Ricominciare da zero

di Hikari93
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1: Incontro ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Ricominciare da zero

 

 

    Prologo
     



 

 

La notte scura incombeva, coi suoi nuvoloni estesi, su Domino.
Era tardi, aveva le palpebre pesanti, eppure non riusciva a prendere sonno. Yugi stava lì, seduto comodamente sulle sedia della sua scrivania, coi gomiti poggiati su di essa, e scrutava il cielo minuziosamente, come se cercasse di riconoscere anche il più piccolo dettaglio che si differenziasse da quella vasta distesa omogenea. Aggrottò le sopracciglia quando i suoi occhi color ametista parvero incrociarsi con un puntino luminoso; era la serata delle stelle cadenti, a quanto dicevano, ma fino ad allora, forse per le nuvole grigie che oscuravano la visuale, forse per sfortuna, non ne aveva visto nemmeno mezza.
A quanto pare, la scommessa tra Jonouchi e Honda, su chi avvistava più stelle cadenti, è saltata, ridacchiò.
Cacciò fuori tutta l’aria che aveva tenuto custodita nei polmoni durante l’analisi di quel qualcosa che aveva creduto di vedere, e che in realtà era stato solo frutto della sua immaginazione, e si accucciò sul legno della scrivania, le mani sulla testa. Non era veramente deluso, più che altro avvertiva un vuoto enorme in prossimità del petto, che si stava espandendo giorno dopo giorno e che, sapeva, prima o poi lo avrebbe consumato.
Negava persino a se stesso l’origine di tale tristezza dilaniante.
«Mou Hitori No Boku, secondo te…» accennò naturale, voltandosi altrettanto spontaneamente, come poteva essere il lavarsi i denti di mattina, alla sua destra, verso il letto. Per un attimo impercettibile, un istante lungo meno di un battito di ciglia, Yugi si stupì, si finse stupito, doveva farlo. Era giunto all’infantile convinzione che l’unico modo per smettere di patire la perdita del suo più caro amico era quella di illudersi che non se n’era mai andato. Più ci pensava e più si sentiva egoista e vigliacco; Atem doveva andarsene, e probabilmente lui lo aveva sospettato da sempre, preferendo, anche in quell’occasione, illudersi e pensarla diversamente, accantonando la probabilità, se non la certezza, che davvero potesse accadere che si separassero.
«Mou Hitori No Boku» ripeté col solo vuoto della stanza ad ascoltarlo «secondo te cos’è questa strana sensazione che avverto con sempre maggiore intensità? M-mi fa male, sai? Dapprima era semplicemente bizzarra, curiosa, qualcosa a cui non avevo dato troppo peso. Non aveva avuto importanza, Mou Hitori No Boku, e probabilmente non ne ha nemmeno adesso» sorrise amaro.
No, non ne aveva, di importanza, soprattutto in quel momento.
Non ne avrebbe avuta mai più.
«Sai» ricominciò Yugi, trovando come unico rimedio al suo dolore quello di parlarne; a vuoto sì, ma gli serviva confidarsi con qualcuno, qualcosa, come si faceva con i diari segreti. «A causa tua ho preso un brutto vizio» sorrise, ma fu faticoso tirar su gli angoli delle labbra «parlo da solo. A proposito, ti ricordi di quella volta, quando la mamma ci sorprese? Beh, a essere sinceri, ci ha beccati più di una volta.»
Appoggiò la guancia umida al pugno che serrava sempre con più forza, quasi potesse, così facendo, reprimere le lacrime che non la volevano smettere di uscire. Si domandò per quale motivo, anche a un mese di distanza, qualunque cosa facesse, qualunque cosa provasse, a ritornargli alla mente c’era sempre e solo Atem.
Ripercorreva ogni volta tratti della loro strana avventura, ricordandosi delle parole dette, dei consigli datisi, di ciò che l’uno aveva imparato dall’altro, e arrivava alla conclusione che, sebbene avessero convissuto quasi in simbiosi per diversi anni, si erano detti troppo poco. Yugi, in particolare, non glielo aveva mai confessato.
«Avrei voluto avere più tempo» mormorò. «Per fare cosa? Non lo so, qualunque cosa, purché ci vedesse fianco a fianco» sospirò, e frattanto si asciugò gli occhi con il dorso della mano. «Anche se sono sicuro che, se mai potessimo vederci anche soltanto per un secondo, saresti deluso di trovarmi in questo stato, Mou Hitori No Boku. Non mi reputeresti più coraggioso, come credevi che fossi, perché non sto dimostrando di esserlo» abbassò pian piano il tono di voce, temendo che qualcuno davvero potesse sentirlo.
Strinse i pugni ancora più forte, tanto da sentire quasi le unghie nella carne. Le guance si stavano facendo sempre più rosse, e Yugi pensò che sul suo viso, più da bambino che da adolescente, quelle scocche color fuoco dovessero somigliare a due pomodori troppo maturi. Il cuore aveva accelerato notevolmente la sua folle corsa e il piede aveva cominciato ad andare su e giù, battendo frenetico sul pavimento, per l’agitazione mista a vergogna.
«S-se fossi stato veramente coraggioso, ma anche solo un po’ di quello che pensavi tu, ti avrei detto che cominciavo a provare qualcosa d-di più verso di te. Lo so che non sarebbe cambiato niente, che alla fine ogni cosa sarebbe andata al suo posto esattamente com’è stato, ma almeno non avrei avuto il rimorso di non averci nemmeno provato.»
Provato a fare cosa, poi? A vivere intensamente quel po’ di tempo che la vita ci avrebbe permesso?
Si alzò lentamente e cominciò a muoversi per la stanza come un pesciolino rosso chiuso in una boccia di vetro, andando avanti e indietro senza uno scopo preciso, senza sapere cosa fosse necessario dire ancora. Non sapeva se a causa dell’amore che aveva scoperto da poco di provare da sempre o per colpa della mancanza di Atem in lui come entità, ma si sentiva uno sciocco. E il culmine lo raggiunse, secondo lui, quando pensò che con un solo bacio di Atem sarebbe potuto sopravvivere per sempre.
Sto capendo così che tu, Mou Hitori No Boku, eri diventato una parte di me molto più importante di quella che credevo. Non eri soltanto il coraggio che mi  mancava, l’audacia e la forza di affrontare qualsiasi pericolo, perché, pian piano, il sottile confine che separava le nostre due entità si è rotto del tutto, si è assottigliato a tal punto che una parte troppo importante, vitale, di me si è riversata in te e parte di te in me. Mi hai dato tutto quello che non avevo, e sono diventato un altro grazie e te. Eppure, da quando te ne sei andato, non mi sento più la stessa persona che tu eri riuscito a creare, come se ti fossi ripreso ogni cosa concessami, come se me l’avessi strappata via.
Perché io ero te e tu me. Come succede per una medicina, il mio corpo si era assuefatto alla tua presenza, e con te anche all’esistenza di una parte di Yugi Muto più forte. Adesso è sparito tutto, e ciò che mi resta è il sentimento di amore che ho scoperto di provare per te e la paura di dimenticare sia questa emozione, al momento forte, che te. E, visto che un pezzo del mio essere è già venuto via con te, se mai mi dimenticassi di te sparirei del tutto? Perché sai, la metà di me che resta, quella che abita in questo corpo, è legata indissolubilmente all’unica cosa che riesca a ricordarti; se quella sparisce, per un motivo o per un altro, potrei dirmi addio.
Non aveva nemmeno più la forza di camminare.
Tante volte, avvicinatosi al momento cruciale del dichiararsi a qualcuno che non c’era più, era stato capace di indietreggiare, di non muovere un altro passo, ma quella notte aveva ceduto, lasciando che tutte le sue illusioni cadessero come un castello di carte barcollante.
Fu forse l’istinto a guidarlo verso l’ultima prova tangibile dell’esistenza di Atem, quella da cui era cominciata ogni cosa: lo scrigno che aveva contenuto i preziosi pezzi del Puzzle Millenario.
Si sedette nuovamente. Aprì quel piccolo scrigno, lo guardò quasi con dolcezza, come se lì dentro ci fosse ancora il Puzzle, ancora Atem, e lo richiuse subito, sperando che almeno un pizzico della sua terribile sofferenza venisse chiusa lì dentro.
Il primo sorriso sincero, anche se nascondeva sempre un’ombra di tristezza, si fece strada sul viso ancora arrossato di Yugi. Poggiò la guancia sull’oggetto e chiuse gli occhi, troppo stanco persino per andare a letto e infilarsi sotto le lenzuola. Ascoltò il suo respiro farsi sempre più calmo, e il fresco sulla pelle, infine, divenne solo l’ombra di quello che era.
«Desidererei soltanto poterti dire che ti amo» mormorò.
I sensi si inibirono velocemente, e per Yugi non ci fu altro che un sonno indubbiamente diverso dagli altri.
 
Non sapeva dove si trovava, e non c’erano dei punti di riferimento che potessero aiutarlo a realizzare ciò che lo circondava; l’unica certezza era il bianco che aleggiava intorno al suo corpo forse sospeso o forse appoggiato a terra, non lo capiva.
«Saresti disposto a tutto per esaudire il tuo desiderio?» si fece udire una voce irriconoscibile. Yugi era certo di non averla mai sentita.
«Ogni cosa» rispose solo, e sebbene la consapevolezza che quanto gli stesse accadendo era solo un sogno fosse forte, si permise di credere in quella voce, frutto, probabilmente, della sua fantasia.
«Saresti anche disposto a rinunciare alla tua vita?»
Yugi si fece cogliere impreparato, sulle prime. Ci ragionò un po’, e poi, con la sicurezza di star solo sognando, annuì convinto. Non sarebbe accaduto niente, perché ormai ogni singola traccia di magia nella sua vita era finita. Rimaneva soltanto la più o meno dolorosa realtà.
«Ebbene, che si avveri ciò che desideri» annunciò la voce, e il suo tono sembrava talmente sicuro di sé che Yugi ebbe paura di aver commesso un grosso sbaglio. Temette quasi che quel sogno fosse più vero di quanto dovesse essere. «Potrai incontrarlo di nuovo, ma partendo dalle origini.»
«Che cosa significa?» trovò il coraggio di dire.
«Che dovrai ricominciare da zero» spiegò. «Ma lo capirai meglio quando ti troverai faccia a faccia con la realtà e, soprattutto, quando farai chiarezza su quello che senti.»
Yugi ci capiva sempre meno di quella visione a metà fra il sogno e la realtà: voleva soltanto svegliarsi. Stava per aprir bocca – senza sapere nemmeno dove rivolgersi, visto che la voce si udiva ovunque intorno a sé e non proveniva da un punto preciso – ma la voce parlò prima di lui, anticipandolo: «Adesso puoi andare, il tuo desiderio è stato esaudito.» Una luce nera, simile a un vortice, si espanse verso Yugi, spaventandolo sempre di più. Era un incubo, doveva esserlo! «Non ricorderai nulla, e solo se riuscirai a ricostruire quello che avevi, allora il tuo desiderio potrà realmente realizzarsi» aggiunse la voce. Forse stava per dire altro, ma Yugi non poté più udirlo, perché vi erano le sue stesse urla di terrore a sovrastarlo.
D’improvviso finì tutto.
 
 

 
 
 







Un prologo corto e scemo su una coppia che ultimamente mi sta prendendo tanto.
Vedrò di prendere questa storia con calma, perché vorrei strutturarla bene (sì, sì, tutte parole, poi dovremo vedere a fatti Cx).
Credo che il pezzo in corsivo di Yugi sia la cosa più sdolcinata che abbia mai scritto, e non so se sta bene detta da lui e, soprattutto, se sta bene nella fic o stona (in ogni caso, piazzo l’avviso OOC, se poi, secondo voi, lo posso togliere, lo faccio con molto piacere).
Non preoccupatevi se avete capito poco dell’ultima parte, perché nel prossimo capitolo si spiegherà tutto.
Grazie per aver letto. 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1: Incontro ***


Capitolo 1: Incontro

 






 
 

Era una notte tranquilla, nello splendente Egitto. Il buio delle tenebre pareva unificare il cielo e la terra senza più alcuna distinzione e al contempo avvolgeva ogni cosa che gli si trovasse intorno, indipendentemente. L’oscurità era totale, sovrana, opprimeva persino quei pochi spifferi di vento che un orecchio attento avrebbe colto.
Nemmeno il Palazzo, dimora della più nobile e illustre famiglia d’Egitto, nemmeno lontanamente paragonabile ai comuni uomini  - o schiavi, anche – che giorno dopo giorno, con fatica, affondavano i piedi nella sabbia rovente, pressati dal peso della loro fatica, poteva vantarsi di essere immune dalla brama di possesso che l’oscurità esercitava su tutto, poiché tutto le apparteneva e doveva prostrarsi a essa.
Del tutto indifferente a quello che gli succedeva intorno, Atem non riusciva a prendere sonno. Raggomitolato sul letto, dopo essersi sporto dal balcone per l’ennesima volta e aver goduto dei flebili e malinconici pizzicori di un vento braccato, impiegava il suo tempo guardando fisso dinnanzi a sé, statuario.
Non era la paura del buio – non ne aveva, non troppa almeno – a tenergli la mente occupata e a impedirgli di coricarsi, quanto il grosso problema che avrebbe dovuto affrontare il giorno seguente, un cruccio che un bambino come lui, seppur principe, non era in grado di risolvere.
Sbuffò forte, imbronciato, e l’aria emessa toccò i suoi capelli, muovendoli un poco. Strinse le ginocchia al petto con più forza, pressandole contro le labbra, quasi per poter, in quel modo, impedirsi di lamentare, di piangere.
“Non è giusto che Mana non possa studiare con me, domani!” pensò il bambino, tirando su col naso e affondando la testa tra le ginocchia.
Simon glielo aveva comunicato quel giorno stesso e, sebbene tutte le sue lamentele da principe forse un po’ troppo capriccioso – almeno in quell’occasione –, non aveva ceduto. Né alle sue lamentele, né alle lamentele di Mana.
Mio principe, aveva detto, i suoi studi non comprendono solamente le arti magiche, cerchi di capire.
 E Atem avrebbe tanto voluto farlo, tanto voluto capire; se una parte della sua mente gli diceva che comportarsi in quel modo era quanto più ingiusto e sbagliato potesse fare, l’altra parte gli dava ragione in pieno, ripetendogli ritmicamente, come il suono di un tamburo, che lui era solamente un bambino, nonostante tutti i futuri doveri regali a cui doveva sottostare.
Non per lagnarsi ancora, ma non credeva che essere un principe significasse sforzarsi così tanto. Forse il suo significato di principino si avvicinava più all’ozio e al divertimento, più che allo studio e… allo studio ancora. Ma forse.   
Si alzò ancora una volta dal letto, perdendosi con lo sguardo vagante per tutto l’ambiente. La notte, fuori, lo attirava ancora, sempre di più. Le diede le spalle e si concentrò sulla piramide capovolta, color dell’oro, che giaceva abbandonata ai piedi del letto. Si intravedeva di poco, visto che, per scendere e risalire più volte dal suo letto, Atem aveva adagiato le lenzuola su stesse come gli capitava.
Afferrò quell’oggetto tra le mani, lo studiò sebbene non ci fosse – in apparenza, ai suoi occhi da bambino – nulla da capire. Se lo rigirò tra le dita, lo tastò. Come poteva un simile… coso  avere il potere tanto immenso di cui avevano parlato Simon e suo padre? – non aveva origliato, si era trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato… o al posto giusto al momento giusto, da un diverso punto di vista.
«Bah… a che servirai mai, tu?» gli domandò, sollevandolo per la corda che gli era legata e portandoselo di fronte all’espressione scettica che aveva messo su. «Se hai tutte queste qualità nascoste, perché non mi aiuti a non annoiarmi?»
Perché sì, a causa di Simon e della brutta notizia di giornata, Atem non solo si era intristito, ma si stava anche annoiando a rimuginarci su. E molto.
Si gettò di nuovo sul letto – notando l’originalità delle sue azioni –, ma stavolta accompagnato da quella piramide capovolta dai misteriosi poteri. Se la strinse al petto in un gesto d’affetto, quasi volesse trovarci il suo papà – costantemente impegnato – lì dentro.
Forse il problema non stava in Mana, né nelle lezioni. Probabilmente, dedusse dal tepore dolente al petto che sentì, lui, che teoricamente aveva tutto, desiderava soltanto qualcuno con cui parlare e divertirsi. Anzi, qualcuno che lo ascoltasse, che ci fosse. Stupidamente, temeva che la lontananza di Mana – per poche ore, poi… stava cominciando a rendersi conto di quanto l’avesse fatta lunga e tragica per una semplice sciocchezza… – potesse diventare una specie di addio definitivo. Non voleva rimanere completamente da solo, e Mana… Mana era la sua unica e vera amica. Se mai l’avesse persa non avrebbe resistito.
«Che scemo che sono stato» si ripeté a voce alta, sebbene la mente ne avesse già tratto conclusione. «Se lo raccontassi a Mana mi riderebbe in faccia. O si metterebbe a piangere per aver pensato queste cose brutte di lei.» Ne ridacchiò sotto i baffi al pensiero. «Ma che, sei davvero magico, tu?» chiese al puzzle, storcendo il naso, ironico. «In ogni caso… grazie per avermi aiutato. Buonanotte.»
Si accoccolò su se stesso, imbarcandosi verso il mondo dei sogni. L’indomani, si sarebbe scusato con Simon per i capricci che si era concesso. Ma adesso era meglio dormire.
 
Una luce bianca e potente lo investì del tutto.
«Ma… è già giorno?» si domandò, portandosi le braccia agli occhi incapaci di resistere a quell’abbaglio. Già bruciavano. «Simon, sei tu?» chiese ancora, un po’ sperduto, credendo che, magari, fosse il Sacerdote a produrre, in qualche modo, il poco simpatico effetto luminoso che lo stava stordendo. Forse era venuto a svegliarlo, si disse. Però, Atem non ricordava un raggio di Sole mattutino così intenso, anche se la sua mente aveva collegato il bagliore proprio alla stessa luce solare.
Passò una manciata di secondi a oscurarsi gli occhi, poi, com’era cominciato, tutto si spense in un istante. Solo allora, quando non avvertì più il caldo pizzicorino sulla pelle, aprì gli occhi. Conseguenzialmente, spalancò la bocca.
«Ma dove mi trovo?» riuscì a mormorare, stupito.
Il luogo misterioso non si rifaceva per nulla ad alcun ambiente del Palazzo Reale. Certamente, l’oro delle pareti gli ricordava moltissimo lo splendore dei gioielli indossati da suo padre, il Faraone, tuttavia nessuna stanza di sua conoscenza o appartenenza luccicava di quel colore così intenso tanto simile all’oro. Inoltre, l’ambiente in sé lo interessava, perché molto particolare: non si trattava di una sola stanza, di un solo ambiente, come di un grosso cortile o l’immensa sala del trono. Atem si trovava al cospetto di diverse opzioni, innumerevoli porte tutte ugualmente percorribili e disposte nei luoghi più assurdi. Ovunque, si aprivano porte in ogni dove.
Ripresosi parzialmente dal curioso sgomento iniziale, il bambino si guardò alle spalle, lesto, cercando quell’entrata che, secondo una certa logica, aveva dovuto percorrere – chissà quando e chissà come – per arrivare fin lì.
Niente, non c’era. Alle sue spalle lo accoglieva un muro rigido dello stesso colore di ogni cosa lì dentro, a eccezion fatta delle porte, che spiccavano tra il giallo dorato.
Se all’inizio era prevalsa la curiosità tipica dei bambini – che principi o meno rimanevano sempre dei ragazzini – , adesso una goccia di paura cominciò a espandersi in Atem. Non sapeva dove si trovava, tantomeno come c’era giunto e, specialmente, ignorava totalmente il modo per uscirne.
«Mahad?» provò, tremante, sperando almeno che il suo amico fedele potesse sentirlo.
Poteva essere una magia malriuscita di Mana?
No, Mana non è in grado di realizzare magie di questo tipo. Siamo ancora inesperti, neanche una sua solita marachella potrebbe catapultarmi in un altro luogo…
Si guardò ancora intorno, anche se esaminò ogni cosa con occhio diverso, non più stupito. Si disse che finché fosse rimasto con le mani in mano non avrebbe risolto nulla, né sarebbe tornato a casa; perciò si incamminò, prestando attenzione a ogni angolo – anche se controllare contemporaneamente tutto quel labirinto non sarebbe riuscito nemmeno a Mahad né alle guardie del suo Palazzo.
Man mano che si addentrava, aprendo porte su porte alla rinfusa, il cuore si fece più sicuro e tranquillo. Atem sentiva che le scelte apparentemente casuali che stava facendo lo volevano condurre da qualche parte. In un certo senso non era lui a muoversi, ma qualche altra forza lo spingeva dove voleva. Ma non ne aveva paura, non temeva una sensazione simile.
Quando poggiò la mano sull’ennesima maniglia, sentì la mano bruciare piacevolmente. D’impatto, come prima reazione, scostò subito le dita, portandosi la mano al petto. Si accorse che davvero non scottava, quindi ci riprovò. Strinse forte la maniglia, sospirò forte; il tepore lo accarezzava ancora, come un amico insostituibile e sincero.
Aprì di colpo e altrettanto velocemente spinse l’anta.
Una stanza quadrangolare senza ulteriori porte. Modesta, quell’oro che la incorniciava quasi stonava con la sobrietà che emanava nel suo essere abitata da giocattoli strani e colorati…
«Chi sei?»
Un bambino al centro, seduto. Ma come mai non l’aveva notato?
Gli assomigliava tantissimo. Anzi, era identico a lui, se non perché avesse la pelle di un bianco latte. Atem non ne aveva mai viste di persone così diverse. Sbatté le palpebre più volte, meravigliato. Non sapeva neanche che cosa rispondere.
«Cosa vuoi?» domandò ancora il bambino. Un certo tremore colorava le sue parole. Si arricciò contro se stesso, avvicinando al petto un cavallo a dondolo di legno con cui, evidentemente, stava giocando in precedenza. Come se volesse farsi scudo da lui.
Atem gli si avvicinò a passo calmo. Lo vedeva intimorito, e lui non voleva spaventare nessuno. Subito le differenze che aveva veduto in lui sparirono, lasciando in quella stanza solamente due bambini simili nell’aspetto ma diversi – e diversi chissà fino a che punto – nello spirito.
Atem gli allungò la mano, cercando di sembrare cortese. «Io mi chiamo Atem» gli disse, sorridendogli. Per un istante aveva persino creduto che quel bambino gracilino potesse essere un nemico del suo regno e quindi avrebbe voluto comportarsi come le guardie del suo Palazzo – o meglio, come futuro principe dell’Egitto – e smascherarlo. Passò in secondo piano anche quell’aspetto. «E tu non parli? Non sei muto, ti ho sentito prima» scherzò amichevole, per metterlo a suo agio.
Il bambino abbassò gli occhi sui suoi giocattoli. Si morse le labbra e le guance si incolorirono di un rosso evidentissimo su quella pelle chiara. «Yugi» disse.
«Yugi?»
Il bambino annuì. «Nessuno mi ha mai detto che mi chiamo così, ma sento che è questo il mio nome» mormorò a voce bassa.
«E… i tuoi genitori?» s’informò Atem, guardandosi ancora intorno e cominciando a chiedersi se davvero Yugi potesse abitare lì. La situazione era strana.
«Non lo so, non li ho mai visti» gli confessò, alzando le spalle.
«Quindi sei solo!»
«Non c’è nessuno qui.»
Atem rifletté, ottenendo lo sguardo curioso di Yugi, che già cominciava a trovare simpatico il nuovo bambino. Forse perché era la prima visita che riceveva da che aveva ricordo, o magari perché si somigliavano come due gocce d’acqua.
«Yugi, ma tu non vivi in Egitto?»
Yugi spalancò gli occhi, sorpreso. «E-egitto?»
«Sì! E’ dove vivo io. E, pensandoci, visto che non mi sono spostato, dobbiamo trovarci per forza ancora lì» ragionò. «Però è strano che non ci sia nessuno qui dentro. Non vedo guardie, né Sacerdoti. E non ho visto neanche il Palazzo Reale. E dire che è immenso e si vede da ogni parte, in Egitto!»
«Quindi tu sei un principe?» domandò Yugi, sporgendosi in avanti e poggiando i palmi sul pavimento.
«Principe e futuro Faraone d’Egitto» chiarì Atem, orgoglioso della sua posizione. Si permise di rettificare quando annegò nella delusione degli occhi del bambino. Poteva già immaginare cosa significasse. «Ma non ti devi preoccupare! Noi possiamo essere lo stesso… amici. Se vuoi. Non cambia nulla.»
«G-grazie!» esultò contento.
Atem imitò Yugi e sedette a terra anche lui, ispezionando i giocattoli che si spargevano alla rinfusa per tutta la stanza. Dopo avrebbe chiesto a Yugi dove li aveva presi, se era vero che non aveva mai visto i suoi genitori. E poi non c’era un mercato o altro là dentro dove avrebbe potuto comprarli. «A ogni modo chiederò a Mahad se conosce i tuoi genitori. Magari ha visto un bel faccino bianco come il tuo, in giro!»
«A-atem» pronunciò per la prima volta quel nome con un po’ di titubanza, «chi è Mahad?»
«E’ una delle persone più affidabili che io conosca!» spiegò il principe, accompagnandosi con un gesto della mano. «E poi lui sa sempre tutto! Beh, prima dovrei trovarlo però!» Si grattò la testa, imbarazzato. «Dubito che tu sappia come si esce di qui… non ci resta che provare tutte le porte!» E ci credeva davvero, sebbene ce ne fossero milioni. «Dobbiamo solo metterci d’impegno e cercare, Yugi! Sei d’accordo?»
Il bambino annuì, e il suo sorriso sincero e grato fu l’ultima cosa che Atem riuscì a vedere prima di spalancare nuovamente gli occhi e ritrovarsi in camera sua.
Ma che cosa…?
 
 Doveva cercare Mahad. Se qualcuno ne poteva sapere qualcosa, quello era sicuramente Mahad.

 
 
 















 
  
Complimenti, a momenti era un anno che la lasciavo così. =/////////=
Mi scuso all’infinito, davvero! Non riuscivo proprio a scriverla, sebbene avessi cominciato il primo capitolo da secoli! Pensate che ero ancora una diciottenne quando scrissi il prologo! XD Ora ne ho diciannove! XPPP
Okay. Per il capitolo, credo sia chiaro e ciò che non quadra quadrerà nei prossimi capitoli (tra altri mille secoli? Speriamo di no, anche se con l’università che mi corre dietro ho i miei fondatissimi timori).
Beh, mi scuso ancora per il ritardo.
Ah, sapete che il 24 di Settembre è stato un anno che ho cominciato
Missione convivenza , che anche devo aggiornare. =___=”
Beh, a presto!
 

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