Sorry and Thanks seem to be the hardest words. di Tony Porky (/viewuser.php?uid=50263)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il grazie è abituale sulle labbra di chi non si sente padrone di nulla e comprende che nulla di ciò che ha è suo. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 1 *** Il grazie è abituale sulle labbra di chi non si sente padrone di nulla e comprende che nulla di ciò che ha è suo. ***
grazie holmes
1. "Grazie"
"Non metta troppo sale, finirà per farle venire il
colesterolo."
"Lasci fare a me, sono
un cuoco certificato."
"Holmes..."
"Che c'e'?"
"La mia fede
è rimasta incastrata là dentro"
Watson aveva tanto, troppo nella testa in quel momento per poter
pensare all'arrosto della domenica mattina. Mary era uscita di casa
presto, incantando John con lo svolazzare dello scialle avana e del
capello marrone, che aveva abilmente cosparso del suo profumo . Il
Dottore le aveva dato un bacio sulle tempie, prima che lei riuscisse a
voltarsi e a guardarlo, con le guance imporporate.
"Non riesco ancora ad abituarmi", disse, lasciando che il calore delle
sue braccia l'avvolgesse.
"Nemmeno io" rispose Watson, mentre le dava uno sherzoso pizzicotto
sotto la gonna. Mary aveva riso, schiaffeggiandogli la mano e
inchinandosi al suo cospetto con fare malizioso.
"Dopo, dottore...". Watson l'aveva osservata per l'ultima volta, prima
che la sua gonna a fiori scomparisse al di là della porta di
mogano del loro appartamento.
Era Domenica mattina. Il giorno del riposo e del relax. Eppure,
osservando impaurito il volatile unto d'olio, senza più
testa e
coda, si chiese perchè mai l'aveva lasciato lì, a
sbrigarsela da solo, quando i suoi piani erano di tutt'altra specie.
"Cucinare, io? Non se ne parla."
Watson aggirò circospetto il pennuto spennato, grattandosi
il
mento e lisciandosi la barbetta incolta. Mary non si sarebbe certo
aspettata un
arrosto fumante sul tavolo, quando fosse tornata a casa. Non poteva
chiedere a lui, abile nei ferri ma tremendo nel maneggiare coltelli da
cucina, di preparare un pollo al rosmarino.
"Non ho intenzione di infilare niente dentro quel coso",
sbuffò, avvicinandosi a toccare la carne morbida e succosa.
"Problemi, Dottore?"
Per poco non rovesciò il suntuoso pasto a terra. Quando si
voltò, non potè fare altro che guardare inerme
due mani
familiari che facevano rotolare il pollo sul tavolo della cucina.
"La smetta, Holmes!". Watson si scagliò contro l'altro,
riprendendo al volo il volatile che stava per cadere a terra.
"Ma cosa sta facendo? Che ci fa qui? Le avevo detto di riguardarsi, ha
la febbre a 40!" sciorinò lui, incespicando le parole e
sputando
saliva tutt'attorno.
Holmes lo guardò con quella sua aria da intellettuale
disordinato e eccentrico, mentre le sopracciglia si alzavano verso
l'attaccatura dei capelli. "Mio caro, non c'è cosa migliore
che
andare a trovare il proprio dottore quando si sta male...non trova?".
Parlò tirando su con il naso, stuzzicando le narici con
l'indice.
"No, Holmes. Lei deve stare a letto. Riguardarsi. Si prenda un
thè." bisbigliò l'uomo, guardandolo di sottecchi
e
stringendo con fare minaccioso gli occhi chiari.
"Me lo faccia lei, piuttosto. In questa casa sono sicuro non manchi."
"Garbato come sempre"
"I malati vanno assecondati, Dottore"
sghignazzò il detective, sottolineando l'ultima parola come
un monito a seguire il codice d'onore.
Watson si fermò a braccia incrociate, dopo aver assicurato
il pollo su di un piatto piano.
"Ho altro da fare. L'accompagno a casa, e non cerchi di scappare"
Fece per prendere il polso dell'altro nella sua mano, ma Holmes fu
più lesto. Con un agile movimento laterale, si
ritrovò a
pochi centimetri da quello che una volta era il collo della povera
bestia. Il buco che era rimasto come ricordo, accolse la mano di Holmes
che introdusse dentro tutte e cinque le dita della mano destra.
Watson sbuffò rabbioso, incapace di controllarsi. Prese
Holmes
per le spalle e lo scosse, indirizzando il viso verso il suo.
"Lei è insopportabile, lo sa?!"
"Vuole fare del male a un povero e onesto cittadino che ha bisogno di
attenzioni?"
"Al diavolo lei e le sue attenzioni!" gridò Watson,
allontanandosi a grandi passi e schermandosi dietro il tavolo di marmo.
"Non ho tempo da perdere con lei e le sue manie. Se necessita di
attenzioni, le cerchi altrove."
"Non ho intenzione di rimanere a importunarla, Watson, se la mia vista
le da così fastidio." continuò Holmes, "me ne
tornerò a casa, solo, a fumare tabacco e a torturare
mentalmente
l'adorabile signora Hudson."
Non appena l'uomo si fu voltato, barcollò e dovette
appoggiarsi
allo stipite. Watson fece qualche passo avanti, spinto dal suo spirito
da infermiera, accogliendo il corpo di Holmes tra le sue braccia.
"Lei deve rovinarmi ogni singolo, indecente istante della mia vita, non
è vero? Mi manderà al creatore,"
bisbigliò al suo
orecchio, mentre Holmes tornava in piedi a fatica.
"Ha cambiato idea, Dottore? Posso restare?"
Watson scosse la testa, e alzò lo sguardo. Fu un affronto
dover
cedere così facilmente a quegli occhi marrone scuro. Le
guance
erano arrossate, e sulle labbra un velo di saliva. La febbre lo rendeva
terribilmente vulnerabile e letale.
"Va bene, va bene."
"Grazie Watson, il suo ardore e la sua sicurezza sono come inviti a
pranzo per me."
Il Dottore rimase sospeso per qualche istante, con il piede destro a
pochi centimetri da terra. Senza voltarsi, ma avvicinandosi al pollo,
si rivolse a Holmes con abili e astute parole.
"Se vuole rimanere a pranzo e onorare così il mio invito,
deve aiutarmi."
Holmes si raddrizzò, abbozzando un sorriso complice.
"Ohoh, e a cosa devo questa improvvisa fiducia?"
"Lo prenda come un aiuto dall'unico Dottore che sia mai riuscito a
farle prendere un'aspirina."
Sherlock si spinse sul tavolo, appoggiando i gomiti e osservando il
viso dell'amico, che si ritrasse sospettoso.
"Noto che ha improvvisamente cambiato atteggiamento. Posso facilmente
dedurre che il volatile con cui mi dilettavo, che ha destato le sue ire
a seguito del mio comportamento infantile, sia di fondamentale
importanza per la donna che ha appena sposato. Vuole fare bella figura,
ma non le ha mai detto che in cucina è una frana.
Così,
facendo leva sulla consapevolezza della mia immensa bravura in cucina,
mi chiede aiuto, per non smascherare la sua piccola bugia. Ho
indovinato? Ma certo che si.", disse Holmes, interrompendo l'altro con
l'indice alzato, che stava per replicare. Watson serrò la
bocca
irritato, appoggiandosi al bancone e fronteggiando lo sguardo
dell'altro.
"Tutto esatto, Holmes. Ma io non riesco a dedurre la sua risposta".
L'uomo si contrasse, tossendo sulla mano chiusa a pugno attorno alla
sua bocca. Il silenzio della cucina era interrotto frequentemente dal
picchiettare nervoso della suola di Watson sul pavimento, e dei respiri
rantolanti di Holmes.
"Mi deve un thè".
Watson era rimasto inchiodato al suo posto. Quando Holmes si ritrasse,
arrotolandosi le maniche per lavarsi le mani e dare inizio all'opera,
non potè trattenere un'esclamazione di vittoria.
~
"La signora Watson è tornata!"
Mary si era chiusa silenziosamente la porta alle spalle,
così
che la sorpresa per il marito potesse essere maggiore. Non
calcolò che Holmes, appoggiato allo stipite della porta con
la
pipa in mano e lo sguardo rivolto a terra, l'avrebbe risvegliata da
ogni fantasticheria.
"Cosa ci fa lei qui?", sussurrò lei, sospettosa come sempre,
quando si trattava di parlare con l'abile deduttore.
"Buongiorno anche a lei, Mary. Il suo caro sposo ha concesso a un
povero malato come me di rimanere a pranzo." Tirò su con il
naso, espellendo poi il fumo dalle narici e tossendo nuvolette grigie.
"Non le ha insegnato niente in fatto di cure, però."
"Ci ho provato cara," si intromise Watson, andando a prendere il
soprabito della moglie e appoggiandolo all'attaccapanni, mentre Holmes
si scrollò un pò di sale rimasto impigliato tra
le dita.
"Ma è più duro di un mulo".
La ragazza sorrise al suo uomo, appoggiando la mano aperta sul suo
petto e avvicinandosi per dargli un bacio tenero sulle labbra. Il colpo
di tosse di Holmes, stavolta, aveva poco a che fare con il suo delirio
febbricitante.
Facendo finta di non aver sentito nulla, Watson scortò sua
moglie in cucina.
"Oh mio dio! Non ci posso credere!"
Mary avvicinò le mani alla bocca, mascherando lo stupore per
lo
splendido spettacolo che le si parò dinanzi. Il tavolo
bianco,
coperto dalla stoffa pregiata della tovaglia di sua madre, sosteneva il
più magnifico arrosto di carne che avesse mai visto.
Si gettò tra le braccia di Watson, ridendo e battendo le
mani
come una bambina. Holmes tossicchiò nel suo angolo,
avvicinandosi alle spalle del dottore per sussurrargli all'orecchio.
"Thè al gelsomino appassito, poco zucchero, molto latte e
niente biscotti."
~
Quando si misero a tavola, Mary, scordatasi dell'avversione verso
Sherlock Holmes, gli permise di sedersi assieme a loro.
Watson sorrideva alla sua donna, che continuava a riempirlo di
complimenti, accarezzandogli il dorso della mano. La fede che portava
all'anulare era fredda a contatto con il corpo caldo.
"Ho sposato un cuoco."
"In effetti, Mary, credo sia meglio dire, "Ho sposato un bug-"
Il calcio che arrivò allo stinco di Holmes gli fece sgranare
gli
occhi. A denti stretti, Watson lo minacciò di spedirlo a
letto
senza pranzo e senza thè.
Mary era rimasta confusa per qualche istante, lo scambio veloce tra i
due invisibile ai suoi occhi. Non appena le sue labbra assaggiarono il
coscio del pollo,però, ogni pensiero le morì in
volo.
Il resto del pranzo fu un elogio continuo, tanto che Watson
arrossì in diverse occasioni. Holmes si gustò il
pollo
con il resto della sua famiglia, sorridendo ad ogni complimento che,
sapeva, era indirizzato a lui.
Quando Watson si fu ripreso, dopo aver bevuto un sorso d'acqua, le
parole di Mary erano diventate un bisbiglio quasi fastidioso.
Holmes era un ingrato. Ma quel pollo era il migliore che avesse mai
mangiato. Cercò lo sguardo del suo migliore amico, che
alzò gli occhi per pochi istanti.
Le labbra di Watson si mossero, e solo Holmes capì
ciò
che dissero. Tutt'attorno, il ticchettio dell'orologio a pendolo e Mary
che parlava di dolce e caffè, fece da sottofondo. Quando la
donna si alzò, lodando le doti di suo marito, i due uomini
si
fronteggiarono in uno scambio silenzioso.
Quando tornò, Watson aveva ripreso a mangiare e il detective
di
Baker Street aveva nelle orecchie il suono della sua personale
vittoria.
Quella sull'orgoglio di un uomo che difficilmente accettava aiuti.
Grazie, Holmes.
Angolino nell'Armadio:
Buonasera! Io sto diventando patologica xD Non riesco a non pensare a
questi due adorabili omini per più di 30 secondi. Sono
constantemente nella mia testa. La loro è la miglior
Bromance di
sempre e per questo va onorata con Fanfiction altamente dementi xD Le
eventuali sottigliezze slash in questa fanfiction sono casuali e
assolutamente non pianificate.
Penso sia una delle prime volte che riesco a scrivere quacosa di
leggero.
Spero vi sia piaciuta!
Scriverò (mi auguro) 5 fanfiction con protagonisti questi
due,
sfruttando questi prompt, cercando di non metterci troppo xD:
Argomento: "Ringraziamento e
Perdono"
1.
Grazie
2. Scusa
3. Giustificazioni
4. Perdono
5. Scelte
L'immagine presente nel Banner appartiene alla seguente autrice: http://sadyna.deviantart.com/. Date un'occhiata alla sua galleria, soprattutto alla sezione Sherlock Holmes :D |
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Capitolo 2 *** 2. ***
2.
"Scusa"
“Cercherò
di passare sopra la scarsa
cura che ha delle sue cose, Watson!”
“Lei è detestabile!”
“Il genio regna nel caos, caro
Watson, ma non è il suo caso.”
“Mi sta dando del rimbecillito?”
“Lo ha detto lei.”
Se
c’era una cosa che il Dottore amava fare nelle miti sere
primaverili era passare le ultime ore della giornata sulle panchine in
ferro
battuto di Hyde Park, apprezzando il sole che gli stuzzicava i baffetti
e i
piccioni che beccavano briciole ai suoi piedi.
Quella sera, il vento era quasi assente e gli alberi mandavano
profumi esotici. Seduto presso il lago, Watson chiuse gli occhi,
inspirò
profondamente e assorbì gli
ultimi raggi
del giorno.
La mente corse veloce a quella mattina e al disastro a cui era
stato costretto ad assistere.
Holmes aveva superato il limite dell’indecenza.
Aveva trovato la sua collezione di provette e alambicchi,
appositamente acquistata in uno dei suoi viaggi in India, distrutta sul
pavimento. Holmes, con il sorriso sulle labbra aveva alzato le spalle
in un
gesto arrendevole e i suoi occhi dicevano: “Non ho fatto
apposta, erano
pericolanti.”
Dopo aver sbattuto talmente forte la porta dello studio e aver
schiantato
la colazione che aveva comprato per entrambi contro il muro, schiumoso
di
rabbia era uscito dalla casa del suo migliore amico, gridando sulla
scelleratezza dei comportamenti umani.
La voce di Holmes gli era arrivata flebile dalla finestra
dell’ultimo
piano quando ormai lui aveva superato l’angolo di Baker
Street.
La città non gli era mai sembrata tanto piccola:
l’aveva attraversata
a passi da gigante, urtando i passanti e colpendo ripetutamente i piedi
sull’asfalto,
assumendo di tanto in tanto comportamenti schizofrenici degni
dell’uomo che
aveva appena rovinato la sua mattinata.
Ed era stato con immenso sconforto che aveva preso posto sulla
panchina sulla quale, adesso, accettava a braccia aperte il calore
della sera.
“Se
posso permettermi, ridere è un buon metodo per terminare la
giornata.”
Watson aprì gli occhi. Dissimulò un grido
sorpreso in un colpo di tosse alla vista della
creatura che gli si parò dinanzi. Era umana, ma la faccia
era pitturata di
bianco e sulle labbra un rosso acceso che terminava sulle guance. Sotto
l’occhio
sinistro, una lacrima finta e ciglia lunghissime disegnate con una
matita nera.
La testa era sormontata da una parrucca arancione, riccioluta e enorme.
E per
completare l’opera, un naso rosso di plastica grande come
un’arancia.
“Vedo che l’ho piacevolemente stupita. Sono
interessante, eh?”
Watson boccheggiò e cercò di assumere
un’aria seria.
“E lei cosa dovrebbe essere? Un qualche mendicante
eccentrico?”
“Meglio. Sono un…pagliaccio!”
rispose quello, inchinandosi
al cospetto del Dottore, mentre dal taschino che aveva sul petto
estraeva un
fiore rosso.
“Un giullare? Non le sembra finito il tempo dei banchetti
medievali?”
La strana figura sorrise, enigmaticamente. Watson socchiuse gli
occhi per osservare quel viso mascherato dalla tintura bianca.
“Dicevo,”- proseguì il pagliaccio,
sedendosi di fianco a Watson che
si spostò involontariamente quanto più lontano
possibile “non vorrebbe ridere
alla fine di una giornata?”
Aggrappato al lato della panchina, Watson rimase immobile a soppesare
le parole dell'uomo. Ridere? In quel momento era l'ultimo dei suoi
obiettivi. Sarebbe stata gradita la solitudine, ma a quanto pareva,
l'uomo di fianco a lui non dava segno di volersi allontanare.
Lambiccandosi sulle possibili opzioni, si umidì le labbra
con la lingua, distogliendo gli occhi da quelli scuri del clown.
Proprio quando si stava per voltare a chiedere gentilmente ma con
fermezza di lasciarlo solo, l'altro gli aveva appoggiato una mano sulla
spalla. Watson non riuscì ad arretrare: nell'espressione di
quello strano figuro riconobbe uno sguardo familiare.
Watson osservò la struttura fisica dell’uomo. Non
doveva essere
giovane, ma i suoi occhi erano accesi e vivi. Stranamente, a dispetto
delle sue
fattezze grottesche, quella figura gli
ispirò un senso di fiducia.
"Forza, me lo dica. Non si dice che ridere sia la miglior medicina?"
Watson suo malgrado, si ritrovò ad annuire, e non se ne
accorse fino a che il pagliaccio si mise a battere le mani con
espressione gioviale.
“Ecco! Io sono qui per questo!”
La panchina cigolò quando si alzò e Watson
scivolò di nuovo al
centro. L’uomo davanti a sé si esibì in
un balletto osceno, seguito da
imitazioni animalesche e trucchi di magia
improvvisati. Watson rimase a
fissarlo, l’espressione neutra sotto il cappello e la bocca
contratta. Non era
divertente: era ridicolo. Ma poi vide che, sul viso del pagliaccio, il
sorriso
era eterno. Suo malgrado, nonostante la rabbia scorresse nelle sue
vene, si
ritrovò a sorridere a quel sorriso. Il perché di
uno sconosciuto abbigliato a
quel modo l’avesse avvicinato non lo sapeva. Ma gliene fu
grato. Watson rimase
ad osservare le movenze scoordinate, i versi volgari, ma sotto a tutto
questo,
un senso di pace lo invase. Non era felice, ma sentiva di poterlo
diventare.
Sorridere era la chiave, alla fine. Per un momento
si dimenticò di Holmes e della sua disattenzione,
così simile alla scordinatezza
di…
“Un momento.”
Il pagliaccio si fermò, tra un salto e l’altro.
Rimase in
equilibrio sulla gamba sinistra, il ginocchio leggermente piegato e il
sudore
che pian piano stava scivolando sul suo viso.
Watson si soffermò sugli occhi scuri, sulla piega del labbro
superiore. Sotto al trucco da pagliaccio, forse si nascondeva il genio.
Il clown sorrise, ancora una volta, e improvvisamente scattò
sulle
gambe. Watson cercò di gridare qualcosa, alzandosi dalla
panchina, ma le parole gli erano rimaste
impigliate in gola. La figura colorata sparì oltre gli
alberi, lasciando il
Dottore solo in compagnia dei piccioni che elemosinavano ai suoi piedi.
L’uomo si sedette, sprofondando nei suoi dubbi. Gli era
sembrato di
riconoscere una ruga familiare, sotto tutto quel bianco.
Era assurdo. Holmes non si sarebbe mai impegnato in atteggiamenti
osceni per farlo ridere. E non c’era neppure riuscito
pienamente. Watson si
perse con lo sguardo oltre la fila degli alberi dove
quell’uomo era sparito:
Holmes non era uomo da chinare il capo e chiedere scusa. I segnali del
suo
corpo e la sua follia bastavano a scagionarlo da ogni colpa.
Umanamente era un disastro, ma sapeva come sfruttare,
involontariamente,
la sua vena artistica.
Un piccione si avvicinò alla sua scarpa e lui lo
scacciò con il
bastone. Il sole stava scendendo lentamente, per lasciare spazio alla coperta della notte, che
avrebbe
abbracciato il mondo. Gli avvenimenti della giornata erano stati
sfiancanti, ma tutto sommato, quell'ultimo incontro era stato
piacevole.
In un modo totalmente trasfigurato.
Si alzò, mugugnando, e fece per andarsene.
Poi vide qualcosa, un oggetto piccolo e marrone che risaltava sul
manto verde del prato.
Si chinò accigliato per esaminarlo. Alla luce del lampione
che si
accese, lo stupore e la sorpresa si dipinsero sui suoi lineamenti.
Una
pipa annerita, con due iniziali impresse nel bordo.
~
Lo
studio di Baker Street stava sprofondando nelle ombre. Holmes era
seduto alla finestra, con le spalle alla porta e il
tavolo dinanzi a sé e la fiammella tremolante della
candela creava giochi di luce sui suoi lineamenti, rendendoli
irriconoscibili. Le mani stavano massaggiando il viso con un fazzoletto
bianco, quando un insistente battere alla porta lo destò dai
suoi ingarbugliati
pensieri.
“Porti la sua persona lontana da lì, Miss Hudson.
Sta sostando sul
mio cerchio magico.”
La porta si aprì cigolando e il fazzoletto con cui
portò via gli
ultimi residui bianchi e rossi dal viso, finì
precipitosamente nel cassetto.
“Buonasera, Holmes.”
La voce scura e bassa era ben lontana dal gracchiare della
governante e Holmes si girò per sorridere al nuovo entrato.
“Oh, è lei Dottore.”
Watson rimase in piedi sulla soglia. Il ticchettio
dell’orologio a
muro fungeva da intermediario per i due che non osavano rivolgersi
altre
parole. Holmes si stuzzicò le unghie con un fermacarte,
prestando poca
attenzione ai movimenti dell’altro.
Quando sentì il rumore distinto di
qualcosa appoggiato sul tavolino, alzò gli occhi, per
incontrare quelli azzurri
di Watson.
“Dovrebbe sprecare il suo tempo in più fruttuose
occupazioni.”
Holmes lo guardò accigliato. Le mani dell’altro si
allontanarono
dal tavolino, alzandosi verso il volto per calare il cappello sugli
occhi.
Holmes non vide il sorriso che delineò la sua bocca sottile.
Quando Watson si allontanò per raggiungere la porta e
uscire,
riconobbe la pipa marrone.
“Scuse
accettate, Holmes.”
Angolino
nell'armadio:
Buonasera
cari lettori! Ringrazio in primis chi ha lasciato una recensione e chi
ha messo tra le seguite questa raccolta.
Ero
in crisi per questo capitolo. Non uno straccio di idea! Poi oggi,
tornando a casa da una mini-vacanza in Piemonte, l'ispirazione
è sbocciata. Qui mi sono divertita a sfruttare le doti da
travestito (si, avete capito xD) di Holmes per scusarsi con il suo
Dottore preferito. Lui non è tipo da arrivare alla porta di
qualcuno e chiedere scusa a semplici parole. E' troppo poco rispettoso
dei sentimenti umani per farlo xD A suo modo, ha cercato di
destreggiarsi. Il pagliaccio è una figura che risale ai
tempi antichi, ed è sempre stata sinonimo di ironia e
satira. Oggi, soprattutto grazie a esperimenti ospedalieri, la sua
figura rappresenta la felicità e il sorriso.
Spero vi sia piaciuto nella sua stranezza! Ricordatevi di sorridere,
sempre :)
Un bacione,
Tony P.
Argomento:
"Ringraziamento e Perdono"
1. Grazie
2. Scusa
3. Giustificazioni
4. Perdono
5. Scelte
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