!

Come vorrei, come vorrei

che egli non fosse mai stato la Speranza!


Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Ginevra ***


Nuova pagina 1

 

Ginevra Weasley

 

 

Cosa volete?

Via, andatevene!

Non voglio parlare con voi.

Ancor mi fissate?

Via, v’ho detto!

Non voglio che anche voi mi odiate.

E non fate quella facce,

non guardatemi come se vedeste un folle!

Voi non capite,

nulla sapete.

Giudicate?

Ebbene, fatelo.

Mi può importar di più delle gocce di rugiada.

Conoscete la mia storia?

No.

Tacete, dunque!

Come dite, la sapete?

Voi sapete di ciò che ero,

delle mie lentiggini prepotenti,

della mia famiglia povera,

dei miei fratelli.

Questo è nulla.

Sì,

son io la piccola Ginny,

l’ultima figlia di una serie infinita,

l’ultima considerata da Harry Potter,

se non come sorella,

l’ultima per importanza in qualsivoglia cosa.

Non so chi scrisse di me,

ma tralasciò molto.

Harry, la Speranza.

L’odio.

A voi sembrava che lo amassi?

Vedete quanto poco vi è noto?

Lasciate che vi dica, dunque,

e poi andate.

L’amai dell’amore infantile e dolce

del primo arrossir d’infanzia.

Ignorata, allora.

Poi l’ebbi,

ancor non so come,

e mi sembrò la favola.

Oh sì,

lo sembrò davvero.

E d’un tratto,

quando le mie dita sembravano poterlo afferrare appieno,

mi lasciò,

sulle labbra parole d’onore, di rispetto, di responsabilità.

Allora l’odiai,

e mai smisi.

Sciocco, stupido, crudele!

Credeva che non sarei morta lontana da lui?

Mi disse di fuggire, di lasciare la mia terra,

di non morir in uno scontro incerto.

Mi condannò senza saperlo.

Per odio, per disperazione, per desiderio di vita,

decisi di ascoltare la sua voce forte

– oh, tanto forte;

almeno questo lo sapete –,

incurante delle lacrime materne,

della voce disperata dei fratelli,

di ogni altra cosa.

Me ne andai.

Codarda?

Non osate, sciocchi.

Solo io ho il diritto di accusarmi.

Sì, lo fui.

Ma ero ferita,

ferita a morte, credevo.

Sbagliavo, come sempre,

perché morii dentro in un altro momento,

di lì a poco.

Seppi che si era innamorato.

S’innamorò come non aveva mai sognato,

s’innamorò come non avrebbe mai dovuto.

Il conflitto ci divise tutti,

tutti ci disperdemmo,

e loro fuggirono nell’Europa straziata dal Marchio Nero.

Li seguii.

Non volevo, non potevo tornare indietro.

Il mio cuore sanguinante gridava odio,

gridava amore,

e i miei occhi avevano un’unica luce,

un unico viaggio.

Non seppe mai di me.

Passarono Roma,

passarono Parigi,

e io,

l’ombra dannata,

la figlia dispersa e mai tornata,

con loro.

Poi, la battaglia finale.

Morti, grida,

un orrore che ancor vivo,

che ancor vedo.

Ricordo bene l’odore acre,

la vista offuscata di lacrime e stille purpuree,

le mani intrise di fango, di capelli, di carne,

e il premere dei corpi sul mio.

Caddi perché,

come lui sapeva,

non ero pronta:

un Esercito segreto non è la guerra.

Caddi perché ero giovane,

caddi perché odiavo troppo;

e come me,

caddero i nemici.

Uno ad uno,

cuore a cuore.

Cadde Lui,

il Lui di cui ancor non oso dire il nome.

E tutti gli altri,

tutti noi,

tutti loro.

Chi non venne non morì,

chi non volle sporcarsi le mani insieme alla Speranza non perse la vita.

Noi che fummo,

che scegliemmo di seguire la nostra unica via,

per primi giungemmo sulla Collina.

Ma io vi giunsi con un peso in più sul cuore,

perché quand’egli mi vide,

sulla nuda terra madre,

mi prese tra le braccia e pianse.

Pianse anche me,

mi pianse perché credette che fosse sua la colpa.

Mi pianse allo stesso modo di tutti gli altri,

il suo amore perduto,

i suoi amici,

il suo mondo.

E io,

che tanto l’avevo ferito con le fredde parole,

che tanto l’avevo odiato per avermi voluta salvare,

venni amata e rimpianta anche nella morte,

come non meritavo.

Ancor adesso maledico il Fato,

credete alle mie parole.

Lo maledico per me e per lui,

per chi come me d’amore s’è dannato,

per chi come lui dall’amore è stato soltanto usato.

E maledico lui,

Harry,

maledico i suoi occhi,

le dannate lacrime che versa per il mio nome,

le vecchie rughe sul suo viso stanco,

i minuti che ogni giorno trascorre a sussurrarmi scuse.

Maledetto, maledetto eroe,

non capisci che io fui l’assassina?

Non capisci che io mi lasciai trasportare dall’amore

per morir nell’odio?

Tu mi volesti salvare, maledetto, maledetto...

ed io morii perché t’odiavo,

perché volevo con ogni fibra del mio essere poterti dire

che ti sbagliavi,

che ero viva ed ero forte,

che ero diversa da come tutti mi vedevano.

Me misera, me stolta, me sciagurata!

Non ero forte,

ero come tutti mi vedevano

– piccola, debole, stupida e immorale –,

e non rimasi in vita.

Cosa dite ora, astanti?

Piaciuta la commedia, la tragedia, il dramma?

Non v’è un lieto fine.

Paghereste un’altra volta il biglietto per la mia storia?

Sacrifichereste la vita per interpretare un ruolo?

Nessuno parla di me,

l’Elena innamorata del suo lontano Demetrio.

Questo non è un sogno di mezza estate,

io non sono attrice,

ne’ fanciulla innocente,

e la mia è una notte eterna.

Ma andatevene, andatevene, giudici ciechi!

Lasciatemi,

lasciatemi sola,

come fui e come sono.

Ora che sapete andate a narrare,

raccontate dell’ingrata,

della folle,

della bambina viziata.

Ricordate? Rugiada, rugiada.

E tu,

tu che hai sacrificato tutto per un amore che non hai ottenuto,

tu che hai perso e dato,

tu che cammini tra noi spettri e ci parli come ai vivi,

tu che mi guardi e piangi e ti maledici,

non senti le mie parole?

Io ti maledico,

essere perfetto,

Speranza dei morenti,

Speranza dei vinti e dei vincenti.

Perché mi piangi ora,

perché t’incolpi ancora,

perché mi strazi l’animo infangando il tuo,

e perché tua era la ragione,

e mio il torto.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Rodolphus ***


Nuova pagina 1

 

Rodolphus Lestrange

 

 

Sono convinto, sono sicuro

di essere il solo a non amare la Collina.

Persino la mia consorte,

nella sua folle e irreale pazzia,

apprezza quest’erba e questo silenzio.

Forse sente meglio le risa nel suo animo, chi può dirlo.

Ad ogni modo, è me che state osservando,

e di me vi parlerò.

Non che mi interessi, ma meglio far capire a voi,

sciocchi e stupidi babbani e maghi,

che a chi mi riposa affianco.

Io non amo la Collina.

Avrei voluto terra fredda e polvere,

per i resti del mio misero cadavere dilaniato dai colpi e dai morsi delle furie.
Lui mi portò qui.

Lui, che per voto e vita era mio nemico.

Potrei odiare la Collina se la sua fosse stata ipocrisia,

ma non ho detto che l’odio.

Ho detto, non l’amo.

Perché la sua non fu pietà, ma indomita e innata compassione.

E potevo forse oppormi io, putrido cadavere che marcisce sotto la pioggia?

E dunque, eccomi,

lapide silenziosa all’uomo tra lapidi che come me tacciono.

E’ un cliché banale,

la mia storia.

Figlio di carne che appartiene alle tenebre,

promesso e venduto alle stesse.

Serpeverde, come era naturale fossi.

Assassino.

Bugiardo.

Torturatore.

Mostro.

Io, io, ancora e sempre io.

Una bestia.

Non sentite il mio tono, ma lo dico sereno,

con orgoglio, persino.

Troppi coloro che rinnegarono il mio Signore,

quando cadde.

Io allora non sapevo che era una pazzia, il seguirlo.

Non sapevo che colui che sopravvisse avrebbe trionfato, poi.

Sapevo solo che la mia anima era marchiata come la mia pelle,

e tenni fede al mio patto.

Col sangue, con la pazzia.

La prigionia devastò la mente di colei che per occulta legge magica fui costretto a sposare,

figlia di sangue puro, come me,

figlia di nomi votati alla morte e di cuori aridi e vuoti.

Come me.

Così simili e così distanti,

uniti da un legame che di vero non aveva nulla.

Affetto, complicità, attrazione.

Sognate, se credete vi fossero.

Un nome,

un ideale.

Null’altro.

Azkaban ci unì più del matrimonio.

Lei perse se stessa, tra quei gemiti devastati.

Io resistetti.

Non sapevo come né perchè,

ma quando tornammo,

quando il nostro Signore ci riprese con sé,

lo capii.

Volevo il pulsare delle vene farsi sempre più debole sotto le dita,

volevo sentire le grida disperate degli amanti separati e uccisi,

volevo percepire l’odore acre e tetro del disfarsi delle carni,

volevo vedere le iridi farsi chiare, sparire nel bianco e annullarsi in se stesse,

volevo gustare il sapore del sangue.

Sangue, sangue nella bocca e sulle labbra fiere.

Sangue sulle mani, sulle mie mani pallide.

Volevo la morte,

volevo l’Olimpo.

E il mio Signore me li diede,

e la passione mi bruciò le vene,

inarrestabile, insopprimibile.

Uccisi.

Ridendo, uccisi.

Mia moglie si tolse lo sfizio di demolire una delle ultime colonne portanti della Speranza,

uccidendo il sangue cattivo e traditore,

cavandoselo dalla mente e dal cuore come uno sputo amaro.

E io,

uccisi a mia volta.

Tra maghi e babbani,

col sole e con la luna.

si venne poi alla battaglia finale,

e quando iniziò già vidi un bagliore ignoto, un brillare furente che mi disorientò.

Poi, quando spezzai altre vite,

me lo rividi davanti.

E pensai che no,

c’era uno sbaglio,

perché come poteva la Speranza avere negli occhi l’essenza stessa del tormento?

Come poteva la nostra guerra risultare vana?

E come potevamo noi perdere,

noi,

burattini dai fili spezzati,

noi,

bambole riposte in credenze laccate per poi cadere a terra, in frantumi,

la cui intera vita era il Male?

Non avevamo altro.

Non avevo altro.

La mia vita, tutto ciò in cui disperatamente e follemente credevo,

cadde in pezzi,

cadde e svanì nella terra pregna di morte.

Poiché nessuno poté vincere il Fato,

e il Fato,

delicato e furente dio delle vite,

mi guardava,

ci guardava,

da dietro le Sue spalle.

Con lui.

Non con me.

Quel bagliore che mi accecò,

poi mi uccise.

In un cenno,

il mio cuore cessò di battere.

Non ho e non voglio ricordi di quell’istante.

A volte sento ancora il fragore dello scontro,

le grida,

i pianti,

e la Sua voce.

Oh, ma la sua voce la sento sempre.

Vi sarà già stato detto che viene ogni giorno.

Ci parla.

Non ha altri, ormai.

Rammento che io non ero dissimile,

quando ancora frequentavo Hogwarts.

Non avevo nessuno.

Mio fratello Rabastan,

del resto,

era nessuno.

E come il nessuno morì infine.

Egli non mi parlò né mi aiutò mai,

in quei lontani sette anni.

Sbagliai e vinsi da solo,

bozzolo non ignaro del suo destino di falena.

Intravidi in Silente il nemico,

e nei Potter il mezzo,

ma non capì la fine.

Non le credetti quando si presentò ad Halloween,

anni e anni fa.

Infante, la Speranza vinse una prima volta.

Nessuno dette peso a questa cruda realtà.

Mitigammo e sminuimmo la sua forza,

la sua leggendaria fortuna.

Fortuna?

Sorrido, anche se non mi vedete.

La fortuna non da potere.

E Lui di potere era il veicolo,

la fonte e la sorgente.

Così quando ripenso a che mi uccise,

ancora invidio quella forza.

L’odio è ormai scemato, col tempo.

Ancora credo che la fine fu sbagliata,

sapete.

Il Male non nasce per contrapporsi al Bene,

benché sia questo che insegnano ai figli.

Nasce per il potere,

per l’assoluta e meravigliosa sensazione che da il sentirsi superiori.

Che il Bene voglia lo stesso per altri fini è la lotta,

ma nessuno è nel giusto o nello sbagliato.

Due forze,

due Poteri, se volete.

Perdemmo noi,

come sempre avviene nelle storie narrate dinanzi al fuoco.

Dite, vinse mai il cattivo,

uccidendo l’eroe?

Così noi cademmo.

Ma credete forse che loro vinsero?

Nessuno rimase!

Pochi, lontani dalla battaglia,

e di quella, solo Lui.

Come capite, nessuno vinse realmente.

Solo perdenti sulla terra Madre.

Curioso come la bandiera di chi si arrende sia bianca.

Io mi sono ormai arreso all’evidenza

– non ce l’avremmo mai potuta fare –, 

eppur il mio animo è nero.

E la Speranza perse, dicevamo.

E pensò a noi,

ricordi sbiaditi di vite vuote,

ci diede lapidi e incisioni e ore del suo tempo.

Ci diede se stesso, che lo volessimo o meno.

Io ancora non lo voglio,

ma non posso oppormi.

Ancora lui si da a me,

instancabilmente.

Parla di cose che non hanno senso,

di ricordi che condivido solo per conoscenze,

e di sentimenti che non provo.

Io non amo la Collina.

Amavo il buio, la tenebra, il dolore inferto.

Amavo incutere terrore.

No, io non amo la Speranza come mi chi precede,

e chi mi viene dopo.

Ma ora,

passati tanti anni e tante ore,

trascorse così tante stagioni e piogge,

e momenti per pensare,

la rispetto.

E anch’io ascolto il silenzio dei fili d’erba.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Neville ***


Neville Paciock


Neville Paciock

 

 

Io,

un nome tra molti,

una pietra uguale ad altre.

Io,

Neville,

ho una storia da raccontare.

Molti sono i viaggiatori stanchi che non si fermano,

che non prestano attenzione.

Ma io ho ancora una voce.

Perciò vi prego,

per un momento,

due,

tre,

siate bambini ed ascoltate.

Nella mia storia ci sono streghe e maghi,

negarlo è come dire che non ci sono mostri,

né draghi.

E ci sono bacchette, cappelli, incanti,

rospi e calderoni, pozioni, oggetti volanti.

C’è tutto quello che sognate da bambini,

che bramate.

Ma non è come nei libri.

Oh no, non è come le fiabe.

Bene e Male hanno armi uguali,

nella mia storia.

Io ero tra i buoni, posso dirlo:

perdemmo così tanto da non curarci della loro fine.

Uno si curò di me,

uno solo.

Sì, siamo giunti a presentar l’eroe.

Ed un eroe che voi non conoscete.

Non scelse lui l’armatura e la lancia,

non decise lui la corsa contro il buio.

No, non fu felice la sua strada.

Nessun bivio, nessuna sosta.

Dalla capanna dritto alle fauci del lupo,

senza fiori o cacciatori audaci nel frammezzo.

Solo prede.

Io, noi tutti, anche il suo amore,

cademmo. Cademmo.

Dubitammo di lui,

prima,

arrivammo a crederlo falso, mentitore!

Io non dissi nulla, quell’anno,

lo aiutai, anzi, a dimostrare la durezza del suo animo di ferro,

ma non dimentico che fu uno come me,

uno che più di me a lui era caro,

a ferirlo, aggredirlo, infrangergli il riso.

E fu la lei che sempre l’aveva aiutato,

a dirgli che il suo coraggio era vanità.

Fu l’anno dopo, quando la presunta vanità salvò anche lei,

stolta,

e tutti noi,

ed egli invece perse ancora,

perse un altro pezzo del suo fragile cuore.

Li capii entrambi, lo rammento,

poiché non avevano torto.

Ma ricordo anche che li biasimai,

e li biasimo tuttora, come biasimo me stesso.

L’eroe sfida il drago,

salva il popolo,

e il popolo lo deride per non aver usato il senno, la ragione.

Ma dov’è il senno quando l’amore viene trafitto dinnanzi a noi?

Dov’è la ragione se il nemico alza l’arma sul fratello?

E cos’è,

cos’è un eroe se non diverso dagli altri nella forza dell’agire?

Lo sapevo io come loro,

come chi non l’amava ma lo voleva,

come chi l’odiava e lo temeva.

Ma non uno fu saldo nel fidarsi della sua spada,

non uno riuscì a non dubitare della sua luce.

Di certo qualcuno prima di me l’ha detto,

e io ve lo ripeto, astanti,

perché difficilmente i sussurri delle ombre sembrano voci,

e facilmente ciò che dicono rimane nel vento:

non lo meritammo mai.

Si pensa che in un mondo di streghe e maghi,

di fate, mostri e draghi,

gli eroi siano banalità e costume,

che se ne racconti non per gioco ma per scienza,

che vincano e non li si vinca,

che amino e li si ami,

che la favola sia sempre ben finita.

Ma non v’ho detto che non è una favola, la mia?

L’eroe, l’eroe...

mi diede il suo coraggio,

io gli diedi un’altra lapide da piangere.

Ancor oggi, mi piange.

Parla di quando, insieme a lei che ho già citato,

mi colpì per salvare il nostro mondo.

Si era bimbi, l’ammiravo oltre ogni altro;

soffrii del suo gesto,

permaloso, direste.

Ora capisco perché lo fermai:

non per la mia Casa o per gli sguardi,

ma perché io ero io.

Non ero io l’eroe, non era mia la scena.

L’aiutante non inizia la fiaba,

non è il principe a cavallo.

Io e lui,

Harry,

segnati dal comune destino di essere soli.

Sapete, io avrei potuto essere lui.

Assassino al posto suo,

solo per lui,

unico per lui.

Il caso fece scorgere in lui la minaccia e non in me?

No.

No, e se lo credete rileggete da capo le mie parole.

Come avrei io potuto capire gli specchi e domar le chiavi,

come uccidere serpenti e ricordi di maghi,

come liberare vite innocenti e ingannare i savi,

come vincere prove e veder morire gli ignavi,

come perdere la vita dietro veli rari,

come veder cadere le risposte dai tetti solitari,

come morire un poco d’ogni morte dei propri cari?

Io sono Neville,

soltanto uno dei tanti.

Troppo timido o solo o impacciato o esitante,

troppo io,

da lui troppo distante.

Avrei vinto, io?

Ah, questa sarebbe stata una vera fiaba, non pensate?

No, mai.

E la sorte scelse come se l’avessi dettata io,

scelse lui,

Harry,

scelse chi ci avrebbe salvati.

Sapeva, il fato?

O ha scelto per un fato oltre ancora,

che ama e ci ama?

Morimmo tutti, noi che sedemmo insieme sotto allo stesso stendardo,

noi che vedemmo la Speranza crescere,

amare,

guardarci cadere,

e perdurare.

Crudele, crudele sorte!

Egli non è un eroe greco,

amò ed ama troppo la vita per seguirci nel baratro.

Non riuscimmo a non cadere, sciocchi;

e mentre egli vinceva,

mentre la nostra favola si concludeva,

già i suoi occhi riflettevano il pianto

–  e non la gioia.

Quale, quale gioia nel perder tutto e salir sul podio?

Persino l’amore gli fu infranto.

E qui, qui sta la staffilata,

qui sta il dolore lancinante.

Speranza, speranza...

non per lui, non per se stesso.

E lo ripeto, sorte: crudele, crudele!

Lottò tanto per un mondo suo solo per pochi visi,

e tutti quei visi gli furono tolti,

straziati nella polvere e nel sangue.

Uno su tutti.

E rimase solo,

come nessuno di noi fu mai.

Io crebbi con parenti vicini e scettici di me,

ma seppi sempre, vidi sempre la mia famiglia vera.

Non mi conoscevano, ma non li amai di meno.

Erano con me ogni istante,

anche quando tremante consegnavo le vite dei compagni

nelle mani di un probabile assassino, ingenuo.

Ma egli,

egli crebbe come uno stelo d’un fiore raro,

dolorosamente perfetto,

perfetto ma incrinato dal marcire dei sostegni.

Non aveva certezze o spalle,

non ebbe mai altro che armature, e lance.

Consigli, inutili.

Amici, allontanati.

Amore. Amore, nemico e alleato. Amore, che l’ha abbandonato.

Dolce cavaliere dallo sguardo di brillante,

quanto dolore provo nel cantar la tua ballata!

L’eroe vince, nella fiaba.

Tu vincesti solo per altri,

fosti imperatore, re, comandante,

ma le tue schiere si dissolsero come il fumo dei tuoi sogni,

e della splendente e immemore vittoria

altro non ti rimase che lacrime,

e noi pietre.

Noi pietre, quali amici per te, anima bianca!

Un eroe merita seguaci,

non ombre di silenzio e nomi muti.

Tu che muta mai sei,

perché mi parli?

Parli a me, al vicino, all’altro ancora,

non importa quanto e quale male ti sia stato arrecato.

Parli ai pedoni e ai fanti di schieramenti dimenticati,

a incisioni sciupate di sorrisi mai obliati.

Perché, perché, Speranza?

Siamo tutti sommersi in questa valle di colpe e peccati,

tutti condannati da fiaba e cuore;

tu, eroe, non ci lasci.

Ma voi lasciatemi, viandanti;

so che altre voci bramano l’ascolto,

poiché egli deve ancor passarli,

e il vento non comprende bene ciò che gli si confessa.

Ho tempo, io, qui nel mio riposo,

perciò ripeterò se vorrete tornare;

le stesse lacrime immaginerete nel mio viso,

e lo stesso pegno pagherete alla mia ombra

– solo il tempo di una favola.

Via, via, andate.

E’ tempo che zittisca la mia voce,

egli viene e tocca a me ascoltare.

Le stelle sole sanno quanto io odi le rughe del suo stanco viso!

Brilla lo smeraldo,

ma il sorriso è morto, morto come adesso è il sole.

E del sole mi parlerà, lo sa il mio cuore.

Mi chiederà,

ricordo come splendeva quando mi lasciò provare la sua scopa?

com’era luminoso mentre la battaglia della neve imperversava?

come ci scaldava nel guardare l’acqua del Lago?

Oh, mia Speranza,

mio signore.

Ricordo persino le volte che mi toccasti la mano!

Ricordo tutto ciò di cui mi parli,

ieri, oggi, domani. Ricorderò fino alla fine del vento

– dove non più accarezza il grano, ma si spegne nel silenzio.

E ora che avanzi, che ti vedo,

anche adesso mi chiedo quel che non so e tu non sai,

che la mia voce di polvere e terra non ti dirà,

e che tu non sentirai, nel mio compianto.

Perché anche io, Harry?

Non sono che Neville,

non sono che un rimpianto.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=85094