Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
“Silente potrebbe conoscere qualcosa che funzioni,
comunque.” disse Ron “Dov'è? Bill ha combattuto quei pazzi su suo ordine.
Silente lo sa, non può lasciarlo in questo stato.”
“Ron... Silente è morto.” disse Ginny. […]
Hermione portò le mani alla bocca […].
Aveva dovuto impegnarsi per non mettersi ad urlare.
Erano bastate tre parole per portare via tutta la sua
fiducia nella magia ed in ciò che era giusto. Per portarle via ogni speranza.
C’era stato un tempo in cui Hermione credeva che la magia
potesse fare tutto, risolvere tutto. Era ancora giovane ed inesperta, ingenuamente
entusiasta per ogni nuova scoperta che faceva quotidianamente e soprattutto non
aveva ancora letto ogni singolo volume della biblioteca di Hogwarts.
Più avanti, aveva imparato che la magia non poteva tutto,
che c’erano problemi che non poteva risolvere e che anzi poteva essere la magia
stessa a causarli.
Erano bastate due parole a portare via il più grande mago
del mondo, un uomo intelligente e modesto, ironico e coscienzioso.
L’uomo che lei aveva sempre ammirato e la cui presenza nella
sua vita, ed in quella di molti altri, aveva sempre portato una luce
particolare, una speranza quasi non terrena, una fede incrollabile nella forza
del bene.
Erano bastate due parole.
“Avada Kedavra”.
166 parole. Silente è appena
stato ucciso, ma solo Harry e Ginny ne sono al corrente. Immagino che la
notizia debba aver sconvolto non poco tutti, visto che Silente era un po’ il
baluardo della lotta contro Voldemort e sembrava quasi invincibile, superiore
anche alla morte. Ho pensato che la sua scomparsa dovesse aver colpito anche
Hermione, che vede sparire così “facilmente” un esempio di tutto quello in cui
aveva creduto da sempre.
Doveva solo fermare le lacrime che le
scorrevano sulle guance e farlo.
Avrebbe voluto che ci fosse stata una parola da dire per
poter cambiare le cose, un’alternativa a quello che si accingeva a fare; ma
sapeva benissimo che non era così. Sapeva che era imperativo che lo facesse:
per loro, per metterli in salvo, per non rischiare. Non poteva mettere se
stessa davanti alla loro salvezza.
Stavolta, però, essere la solita Hermione, diligente e
pragmatica, le riusciva più difficile di ogni altro momento della sua vita.
Quello era uno dei compiti più difficili della sua vita e nessuno le avrebbe
dato un voto, se non lei stessa.
Sarebbe stato come cancellarsi, come dire addio alla se
stessa che era stata, ai ricordi, a tutti gli anni felici ed ingenui della sua
infanzia… a loro. Soprattutto a loro.
Avrebbe voluto che ci fosse stata una parola per evitarlo,
ma c’era solo quella.
“Oblivius”.
153 parole. Il contesto è
l’inizio del settimo libro, in cui Hermione deve cancellare la memoria dei suoi
genitori e convincerli di non avere una figlia e di voler andare a vivere in
Australia per far sì che Voldemort non possa trovarli e quindi fare loro del
male. Nonostante nel libro non sia molto approfondito questo momento (dato che
la storia è vista dal punto di vista di Harry, noi possiamo solo vedere
Hermione che glielo racconta), ho sempre pensato che lei dovesse avere avuto
una grande forza per farlo… anche perché non era sicura di sopravvivere alla
guerra.
Dopo che Ron se n’era
andato, per parecchi giorni, Hermione non aprì più la
bocca,
se non per borbottare le sole frasi necessarie alla loro
sopravvivenza. Non aveva più senso parlare se, nel momento in cui più avrebbe dovuto
farlo, non era stata in grado di tirare fuori niente, nemmeno un grugnito di
disapprovazione. Niente.
Una semplice parola sarebbe bastata; sarebbe bastato
chiedergli di rimanere.
Forse lui non l’avrebbe fatto comunque, forse l’avrebbe
guardata con compassione e poi sarebbe in ogni caso scomparso nel nulla,
esattamente come aveva fatto in realtà.
Ma almeno lei si sarebbe sentita meno impotente, meno
distrutta e un po’ più arrabbiata con lui, invece che solamente con se stessa.
Nella sua mente, Hermione aveva
detto almeno un centinaio di parole, non tutte proprio eleganti, in quei pochi
secondi in cui Ron con lo sguardo l’aveva implorata
di andare con lui. Tra tutte, forse ce n’era una che avrebbe fatto la
differenza, che gli avrebbe fatto cambiare idea.
Ciononostante, quando Ron se ne
stava per andare, Hermione non aveva aperto la bocca,
se non per mormorare un:
“Vattene”.
182 parole.
Abbandono per un attimo la mia
nuova fissazione (The Social Network, il film), per
continuare questa raccoltina.
In questo “abbandono”, Ron lascia Harry ed Hermione nel
bel mezzo della ricerca degli Horcrux, un po’ perché
è stanco, un po’ perché la loro missione non procede, un po’ perché è geloso
(secondo me, anche e soprattutto a causa del medaglione che deve portare al
collo). Ron chiede ad Hermione
se voglia seguirlo, ma lei ovviamente rifiuta.
Riprese
a respirare normalmente solo quando ne fu certo.
Il
peso che sentiva premergli sul petto e sullo stomaco da troppo tempo era però
rimasto esattamente lì dov’era, testardo e persistente, senza alleviarsi di un
grammo. Pensava che, alla fine di tutto, il rimorso, il dolore, la paura, l’incertezza
e la tensione lo avrebbero finalmente abbandonato ed invece non era stato così,
affatto.
Ad
un certo punto, quel giorno stesso, non gli era più interessato che finisse
bene o male, di sopravvivere o di non farcela; voleva solo che, in un modo o
nell’altro, finisse tutto. Non importava altro.
In
fondo, tutti pensavano che non gli fosse mai interessato troppo stare da una
parte o dall’altra, quanto piuttosto stare dalla parte che alla fine avrebbe
prevalso. In fondo, se c’era una cosa che suo padre gli aveva insegnato, al di
là di tutte quelle stupidaggini sul sangue puro inculcategli in realtà da quello
che si era scoperto essere un mezzosangue, era proprio questa: ricavare sempre
il massimo per se stessi da ogni circostanza, piegarsi sempre al miglior
offerente. Questo, unito al congenito e spiccato egocentrismo che lo
contraddistingueva, lo aveva sempre fatto passare agli occhi degli altri come
un voltagabbana, una persona inaffidabile e meschina, calcolatrice e subdola,
indegna di fiducia.
Insomma,
come un Serpeverde in piena regola.
C’era
però stato un momento, un preciso istante di quel giorno, in cui niente di
tutto questo aveva più avuto importanza e da allora lui sentiva di essere
improvvisamente cambiato, di non essere più quella persona che del mettere se
stesso davanti a qualunque altra cosa aveva fatto la sua missione di vita.
Perciò
non sopportava più di stare nella stessa stanza e nemmeno nello stesso edificio
con le persone che lo avrebbero guardato con sdegno, che lo avrebbero visto
ancora e per sempre come quella persona che sentiva di non essere più. E, per
quanto fosse lieto che fossero lì con lui sani e salvi, non voleva neanche
condividere quel momento con i suoi genitori, coloro che l’avevano fatto
diventare ciò che fino a quel giorno era stato.
Voleva
stare da solo, come in fondo era sempre stato per scelta, per quella spocchiosa
abitudine di ritenersi superiore a chiunque altro; stavolta però voleva farlo
per motivi diametralmente opposti ed in particolare per conoscere meglio quel
nuovo se stesso che era emerso prepotentemente durante gli ultimi avvenimenti.
Ultimamente
aveva spesso immaginato come sarebbe stato avere un passato irreprensibile e
senza macchia e si era accorto di desiderare una coscienza pulita ed intatta
come un campo ricoperto di neve fresca sul quale solo lui potesse lasciare le
sue impronte. Ci pensava anche in quel momento ed improvvisamente si accorse
che probabilmente continuare a fuggire e a cambiare bandiera non era alla lunga
una tattica soddisfacente quanto invece lo era “restare”, mantenere la testa
alta e affrontare i problemi di petto, mantenendo le proprie posizioni.
Lui
che si era sempre nascosto dietro altri, che aveva sempre tramato nell’ombra,
che si era lasciato traviare da troppe persone, si accorse di voler semplicemente,
per una volta, restare in piedi da solo. Si accorse di invidiare coloro che, in
quella circostanza, non avrebbero avuto niente che potesse essergli
rimproverato, niente che potessero rimproverarsi e si rese conto che
quello era l’unico modo per non far torto a se stessi: avere solide convinzioni
e non abbandonarle, seguirle fino in fondo, metteva l’anima al riparo dai
dolori più intensi e duraturi, quelli che minavano alla base la sicurezza di sé.
Quella
solidità interiore si frapponeva tra la persona ed i diversi casi della vita
che si presentavano di volta in volta ed in un certo senso la proteggeva.
All’improvviso,
mentre questi pensieri gli vorticavano nella mente con una chiarezza
sconvolgente, gli venne in mente, come esempio di quell’integrità morale, una figura
in particolare, che lui aveva ovviamente sempre disprezzato.
Fu
quindi più che sorpreso quando, uscito all’aperto con una scusa ed il preciso
intento di rimanere solo, si trovò davanti proprio quella persona che, secondo
lui, sarebbe stata la prima ad avere il diritto di stare con i suoi amici all’interno,
a festeggiare per quella vittoria per la quale aveva dato tutta se stessa.
700 parole. Ci avviciniamo alla conclusione. Non ho specificato né
il contesto, né chi sia il protagonista di questa shot (né di chi parla alla
fine), ma credo si capisca abbastanza bene. In ogni caso, è una mancanza
intenzionale, perché nel prossimo capitolo, quello conclusivo, diventerà tutto
esplicito. Ho visto questo capitolo come un abbandono perché il protagonista in
un certo senso ha sempre abbandonato tutto, non è mai stato capace di rimanere,
per niente e per nessuno. Su un altro livello, qui decide di dire addio proprio
a quella parte di se stesso che non gli ha permesso di “avere una coscienza
pulita”, appunto di scegliere un cammino e di seguirlo fino in fondo.
Is
all we know of heaven and all we need to know of hell.
Emily
Dickinson, “Parting”
“Granger,
cosa diavolo fai qui tutta sola?”
Una
voce alle sue spalle la fece sobbalzare, non solo per la sorpresa di sentire
che c’era qualcuno, ma anche perché aveva riconosciuto quel qualcuno e la cosa
le era sembrata non solo improbabile, ma persino assurda.
Si
voltò, senza curarsi delle lacrime che le scorrevano indisturbate sul volto,
senza che potesse fermarle.
Come
se il dolore che aveva necessariamente represso, ricacciato indietro, nascosto
fino a quel momento, fosse diventato troppo e non potesse fare altro che
strabordare dai suoi occhi nella forma di lacrime indifferenti alla sua forza
d’animo, alla sua determinazione, al suo orgoglio.
Quando
Draco la vide finalmente in viso, emise un debole “Oh” e fece istintivamente un
passo indietro, colpito da quella visione. Poi cercò di ricomporsi e,
passandosi una mano tra i capelli con un gesto noncurante, si mise di fianco a
lei, concedendole la possibilità di nascondere quelle lacrime alla sua vista.
Dopo
qualche secondo, constatando che Hermione non avrebbe rotto quel silenzio e
credendo di conoscere la ragione di quel suo comportamento, disse piatto: “So
di essere l’ultima persona che avresti voluto vedere”.
Hermione,
tentando di asciugarsi il viso con la manica del maglione lacero e sporco di
polvere e chissà cos’altro, non poté evitare di riflettere su quelle parole e
di constatare quanto non fossero esatte.
Il
sole, che sembrava essere sorto poco prima per festeggiare la vittoria del bene
sul male, si era poi nascosto timidamente dietro spesse nubi cerulee, quasi a
non voler disturbare il cordoglio che era seguito a quella gioia inaspettata quanto
fugace.
Hermione
era praticamente fuggita da Hogwarts; ma l’aveva fatto non solo perché non
sopportava tutto il sangue e il senso di morte di cui sembravano ormai impregnate
quelle mura, che parevano emanare veri e propri effluvi gelidi e scuri, quasi
dolore fumoso.
In
realtà, più di ogni altra cosa, voleva stare sola.
Non
voleva ricordarsi di tutti gli addii che aveva e avrebbe ancora dovuto affrontare.
Non
voleva vedere Molly Weasley piangere suo figlio Fred, né tantomeno voleva
vedere lo sguardo perso sul volto di George. Non voleva vedere Ginny piangere
sulla spalla di sua madre. Non voleva cercare di decifrare l’apatia di Arthur
Weasley e non voleva vedere Hagrid soffiarsi il naso in quel suo fazzoletto
grande come un lenzuolo. Non voleva vedere la severa McGranitt affannarsi senza
scopo per la Sala Grande distrutta come se fosse impazzita, come se avesse
troppe cose da fare per la testa. Non voleva osservare quanto fosse cambiata
l’espressione sul volto del timido Neville.
E,
in fondo, non voleva nemmeno consolare Ron o parlargli, perché non avrebbe
saputo cosa dire, perché non ci sarebbe stato niente da dire.
A
dirla tutta, non voleva guardare negli occhi neanche Harry; perché non voleva vederci
nemmeno un guizzo di sollievo, dietro a tutto lo sconforto per le perdite che
avevano subito.
Non
glielo avrebbe perdonato.
Non
avrebbe sopportato la vista di nessuno di loro un minuto in più e così se n’era
andata. Anche se nella sua vita erano stati sempre gli altri ad andarsene, a
scappare lontano da lei, stavolta lei aveva abbandonato loro: i suoi amici, i
suoi compagni in quella tragica vicenda che non si sentiva di chiamare
“avventura”, persino quello che più avanti sarebbe potuto diventare il suo
ragazzo.
Tutti,
semplicemente, perché faceva troppo male averli accanto… e invece non avrebbe
dovuto essere così.
Perché
tutti le ricordavano tutto ciò che era andato perso in quell’anno, come
l’innocenza e l’ingenuità, e qualcosa che avevano perso proprio quel giorno,
come Fred, come Lupin, come Tonks.
Ma
Malfoy no.
Lui
non gli ricordava nessuna perdita, nessun addio.
Avere
lui accanto le permetteva quasi di sgombrare la mente da tutte quelle figure e
da tutti quei pensieri che, successivamente, sarebbero stati con lei per
sempre, seppur relegati in un angolo della sua mente. Quelle stesse figure e
quegli stessi pensieri che, fino a poco prima che arrivasse lui, riempivano il
suo cuore infranto e traboccavano dai suoi occhi.
Lui,
che in effetti era la persona che più avrebbe dovuto odiare: per quello che
aveva cercato di fare a Silente, nonostante facesse tutto parte dei piani del vecchio
Preside; per aver pensato sempre e solo a se stesso, fin dai primi anni ad
Hogwarts, quando tutto sembrava ancora facile e non c’era nessun pericolo
mortale imminente; per essere stato, seppur incostantemente ed inutilmente,
dalla parte dei cattivi; per essere un vigliacco ed un voltagabbana; per essere
figlio di un Mangiamorte come Lucius Malfoy e nipote di Bellatrix Lestrange, la
donna che tra le altre cose l’aveva torturata; per aver contribuito a mettere
in pericolo tutto il mondo magico e soprattutto babbani e mezzosangue come lei.
Eppure,
stranamente, non pensava niente di tutto questo.
Non
provava rabbia nei suoi confronti, né disgusto, né risentimento; forse per la
prima volta, ora che era tutto finito, non lo vedeva più come un nemico.
I
nemici erano ben altri, non certo un ragazzino viziato della casata di Serpeverde
che ad Hogwarts si nascondeva dietro a due bulletti tutti muscoli e poco cervello.
Non certo il ragazzo tremante che non aveva avuto il coraggio di seguire gli
ordini di Voldemort fino alla fine perché in fondo non era un assassino*.
Hermione
l’aveva capito a sue spese, durante l’ultimo anno: la vita non era un gioco ed
era facile che tutto andasse male in un secondo. Ed era ancora più facile che
tutto andasse peggio, il secondo dopo.
Perciò,
non riusciva proprio ad odiare Malfoy. Perciò, in quel momento non riusciva
proprio a trovare un motivo per cui desiderare che lui se ne andasse e la lasciasse
sola, come avevano sempre fatto tutti.
“Be’,
allora me ne vado”.
Draco
aveva ripreso finalmente a parlare, con un tono calmo che però, notò Hermione,
sembrava anche nascondere una certa irrequietezza.
Stava
iniziando a piovere e lei non voleva più sentirsi come si sentiva da una vita.
Come
se avesse sempre guardato le persone a cui teneva andare via, lontano da lei,
senza riuscire a dire niente che potesse farli restare. Senza avere la forza di
convincerli a non abbandonarla.
Senza
credere, in fondo, che ci sarebbe riuscita.
“No”,
disse con un filo di voce.
“Rimani”.
The world is round
and the place which
may seem like the end
may also be the beginning.
Ivy Baker Priest
* La
frase è una ripresa di ciò che Silente dice a Draco poco prima di essere ucciso,
‘Draco, Draco, tu non sei un assassino’.
1089
parole. Non sono proprio soddisfatta di com’è uscita. Ho cercato di capire
perché ma non ci sono riuscita, quindi la pubblico così… Magari me lo potete
dire voi? ;)
Chiaramente
avevate capito che il ragazzo del quarto capitolo era Draco e che la ragazza
che aveva visto era Hermione… Brave! :D
Quindi.
Cosa c’è da dire? Ah, quel "Rimani" alla fine è una ripresa del titolo della ff (ma vah?) e della canzone da cui è tratta... Non vorrei aggiungere nient'altro... Se non che, come potrete notare
dalla citazione alla fine, questa storia più che una fine (un addio, un
abbandono) potrebbe essere vista come un inizio… Un inizio di amicizia magari
tra questi due… Forse di qualcosa di più… Immaginate ciò che volete, è a questo
che serve leggere (e scrivere), no?
Spero
vi sia piaciuta questa stupidaggine, spero mi farete sapere se vi è piaciuta e
anche se vi ha fatto schifo… Grazie comunque a tutte, in anticipo :), Sum.
Non sa nemmeno quanto tempo è passato dalla battaglia di
Hogwarts, dall’ultima volta che si sono visti, quando se lo trova davanti. Un
po’ perché ha voluto dimenticarsi di tutto quello che è successo quel giorno,
anche se alla fine il Bene ha trionfato. Un po’ perché avrebbe voluto
dimenticarsi anche di lui, della sua espressione mortificata, di quel taglio obliquo
che gli segnava una guancia, di quella sua maglietta blu lacera e sporca
nascosta in parte dal mantello. Dei suoi occhi vuoti.
Ma soprattutto della solidarietà e dell’empatia che aveva
provato nei suoi confronti. Avrebbe voluto dimenticarsi del fatto che in quel
momento aveva sentito proprio lui più vicino di tutti: più vicino di Harry, che
aveva lo sguardo perso di un bambino che ha combinato un guaio troppo grande
per essere perdonato dai suoi genitori, anche se alla fine tutto si è risolto;
più vicino di Ron, che stava vivendo un dolore troppo grande per essere
espresso o condiviso da un’altra persona; più vicino di chiunque aveva
combattuto quella battaglia e ora si ritrovava a festeggiare la vittoria. Semplicemente
più vicino.
E tutta quella vicinanza le aveva fatto paura, una paura
immensa.
Perché per un attimo, solo per un attimo, per la precisione
quando lui l’aveva baciata, o lei aveva baciato lui, adesso non importava,
aveva pensato di aver sbagliato tutto. I pilastri delle sue convinzioni avevano
tremato, così come le sue mani appoggiate con i palmi sul petto di lui. Tutto quello
che pensava di conoscere, tutte le nozioni che la facevano sentire così
preparata, così al sicuro anche quando al sicuro non era affatto, erano
crollate insieme al suo buon senso quando lui l’aveva stretta a sé. Più vicino.
Aveva avuto bisogno di respirare forte, per ritornare in sé.
Per smettere di tremare e di avere paura. Per asciugare quella lacrima che le
scendeva su una guancia e che non ricordava di aver versato.
Non era stata in grado di guardarlo negli occhi, quando dopo
pochi secondi si era voltata e se n’era andata. Da allora non l’aveva più visto.
Neanche lui l’aveva cercata. Perché avrebbe dovuto, dopotutto?
Ma ora lui è lì, in piedi davanti a lei, con la stessa
maglia blu sgualcita e scolorita che indossava quel giorno che le aveva fatto
tanta tenerezza, chissà perché. Che le aveva fatto venire voglia di
abbracciarlo e di promettergli che sarebbe andato tutto bene. Quella maglia che
adesso le sta facendo ritornare in mente come si era sentita, cosa aveva
provato in quel momento… e dopo. Solo ora capisce che dopo non c’è stato più
niente, che non ha più provato niente, per tutto quel tempo. Quei pochi secondi,
quel giorno, erano stati come un buco nero che risucchia tutto ciò che ha
intorno, passato, presente e futuro.
Lui fa un passo verso di lei, la osserva attentamente, si muove
piano come se avesse paura di spaventarla, o che lei possa scappare. Ancora. Quando
arriva abbastanza vicino, anche se non è abbastanza, accenna un sorriso mesto,
dice “Ehi.”
E poi succede qualcosa. Lui si sporge un po’ e fa come per
abbracciarla. Lei si sposta subito di riflesso.
Sono quell’unica stupida parola e quel gesto insensato che
la risvegliano dall’apatia in cui sembra essere caduta. Non c’è niente di cui
avere paura, è solo Malfoy. Il ragazzino che non ha avuto il coraggio di
uccidere Silente, che non aveva il coraggio di affrontare nessuno senza avere
due guardie del corpo in miniatura al suo fianco. Il ragazzino che lei stessa una
volta aveva persino schiaffeggiato, perché si era accorta di quanto fosse tutta
una messinscena quella sua aria da duro e lo stare sempre dalla parte
sbagliata. Paura, pura e semplice paura.
Ha la voce un po’ più roca di quando era ragazzino, ma i
lineamenti sono gli stessi e fisicamente è solo un po’ più alto e un po’ meno
magro. I capelli sono gli stessi, anche se adesso sono più corti e pettinati
quasi a spazzola e non gli cadono più sugli occhi…
… gli occhi. Gli occhi invece sono diversi. E non è solo che
è cresciuto. Una volta erano duri come la pietra, o forse era solo il colore
che suggeriva la similitudine. Ora sono quasi… sereni. Calmi. Pacati.
Gli fa un mezzo sorriso, ma non risponde. Non gli concede
troppo, non vorrebbe ricascare nell’errore di poco prima. Lui sembra stupito
dal suo silenzio, ma continua senza perdere il sorriso: “Ti trovo bene”.
Non scherza. Non ha aggiunto “Granger” o “mezzosangue” alla
frase. Non ha quel suo solito sorrisetto ironico dipinto sulla faccia. E mentre
pronuncia quelle poche parole lei si chiede perché abbia dovuto dire così.
Perché con quel tono. Perché abbia dovuto rimettere quella maglia, perché abbia
dovuto essere sulla sua strada quel giorno, perché si ostini a farle provare
quella paura…
“Hai intenzione di dire qualcosa o… ti devo offrire un caffè
per spillarti due parole?”
È tutto così strano, pensa lei. Lui così serio, che le parla
come se fossero amici, come se non si vedessero dal giorno prima. Poi ci pensa
meglio. Pensa a quel saluto e al suo tono confidenziale e innaturale, quasi
come se fosse preparato, pensa al suo sorriso misurato, al tono controllato,
alle sue mani tenute nelle tasche fino a poco prima… le sue mani...
Gliele guarda e capisce di avere ragione: tremano. E allora si ricorda.
Ogni volta che ha fatto quella strada per tornare a casa dal
suo lavoro da un anno a quella parte lui c’era. Poteva essere un passante
nascosto dietro ad un paio di occhiali scuri, o il ragazzo seduto sulla
panchina con un giornale in mano e un berretto a coprirgli i capelli biondi. O
un paio di occhi grigi che la seguivano dalla vetrina del bar all’angolo. O
quella macchina con i vetri scuri che ha rallentato per non passare in una
pozzanghera e bagnarla. E lei lo sapeva. Lo ha sempre saputo, ma non se n’era
mai accorta davvero: almeno non con quella parte di lei che aveva costantemente
paura di rivederlo, cioè quella che controllava tutti i suoi pensieri e le sue
emozioni e le censurava, non facendole provare più niente.
Ma c’è sempre un modo per ricominciare. Hogwarts è stata ricostruita, dopo la battaglia finale, ma non hanno più usato la pietra per erigerla. Ora la scuola è quasi completamente fatta di vetro, per merito di un incantesimo che la nuova preside Minerva McGranitt ha voluto usare per ricordare a tutti che anche ciò che sembra più solido e maestoso può essere distrutto in un attimo. E che ciò che resta deve essere luminoso, trasparente e leggero, perché si possa andare avanti.
E ora che non sa più cosa pensare, dire o fare perché ha nella mente
troppi pensieri e parole intrappolati, troppi gesti arretrati e troppi… sentimenti di cui non sa più
cosa farsi. E allora fa la cosa più naturale, l’unica che in quel momento le
riesce: gli sorride. Poi gli va più vicino e con tutta la voce che le è
rimasta, che è poco più di un sussurro gli dice: “Un caffè va bene”.
Poi si volta e sempre sorridendo fa per allontanarsi, ora
che si sente più luminosa e più leggera, pronta a ricominciare, ma sente che
dietro di sé lui è rimasto immobile. Allora rifà i pochi passi che li separano,
gli prende la mano e lo tira a sé, più vicino.