All we can do (is keep breathing)

di Yoko Hogawa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Venerdì 3 Marzo - parte 1 ***
Capitolo 2: *** Venerdì 3 Marzo - parte 2 ***
Capitolo 3: *** Venerdì 3 Marzo - parte 3 ***
Capitolo 4: *** Venerdì 3 Marzo - Midnight ***
Capitolo 5: *** Passing Afternoon ***



Capitolo 1
*** Venerdì 3 Marzo - parte 1 ***


Desclaimer: Sherlock, John, e tutti gli altri personaggi della serie sono proprietà di Arthur Conan Doyle prima, e di Moffat e Gatiss dopo. Io non scrivo per scopro di lucro ma qualcuno deve darmi una botta in testa, perché se continuo a creare cose di questo tipo è un male per tutti.

Note: Questa “cosa”, perché non ho il coraggio di chiamarla “fanfic”, mi è stata ispirata da diversi telefilm – oltre all’insana passione per gli action movies di serie B.

Prima di tutto, le due puntate a mio parere più belle di Dr. House, le 4x15 e 16 (“La Testa di House” e “Il Cuore di Wilson”).

Poi, l’episodio 9 di Angel Beats (“In Your Memory”).

Infine, le puntate 3x15, 16 e 17 di Grey’s Anatomy (“Camminare sull’Acqua”, “Annegare sulla Terraferma” e “Una Specie di Miracolo”).

Il titolo è preso dalla canzone “Keep Breathing” di Ingrid Michaelson, che eleggo come ufficiale colonna sonora della fic.

 

Saranno 4 capitoli e se l’angst non lo vedrete nei primi, negli altri due ve lo troverete persino nei capelli. Vi ho avvertiti.

È meglio se dico, inoltre, che userò personaggi miei ma non nei ruoli principali (lo dico perché sono una di quelle persone che non li sopporta XD)

Ah, e infilerò un po’ di simbolismo qui e là, dunque... lo so che è una noia leggere le note a fondo pagina, ma questa volta potrebbero servire, ok? È una questione di visione d’insieme (?).

 

A chi vorrà farsi del male gratuitamente leggere, buona lettura

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ALL WE CAN DO

(is keep breathing)

 

 

Venerdì 3 Marzo – parte 1

 

 

The Tube; Lambeth Station, h. 9:30 am*

 

Erano le nove e trenta del mattino di un temperato venerdì 3 marzo.

Cosa strana, per Londra. A quanto pareva un anticiclone piuttosto insperato era riuscito ad allungare i suoi influssi fino alla Gran Bretagna facendo godere ai londinesi, dopo un febbraio freddo e spesso spazzato da piogge e nevicate, la prima settimana di timido sole.

Alcuni dicevano che era precursore della primavera. John credeva che da lì alla primavera ne passasse, di acqua sotto i ponti, ma evitò qualsiasi commento al giornale che stava leggendo in favore di un rapido attraversamento della strada.

Era venerdì e, con la giacca aperta per godere a sua volta di quel sole marzolino, John Watson si infilò velocemente giù per le scale della metropolitana di Lambeth.

A dire il vero, nonostante il bel tempo quella giornata non era cominciata per niente bene.

Il suo adorabile coinquilino aveva deciso che, finché Lestrade non gli avrebbe passato un caso di qualche tipo, aveva l’assoluta necessità di giocare al piccolo chimico. Anzi, al piccolo speziale.

All’alba di quella mattina era rientrato al 221B con un mazzo di fiori. Petali grandi, fra il fucsia ed il lilla, stelo lungo... erano belli.

Sì, beh, erano belli ma erano papaveri. E non papaveri normali: papaveri da oppio.

Per i primi cinque secondi si era chiesto dove diamine avesse trovato dei papaveri in marzo e, poi, come diavolo avesse fatto a trovare proprio quei papaveri. Poi aveva lasciato perdere ed era scattato in piedi, chiedendo spiegazioni, e quello, con la faccia d’angelo e la voce di uno che crede fermamente di non stare facendo niente di male, gli aveva risposto che aveva visto un film interessante su Jack lo Squartatore e voleva sintetizzare il Laudano.(1)

Ora: John era un soldato, un medico, ma soprattutto era coinquilino e amico di Sherlock Holmes da quasi due anni, il che rende quasi banali le prime due qualifiche citate.

Da soldato aveva riconosciuto il papavero da oppio, da medico sapeva cos’era e a cosa serviva il Laudano, da coinquilino ed amico gli impedì con tutta l’anima di mettere nei guai lui e se stesso.

Sherlock, bastano i pezzi di cadavere in frigorifero, aveva detto. Già quelli sono illegali e Lestrade chiude un occhio, l’altro e pure le orecchie. Non ti farò tenere in casa qualsiasi cosa che ricordi un veleno ma, prima ancora, qualsiasi cosa che assomigli ad una droga, aveva detto.

Il moro si era voltato con espressione accigliata, osservandolo stranito. « Non faccio niente di male » gli aveva espresso con semplicità: « solo un esperimento. Non è detto che lo usi » aveva aggiunto.

Scusami, ma tendo a non credere ad un assuefatto di nicotina che non è eroinomane solo perché ci è appena uscito, aveva risposto Watson. Da medico, Sherlock: dammi quei fiori e trovati un altro passatempo.

E questa era stata la fine della loro conversazione in toni normali. Dopo erano passati gradualmente ad un sempre più elevato numero di decibel, tanto che mrs. Hudson era salita per vedere cosa stesse succedendo – e per avvertire che stavano praticamente svegliando tutto il vicinato, dato che erano le sette e un quarto.

John aveva urlato di dargli quei fiori o se li sarebbe presi con la forza.

Sherlock aveva sbottato che era un progetto ambizioso, da parte sua, ma che non ci sarebbe mai riuscito per via della vecchia ferita alla spalla.

John allora aveva risposto che aveva anche le gambe, e quelle erano sane.

Sherlock aveva riso, dicendo che non ne aveva il coraggio, ma soprattutto il cuore.

John gli aveva “gentilmente” ricordato che era stato in guerra, il cuore era in grado di gestirlo.

Sherlock aveva riso di nuovo.

John aveva definitivamente perso la pazienza.

Certo, si erano praticamente presi a pugni e lui si era guadagnato quattro dita della mano di Holmes stampate sul polso in un livido bluastro, però almeno aveva fatto il suo lavoro di “guardiano” liberandosi dei papaveri e si sentiva in pace con se stesso.

E adesso, praticamente dall’altra parte di Londra, anche dannatamente in colpa.

Se ne era andato di casa senza dire una parola, scendendo le scale con passo marziale e pesante, ignorando i commenti della padrona di casa e dirigendosi dalla sua attuale ragazza, Kate, che per tutta risposta aveva deciso di scegliere proprio quella mattina per piantarlo e dirgli di “tornare dal tuo fidanzato, che sicuramente ha la tua attenzione molto più di me!” testuali parole.

Chissà perché era sempre colpa di Sherlock. Anche indirettamente. Anche a distanza. Wireless.

John sospirò affranto sulla banchina della Bakerloo line, direzione Paddington. Nonostante avesse dovuto essere arrabbiato con lui, per molti motivi che non comprendevano solo il litigio, in realtà non faceva altro che crogiolarsi in una colpa che sapeva di non meritarsi, ma non poteva farci niente.

Consapevole che una volta salito sulla metropolitana non sarebbe stato più in grado di usare il cellulare – in quei condotti non prendeva – lo estrasse dalla tasca del cappotto e ne osservò lo schermo.

Per un attimo si convinceva sempre che fosse Sherlock, a fare la prima mossa. Che fosse l’altro ad ammettere i propri errori e a mandargli le sue scuse. Non importava che telefonasse, tanto non lo faceva mai comunque; bastava un sms. Si sarebbe accontentato.

Sarebbe stato felice, John, per una volta. Per una volta non si sarebbe sentito lo stronzo di turno, anche se aveva quasi sempre ragione.

Ma sullo schermo c’era solo lo sfondo e lui, come al solito, si decise a scrivere un sms all’amico per fargli delle scuse che, sempre come al solito, avrebbe dovuto fare Sherlock a lui.

Era diventato un maestro nello scusarsi per cose che non aveva fatto.

Mi dispiace per prima.” digitò: “Sono a Lambeth, nessun taxi, prendo la metro. Ci vediamo dopo. – John” scrisse, inviandolo subito prima che il rumore del treno in arrivo riempisse la galleria.

Ripose il cellulare in tasca quando il convoglio si fermò e, aspettando l’apertura delle porte, entrò nella pancia della metropolitana e si sedette sul primo sedile disponibile. Fortunatamente a quell’ora i pendolari erano già tutti al lavoro, dunque c’era relativamente poca gente.

Alzò gli occhi sulla mappa delle fermate, seguendo con lo sguardo l’intera linea fino a trovare Baker Street.

Sette fermate e poi sarebbe finalmente tornato a casa.

Odiava litigare con Sherlock.

 

 

• 221B Baker Street, h. 9:30 am

 

Sherlock Holmes se ne stava steso sul divano con una borsa del ghiaccio premuta sulla spalla sinistra. Piccolo regalo d John. E si annoiava.

Lestrade sembrava essere in una nuova fase di transizione psichica in cui molto probabilmente aveva preso la decisione di provare a fare le cose per conto suo, dunque di cercare di smettere di chiedere aiuto a Sherlock.

Ogni tanto gli capitava. Si rendeva conto – inutilmente, pensava lo stesso Sherlock – di non poter sempre telefonare a lui per risolvere i casi, ma allo stesso tempo era anche consapevole che quei casi andavano oltre la sua capacità di ragionamento.

Quindi Lestrade ci provava, si bloccava, ci provava di nuovo e, quando si rendeva conto di essersi bloccato ancora e sempre allo stesso punto, si risolveva a chiamarlo.

Era molto simile alle diete di suo fratello Mycroft. Ci provava, a stare lontano dal cioccolato, ma poi ne aveva il bisogno e così lo mangiava, consapevole di stare facendo uno sgarbo a se stesso ma perdendo l’autocontrollo necessario a controllare i propri impulsi.

Fortunatamente succedeva solo con il cioccolato. Considerando il lavoro che faceva, se perdeva l’autocontrollo durante un meeting in Corea come minimo ci scappava la terza guerra mondiale.

Rimaneva comunque il fatto che finché Lestrade non si fosse trovato in un cul de sac con il caso in corso, la sua testardaggine gli avrebbe impedito di passarglielo. Questo voleva dire niente da fare, ovvero noia.

In più, ci si metteva anche John.

Si sistemò meglio la borsa del ghiaccio sulla spalla, toccando cautamente la pelle sotto alla vestaglia e sentendo un po’ di dolore sotto le dita.

Era stato John a consigliargli la visione di qualche film per combattere almeno due ore di tedio esistenziale, e seguendo questo suo spudorato consiglio – doveva proprio essere arrivato all’ultima spiaggia – aveva noleggiato un dvd su Jack lo Squartatore.

C’era il Laudano, e per passarsi il tempo aveva pensato che fosse una cosa interessante cercare di sintetizzarlo. Magari gli sarebbe stato utile, in un prossimo futuro, non si poteva mai dire. Dopotutto avevano già cercato di avvelenarlo una volta, e se era vero che l’organismo si abituava ai veleni se vi era un’ingestione costante di piccole quantità assolutamente sicure per la salute, allora il Laudano poteva davvero fare al caso suo.

Da un contatto aveva avuto persino i papaveri da oppio, per essere sicuro di avere dell’oppio autentico ed evitare di ritornare nel giro di spacciatori che aveva lasciato tempo prima (non tanto, ma comunque passato).

Gli sembrava di aver fatto tutto con cura. Con minuziosità. Tutto per evitare che John potesse trovare appigli con cui fargli una delle sue solite filippiche su ciò che era giusto e ciò che era sbagliato, sugli esperimenti innocui e su quelli che lui chiamava “potenzialmente pericolosi per la salute umana”, salvo poi catalogarli buttali-via-e-basta quando lui gli aveva fatto notare che l’uso dell’avverbio “potenzialmente” significava che non lo erano del tutto o nell’immediato.

Ovviamente aveva pensato troppo in grande.

John non aveva cercato il pelo nell’uovo obiettandogli la purezza dei materiali di base, ma si era semplicemente fermato sul guscio dello stesso uovo dicendogli “non ti farò tenere in casa qualsiasi cosa che ricordi un veleno ma, prima ancora, qualsiasi cosa che assomigli ad una droga”.

Fissando gli occhi sul soffitto, Sherlock sospirò.

Non era sua intenzione litigare. Non lo era stato all’inizio e non lo era stato nemmeno dopo, quando effettivamente John aveva perso la pazienza e aveva alzato la voce. Lui voleva solo passarsi il tempo con un esperimento interessante.

Arricciò le labbra, disturbato dal pensiero che John fosse arrabbiato con lui, ma non gli diede peso.

Sapeva esattamente come sarebbe andata. Ancora prima di tornare a casa, John avrebbe ceduto ai suoi sensi di colpa e gli avrebbe chiesto scusa – ovviamente a ragione. Probabilmente per sms.

Lui non avrebbe dovuto fare altro che cercare dei nuovi papaveri da oppio e proseguire con il suo esperimento, sopportando come unica cosa i sospiri rassegnati di John – cosa che già faceva benissimo.

Sì. Sarebbe stato come ogni volta.

Quasi predisse, addirittura, il momento in cui il suo cellulare squillò un messaggio. Ma Sherlock non si mosse per due ragioni: la prima, era che sapeva perfettamente chi era, ovvero John che si scusava; la seconda, era il fatto che il cellulare fosse sul tavolo di fianco ai loro notebook, il che voleva dire alzarsi dal divano.

Avrebbe aspettato il rientro di John per farsi passare il cellulare e leggere le scuse. Sempre se fosse tornato in tempo breve – quasi sicuramente prima delle dieci e mezzo, secondo i suoi calcoli, ma era sicuro solo per l’ottanta percento.

Seccato, soffiò dal naso.

Odiava litigare con John.

 

 

• The Tube; Waterloo Station (underground), h. 9:34 am

 

Il treno si fermò alla stazione di Waterloo, facendo scendere e salire i vari passeggeri. Rimase fermo per qualche minuto poi, con il solito segnale che avvertiva della chiusura della porte, riprese la corsa verso Enbankment, la stazione successiva.

John si guardò attorno distrattamente, distogliendo lo sguardo dal giornale che aveva riaperto per passarsi il tempo durante la corsa. Non erano molti i passeggeri che attiravano la sua attenzione, se non una madre con sua figlia e l’aria famigliare di un ragazzo con la divisa dell’esercito, la stessa che aveva indossato anche lui per tutta una vita.

Scostando subito l’attenzione dal ragazzo, e riportandola sul giornale, sorrise amaramente.

Quando era tornato dall’Afghanistan aveva avuto per molto tempo la convinzione di essere ormai alla frutta. Era tormentato dagli incubi e dal proprio cervello, dato che soffriva di una zoppia inesistente, ma sentiva ancora quella pulsione sconsiderata che lo aveva portato ad arruolarsi subito dopo la laurea, la stessa voce nella testa che gli presentava la vita militare come l’unica alternativa, come l’unica via di fuga.

A volte, nel cuore della notte, quando Sherlock non suonava il violino o non lo teneva sveglio con i suoi ragionamenti... la sentiva ancora.

Sussurrava nell’ombra. Gli mostrava, come una musa, scenari in cui si vedeva mollare di nuovo tutto e andare a dimostrare ai responsabili di reclutamento che non era un invalido, uno zoppo, un uomo inutile.

Si vedeva con di nuovo addosso quella divisa, di nuovo con le mani imbrattate di sangue che suturavano una ferita da arma da fuoco in mezzo alla polvere, di nuovo a scostare con lo stivale sabbia e sassi durante il turno di guardia.

Sorrideva, in quei momenti. Sorrideva perché, complici i suoi pensieri, credeva davvero che una cosa del genere fosse ancora possibile.

Poi, pensava a Sherlock. Rifletteva. Usava la mente, per una volta seguendo le istruzioni del suo amico... e allora smetteva semplicemente di vedersi addosso quella divisa e, con la mente, la riponeva dov’era in realtà sempre rimasta: in una busta di plastica dentro l’armadio.

Sherlock sarebbe morto di sicuro, senza di lui. Se lo sentiva.

Un giorno avrebbe aperto il frigorifero, affamato e al limite della propria forza fisica, sperando di trovare una spesa che in realtà nessuno aveva fatto, e sarebbe morto di fame.

Oppure avrebbe sintetizzato tutta una mensola di veleni e una mattina, annoiato dalla mancanza di un caso, ne avrebbe provato uno e ci avrebbe lasciato la pelle.

Altrimenti se lo vedeva di nuovo a prendere una pillola potenzialmente mortale solo per provare la sua intelligenza. O catturato in un altro giochino con Moriarty e svariati chili di esplosivo. O cadavere da qualche parte, per strada, ucciso da chissà cosa o chissà chi, morto per chissà cosa e chissà quanto, spirato per chissà quale causa naturale o umana o aliena.

Tutti scenari che, per quanto improbabili, una volta conosciuto Sherlock Holmes acquistavano una loro sconcertante concretezza.

Scosse il capo, ridendo di se stesso. No, non poteva andarsene. Alla fine finiva sempre per dirselo.

Aveva paura di pensare dove sarebbe finito Sherlock, senza di lui. E non lo diceva per egocentrismo.

Mentre la metropolitana prendeva velocità sotto di lui, staccò la mano destra dal giornale per estrarre il cellulare dalla tasca. Non c’era nessun messaggio, nessuna risposta e nemmeno campo; lo sapeva, non lo aveva sentito né suonare né vibrare, tuttavia la speranza che Sherlock avesse risposto al suo sms, per quanto minima, aveva comunque un suo posto speciale in un angolo della sua mente e, anche se odiava ammetterlo, nel suo cuore.

Così come lo aveva Sherlock.

Sospirò. Accidenti John Watson, passi da un casino all’altro pensò, parlando silenziosamente con se stesso.

Poi, all’improvviso, tutto cambiò.

Avevano lasciato da poco la stazione di Waterloo, giusto qualche minuto, forse due, e il treno prese a vibrare violentemente sotto di loro. Tutti gli occupanti del vagone si guardarono intorno, spaesati.

Se fossero stati fermi e non in movimento costante, John avrebbe detto che si trattasse di un terremoto a giudicare dalla violenza delle scosse che aveva il vagone. Oscillava persino, scuotendo i passeggeri che cominciavano a preoccuparsi, ad esclamare parole di sorpresa e, perché no, di paura.

Poi, la frenata improvvisa. Come passare da 100 a 0 nell’arco di pochi secondi. Fu preceduta da un forte scossone, poi da un sibilo acuto e fastidioso di acciaio che stride contro altro acciaio, dopodiché l’accelerazione del vagone si fermò di botto, sbalzando tutti i passeggeri in avanti con una forza inaudita.

Ma non finì lì.

Subito dopo la violenta frenata, John si sentì staccare dal sedile. Non vedeva nulla a causa delle oscillazioni e delle scosse, tutto tremava compreso lui stesso, nelle orecchie aveva solo il terribile suono stridente e le urla dei passeggeri che viaggiavano con lui; le luci elettriche del vagone tremolarono insieme al convoglio, spegnendosi del tutto quando, con un rumore simile ad un risucchio nel vuoto, gli venne a mancare la terra sotto i piedi e si trovò per aria, la mano fermamente attaccata al palo di ferro accanto al sedile su cui si era inizialmente accomodato.

Si sentì sbalzare contro il soffitto, sentì un dolore sordo al fianco e chiuse gli occhi per istinto, aspettando la fine di tutto, o l’inizio del “dopo”.

Un rumore fortissimo coprì gli altri suoni sentiti in precedenza, il suo corpo veniva sballottato avanti ed indietro senza direzione alcuna e lui perse completamente il senso dell’orientamento quando la mano gli si staccò, per forza di cose, dal suo appiglio in metallo.

Accompagnato dall’odore di bruciato e dalla sensazione di stare per morire, pensando a tutto e a niente e ad Harry e a sua madre e a Sherlock in quegli ultimi istanti, in quei momenti in cui “Cristo, non sono sopravvissuto alla guerra per morire così!”, lasciò andare la presa anche sulla propria coscienza.

Il buio lo inghiottì.

 

 

TfL Headquarters, BCV, h. 9:40 am

 

Michael Crew, trentanovenne di un metro e ottanta con tanti capelli neri e qualcuno bianco, era comodamente seduto nel suo ufficio e stava mangiando un cornetto alla crema con una mano mentre controllava la posta con l’altra.

Pubblicità, pubblicità, lettera di raccomandazione. Pubblicità, curriculum, curriculum, avviso di garanzia (« oh, accidenti... il caso Peters »), pubblicità, pubblicità, avviso di pagamento, lettera della banca, curriculum, curriculum, morso al croissant e relativa goduria gustativa, pubblicità e pubblicità. Diede un altro morso alla colazione come degna chiusura, scrollandosi qualche briciola dalla cravatta blu a trama incrociata.

Buttò direttamente le lettere di pubblicità nel cestino senza nemmeno aprirle, mise l’avviso di pagamento e l’avviso di garanzia di fianco al computer e impilò i curriculum sopra agli altri dieci che erano arrivati negli ultimi sei giorni. Avrebbe dovuto dire alla segretaria di aprirli, rispondere qualcosa tipo “siamo spiacenti ma non è sufficientemente qualificato e/o non ci sono posti disponibili per la mansione per cui ha fatto domanda” e rispondere a tutti di cercarsi un altro lavoro. Si dimenticava sempre, maledizione.

Aveva appena terminato il croissant e stava per appoggiare le labbra sulla sua prima tazza di tè della giornata – English Breakfast con un goccio di latte, da vero inglese! – quando il trillo violento del telefono lo distolse dalle sua intenzioni.

Sbuffando, prese malamente la cornetta.

« Ufficio BCV, Crew » rispose seccato con il proprio cognome.

Rimase in ascolto per qualche istante, massaggiandosi con pollice ed indice della sinistra l’attaccatura del naso. « Arriva al dunque, cosa diamine è successo?! » sbottò poi, come ogni capo ufficio che si rispetti fa quando gli impiegati interrompono la solita routine mattutina.

Ad un certo punto, sgranò gli occhi. « Cos... cos’hai detto che è...? » balbettò, incapace di accettare ciò che gli era appena stato detto dall’altro capo della linea.

Probabilmente gli venne ripetuto, perché Michael Crew sbiancò.

Lasciò penzolare la cornetta dalla scrivania, uscendo di corsa dall’ufficio e cominciando a fare lo slalom fra i vari corridoi della struttura fino ad arrivare all’ufficio interessato, quello del movimento ferroviario della Bakerloo line, aprendo la porta con un botto e mettendosi direttamente di fronte alla persona che solo pochi secondi prima stava parlando con lui al telefono.

« Ripetimelo... » soffiò, a dir poco terrorizzato e a tanto così dal panico.

L’impiegato, fissando alternativamente il capo e i due compagni d’ufficio se possibile ancora più pallidi di lui, deglutì.

« È... È deragliato un convoglio sulla Bakerloo, signore. Fra Waterloo ed Enbankment... signore » sibilò. Sembrava sul punto di svenire. O di vomitare.

Michael Crew alzò lo sguardo, smettendo di respirare. Solo in quel momento si rese conto che tutti i sacrosanti telefoni del piano, in tutti i sacrosanti uffici, stavano squillando come impazziti e i dipendenti degli uffici a fianco che lo avevano visto passare si erano affacciati alla porta, in attesa di sapere cosa fare, o anche solo di una conferma.

Deglutì a vuoto.

« Chiamate le forze dell’ordine... » biascicò, riuscendo tuttavia a farsi sentire a causa del silenzio di tomba caduto fra le persone presenti: « ...avvertite i capostazione di Waterloo ed Enbankment di negare l’accesso ai pendolari, dite loro di svuotare le banchine e di collaborare con la polizia... » poi, mentre parlava, prese coraggio: nei suoi occhi un lampo furioso di rabbia mista a panico, nel suo sangue un livello di adrenalina che avrebbe fatto risorgere un morto: « voglio... anzi no, pretendo sulla mia scrivania i tabulati di movimento della Bakerloo. Spostamenti civili, treni, carrelli a motore, spostamenti del personale, tutto! » esclamò, e ogni volta che parlava qualcuno annuiva e si attaccava al telefono.

« Chiamate gli addetti alla manutenzione della linea e chiedete loro di entrare nei tunnel e sincerarsi delle loro condizioni strutturali. Dobbiamo sapere se ci sono cedimenti, crepe, pezzi di calcinaccio staccati, scricchiolii, qualsiasi cosa! Voglio sapere anche quanti ragni ci sono attaccati al muro, tutto chiaro?! ».

« Sì! » rispose una voce femminile, prima che tutti si disperdessero e tornassero nei rispettivi uffici.

Mentre usciva a passo spedito dall’ufficio del movimento per tornare nel proprio, Michael Crew si ripeteva di non credere ai presagi.

Non credeva nella stranezza di una giornata così mite ad inizio marzo, non credeva nel gatto nero che gli aveva attraversato la strada quella mattina uscendo dal vialetto di casa, non credeva nel sale che aveva rovesciato la sera prima a cena e non credeva che fosse stata tutta colpa della scala sotto cui era passato prima di entrare in sede.

Shit happens, dicevano.

...Ora ci credeva.

 

 

• New Scotland Yard, h. 9:45 am

 

Il Detective Inspector Lestrade digitò le ultime frasi del rapporto, rileggendo il periodo e annuendo con soddisfazione. Controllò una seconda volta la forma lessicale, la correttezza dei termini specifici e l’elenco delle varie procedure effettuate. Controllò che tutti i documenti descritti fossero effettivamente presenti nel fascicolo del caso e, una volta stampato, firmò il rapporto e lo allegò al faldone.

Indagini concluse, e questa volta aveva fatto tutto da solo. Il colpevole aveva confessato, si era guadagnato il suo avvocato d’ufficio e tutta quella storia sarebbe finita in tribunale, cioè fuori dal suo ufficio, dalla sua sezione e dalla sua responsabilità.

Sorrise soddisfatto, infatti, richiudendo il fascicolo. Lo mise sul mobile accanto alla posta in uscita e, stiracchiandosi le spalle e le braccia, si conferì due minuti di pausa prima di mettere le mani sulla posta in entrata.

Non fece nemmeno in tempo ad alzarsi per andare a prendersi un caffè, che Sally Donovan entrò nel suo ufficio come una furia, aprendo la porta senza bussare e precipitandosi davanti alla sua scrivania.

Ora, va bene che le ante erano di vetro, ma non gli sembrava che bussare fosse passato di moda.

« Sergente, non crede di dover... »

« Ispettore, abbiamo un problema » lo interruppe però la donna, palesemente agitata e con il respiro pesante.

Poche volte Gregory Lestrade aveva visto quell’espressione in faccia alla collega. L’ultima volta se la ricordava ancora. Era novembre e più di quarantamila studenti avevano improvvisamente deciso che una manifestazione pacifica non bastava, per far sentire la loro voce.(2)

Lestrade le prestò ascolto.

« È... deragliato un treno della Tube. Sulla Bakerloo. Tra Waterloo ed Enbankment » disse lei, seria e professionale nonostante fosse palese che la notizia la disturbasse.

Se lo ricordavano tutti l’attentato terroristico alla metropolitana, da quelle parti. E non era un bel ricordo.(3)

Il cervello di Greg andò subito a cercare, nella memoria, la piantina di Londra e localizzò il punto della linea dov’era avvenuto l’incidente. Interiormente, rabbrividì.

« Sotto al Tamigi... » mormorò, Donovan annuì in silenzio.

« Chiama l’anti-terrorismo e l’unità anti-crisi » disse poi, alzandosi dalla sedia e recuperando il cappotto: « e dai ordine ai comandi di polizia più vicini di chiudere le strade per le due stazioni, la linea ferroviaria della Upperground in parallelo e di fare sgombrare gli edifici pubblici delle vicinanze. Dì a Foster di contattare i paramedici e di creare un collegamento costante via radio fra noi, gli ospedali e la TfL, soprattutto la TfL » ordinò, incamminandosi nel contempo fuori dalla stanza e lungo il corridoio già più confusionario del solito: « voglio un loro responsabile ad Enbankment, vado lì anche io. Raggiungimi appena puoi » le disse, andandosene senza nemmeno aspettare il cenno d’assenso della donna, che ritornò indietro cominciando ad urlare ordini a destra e a manca.

Uscendo da New Scotland Yard ed infilandosi in una delle automobili dirette a sirene spiegate verso il centro della città, Lestrade pregò silenziosamente qualsiasi entità superiore in ascolto che fosse solo tutto fumo e niente arrosto.

Aveva una brutta sensazione. Sperava veramente di sbagliarsi.

 

 

• The Tube; Waterloo > Enbankment, h. 9:42 am

 

Era steso a terra in mezzo alla sabbia, gli occhi puntati al cielo. Si era dimenticato come respirare.

Si stava dimenticando anche come vivere.

Watson! Watson!!

Lo hanno colpito, chiamate un medico!

John, devi resistere, ok? Ti portiamo via da questo inferno, ma devi resistere! John!

Chi cazzo è stato?!

Siamo in guerra, per l’amor di Dio! Secondo te chi è stato?!

Watson! Watson resisti!

John, John guardami. Guardami!

È di un kalashnikov... dobbiamo muoverci o non ce la farà!

Sentiva le voci distanti dei suoi commilitoni, come se fossero all’estremità opposta di un lungo e vuoto tunnel e rimbombassero da lontano, da giù in fondo.

Fissava il cielo, John, e con gli occhi che cominciavano a lacrimare per la luce forte, sempre più forte e bianca, candida, sentì alcune mani togliergli la divisa, toccargli il petto, le spalle, tenergli ferma la testa.

Dolore. Luce. Dolore... luce.

Non riusciva a respirare. Lui non respirava e quelle voci continuavano a chiamarlo.

“Lasciatemi”, avrebbe voluto dire. Ma non riusciva nemmeno a parlare.

Lasciatemi qui. Non si sta male, qui. In mezzo alla luce.

Poi, le voci cambiarono.

Mamma! Mamma!

Cristo, ma cosa... cosa cazzo è...

Oh Dio! Cristo, Signore! Aiuto! Aiuto!!

Mamma, mamma, mamma!

Urla, gemiti, ansiti e lamenti. Lacrime. Pianti.

Era steso a terra in mezzo a cocci di vetro, gli occhi puntati ad una lampada al neon dalla luce fredda e instabile. Si era dimenticato come respirare.

Ma quello non era l’Afghanistan.

Aprì gli occhi completamente, ritrovandosi davanti la luce tremolane ed incerta di un neon scoperto, a circa cinquanta centimetri di distanza dal suo viso. L’udito era terribilmente ovattato, riusciva a sentire solo il proprio respiro nelle orecchie, unito al battito del cuore, assordante. Era steso sul fianco destro e, ne era sicuro, la sua guancia appoggiava sul pavimento scuro a scanalature sottili della metropolitana di Londra.

Gli tornò tutto in mente con una violenza allarmante.

Non ci volle molto per farsi un’idea di cosa fosse successo.

Aprendo del tutto gli occhi e mettendo bene a fuoco la sua situazione, mosse lentamente la testa e si guardo intorno.

Non sapeva come, ma era stato sbalzato praticamente in fondo al vagone, che sembrava essere appena inclinato sulla destra dell’asse principale. Era disteso nel punto in cui esso, probabilmente, era andato ad infilarsi sotto al vagone precedente che ne aveva corrotto la forma, schiacciando il soffitto verso il pavimento tanto che le ultime due luci al neon erano a meno di un matro dalla pavimentazione, da quanto erano rientrate.

E John ci stava proprio nel mezzo.

Ebbe subito l’istinto di togliersi da quel punto – un’irrazionale timore di rimanere schiacciato – e, aiutandosi con le mani, strisciò all’indietro, togliendosi dall’ “imbuto”.

Si mise poi seduto, gradatamente. L’udito tornò quasi del tutto.

La situazione attorno a lui era degna di uno dei film d’azione che guardava la sera tardi, di sabato, quando rientrava a casa e magari Sherlock non c’era o era in camera sua con la porta chiusa. Ne aveva visti molti basati su incidenti ferroviari ma mai, mai avrebbe pensato di fare parte di uno di questi, un giorno.

Eppure, eccolo lì. Non poteva essere nient’altro.

Intorno a lui, la maggior parte dei passeggeri era stesa a terra, incosciente. I vetri dei finestrini erano quasi del tutto esplosi, solamente uno aveva resistito e presentava solo un’intricatissima ragnatela di crepe. Per terra i cocci di vetro formavano un campo di schegge taglienti e, fra di esse, macchie di sangue più o meno abbondanti facevano da cornice a quello che era divenuto il suo incubo più recente.

Seduto a terra, ancora intontito dall’incidente e incapace di stabilire le proprie condizioni fisiche e mentali, John Watson sentì la coscienza traballare.

Alla sua destra, un soldato stava riaprendo gli occhi in quel momento.

Poco avanti a lui, una bambina era inginocchiata sui frammenti di vetro temperato e scuoteva la madre, pregandola di svegliarsi attraverso la pronuncia continua a spaventata del suo nome.

Poco più in là, infine, una ragazza era in preda al panico con un pezzo di metallo infilato nella coscia, i jeans sporchi di sangue.

Loro, erano le uniche persone che davano segni di vita.

No... quello non era l’Afghanistan.

 

 

• 221B Baker Street, h. 10:30 am

 

La signora Hudson salì di fretta i diciassette gradini che separavano il pian terreno dall’appartamento al primo piano, faticando per l’età ed ignorando l’anca dolorante.

Arrivata sul pianerottolo aprì la porta, riprendendo fiato e guardandosi intorno alla ricerca dell’unico dei due coinquilini che sapeva essere presente.

E che infatti trovò sul divano, gli occhi chiusi e le mani unite sotto al mento, la borsa del ghiaccio che gli aveva dato almeno un’ora prima ormai sciolta.

Stava pensando, probabilmente. Si sarebbe arrabbiato, ragionò la padrona di casa,  ma non aveva scelta.

« Sherlock, caro? » chiese, in piedi a poca distanza da lui.

Quello non rispose.

Lei tentò di nuovo. « Sherlock? » chiamò, più agguerrita.

« Signroa Hudson, sto pensando. La pregherei di tacere » gli rispose allora Sherlock, senza nemmeno aprire gli occhi.

Cosa che mise la cara signora sul piede di guerra. « Penserà più tardi! Guardì qui! » si lamentò, agguantando il telecomando della televisione e accendendola su di un canale a caso.

Lo speaker di un telegiornale stava parlando con tono nasale e conciso, leggendo alcuni fogli che teneva in mano e che venivano costantemente sostituiti con informazioni supplementari.

Bastò la considerazione che erano le dieci e trenta del mattino, e che a quell’ora non c’erano di certo telegiornali, a destare l’interesse dell’uomo sul divano.

Holmes si mise seduto, lasciando che la borsa del ghiaccio cadesse sul tappeto. Fissò gli occhi sul mezzobusto dai capelli trifolati chiuso in un colletto inamidato e chiuso da una cravatta bordeaux.

« È un’edizione straordinaria... » gli disse la donna, il telecomando ancora in mano: « ...è così su tutti i canali. Credo che sia successo qualcosa di grave » sentenziò.

« Alzi il volume, signora Hudson » disse allora Sherlock, ora completamente assorto da quella stranezza.

All’azione della donna, la voce dello speaker si fece più chiara. « ...entità del danno. È un punto rischioso per le squadre di soccorso, perché il tunnel passa direttamente sotto al Tamigi, in una galleria sotterranea sovrastata da almeno sei metri d’acqua e fanghiglia. Un solo cedimento potrebbe riempire il tunnel d’acqua. Ancora non sappiamo se si può o meno parlare di attentato terroristico, ma le squadre di New Scotland Yard sono già al lavoro per... ».

Sotto, in una striscia in sovrimpressione che si spostava dal lato sinistro a quello destro del teleschermo, una frase diceva: “incidente nella Tube, treno deraglia sulla Bakerloo Line”.

« Waterloo ed Enbankment » sussurrò Sherlock, assottigliando gli occhi.

Mrs. Hudson si voltò ad osservarlo. « Cosa, caro? » chiese, un poco distratta dall’ancorman.

« Sta parlando di tunnel subacqueo, e l’incidente è avvenuto sulla Bakerloo, c’è scritto. Le uniche fermate collegate da un tunnel sotto al Tamigi sulla Bakerloo Line sono Waterloo ed Enbankment » spiegò velocemente.

A volte dimenticava che stava parlando con Sherlock Holmes, la persona che sapeva a memoria persino i sensi unici e i divieti d’accesso di tutta Londra. Le linee della metropolitana dovevano essere persino banali, da imparare a memoria, per lui.

Stava per dire qualcos’altro ma, come se fosse fatto apposta, il cellulare di Sherlock prese a squillare. Non terminò il secondo squillo che Sherlock aveva già accettato la chiamata e si era portato il telefonino all’orecchio.

« Sherlock Holmes » aveva risposto.

« Sono io » disse la voce famigliare di Lestrade dall’altra parte, semi-coperta da rumori di sirene e di persone che gracchiavano ordini ed informazioni: « pensi di essere disponibile per le prossime ore? » gli domandò, la voce seria, di un tono che Sherlock non aveva mai realmente sentito.

« La metropolitana? » domandò Holmes, conciso.

Gli sembrò quasi di vedere Lestrade annuire, dall’altra parte della linea. « ci siamo trovati davanti ad una situazione particolare. Mi servi... in fretta » gli disse, probabilmente mangiandosi una buona parte d’orgoglio.

Cosa che faceva comunque ogni volta.

« Arrivo » disse Sherlock, chiudendo la telefonata e volando in camera a cambiarsi.

Preso dalla foga, non lesse il messaggio che John gli aveva mandato, lasciando semplicemente che l’avviso “un nuovo sms” rimanesse immobile sullo schermo del telefonino quando se lo mise nella tasca del cappotto, uscendo di casa con la solita fretta di chi ha, finalmente, qualcosa da fare per le mani.

 

 

~ to be continued...

 

 

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* ho scritto i luoghi di riferimento in inglese per gusto personale, ma li spiego per dare una mano a chi mastica poco la lingua.

- la metropolitana londinese si chiama "London Underground" (underground = sottoterra, sottosuolo) ma loro la chiamano "The Tube" (il Tubo). Dunque, con "The Tube" mi riferisco alla metropolitana.

- La TfL (Transport for London) è l'agenzia che si occupa dei servizi di trasporto di Londra. Per la gestione della metro essa è divisa in 3 centri, quello che controlla la Bakerloo Line è il BCV.

- La dicitura "Waterloo > Enbankment" si riferisce al tratto di galleria fra le due stazioni citate.

 

1. Il film è "From Hell", dove Johnny Depp interpreta un ispettore Abberline dedito all'oppio. Il Laudano invece è una sostanza ricavata mescolando l'oppio in una soluzione di acqua ed alcool con l'ausilio di alcune spezie. E' tossica in grandi quantità (anzi, è propriamente un veleno) ma in quantità minori da un effetto allucinogeno. Molti artisti ed intellettuali dell'800 usavano berne qualche goccia mescolato all'assenzio.

Ah, non sperateci. In Italia è illegale ;D

 

2. Riferito ai disordini causati dagli studenti per protestare contro l'aumento spropositato delle tasse universitarie, il 12 novembre 2010.

 

3. Il 7 luglio 2005, una cellula terroristica di Al Quaida fa esplodere tre vagoni di tre diversi treni della metropolitana (due sulla Circle Line e uno sulla Piccadilly Line) e un autobus a due piani. 56 vittime in totale.

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Capitolo 2
*** Venerdì 3 Marzo - parte 2 ***


Note: ok, c’è da dirlo: io non sono un medico. Non la studio nemmeno di striscio. Tutto quello che farò fare a John, che in questo capitolo si da al primo soccorso, deriva un po’ dalle mie conoscenze di carattere generale, da Dr. House – Medical Division e da Wikipedia. Tuttavia potrei sbagliare tutto, perciò avverto prima che è pura licenza poetica xD

Non è detto che tutte le cose che gli farò fare siano giuste, dunque non prendetelo per oro colato, ecco.

 

Mi sono accorta di non aver specificato a che punto della serie è più o meno inserita la fanfic. Beh... potrebbe essere inserita ovunque, ma conoscendomi farò sicuramente dei riferimenti. Dunque direi che è a metà fra la 2x02 e la 2x03 (in ogni caso, prima di Reichenbach per forza di cose). Non comporta particolari spoiler per chi non le ha ancora viste, comunque.

 

Beh... il capitolo è lunghetto, ma spero mi perdonerete per questa volta. Magari vedrò di trattenermi nei prossimi due, ma non avevo voglia di tagliarlo D:

Per il resto, a voi il secondo capitolo. Buona lettura!

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Venerdì 3 Marzo – parte 2

 

 

 

• The Tube; Waterloo > Enbankment, h. 10:20 am

 

« Cristo dottore! Fa un male cane! ».

La ragazza urlava furiosamente ogni volta che le mani di John strappavano un altro piccolo pezzo di jeans nel tentativo di esporre la ferita. Il medico, dal canto suo, anche cercando di essere il più delicato possibile sapeva con certezza che avrebbe continuato a farle del male finché non avesse potuto vedere bene la situazione.

« Mi dispiace, ma non c’è molto che io possa fare in queste condizioni... » cercò di scusarsi Watson, strappando a tradimento altre due centimetri di stoffa.

« Questo me lo ha già detto! » sbottò ancora la ragazza, la fronte imperlata di sudore sotto i corti capelli neri: « ma devo scaricare lo stress, quindi se non vuole che mi aggrappi ai suoi capelli e tenti di strapparglieli mi lasci gridare e basta! » replicò, stringendo gli occhi scuri in un gemito sofferto quando John strappò un altro centimetro di tessuto zuppo di sangue.

Il dottor Watson si fermò ad osservare la situazione solo quando ritenne di aver aperto a sufficienza la gamba dei pantaloni della giovane. Nella coscia era conficcata una sottile spranga di ferro, che passava da una parte all’altra dell’arto in una lacerazione tutto sommato pulita. Sanguinava, ma dalla minima quantità fuoriuscitane constatò che il pezzo di metallo avesse per lo meno scansato l’arteria femorale.

« Ok, adesso mi serve un laccio emostatico... » borbottò tra sé e sé, gettando una rapida occhiata alla ragazza, ansimante e pallida a causa del dolore.

Non sapeva nemmeno lui come aveva fatto a riprendersi così velocemente dall’incidente. Probabilmente la guerra lo aveva formato dal punto di vista sia medico che forense, dato che si era subito messo in azione non appena aveva notato che le persone ancora coscienti presentavano delle ferite.

E come potevano non esserlo, dopotutto?

Aveva dovuto assegnare delle priorità, dato che era l’unico medico presente, e ancora una volta il suo cervello aveva fatto tutto da solo, richiamando alla mente i manuali di medicina studiati a scuola e la vastissima esperienza di medicazione sul campo che l’Afghanistan gli aveva inculcato per forza di cose.

Incamminandosi verso un uomo steso immobile a terra – non aveva ancora contato quanti fossero, effettivamente, le persone che non si muovevano o non mostravano segni tangibili di vita... – appoggiò due dita della mano destra, sporche di sangue della ragazza, sulla  sua carotide.

Non pensava di trovare battito, ed in effetti non lo trovò.

« Dottore, anche la madre di questa bambina ha bisogno d’aiuto! ».

La richiesta veniva da un ragazzo dietro di lui, un giovane che sembrava non avere nemmeno venticinque anni, che indossava una divisa militare. Non riusciva a muovere un braccio ma si era comunque diretto verso la bambina che, piangendo e strofinandosi gli occhi con le manine sporche, continuava a chiamare la madre nonostante il soldato l’avesse abbracciata e stesse tentando di consolarla.

Inizialmente, John li ignorò.

« Dottore, la prego! »

« Senti bello, la mocciosa non ha una cazzo di spranga piantata nella gamba, quindi vedi di chiudere quella bocca! » sbottò senza controllo la ragazza, sovrastando la risposta di certo più pacata che John era intenzionato a fornire al soldato.

Quello, ovviamente, non la prese bene. « È soltanto una bambina! » obiettò, sconvolto.

« Sì, ma questa non è soltanto una gamba! È la mia gamba! E c’è una spranga che la trapassa! ».

« ADESSO BASTA! ».

L’urlo di John sovrastò le voci delle due persone, il pianto della piccola e persino ogni minima intenzione di ribattere. Aveva usato il tono tipico di chi comanda, quello che molte volte aveva tirato fuori a Kabul con il suo plotone, e quelle parole rimbombarono all’interno del vagone, facendo fischiare il metallo ammaccato di cui era composto.

Watson, armato di una pazienza straordinaria e di un senso della responsabilità fuori misura, fissò i suoi occhi in quelli verdi del ragazzo, squadrandolo.

« Senti, lo so che è una brutta situazione, ma lei ha ragione » disse, indicando la ragazza sanguinante con un cenno del capo: « ha una brutta ferita e potrebbe anche morire dissanguata. È mia intenzione aiutare chiunque ne abbia bisogno ma ci sono delle priorità da rispettare, ok? » disse, con tono di voce più basso, lievemente più calmo.

Il soldato annuì mentre la donna si riservò di osservarlo con occhi a metà fra il preoccupato e lo spaventato. « Dissanguata...? » mimò con le labbra, senza tuttavia dirlo a voce alta.

John chiuse gli occhi con un sospiro; l’adrenalina e l’emergenza della situazione gli impedirono di perdersi nel lato morale del suo carattere, tenendo vigile il medico militare che si era guadagnato i gradi di Capitano curando e combattendo innumerevoli battaglie, impresa portata a termine grazie ad una notevole dose di sangue freddo.

A farsi venire la nausea ci avrebbe pensato dopo, in quel momento non c’era tempo.

Appurato che l’uomo steso di fronte a lui fosse effettivamente deceduto gli alzò la giacca del completo elegante, sfilandogli la cintura dai passanti dei pantaloni e tornando verso la ragazza.

La guardò negli occhi. In tutti gli anni passati a ricucire fori di proiettile in mezzo a sassi e sabbia aveva capito che era meglio parlare, con i pazienti feriti, soprattutto se si devono fare cose sicuramente dolorose senza avere dell’anestetico a disposizione.

E a meno che qualcuno dei passeggeri non stesse trasportando con sé una fiala di morfina con relative siringhe ipodermiche, in quel caso non ne avevano.

« Senti, emh... » si rese conto che non sapeva il suo nome.

« ...Joy » rispose quella, fra un ansito e l’altro. Teneva gli occhi spalancati e le labbra socchiuse, come se stesse cercando di calmarsi facendo forza su se stessa, oppure di riprendere a respirare normalmente.

« Joy... » cominciò Watson, mostrandogli la cintura: « ...devo legarti questa intorno alla coscia, sopra alla ferita, per cercare di rallentare l’emorragia. Ma è molto vicina all’inguine e ti farò male... va bene? » la avvisò, gli occhi del medico sicuro di sé e la voce ferma.

Quella trattenne un gemito di dolore: « se va bene?! » sbottò poi, guardandolo con astio. Ma lo sguardo negli occhi del dottore le disse che era una cosa seria e, deglutendo, annuì. « Non credo di avere altra scelta... » soffiò fra le labbra.

John si fece sfuggire un sorriso teso. « No, infatti... pronta? » domandò una volta che ebbe sistemato la cintura ed infilato il lembo libero nella fibbia.

Quella, attaccandosi con la mano ad un sedile a lei vicino, annuì.

L’urlo che lanciò quando il dottore strinse il cappio fu lacerante. La voce arrivò ad una nota talmente alta che il metallo fischiò di nuovo e la bambina, serrando gli occhi, si chiuse le orecchie con le mani. Gridò finché non terminò il fiato per farlo, la mano sinistra artigliata al sedile, la destra scattata a stringere la spalla di John.

« Ok... » soffiò l’uomo fra le labbra, osservando nuovamente la ferita: « ascolta, non posso rimuovere il pezzo di ferro, se lo faccio potrei non essere in grado di fermare il sanguinamento... » cominciò.

Quasi si era aspettato di sentirla esprimere tutto il suo disappunto, ma non successe. Stava ancora riprendendosi dall’ultima scarica di dolore ricevuta e il viso pallido parlava chiaramente al posto della voce, dicendo che era andata a pochi passi dal collasso.

Tuttavia, seppur confusa, annuì.

Così John riprese a spiegare: « ti fascerò stretta la ferita e poi allenterò la cintura, ma non posso toglierla. Dovremmo aspettare i soccorsi... tu devi cercare di non muovere assolutamente la gamba, d’accordo? Se urti il pezzo di metallo, oltre a provarti un dolore incredibile potresti causare una nuova emorragia » le disse e lei, seppur osservandolo fra le ciglia e sembrando davvero esausta, annuì di nuovo.

John le fece un cenno con il capo, rivolgendosi poi al soldato. « Sei capace di riconoscere un cadavere da una persona ancora in vita? » gli domandò.

Quello, forse sorpreso per essere stato interpellato dopo essere stato messo a tacere, annuì gravemente.

Il volto di John, allora, si fece più stanco. « Allora potresti... per favore? » sussurrò, indicandogli con il volto le persone stese a terra intorno a loro, immobili: « ...se sono morti, togli loro gli indumenti di cotone. Camicie e magliette, per ricavarne delle bende. Non prendere tessuti sintetici o lana... » disse, la voce sempre più flebile man mano che la sua mente prendeva atto della situazione in cui si trovavano.

Senza pensarci, agendo solo d’istinto, si era appena comportato esattamente come se fosse di nuovo in guerra. Con quella calma e quel sangue freddo di quando dormivano in una scomoda brandina sfondata e sopra di loro passavano, rombanti, gli aerei di chissà quale nazione che andavano a bombardare chissà quale città; e loro continuavano a dormire, perché finché non sentivano rumore di spari allora era tutto tranquillo, potevano permettersi ancora un paio d’ore di sonno leggero prima di ricominciare a camminare.

Si era aspettato, da quando aveva cominciato a curare la ferita della ragazza, che una voce in lontananza urlasse l’allarme di un attacco aereo nemico.

Spossato, si portò il dorso della mano destra alla fronte, chiudendo gli occhi.

Era ripiombato per un istante nel mondo che aveva perduto. E che, da quando conosceva Sherlock Holmes, aveva finalmente accettato di lasciarsi alle spalle.

Era proprio vero: un soldato non smette mai di essere un soldato, così come la guerra non smette mai di farti sentire sempre in guerra.

« Dottore... » un sibilo arrivò dal suo fianco, attirando la sua attenzione. Joy, ormai ritornata completamente in sé,

indicò con un cenno del capo la bambina rimasta nuovamente sola. « Vada a vedere come sta la madre, io posso resistere... » disse a bassa voce, come se non volesse farsi sentire dal soldato già intendo a controllare le altre persone nel vagone.

Watson annuì, alzandosi in piedi e dirigendosi verso la bambina.

Aveva i capelli biondi lunghi fino sotto le spalle e gli occhi marroni e caldi, grandi come solo quelli dei bambini possono essere. Il viso gentile e fanciullesco aveva la pelle chiara, che si sposava perfettamente con il vestitino bordeaux con la gonna a frappe che indossava. Le calzamaglie bianche, notò poi John, erano macchiate di sangue sulle ginocchia.

Addolcendo il tono della voce – tornando il solito John, non più il Capitano Watson – si cinò sulle ginocchia finché non fu con il viso alla sua stessa altezza.

« Ehi, ciao... » salutò, evitando di appoggiarle le mani sulle braccia solo perché sporche di sangue. « Io mi chiamo John. E tu come ti chiami? » chiese dunque, guardandola negli occhi, sforzandosi di sorridere al meglio che poteva.

La bambina, palesemente terrorizzata, ricambiò lo sguardo tremando appena. « A... Alice » disse poi: « però la mamma non si sveglia, perché la mamma non si sveglia? » ricominciò però subito a lamentarsi, piangendo e rigando con nuove lacrime le guance paffute.

Il medico cadde nel panico per un istante. Poteva anche fronteggiare un uomo armato senza perdere la concentrazione, ma non aveva fatto abbastanza ore di laboratorio per affrontare un bambino con una crisi di pianto imminente. Anzi, non aveva fatto clinica e basta, dato che si era arruolato appena dopo la laurea e aveva intrapreso una strada che di certo non era quella del medico da ambulatorio.

« No, ehi, non piangere, ok? » disse subito, cercando istintivamente di arginare la paura della bambina con le parole: « adesso guardo cos’ha la mamma, va bene? Sono un dottore. Adesso guardo cos’ha la mamma ma tu non piangere, va bene? » ripeté, scostandosi dalla piccola solo quando quella, tirando su con il naso, fece di sì con la testa.

Sospirando, si avvicinò alla donna, stesa di pancia sotto ad una fila di sedili.

Era immobile, nessuna reazione tangibile e non vedeva nemmeno la schiena sollevarsi ed abbassarsi per la respirazione. Inoltre la gonna era completamente intrisa di sangue, così come la giacca nera del completo da ufficio che indossava. Come successo con l’uomo di poco prima, non si aspettò di trovare battito cardiaco nell’accostarle le dita alla gola.

Non vi fu.

Sospirando pesantemente, chiuse gli occhi.

Come poteva dire a quella bambina che la madre non si sarebbe più svegliata?

 

 

TfL Headquarters, BCV, h. 10:15 am

 

Michael Crew era al suo sesto caffè nel giro di mezz’ora. Si era tolto giacca e cravatta, aveva avvolto le maniche della camicia finché non gli erano arrivate al gomito e aveva anche sbottonato il primi due bottoni del colletto. Se ne stava appoggiato alla sua scrivania davanti ad un tabellone con lo schema del pezzo di tunnel interessato dall’incidente, all’orecchio un auricolare wireless per parlare al telefono senza dover tenere occupate le mani.

In linea, dall’altra parte, il capo della squadra tecnica che si era prontamente avventurata nel tunnel dalla parte di Enbankment.

« Non sembrano esserci danni strutturali gravi, signore » stava dicendo, ansimante, nel microfono di quello che doveva essere un cellulare vecchio modello, a giudicare da come la sua voce giungeva metallica: « ma posso dirlo solo per il tunnel da questa parte. Ad un certo punto... ecco...  » esitò.

La caffeina in circolo nel sistema sanguigno del responsabile del BCV fece il resto. « “Ecco” cosa?! Continui! » sbottò, contrariato da qualsiasi persona gli facesse perdere tempo prezioso.

Al telefono, il tecnico deglutì. « Ad un certo punto il tunnel è completamente ostruito, signore » disse allora: « se ci sono stati danni di sorta probabilmente sono dall’altra parte, e a meno che non entri qualcuno da Waterloo noi non possiamo accedervi. Ma potrebbe essere difficile, perché... signore, è tutto un pezzo di ferro, là sotto, e... » si interruppe di nuovo, deglutendo a vuoto, incapace di continuare a parlare.

Crew inspirò ed espirò rumorosamente. « Senta, adesso lei mi dice esattamente cosa... »

Ma fu interrotto. Una collaboratrice entrò di fretta dalla porta, osservandolo dritto negli occhi. « Signore, l’ingegner Sutherland sulla tre » gli disse, concisa.

Michael annuì. « Senta, me lo dirà dopo, devo attaccare » liquidò in fretta il tecnico, spingendo un pulsante sull’auricolare e cambiando linea.

« Ufficio BCV, Crew » rispose, cercando con tutto se stesso di non suonare furioso nemmeno la metà di quanto in realtà era. Cosa che non gli venne molto bene, ma almeno si sentiva giustificato dalla situazione in corso.

« Signore, sono Sutherland » rispose l’uomo dall’altra parte, il respiro corto e la voce affaticata.

Crew si passò la mano destra sul volto, ad un passo dal panico. « Ti prego Alfred, dimmi che non è una bomba » furono le prime parole che gli disse.

Conosceva Alfred Sutherland da una vita, avevano fatto la stessa scuola superiore e Michael sapeva che non c’era miglior uomo in tutta Londra per fare quel lavoro. E, ancora, nessun altro in tutta Londra era in grado di dare le brutte notizie così com’erano, senza addolcire la pillola.

Almeno, nessuno di sua conoscenza.

« No, l’anti-terrorismo ha detto di no » disse Alfred al telefono, Crew sospirò affrancato. Tuttavia non era finita: « ma non ti nascondo che è un casino, Michael. Io sono entrato da Enbankment e ti giuro che non ho mai visto niente del genere. Il tunnel è completamente ostruito, ma non dai detriti del rivestimento interno della galleria, che comunque non mancano: la motrice ed il primo vagone si sono praticamente FUSI con un carrello di manutenzione, bloccando completamente il passaggio » raccontò.

A Crew gelò il sangue nelle vene.

« Un... carrello di manutenzione, hai detto? » domandò allora, balbettando appena, colto da una nuova ondata di panico interiore.

« Sì, è riconoscibilissimo. Cosa diamine ci faceva lì un carrello di manutenzione all’ora di transito dei treni, Mich? » domandò Aflred, e quando si metteva ad usare il suo soprannome sul lavoro significava che la faccenda era, anche se non come previsto, comunque grave.

« Non lo so, ma lo scoprirò » asserì, già in procinto di chiudere la telefonata con tutta l’intenzione di andare a controllare linea per linea gli interventi di manutenzione della Underground. « Ti devo lasciare Al, fai attenzione » disse infatti, ma l’altro lo bloccò prima che potesse riattaccare.

« Michael, aspetta  » disse, Crew rimase in ascolto: « il mio assistente è entrato dalla parte di Waterloo insieme ad alcuni tecnici della linea... mi ha detto che ancora prima di arrivare al treno hanno visto corpi di gente sbalzata fuori dai finestrini... » spiegò.

Ci fu un attimo di silenzio fra i due, tangibile e pesante come un macigno.

« ...non ha potuto avvicinarsi per via dell’aria piena di polvere, era irrespirabile. Ti conviene dire a qualcuno di mettersi una maschera e di farsi venire le palle di andare a controllare quel tunnel, perché non abbiamo il tempo di aspettare che si depositi da sola. Se c’è anche solo una crepa troppo profonda non so dire quanto tempo ci rimane prima che sia tutto sott’acqua. E qui non si sta parlando di due sole stazioni, rischiamo di inondare buona parte della linea » gli disse, la voce bassa e professionale, seria come solo sul lavoro sapeva essere.

In quel momento, il primo pensiero di Crew andò a Dio. Il secondo, al suo lavoro. Il terzo, al settimo caffè.

« Lo so, Al. Grazie... » sibilò, riattaccando.

Chiuse gli occhi per qualche minuto. Aveva già spedito orde di tecnici per constatare i danni, e a chiamarli ogni dieci minuti ci stavano già pensando i suoi collaboratori. Quello su cui si doveva concentrare lui era la causa, ora che ne sapeva qualcosa di più.

Come una scheggia, uscì dall’ufficio e piombò nella sala operativa sulla destra, dove tutti erano indaffarati a rispondere a telefoni che squillavano ad oltranza e a calcolare stime su qualsiasi cosa.

« Dafne! » chiamò la sua segretaria, quella fece capolino da un cubicolo.

« Chi è a capo delle operazioni d’indagine, laggiù? » domandò, agitato.

La donna sfogliò velocemente un blocco per appunti, trovando il nominativo giusto in pochi, efficienti secondi: « l’Ispettore Lestrade di Scotland Yard, signore » gli disse.

Crew annuì. « Mettimi in contatto con lui » ordinò poi.

 

 

• The Tube; Enbankment Station, h. 11:30 am

 

Sherlock Holmes arrivò a piedi fino alla stazione di Enbankment, camminando a passo svelto per quasi due isolati.

La polizia aveva efficientemente chiuso ai mezzi pubblici e privati tutte le strade nel raggio di un chilometro, lasciando il via libera solo alle pattuglie delle varie agenzie governative e alle ambulanze.

Ovviamente, dato che il centro era praticamente isolato, il traffico in tutto il resto della città risultava molto congestionato. Non si sarebbe stupito troppo se John non fosse riuscito a rincasare, considerando la confusione regnante in tutta la città.

Scansò elegantemente le prime persone in divisa, dicendo il proprio nome ai poliziotti che tentavano inutilmente di fermarlo e, quando non serviva, aggiungendo che era stato contattato dall’Ispettore Lestrade. A sentire il nome del detective di Scotland Yard, chissà per quale motivo, tutti si facevano indietro e lo lasciavano passare.

Arrivò da Greg in qualche falcata.

« Alla buon’ora! » lo “salutò” quello, riattaccando subito il cellulare e rimettendolo nella tasca dell’immancabile cappotto blu scuro. « Ti ho chiamato un’ora fa, dove diamine ti eri cacciato? » domandò a seguito, attendendo che Sherlock si fosse avvicinato del tutto a lui.

« C’era traffico » liquidò velocemente il detective: « allora, dov’è? » domandò poi.

« Nel tunnel » rispose Greg, con un cenno del capo all’entrata della stazione di Enbankment: « siamo davanti ad una situazione strana, ma questa volta non posso prendermi il mio tempo per indagare. Chissà per quale scherzo dei piani alti sono diventato il responsabile delle indagini... » sbuffò, roteando gli occhi con fare incredulo: « tu sei veloce a capire il tutto, anche se mi secca ammetterlo. Ho bisogno che mi illumini » terminò.

Sherlock, anche se internamente si era sentito lusingato dai mezzi complimenti di Lestrade, si limitò ad annuire. Insieme si incamminarono verso la stazione.

« Ehi, dov’è il dottore? Di solito siete culo e camicia » commentò l’ispettore guardandosi intorno, forse convinto di vedere Watson raggiungerli di corsa, oppure aspettandosi che fosse insieme ai paramedici a curare i primi feriti estratti dalle macerie.

Sherlock, tuttavia, si limitò ad arricciare il naso. « Non c’è. Abbiamo avuto un conflitto d’interessi su faccende triviali e se n’è andato di casa questa mattina presto. Non era ancora tornato, quando sono uscito ».

Cominciarono a discendere le scale che portavano alle banchine.

« Avete litigato? Strano... » commentò lievemente Lestrade, ridacchiando sotto i baffi: « credevo che la pazienza del dottore fosse infinita, ma a quanto pare sei riuscito nell’intento di farlo arrivare al limite anche di quella » ironizzò, faticando quasi a mantenere il passo veloce di Sherlock, ma riuscendoci tutto sommato con classe.

Non riuscì proprio a stare zitto, colto in fallo da quell’irritazione che, lo sapeva, se non si fosse trattato di John H-sta-per-Hamish Watson avrebbe tranquillamente ignorato. Anzi, non avrebbe proprio provato.

« È lui che è fissato nell’essere così... normale » disse Sherlock, sottolineando l’ultima parola con un tono quasi schifato.

« Ci mancherebbe solo che non lo fosse... » si lasciò sfuggire Lestrade.

Sherlock, però, voltò il capo per guardarlo da sopra la propria spalla; per un attimo, una sola occhiata fugace. « John non è mentalmente instabile,  ma non è nemmeno normale. Si convince di essere normale. È... » si bloccò, in cerca probabilmente del termine giusto.

Termine che venne suggerito da Lestrade, insieme ad un sorrisetto diverso da quello canzonatorio di prima, maggiormente carico di una lunga serie di sottintesi: « speciale? » suggerì.

Sherlock non rispose. Dentro di sé sapeva che quello era il termine più corretto, quello che stava cercando, quello che descriveva John alla perfezione. Ma decidere che per lui il dottore fosse “speciale” suonava troppo come un’ammissione di sentimento, cosa che al solo pensiero gli faceva venire l’orticaria. Poteva già sentirne il prurito sulla pelle.

Terminarono la rampa di scale in silenzio, percorrendo un lungo corridoio piastrellato di bianco fino alla banchina in questione. Alcune persone con dei gilet gialli a strisce catarifrangenti stavano risalendo dai binari mentre altre, controllando la funzionalità delle torce, si apprestavano ad entrare a loro volta nel tunnel. Fra di loro, diversi vigili del fuoco, poliziotti ed un paio di paramedici.

Un agente di polizia diede loro un paio di torce, due mascherine e due elmetti – cosa, quest’ultima, che ovviamente Sherlock non indossò, e che evitò di fare anche Lestrade per puro spirito di emulazione – poi entrambi si incamminarono lungo il tunnel.

Già le banchine della stazione erano ricoperte da uno strato di polvere marrone, causata dall’incidente, ma i binari ne erano del tutto sommersi. Ce ne era così tanta da formare una patina, sempre più spessa man mano che si avanzava verso il punto dell’impatto.

Punto che Sherlock e Lestrade raggiunsero poco dopo.

Alla luce della torcia, tutto ciò che si poteva effettivamente vedere era un cumulo di lamiere accartocciate. Alcune cose erano riconoscibili, come l’inizio del marchio della London Underground, l’angolo del finestrino del conducente, il giallo del carrello di manutenzione, una ruota deformata... ma per la maggior parte era metallo, ferro ed acciaio senza forma alcuna, ripiegato e stropicciato come se fosse passato in una pressa da rottamazione. Riempiva l’intero arco del tunnel se non qualche centimetro nella volta più alta, che comunque sembrava solo un buco nero a dal quale non si sentiva nessun rumore tranne per un continuo gocciolio d’acqua.

« Mi riesce difficile immaginare che possano esserci dei superstiti... » disse Lestrade, osservando distrattamente un paio di tecnici al lavoro sulla volta del tunnel e qualche poliziotto che tentava di arrampicarsi sui rottami per puntare una torcia in quel piccolo varco non occupato dal metallo. « Non oso sperare che, con un impatto di questo genere, dall’altro lato ci sia anche solo una carrozza ancora della sua forma originaria » aggiunse, deglutendo.

Sherlock, dal canto suo, rimase a guardare la motrice senza fiatare. I suoi occhi seguivano ogni centimetro di metallo che con la torcia illuminava, traendo informazioni, cercando subito di sistemare i primi pezzi del puzzle per ricomporne l’immagine.

Lo stemma della London Underground e un angolo del finestrino laterale pendente: fiancata di destra. Residui di vetro temperato a terra: parabrezza anteriore sfondato, urto frontale. La parte visibile del muso rientrata: la locomotiva ha urtato qualcosa, qualcosa di grosso e ad alta velocità, dunque il capotreno non se lo aspettava o non era stato avvertito, quindi nemmeno al controllo centrale delle due stazioni lo sapevano, oppure lo sapevano ma non hanno avvertito, o non hanno fatto in tempo ad avvertire il macchinista; ma è poco probabile per qualcuno che deve tenere d’occhio la circolazione dei treni in ogni minuto del proprio turno di lavoro.

Il suo sguardo indagatore passò sul carrello di manutenzione.

Stranamente diritto nonostante l’urto imponente: alta velocità, probabilmente la massima consentita dal mezzo.

Abbassandosi la mascherina annusò l’aria. Carburante. Polvere. Ruggine. Muffa. Umidità. Terra. Odore di bruciato, probabilmente causato dai freni della motrice. No, non era rilevante. Sherlock scartò l’indizio con uno scatto del capo.

Si avvicinò ai rottami del carrello, puntando la torcia sul metallo ed osservandolo bene.

Tracce di sangue, in macchioline allungate verso la coda del carrello: il conducente era morto nell’impatto e il carrello non aveva una cabina coperta, dunque era anche rimorchiatore. Probabilmente il cadavere era incassato fra i resti del mezzo di manutenzione e quelli della motrice. Lo avrebbero trovato solo rimuovendoli.

Sempre osservato da Lestrade, che taceva aspettando un responso – o qualsiasi cosa – Holmes fece retro-front e si mise a ripercorrere i binari con la torcia puntata sulle rotaie.

Con il piede, scostò la polvere sopra depositata per tutto il tragitto che fece. Nessun segno di frenata, ma non era rilevante: i binari erano talmente usati che un semplice scrostamento della patina non avrebbe potuto significare niente. Su quella linea passavano centinaia di convogli per centinaia di volte al giorno, anche se ci fossero stati segni di sorta non era detto che appartenessero per forza al carrello.

Poi, qualcosa di strano. Una scheggiatura sul binario, grigia e lucida, che sporcava i lati della rotaia ma non il centro della stessa e solo da una parte dell’effettivo binario, poiché la rotaia che correva parallela era pulita. Quella che aveva i due segni era la più esterna delle due.

Un sorrisetto gli nacque all’angolo delle labbra, ma aveva ancora pochi dati.

« Cos’hai scoperto? » chiese allora a Lestrade, guardandosi intorno ad un più ampio raggio.

L’ispettore, continuando ad osservare ogni sua minima mossa, prese fiato: « sono stato al telefono con un certo Crew, responsabile dell’ufficio centrale BCV della TfL. A quanto pare alcuni suoi tecnici lo avevano avvertito della presenza del carrello di manutenzione sulla scena, così si è fatto trovare le liste degli interventi previsti. Tra tutti i lavori in programma sulla Bakerloo non ve ne erano programmati per oggi e per questo tratto. Inoltre sono riusciti a risalire al carrello. Il numero di telaio non è visibile, ma una volta diramato l’avviso dell’incidente sono stati fatti rientrare tutti... ovviamente meno uno: questo... » e nel dirlo indicò con la mano il rottame alle loro spalle « ...e così si è venuto a sapere che oggi non doveva essere usato, perché è un carrello molto vecchio e solo il personale più anziano è in grado di manovrarlo al meglio; l’operaio che di solito usa questo macchinario, praticamente quasi in esclusiva, oggi era di riposo. È stato rintracciato ed interrogato, ma stamani era a casa con la moglie e lei conferma l’alibi; al momento dello schianto stavano riordinando la soffitta della loro abitazione » spiegò.

Improvvisamente, Sherlock si fermò. La torcia era fissa su un bozzo scuro coperto di polvere, più grande di qualsiasi sasso li circondasse e di una forma più strana di un semplice detrito.

Holmes allargò il già lieve sorriso soddisfatto che gli piegava le labbra.

« Cosa c’è ora? » domandò Lestrade avvicinandosi a lui, osservando a sua volta ciò che la luce della torcia di Sherlock stava illuminando.

« È per questo che hai sempre bisogno di me, Lestrade » si sentì in dovere di puntualizzare Holmes, tirando fuori dalla tasca il suo fazzoletto bianco di stoffa e raccogliendo il campione: « ti sfuggono i particolari, vedi ma non osservi. Essere voi dev’essere così dannatamente frustrante... » borbottò poi, riferendosi probabilmente alla “gente normale”, come soleva declassificare tutti coloro che lo circondavano – probabilmente escluse poche persone.

Greg roteò gli occhi, evitando di ribattere. Non si da mai ragione ad un pazzo. « Cos’è? » domandò allora, riportando l’attenzione sul detrito.

Che, effettivamente, un “detrito” non era propriamente.

Una volta che la coltre di polvere fu scivolata via, Lestrade si accorse che Sherlock aveva in mano un pezzo di acciaio. Era scuro, scheggiato e spigoloso, ma la sua forma originaria era comunque intuibile: aveva la forma di una pinza, o di una morsa di qualche genere, e nonostante tutto l’ispettore non aveva la minima idea di cosa si trattasse, o di quale fantomatico ago nel pagliaio avesse trovato l’altro per avere stampata in volto quell’espressione compiaciuta.

« Questo, Lestrade, è l’arma del delitto » gli rivelò Sherlock, osservando il pezzo di metallo da ogni angolazione, la luce della torcia ad illuminarne ogni millimetro.

« Arma del delitto? Ma cos...? » balbettò Lestrade, interiorizzando solamente in parte le parole di Sherlock, forse per un proprio rifiuto psicologico a far sì che fossero reali, che avessero un valore.

C’era differenza fra un incidente ed una provocata strage. E non era solamente un cavillo legale.

« Già... » continuò però il consulting detective: « non è stato un incidente ».

 

 

• The Tube; Waterloo > Enbankment, h. 12:00 am

 

In un qualche modo, era riuscito a dirglielo.

Piano, a bassa voce. Sussurrando. Quasi come se dovesse rivelarle un segreto.

Piccola Alice, la mamma è in paradiso. Piccola Alice, la mamma non si sveglierà più. Piccola Alice, devi essere forte.

John, devi essere forte.

Quante volte aveva sentito quella frase, in vita sua? (1)

Quando suo padre se ne era andato (« John, devi essere forte, ok? La mamma ti vuole bene »).

Quando sua sorella aveva cominciato a bere (« John, devi essere forte tu, perché io non lo sono... »).

Quando sua madre era morta (« Ha avuto un infarto. John, devi essere forte »).

Altri anni. Afghanistan.

Un proiettile. Un ospedale. Londra, di nuovo.

Un bastone, una ferita che faceva male, il tremore alla mano. Un’analista. “Sarà difficile riadattarsi alla vita civile”.

John, devi essere forte.

John Watson era stato forte per tutta la vita. Lo era stato talmente tanto che continuava ad esserlo senza nemmeno pensarci. Ma si era ripromesso che mai avrebbe detto a qualcun altro di essere forte.

Beh... ora sapeva quanto tempo passava a fare quello che si riprometteva di non fare.

« Piccola Alice, devi essere forte » aveva detto alla fine.

La “piccola Alice” aveva pianto per quasi un’ora. Aveva pianto fino allo stremo fra le braccia di John, avvinghiata alla sua camicia, fino ad addormentarsi, sfinita. Watson allora si era tolto il giubbotto, lo aveva steso a terra e l’aveva adagiata lì.

Nel frattempo, una volta fasciata la gamba di Joy – sempre più pallida, non aveva potuto fare a meno di notare il medico – lui e il soldato avevano spostato tutti i cadaveri – cinque in totale – sul lato opposto del vagone.

Per tenerli lontano da Alice ma, soprattutto, per dividere idealmente la vita dalla morte, lì dentro.

Ed ora, ritornati dov’erano prima, John era intento a dare un’occhiata alla spalla immobile del ragazzo.

« Fa strano non riuscire a muovere il braccio » disse quello, stringendo i denti quando John gli tolse il giubbotto mimetico, lasciandogli la maglietta verde sotto di esso. Al collo del soldato tintinnarono le medagliette con sopra nome e numero di matricola.

John le lesse per abitudine: « “Miller E.”? » domandò, forse curioso o forse desideroso di incanalare i suoi pensieri in qualcosa che non lo deprimesse. Tipo l’argomento “Sherlock”, che il suo cervello stava accuratamente evitando di prendere in considerazione.

Lui non glielo aveva mai detto, che doveva essere forte. Gli aveva semplicemente dimostrato che lo era già... e che poteva esserlo di nuovo.

« Edward » rispose allora il giovane, distraendolo, sorridendo orgoglioso: « può chiamarmi Ed, dottor...? ».

« Watson. Chiamami John, data la situazione informale » gli rispose. « Sei del Royal Regiments of Fusiliers? » domandò poi il dottore, appoggiando delicatamente le dita di entrambe le mani sulla spalla del giovane.(2)

Edward sembrò lievemente sorpreso. « Come fa a saperlo? » domandò.

Alla domanda, John si lasciò sfuggire un sorrisetto. « Capitano John Watson, 5th Northumberland Fusiliers. In congedo. Ho riconosciuto lo stemma sulla casacca » spiegò, evitando per un soffio che il giovane soldato si mettesse sull’attenti. Non sarebbe stata una mossa intelligente, con la spalla in quelle condizioni.

« Incredibile... incontrare un altro soldato in una situazione come questa. Quante volte può capitare, nella vita di una persona? » disse il giovane con un sorriso strano sulle labbra, osservando con la coda dell’occhio le mani del medico muoversi attente ed esperte sulla sua spalla, saggiando la pelle e le ossa sottostanti: « però... se lei è anche un medico, per caso è un medico militare? » domandò subito dopo, senza lasciare il tempo a John di rispondere alla prima domanda posta.

« Lo ero » confermò il dottor Watson: « prima di congedarmi, comunque » ci tenne a ripetere, nel caso all’altro fosse venuta la malsana idea di chiamarlo “capitano”.

Andava bene fingere di esserlo ancora quando Sherlock si metteva in testa di infiltrarsi in una base super segreta per chissà quale indagine, un po’ meno appropriato era farsi chiamare tale dalle nuove reclute.

Ormai era un civile, in ogni caso.

Edward sembrò capire il senso della precisazione e annuì docilmente. « Niente “capitano” » confermò con la voce.

« Grazie. Comunque hai una spalla lussata » disse John, constatando con le mani che la testa dell’omero era completamente fuori sede: « devo rimetterla a posto ed immobilizzarti il braccio » gli disse, il tono professionale.(3)

Ormai era entrato nella fase della calma, quella situazione di stallo in cui la mente non aveva ancora interiorizzato del tutto l’accaduto e aveva deciso di andare in pausa, rimandando tutto a dopo.

Facendo sedere Edward con la schiena diritta, John si alzò in piedi, tenendo il braccio dell’altro dal polso. Per la prima volta da quando si era ripreso sentì una lieve fitta al fianco destro, ma la ignorò. Con la botta che avevano preso, era sorpreso che non avesse cominciato a fargli male ogni singolo osso e muscolo del corpo.

« Tutto bene? » chiese però Edward, guardandolo dal basso.

Il dottore annuì. Gli sollevò il braccio in alto, per poi rivolgersi nuovamente a lui: « adesso ti lascerò andare il braccio, tu non devi fare forza, lascialo cadere a peso morto » disse.

« Aspetti, farà mal- AH! CRISTO! ».

A tradimento, prima ancora che il giovane potesse mettersi bene in testa le istruzioni ricevute, John aveva mollato il braccio che era ricaduto esattamente come doveva. In un suono secco, la testa dell’omero era tornata al suo posto ed il giovane soldato si era ammutolito, dolorante, dopo un urlo sentito.

« Lei, dottore... è un gran... bastardo » ansimò il ragazzo, mordendosi il labbro per trovare dentro di sé la dignità del soldato e non mettersi a gridare come una donnicciola.

John sapeva che era una manovra dolorosa, dunque era consapevole dell’autocontrollo che l’altro si stava imponendo per non sbraitare. Sorrise appena, mentre gli fasciava stretto il braccio al petto con ciò che rimaneva degli indumenti raccolti e trasformati in bende di fortuna.

In realtà, dentro di sé cominciava a scatenarsi l’irrequietudine. Non aveva la minima idea di come uscire di lì – non ci aveva ancora fatto caso, date le medicazioni urgenti da fare –, non sapeva esattamente com’era la situazione della galleria e, tanto per gradire, non sapeva nemmeno se e come avrebbe fatto a trasportare Joy fuori da quel vagone evitando che morisse dissanguata nel tentativo.

Stringendo bene il nodo della fasciatura, sospirò affranto. « Edward, cerchiamo un modo per uscire da qui... » borbottò John con tono smangiucchiato, come se fosse stato raschiato dal fondo di un cassetto impolverato dopo tanto tempo che era rimasto lì, inutilizzato.

Dalla sua posizione di immobilità, Joy li guardò fra le ciglia di un paio d’occhi socchiusi.

 

 

The Tube; Waterloo Station, h. 12:30 am

 

Nicholas Ryder aveva ventotto anni ed una laurea cum laude in ingegneria navale.

Aveva una fidanzata, un matrimonio molto prossimo, un appartamento in via d’acquisto definitivo a Notting Hill e un figlio in arrivo.

Una vita perfetta sotto molti punti di vista. Peccato che sia i suoi genitori che i suoi suoceri non la pensassero così.

Nicholas Ryder aveva ventotto anni ed una laurea cum laude in ingegneria navale, ma non faceva il mestiere per cui aveva speso soldi ed anni all’università.

Nicholas “Nick” Ryder era un Vigile del Fuoco.

I suoi genitori avevano creduto alla storia del “lavoro temporaneo per farsi le ossa” solo nei primi due anni; i suoi suoceri, invece, non avevano creduto nemmeno a quelli, intuendo fin da subito l’innegabile passione che lo aveva travolto quando era entrato a fare parte del Fire Department di Londra.

Il bello era che non aveva assolutamente intenzione di cambiare lavoro. Mai avuta nemmeno nelle due volte in cui aveva rischiato la vita in due diversi incendi, oppure quel giovedì pomeriggio in cui era rimasto sommerso quasi due minuti senza ossigeno per tirare fuori il cadavere di un poveretto dal Tamigi dopo che ci si era fiondato con l’automobile.

Quel mestiere era in grado di farlo alzare volentieri ad orari improponibili della notte a causa di un’emergenza, e ci mancava poco che andasse a dormire con l’uniforme addosso.

Dalla sua parte, fortunatamente, aveva una moglie comprensiva e di larghe vedute. Oltre che bella. Ed intelligente. Ed avvocato. Di carriera. Molto brava, tra l’altro. Una delle migliori.

Una moglie avvocato che voleva chiamare loro figlio Marcus. Marcus.

« Ti rendi conto di come passerà l’età scolastica quel bambino, se lo chiamiamo Marcus Ryder? » si lamentò con un suo collega, Dennis, camminando cautamente lungo il tunnel della metropolitana appena dopo Waterloo, ricoperto di polvere densa. L’aria, illuminata dal fascio luminoso delle loro torce, risultava ancora carica di particelle di polvere che la rendevano simile a nebbia.

La risposta dell’amico risultò gracchiante alla ricetrasmittente auricolare, e un tantino bassa a causa del casco che erano costretti ad indossare, almeno finché la polvere aleggiante nell’aria non si fosse decisa a posarsi.

« Non è un brutto nome, sai? ».

« Non lo è se hai ottant’anni e sei nato nei primi del novecento, Dennis » rispose piccato Nick, continuando a guardarsi intorno all’interno del tunnel cupo: « oppure se sei figlio di una famiglia di signorotti e passerai il resto della tua vita fra una scuola privata e l’altra, dove i tuoi compagni avranno nomi ancora più pomposi del tuo » una breve pausa, poi riprese: « beh, mi dispiace dirtelo, ma nostro figlio frequenterà la scuola pubblica, come tutti nella sua famiglia. Quindi non si chiamerà Marcus » disse, sottolineando quel nome con un tono sciorinato, quasi disgustato.

Dennis, sospirando nel microfono, roteò gli occhi. « Cos’è, eri preso di mira dai bulli da piccolo? » chiese, scherzoso solo in minima parte, più che altro cercando di farlo ragionare.

Nick non rispose.

« Allora? » incalzò Dennis.

« Portavo un paio d’occhiali a fondo di bottiglia e avevo l’apparecchio odontoiatrico. Secondo te? » domandò retorico, facendo ridacchiare l’altro che, per tutta risposta, gli ricordò di essere diventato un bel pezzo di figliolo, nonostante da piccolo potesse anche essere un quattrocchi con il sorriso d’acciaio.

« Mi fai arrossire se dici così » lo sfotté lui, fermandosi però di botto non appena nella sua visuale rientrò il primo cadavere della giornata. Le lamiere non erano nemmeno ancora in vista, il che significava che quel corpo era uno di quelli sbalzati fuori dal convoglio.

Sempre se di “corpo” si potesse parlare, considerato lo stato in cui versava.

Nick arricciò appena il naso, schiarendosi poi la voce. « Dennis, torna indietro e dì agli altri di scendere con i sacchi neri. Non è pericoloso, io posso continuare per conto mio » disse al collega.

« Nick, lo sai che la procedura... »

« Come se la seguissimo sempre alla lettera! » esclamò, sospirando piano all’evidente testardaggine del compare, che non accennava a tornare sui suoi passi.

« Senti Dennis, questa volta non è per dimostrare a me stesso di potercela fare... » cominciò, guardandolo negli occhi attraverso il vetro della maschera: « questa volta sono a capo del plotone di ricerca. Sono sceso per constatare i danni e per poter coordinare meglio la squadra, motivo per cui ti sto mandando a chiamarla. Non è una violazione del regolamento, è un semplice risparmio di tempo. Vorrei davvero poter trovare qualcuno che non sia conciato così » e, così dicendo, indicò con la mano sinistra il cadavere poco distante.

Dennis, osservandolo torvo, annuì. « Vado a chiamare gli altri, tu non metterti nei guai » lo redarguì prima di girarsi e dirigersi verso la banchina della stazione, ormai scomparsa nel buio. I neon del tunnel erano stati fatti fuori dall’impatto, ma erano stati sostituiti dai tecnici scesi precedentemente, nel tentativo di capire cosa fosse successo, con lampade alogene che creavano una luce ovattata ma poco utile.

Sospirando, andò avanti.

Nella sua camminata verso il treno deragliato segnò la posizione di ogni cadavere – o presunto tale, o pezzo dello stesso – che trovò, segnalandolo con un cartellino di plastica giallo. I ragazzi della squadra avrebbero fatto il resto. Durante la camminata, tra l’altro, la polvere sembrò posarsi e poté finalmente togliersi la maschera.

L’odore forte di terra e calcinaccio gli aggredì subito le narici, ma l’aria gli parve respirabile.

Finalmente, dopo quella che sembrò un’eternità, arrivò alla carcassa di ferro e metallo. Gli ultimi vagoni erano completamente rovesciati, ma non sembravano troppo malconci; erano i successivi ad essere racchiusi in un groviglio di metallo ed alcuni persino posizionati gli uni sugli altri.

Sospirò di nuovo, chiudendo gli occhi per in istante. « Dennis? » chiamò nella ricetrasmittente.

« Sì? » gracchiò il collega dall’altro lato.

« Cerca volontari, chiunque voglia venire. Qualche agente della Met(4) o qualcuno che vuole sentirsi santo martire redentore per una giornata. Qui sotto servono staffette veloci, persone in grado di trasportare barelle a mano e... tenaglie. E seghe circolari » disse.

« Niente seghe elettriche? » chiese l’amico dalla radio, Nick scosse la testa.

« Meglio essere accurati, non siamo boscaioli del Nebraska » commentò semplicemente, ricevendo l’ok pochi istanti dopo.

Deglutendo a vuoto, e preparandosi al il peggior lavoro d’estrazione superstiti che aveva l’onore di affrontare da quanto faceva il pompiere, si fece mentalmente il segno della croce.

 

 

• The Tube; Enbankment Station, h. 13:00 pm

 

Ritornando finalmente sulle banchine della stazione di Enbakment, dopo un’ora intera passata a controllare ogni singolo centimetro della galleria nel tragitto di ritorno, Sherlock e Lestrade si precipitarono a passo svelto verso l’ufficio movimento, situato all’inizio della scalinata accanto alla biglietteria.

Sopra quelle scale la luce del sole fu abbagliante e per un attimo Greg dovette chiudere gli occhi. Solo alla richiesta verbale di Sherlock di seguirlo – Lestrade era sicuro che, per un attimo solamente, Sherlock stesse per chiamarlo “John” – si sforzò di aprire gli occhi ed entrò per primo.

« Detective Inspector Lestrade, omicidi, Scotland Yard » si presentò, mostrando il distintivo alle tre persone all’interno, indaffarate come matte a controllare un tabellone a muro con tutti i movimenti ferroviari della linea controllata dalla BCV.

Probabilmente stavano dirottando i vari treni su altre linee, cercando di rimediare agli ingorghi e ai ritardi che, indubbiamente, l’incidente aveva scatenato su tutta l’Underground.

Uno dei tre, quello più anziano, si presentò: « Joseph Moore, responsabile d’ufficio. Loro sono Bill e Marlene, i miei collaboratori. In cosa posso aiutarla, ispettore? » domandò cordiale, ben disposto.

Greg stava per rispondere, ma Sherlock lo anticipò: « un computer » disse, con sorrisetto lieve ad inclinargli l’angolo delle labbra; il ghigno della vittoria, avrebbe detto Lestrade: « e il collegamento alla lista di tutti gli impiegati della società che hanno lavorato su questa linea dal 1998 in poi. Suppongo che vi possiate collegare con l’ufficio centrale da qui, vero? » domandò, come se fosse in quel campo da tutta una vita e sapesse i segreti di tutti i sistemi informatici usati alla Trasport for London.

Ma ormai Lestrade non si stupiva più di nulla, quindi si limitò ad annuire con il capo allo sguardo confuso di Joseph, lasciando a Sherlock carta bianca. Come al solito.

Una volta seduto al terminale, Holmes cominciò a navigare all’interno del sistema, cercando rapidamente tutto ciò che gli serviva. Si fece dare il numero di identificazione e la password da Joseph, che glieli consegnò senza troppe reticenze, potendo così entrare anche nelle aree riservate al solo personale. In poco tempo, l’intera lista degli impiegati era aperta davanti a lui che la scorreva velocemente, con la rotella di scorrimento del mouse, gli occhi che saettavano velocemente sul foglio elettronico.

« Posso finalmente entrare a far parte del ragionamento, Sherlock? » chiese dunque Greg, appoggiandosi con le mani allo schienale della poltrona su cui si era accomodato il consulting detective.

Quello, senza staccare gli occhi dalla lista di nomi, prese a parlargli. La maggior parte delle persone non contemplava di riuscire a fare due cose in una volta senza perdere la concentrazione, ma Sherlock Holmes doveva avere tanta di quella materia grigia, che dedicarne una piccola parte all’esposizione di un suo ragionamento non doveva invalidare poi molto quella rimanente, impegnata in altro.

« Hai sentito quando ti ho detto che non è stato un incidente, vero? » chiese Sherlock.

Lestrade annuì. « Fin lì ci sono » disse l’ispettore: « perché lo pensi? » domandò.

« Ma perché è naturale, Jo- Lestrade » si corresse subito, facendo scattare brevemente la testa come per auto correggersi; a Greg venne quasi da ridere. Era palese che un’altra piccola parte del suo cervello, probabilmente infinitesimale ma comunque esistente, stava ancora rimuginando sul litigio avuto con John.

Era affascinante vedere che Sherlock Holmes poteva avere dei sentimenti, da qualche parte, in tutto quell’agglomerato di riccioli ed intelligenza.

« Lestrade, non ti distrarre » venne ripreso dal genio, e questa volta fu lui a scuotere la testa.

Negare era inutile. « Sì, scusa. Continua » disse.

« Ricorda i rottami, fissali nella mente. Scontro netto. Il carrello per la manutenzione è completamente incassato nella motrice, al centro dell’arcata della galleria stessa se si guarda il tutto da una prospettiva spaziale d’insieme. Sappiamo che il treno andava in direzione Paddington, dunque doveva trovarsi sul binario di sinistra per noi che veniamo da Embankment, e dato che è palese che lo scontro è stato frontale, vuol dire che il carrello correva sul binario opposto. Ma allora perché si trova lì, in una posizione così centrale? » domandò, probabilmente più retorico che altro.

Lestrade cercò di figurarsi ciò che aveva visto, di ricordarselo pezzo per pezzo.

Le parole “scontro netto” rimbombarono nella testa di Greg per qualche momento, e quelle che gli uscirono dalla bocca furono logica deduzione del pensiero che ne era nato: « è deragliato. Il carrello, intendo. Prima del treno, il cui deragliamento forse è una diretta conseguenza » disse.

Sherlock mosse l’angolo della bocca. « Quasi » disse però, riprendendo subito parola: « in effetti è deragliato, ma non per disgrazia.  E se avesse cercato di frenare, di rallentare la corsa almeno un po’, non sarebbe in una posizione così centrale e soprattutto così dritta. Il carrello era praticamente diritto, quando lo abbiamo visto. No, quel carrello non ha frenato. Ovviamente non possiamo cercare segni di frenata su binari così logori dal continuo passaggio di svariati treni ogni giorno, ma c’è qualcos’altro che i binari ci dicono... »  lasciò cadere, passando la parola a Lestrade.

Era così che John si sentiva, quando doveva ascoltare le deduzioni di Holmes? Sempre interrogato, sempre costretto a tenere il filo di quelle parole tutte appiccicate l’una all’altra, fornendo all’altro risposte a cui già era arrivato solo per il gusto di farlo divertire? Era deprimente. Anzi, era seccante.

Ma se da una parte era irritato da quel comportamento, dall’altra si sentiva incredulo da quanto il coinvolgimento nel ragionamento di Sherlock lo facesse sentire, a sua volta, intelligente sopra la media.

Come se l’intelligenza astrusa di Sherlock Holmes potesse uscire per osmosi tramite le sue parole e filtrare nell’interlocutore che lo ascoltava.

Tuttavia, quella volta non riusciva a trovare la risposta alla domanda postagli. « Emh... » esitò; troppo, Sherlock riprese la parola come se stessero giocando a palla avvelenata.

« Ci dicono il contrario, Lestrade. Ci dicono che non ha tentato di frenare » gli disse, trovando al contempo un nome interessante ed aprendo sullo schermo la scheda personale del soggetto in questione. Face un cenno negativo con il capo, poi la richiuse.

Greg ebbe un flash. « Il pezzo di ferro che hai raccolto! » esclamò, colto a una folgorazione improvvisa.

Holmes annuì. « È un frammento di un meccanismo a forma di pinza comunemente detto “deragliatore portatile”; solitamente ne vengono applicati molti in sequenza. Sollevano la ruota di un treno dal binario permettendogli di deragliare abbastanza dolcemente, inclinandosi sul fianco opposto a dove è stato posizionato. Ora, ovviamente quelli vengono usati per treni molto più pesanti di un carrello di manutenzione, che per deragliare in quel modo potrebbe tranquillamente farsi bastare un solo deragliatore. Però sono usati più che altro per la Upperground(5), perché un deragliamento di quel tipo nella Underground causerebbe danni alle gallerie. Dunque cosa ci faceva un deragliatore qui sotto? » chiese, e questa volta Lestrade continuò senza il bisogno di ottenere la parola.

« Ce lo ha portato il colpevole. Lo ha posizionato nel punto giusto e nel momento in cui sapeva che non sarebbero passati treni per Lambeth, poi ha preso il carrello di manutenzione e si è diretto nella stessa direzione mentre passava il treno per Paddington, facendosi deragliare appositamente per provocare l’incidente » un istante di silenzio, un pensiero in mente: « ...mi stai dicendo che si è suicidato? » domandò l’ispettore, traendo le logiche conclusioni.

« Temo che un suicida non sia giuridicamente imputabile per provocata strage, giusto? » tentò di ironizzare Sherlock, ghignando soddisfatto quando trovò quello che cercava. « Ma torniamo a noi, Lestrade. Ora che sappiamo cos’è successo, chi andiamo a cercare? A chi attribuiamo la colpa? » domandò allora, girando questa volta il viso in direzione del poliziotto, guardandolo.

Fu però Joseph, che sia Lestrade che Holmes avevano completamente rimosso dalla stanza, a prendere parola: « incredibile... » disse, guardando Sherlock con la bocca aperta: « ma lei... ha lavorato nelle ferrovie, per sapere tutte queste cose? » domandò stupito, continuando a fissarlo.

Sherlock si dimostrò abbastanza seccato per l’interruzione e preferì non rispondere se non con un’occhiata truce. Greg intervenne a salvare la situazione.

« Quel Crew ha detto... » cominciò « ...che il carrello utilizzato era un modello vecchio, che pochi sapevano guidare al meglio. Probabilmente lo facevano portare solo ai membri più anziani... » ipotizzò, guardando il signor Joseph per trovare conferma delle sue teorie.

Quello annuì. « Ai giovani non viene nemmeno più insegnato come usare quei carrelli. Sono in lista per la rottamazione non appena smetteranno di funzionare. Solamente i dipendenti assunti prima del 1998 hanno il permetto di usarli » confermò.

Sherlock sembrò soddisfatto, e Greg ne fu stranamente sollevato. In realtà avrebbe dovuto sentirsi preso per i fondelli, e se ne rendeva perfettamente conto, ma come ogni volta era più concentrato su cosa potesse imparare dalle esperienze trascorse con Holmes che da quanto in ridicolo lo poneva ogni santa volta che risolveva un caso in un modo così incredibile.

Il consulting detective riprese parola: « dipendenti assunti prima del 1998, con un passato nella manutenzione o una carriera passata esclusivamente in quella posizione, che potessero essere presenti sulla scena del crimine senza destare sospetti. Movente: perché provocare una strage? Le statistiche ci dicono che la risposta è, la maggior parte delle volte, “vendetta”. Dunque, dipendenti che avevano un motivo per avercela con la TfL. Si potrebbe anche prendere in considerazione un conto in sospeso con qualcuno sul treno, ma non lo avrebbero fatto deragliare tralasciando in toto la possibilità che potesse sopravvivere all’impatto, lo avrebbero semplicemente ucciso altrove. Dunque no, doveva essere un dipendente scontento. Magari... » e dicendo queste parole, indicò lo schermo del computer: « ...qualcuno che ha passato vent’anni a mantenere attiva la Bakerloo Line e che si vede licenziato in tronco a causa di un richiamo disciplinare per negligenza, cosa che ovviamente non aveva commesso, considerando che non ha timbrato il cartellino in ritardo neanche una volta in vent’anni. Magari una persona con la moglie malata di Alzheimer e due figli a cui badare, dunque che vive in base al proprio stipendio e al quale una macchia di quel genere nel resoconto professionale avrebbe impedito di trovare qualsiasi altro impiego nel ramo » spiegò, lineare e veloce come una saetta, attaccando le parole una all’altra.

Lestrade osservò la foto di un uomo dalla faccia onesta sullo schermo del computer, con gli occhi sinceri e tristi ed un paio di baffi ingrigiti dall’età. Paul Coleman - così si chiamava - era quello che Lestrade avrebbe chiamato “un povero diavolo”; e lui sapeva riconoscerli a vista, solo dallo sguardo. Quelle persone con le quali la vita è profondamente ingiusta ma che non farebbero del male ad una mosca.

Doveva proprio avercela con il mondo, quel povero diavolo.

Sospirando, prese nota del nome e dei famigliari: « manderò qualcuno a parlare con i figli » disse; poi, rivolgendosi a Sherlock, lo guardò negli occhi. « Grazie... di nuovo » sospirò l’ispettore, voltandosi ed incamminandosi verso l’esterno.

« Quando vuoi, ispettore » gli rispose Holmes, alzandosi a sua volta.

Ma prima che potesse guadagnare a sua volta l’uscita – e togliersi tutta quella polvere dal cappotto – Joseph lo fermò.

« Scusi, ma... come fa a dire che è stato proprio Paul? I dipendenti assunti prima del 1998 sono decine... » soffiò.

Nome proprio, nessun “signor”, tono dispiaciuto. Lo conosceva. Probabilmente anche bene.

Sherlock sospirò. Lo riteneva una ripetizione dell’ovvio, ma volle per lo meno fornire quell’ultimo particolare. « Sono decine in tutta la rete. Su di una linea specifica sono di meno, dieci in tutto forse, in questo caso solamente otto. Non sono molti quelli che rimangono a lavorare nell’Underground per tutta la vita, la maggior parte sono giovani in attesa di altro impiego o persone che sono state licenziate dopo la crisi, dunque negli ultimi cinque anni. Nel nostro caso, degli otto rintracciati dal sistema due sono di turno sulla Central Line, due sono attualmente al piano superiore e sono già stati interrogati, due sono stati promossi e hanno ottenuto un posto in ufficio e uno ha il giorno di riposo, anch’egli scagionato. Uno solo è stato licenziato, uno solo aveva il movente e la possibilità di passare inosservato. Paul Coleman » disse, non attendendo risposte di sorta prima di incamminarsi a sua volta verso l’esterno.

Salì le scale velocemente, notando non appena uscito all’aria aperta che Lestrade stava già parlando con una pattuglia di agenti della Mef. In lontananza, le sirene delle ambulanze giunte a Waterloo, dall’altra parte del ponte, riempivano l’aria risuonando fra i grattacieli della City.

Solo allora, quando la soddisfazione di un caso risolto gli riempì l’animo di realizzazione personale – che sarebbe stata presto sostituita dalla noia, probabilmente appena sarebbe tornato a Baker Street – si ricordò del messaggio di John.

Sapeva cosa c’era scritto, ma non era una scusa per non leggerlo.

Infilando la mano nella tasca del cappotto, estrasse il cellulare e sbloccò lo schermo, visualizzando il testo dell’sms.

C’è un momento nella vita di ogni persona in cui il fiato semplicemente viene a mancare.

Apnea, questo è il termine tecnico. E non accade solo quando si è sottacqua; può succedere in ogni momento, anche camminando per strada, oppure leggendo un libro particolarmente triste o intrigante.

È comunque segno di una potente reazione emotiva. Solitamente, sorpresa. Più spesso, paura.

Teneva in mano quel cellulare e gli sembrava, voleva, che non fosse reale. Che quel messaggio non esistesse, che fosse tutto un errore, una bugia, un modo per spaventarlo, per vendicarsi, per fargliela pagare. Non seppe esattamente quale parte di sé, se il cervello o il cuore che teoricamente non doveva avere, cominciò per prima a pregare. Irrazionalmente. Quasi ipocritamente.

L’ora non lasciava dubbi. Era una prova. “Ricevuto alle ore 09:31 del 03 Marzo”.

Lo rilesse.

Mi dispiace per prima. Sono a Lambeth, nessun taxi, prendo la metro. Ci vediamo dopo. – John.

I battiti del suo cuore aumentarono senza che potesse controllarli. Senza che ci provasse, a farlo.

“... Sono a Lambeth, nessun taxi, prendo la metro...

Trattenne nuovamente il fiato.

... prendo la metro...

Il cervello accettò quello che il cuore, infantile e ancora troppo immaturo, rifiutò.

Là sotto. Era là sotto.

John. Il suo John. Non uno dei tanti John di Londra e del Regno Unito, no. Il suo John.

Aprì la bocca per parlare, ma inizialmente gli uscì solo un rantolo soffocato. Teneva le iridi azzurre piantate sullo schermo del telefonino, incredulo, fisse sulle parole “prendo la metro” come se cercasse di farle scomparire o sostituirle con un più innocuo “prendo l’autobus” oppure “vado a piedi”.

« Les... tr... » cercò di parlare nuovamente, immerso forse nel primo, vero attacco di panico mai avuto in vita sua.

La sua voce era viscida come lava e dura come cemento. Non voleva uscire dalla gola. Non voleva.

La forzò.

« Lestrade... » sussurrò.

John... rantolò la sua mente.

« Lestrade » disse.

John.

« Lestrade! » esclamò.

John!

« LESTRADE! » urlò.

JOHN!

 

L’ispettore, sentendo il suo nome urlato in quel modo improbabile, si girò di scatto verso la fonte di quella voce. Si stupì nel constatare che fosse stato Sherlock ad urlare, ma ancora di più rimase interdetto dall’espressione che aveva addosso il detective privato.

Pallido, respirava in fretta. Sembrava agitato, forse... forse spaventato.

Inutile dire che si agitò a sua volta, avvicinandosi cauto. « Cosa c’è? » gli chiese.

Mai Gregory Lestrade aveva visto, negli anni in cui aveva avuto l’occasione di frequentare Sherlock Holmes, gli occhi dell’altro completamente immersi in un silenzioso terrore. Un’inquietudine posata, incarcerata solo in quelle iridi chiare, ma non meno terrificante.

A quel punto, Lestrade ebbe tutto il diritto di agitarsi a sua volta. « Sherlock, cosa ti succede? » domandò, appoggiandogli una mano sulla spalla, quasi come faceva con i parenti delle vittime con cui immancabilmente doveva parlare per portare avanti le indagini.

Holmes, senza parlare, gli passò il cellulare.

Lo stesso, silenzioso panico si impresse, qualche attimo dopo, anche negli occhi di Gregory Lestrade.

 

 

~ to be continued...

 

 

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1. Io non so niente del passato del caro Jawn, però mi accodo a qualche altra fanfic che ho letto in giro in cui il padre si è dato alla macchia quand'era piccolo, mentre la madre è morta poco prima della sua laurea. Chiamatela licenza poetica.

 

2. Il 5th Northumberland Fusiliers - il reggimento di John - ormai non è più da considerarsi individualmente; è stato infatti riunito, insieme agli altri 3 reggimenti di fucilieri (Royal Warwickshire Fusiliers, Lancashire Fusiliers e Royal Fusiliers - City of London Regiment), sotto un unico battaglione, ovvero il Royal Regiment of Fusiliers.Questo è avvenuto negli anni sessanta, tipo, e John non poteva proprio essere già un militare all'epoca... ma nonostante tutto nel telefilm viene salutato come ex-appartenente a quel battaglione ("A Scandal in Belgravia", puntata 2x01, mentre sono a Buckingham Palace).

Sinceramente non ho spolpato tutta la storia della British Army dunque, supponendo che Moffat e Gatiss ne sappiano più di me, prendo per scontato che nonostante siano tutti nello stesso battaglione la denominazione dei vecchi reggimenti sia comunque ancora in uso.

 

3. La testa dell'omero è la parte finale dell'omonimo osso, ovvero la parte superiore del braccio. Ha la forma sferica, levigato, ed è quello che - insieme a qualche legamento – forma la spalla e permette alle nostre braccia di compiere archi di 180 gradi. Nel caso in cui la spalla si lussi, cosa che capita spesso agli sportivi e/o in seguito a traumi, la testa dell'omero esce fuori sede (chiamata cavità glenoidea) e la persona diviene del tutto incapace di muovere il braccio.

 

4. "Met" è come gli inglesi chiamano la Polizia Metropolitana.

 

5. Probabilmente l'ho già detto, ma mi dicono che ripetere non fa mai male. Viene chiamata "Underground" la linea metropolitana di Londra, che passa nel sottosuolo; di conseguenza, la "Upperground" è l'insieme di tutte le linee londinesi ferroviarie di superficie.

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Capitolo 3
*** Venerdì 3 Marzo - parte 3 ***


Note: ok... come dire. Teoricamente doveva essere un capitolo unico, ma mi sono accorta che divento molto prolissa, così ho deciso di spezzarlo. Ormai sarete stanchi di sentirlo, ma ci posso fare poco, purtroppo XD non voglio postare papiri infiniti di venti pagine, preferisco fare le cose con la dovuta calma.

Solo, la fic verrà un po’ più lunga del previsto.

 

Capitolo un po’ di passaggio, in realtà; si fa abbastanza significativo solo sul finale, praticamente.

Appena l’avrò finita, passerò al fluff selvaggio. Lo giuro.

 

A chi vuole leggere, buona lettura

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Venerdì 3 Marzo – parte 3

 

 

 

The Tube; Waterloo > Enbankment, h. 12:45 am

 

« Ok, riproviamoci... » disse John, la camicia sudata ed il respiro pesante, tenendo sollevato un tubo di acciaio tinto di marrone faticosamente sradicato dal pavimento del vagone.

Edward, tenendolo fermo alla sua estremità con l’unico braccio che poteva ancora muovere, annuì deciso. Anche John annuì in risposta, tendendo i muscoli, pronto a far impattare l’estremità libera del tubo per l’ennesima volta contro il vetro dell’unico finestrino non ostruito.

« Uno, due... tre! » contò ad alta voce il medico, caricando l’ennesimo colpo sincronizzato. Alice si tappò le orecchie con le mani, come le era stato detto, mentre Joy osservava la scena in silenzio, trattenendosi dal commentare.

Finalmente, dopo svariati tentativi falliti, il vetro si incrinò in una ragnatela di crepe. A quel punto bastò un calcio bene assestato da parte di John a mandarlo in frantumi.

Immediatamente, il vagone di riempì con una ventata d’aria calda odorante di polvere. Joy ed Alice si portarono istintivamente le mani al naso mentre Edward, palesemente dolorante nonostante avesse il braccio completamente immobile e legato al petto, si limitò a storcerlo.

John, al contrario, non si fece impressionare. In tutta la sua vita, complice il mestiere e il tempo passato al fronte, aveva sentito odori molto peggiori.

Senza aspettare prese il suo maglione, quello che si era tolto subito dopo aver ripreso conoscenza, e se lo arrotolò sulla mano destra. Con essa colpì poi i frammenti di vetro ancora attaccati alla guarnizione di plastica del finestrino, creando così l’opportunità di passarci attraverso senza ferirsi.

Si tolse il maglione dalla mano poi, inginocchiatosi su una fila di sedili, appoggiò le mani sul davanzale e si sporse.

Osservò. Poi imprecò mentalmente e sbuffò.

Purtroppo non aveva avuto fortuna. Non vedeva bene cosa ci fosse sopra di lui, ma il muro della galleria era a meno di un metro dalla fiancata del loro vagone. Avevano infranto il vetro dalla parte sbagliata oppure, in ogni caso, il loro fianco libero non era in realtà così libero, dato che era a ridosso della parete del tunnel.

« Cosa vede? » chiese allora Ed, avvicinandosi di qualche passo. Nessuno osava parlare, in quel momento: erano tutti in attesa di una qualche frase da parte di John, meglio ancora se portava buone notizie, o comunque un frammento di speranza in più.

John non rispose subito, alzando gli occhi verso l’alto.

« Non vedo niente... » sussurrò, voltandosi a guardare Edward: « mi serve una pila, qualcosa per fare luce » disse.

Il giovane soldato sembrò pensarci sopra per un attimo, ma la risposta venne dalla ragazza poco distante, ancora appoggiata con la schiena alla parete e le gamba immobile. « Le mie chiavi di casa » disse: « appese al passante dei jeans. C’è una mini-torcia a led attaccata ».

Edward annuì, avvicinandosi a lei ed inginocchiandosi al suo fianco. Facendo la massima attenzione a non toccare nient’altro se non le chiavi, le staccò delicatamente dal passante dei jeans, ringraziando Joy e passando il mazzo al medico.

« Ehi, non le perda! » disse poi la ragazza, esibendosi in un sorrisetto sornione: « altrimenti mi toccherà farmi aprire la porta dal fabbro » ironizzò.

Ottimista da parte sua, pensare che avrebbe rivisto casa sua. Presupponeva che fossero riusciti ad uscire di lì.

John, già seduto sul finestrino, inclinò verso l’alto l’angolo della bocca. « Farò del mio meglio per farti risparmiare questa spesa inutile » scherzò a sua volta. Anche Ed, nonostante fosse teso come una corda di violino, si lasciò sfuggire un sorriso.

Meglio. La tensione stava pian piano scendendo. Non sarebbe stata una cosa malvagia se si fossero calmati un po’ tutti, là dentro.

Sfortunatamente, quelle mini-lampadine non erano fornite di un pulsante normale, ma di uno a pressione: in altre parole, se si voleva tenere accesa la luce bisognava tenerlo premuto.

Watson puntò la torcia in alto, cercando di valutare quanto stretto era il passaggio. Andare ai fianchi era improponibile: da una parte il vagone si era completamente accartocciato contro la parete mentre dall’altra si vedevano solo macerie. L’unica via, era verso l’alto.

La notizia buona, era che vedeva il soffitto della galleria – o comunque la sua curva – quella cattiva, era che sembrava esserci qualcos’altro sopra di loro... e la cosa non lo lasciò fiducioso.

Sospirando, si mise la torcia in bocca in modo che il labbro superiore tenesse sempre premuto il pulsante di accensione del led e, assicurandosi bene con le mani in appoggio al metallo, si alzò in piedi e cominciò a strisciare nell’intercapedine fra il muro ed il vagone.

Gli bastò mettersi totalmente in piedi sul finestrino rotto, però, per capire la situazione.

Sopra di loro, posizionato con le ruote per aria e per metà completamente schiacciato, c’era un altro vagone. Non riusciva a capire se dentro di esso ci fossero sopravvissuti, dato che, contrariamente al loro, era del tutto buio, ma quando illuminò con la luce uno dei finestrini lo trovò completamente tinto di sangue.

Decise di lasciar perdere la ricerca di superstiti. Sempre tenendosi bene, però, si diede un’occhiata intorno.

Si rese presto conto che tentare la scalata anche del secondo vagone era inutile, oltre che impraticabile; un vagone sopra l’altro, per quanto danneggiati e distorti dall’impatto, bastavano per riempire tutta la galleria fino alla sommità. Alice forse ci sarebbe anche riuscita, ma non aveva la minima idea di cosa ci fosse là sopra e di certo non voleva prendersi la responsabilità di lasciare quella bambina da sola. Lui sarebbe riuscito a salire, probabilmente, ma Joy? Non poteva rimanere senza un medico, ed Edward non sarebbe riuscito ad arrampicarsi su quel muro con una spalla lussata.

No. La cosa migliore da fare era non muoversi proprio. Aspettare i soccorsi. Almeno un altro po’.

Sperare nei soccorsi, almeno un altro po’.

Appoggiandosi con la schiena al muro dietro di lui, un po’ più vicino lì sopra rispetto al livello del finestrino, espirò tutta l’aria che aveva nei polmoni, rassegnato.

Sentì dolore. Improvviso, pungente. Al fianco destro, come poco prima, ma questa volta più forte, più sordo.

E durò un po’ più a lungo; un minuto interminabile in cui non fu in grado di respirare se non a piccoli tocchi, prendendo fra le labbra sottilissimi rigagnoli d’aria.

Poi, tutto tornò normale. Improvvisamente, così com’era cominciato.

Anche se, quella cosa, normale non lo era per niente.

Assicurandosi di essere bene appoggiato con la schiena al muro, in modo da non rischiare di cadere, si sollevò camicia e maglietta scoprendo il ventre. Si puntò addosso la torcia e, con suo enorme fastidio, notò qualcosa che non avrebbe dovuto proprio essere lì.

Un livido. Una macchia violacea molto estesa, che partiva dall’ombelico e spariva sotto la cintura dei pantaloni.

Slacciò anche quelli, tenendo la torcia nuovamente con la bocca. Una volta che si fu districato con fibbia e bottone, scostò il lembo di stoffa e guardò meglio; il livido gli prendeva una parte del ventre, quella destra, fino all’anca.

Chiuse gli occhi per un secondo, deglutendo. Poi, piano, vi appoggiò sopra le dita della mano destra, premendo delicatamente.

Sentiva un dolore lieve, fin quasi normale considerando che era stato ripetutamente frullato dentro un vagone di ferro ed acciaio. Ma non era quello che lo preoccupava.

Avrebbe preferito sentire un dolore immenso, ma almeno gli avrebbe detto che quella chiazza violacea sul suo addome era frutto di un trauma, dunque era solo un maledettissimo e comunissimo livido da impatto.

Invece no. Perché il livido c’era ma la pelle, i muscoli e le ossa del bacino non gli facevano male. Non più del dovuto, almeno.

Il che voleva dire che quel sangue, quello che andava a formare l’ematoma, veniva da un’altra parte.

« Merda... » borbottò a bassa voce, resistendo alla tentazione di sbattere un pugno contro il vagone che aveva di fronte.

Era troppo bello esserne uscito quasi del tutto illeso. Troppo bello per essere vero. Aveva calcolato possibili ossa incrinate di cui non sentiva ancora il dolore, o stiramenti muscolari, o persino forti traumi da impatto... ma quella era l’ultima cosa che si aspettava.

Non la peggiore che poteva capitargli, ma di sicuro non era paragonabile ad una salutare passeggiata.

« Dottor Watson! » chiamò Edward da sotto di lui: « cosa vede? C’è una via d’uscita? » domandò.

John, richiudendosi i pantaloni ed insaccando in essi la maglietta (ma non la camicia), scese piano verso il finestrino, rientrando di nuovo nel vagone occupato dagli altri tre superstiti.

Guardò le loro espressioni angosciate, le loro ferite. Guardò la gamba di Joy, la fasciatura di Edward, gli occhi di Alice.

Soprattutto gli occhi di Alice, spaventati e persi, tuttavia fissi sui suoi, in attesa.

Capì che non poteva deludere le loro aspettative.

« Siamo bloccati... » disse infine dopo qualche istante di silenzio: « o meglio, sopra di noi c’è un altro vagone, rovesciato. Ho provato a puntare la torcia dentro ma... non credo che ci siano sopravvissuti. Non ho sentito nessuno muoversi. E comunque dubito che riusciremo ad arrampicarci » disse, cercando di mantenere la sua voce il più ferma e composta possibile.

Edward, Joy ed Alice lo guardarono amareggiati.

« Possiamo sempre provare, però... » constatò Edward, sorpassandolo in due grandi falcate per andare a vedere personalmente il buio della galleria sopra di loro: « magari non è poi così alto, e con un po’ di aiuto... »

« No, non possiamo » lo interruppe però John, girandosi a guardarlo negli occhi mentre pronunciava quelle parole: « tu non riusciresti ad arrampicarti con quella spalla, Alice è troppo piccola e Joy non può nemmeno alzarsi in piedi. Per quanto riguarda me, io rimarrei qui con lei, non posso lasciarla indietro nelle sue condizioni » spiegò velocemente, riassumendo in poche parole qual’era effettivamente il punto della situazione.

Joy non disse nulla, ma un lampo di terrore le era passato negli occhi stanchi al pensiero di rimanere da sola in quel posto.

Calò il silenzio. Solamente il rumore dei loro respiri fu udibile, per un po’ di tempo, prima che Edward prese nuovamente parola: « suppongo non ci resti altro da fare se non aspettare... » disse, lasciando cadere il discorso nell’ovvietà.

John annuì.

 

 

• The Tube; Waterloo Station, h. 13:15 pm

 

Auto della polizia, interni in tessuto grigio scuro. Tappetini consunti: era attempata. Ventola che fischia dalla parte del passeggero: ha viaggiato in mezzo alla polvere, forse in una zona di campagna, forse in periferia. Volante, sicure, cinture di sicurezza, tasti della radio, pulsanti per l’abbassamento automatico dei finestrini, tutto ciò che mano umana potesse toccare, tutto sporco d’unto: i poliziotti – due – che la guidavano abitudinariamente pranzavano seduti in macchina, probabilmente con fish & chips, molto spesso con kebab e pepsi (ve ne erano macchie sull’angolo in basso a destra del tappetino dell’autista). Il sedile del passeggero aveva segni bianchi sul poggia schiena e piccole grinze sul rivestimento ai lati del sedile: era più grasso del collega al volante e sudava molto. Ritenzione idrica. Perdita massiccia di sali minerali. Probabilmente gli avrebbe consigliato almeno degli esami del sangue. O di farsi vedere da un medico.

John.

Scosse il capo con forza.

Ancora. Ancora. Cos’altro c’era da notare?

Lestrade. Lestrade indossava la stessa cravatta blu a righe bianche sottili da quattro giorni. Il colletto della camicia spiegazzato. L’impermeabile sporco di polvere, probabilmente calcinaccio, sulla spalla destra. Le scarpe sporche sulla punta evidenziavano che piegava i piedi sotto la sedia quando stava seduto, le poche pieghe sulla parte superiore delle stesse suggeriva però che fossero abbastanza nuove. Sicuramente di cattivo gusto. Capelli tagliati da poco, sistemati bene, di certo non un lavoro da moglie, più un lavoro da barbiere. A colazione aveva mangiato un panino e bevuto un cappuccino di Starbucks, a giudicare dalla briciola di pane incastrata nell’asola del polsino e l’odore di caffè scadente che si era portato addosso per tutto il giorno. Risultato finale: scapolo. Definitivamente, a quanto sembrava. Finalmente, avrebbero detto molti.

Anche John.

Serrando la bocca, questa volta chiuse gli occhi di scatto.

Sciocchezze, tutte sciocchezze. Cose che sapeva già. Cose che aveva già visto, già intuito ore prima. Ripetizione dell’ovvio.

Caos.

Nella sua mente, se non pensava subito a qualcos’altro. Se non deduceva, se non osservava, se non estrapolava quelle piccole sottigliezze a volte fondamentali, altre semplicemente ridondanti ed inutili, altre ancora completamente ininfluenti.

Il fatto che Lestrade fosse finalmente scapolo non avrebbe riportato John in superficie. Sapere che il posto che stava occupando in quel momento, seduto in macchina, Lestrade al volante, era quello di un ciccione assuefatto di finger food non li avrebbe fatti arrivare più velocemente dall’altra parte del ponte.

Ma era ordine. Era ordine autoimposto nel caos dentro di sé.

I suoi pensieri erano fuori controllo. Volavano ad immagini impossibili, congetture pessimiste, possibilità remote che non voleva prendere nemmeno in considerazione.

Come il pensiero che John fosse già morto. La visione di un paio di paramedici senza volto che trasportano su dalle scale di Waterloo il suo cadavere su di una barella sotto un lenzuolo bianco, o dentro ad un sacco nero di plastica.

Il dolore che portava, il vuoto che lasciava.

No, basta. Basta.

Voleva poter smettere di pensare, ma negava questo desiderio perché, a sua volta, quella volontà negava il suo essere.

Ma il suo essere  urlava, grugniva e si contorceva. Graffiava la superficie del suo cuore ancora incartato, avvolto nel cellophane, in quel rivestimento che gli impediva di sbattere troppo forte contro gli eventi, che gli impediva di rompersi.

Ma gli aveva anche impedito molte altre cose che da quando c’era John stava cominciando a vivere pian piano, prendendole fra le mani con la delicatezza che dedicava solamente alle prove importanti di un caso che si sarebbero presto dissolte nell’aria.

Maneggiava quei sentimenti con la stessa cura ma con una diversa, seppur identica, paura.

Ma poteva farlo solo perché c’era John. E non aveva mai pensato, mai prima di lui, mai prima di quel momento, che John potesse essere la parte fondamentale, la chiave di volta di quella struttura architettonica strana e arzigogolata, fragile ma anche forte che era diventato il loro rapporto.

Adesso che non era con lui, adesso che avrebbe dovuto calcolare velocemente metodi e modi, statistiche e probabilità, percentuali e coordinate e derivate e possibilità di riuscita di chissà quale piano per rivoltare come un calzino l’intero tunnel e portarlo di nuovo alla luce del sole – di nuovo al suo fianco – non riusciva a far altro se non sperare, se non andare in confusione, se non scatenare nei meandri della sua mente quel panico immotivato che portava allo scompiglio della sua bussola emotiva di solito sempre fissa sul nord.

Il nord: la notte, l’assenza, il buio, la quiete, il freddo.

Peccato che fosse John, ora, il suo nord magnetico. Lo era diventato talmente in fretta ed in modo così naturale, che Holmes faticava sul serio a ricordarsi come fosse la sua vita anche solo due anni prima, quando di John ancora non c’era traccia; quando quell’essere di nome John Watson probabilmente giaceva in un letto di un ospedale militare ignaro che avrebbe ben presto intrecciato il suo destino a quello di Sherlock Holmes.

Ed era altrettanto incapace di immaginarsi dove sarebbe stato lui, in quel momento, se qualche scherzo del tempo gli avesse impedito di conoscere John.

In quale appartamento, in quale via. In quale vita avrebbe fatto irruzione, senza John? E John, nel mondo di quale persona sarebbe entrato in punta di piedi, sedendosi silenziosamente su di una poltrona in un angolo, rimanendo lì finché essa non avesse cominciato ad essere baciata dai raggi del sole? E solo allora, solo in quel momento il proprietario di quel mondo avrebbe alzato gli occhi dallo scorrere della sua vita e si sarebbe accorto che sì, John Watson era qualcosa di calmo e sereno, qualcosa di bello, qualcosa di fondamentale che fin troppo spesso si da per scontato.

A lui era successo nel giro di mezz’ora. Ed ora quella poltrona, nella stanza del suo palazzo mentale che era tutta, interamente dedicata a John – e che era così simile al salotto del 221B – era vuota e la luce del sole che Sherlock aveva dipinto per lui con uno schiocco di dita illuminava solamente l’invisibile necessità che qualcosa, qualcuno occupasse quel posto di velluto bordeaux.

Quel qualcuno era John Watson e John Watson era intrappolato nel metallo a svariati metri sotto il Tamigi.

Al buio, nella solitudine, nel dolore... nel sangue, forse.

Al solo pensiero, gli veniva la nausea.

« Ok, siamo arrivati ».

La frase di Lestrade fu come il segnale di via. La sua coscienza si staccò subito da quello strano limbo fatto di immagini improponibili e da logiche funzionali, poltrone vuote e fasci dorati di luce sul nulla.

La sua mente, che fino a quel momento si era divertita a giocare a “c’è o non c’è” con il suo cuore neonato, tornò a concentrarsi su ciò che c’era di veramente concreto, di davvero fattibile.

Fu fuori dalla macchina nel giro di tre secondi, e tallonava un insolitamente svelto Lestrade nel giro di quattro.

Guardandosi attorno, il sentore della tragedia diventava sempre più tangibile attimo dopo attimo.

Tutte le strade che circondavano il complesso della stazione di Waterloo erano state chiuse al traffico e persino i mezzi di servizio, gli unici autorizzati ad avvicinarsi, dovevano entrare nella zona a passo d’uomo a causa del numero di persone al lavoro.

Sherlock lanciò occhiate a tutti coloro che incontrava, ancora incapace, nonostante la volontà di farlo, di controllare appieno la sua mente fuggita dal suo ferreo autocontrollo.

Informazioni e dati, ovunque, gli pervenivano nel cervello senza che esso fosse in grado di operare un distinguo, scartando subito quelle essenziali da quelle inutili, quelle importanti da quelle tralasciabili, indegne di essere anche solo memorizzate.

Vi erano poliziotti della Met, vigili del fuoco, paramedici, tecnici della TfL, ingegneri civili ed edili, periti. Parenti, poco lontano, dietro una linea bianca e rossa di plastica sottile, infrangibile anche solamente tirando ma idealmente talmente robusta da trattenere quell’orda di persone preoccupate per i loro cari.

Li osservò per un istante.

Un uomo sulla quarantina pallido e preoccupato, capelli biondi pettinati all’indietro, cappotto nero sopra un vestito molto elegante, cravatta bordeaux, ventiquattrore costosa di pelle lavorata. Avvocato. Veniva direttamente dal lavoro, o dal tribunale, ma più verosimilmente dallo studio in cui lavorava con altri due colleghi. Fumatore, a giudicare dalla macchina di cenere sul colletto del vestito, urtata con qualcosa ma non con l’intenzione di toglierla, dunque ancora non notata.

Una coppia di anziani vestiti con vecchi abiti del decennio scorso, lui con un paio di pantaloni beige a coste e un maglioncino infeltrito grigio, lei con una gonna verde muschio ed una giacchetta rossa con grandi bottoni dorati. Senza cappotto: probabilmente abitavano nelle vicinanze ed erano usciti non appena avevano sentito le sirene. Non avevano l’aria di essere solamente dei curiosi, a giudicare dall’espressione ansiosa di entrambi; lei piangeva, lui la stringeva a sé per le spalle con un braccio.

Una ragazza, giovane, forse ventenne. Jeans schiariti, maglioncino con scollo a barca, maglietta nera sotto, cardigan color perla sopra. Capelli lunghi e rossi raccolti in una coda, scarpe consunte, macchiate di fango: veniva dalla campagna, o comunque dalla periferia della città. Arrivata in treno, probabilmente si dirigeva proprio in una delle stazioni vicine, dato il fiatone procuratole sicuramente dalla corsa per arrivare a quella fermata a piedi. Niente valigia, ma borsa grande e spaziosa a tracolla, cellulare all’orecchio. Senza segnale, probabilmente, dato che non stava parlando ma solamente guardando l’entrata della stazione con sguardo terrorizzato e preoccupato insieme.

Per un solo istante, uno solo, Sherlock si chiese se non lo avesse anche lui, quello sguardo.

Scostò gli occhi dalla folla di amici/parenti/curiosi e posò gli occhi sulle persone all’opera per garantire i soccorsi. Vigili del fuoco che srotolavano prolunghe per manichette antincendio, che portavano a mano estintori presi dai palazzi a fianco o portati dal personale degli stessi, che berciavano ordini a destra e a sinistra organizzando squadre di pochi uomini per volta, che riemergevano dalla metropolitana sporchi di polvere bianca, olio per motori, macchie di sangue. Portavano su brutte e belle notizie, accompagnavano i superstiti in grado di fare qualche passo senza crollare, lasciandoli poi nelle mani di paramedici dai sorrisi falsi e dalle mosse frettolose che decidevano con una sola occhiata se poteva salire su un’ambulanza o doveva aspettare, perché quell’ambulanza serviva a qualcuno più grave di lui.

Vide John, in uno di quei paramedici.

John era il superstite che un pompiere stava accompagnando su dalle scale. John era la persona seduta nel retro di un’ambulanza con mezza faccia ricoperta di sangue e l’altra metà di lacrime e polvere. John era l’infermiere che controllava con la torcia la reazione pupillare di una ragazza. John era il tecnico che correva verso un tavolo improvvisato con alcune assi di compensato, trasportando mappe arrotolate sotto il braccio. John era il vigile del fuoco che si puliva con il fazzoletto la faccia dallo sporco.

John era il cadavere sulla barella, coperto da un lenzuolo bianco e con un cartellino legato all’alluce del piede nudo.

Chiuse di nuovo gli occhi, stringendoli forte, rallentando l’afflusso di informazioni.

Non aveva più controllo di ciò che vedeva e sentiva.

Non era come quando si annoiava, a casa, dove assorbiva ogni cosa avesse intorno poiché poteva dargli spunto per esperimenti interessanti; tutto ciò che aveva intorno, in quel caso, stava senza sosta penetrando con forza nelle sue meningi e pretendeva di rimanerci incastrata, generando confusione, intoppo, caos.

Panico.

Perché l’unica cosa a cui avrebbe voluto pensare era John, ma se anche solo sfiorava quel pensiero il cuore gli si contraeva in uno spasmo doloroso.

Non capiva cosa stava provando, non capiva l’origine di quel dolore e non capire qualcosa gli impediva di continuare a ragionare coerentemente, quindi tutta quella maledetta situazione lo stava gettando in una condizione di completa e totale confusione.

Era come avere un continuo ronzio nelle orecchie.

« Sherlock? ».

Di nuovo, fu la voce di Lestrade a distrarlo. Aprendo gli occhi se lo ritrovò di fronte e si accorse solo in quel momento che stava trattenendo il respiro. Lo rilasciò, ricominciando a prendere aria. Si mise nella condizione di ascoltare ciò che l’ispettore aveva da dire.

Greg, osservandolo bene, capì subito che c’era qualcosa che non andava. E Sherlock capì che l’altro aveva capito.

« Stai bene? » domandò l’uomo, osservandolo calmo.

Sherlock deglutì, indeciso su cosa rispondergli. Annuì con il capo, perché probabilmente la voce avrebbe tradito un’altra risposta.

Quella contraria.

Lestrade sospirò, guardando per un secondo la folla dietro le transenne. « Senti... so che è una frase fatta, ma andrà tutto bene, ok? Quindi... »

« No, invece » lo interruppe Holmes, rapido e veloce, appuntito come un chiodo: « non ci sono abbastanza probabilità che una persona coinvolta in un disastro ferroviario di queste dimensioni sia sopravvissuta all’urto. Sono pochissime, infinitesimali. Oppure potrebbe essere sopravvissuto ma avere riportato ferite gravi. Potrebbe anche non essere mai trovato. Potrebbe essere già stato portato via da una di quelle ambulanze ed infilato in un sacco nero. Potrei trovarlo su un tavolo dell’obitorio del Bart’s... » una pausa, gli occhi che si fissano su di un particolare lontano, probabilmente senza vederlo davvero: « ...potrei trovarlo fa i cadaveri del Bart’s... » ripeté meccanicamente, prendendo coscienza di quella possibilità dalla propria voce.

Vide John steso su di un tavolo di metallo, e lui in piedi di fianco con mani chiuse in guanti di lattice bianchi, pronto a staccare chissà quale parte o sperimentare chissà quale trauma post-mortem.

Un fiotto di nausea gli fece serrare i denti. Lestrade lo chiamò di nuovo all’ordine.

« Sherlock, no » gli disse, sicuro: « John Watson non morirà oggi. Il dottore tornerà a casa, tornerà alla sua vita, alla sua poltrona, al tuo fianco... » una piccola pausa, gli occhi di Greg fissi in quelli del detective: « se John Watson è in grado di essere tuo amico, allora  un incidente come questo per lui è una bazzecola. Lo tireremo fuori da lì, Sherlock, ma tu devi crederci ».

Sherlock osservò Lestrade, per la prima volta da quando lo conosceva, come se le sue parole divenissero d’argento puro non appena pronunciate.

Oh, come invidiava quell’ottimismo illogico delle persone normali; anche John lo aveva, sempre. Usciva da lui per osmosi ed entrava in Sherlock come se fosse un suo vaso comunicante.

Il moro aggrottò un poco le sopracciglia, stirando lievemente le labbra in un sorriso... triste? Probabilmente Lestrade lo avrebbe definito così, se avesse avuto il coraggio di ammettere la realtà delle cose.

Se avesse avuto il fegato di risparmiare a se stesso una menzogna, e a Sherlock una speranza inutile.

Ma come ogni altra persona lui si era voluto rendere cieco al dolore, al buio, all’antitesi della speranza, perché è vero che essa è l’ultima a morire – e per fortuna.

Dopotutto, alla fin fine, è la speranza che fa muovere in avanti le persone. E se Sherlock era così impossibilitato a sperare a causa della sua mente logica e squadrata, allora Lestrade si sentiva in dovere di farlo anche per lui, facendo sì di imporgli un passo avanti all’altro, comunque, in ogni caso.

« Un concetto molto alla J. M. Barrie, Lestrade... » soffiò Sherlock, l’espressione meno tesa ma comunque ancora confusa: « credi davvero nelle fate? » domandò.(1)

Lestrade, continuando a guardarlo, sospirò. « Smetti di fingere di non aver già trovato il tuo cuore, Sherlock » disse semplicemente, facendogli segno di seguirlo e dirigendosi verso l’entrata della stazione metropolitana.

Se lo avesse già trovato o meno, Sherlock non sapeva dirlo con certezza.

Ciò che sapeva per certo, era che si sentiva come se fosse ad un passo dal perderlo.

 

 

• Westminster, Diogenes Club, h. 13:30 pm(2)

 

Mycroft Holmes, eleganza e rigidezza avvolte in un completo gessato grigio con cravatta di seta rosa antico, era in piedi davanti alla finestra con le mani unite dietro la schiena.

Nei suoi occhi, il Tamigi. Riflesse sulle sue acque, le luci blu delle ambulanze e delle camionette del Fire Department.

Il Diogenes Club era già sufficientemente lontano dal luogo dell’incidente, ed un intero fiume separava la Stranger’s Room dalle stazioni di Enbankment e Waterloo, ma Mycroft poteva tranquillamente immaginarsi il suono acuto delle sirene dei mezzi di soccorso spezzare la quiete nella sua mente.

Una volta appurato che non era stato un atto terroristico di sorta, la priorità del caso non aveva più richiesto il suo intervento. Tuttavia era rimasto in piedi lì, in quella stanza in cui lo scambio verbale con chicchessia non era vietato, attendendo notizie.

Aveva una sensazione strana. Come un formicolio sulla punta delle dita che non lo lasciava in pace, tormentandolo.

Bussarono alla porta.

« Avanti » disse lui, la voce modulata e profonda.

« Signore, il caso è risolto » lo informò uno dei suoi agenti, impeccabile nel suo completo nero con occhiali da sole ed auricolare: « suo fratello si è occupato di trovare la causa, sembra non sia nulla d’importante » disse.

Mycroft, che aveva ascoltato il breve resoconto dando le spalle alla porta, annuì con il capo. « Immaginavo » commentò solamente, per poi aggiungere: « c’è dell’altro? ».

« In realtà... » cominciò quello, indeciso se riportare o meno quell’informazione per metà incompleta: « il signor Holmes è rimasto sul luogo dell’accaduto, accompagnato dall’ispettore Lestrade. Non sappiamo cosa sia successo con precisione, stiamo ancora indagando » riferì.

Mycroft strinse le labbra in un breve moto d’insoddisfazione, ma date le spalle non lo diede a vedere. « Tenetemi informato » congedò il suo uomo, che venne accompagnato nuovamente all’uscita dall’inserviente del Club.

Si era appena permesso di far scivolare quel pensiero nella sua mente quando il cellulare sulla scrivania vibrò sommessamente. Un messaggio, constatò Mycroft che in pochi, svogliati, strascicati passi afferrò il cellulare.

Osservando il nome del mittente, un sopracciglio gli si sollevò leggermente.

« Devi essere proprio in un vicolo cieco per rivolgerti a me, Greg... » sussurrò, aprendo l’sms.

 

 

• The Tube; Waterloo Station, h. 13:40 pm

 

« Quello che mi sta chiedendo è semplicemente impossibile » decretò con stizza il comandante dei vigili del fuoco, agitato e sudato dentro la sua divisa color cachi a strisce catarifrangenti gialle.

« Non è impossibile, comandante, solo sconsigliato » ribatté Lestrade, deciso più che mai a vincere quella battaglia verbale.

« Sì, e se è sconsigliato c’è un motivo! » rimbalzò la palla il comandante, muovendo i folti baffi grigi e assottigliando gli occhietti tondi e scuri: « mandare un civile là sotto, senza il minimo addestramento pratico, è una follia. Ho già a che fare con un disastro, Ispettore, non voglio avere altri morti sulla coscienza » decretò, suonando definitivo.

Ma Lestrade era cocciuto. « Potrà non aver ricevuto l’addestramento necessario, ma ha collaborato molte volte con la mia squadra durante la risoluzione di casi importanti » e Dio solo sapeva quant’orgoglio si stava ingoiando per dire quelle parole, tuttavia continuò: « vi sarebbe utile là sotto, e se affiancato a qualcuno della sua squadra sono sicuro che non causerà fastidi o problemi di nessun tipo » disse, convinto – o suonando tale.

Il pompiere roteò gli occhi. « I vostri  casi? Scusi la scortesia Ispettore, ma voi tirate fuori gente da palazzi in fiamme, per risolvere i “vostri casi”? » domandò, mimando le virgolette con le dita.

Greg cominciava ad irritarsi, ma per mantenere le trattative aperte si sforzò di non darlo a vedere. « Lei non vuole sapere da quali buchi tiriamo fuori gente, comandante... » rispose semplicemente, limitandosi a fissare il suo sguardo in quello piccolo del comandante.

C’era un motivo preciso per cui Lestrade, appena una decina di minuti prima, aveva deciso di chiedere il permesso al comandante delle operazioni di soccorso – il sopracitato, baffuto, ometto – di far scendere Sherlock nel tunnel per farlo partecipare alle operazioni.

Semplicemente, conosceva Sherlock Holmes.

Holmes era un individuo spocchioso, arrogante, che sottolineava ogni tuo errore e vi trovava vantaggi, svantaggi e soluzioni tutto allo stesso tempo. Aveva anche la brutta abitudine di non togliersi mai dalla faccia quel suo sguardo vigile e deciso, e non perdeva mai occasione di dire la sua opinione, a meno che fosse consapevole che la stessa, ovviamente sempre e comunque veritiera e ragionata, non sarebbe comunque stata ascoltata.

In definitiva, Lestrade conosceva Sherlock Holmes da un quantitativo sufficiente di anni per poter dire con una certa percentuale di sicurezza che l’individuo dietro di lui, silenzioso e dallo sguardo allo stesso tempo confuso ed irrequieto, non era il solito Sherlock.

E per un qualche motivo che gli suggeriva solamente l’istinto – una stretta allo stomaco, un nodo duro da inghiottire in gola – aveva la sensazione che, se lo avesse lasciato lì fuori ad aspettare, la situazione sarebbe solo potuta peggiorare.

Sherlock invece, in piedi dietro a Greg, si limitava a rimanere in silenzio. Ancora immerso in quello strano stato catatonico mentalmente iperattivo, paradosso stesso del buon senso, osservava i due senza fare una piega.

Lo Sherlock normale non sarebbe rimasto ad aspettare permessi di sorta, si sarebbe buttato e basta. Era proprio questo che intendeva Lestrade.

I due si stavano ancora fissando in cagnesco – uno di loro avrebbe presto cominciato a ringhiare sommessamente – quando un pompiere si avvicinò all’omino baffuto e tarchiato così tanto legato al proprio regolamento.

« Comandante, un messaggio per lei » disse, porgendogli un figlio bianco con sopra scarabocchiato qualcosa in una calligrafia lunga e spigolosa.

Quello lo fulminò con lo sguardo porcino. « Può aspettare! » berciò, facendo sobbalzare l’altro pompiere.

« N-No, signore...  è urgente » rispose quello con tutto il coraggio che riuscì a racimolare. Lestrade pensò, a ragione, che quegli uomini preferissero affrontare fiamme e grandi altezze piuttosto che discutere con il loro comandante.

Quello, riservandosi di squadrare di nuovo Greg e Sherlock, prese il pezzo di carta e lesse il messaggio.

Non una, ma bensì tutte e due le sopracciglia si sollevarono nella lettura di quelle poche righe, tornando poi velocemente a corrugarsi quando lo sguardo si posò nuovamente sull’ispettore.

« Lei ha amicizie influenti, Ispettore Lestrade... » osservò, forse un po’ colpito nel punto debole.

“Più che altro, è Sherlock che ha parenti influenti” si trovò a pensare Lestrade. Non lo disse ad alta voce.

« Questo è un ordine che non posso ignorare » asserì l’uomo, trapassandolo con gli occhi: « ...però non andrà in quella galleria vestito in quel modo! » esclamò poi, facendo passare lo sguardo sul solito completo scuro che Holmes indossava, cappotto e sciarpa annessi. Il comandante continuò: « gli daremo una nostra divisa. Chiedete al ragazzo che mi ha portato il messaggio, gliene darà una » mentre parlava, il suo tono si faceva sempre più rassegnato.

Poi parlò direttamente a Sherlock: « la affiderò al capo della squadra di soccorso che è già là sotto. Si chiama Nicholas Ryder, gli dirò che sta arrivando. Segua le sue indicazioni e gli stia accanto, se non lo farà la manderò a prendere dai miei ragazzi e lei non metterà più piede all’interno non solo del tunnel, ma di tutta l’area dei soccorsi, e le assicuro che in quel momento non me ne fregherà proprio niente delle alte sfere del Governo. Tutto chiaro, signor Holmes? » domandò.

Sherlock, che in realtà aveva ascoltato il discorso solo marginalmente, annuì. Si diresse senza parlare verso il ragazzo visto prima, attaccato alla radio di una delle camionette, riferendo ciò che il comandante aveva appena pronunciato.

Da lontano, Lestrade sospirò, appena più sollevato.

« Posso almeno sapere il perché di questo privilegio? » intervenne il comandante del Fire Department, osservando a sua volta lo strano ragazzo con gli occhi azzurri che riceveva una divisa dei vigili del fuoco e si dirigeva nel retro del furgone per cambiarsi.

Greg sospirò. « Una persona a cui tiene è là sotto. Questa persona è... beh... che vuole che le dica? Sarebbe un discorso troppo lungo spiegarle chi è John Watson, comandante, e le giuro che se il signor Holmes non fosse completamente nel pallone a causa di tutto ciò che sta succedendo, a quest’ora avrebbe come minimo già tentato di prenderlo a calci in bocca » disse Lestrade.

L’altro, sbuffando, scosse il capo con rassegnazione. « Incredibile... autorizzare una cosa così pericolosa per una persona sola... » borbottò, staccando poi la ricetrasmittente dal fianco e portandosela alla bocca: « Superficie a tunnel; Nick, mi ricevi? » cominciò.

Lestrade si trattenne dallo spiegare oltre.

Non era come separare un paio di amici, di migliori amici, di amanti o una moglie da un marito. Nell’immaginario di tutti, Sherlock Holmes e John Watson ormai non erano più entità separate; loro erano Holmes e Watson, Sherlock e John. Era come dire “Butch e Cassidy” o “Bonnie e Clyde”.

Inseparabili, era così che li vedevano tutti. E quindi, per definizione, non dovevano essere separati.

 

Quando Sherlock fu pronto, una volta indossata la tuta e sostituito le sue scarpe con un paio di scarponi, prese il casco che gli veniva dato e ripercorse la strada dalla camionetta all’entrata della stazione. Lestrade lo aspettava là, le mani in tasca.

Non sentiva veramente il bisogno di dirgli qualcosa. E, anche se forse era socialmente preferibile, in effetti non lo fece. Si limitò a guardarlo.

« Io sono qui fuori, se ti servisse qualcosa... » cominciò l’altro, ma Sherlock lo interruppe.

« La prossima volta che ti senti in diritto di interpellare mio fratello, almeno avvertimi » disse, ovviamente consapevole a chi si riferiva il comandante con “amici influenti”.

Lestrade aveva solo un “amico” – fra virgolette – influente: Mycroft.

Greg sorrise appena. « Non sei tu ad avere un debito con il Governo, ora » ironizzò, tornando però subito serio: « Sherlock... John è anche mio amico. Portalo fuori » gli disse, la voce profonda.

Holmes annuì, incamminandosi verso la rampa di scale che scendeva in profondità.

Prima che cominciasse a scendere, però, il cellulare nella sua tasca vibrò. Prendendolo, sbloccò lo schermo e lesse il messaggio.

-  Trovalo.  MH

Non era un incoraggiamento, no. Si vedeva.

Quello era Mycroft che esprimeva un desiderio.

Il pensiero che suo fratello potesse trovare in John non solo una risorsa, ma anche qualcosa che si avvicinasse alla definizione di “amico”, avrebbe anche potuto irritarlo un poco, o per lo meno suonargli ironico.

Ma in quel momento, quell’unica parola divenne per Sherlock un imperativo categorico.

Trovalo.

E nella sua mente tornò la pace.

 

 

• The Tube; Waterloo > Enbankment (Rescue Team), h. 14:15 pm(3)

 

Nicholas Ryder stava camminando nel tunnel semi illuminato, a ritroso rispetto alla carcassa di metallo del convoglio.

Stringeva in mano la torcia, portava con sé una piccozza con cui aveva appena frantumato il vetro di uno dei vagoni di coda e la sua pelle trasudava incazzatura da tutti i pori.

Ebbene sì, Nick era profondamente inviperito.

Appena mezz’ora prima aveva ricevuto ordine dal suo comandante di fare da balia – e al solo pensiero gli esplodeva il fegato – ad un povero civile imbecille con conoscenze altolocate, del tutto intenzionato a passare il resto della giornata bazzicando fra i vagoni del treno incidentato e fra la gente che faceva il proprio lavoro con fatica e dedizione.

A nulla erano valse le sue rimostranze: il comandante aveva le mani legate, e così lui.

Quando si fu allontanato di quasi trecento metri dal treno, poté finalmente vedere l’ombra di una persona che camminava in sua direzione, torcia in mano. Una figura slanciata, magra, che sembrava sparire in quella divisa da pompiere leggermente fuori taglia ma che, allo stesso tempo, dava l’idea di un individuo agile ed atletico.

Dovette ricredersi. Non appena aveva ricevuto la chiamata dalla superficie, si era subito figurato quello Sherlock Holmes come uno snob con la puzza sotto il naso, imbranato e senza la minima idea di dove mettersi per riuscire a stare in piedi; si aspettava quasi di vederselo arrivare in un gessato nero con mocassini di pelle lucida al seguito.

« Signor Holmes? » chiamò dunque, avvicinandosi con passo svelto all’uomo. Solo quando gli fu abbastanza vicino poté notare il colore di quegli occhi e, chiedendosi se facevano lo stesso effetto a tutti, ne rimase affascinato per un istante.

Quando si vide l’altro annuire, Nick annuì a sua volta. « Nicholas Ryder » si presentò velocemente, squadrandolo da capo a piedi: « ...che fine ha fatto il suo casco? » chiese dunque, cercando di non suonare acido come in realtà pensava esattamente di essere sembrato.

Sherlock, alla domanda, non nascose una smorfia seccata. « Mi sembra totalmente inutile portarne uno. Se ci crolla addosso la galleria, Tamigi compreso, non vedo cosa potrei farmene di un casco. Ed inoltre mi è troppo grande, mi impedisce di guardarmi totalmente intorno, e se non mi guardo del tutto attorno non riesco a pensare con completezza. Motivo per cui, ora come ora il mio casco lo sta indossando la prima luce di segnalazione dopo la stazione di Waterloo » spiegò velocemente.

Ryder rimase un tantino sbilanciato da quella spiegazione, riprendendosi solamente dopo che il suo cervello ebbe avuto qualche istante per scollare tutte le parole e carpirne il senso.

Fece schioccare le labbra. « Come vuole... » si limitò a dire: « ...ma voglio sapere perché è qui » aggiunse, fissandolo negli occhi.

Nick faceva quel lavoro da poco rispetto a molti altri suoi compagni, ma se si era meritato la guida di una squadra di soccorso magari voleva dire che se l’era guadagnata; con un pizzico di talento, forse, ma anche sudando sodo ed impegnandosi.

Ciò voleva dire che, anche se tendeva ad un trattamento egualitario nei confronti di tutti, in situazioni d’emergenza lui era quello che decideva. Compito non facile, certo, soprattutto perché loro erano sempre in situazioni d’emergenza, ma nell’ingrato peso che gli era toccato portare sulle spalle era comunque il capo, e tale era la sua posizione; in primis con i suoi compagni, e in secundis con i civili in vena di sentirsi Robin Hood per un giorno.

Se proprio doveva accollarsi questo Sherlock Holmes – nome che comunque non gli risultava nuovo, chissà perché... – almeno voleva sapere il motivo per cui avrebbe dovuto farlo.

O meglio: si sarebbe preso la briga di decidere, in base a ciò che l’altro gli avrebbe detto, se poteva o meno rischiare una fetta della propria incolumità per cercare di fare di Sherlock Holmes un pompiere onorario, spiegandogli come ci si muoveva sulla scena di un disastro con un corso accelerato in pillole.

Holmes, dal canto suo, lo fissò a lungo. Sembrava non avere la minima intenzione di rivelargli un bel niente, ma probabilmente capiva da sé che camminare controvento, in quella situazione e con la fretta incombente di trovare John, non era il caso. Avrebbe fatto il bastian contrario un’altra volta.

“Sherlock, farai il bastian contrario un’altra volta. Aiutami con la spesa, ora!”

Deglutì, ignorando sia il ricordo che il battito perso dal suo cuore silenzioso. « Sto cercando una persona. È sul quel treno, da qualche parte, e io devo trovarlo » si limitò a dirgli, sintetico e pragmatico.

Nicholas non era assolutamente convinto. Ma la convinzione che non sentiva in sé, purtroppo, poteva vederla negli occhi chiari di quello sconosciuto d’alte conoscenze.

Chissà perché quello sguardo gli sembrava così... devoto. Perso, ma allo stesso tempo deciso. Speranzoso, forse, in fondo a quelle iridi, ma anche desideroso di dimostrare a se stesso di sbagliare.

Lo sguardo di una persona che sapeva dell’impossibilità di ciò che cercava, ma aveva puntato il tutto per tutto sul cavallo perdente in ogni caso. Nick non sapeva dire se per speranza o per disperazione.

Non gli importò. Aveva visto quell’espressione addosso a molte altre persone, persone che ci avevano anche lasciato le penne, salvando però le vite di altri.

Sospirando, si fece bastare la spiegazione stringata appena ricevuta.

Chi era lui per tarpare le ali a quell’uomo? Chi era lui per impedirgli di provarci?

Si impose il pensiero che quelle di Sherlock Holmes potevano essere un paio di mani in più, dunque lo prese come tale: un aiuto di qualche tipo. Nient’altro.

« Andiamo, signor Holmes... » sospirò, facendogli segno con il capo di seguirlo: « spero per lei che abbia uno stomaco forte ».

 

 

• The Tube; Waterloo > Enbankment (Train’s Coach), h. 15:00 pm

 

Appurato che non c’era via d’uscita fattibile, John si era seduto con la schiena alla porta chiusa del vagone.

La piccola Alice gli si era accoccolata addosso, seduta sulle sua gambe con le manine strette alla sua camicia, e con la testa appoggiata al suo petto aveva continuato per tutto il tempo a respirare quieta, osservando un punto in lontananza senza mai scostare lo sguardo. Ogni tanto piangeva, stringendo gli occhi in una smorfia addolorata e singhiozzando appena, ma quando succedeva lui era sempre lì, pronto ad accarezzarle la schiena e a posarle un bacio gentile fra i capelli.

Di fronte a lui, appoggiato alla porta speculare, Edward era seduto in silenzio, una gamba piegata e l’altra stesa in avanti. Aveva chiuso gli occhi per dieci, forse venti minuti in quel silenzio carico d’aspettativa ma anche pregno d’attesa, ma non dormiva, John poteva dirlo. Semplicemente – probabilmente – pensava.

Joy, accomodata a poca distanza da Edward, ancora ancorata al sostegno di ferro di fianco alla porta, sembrava passare da momenti di veglia a momenti di confusione. Era pallida, aveva notato Watson con un moto d’impotenza, e la benda che le aveva girato più volte attorno alla gamba si era ormai imporporata, macchiandosi di sangue. Tuttavia non sembrava aumentato, nell’ultima mezzora, segno che l’emorragia si era fermata. L’unico sollievo che si era potuto permettere.

Chiudendo poi gli occhi solo per un attimo, l’ex soldato si era infine concentrato su se stesso.

Non aveva ancora fatto parola agli altri occupanti della carrozza del livido comparso sul suo addome, e non aveva nemmeno osato sollevare di nuovo la camicia per constatare le proprie condizioni. Poteva però quasi sentire – e non sapeva se si trattava di soggezione o realtà dei fatti... probabilmente la prima, sperava non la seconda – i suoi intestini stringersi in una morsa lenta ma strangolatrice, come se si fossero trovati fra le spire di un boa constrictor.

Poteva immaginare cos’avesse, e non sarebbe stato insolito. Lesioni come quella avvenivano molto spesso, in incidenti di quel tipo, e se veramente era ciò che pensava che fosse, era anche abbastanza usuale che non si fosse accorto subito del dolore, o che esso non si fosse manifestato nell’immediatezza.

Tuttavia, se veramente era nella situazione che pensava, probabilmente sarebbe andata sempre peggio. Aveva bisogno di un ospedale e non solo lui, anche Joy. La piccola Alice fortunatamente non aveva nulla se non le ginocchia sbucciate, cosa che aveva provveduto a medicare con qualche cerotto di fortuna che Joy aveva nel portafoglio.

Non poteva dirlo agli altri, no. Non quando contavano su di lui per i loro problemi medici. Avrebbe resistito.

Aveva ancora tempo... forse. Almeno un po’, ne aveva.

Solo... avrebbe voluto rivedere Sherlock... prima di...

« Dottore? ».

La voce della bambina, ancora sistemata sul suo petto, lo distrasse dai suoi pensieri e John riaprì gli occhi, guardandola.

« Sì, Alice? » le chiese sorridendo, mantenendo un tono basso di voce.

Come se quel silenzio, spezzandosi troppo in fretta, avesse potuto provocare loro altre ferite.

La piccola lo guardò con occhi lucidi, mordendosi il labbro inferiore per non scoppiare a piangere di nuovo. Poi, tirando su con il naso, gli domandò: « adesso è come uno di quei film che papà guarda sempre alla televisione? Quelli dove sono tutti al buio ma poi escono fuori e sono felici tutti? ».

Il tono di quella bambina, quello sguardo spaventato ma anche pieno di speranza, avevano il potere di intenerire John in un modo che non credeva possibile. Anche lui da piccolo aveva creduto sempre nella magia, nel lieto fine, che tutto si sarebbe risolto con nei film d’azione alla televisione, dove un eroe senza paura andava a salvare le persone intrappolate sugli aerei, nelle gallerie, sulle montagne.

Forse, era lì che trovava il coraggio di non farsi catturare dai problemi. Forse, inoltre, aveva continuato a farlo in quella prospettiva anche dopo l’infanzia, credendo che ogni cosa si potesse risolvere con la giusta dose di audacia.

Tenendo il sorriso stanco ma gentile dipinto sulle proprie labbra, le rispose: « stai tranquilla Alice, non moriremo » suonando convinto.

Edward, riaprendo gli occhi, alzò lo sguardo su di lui. « Come fa ad esserne sicuro, dottore? » domandò.

John, stringendo di più a sé la bambina per consolarla, sbuffò un sorriso ironico. « Perché sono stato per anni in situazioni potenzialmente mortali, e ne sono sempre uscito » gli rispose, senza aggiungere altro.

Ciò che doveva essere dedotto da quel silenzio, fu colto dallo stesso Edward. « Lei... è stato in guerra? » domandò, una luce particolare negli occhi che John riconobbe subito come ammirazione.

Avrebbe tanto voluto spegnerla, quella luce. Però annuì.

« Dove? » chiese allora il giovane fuciliere.

« Afghanistan... » pronunciò John, quasi convinto di quale sarebbe stata la domanda successiva che si sarebbe sentito rivolgere.

Non pensava di essere pronto a rispolverare il periodo passato in Afghanistan. Lo aveva fatto solo una volta, con la sua terapeuta, prima di incontrare Sherlock e non averne nemmeno più bisogno, di una terapeuta.

Sherlock, già... Sherlock non gli aveva mai chiesto niente dell’Afghanistan. Chissà, magari aveva capito tutto da una qualche macchia strana sulla sua valigia già dal primo giorno; non si sarebbe affatto sorpreso, se gli avesse detto che effettivamente era così. Ormai non si sorprendeva più di niente.

Edward lo guardò con aria estasiata, vedendo nella sua persona una specie di eroe nazionale.

Altri, prima di lui, avevano avuto quello sguardo. Praticamente tutti quelli che avevano visto le croci al valore sulla sua divisa – prima che la togliesse del tutto – e tutti coloro che sentivano nelle parole “veterano di guerra” una sorta di lode al patriottismo inglese.

Nulla in contrario. Era partito volontario anche per la propria patria. Ma per lui, essere in congedo non aveva mai significato l’essere libero, o l’essere finalmente a casa.

Piuttosto, l’opposto. Si era sentito inutile. Per questo aveva sempre evitato di raccontare la guerra.

Ma quel soldato, quel ragazzo, aveva quella strana luce negli occhi. La stessa che aveva avuto lui quando aveva firmato il permesso per imbarcarsi e andare a combattere nel deserto roccioso dell’Afghanistan.

Per questo, aspettandosi quella domanda, decise che gli avrebbe risposto.

Solo questa volta.

« Ha partecipato a molte missioni? » gli domandò il soldato.

John chiuse gli occhi, annuendo. « All’inizio... » cominciò, sentendosi improvvisamente la bocca impastata: « ...all’inizio fui mandato a Kabul. Era già stata conquistata quando decisi di imbarcarmi e avevano bisogno di medici per l’ospedale militare di zona. Mi limitavo a curare i nostri soldati feriti durante l’Enduring Freedom(4) e, successivamente, anche i civili afghani che avevano bisogno di cure mediche... » una piccola pausa. Parlare di quel periodo era diventato più... facile.

« Poi il nostro contingente, insieme a quello americano e alle nazioni unite, conquistò Herat e fui mandato all’ospedale da campo allestito in quella zona. La situazione era più dura, i feriti più gravi. Fui promosso a Tenente e mi mandarono a Kandahar. Ci limitavamo agli ospedali da campo... » raccontò, trovando la pronuncia di quelle parole meno difficoltosa di quanto si era immaginato.

Aveva tutta l’attenzione di Edward e, si accorse, anche quella di Joy e di Alice.

« Fu lì che feci richiesta di essere inserito in una squadra d’azione. Ogni medico militare viene addestrato per portare soccorso sul campo, quindi sapevo combattere, ed essendo un fuciliere anche sparare. Mi accontentarono e fui mandato in prima linea durante l’invasione delle provincie di confine con il Pakistan, dove i talebani si erano ritirati. Eseguii parecchie missioni in prima linea, come medico di squadriglia, poi mi promossero a Capitano e guidai un plotone mio per altre sei missioni. Nell’ultima... » deglutì, respirando piano: « ...mi spararono. Il mio plotone fu decimato, ne morirono più della metà. Mi risvegliai in un ospedale giorni dopo e mi dissero che eravamo caduti in un’imboscata. Dopo avermi consegnato una medaglia al valore mi dissero anche che sarei stato congedato con effetto immediato, data la gravità della ferita... ».

La luce negli occhi di Edward, quella che aveva spinto John a raccontare la sua storia, si era pian piano spenta durante il racconto. Ovviamente John non aveva modo di vedersi mentre parlava, ma a giudicare dalla reazione del giovane soldato doveva avere un’espressione affranta... o miserabile. Già.

Stranamente, la voce che intervenne successivamente non fu quella di Ed. « La perseguita ancora? La guerra, intendo » domandò Joy, ansimando un poco; lo sforzo che aveva fatto per dire anche solo quelle semplici parole era evidente.

Watson annuì. « Lo ha fatto per tutta la convalescenza, e anche dopo il ritorno a Londra. Ma non... nel modo che pensate voi » disse, pentendosi di quello che stava per aggiungere, tuttavia dicendolo comunque: « io volevo tornare là. A Londra non avevo niente. Là mi sentivo utile a qualcosa... ma la ferita, e una diagnosi di disturbo da stress post-traumatico, mi impedirono del tutto di indossare di nuovo la divisa » rivelò.

Passarono alcuni istanti di silenzio, dove nessuno fiatò. Poi fu Edward ad interromperlo: « ne soffre ancora? » domandò, sussurrando l’ultima parola come se stesse premendo tasti delicati dell’anima di Watson.

John, però, era calmo. Stranamente calmo, nonostante l’argomento. Che lo avesse superato, infine? Mah, non ci contava veramente. Forse era solo l’emergenza, la situazione, a far sì che il suo racconto non pesasse come un macigno sullo stomaco, impedendogli di parlare.

« No, non ne soffro più. Ho... incontrato una persona » aggiunse poi, senza che gli venisse chiesto, volando con la mente al resto della trama, quella che aveva riempito l’ultimo anno e mezzo di ricordi che non avrebbe potuto farsi nemmeno in tutta una vita.

« È un ragazzo strano, particolare e decisamente irritante. È un genio, un vero genio, e come tutti i geni pensa che tutti quelli che lo circondino siano solo dei poveri comuni mortali, la maggior parte delle volte idioti, molto spesso totalmente incapaci. Dal lato umano fa schifo, così come dal lato sentimentale, e come coinquilino non è meglio: suona il violino ad orari improponibili, tratta la cucina come se fosse il suo personale laboratorio chimico, mette strane cose nel frigorifero – John decise di non nominare i pezzi di cadavere che saltuariamente trovava di fianco agli avanzi – e spara contro il muro quando si annoia. E non compra mai il latte, mai. Oh, a dire il vero non compra mai niente, visto che sembra geneticamente incapace di andare a fare la spesa. A volte mi chiedo come accidenti abbia fatto a sopravvivere senza di me, prima... me lo chiedo davvero » si lamentò. Poi, addolcendo lo sguardo, aggiunse a bassa voce: « ma lui c’era, nel momento in cui stavo per arrendermi. È piombato nella mia vita con la scusa di dividere metà dell’affitto e da allora non ha fatto altro che distruggere tutti i muri che mi impedivano di vedere cosa mi era rimasto della vita. Mi ha dato un lavoro, sebbene sia stato io ad associarmi al suo, in modo quasi naturale. Non ci siamo detti nulla ma è stato così da allora, sono una sorta di assistente... lui dice “conduttore di luce”, ma ha vocaboli tutti suoi per definizioni tutte sue, dunque suppongo stia per “collega”. Certo, è un po’ pericoloso... solitamente inseguiamo gente poco raccomandabile e mi prendono in ostaggio ogni due per tre... però è divertente, giuro » finì di chiacchierare, rendendosi conto di essersi dilungato un po’ troppo.

Joy, dall’altra parte della carrozza, si lasciò sfuggire una risatina. « Dottore, lei è cotto! » esclamò, sorridendogli con espressione complice.

John, sospirando, negò con il capo. « Non sono gay » ripeté come un mantra quella frase che aveva detto a tutti quelli che insinuavano qualcosa fra lui e Sherlock, praticamente da quando si conoscevano. L’aveva pronunciata così tante volte che ormai gli usciva dalle labbra per abitudine.

Però, sempre ultimamente, erano sempre di più le volte in cui il suo cuore si stringeva, quando qualcuno gli faceva notare di essere innamorato di – o anche solo attratto da – Sherlock Holmes.

Lui lo ignorava. Lo fece anche quella volta, a malapena.

Ma non poté però ignorare la risposta di Joy, stentata dalla mancanza di fiato, ma comunque convinta: « beh, nemmeno io mi ci sento... non del tutto, almeno. Però voglio comunque dire alla mia vicina di casa che ho perso la testa per lei perché, sul serio, mi rendo conto di aver aspettato troppo tempo... questo incidente mi sta facendo riflettere » disse.

Gli altri occupanti della carrozza la osservarono con tanto d’occhi.

« Questa poi... » borbottò Edward: « ...avrei giurato che fossi etero fino nel midollo » le rivelò.

Lei sorrise ironicamente. « Sentiamo, grand’uomo in divisa: tu perché vuoi tornare a casa vivo? » gli chiese.

Edward sembrò pensarci un poco, puntando gli occhi al soffitto del vagone. « Ieri ho ritirato i moduli per la richiesta di partire per l’Iraq » rivelò, continuando a guardare in alto: « ...ma dopo il racconto del dottor Watson, non ne sono più molto convinto. Mi sento patriottico, sul serio, ma... io ho una casa, i miei genitori, una ragazza fantastica... e non voglio lasciarli. Ora come ora, voglio tornare a casa e mangiare il tacchino di mia madre, che è il più buono di tutta l’Inghilterra, e parlare con mio padre della mia esperienza nell’esercito. Non ci vediamo da quando mi sono arruolato, ormai sono quasi due anni... » una piccola pausa, un sospiro: « e voglio anche fare l’amore con la mai ragazza, chiaramente. Voglio portarla a mangiare fuori, poi al cinema » disse, ridacchiando divertito. « Sì... sì, è per questo che voglio uscire vivo da qui ».

« Io voglio vedere il mio papà! » esclamò allora Alice, che aveva ascoltato tutto il discorso capendo quello che poteva: « è abbastanza? » domandò in direzione di Joy ed Edward.

« Certamente! » le disse il soldato, sorridendo. Anche la bambina sorrise di rimando.

« E lei, dottore? » chiese infine Joy, appoggiando la testa alla parete dietro di sé: « perché vuole uscire vivo da qui? » domandò.

Il medico socchiuse gli occhi, sorridendo malinconicamente. Si lasciò andare, forse per la prima volta da anni.

« Voglio rivedere Harriet, mia sorella. Non ci vediamo da un po’. Voglio dirle che deve darsi una svegliata, perché la vita fa schifo ma non migliora nel riflesso di un bicchiere di whisky... » sussurrò, chiudendo gli occhi: « e voglio... rivedere Sherlock. Non è necessario parlargli, voglio solo... » deglutì « ...rivederlo. Solo quello » disse.

“Voglio rivedere Sherlock” era l’unica e la prima frase che gli era venuta in mente non appena Joy aveva posto la domanda. Sherlock era sempre la prima persona a cui pensava.

Nei momenti in cui si svegliava e l’altro era in giro per Londra senza di lui, nei momenti in cui parlava ma l’altro era troppo occupato per starlo a sentire, nei momenti in cui passava le notti a leggere da solo in salotto.

C’era sempre Sherlock.

E forse era davvero troppo tardi, per accorgersi di quanto gli mancava in quegli attimi. Per accorgersi che avrebbe dovuto fare qualcosa prima. Qualsiasi cosa. Magari dirgli grazie. Magari semplicemente sorridergli un po’ di più, nella speranza di lasciare qualcosa dentro di lui, una piccola macchiolina che forse sarebbe sparita, ma che per qualche minuto sarebbe comunque rimasta dentro di lui, con lui.

Ora non aveva più molto tempo, e più guardava le persone che erano finite in quella disgrazia con lui, più si rendeva conto, in un pensiero forse un po’ stupido ed infantile, che quegli individui potevano rappresentare una piccola parte di se stesso.

Alice, la bambina coraggiosa ma bisognosa d’attenzioni.

John, il bambino lasciato dal padre che non piangeva, ma che alcune volte si infilava nel letto della sorella alla ricerca di un po’ di pace dal mostro nero sotto il letto.

Joy, la ragazza innamorata di un’altra ragazza dal carattere duro e un po’ egoista.

Il ritratto sputato di Harry, no? Senza alcool, forse, ma con la stessa, identica forza di volontà e mancanza di tatto. La stessa sincerità che rendeva tutto più facile, persino accettare i propri limiti e riconoscere i propri pregi.

Infine Edward, il soldato che voleva partire per la guerra, entusiasta come chi si immagina l’azione e la gloria e chiude gli occhi su tutto il resto, sul sangue fra le dita delle mani, sul rinculo del calcio del fucile sulla spalla.

Così simile a ciò che lui era durante l’addestramento, così ingenuo come era stato lui all’epoca. Così irrimediabilmente fantasma di un giovane John Watson che non sarebbe più tornato, perché morto in guerra insieme a tutti gli amici che aveva perso.

Tre riflessi di se stesso ed un solo pensiero:

Voglio rivedere Sherlock.

 

 

 

~ to be continued...

 

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1. omaggio velato a Peter Pan, di cui James Mattew Barrie è il sommo creatore. In particolare, il pezzo delle fate deriva da un discorso di Peter a Wendy, in cui le spiega che le fate rimangono in vita finché i bambini credono in loro e cadono morte ogni volta che un bambino pronuncia la frase "io non credo nelle fate".

In questo caso, ho paragonato le fate alle speranze, motivo per cui il "credi davvero nelle fate?" voleva essere una frase amara, pronunciata proprio da Sherlock.

Spero di aver reso l'idea.

 

2. il Diogenes Club è un posto inventato da sir Doyle, di cui Mycroft è co-fondatore e in cui passa la maggior parte del suo tempo. A Londra non esiste, quindi non sapevo dove ubicarlo, ma ho immaginato fosse a Westminster (a due passi dal Parlamento XD). Come al solito prendetela come licenza poetica.

Come viene citato nella serie ("The Reichenbach Fall", episodio 2x03) all'interno del Club è vietato parlare. L'unico luogo in cui si può conversare a voce è la Stranger's Room (Stanza dello Straniero).

 

3. Siccome sia la squadra di soccorso (Nick-Sherlock) che gli inrappolati (John & Co.) si trovano tutti nello stesso posto, d'ora in poi per distinguere i diversi punti di vista aggiungerò tra parentesi le parole "Rescue Team" (Squadra di Soccorso) in riferimento alla squadra di soccorso, e "Train's Coach" (Carrozza del Treno) in riferimento a John e compagnia.

 

4. L'Operazione Enduring Freedom è, in sintesi, una conquista serrata di tutte le provincie afghane una per una, iniziata con la presa di Kabul nel 2001 ed estesa man mano anche alle altre regioni. E' attiva tutt'ora e procede di pari passo con l'operazione ISAF della NATO. Comunque Wikipedia è in grado di inculturarvi più di me.

Ripeto inoltre che non si sa un tubo del periodo militare di John... è tutto partorito dalla mia fantasia. Ho cercato di rimanere il più fedele possibile a ciò che ho assorbito dai film di guerra con cui mi drogo, e spero di essere stata per lo meno convincente ;D

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Capitolo 4
*** Venerdì 3 Marzo - Midnight ***


Note: Queste sono 20 pagine di puro parto fan-letterario. Siete avvertiti. A quanto pare la mania di essere incredibilmente prolissa non mi ha abbandonato nonostante i buoni propositi.

Beh, penultimo capitolo, conclusivo dell’incidente ferroviario. E... e non ho resistito, ho dovuto metterci una puntina di Mystrade. Piccola piccola. Alla fine. Quasi invisibile.

Come al solito, tutto quello che dico riguardante la medicina ed il primo soccorso mi deriva da fonti puramente ludiche, dunque non è assolutamente oro colato. Non prendetelo come tale e, per chi ne sa di più, se ci sono errori perdonatemi ^^’’’

Come al solito, eventuali altre note sono a fondo pagina.

 

A chi desidera, buona lettura

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Venerdì 3 MarzoMidnight

 

 

 

• The Tube; Waterloo > Enbankment (Rescue Team), h. 16:00 pm

 

Donna, trent’anni circa, completo di Armani e scarpe di Gucci, tacchi a spillo, valigetta ventiquattrore in pelle lavorata; tutto urlava “impiegata d’ufficio”, vestita con abiti troppo firmati e costosi per essere una semplice segretaria, dunque doveva essere una consociata di una ditta importante. Non avvocato. Non sarebbe stata in metropolitana – e comunque molti se lo erano chiesto, come mai una persona che poteva permettersi Gucci e Valentino mettesse piede sulla Bakerloo Line.

Nessuna ferita riscontrata esternamente, nessun ematoma, nessuna lacerazione. La testa voltata con un angolo innaturale verso l’alto, un bozzo era ben visibile sulla gola. Morta sul colpo. Anche se avesse ricevuto traumi da impatto, probabilmente l’organismo non era rimasto in vita per un tempo sufficiente a consentire la formazione di qualche livido di sorta.

Accanto: persona anziana, tra i sessanta  e i settant’anni, ben rasato, capelli tagliati da poco, vestiti del decennio scorso, scarpe sporche di fango. Pensionato proveniente dalla campagna in viaggio a Londra, probabilmente per andare a trovare i figli dato che non sembrava portare altro con sé se non il portafoglio ed il fazzoletto, entrambi ritrovati nelle tasche dei pantaloni.

Polso rotto, trauma cranico, caviglia slogata e ferita da taglio alla spalla destra. La causa della morte, molto probabilmente, era stata il trauma cranico, a giudicare dall’ematoma presente su tutto il volto.

Di nuovo: ragazzo, diciassette anni a giudicare dal libretto scolastico, appartenente alla subcultura Punk. Non avevano ancora ritrovato la testa, ma a giudicare dai calzini spaiati e di due colori diversi e dalla punta delle dita della mano destra era dedito al consumo smodato di marijuana.

Poi, per un momento, qualcosa gli aveva impedito di respirare.

Da sotto un cappotto, un ciuffo di capelli biondo cenere. Corti. Un po’ ispidi. Un accenno di carnagione pallida e sporca di sangue.

Associazione mentale: John + sangue + pallore cadaverico = morte.

Blocco momentaneo delle facoltà, il corpo che si muove da solo e sposta il giubbotto incriminato con un movimento sin troppo agitato della mano.

L’uomo non è John ma è sicuramente morto a causa di una ferita alla tempia causata dal forte impatto contro il vetro del finestrino, che infatti risulta rotto e sporco di sangue in un punto unico.

Ma non era John. Non era John.

Sherlock sospirò silenziosamente, lasciando che la sua mente scivolasse di nuovo in quella situazione di stallo psicologico che gli permetteva di usare le proprie facoltà intuitive e deduttive ad un livello più o meno normale di operatività. Lo fece lentamente, socchiudendo gli occhi mentre veniva circondato da paramedici che controllavano inutilmente lo stato dei cadaveri a terra, prendendosi il tempo di zittire di nuovo il suo cuore fin troppo rumoroso.

Un cuore che non aveva mai usato ma che ora urlava continuamente, riempiendogli le orecchie con i suoi battiti martellanti, nell’unico momento in cui avrebbe preferito non sentirli, non distrarsi nel tentativo di zittirli.

« Non c’è nemmeno qui? » sentì una voce pronunciare dal suo fianco, che riconobbe come quella di Nicholas Ryder.

Scosse il capo in senso negativo.

Quella frase aveva due interpretazioni possibili, purtroppo, e dipendevano dal punto di vista di chi se la sentiva porre: una positiva per cui no, non avevano ancora trovato il cadavere di John in mezzo a tutti quelli che avevano dovuto controllare ed estrarre dalle macerie nel giro di due ore appena – solamente otto persone su cinque vagoni erano sopravvissute all’impatto, e di vittime ve ne erano almeno il doppio – e l’altra negativa, intesa nel senso che non avevano ancora trovato John vivo nonostante avessero penetrato già cinque vagoni.

E purtroppo, nonostante Sherlock cercasse con tutto de stesso di tenersi distaccato da qualsiasi influenza emotiva di qualsivoglia specie, purtroppo analizzava quelle parole ogni volta nel significato peggiore.

Ryder sospirò. « Lo troveremo » pronunciò poi, forse per fargli forza.

Holmes non poté far altro se non sorridere amaramente.

Ancora quell’ottimismo smodato. Lo stesso di Lestrade, lo stesso di John. Anche Ryder era una di quelle persone che non si perdono mai d’animo, e probabilmente era per questo che si era meritato il compito di guidare la squadra di ricerca.

Ma rimaneva comunque un ottimista e, in certe situazioni, dell’ottimismo non te ne fai nulla.

In momenti come quello, per esempio, in cui Holmes non poteva fare a meno di chiedersi – anche se a bassa voce, sussurrando mentalmente a se stesso e con se stesso, come se le parole che il cuore pronunciava non volessero disturbare troppo la sua razionalità; come se il loro scopo fosse semplicemente quello di rimanere lì, ferme immobili, a fare presenza e non permettergli di cancellarle o di ignorarle – se era una cosa normale  non avere ancora trovato l’amico, e quanto in là poteva effettivamente andare la sua speranza di ritrovarlo.

Non voleva arrivare al punto di pensare qualcosa come “vivo o morto non ha importanza”. Voleva riportarlo a casa, alle cose che gli appartenevano, alla quotidianità imprevedibile che avevano assimilato come qualcosa di loro, qualcosa che li legava alla realtà tangibile.

Quel qualcosa che teneva lontani gli incubi di John, e lontano Sherlock dalla dose di cocaina che avrebbe sempre trovato modo di reperire in ogni momento.

Distaccò infine gli occhi dai capelli dell’uomo morto ai suoi piedi, girando il capo ed incamminandosi verso l’uscita della carrozza. Ryder lo seguì.

« Holmes! » lo chiamò, afferrandolo per un braccio e fermandolo non appena mise piede fuori dalla porta che avevano forzato per entrare.

Sherlock si fermò, osservandolo in silenzio. Non aveva parlato praticamente da quando avevano cominciato le ricerche insieme, se non per dare qualche consiglio di carattere tecnico. Aveva persino cominciato a descrivere le cause della morte e ad elencare tutto ciò che poteva evincere dai cadaveri – e poteva trarne veramente molto, avevano notato tutti – ma ad un certo punto aveva smesso di fare anche quello.

« Senta... non è una domanda che io abbia veramente voglia di porle, ma mi sembra importante fargliela... » disse Nicholas, guardando ovunque tranne che direttamente nei suoi occhi: « ecco... lei è sicuro che questo John sia qui sotto? » domandò.

Se Nicholas Ryder avesse conosciuto Sherlock Holmes così come lo conosceva l’ispettore Lestrade, o lo stesso dottor Watson che tanto si prodigavano a cercare, probabilmente non gli sarebbe mai venuto in mente di formulare quella domanda, ne tantomeno di darle voce. Ma Nick Ryder non aveva mai avuto a che fare con l’unico consulting detective del mondo, in effetti.

Sherlock lo trapassò da parte a parte con uno sguardo che dire minaccioso non esprimeva appieno il concetto.

Solamente una volta in vita sua aveva avuto la terrificante esperienza del dubbio, rimanendone del tutto provato.(1) E quella volta non riguardava John – John era al suo fianco, aveva cercato di parlargli, di farlo tornare alla ragione anche se con scarsi risultati – e anche solo la prospettiva del pensiero che qualcuno, anche se non lui direttamente, potesse avere il dubbio che stesse sbagliando, lasciava nella mente del detective la traccia fastidiosa di un intoppo insormontabile in quello che era il suo imperativo categorico di trovare Watson ad ogni costo.

Sherlock Holmes non avrebbe dubitato, perché dubbi non ve ne erano. John era lì sotto. Doveva essere lì sotto.

Vivo. Intrappolato. Aveva bisogno di lui. Doveva andare. Non poteva perdere tempo con persone che non credevano alle sue parole o cercavano anche solo di prendere in considerazione la possibilità che l’amico non si trovasse da qualche parte in mezzo al metallo di quel disastro.

« È qui » tagliò corto Sherlock, deciso, lapidario.

Se Ryder si sentì a disagio, sotto l’improvvisa profondità di quegli occhi, non lo diede a vedere. Si limitò a schiarirsi la voce, togliendosi per un secondo il casco e tirandosi indietro i capelli con le mani, ormai sporchi di polvere come i loro abiti ed il viso. Poi, incontrando di nuovo i suoi occhi, annuì.

« La avverto solo di una cosa però, signor Holmes » cominciò poi Nicholas: « io ho l’obbligo di portare in salvo tutte le persone ancora in vita presenti qui sotto, e per poterlo fare devo applicare una scala di priorità che varia da individuo ad individuo a seconda delle loro condizioni di salute. Se per caso troviamo il suo amico, e ci dovessero essere persone in condizioni peggiori di lui, io devo aiutare prima i più gravi. Tutto chiaro? » domandò seriamente, osservandolo.

Sherlock lo guardò a sua volta, lo sguardo non meno deciso di quello del caposquadra: « lei non si preoccupi, in quel caso ci penserò io a John » disse.

Nicholas non aggiunse niente. O probabilmente stava per farlo, ma Dennis comparve alle sue spalle reclamando la sua attenzione: « Nick, abbiamo finito di estrarre i corpi dal vagone, possiamo passare al successivo » disse.

Ryder annuì, puntando lo sguardo oltre Sherlock.

I due vagoni successivi erano il nodo più difficile del disastro e, tecnicamente parlando, l’ultimo su cui potevano effettivamente intervenire. Oltre a quelli, solo un cumulo informe di metallo piegato e ripiegato un pezzo sopra l’altro; le carrozze erano penetrate con forza l’une dentro l’altra, tanto che la probabilità di trovare sopravvissuti era talmente ridotta da non permettere l’intervento delle squadre di ricerca, ma solo quelle dei tecnici che avrebbero segato e rimosso i pannelli uno ad uno, svitando bulloni e cerniere.

Rimanevano due vagoni.

Due vagoni per decidere chi era vivo e chi era morto.

Due vagoni, uno sopra l’altro, schiacciati e malmessi, addossati alla parete tanto che in quello sottostante era impossibile che penetrasse la luce del tunnel.

Due vagoni per sapere se John era ancora vivo o no. Due vagoni pieni del loro tempo, dei loro ricordi, delle loro parole e di tutto ciò che avevano affrontato insieme da quando si erano conosciuti.

Due vagoni di speranza, e poi il nulla della solitudine.

 

 

• The Tube; Waterloo > Enbankment (Train’s Coach), h. 16:30 pm

 

Un forte rumore metallico gli fece aprire gli occhi, chiusi da qualche minuto in un’inutile ricerca di un po’ di riposo.

Inizialmente, gli sembrò di aver sentito male. Una sorta di allucinazione uditiva, causata dalla voglia smodata di uscire da quel posto, oppure semplicemente dalla suggestione.

Poi, un altro colpo. Rimbombò nella carrozza facendo vibrare l’aria.

John ed Edward, anche lui fermo in ascolto, si guardarono per un lungo, fondamentale istante. Trattennero il respiro, in attesa, poi ne sentirono un altro.

Non era naturale, così come non era casuale. Era ripetuto, fottutamente ripetuto, maledettamente ripetuto ed era rumore di attrezzatura umana, usata da mano umana, umana.

Qualcuno era venuto a salvarli.

John sorrise, stirando le labbra in un fiotto di contentezza; Edward, replicando il medesimo sorriso, scoppiò in una risata. « Sì, cazzo! Sì! » esclamò, ed un attimo dopo era già in piedi, il volto rivolto verso il soffitto del treno.

« Ehi, EHI! Siamo qui! Siamo qui, ci sentite! » urlò con tutta la voce che aveva in corpo, posandosi la mano sana a coppa sulle labbra, cercando di amplificare la propria voce.

Watson, che fece gentilmente ad Alice segno di scendere dalle sue ginocchia, si unì al coro: « Ehi, qui, qui! Ci sono dei feriti, abbiamo bisogno di aiuto medico! » urlò a sua volta, avvicinandosi alla porta su cui era appoggiato e battendo i pugni nel tentativo di provocare ancora più rumore.

Alice, incuriosita ed allo stesso tempo spaventata da tutto quel frastuono, si attaccò al polsino della camicia di John e tirò, chiedendo attenzione. « Cos’è successo? » gli chiese quando l’uomo la guardò, interrompendo le urla.

Il medico sorrise gentile, mettendole una mano sulla testa e carezzandole i capelli. « Quasi sicuramente fuori ci sono delle persone che sono venute ad aiutarci. Dobbiamo fare sapere loro che ci siamo, così ci tireranno fuori e potremo tornare tutti a casa... » le spiegò, cercando di non usare parole che la bambina avrebbe faticato a capire.

Alice, osservandolo con quegli occhi grandi e luminosi, sorrise felice. « Posso tornare dal mio papà! » esclamò contenta, trovando l’approvazione di John, che annuì.

Avrebbe potuto rivedere Sherlock. Era questione di minuti, forse di un’ora, e poi finalmente li avrebbero tirati fuori da quell’inferno e lui avrebbe potuto prendere il cellulare e chiamarlo. Avrebbe continuato a farlo squillare finché, probabilmente seccato perché interrotto nel mezzo di un esperimento o di un ragionamento, l’altro non avrebbe risposto.

E allora gli avrebbe chiesto scusa, a prescindere da chi avrebbe dovuto davvero scusarsi dei due. Gli avrebbe detto che stava tornando a casa e che voleva passare il resto della giornata con lui. Anche sul divano, a guardare uno di quei talk-show da televisione spazzatura tanto amati dalla cara mrs. Hudson, oppure una qualche serie investigativa americana su cui Sherlock avrebbe irrimediabilmente detto la sua, facendolo ridere come un matto per tutta la durata dell’episodio. Avrebbero ordinato cinese, quella sera, come al solito, e voleva farsi raccontare tutto, tutto quello che l’altro aveva pensato in quella giornata, i suoi casi migliori e quello più spaventoso, dov’era andato a scuola e cosa aveva fatto prima di incontrare lui, quella mattina al Bart’s di più di un anno prima.

Ma non era importante fare esattamente quelle cose. In quel momento, si sentiva anche in grado di stare seduto tutta sera sulla propria poltrona, in silenzio, con una tazza di tè in mano, ad osservare Sherlock suonare il violino, osservare chissà cosa seduto al tavolo della cucina o intento ad usare il suo notebook dopo aver di nuovo scoperto la password. Lo avrebbe guardato con un lieve sorriso sulle labbra e non avrebbe fatto nient’altro.

Sarebbe rimasto così, immobile in un istante infinito cercando semplicemente di assimilare la presenza dell’altro e a memorizzarla sotto la pelle, in modo da poterla portare sempre con sé e non poterla più dimenticare.

Neanche nella morte.

Alice però tirò nuovamente la manica della camicia di John, richiamando la sua attenzione una seconda volta.

John non gliela negò. « Cosa c’è? » domandò, osservandola con ancora un residuo di sorriso sulle labbra.

« Joy deve essere molto stanca, perché non si sveglia... » disse la bambina, indicando con il dito la ragazza dall’altra parte del vagone.

Non gli ci volle molto, al dottore, per capire che qualcosa non andava. Il viso della ragazza era pallido e sudato, i capelli erano attaccati alla fronte e al collo e la mano che aveva appoggiato al corrimano di metallo aveva preso la stretta, rimanendo abbandonata sul grembo. La gamba ferita era ancora piegata e ferma, ma solo perché poggiava contro il metallo.

A John sembrò che il cuore gli fosse stato strappato. Si dimenticò in un istante sia della felicità che della fiacchezza che si sentiva addosso da un po’.

« Joy! » esclamò il medico, spostando la piccola Alice con tutta la grazia di cui potesse disporre – effettivamente non molta – avvicinandosi in fretta alla ragazza a terra ed inginocchiandosi al suo fianco. Posò subito le mani sulla guance dell’altra, sentendola fradicia di sudore e fin troppo calda. Doveva avere per lo meno trentanove gradi: la pelle era bollente.

Allo scatto del medico verso la giovane anche il soldato aveva smesso di urlare, portando subito lo sguardo poco avanti a sé; notando poi che Joy non rispondeva a nessun richiamo di John, a sua volta si era avvicinato ai due: « cosa succede? » aveva chiesto, improvvisamente in ansia.

Watson, ignorando la domanda, le appoggiò due dita sulla carotide, poi le prese il polso e si concentrò per sentirne le pulsazioni: c’erano, ed erano forti e veloci unite ad un respiro debole ma annaspante.

« Ha il battito molto accelerato... c’è qualcosa che non va » esclamò con un filo di voce, distaccandola lentamente dalla parete a cui era appoggiata per cercare di distenderla; Edward, tenendola per il busto con l’unico braccio di cui disponeva, diede una mano al dottore.

Quando la ragazza fu distesa, John le controllò di nuovo il polso carotideo, aggrottando le sopracciglia con fare a metà fra il disperato e l’indeciso.

Si spostò sulla gamba e cominciò a disfare la fasciatura. « Ed, tieni due dita premute sulla sua carotide e dimmi se il cuore smette di battere » disse pragmatico, senza nemmeno guardarlo, impegnato com’era a liberare la ferita dalla benda senza provocare altri danni.

Il giovane soldato annuì, appoggiando due dita sulla gola della ragazza e sorridendo nel frattempo ad Alice, in piedi poco distante con gli occhi lucidi di paura prima repressa ed ora riaffiorata.

Joy, nel frattempo, non si svegliava. Nonostante fosse scontato che John le stesse facendo male nel disfare la fasciatura, lei non aveva nessuna reazione, né si muoveva. Uno stato completamente incosciente aveva avvolto la sua mente, tanto che nemmeno il dolore era sufficiente a farle riaprire gli occhi.

Watson, d’altro canto, poteva immaginare cosa stesse succedendo. E sperava di sbagliarsi.

Era stato uno stupido a non accorgersene prima, a non capire che quelle smorfie iniziali erano dovute ad un dolore di un tipo diverso da quello provocato dalla ferita in sé e per sé. Era stato un idiota a non capire che lei stava male, che stava per perdere i sensi con la possibilità di non risvegliarsi mai più... e lui cos’aveva fatto? Aveva chiuso gli occhi, richiamando a sé un sonno leggero che non poteva concedersi. Lui era il medico, lui era stato eletto silenziosamente a colonna portante proprio grazie alla sua laurea in medicina e alla sua capacità di prendere il controllo del piccolo gruppetto, non poteva perdere il controllo!

Non avrebbe dovuto dormire, non avrebbe dovuto chiudere gli occhi, non avrebbe dovuto cedere alla stanchezza! Nemmeno un istante, nemmeno un secondo! Era stato un idiota!

E per la sua idiozia, Joy rischiava di morire. Solo per la sua idiozia.

Strinse i denti talmente forte, nel riportare nuovamente alla luce la ferita di Joy, che cominciarono a fargli male le gengive. Avrebbe quasi ringhiato, probabilmente, se non avesse dovuto ritrovare un minimo di controllo per fare effettivamente il suo lavoro: controllare la ferita.

Il sangue si era fermato ed aveva cominciato già a coagulare, formando piccole croste scure di sangue raffermo su di una superficie rosso vivo, lo stesso colore del sangue fresco che macchiava la pelle tutt’intorno. I margini della ferita invece, sia da una parte che dall’altra a contatto con la sbarra di ferro che trapassava il muscolo della coscia, risultavano frastagliate e rosse, con vescicole di colore giallo, alcune delle quali rotte. John estrasse il proprio fazzoletto dalla tasca e, pulendo la pelle intorno dal sangue che l’aveva sporcata, poté notare che era butterata da piccole macchioline rosse in prossimità della ferita.

Aveva già visto molte volte quelle macchie, in Afghanistan. Sapeva cos’erano. Sapeva che nella maggior parte dei casi colpiva la pelle, ma che se penetrava all’interno dell’organismo il danno poteva essere anche peggiore. Molto peggiore.

Sei uno stupido, John Watson. Questa ragazza morirà e sarà tutta colpa tua.

Sospirò, trattenendo un gemito di rassegnazione, posandosi il dorso della mano sugli occhi e facendo molta attenzione a non toccarsi direttamente il viso con la mano sporca di sangue.

Non c’era molto da fare. No... non c’era più niente da fare.

« Cos’ha? » domandò Edward, agitandosi nel vedere il medico immobile. « Cosa c’è, dottor Watson?! » esclamò, senza spostare la mano dal collo di Joy ma prestando palesemente tutta la sua attenzione al dottore.

Lui, deglutendo, cercò dentro di sé la forza di pronunciare le parole del proprio fallimento. « Stafilococco... » disse in un soffio, continuando con lo sguardo basso: « ha un’infezione... probabilmente è già nel sangue. Setticemia. Mi serve della penicillina, o degli antibiotici a largo spettro... o meglio, mi servirebbe un dannato ospedale! » disse, gridando l’ultima frase in un moto di rabbia, facendo sobbalzare sia Edward che Alice, la quale prese a piangere silenziosamente.(2)

Il soldato deglutì, prendendo fiato due volte prima di riuscire ad articolare la domanda che voleva fare: « come... cos... cosa facciamo ora? » gli chiese, in attesa di qualche sua parola.

John non si sentiva più in grado di guidare nessuno, in quel momento. Era dolorosamente consapevole che l’aggravarsi delle condizioni della ragazza poteva essere colpa sua, che si era distratto, ma sapeva anche che avrebbe preso quell’infezione comunque, e senza medicinali non avrebbe potuto far niente per lei né prima né dopo.

Ma era comunque la magra consolazione del macabro colpo di “fortuna” che non faceva per niente sparire il senso di colpa, anzi, ne aumentava la morsa opprimente.

Edward probabilmente notò lo sguardo perso di John, perché lasciò il collo di Joy per mettere la mano sulla spalla del medico, cominciando a scuoterlo per portarlo alla realtà: « Capitano, non mi vada in confusione adesso! Ho bisogno di lei, io non sono un medico e non so cosa fare! » disse, in quello che doveva essere un gesto per destarlo ma che finì per essere una sorta di contenitore per il suo panico.

John, tuttavia, annuì. Sorvolò persino sul fatto che lo avesse chiamato con i suoi gradi... ma erano veramente poche le cose che poteva dire, in quel momento, e non ve ne era nessuna che potesse effettivamente fare.

« Non... non possiamo fare niente, Edward... » mormorò, lasciando che l’altro lo guardasse a bocca aperta, ricambiando lo sguardo: « non abbiamo medicinali, e non abbiamo nemmeno la possibilità di trovarne. Ormai è completamente incosciente... se è davvero setticemia, presto i suoi organi interni cominceranno a cedere uno ad uno e quando toccherà al cuore... » lasciò cadere.

Ad Edward non servì il seguito della frase per capire cosa stesse per dire e cosa significasse quell’improvviso silenzio.

« Maledizione... » sussurrò a sua volta, abbassando il volto e serrando gli occhi.

Alice, in piedi immobile a qualche passo da loro, li guardava con occhi sgranati pieni di lacrime. I forti rumori in lontananza continuavano a sentirsi, ma lei sembrava l’unica a dargli ancora peso. Spostando il capo lentamente, osservò l’involucro di abiti che copriva quella che doveva essere sua madre.

Tirò su con il naso e, lasciandosi finalmente andare, scoppiò di nuovo in un pianto convulso.

Fu accolta dall’abbraccio impacciato di Edward, che la strinse forte a sé.

 

 

• The Tube; Waterloo > Enbankment (Rescue Team), h. 17:00 pm

 

La dinamica effettiva con cui un vagone simile, di quel peso e con quella massa, potesse essersi effettivamente posizionato sopra un altro vagone del tutto uguale, per lui rimaneva un mistero.

Era ingegnere navale, e ne aveva viste tante durante il tirocinio formativo dell’ultimo anno di università... ma mai, mai gli era capitata, anche solo in simulazione, una situazione del genere.

La trovava una cosa semplicemente impossibile. Eppure, dato che aveva l’accaduto proprio davanti agli occhi nella sua forma reale e tangibile, avrebbe dovuto smettere di ritenerlo tale e cominciare a pensare a come districarsi da quella situazione complicata.

Perché, tanto per cambiare, aveva dei problemi.

Tanto per cominciare, avevano impiegato mezz’ora per capire come entrare all’interno del vagone soprastante. Non si vedeva nessuna luce né si sentiva nessun rumore all’interno, ma il suo lavoro era vedere con gli occhi, non supporre con l’istinto.

I finestrini erano tutti schiacciati e quelli ancora, in parte, interi erano completamente impraticabili. Avevano dovuto prima martellare la fiancata, cercando di rendere il metallo un po’ più cedevole, poi aprirsi un varco abbastanza largo con la sega circolare, che non aveva fatto altro che riempire l’aria di altra polvere, facendo rimbombare ed echeggiare il rumore acuto dei dentelli lungo la galleria.

Alla fine, dopo tutti gli sforzi, erano riusciti ad entrare. Tutti cadaveri. Un’altra mezz’ora per tirarli fuori tutti e trasportarli all’esterno in barelle all’interno di sacchi neri di plastica.

Probabilmente, se avesse avuto tempo di fermarsi un attimo, gli avrebbero fatto anche pena. Vero era che faceva il vigile del fuoco, quindi era piuttosto naturale che si trovasse in situazioni simili... ma rimaneva comunque un essere umano con una famiglia, e quando succedevano cose come l’incidente ferroviario di quel giorno, si diceva sempre che era qualcosa di talmente casuale che era stupido pensare che non potesse succedere anche ai suoi cari – sua moglie, lui stesso, suo figlio in arrivo...

Ci pensava, e facendolo provava irrimediabilmente un fastidio seccante.

Lo fece anche quella volta, ma scacciò il pensiero con una scrollata di capo e tornò ad occuparsi del proprio lavoro.

Si avvicinò a Dennis a passo svelto, che stava raccogliendo e spostando altrove la sega circolare usata poco prima. « Dennis? » chiamò, poggiandogli una mano sulla spalla.

Quello, alzando gli occhi incredibilmente stanchi su di lui, rimase in attesa della domanda.

Li stava sfibrando, quegli uomini. Stava pretendendo il massimo e loro gli stavano dando il massimo, ma erano stanchi, e si vedeva. Avevano bisogno di respirare aria pulita.

« Prendi i ragazzi e torna su. Ho già detto al capo di mandare giù una squadra di riserva, è in arrivo » gli disse.

« Non se ne parla nemmeno, ragazzino! » esclamò l’altro, riprendendo per stizza il primissimo soprannome che puntualmente gli avevano affibbiato, una volta entrato nel corpo dei vigili del fuoco: « non ho la minima intenzione di lasciarti qui sotto da solo. E no, non voglio sentire “ma”, “però” o pietosissimi “è per la tua salute”! » lo anticipò, tarpandogli le ali fin dall’inizio della risposta che aveva pensato di dargli.

Cosa che fece comunque, in ogni caso. « Sai benissimo che è vero » si limitò a dirgli, sospirando piano.

Quello, cocciuto, non cambiò idea. « Manderò su i ragazzi, Nick, ma non esiste che io mi sposti da qui. Ho giurato a me stesso che ti avrei tenuto d’occhio ed è quello che farò » disse, e suonò definitivo.

Nicholas avrebbe potuto fare appello al regolamento, al giuramento che avevano fatto quando avevano vestito la divisa, alla regola d’oro “prima gli altri poi te stesso”; avrebbe potuto persino votarsi a chissà quali santi, ma sapeva benissimo che Dennis non avrebbe mosso il suo culo da quella galleria nemmeno sotto minaccia.

Non finché lui rimaneva lì sotto. E nemmeno lui intendeva muovere il culo da quella galleria, dopotutto.

Era una sottospecie abbastanza tragicomica di impasse.

Sospirando rassegnato, gli annuì complice. « Ma manda su gli altri... » si limitò a dirgli, ricevendo in risposta un secco cenno d’assenso.

Osservandolo dirigersi verso il resto della squadra – che comunque non prese benissimo la decisione, a giudicare dai lamenti che sentì – passò all’altro ostacolo sulla sua corsa che sapeva già non sarebbe riuscito a superare: Sherlock Holmes. Lo cercò con lo sguardo.

Se ne stava seduto sul fondo della galleria, sopra ad uno dei massi più grossi crollati insieme a parte della stessa, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e le mani unite portate al mento. Si sarebbe quasi potuto dire che stesse pregando, se non fosse stato per gli occhi spalancati sul nulla, fissi in un solo punto come non fosse nemmeno lì con loro ma stesse navigando altri mari verso altri orizzonti.

Si avvicinò. I capelli ricci e scuri erano madidi di sudore, sceso lungo gli zigomi in gocce salate che avevano lasciato scie scure sul lieve strato di polvere depositatosi lentamente sul suo viso pallido e filiforme; esse sparivano nel colletto della casacca gialla, arrivando fino al collo. Ma questo era l’unico aspetto che tradiva l’impegno impiegato da Holmes nella ricerca del proprio amico, perché nulla del suo sguardo o della sua posizione mostrava stanchezza o sforzo fisico. Era ancora lucido come quando era sceso in quel tunnel, cosa che gli faceva onore considerando che il resto della squadra era quasi al limite della propria resistenza – motivo per cui erano stati mandati tutti di sopra.

Nicholas si sedette al fianco del detective, in attesa che gli uomini inviatigli dalla superficie arrivassero. Sherlock non mosse un muscolo al suo arrivo, né diede l’impressione di essersene effettivamente accorto.

Il tunnel era improvvisamente più silenzioso e l’unico rumore che riempiva quel silenzio erano i passi pesanti di Dennis sulla ghiaia grossa fra i binari. Nick decise di prendere parola, abbastanza convinto che altrimenti Holmes non l’avrebbe fatto.

« Sa, dovrei dirle di tornare in superficie, in realtà » cominciò: « e spiegarle i pericoli che si corrono nel respirare polvere per quattro ore, ma... so già che non mi ascolterebbe, o mi ignorerebbe direttamente, dunque penso che risparmierò il fiato » disse, togliendosi il casco e passandosi la mano fra i capelli.

L’altro, senza abbandonare la sua posizione, assottigliò gli occhi. Fu l’unico segno tangibile che mostrò e che dimostrava che lo avesse effettivamente ascoltato, dunque Nick non se la prese troppo quando la sua osservazione cadde nel silenzio.

Come se niente fosse, senza nemmeno chiedersi se lo stesse disturbando o meno, continuò a parlare. Chissà per quale motivo, nella sua mente Sherlock Holmes era nel bel mezzo di un processo di autodistruzione silenziosa e aveva conseguentemente pensato che parlargli, in quel momento in cui erano impossibilitati a fare altro, fosse una soluzione elegante per mantenerlo con i piedi per terra.

« Sa, ci ho pensato da quando ho sentito il suo nome... » riprese, posando gli occhi sulla volta scura della galleria: « non mi suonava nuovo, e alla fine mi sono ricordato. “The Science of Deduction”, dico bene? » domandò.

Con la coda dell’occhio vide Holmes girare il viso in sua direzione. Finalmente era riuscito ad attirare la sua attenzione.

« Lo legge? » domandò poi lo stesso Sherlock, un pizzico ben celato di curiosità nella voce.

Nick si sentì interiormente soddisfatto per quella piccola vincita. « Non io, mia moglie. È un avvocato, e in qualche occasione mi ha detto che ha trovato il suo sito molto utile per alcuni casi che stava seguendo insieme a dei clienti particolarmente difficili da gestire. Ho letto anche io qualcosa, ma devo ammettere che mi interesso di più al blog del suo collega... » raccontò.

Nel farlo, notò un fremito negli occhi così incredibilmente chiari dell’altro. Ebbe improvvisamente la conferma di quello che sospettava da un paio d’ore a quella parte e se ne rattristò.

Aveva sperato nel fatto che di “John” fosse pieno il mondo. Aveva sperato che la persona sepolta lì sotto non fosse l’autore di quel blog che tanto apprezzava leggere la sera, di ritorno dal lavoro, in cui si raccontavano meglio che in un telefilm a puntate le avventure e le indagini dell’unico consulting detective del mondo e del dottore suo compare.

« Il dottor John H. Watson » pronunciò quel nome con rispetto e reverenza: « ...è lui che stiamo cercando, signor Holmes? » chiese poi, limitandosi ad osservarlo di sottecchi.

Sherlock tenne gli occhi puntati verso terra, socchiusi in un pensiero che doveva essere particolarmente insistente. Annuì piano alla sua domanda, sospirando debolmente.

Nicholas chiuse gli occhi a sua volta. « Speravo che non si trattasse di lui. Lo speravo davvero. Ma più la guardavo e più mi rendevo conto che, probabilmente, non avrebbe potuto essere nessun altro » riaprì gli occhi: « dopotutto, immagino che voi siate... » lasciò cadere, quasi in imbarazzo a porre quella domanda implicita.

Sherlock sospirò più veementemente, dando l’impressione di qualcuno che faceva leva sulla sua più piccola stilla di autocontrollo per rimanere semplicemente fermo in quel punto senza niente per le mani.

« Non lo siamo » si limitò a rispondergli.

Nick alzò le sopracciglia: « davvero? ».

« È un fraintendimento comune » gli rispose il detective.

« Beh... non me ne meraviglio » commentò distrattamente il pompiere, sfregandosi le mani sul tessuto dei pantaloni per poi portare le dita a strofinarsi gli occhi. Non lo avrebbe mai ammesso, ma cominciava a sua volta a sentire la stanchezza delle ore passate in quel tunnel.

Fu Sherlock a riportarlo sui binari della conversazione – anche se per la maggior parte solitaria – che era stato capace di imbastire: « perché no? » chiese semplicemente.

Ryder girò appena il volto in sua direzione, osservandolo di sottecchi ma abbastanza palesemente da incrociare il suo sguardo debilitante, totalmente rivolto verso di lui. Sentiva dentro di sé che quella domanda non era rivolta alle ovvietà, come il fatto che loro vivessero insieme e comparissero sempre e comunque uno accanto all’altro dappertutto; aveva più l’idea che ricercasse qualcosa di più profondo, o che lo stesse mutamente sfidando a dire qualcosa di più di quello che si poteva semplicemente immaginare con l’aiuto della logica e della fantasia.

D’altro canto, poteva anche stare perdendo la testa. Sarebbe stato altrettanto plausibile.

« Mi baso su quello che leggo » gli disse dunque: « vede... Il dr. Watson parla di lei nel suo blog come io parlerei di mia moglie, scrivendo ciò che ha di buono e facendo passare per sottigliezze irrilevanti ciò che di buono non ha. Non so come spiegarglielo... ma ha un modo di dipingerla che fa sorridere e, fra le righe, si capisce che tiene a lei. E’ il modo di descrivere agli altri le persone a cui teniamo, lo si fa sempre con un sorriso sulle labbra » spiegò, sorridendo.

Sherlock, ascoltando quelle frasi con l’attenzione che metteva in tutto ciò che faceva, chiuse nuovamente gli occhi. Un secondo, non di più, ma fu sufficiente per abbassare un po’ delle difese che aveva eretto intorno a se stesso.

L’angoscia dell’attesa è sempre quella più terribile di tutte, sia mentalmente che fisicamente. Era un meccanismo di autodistruzione sconsiderata, che sfibrava la mente e tramite essa intaccava anche il corpo.

Una o l’altra. Se solo avesse saputo le sue condizioni... John poteva essere vivo o morto, cinquanta e cinquanta, ma anche solo il fatto di saperlo lo avrebbe fatto spostare da quel limbo pesante come piombo che stava facendo riaffiorare lati di lui nascosti per anni in un qualche angolo del subconscio e lì dimenticati, lasciati con la promessa che non li sarebbe mai andati a riprendere, che non ne aveva bisogno.

Sentimenti... era impreparato ad affrontare un’onda anomala di tale portata. John avrebbe saputo cosa fare, non lui, lui no.

« Lui ha... » cominciò dunque il detective, per una volta iniziando un discorso di propria iniziativa: « ...ha la brutta abitudine di pensare sempre prima con il cuore. E possiede anche la strana capacità di riuscire a salvarti da te stesso » disse solamente, lasciando intuire solo una parte di ciò che era John Watson, cioè molto più che cuore e gentilezza.

Nick si chiese da cosa il dottor Watson era solito salvarlo, cosa c’era nella persona di nome Sherlock Holmes da rappresentare un pericolo per se stesso – oltre al fatto di cacciarsi in situazioni pericolose senza il minimo ripensamento, ovviamente.

Doveva esserci molto di più dietro quell’essere umano di nome John Watson che Holmes non era intenzionato a rivelare, per lo meno non a voce. Ma lo vedeva dallo sguardo, dagli occhi preoccupati perennemente in movimento, dalle labbra stirate appiattite l’una contro l’altra, dalla fronte aggrottata e dalle sopracciglia strette. Non bisognava essere un genio della deduzione per capire che il detective, astro d’intelligenza e dal carattere molto particolare, vedeva molto più nel dottor Watson di quello che esprimeva, e probabilmente anche più di quello che era pronto ad ammettere a se stesso e davanti agli altri.

Nicholas, ascoltando per l’ennesima volta il silenzio venutosi a creare fra loro, si convinse infine che questo medico doveva essere non solo una persona importante, per Sherlock Holmes, ma che addirittura rasentasse il limite della necessità, per quell’uomo.

Pregò, mentre Dennis lo richiamava all’ordine indicando in lontananza la nuova squadriglia in arrivo, che accadesse un miracolo. Pregò Dio di avverare il desiderio di Holmes.

Pregò Dio di trovare il dottor John Watson vivo e vegeto.

 

 

• The Tube; Waterloo > Enbankment (Train’s Coach), h. 18:00 pm

 

« Ha... ha smesso di battere ».

John alzò gli occhi sul soldato solo per un istante: tanto gli servì per assicurarsi che stesse dicendo la verità.

Il terrore che lesse in quelle iridi era del tutto sincero. Non era possibile fingerlo, non così bene, e in ogni caso aveva ormai imparato che Edward era un ragazzo sincero e schietto.

Aveva fatto come gli era stato detto, tenendo appoggiate le dita della mano sul collo di Joy per almeno un’ora mentre John cercava in tutti i modi di pulire la ferita, utilizzando stracci puliti e saliva.

Aveva ingannato gli altri ingannando se stesso. Sapeva benissimo che non avrebbe potuto fare niente in ogni caso, se non forse aspettare quei soccorsi che più volte avevano smesso di dare segno della loro presenza, salvo riprendere a martellare e a lavorare poco dopo.

Motivo per cui non si sorprese poi molto, quando la voce di Edward scandì quelle parole.

Senza preoccuparsi delle mani sporche si allungò subito ad appoggiarle un dito prima sul polso, poi sulla carotide.

Niente. Edward aveva ragione, alla fine il cuore aveva ceduto.

Stava morendo.

Rimase per qualche istante a guardarla, cercando di trovare una risposta che in realtà aveva già. Poteva provare con un massaggio cardiaco, certo, ma anche se fosse riuscito a riattivarle il cuore, nessuno poteva dire quanto altro tempo avrebbe potuto reggere. Per quello che ne sapeva, ormai esso era danneggiato e anche se avesse ripreso a battere, molto probabilmente Joy avrebbe continuato ad andare in arresto cardiaco fino al completo sfinimento del cuore stesso.

Esatto. Sarebbe stato il suo stesso cuore, prima o poi, ad arrendersi. Era inevitabile. Con quello che aveva non poteva più fare niente e non era nemmeno sicuro che, nel beneaugurato caso che i soccorsi fossero infine giunti anche dentro quel piccolo bozzo pieno d’inferno, anche portandola in ospedale si sarebbe potuta salvare.

La guardò in volto. Pallida e ancora bagnata di sudore, la sua pelle bruciava a causa della febbre alta. Temperatura che sarebbe scesa, nel giro di poche ore, trasformando quel bel viso in un cadavere.

Per un istante, al posto di Joy vide sua sorella Harriett.

Vide sua sorella giacere sul pavimento, immobile, esanime. Sua sorella che sperava sempre in un ritorno di Clara, anche se era stata proprio lei a lasciarla, così simile alla ragazza che desiderava tornare a casa senza dover chiamare un fabbro per farsi aprire la porta, per poi prepararsi e andare a cena con la sua vicina di casa per dirle che l’amava.

Così simili, così diverse. Così uniche.

No. No.

Fossero stati anche solo pochi minuti, doveva fare qualcosa.

« Col cavolo che ti mollo...! » esclamò, spostando la mano di Edward con un cenno della propria e sistemandosi di fianco a lei ben fermo sulle ginocchia, le mani appoggiate sul suo petto all’altezza dello sterno, braccia ben tese.

Cominciò a spingere ripetutamente, mettendo in atto un massaggio cardiaco. Edward, serrando la bocca in un moto di rinnovato spirito, annuì deciso. « Facciamo un ritmo di cinque a uno, dottore! » esclamò, facendo allontanare la piccola Alice e tirando indietro con due dita la testa di Joy, preparandosi a farle la respirazione bocca a bocca.(3)

John assentì, terminando la prima serie di trenta compressioni, a cui Edward rispose con due insufflazioni.

Poi, cominciò il ritmo serrato della rianimazione a due. John li contò ad alta voce.

« Uno, due, tre, quattro, cinque ».

Edward soffiò nella bocca di Joy, facendole gonfiare i polmoni d’aria.

Il cuore non riprese a battere.

Di nuovo.

« Uno, due, tre, quattro, cinque » ripeté John.

Un altro soffio.

Nessun battito cardiaco.

« Uno, due, tre, quattro, cinque! » ancora.

Di nuovo un soffio.

Silenzio.

« Uno, due, tre, quattro, cinque! » continuò John, non perdendosi d’animo.

Ed seguì la sua volontà come una luce nel buio, insufflando nuovamente.

Ma ci fu nuovamente silenzio.

Passarono così cinque minuti, continuando con un ritmo serrato di cinque ad uno finché la fronte di John non fu imperlata di sudore ed i gomiti cominciarono a non reggere più lo sforzo, piegandosi di tanto in tanto, facendogli saltare una compressione. Non potevano cambiare posto, dato che il soldato aveva una spalla fuori uso, così tutta la fatica di far ripartire il cuore alla ragazza stesa a terra toccava a John.

Fatica che, oramai, tralasciata l’inutilità dell’operazione, le sue braccia non potevano più reggere; una scarica di dolore ai muscoli delle stesse lo pregò tacitamente di smettere quella tortura, ma lui non si fermò, anzi continuò ancora.

Continuò finché non riuscì nemmeno a contare ad alta voce a causa del fiatone che si mangiava le parole per trasformarle in aria per i polmoni sotto sforzo.

Continuò per altri quattro minuti.

Allo scoccare del nono minuto – non era possibile rianimarla dopo nove minuti: il cervello poteva sopportare una deprivazione d’ossigeno di massimo quattro minuti, e lui lo sapeva – fu Edward a lasciare andare il naso di Joy, tenuto chiuso dalle dita del soldato in modo da effettuare la respirazione bocca a bocca nel modo corretto, osservando John con occhi stanchi e rassegnati dal corso degli eventi così come gli appariva davanti agli occhi.

Joy, la ragazza che non voleva altro che vivere il suo amore, non c’era più. Era morta in silenzio, addormentandosi sopportando il dolore feroce alla gamba martoriata, nell’angolo di una carrozza dall’alternante luce al neon insieme a persone che nemmeno conosceva sul serio, ma che nel giro di qualche ora erano riusciti a volerle così bene da provare ad ogni costo a salvarle la vita, persino quand’anche la speranza era scomparsa.

Watson guardò ansimante gli occhi di Edward, fermando le compressioni. Strinse i denti in una parolaccia a stento trattenuta e, chiudendo la mano destra a pugno, la batté ferocemente sul petto della ragazza distesa davanti a lui, immobile ed esanime, persino esangue.

« Dannazione! » sbottò, in un attacco di rabbia che anche Edward avrebbe volentieri condiviso se avesse potuto anche solo pensare di muovere il braccio senza sentire i cori demoniaci dell’inferno con tutto il loro dolore.

« Dottore, abbiamo... fatto quello che potevamo... » sussurrò il giovane soldato a denti stretti, arricciando il naso in una smorfia d’ira repressa a malapena. Dall’altra parte della carrozza, Alice si mise a piangere silenziosamente, gli occhietti gonfi e rossi.

« No... » borbottò John, il dorso della mano destra a coprire gli occhi stanchi e lucidi: « no, che non abbiamo fatto abbastanza. Non ho fatto abbastanza. Non me ne sono accorto... lei è morta e io non me ne sono accorto... » soffiò, facendo respiri profondi per impedirsi un crollo emotivo che non avrebbe giovato proprio a nessuno di loro.

« No dottore, lei ha fatto tutto il possibile con quello che aveva! » si scaldò Edward, alzando la voce nel rispondergli: « lei è un medico eccezionale, ed una persona ancora migliore! Non mi vada nel pallone ora, dottore, non è ancora finita! » esclamò.

John si chiese dove la trovasse, tutta quella forza. Probabilmente faceva parte dell’attrezzatura del soldato

Forse una volta l’aveva avuta anche lui, quando indossava la divisa e gli sembrava di fare finalmente qualcosa di utile nella vita, qualcosa che gli sarebbe valso il diritto di vivere camminando a testa alta per strada.

Non poteva sapere che le cose che ti rendono davvero orgoglioso sono sempre dove meno te le aspetti; in un disordinato appartamento di Westminster, per esempio, o negli occhi incredibilmente azzurri di un coinquilino/migliore amico/chissà cosa quando sorride soddisfatto di una tua intuizione.

Stava per rispondergli, quando successe.

Stava per dire a quel giovane pieno di spirito militaresco che andava tutto bene, che doveva solo elaborare la perdita, come aveva fatto moltissime altre volte al fronte, doveva aveva visto i suoi amici morire sotto le proprie mani perché cercava di curarli anche quando non poteva fare proprio niente, per salvarli.

Prese giusto il fiato per pronunciare la prima parola... ma non ci riuscì.

Un dolore sordo esplose come un tuono nel suo stomaco, facendogli contrarre i muscoli del ventre sotto l’insana forza di quella fitta di puro male fisico. Un lampo bianco gli attraversò la vista mentre si chinava istintivamente su se stesso, le mani strette sulla pancia, un respiro mozzato a metà fra la gola e i polmoni. Solo un gemito gli uscì dalle labbra mentre poggiava la fronte al pavimento di fianco al cadavere della ragazza, il suo corpo che cercava in ogni modo di ricacciare indietro quel dolore sconsiderato chiudendosi a riccio in una posizione che la maggior parte della gente normale non avrebbe mai nemmeno preso di propria iniziativa.

L’udito ovattato, a John sembrava di essere stato nuovamente colpito da un proiettile, ma questa volta all’addome. Prese un breve respiro fra i denti serrati, pentendosi subito quando il gonfiarsi dei propri polmoni gli provocò un’altra fitta, facendolo gemere.

Non capiva più niente, il cervello era completamente immobile, incapace di concentrarsi su altre cose se non il dolore. Sentì solo per caso la mano di Edward sulla propria spalla, e prima di rendersene conto era già disteso a terra, ancora chiuso su se stesso nella galoppante disperazione al pensiero, sempre più fondato, che fosse troppo tardi anche per lui.

« Dottor Watson! Cosa le succede?! » la voce del soldato era acuta e tremolante, e anche solo da quella era palese che fosse nel più completo panico.

John tentò di parlare, ma il tentativo si rivelò inutile dato che non aveva sufficiente respiro. Prese coraggio e, pian piano, distese le gambe e si mise supino, per permettere ai propri polmoni di espandersi e quindi ricominciare a respirare.

Aveva fatto la stessa, medesima cosa anche in Afghanistan, quando quel maledetto proiettile di kalashnikov aveva messo fine alla sua carriera e lo aveva fatto passare da un ospedale all’altro per quasi un anno.

« Dottor Watson! » esclamò nuovamente Edward, aspettando una risposta, un cenno, anche solo un segno per sapere se stava bene.

John deglutì, prendendo piccole sorsate d’aria prima di riuscire a tirare fuori la voce: un timbro sussurrato, incrinato, basso.

« La... camicia »  disse, non riuscendo nemmeno a portare la propria mano all’indumento che Edward era già al suo fianco; con dita ruvide e veloci sollevò camicia e maglietta, scoprendogli pancia e stomaco.

Ciò che vide fu un ematoma diffuso, che andava dall’ombelico al fianco e fino a sotto la cintura dei pantaloni. Il soldato sbiancò, tornando a guardarlo in volto con un’espressione terrorizzata.

« E questo cos... Cosa diamine... ? » borbottò.

« Un’emorragia interna... » sussurrò John, afferrandogli il braccio e stringendoglielo forte: « devi... devi... » cercò di dire, ma un movimento sbagliato gli fece strizzare gli occhi per il dolore.

Dolore che, nel frattempo, sembrava allargarsi a macchia d’olio e spostarsi anche verso la parte bassa della schiena.

« Dottore no, no! Io non so cosa fare! » sbraitò Edward, cominciando a guardarsi intorno come impazzito, alla ricerca di chissà cosa che però era impossibile che trovasse, nel posto dove si trovavano.

John si sforzò di non urlare, limitandosi a stringergli nuovamente il braccio: « devi sentirmi i battiti... Edward, devi sentirmi i battiti! » alzò la voce, sovrastando per miracolo quella dell’altro, che riportò lo sguardo su di lui, ancora visibilmente agitato.

Watson, continuando a guardarlo negli occhi per non sembrare insicuro – e dunque non far sentire di riflesso l’altro più insicuro di quanto in realtà già non fosse – riprese a spiegare: « devi tenere d’occhio le mie condizioni, e... e dirmele, ok? » disse, assicurandosi che lo stesse ascoltando.

Il soldato annuì, posandogli un paio di dita tremanti sulla giugulare. « Batte in fretta... » riuscì a dirgli, dovendo ricominciare però a contarli almeno tre volte prima di avere una stima numerica: « direi almeno 100 battiti al minuto » gli disse, sembrando un minimo più calmo.

John gli sorrise, annuendogli appena ed abbandonando la testa sul pavimento duro.

La frequenza era alta rispetto alla norma, se non considerava l’agitazione e la fatica fatta nel cercare di rianimare Joy. Tuttavia ormai era disteso e i battiti non si erano placati, motivo per cui era portato a credere che quell’aumento di frequenza fosse dovuto all’emorragia.

« Ascoltami bene » cominciò dunque a dire, senza spostare il capo ma guardandolo dritto in volto: « sto perdendo sangue da un po’... e-e probabilmente questi sono i sintomi di un’anemia » gli chiarì.

Il sangue perso abbassa la pressione sanguigna; il cuore, per ovviare all’abbassamento del volume del sangue presente nelle vene, aumenta i battiti. La perdita di sangue provoca giramenti di testa, nausea, fiacchezza, sudori freddi e pallore.

« Probabilmente peggiorerà... potrei arrivare ad un punto in cui perderò coscienza. Non devi farti prendere dal panico. Se... » ebbe un attimo di smarrimento nel dover pronunciare quelle parole, ma si riprese subito: doveva essere sicuro che Edward fosse in grado di rimanere con la testa piantata nella realtà. « ...Se per caso non dovessi farcela... devi avere cura di Alice finché non vi tireranno fuori di qui. Hai capito? ».

« Dottore, non dica nemmeno per scherzo una cosa di questo gen- »

« Hai capito?! » lo interruppe il medico, pretendendo una risposta.

Si guardarono negli occhi per un momento che parve infinito, ma che in realtà comprendeva solamente qualche istante. Edward annuì mentre John, avuta finalmente la risposta che aspettava, socchiuse gli occhi e lasciò andare un lungo sospiro.

Perdonami, Sherlock – riuscì solo a pensare.

Forse ti toccherà trovare qualcun altro, con cui dividere l’affitto.

 

 

• The Tube; Waterloo > Enbankment (Rescue Team), h. 19:00 pm

 

« Non funzionerà ».

La voce profonda di Sherlock spaccò violentemente il silenzio carico d’aspettative dell’uomo in piedi al suo fianco, che aveva appena terminato di posizionare, insieme ai suoi sottoposti, quattro mezze travi d’acciaio accanto ai due vagoni sovrapposti, come a formare una sorta di percorso discendente per far sì che il vagone superiore potesse lentamente scivolare lungo di esse ed adagiarsi a terra.

Nick sussultò. Non gli era servito molto tempo in sua compagnia per rendersi conto che ogni cosa Sherlock Holmes dicesse era fondata su assunzioni logiche ineccepibili e, di conseguenza, era anche corretta.

Tuttavia negò con il capo. « Non abbiamo tempo per fare nient’altro » disse, suonando sicuro di sé.

L’idea era sembrata buona – o meglio, era parsa l’unica praticabile nel poco tempo che avevano – dunque era stata messa subito in atto.

Ma a Sherlock, ora come all’inizio, sembrava solamente un maldestro tentativo di scaricare da un camion una botte da cinquanta chili di vino usando un paio di tavole di compensato.

« Il vagone è troppo pesante » osservò: « le travi si piegheranno non appena il peso si sarà concentrato nel punto di appoggio alle travi stesse. Si piegheranno e cederanno, e la carrozza trascinerà con sé anche i detriti che ne hanno schiacciato la parte rivolta verso la motrice. Probabilmente questo crollo non farà altro che gravare ulteriormente sulle condizioni già precarie della volta, ma ammetto di sparare nel buio dicendo che potrebbero esserci altri crolli. Lei è un ingegnere, queste cose dovrebbe saperle » terminò, rivolgendosi a Nick senza però guardarlo direttamente, tenendo invece gli occhi socchiusi e fissi sull’ultimo manipolo di pompieri che assicurava meglio le travi alla terra sotto i loro piedi.

Nicholas, istintivamente, alzò gli occhi alla volta scura sopra di loro.

Da ingegnere, anche se navale, sapeva dentro di sé che Holmes aveva ragione. Che poteva effettivamente succedere di tutto e il pensiero che sopra di loro – a quasi dieci metri, in realtà, ma comunque sopra di loro rimaneva – ci fossero le acque del Tamigi non lo calmava affatto, anzi.

Sospirò pesantemente, grattandosi la nuca con la mano destra. « Con tutti i maledetti posti che questa galleria attraversa, proprio qui doveva deragliare... accidenti » borbottò a bassa voce. Solo Sherlock riuscì a sentirlo, ma non commentò nessuna delle sue parole.

Il detective, d’altro canto, non staccò mai gli occhi dalle operazioni in atto.

Era sicurissimo che quel vagone sarebbe rotolato giù veloce come un barile lungo una discesa, così come era altamente convinto che almeno parte della galleria avrebbe ceduto a quello spostamento improvviso; quello che tentava di capire in realtà, però, era se la carrozza sottostante, ovvero l’ultima su cui potevano intervenire – quella in cui doveva per forza esserci John – avrebbe retto all’urto o si sarebbe irrimediabilmente accartocciata su se stessa, come una foglia che va a fuoco.

Cercando di non prendere in considerazione quali sarebbero state le conseguenze di quella mossa del tutto sconsiderata – ma non illogica – sugli eventuali occupanti del vagone, si rivolse nuovamente al pompiere, impegnato a mordersi il labbro inferiore in un attacco d’ansia tenuto prontamente a bada.

« Non c’è altra scelta? » domandò il detective, attendendo una replica.

Risposta che arrivò dopo qualche istante di meditazione da parte dell’altro. « No » rispose: « potremmo spostarlo con una gru, che qui sotto non entrerebbe. Potremmo anche cercare di creare un passaggio che passi dalla parte sottostante della carrozza superiore fino al soffitto di quella inferiore, ma sono entrambi talmente spessi che impiegheremmo troppo tempo, oltre che rischiare di ferire eventuali superstiti nel tentativo. Ho preso in considerazione anche di tagliare un pezzo dalla paratia visibile della carrozza sottostante, ma temo che se lo facessimo non reggerebbe più il peso del vagone soprastante e crollerebbe tutto. Abbiamo controllato ai due lati e dall’altra parte se ci sono passaggi percorribili ma niente, non ne abbiamo visti. Sappiamo solo che filtra della luce, quindi c’è della corrente elettrica. Tutto qui » terminò il riassunto, osservando poi Sherlock: « se ha idee migliori, sono tutto orecchie » aggiunse poi, sorridendo amaramente.

« Ne ho sette, ma tutte impraticabili qui sotto » rispose subito Holmes, dovendo ammettere con se stesso che il piano elaborato da Ryder era l’unico fattibile.

Era come un esperimento. Avevano preparato tutto l’occorrente, ora mancava solamente la messa in atto. Tutto ciò che dovevano fare era agire e, successivamente, fare l’analisi di ciò che era successo.

Deglutì, annuendo brevemente a se stesso.

“Fiducia”, non era questo che aveva detto Lestrade? Abbi fiducia.

Nicholas lo vide annuire, e per riflesso fece anche lui lo stesso. Si rivolse poi ai suoi uomini, quindici fra pompieri e paramedici, posizionati in cinque gruppi da tre con ognuno in mano una corda, pronti a tirare.

« Cominciate! » gridò Nick; lui e Sherlock, contemporaneamente, andarono a posizionarsi dietro Dennis alla quinta fila.

Al segnale di via, tutti i gruppi presero a strattonare le grosse corde, tenendo il ritmo delle tirate con la voce. Ad ogni strattone secco che riceveva, il metallo del vagone scricchiolava sempre più forte e, con un rumore acuto, cominciò pian piano a spostarsi.

« Si muove! Continuiamo! » gridò Dennis.

Sherlock, nonostante avesse i guanti, non si sentiva più le mani. La pelle dei palmi aveva bruciato dopo i primi tre strattoni a causa della frizione della cute contro la stoffa ruvida dell’interno del guanto e, pian piano, aveva semplicemente smesso di sentirsela attaccata alle dita. I muscoli delle sue braccia cominciarono a dolergli, così come i quadricipiti delle gambe, che sparavano acido lattico nelle fibre muscolari a ritmo esponenziale.

Ma continuò lo stesso. Solo il pensiero che là sotto, là dentro, ci fosse John, lo spingeva senza rimpianti a smembrare se stesso nel tentativo di salvarlo, o anche solo vederlo.

Voleva solo vederlo. Voleva solo sapere.

Sapere se sarebbe tornato alla sua vecchia vita piena di nuove abitudini o se sarebbe stato condannato ad annegare ogni giorno sulla terraferma.

Continuarono a strattonare per un numero indefinito minuti, nei quali il vagone si mosse di parecchi centimetri. Quando finalmente sembrò in bilico su se stesso e sul punto di cadere, la voce di Nick si alzò in un gutturale: « tirate! ORA! ».

Sherlock, così come tutti gli altri uomini, puntò i piedi a terra e tirò con tutta la forza che aveva a disposizione, stringendo i denti e artigliando le mani alla corda, usando persino le unghie.

In un cigolio metallico, il vagone rotolò sulle travi. E, come aveva predetto Sherlock, esse si piegarono irrimediabilmente sotto il suo peso, lasciandolo cadere ad una velocità superiore alle aspettative.

Il movimento improvviso della carrozza, inoltre, sempre come Sherlock aveva predetto, causò uno spostamento dei detriti in equilibrio precario sopra di essa. Crollò della terra, fango e alcuni pezzi di pietra; con un rumore sordo una lunga crepa si formò sul soffitto, facendo sì che altri pezzi di pietra si staccassero dalla volta a precipitassero,

esattamente sopra i soccorritori e le due carrozze.

Sherlock fece a malapena in tempo a vedere alcuni pezzi cadere a poca distanza da lui che subito un “a terra!” gridato disperatamente gli trapassò le orecchie. Si buttò al suolo, venendo subito coperto da braccia non sapeva appartenenti a chi e poté chiaramente sentire le sue ginocchia, gli stinchi ed i gomiti urtare contro la ghiaia grossa del manto della galleria.

Un lieve dolore alla testa e poi più nulla se non una nube di polvere grigia.

 

 

• The Tube; Waterloo > Enbankment (Train’s Coach) –  meanwhile

 

Aveva sentito i primi cigolii del metallo sopra la sua testa come eco lontane, perso in una sorta di dormiveglia che tale non era, ma che vi assomigliava grandemente.

Steso sul fianco sinistro, Alice gli teneva una mano con le sue, poggiate sul piccolo grembo come farebbe una donna fatta e finita. Probabilmente, in quel breve lasso di tempo, la piccola aveva perso un pezzo della sua infanzia ed era diventata grande tutto d’un colpo, troppo in fretta, non meritandoselo affatto.

Aveva freddo, John. Brividi di gelo gli correvano sulla pelle della schiena facendolo tremare. Si sentiva le viscere strette in una morsa fastidiosa, prendeva brevi respiri con il naso alzando ed abbassando il torace e si sentiva le palpebre sempre più pensati, nonostante cercasse con tutto se stesso di rimanere se non vigile, almeno sveglio.

« Cosa sta succedendo...? » riuscì a borbottare, fissando gli occhi socchiusi e carichi di un sonno innaturale sul soffitto.

Edward, seduto accanto a lui da quando aveva avuto il malore, alzò lo sguardo a sua volta. « Non so... ma stanno facendo qualcosa » dichiarò, alzandosi in piedi ed avvicinandosi al finestrino sfondato in precedenza per poter dare un’occhiata.

Seguendolo con lo sguardo, John si imbatté nel cadavere di Joy, ancora steso lì dove avevano tentato di rianimarla. Edward si era limitato a coprirne il volto ed il busto con la sua giacca, senza spostarla.

Il senso di colpa dilagò nel petto del medico, ma fu un’altra la cosa che, malauguratamente, catturò la sua attenzione. Non si era minimamente accorto di quando l’aveva fatto.

Ciò voleva dire che aveva cominciato a perdersi dei pezzi. Vuoti di coscienza in cui probabilmente perdeva conoscenza, o semplicemente si addormentava.

Sospirò, chiudendo gli occhi per un secondo, infastidito dalla luce al neon sempre più tremolante. Alice, osservandolo, gli strinse di più la mano nelle proprie. Il dottore cercò di ricambiare la stretta quanto poteva.

« Non avere paura, piccola Alice... » gli disse poi, sussurrando data la vicinanza e la confusione in testa che aumentava minuto dopo minuto: « andrà tutto bene e tornerai dal tuo papà... » le disse.

Lei, con quell’aria sperduta e spaventata su tutto il viso, annuì in un gesto quasi invisibile.

« Dottore... tu ce l’hai un papà? » chiese poi la piccola, mentre i rumori sopra di loro sembravano aumentare pian piano d’intensità. Edward, con la torcia di Joy, si era intanto arrampicato su per il piccolo passaggio del finestrino.

Il medico le fece un sorriso stanco, negando con il capo. « No, non ce l’ho più... però qualcuno sì, ce l’ho » aggiunse, sempre sorridendole, nel tentativo di tenerla il più tranquilla possibile.

Alice sembrò pensarci su per un attimo. « È la persona che dicevi prima? » domandò.

John annuì di nuovo. « Il tuo papà è una persona importante per te, Alice? Gli vuoi bene? » le chiese; lei annuì.

In quel momento, pensò che non poteva essere poi così sbagliato, essere sincero con se stesso. Molto probabilmente sarebbe morto, se i soccorsi non fossero arrivati in tempo, e in ogni caso si sentiva già abbastanza debole da pensare di non potercela comunque fare.

Sherlock era la prima persona che istintivamente associava al termine “importante”. Era il suo coinquilino, il suo migliore amico, e forse anche più di questo, non lo sapeva nemmeno lui. Era semplicemente consapevole del fatto che, quando la sua terapista gli aveva chiesto dove si vedesse a dieci anni nel futuro, lui aveva risposto immediatamente “al 221B di Baker Street”. Aveva l’improbabile immagine mentale che sarebbe stata quella la sua vita, da quel momento in poi: rimanere al fianco di Sherlock. Sempre.

Ascoltarlo durante le sue deduzioni, aiutarlo – per quanto possibile – durante la risoluzione dei casi, scrivere le sue avventure su quel blog rimasto una semplice pagina bianca per tante notti insonni piene di mine e deserto, per poi essere riempito con narrazioni mozzafiato di indagini risolte (e non, anche se  Sherlock non piaceva che lui scrivesse anche di quelle).

Era stato riempito di vita. La vita che era stato Sherlock a dargli. L’aveva condensata dall’aria come rugiada fra le dita e poi l’aveva posata delicatamente sulle sue, lasciando che John ne facesse ciò che voleva.

E gli sarebbero mancate tante, troppe cose. Come la torta di mele di mrs. Hudson, o i momenti folli in cui Sherlock decideva di vivere solo di tè perché “la digestione spreca preziose energie utili al mio cervello”. Il commesso del ristorante cinese che ormai sapeva esattamente cos’avrebbero ordinato, Angelo e le sue candele, i sabato sera sul divano a guardare un film a noleggio, le sue dita affusolate e bianche appoggiate sull’archetto e le note di Bach, o Mozart, o Pachelbel, o Paganini, o Čajkovskij a riempire la notte silenziosa.

Non era per disperazione che stava con Sherlock Holmes, no... e non era la pazienza ciò che lo rendeva adatto a vivere con lui. La realtà era un’altra ed era sempre stata molto semplice; John era attratto dal mondo di Sherlock, e lo era stato dalla prima volta che aveva incrociato il suo sguardo.

Non credeva di amarlo e non si immaginava in quel senso, con lui. Ma non si immaginava nemmeno senza di lui.

Non più, ormai.

Indispensabile come l’aria, come l’acqua, come il sole.

Insieme a lui e mai più da solo.

Watson sorrideva senza nemmeno rendersene conto, fissando un punto indefinito delle mani di Alice.

« Anche io voglio bene alla mia persona speciale, Alice. Tanto bene. E sono preoccupato, perché abbiamo litigato e io non riuscirò a chiedergli scusa... » disse, riducendo la voce ad un soffio sul finire della frase.

Sì, un mondo senza Sherlock Holmes era impensabile. Ma lui era solo John Watson.

E aveva la sensazione che ce ne fossero tanti altri, come lui. Tante altre persone normali che avrebbero potuto prendere il suo posto accanto a Sherlock, nel cuore di Sherlock.

John Watson era una pedina sacrificabile, dopotutto.

Non sarebbe cambiato niente.

« Perché no? »

La domanda di Alice lo riscosse da quei pensieri pessimistici, permettendogli di non addormentarsi seguendo la rotta di quegli stessi ragionamenti alla deriva. Si riscosse, sospirando affranto.

« Perché ho... paura » riuscì a dirle.

Perché morirò, pensò in realtà.

« Anche io ho sempre paura quando papà mi sgrida perché lo faccio arrabbiare, però poi mi porta a prendere un gelato e io gli dico che gli voglio bene, così facciamo pace » disse la piccola, aggiungendo poi felice: « quando torni a casa, digli anche tu che gli vuoi bene, così fate pace ».

John ridacchiò appena, annuendo.

Quanta verità giace nella bocca dei bambini, che non hanno paura di dire le cose come stanno, o lo spettro del dubbio ad oscurare i loro occhi.

Stava probabilmente per aggiungere qualcosa, ma il ritorno di Edward spostò altrove l’attenzione di entrambi.

« Stanno spostando il vagone superiore » disse, sedendosi di nuovo di fianco a John; nel frattempo, i rumori sopra di loro si erano fatti più forti ed erano palesemente suoni di metallo che slitta su altro metallo. Suoni fastidiosi, in realtà, ma che almeno davano a loro la speranza che qualcuno ci fosse, là fuori.

Ma John era un medico, ed essere medici significa essere anche realisti, quando serve.

Aveva freddo, sonno e si sentiva anche terribilmente confuso. Nonostante il dolore alla pancia e all’addome non riusciva più a rimanere sveglio; i suoi occhi troppo pesanti imploravano di scivolare in un sonno che, lo sapeva, non lo avrebbe più lasciato andare.

Alzando lentamente una mano – quella libera dalla presa gentile ed impacciata di Alice – prese l’avambraccio di Edward, che posò gli occhi su di lui.

Non si nega l’ultimo desiderio, no? Non funzionava così?

« Baker Street, 221B » gli disse.

« Cos... dottore, cosa sta... ? » borbottò quello, facendo finta di non aver capito.

« 221B di Baker Street » ripeté allora John: « cerca Sherlock Holmes, devi digli che... »

« No, dottore! »

« Ascoltami! »

L’urlo che John lanciò, trovando chissà dove la forza per farlo, fece zittire automaticamente il soldato, che non ebbe cuore di rimanere sordo a quelle parole di cui aveva giù intuito il significato.

Annuì, rimanendo in silenzio, le orecchie aperte.

John poté continuare. « Devi dirgli che... » che gli voglio bene, che non voglio lasciarlo solo, che lo terrò d’occhio ogni giorno, che sarò con lui in ogni momento, che gli sussurrerò il mio nome all’orecchio quando starà per dimenticarsene, che lo guarderò diventare un uomo sempre migliore, che deve ricordarsi di mangiare, che il frigorifero non è fatto per tenerci teste mozzate, che mi dispiace per avere litigato, che i momenti passati con lui sono stati i più spettacolari della mia vita, che è il mio migliore amico, che mi ero aspettato che finisse in un modo migliore, che... « ...che può tenere le mie dita nel frigorifero, se vuole » disse, ridendo di sé stesso.

Edward sembrò non capire, ma annuì comunque, in silenzio.

Poi, uno scoppio. Ci fu un rumore più secco, come di qualcosa che si piegava e si rompeva, e un rombo assordante lo seguì, accompagnato da un nugolo di polvere densa e grigia che penetrò da ogni fenditura, riempiendo il vagone.

John fece in tempo a sentire la piccola Alice rifugiarsi fra le sue braccia, ed Edward piegarsi su di lui nel tentativo di proteggerlo, prima di perdere definitivamente i sensi.

Cadde in un sonno da cui non era sicuro si sarebbe risvegliato.

 

 

• The Tube; Waterloo > Enbankment (Rescue Team), h. 19:30 pm

 

Quando finalmente il fastidioso rumore terminò, e tutto ciò che rimase fu silenzio e respiri ansanti di persone in attesa di un qualsiasi altro suono o del completo silenzio, finalmente si permise di prendere un respiro profondo.

Polvere. Era nell’aria e la sentiva penetrare pian piano anche nei polmoni, ad ogni respiro che prendeva. Sotto le mani sentiva i sassi e sopra di lui, con il petto appoggiato alla sua schiena nel tentativo del tutto istintivo di fornirgli protezione, Nicholas stava riprendendo conoscenza in quel momento.

Cercando di essere meno rude possibile, Sherlock se lo scrollò dalle spalle, sedendosi a terra.

Non sentiva particolare dolore da nessuna parte, ma il non potere vedere le proprie condizioni non lo aiutava affatto a fare il punto della situazione. La galleria era buia, illuminata solamente da un lieve lucore proveniente dalle luci che non erano state danneggiate dal nuovo crollo appena avvenuto, e tutto intorno a lui distingueva solo di semplici ombre nere dalle forme vagamente riconoscibili.

La sua mente volò subito ai vagoni, e a John per collegamento.

Poteva essersi ferito? La carrozza sottostante aveva ceduto al peso?

Nonostante non vedesse bene, poteva dire dallo spazio sgombro di grandi masse intorno a sé che la carrozza soprastante non era caduta del tutto, dunque il loro piano non era andato completamente in porto. Aveva riportato danni? Era crollata sotto il peso di nuovi detriti staccatisi dalla volta? John era morto?

Prima era vivo?

Sentendo la confusione tornare padrona di lui, strinse gli occhi e cercò di concentrarsi su altro. Nella quasi totale oscurità non era esattamente in grado di utilizzare la vista per dedurre quanto grave potesse essere la situazione, ma almeno gli rimaneva l’udito.

Sentì Nicholas, in ginocchio davanti a lui, sussurrare una serie di “dannazione” intervallati da alcuni colpi di tosse. Immaginò fosse stato ferito – nel tentativo di proteggerti, Sherlock, come un vero eroe, di quelli che non esistono – ma non ebbe effettivamente il tempo per domandarglielo.

« STATE TUTTI BENE? » urlò infatti quello, facendo risuonare la sua voce lungo tutto il tunnel in una nota echeggiante: « aggiornatemi sulla situazione per gruppi e non muovetevi da dove siete! » aggiunse.

Probabilmente i suoi uomini aspettavano solo questo, fermi nel buio, perché subito i fasci di alcune torce elettriche rischiararono l’ambiente

« Gruppo uno, tutto ok! » si sentì da una ventina di metri di distanza.

« Gruppo due, Sykes ha una gamba rotta, serve un medico! ».

Nick puntò la torcia su Dennis, seduto a poca distanza, poi la spostò su Sherlock, osservandolo attentamente.

« Gruppo tre, tutto ok! Lewis chiede di poter raggiungere il gruppo due per visitare Sykes! ».

Vide qualcosa che non gli piacque, probabilmente, perché si avvicinò meglio e, togliendosi un guanto, gli spostò i capelli ricci e ormai incrostati di polvere e sudore dalla fronte. Sherlock glielo lasciò fare, prendendo ampi respiri d’aria per liberarsi dalla sensazione di avere letteralmente mangiato della polvere. Nick gli toccò un punto specifico della testa e, quando lo fece, Sherlock si ritrasse di colpo, sentendo una scarica di bruciore.

Quando gli mise le dita davanti al volto, illuminandole con la torcia, sia Sherlock che Nick poterono vedere che erano sporche di sangue.

Era ferito.

« Ecco a cosa serve il casco » gli disse il pompiere, la voce a metà fra un’ironia amara e il rimprovero.

« Gruppo quattro, Hallam ha la caviglia bloccata da un pezzo di pietra e non ha ancora ripreso conoscenza! ».

Si guardarono per un attimo negli occhi, entrambi consapevoli di cosa sarebbe successo da quel momento in poi. Sherlock scosse la testa, ma Nick questa volta sembrò irremovibile nella sua decisione.

« Gruppo cinque, Holmes è ferito! » disse in risposta agli altri, per poi aggiungere: « Lewis, pensa prima ad Hallam. C’è qualche paramedico libero che può andare da Sykes e venire qui? » domandò, sempre a voce alta per farsi sentire.

« Walker, vado al gruppo due! »

« Gray, sto arrivando da lei! » risposero due degli uomini, mettendosi subito in marcia.

Sembrava un’operazione militare e per qualche istante Sherlock si immaginò Ryder con una divisa da soldato a comandare un plotone d’assalto in un qualche film d’azione che da piccolo gli capitava di vedere. Sarebbe stato capace, probabilmente, considerate le abilità di comando che aveva dimostrato per tutto il tempo in cui Holmes era stato “ospite” della squadra di soccorso, e non faticò per nulla ad immaginarselo ad abbaiare ordini alle reclute.

John non guardava mai film a sfondo militaresco o riguardanti la guerra. Diceva che non li sopportava ma la realtà, forse, era che provava nostalgia per quella vita che era stato costretto a lasciare.

Al solo pensiero che John, avendone la possibilità, avrebbe potuto decidere di lasciare l’appartamento – anche se sapeva che era congedato, ma nulla gli impediva di trovarsi una donna con cui andare a vivere... – si sentiva sempre pervaso da una sorda irritazione.

Ma ora, il solo dubbio che John potesse essere morto era abbastanza per trasformare quell’irritazione in panico.

Fu distratto nuovamente dalle parole di Ryder.

« Dennis, chiama la superficie e aggiorna il comandante, e fai scendere di nuovo la prima squadra. Poi raduna i ragazzi e questa volta li accompagnerai di sopra anche tu » disse, il tono fermo di chi ha già preso una decisione e non cambierà idea. « Porterai anche Holmes con te » disse poi.

Fermo come lo erano i suoi occhi.

Dennis non ribatté nulla, questa volta, limitandosi a prendere la ricetrasmittente e gracchiare qualche parola a chi era all’ascolto. Si alzò con passo svelto, poi, dirigendosi verso gli altri uomini nel tunnel.

Sherlock, senza nemmeno aspettare che l’altro fosse lontano, proruppe in uno stizzito « non se ne parla nemmeno », lapidario e ugualmente definitivo.

« Oh, invece ne parliamo, signor Holmes » cominciò però Ryder, fissandolo dritto negli occhi come se dovesse saltargli alla gola da un momento all’altro.

E molti, vedendo quello sguardo, probabilmente avrebbero giurato che gli frullasse in testa di farlo davvero.

« Il patto valeva finché era d’aiuto per le ricerche. Ora è ferito e ha bisogno di cure, quindi lei si metterà sulle proprie gambe e andrà in superficie, dove i paramedici potranno prendersi cura di lei e portarla in ospedale » disse, glaciale.

Sherlock assottigliò gli occhi, scattando rabbioso e strappandogli la torcia di mano. Tentò di alzarsi ma la mano di Nicholas si strinse sul colletto della casacca, tirandolo giù di nuovo.

Nel frattempo, il paramedico era arrivato e li guardava con tanto d’occhi.

« Dove crede di andare?! » sbottò il vigile del fuoco, tenendolo per la divisa ed arrivandogli con il viso ad una spanna dal naso.

« A salvare il mio migliore amico! » gridò a sua volta Holmes, oramai completamente immerso in un caldo fiotto di rabbia che sapeva anche da valvola di sfogo per l’ansia.

Doveva sapere, sapere, sapere, sapere, sapere, sapere.

Sapere se era ancora vivo, sapere se sperare valeva la pena, sapere che sarebbe tornato tutto come prima.

Sapere e basta.

« Lei non va proprio da nessuna parte se non alla stazione di Waterloo, poi all’aria aperta! Salvarle il culo è il mio compito, signor Holmes, e su questo non discuto! Lei è ferito! Qui sotto mi sarebbe solo d’intralcio ed io non ho tempo per lei, adesso! Ho messo in pericolo delle vite e devo rimediare allo sbaglio, per la puttana! » ringhiò Nick, stringendo e scuotendo Holmes per il colletto come se , anche per lui, quelle urla fossero la valvola di sfogo per lo stress accumulato in tutte quelle ore di ricerche senza fine.

Sherlock non rispose, limitandosi a guardarlo, così Nicholas continuò con un ultima, imponente imprecazione: « alzi il culo e si levi dai piedi, Cristo Santo! » gridò.

La galleria cadde nel silenzio. I toni della loro conversazione erano passati in fretta ad urla da litigio.

Holmes era riuscito ad esasperare Nicholas che, dal canto suo, era a sua volta riuscito ad irritare Sherlock. Si guardarono entrambi negli occhi per alcuni, interminabili istanti poi fu Ryder quello ad abbassare lo sguardo, sospirando come per calmarsi.

« Ho capito che per lei è importante... » cominciò poi, la voce umana, bassa: « ...l’ho capito. Non sarebbe qui, altrimenti. Nessuno verrebbe qui se non stesse cercando la cosa più importante al mondo. Farei la stessa cosa per le persone a me care, e mi è già capitato di farlo, dunque riesco benissimo a capirla. Ma lei è ferito, signor Holmes... non posso tenerla qui un secondo di più. Non voglio rischiare la sua incolumità, un secondo di più » gli spiegò.

Sherlock lo guardò negli occhi e capì che era sincero. Aveva lo stesso sguardo di John quando gli chiedeva come stava, se aveva mangiato o dormito abbastanza, se era finalmente riuscito a resistere all’impulso di andare a comprare sigarette di contrabbando, dato che aveva pagato tutti i tabaccai nel giro di dieci chilometri perché non gli vendessero nemmeno un pacchetto.

John... non poteva lasciarlo. Non poteva abbandonarlo.

Non poteva girargli per spalle e risalire alla luce del sole, sotto il cielo mentre John era intrappolato sottoterra, con un paramedico a curare le sue ferite mentre John poteva anche essere ferito e non avere nessuno al suo fianco.

Chiuse gli occhi.

John era entrato nella sua vita senza fare rumore, con tante domande che non avrebbero ricevuto risposta ma a cui, in fondo, non era fondamentale rispondere.

Era arrivato in silenzio senza portare nulla con sé, nulla di concreto, ma con caldi sorrisi sulle labbra, e con le mani piene di luce.

La cosa più importante... sì, forse lo era, forse non lo era. In effetti, Sherlock faticava ormai a capire cosa fosse John, cosa fosse lui stesso, cosa fossero entrambi e, soprattutto, cosa fossero insieme.

Però doveva vederlo. Voleva...

Voleva solo...

« Voglio solo rivederlo » soffiò a voce bassissima, smettendo di fare resistenza. « Solo rivederlo... nient’altro. Mi basterebbe » aggiunse il detective.

Ryder lo osservò attentamente, mordendosi il labbro inferiore con i denti prima di decidersi a parlare.

A dar voce alla promessa che tanti di loro erano portati a pronunciare ai parenti delle vittime intrappolate nel fuoco, ma che raramente riuscivano a mantenere.

« Lo troverò » disse.

Sherlock restituì lo sguardo.

« Troverò John, signor Holmes. Non uscirò da qui finché non l’avrò trovato, dovessi cercare tutta la notte ».

Sherlock non era un tipo di persona che credeva nei miracoli, nelle promesse, nelle speranze e nei sentimenti. Non credeva in niente che non fosse tangibile e scientificamente provabile. Non credeva in ciò che conteneva le parole “per sempre” ed “eternità” perché si sa, niente è eterno, niente dura per sempre, e madre natura era stata la prima ad insegnargli quest’amara lezione.

Eppure, senza accorgersene, per tutto il giorno non aveva fatto altro che rincorrere la scia di una speranza; non aveva fatto altro che credere in un miracolo, guidato dai sentimenti... e adesso avrebbe accettato di fidarsi di una promessa.

Annuì in direzione di Ryder, senza aggiungere altro.

Non una parola, non un consiglio, non una lamentela.

Aveva l’impressione di abbandonare John in piedi sull’orlo di un dirupo, oppure nel centro di una tempesta. Era come gettare la spugna. Si sentiva un traditore ma in tutto quel disagio che all’improvviso gli era esploso in un punto indefinito fra lo stomaco ed il petto, prendeva posto la consapevolezza che non c’era più nulla che potesse fare, in quel luogo.

E, piccola piccola, in un angolo, vi faceva nido anche la sensazione che in realtà non desiderasse affatto vedere il cadavere di John abbandonato sul fondo di una carrozza della metropolitana, coperto di sangue e con gli arti disarticolati, gli occhi aperti e fra le labbra una frase ancora non pronunciata.

“Mi hai abbandonato”.

No... non sarebbe riuscito a farlo.

Per un istante, si vide nuovamente davanti al tavolo in metallo dell’obitorio del Bart’s, John steso davanti a lui ed un bisturi tagliente fra le mani coperte da guanti di lattice.

Aiutato dal paramedico, Sherlock si alzò da terra. In poco tempo tutto il gruppo di soccorritori fu pronto a ritornare in superficie e lui, sempre sorretto da qualcuno a causa di una ferita alla testa che sembrava non voler far altro se non sanguinare copiosamente, si allontanò a passo lento insieme a tutti quelli che avrebbero rivisto il mondo esterno nel giro di una ventina di minuti.

Nicholas Ryder, osservandolo allontanarsi, si diede dell’imbecille.

E si chiese cos’avrebbe detto all’unico consultive detective del mondo nel malaugurato caso che John Watson fosse morto. O peggio.

Nel malaugurato caso in cui di lui non ci fosse la minima traccia.

 

 

• Waterloo Station, h. 20:00 pm

 

Gregory Lestrade era seduto sul sedile del passeggero di una volante della polizia, con una tazza di tè fra le mani e sul cruscotto un panino mezzo sbocconcellato rimastogli sullo stomaco già dopo il primo morso.

Il fatto di essere in manica di camicia non lo aiutava a ripararsi dal freddo improvvisamente sceso con il calare del sole; tuttavia, la forza di alzarsi e coprirsi l’aveva lasciata chissà dove, nelle ultime ore, e non sembrava avere la minima intenzione di ritrovarla.

Era preoccupato. Una volta terminate le indagini, e rimandato la stesura del rapporto a tempi migliori, era rimasto lì a dare una mano per tutto il tempo.

Portava su cadaveri, per lo più. Dentro sacchi neri di plastica.

Era abituato, dopotutto, a vedere persone morte. Ne ricostruiva persino la vita, di solito, essendo capo della squadra omicidi e responsabile di qualsivoglia scena del crimine che ricadeva nella sua area di competenza. La morte lo aveva sempre salutato con gesto amichevole quando si incrociavano per strada, e lui le aveva sempre risposto con rispetto senza nemmeno preoccuparsi di temerla.

Ma quel giorno... beh, era diverso.

C’era in ballo la vita di John Watson. Una situazione che non si era mai trovato ad affrontare, quella di guardare il cadavere di una persona conosciuta, di un proprio amico.

Non aveva la minima idea di come ci si potesse sentire, anche se non si immaginava nulla di piacevole.

Aveva ancora negli occhi l’espressione di Sherlock quando era venuto a conoscenza del fatto che John fosse coinvolto, la sua voce che chiamava il suo nome, ed era convinto di potersela sognare di notte riuscendo persino a trasformarla in un incubo. Era indubbio che l’avvenimento avesse coinvolto il consultive detective ad un livello molto profondo, forse talmente tanto che nemmeno Sherlock stesso sapeva definirne la profondità.

Sherlock Holmes, da quel momento in poi, aveva subito una trasfigurazione: era diventato un essere umano.

Se la situazione non fosse stata quella, probabilmente Lestrade si sarebbe messo a ridere.

Stava giusto pensando di alzarsi ed andare ad impegnare nuovamente le mani – di nuovo trasportando cadaveri su per le scale, dato che sembrava l’unico modo in cui potesse essere utile a qualcosa – quando vide avvicinarsi il comandante dei vigili del fuoco. In quelle ore avevano avuto rapporti molto più umani ed erano riusciti anche ad andare d’accordo.

« La squadra di soccorso ha avuto dei problemi, là sotto » gli disse subito e senza mezzi termini, quando ancora non era arrivato davanti a lui: « c’è stato un crollo. Il suo amico sta tornando in superficie ».

Greg lo guardò in silenzio per un istante, le sopracciglia sollevate in un’espressione sorpresa. « Feriti? » domandò poi.

« Un paio » rispose quello, passandosi una mano sugli occhi con un sospiro stanco. « Ho rimandato giù la prima squadra, ma stanno per finire. L’ultimo vagone, ispettore Lestrade... per quelli successivi non possiamo più fare niente » aggiunse, la voce grave di chi sente avvicinarsi l’agognato momento del ritorno a casa.

Greg annuì. Il fatto che non avesse visto il cadavere di John poteva essere una buona notizia, no?

No, probabilmente. Voleva semplicemente dire che non lo avevano ancora trovato. Ed ora che l’uomo gli aveva riferito dell’imminente fine delle operazioni per impossibilità di proseguire oltre – impossibilità fisica, materiale, tangibile come lo era la tazza di cartone ancora fra le sue mani – la sensazione che sarebbe stato meglio trasportare in superficie il suo cadavere, piuttosto che toglierlo successivamente dai rottami pezzo per pezzo, gli sembrava una soluzione più sopportabile.

Lestrade ringraziò, osservandolo allontanarsi prima di alzarsi dal sedile ed avvicinarsi all’entrata della stazione, rimanendo in attesa di vedere comparire gli uomini di ritorno dal tunnel. Quando finalmente il gruppo comparve, e vide Sherlock pieno di polvere e con una linea di sangue rosso a macchiargli la pelle nivea del volto, gli si strinse lo stomaco.

Non solo perché era ferito, ma anche perché era da solo.

Gli si avvicinò in tre falcate, appoggiandogli le mani sulle spalle senza sapere cosa dire. A sua volta, nemmeno Holmes proferì parola.

« Vieni, fatti dare un’occhiata da un medico... » riuscì poi a borbottare Lestrade, esausto e letteralmente divorato dall’ansia, prendendolo per un braccio e portandolo verso una delle ambulanze posteggiate a poca distanza.

Il detective si fece guidare senza opporre nessuna resistenza.

Greg si rendeva dolorosamente conto che anche Sherlock, nonostante non lo desse a vedere come avrebbe fatto una persona normale, era arrivato ad un punto di sopportazione molto distante dai suoi soliti standard. Anzi, dopo sei anni di conoscenza era anche convinto del fatto che, se quella fosse stata una situazione  che avesse potuto affrontare oggettivamente, si sarebbe già messo all’opera per trovarvi soluzione – e, implicitamente, risparmiare a tutti loro una tortura psicologica gratuita.

Ma John era disperso in un incidente ferroviario il cui colpevole era deceduto suicida. Sherlock non aveva nessuno con cui prendersela, niente su cui sfogare frustrazione ed attesa e così, viaggiando al limitare del suo carattere tutto strano e particolare, si limitava a rimanere in silenzio.

Non credeva che lo avrebbe mai pensato, ma lo preferiva quando era il solito, logorroico sapientone rompiscatole.

Vedendoli arrivare, uno dei paramedici assegnati all’ambulanza – e che sembrava approfittare di un momento di pausa per rifocillarsi con un veloce tramezzino – posò il minuto pasto e si preparò a riceverli.

Sherlock si sedette sul retro del veicolo mentre l’infermiere, rovesciando il contenuto di una bottiglietta d’acqua su di un asciugamano, cominciò a pulirgli viso e fronte dallo sporco per poter lavorare meglio sulla ferita alla testa. Sherlock assunse un’espressione scocciata ma l’occhiataccia che gli scoccò Lestrade – un muto “non ci provare nemmeno e fagli fare il suo lavoro” – gli impedì di rifiutare l’aiuto.

« È strano vederti in camicia, Lestrade » disse allora Holmes.

Greg fece spallucce. « Ho dato una mano » si limitò a dire come spiegazione.

Calò di nuovo il silenzio.

C’erano cose di cui avrebbero dovuto parlare ma che non avevano il fegato nemmeno di pensare, così come tutte le cose di cui avevano il coraggio di parlare sembravano altamente fuori luogo, in quel posto.

Il risultato era solo il continuare soffuso del silenzio.

« Signore, lei dovrebbe andare in ospedale, questa ferita ha bisogno di qualche punto » intervenne poi il medico, disinfettando la ferita di Sherlock con l’aiuto di un pezzo di cotone idrofilo.

« Ci andrò dopo » rispose subito Sherlock.

« Ma signore... ! »

« Ho detto che ci andrò dopo! » ribatté di nuovo il detective con voce seccata: « ci metta un dannato cerotto e non rompa » aggiunse poi, suonando lapidario. Lestrade, questa volta, non intervenne in nessun modo.

Quello sospirò, limitandosi ad annuire ed a bendargli la testa. Sherlock non si era risparmiato da dire che gli sembrava una cosa inutile, ma la benda teneva ferma la garza sulla ferita, evitandole di riprendere a sanguinare, ed il paramedico non scese a compromessi di nessun tipo.

Non parlarono di John. Nemmeno una parola.

Lestrade aveva intuito tutto dal comportamento di Sherlock, ed Holmes semplicemente riteneva di non essere in grado di affrontare il discorso con nessuno, tantomeno con Greg.

Quindi rimasero lì, seduti nel retro di un’ambulanza a fissare la stazione di Waterloo, senza poter far altro se non aspettare.

Ancora.

 

 

• The Tube; Waterloo > Enbankment (Rescue Team), h. 23:30 pm

 

Nicholas Ryder aveva una laurea in ingegneria navale ma era innamorato della divisa da vigile del fuoco, ottenuta dopo mesi di addestramento e che indossava con l’onore di un vero uomo.

Eppure, ogni tanto, gli veniva in mente il pensiero che se si fosse effettivamente messo a fare l’ingegnere navale, probabilmente sarebbe stato meglio. Uno di quei momenti, caso strano, era, per esempio, quando passava nove ore sottoterra in un tunnel a moderato rischio frane.

Molti dei suoi uomini gli avevano consigliato di uscire a prendere una boccata d’aria, magari anche solo un’ora per disintossicarsi da tutta quella polvere e quella sensazione claustrofobica, ma lui aveva rifiutato ogni volta, portando al limite sia le sue capacità fisiche che quelle mentali.

Era esausto e non lo nascondeva. Ma era un uomo tutto d’un pezzo, di quelli che si faticava a trovarli in tempi come quelli, e non nascondeva nemmeno quello.

Dopo più di due ore utilizzate per rimuovere i detriti della frana, finalmente avevano un punto chiaro della situazione: il vagone che avevano tentato di spostare non era crollato del tutto, ma aveva liberato una parte sufficiente per poter penetrare all’interno attraverso un buco praticato con la sega circolare. Erano anche riusciti a capire che all’interno, miracolosamente, vi erano tre persone vive, tra le quali due coscienti e una svenuta e ferita.

Ed ora Nick, in piedi ad osservare la sega terminare di disegnare un riquadro abbastanza grande per lasciarli entrare, sperava ardentemente di non trasformarsi in un bugiardo, e che all’interno di quel vagone una delle tre persone ancora in vita rispondesse al nome di John Watson.

Terminando il proprio compito, la sega bucò il soffitto. Una volta entrato, un giovane soldato ed una bambina lo accolsero con sorrisi stanchi ma pieni di gioia, indicandogli subito un terzo uomo a terra privo di sensi ma ancora in vita.

Mentre i suoi colleghi portavano in salvo il ferito e la bambina, Ryder si avvicinò al soldato, chiedendogli i loro nomi.

Quando il giovane pronunciò il nome del dottor John Watson, indicandoglielo nell’uomo che era ormai assicurato ad una barella e con una mascherina d’ossigeno sul volto, Nicholas non poté fare a meno di far nascere un sorriso soddisfatto e felice sul proprio volto.

Ma il giovane soldato, presentatosi come Edward Miller, non si limitò a quello. Senza smettere di parlare, cominciò a raccontargli le loro ore dentro quella carrozza, con dovizia di particolari e un’ammirazione latente per l’uomo incosciente che stavano trasportando urgentemente fuori da quel posto.

Nick Ryder ascoltò quel soldato a bocca aperta, stupito, dimenticandosi persino di sostituire quel patchwork di camicie e magliette sporche e maleodoranti con una benda medica fatta come Dio comandava.

Ascoltava la storia di un ex medico militare che aveva fatto di tutto per salvare tre persone (e che tutt'ora stava rischiando la vita), e di riflesso collegò quel racconto al detective che aveva avuto al fianco per tutto il giorno, suo inaspettato compagno nello stomaco della terra.

Non appena fosse tutto finito... non appena i superstiti fossero stati smistati tutti negli ospedali, i cadaveri rimossi, le macerie trasportate altrove e le tende smontate, sarebbe tornato da sua moglie.

Le avrebbe detto "ti amo", l'avrebbe abbracciata forte, avrebbe appoggiato l'orecchio sulla sua pancia ancora piatta immaginandosi il cuore pulsante della creatura che vi cresceva all'interno.

Poi, guardando la sua donna negli occhi, avrebbe speso le ore successive a raccontarle una storia.

E a spiegarle perché loro figlio si sarebbe chiamato John Sherlock Ryder.

 

 

• London; 00:00 ~ March the 4th

 

Il Big Ben, imponentemente stagliato sulle acque placide del Tamigi, rintoccò cautamente la mezzanotte di un nuovo giorno di marzo, facendo sentire la sua voce tonante nel cielo stellato che sovrastava Londra.

 

Al piano terra del 221B di Baker Street, mrs. Hudson stava seduta inquieta sulla sua poltrona, non sapendo se doveva o meno aspettare notizie da entrambi i suoi coinquilini, ancora fuori casa da quella mattina.

In camicia da notte e vestaglia di lana rosa, osservava con sguardo preoccupato il televisore, sintonizzato su un’edizione speciale del telegiornale. Era tutto il giorno che uomini a mezzobusto interrompevano le soap opera che guardava abitualmente con aggiornamenti sull’incidente alla metropolitana, e tutte le volte che vedeva inquadrata la stazione di Waterloo una strana sensazione le prendeva al petto, facendola sospirare.

Aveva la sua età, ma ricordava perfettamente cosa voleva dire avere un presentimento nelle ossa.

Aveva sperato di sbagliarsi. Ma quando squillò il telefono, seppe che il suo istinto, come al solito, aveva previsto tutto.

Era successo qualcosa.

 

Si sa, il telefono suona sempre nei momenti meno opportuni.

Nel suo caso specifico, mentre era sotto la doccia.

Afferrando un asciugamano e sporgendosi oltre l’anta in plastica opaca, Harriett Watson agguantò il cellulare imprecando a denti stretti contro le persone che chiamavano ad orari assurdi ed in situazioni sconvenienti. Irritazione che aumentò quando non riconobbe il numero sul display.

Mise fine alla suoneria con uno sbuffo, piazzandosi il telefono all’orecchio senza considerazione per i propri capelli bagnati. « Chi è? » sbottò seccata, rimanendo poi attentamente in ascolto.

La sua espressione variò dalla rabbia all’incredulità, poi dall’incredulità alla preoccupazione, infinte dalla preoccupazione alla risolutezza.

« Arrivo subito » disse, chiudendo la telefonata e l’acqua della doccia contemporaneamente, asciugandosi alla bene e meglio ed uscendo di corsa dal bagno.

 

Dalla poltrona davanti al caminetto del Diogenes Club, Mycroft Holmes osservò di sottecchi l’orologio a pendola poco distante emettere i cupi rintocchi del cambio di giorno. Rintocchi che furono subito sostituiti dall’eco di veloci passi sul pavimento di marmo della Strangers Room.

Una delle sue guardie si avvicinò, chinandosi verso di lui e sussurrandogli qualcosa all’orecchio. Mycroft annuì, congedando l’uomo in completo scuro con un cenno della mano.

Con dita lente ma abili estrasse dalla tasca interna della giacca grigia il cellulare, componendo velocemente un numero che sapeva a memoria ed avviando la chiamata.

 

Quando Sherlock Holmes alzò lo sguardo incrociando quello stanco ed esausto di Nicholas Ryder, l’intero mondo sembrò rallentare e fermarsi.

Non servirono cenni, urla o parole. Non servirono spiegazioni, né movimenti inconsulti: Sherlock non si mosse dal retro dell’ambulanza su cui era ancora seduto, mentre Nicholas non fece nemmeno un passo oltre la scalinata della stazione di Waterloo.

Si guardarono, punto. Sherlock con tante domande, Nick con una sola risposta.

Da lontano, in mezzo al via vai di gente che scalpitava accanto alla squadra di soccorso appena risalita dalle viscere della Terra, Holmes vide Nick annuire con il capo... e sorridergli.

Un solo cenno, un solo sì.

Un solo significato.

Come se fosse dotato di nuova forza, il consulting detective scattò subito in piedi, seminando un Lestrade sorridente ed intento a ringraziare mentalmente un Dio in cui stentava a credere, per un lieto fine in cui aveva codardamente smesso di sperare.

Vide da lontano Sherlock chinarsi su di una barella appena fatta arrivare, accarezzare con una delicatezza di cui non lo credeva capace i capelli di un John incosciente; lo vide osservarlo con occhi pieni di preoccupazione e felicità mescolate insieme, guardarlo come se fosse una cosa preziosa che sembrava perduta e poi improvvisamente ritrovata.

Non aveva occhi che per John. Non aveva voce che per John. Non aveva cuore che per John.

Il sorriso gli si addolcì quando Sherlock posò la fronte su quella del dottore, socchiudendo gli occhi. Muoveva le labbra, sembrava sussurrargli qualcosa... ma Greg era troppo lontano, e non si sarebbe nemmeno avvicinato per rispetto di quella scena rincuorante e allo stesso tempo intima, privata, un pezzo di vita solamente loro che condividevano con i presenti solo per puro caso.

Si sentì quasi in imbarazzo, guardandoli. E, seguendo quel sentimento, distolse semplicemente lo sguardo.

Giusto in tempo, dato che il telefono nella tasca dei suoi pantaloni prese a suonare.

Non si sorprese di leggerne il nome sul display. Era ovvio che sapesse già tutto.

« Signor Holmes » rispose Gregory, la voce notevolmente più rilassata, il tono meno gravato se non dalla stanchezza che quella giornata gli aveva provocato.

Dall’altra parte, una voce morbida pronunciò un elegante: « Ispettore Lestrade » come saluto in risposta.

Un attimo di silenzio, poi la farsa con cui solevano salutarsi ogni volta che si sentivano scivolò piano dalle loro labbra, finendo nel nulla.

« L’hanno trovato, Mycroft ».

« Lo so, Greg. Sherlock? ».

Lestarde lo guardò di nuovo da lontano mentre, senza staccare gli occhi da John, annuiva ai paramedici seguendo la barella sull’ambulanza che li avrebbe portati entrambi all’ospedale.

« È con John, stanno salendo su un’ambulanza » riferì, palesemente sollevato.

Dall’altra parte, però, Mycroft non lo sembrava altrettanto.

Greg mangiò la foglia. « Cosa c’è? » domandò, il tono di voce del poliziotto pronto a ricevere brutte notizie.

Un sospiro, prima che l’altro si decidesse a prendere parola.

« Non è... è grave, Greg. Ho dato disposizioni precise perché venisse portato al Royal London Hospital(4) e ho mandato alcuni dei miei uomini a svegliare i più bravi chirurghi del Regno. Tuttavia non so se... » lasciò cadere, ma a Greg non serviva veramente che continuasse la frase.

Aveva già capito. Dal momento in cui aveva visto il lievissimo sorriso sulle labbra di Sherlock sparire, aveva già capito.

Aveva capito che non era ancora finita.

Si limitò a sospirare, chiudendo gli occhi sulle luci blu dell’ambulanza che partiva a sirene spiegate. « A noi cosa resta da fare, Mycroft? Cosa? » domandò.

Dall’altra parte, poté quasi immaginare le labbra sottili del maggiore degli Holmes inclinarsi in un sorriso amaro.

« Respirare » disse: « tutto ciò che possiamo fare, è continuare a respirare ».

 

 

 

~ To be continued...

 

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1. Riferito a "The Hound of Baskerville", puntata 2x02.

 

2. Informazioni prese da Wikipedia (e da qualche film ;D). Lo Stafilococco Aureo è un batterio abbastanza comune, fonte di infezioni - solitamente cutanee - che causano irritazioni fatte di macchioline rosse. Se il batterio penetra in una ferita, però, può causare altri tipi d'infezione, sicuramente più gravi, fra cui la Setticemia (o Sepsi) che cita John.

La Setticemia è un'infezione batterica del sangue. Se non curata in tempo può causare quella che è la Sindrome da Disfunzione Multiorgano (o MODS: Multiple Organ Dysfunction Syndrome). Dopo di che c'è la morte.

 

3. Il massaggio cardiaco segue delle proporzioni fra compressioni e insufflazioni (per dirla come mangiamo: fra soffi e quante volte premiamo il torace). Le vecchie manovre prevedevano una proporzione di 15:2 (15 compressioni, 2 insufflazioni), ma secondo il BSL Laico ("Basic Life Support", approvato dal Cosiglio Europeo come manovra standard di primo soccorso) le proporzioni cambiano a seconda del numero di persone che mette in atto la manovra: per una persona sola si usa un ritmo di 30:2, per due persone si passa ad un più veloce 5:1.

Aggiungo, per essere precisa fino in fondo, che fare un massaggio cardiaco è tutt'altro che una passeggiata. Tant'è che il soccorritore può anche smettere di rianimare una persona - senza incorrere nel reato di omissione di soccorso - in caso di sfinimento.

 

4. Inizialmente avevo scritto che Mycroft aveva fatto mandare John al Barts, ma poi ho scoperto qualcosa di interessante.

Il Barts (alias “St. Bartholomew’s Hospital”) fu al centro di un’ingiunzione di chiusura nel 1993, perché il Governo britannico riteneva che gli ospedali in centro a Londra fossero troppi. Fu aperta una campagna per evitarne la chiusura (il Barts è l’ospedale più vecchio di Londra, fondato nel 1702, e fu il primo ospedale pediatrico d’Inghilterra; mica brustoline!) che andò a buon fine, ma nel 1995 gli venne tolto il Pronto soccorso (Accident and Emergency Department) che venne trasferito nel vicino Royal London Hospital (il Royal London ed il Barts fanno parte della stessa associazione sanitaria, tipo, chiamata “Barts and the London NHS Trust”). Comunque il Barts rimane un ospedale di primo livello, più che altro votato alla ricerca e alla cura del cancro e dei disturbi cardiaci.

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Capitolo 5
*** Passing Afternoon ***


Note: ormai sono sempre quelle, ma già che ci siamo...

Quest’ultimo capitolo è ambientato per la maggior parte in ospedale. Come ormai sarete stanchi di leggere – perché l’ho ripetuto quasi in ogni capitolo finora XD – tutte le cose mediche che vengono dette qui non sono farina del mio sacco. Vengono da Dr. House e da Wikipedia.

Tanto per dire: potrei anche scrivere una marea di boiate. Voi ricordate che è sempre licenza poetica ;D

 

Ringraziamenti: perché nell’ultimo capitolo ci vogliono.

Quando cominciai a guardare Sherlock – si sta parlando del dicembre 2011 – mi ero ripromessa di non scriverci sopra.

Eh. Si vede com’è finita.

Che dire? Inizialmente “All we can do (is keep breathing)” doveva essere una shortfic di 3 capitoli. Alla fine ne sono usciti 5 per un mio difetto congenito dell’essere prolissa, ma ammetto che non mi è dispiaciuto affatto allungarla, potendo così approfondire qualche altro aspetto dei personaggi.

E, a discapito del fatto che ci sono degli original character, e che la trama si snoda quasi tutta su di un cliché da Action movie di serie B, sono anche felice che sia piaciuta.

Davvero. Mi sono arrivate recensioni che mi hanno fatto sorridere come un’ebete davanti al pc per ore intere. Tutte parole che sento di non meritare ma che, e sarebbe bugiardo da parte mia negarlo, mi hanno fatto davvero molto piacere.

Perciò ringrazio tutti coloro che hanno letto, innanzi tutto, poi coloro che hanno recensito; ma anche chi ha semplicemente letto e messo nei preferiti, o nelle seguite, o nelle ricordate... o chi l’ha segnalata per le storie scelte del sito, con mia enorme gioia e sorpresa. Grazie.

Sono felice che abbiate apprezzato la fanfic e, dal profondo del cuore e come ogni ficwriter, spero di avervi lasciato qualcosa, fosse anche solo un bel ricordo.

 

Con queste mie parole, infine, apro l’ultimo capitolo.

Grazie per essere arrivati fin qui.

Buona lettura

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Passing Afternoon

 

 

 

Lestrade, appoggiato con la schiena al muro di quel piccolo spazio d’attesa, teneva le braccia incrociate ed il mento attaccato al petto. Indossava il suo impermeabile blu scuro stropicciato e aveva gli occhi fissi sulla punta della proprie scarpe. Non pensava a niente.

Mycroft Holmes, elegantemente seduto su uno dei seggiolini in plastica poco distanti da Greg, gambe accavallate ed inseparabile ombrello al fianco, teneva gli occhi socchiusi fissi su di un punto morto del pavimento. L’unico movimento che si dava pena di compiere era quello di passarsi fra le dita delle mani l’orologio da taschino, fermamente agganciato al gilet grigio con una catenina d’oro tirata a lucido. Non pensava a niente nemmeno lui.

Harriett Watson, capelli di una tonalità chiara di castano ed occhi di una particolare sfumatura oltremare, se ne stava seduta dalla parte opposta a Mycroft, scomoda in quei sedili di plastica così maledettamente tipici delle sale d’attesa.

Indossava una tuta grigia messa di fretta ed una giacca a vento maschile. Teneva un ginocchio piegato al petto e l’altra gamba abbandonata oltre il seggiolino, distesa con il tallone a terra. Anche lei non pensava affatto.

Molly Hooper, arrivata correndo dal Barts non appena aveva ricevuto la notizia, era in tenuta da lavoro, dunque indossava il camice. Turno di notte, probabilmente. Teneva le mani di mrs. Hudson, seduta al suo fianco fra Mycroft ed Harriett. Non sapeva a cosa pensare, dunque nemmeno lei se ne dava pena.

La signora Hudson indossava uno dei suoi abiti più belli, si era accotonata i capelli ed aveva messo persino i gioielli. Probabilmente, nella sua mentalità un po’ antica, l’eleganza era una sorta di rispetto, motivo per cui aveva perso qualche minuto in più a scegliere come vestirsi, per potersi presentare al meglio. Anche lei aveva la mente sgombra da ogni pensiero.

Sherlock li trovò così quando salì le scale del reparto, di ritorno dal pronto soccorso. Si presentò nel corridoio deserto a passo strascicato, le braccia abbandonate lungo i fianchi, un cerotto bianco che spuntava dai riccioli scuri umidi ed odoranti di shampoo.

Per poterlo curare gli infermieri del pronto soccorso gli avevano imposto prima una doccia. Lui l’aveva fatta nel minor tempo possibile, in silenzio, osservando per qualche istante l’acqua divenire scura a causa della quantità di sporcizia che aveva attaccata alla pelle, per poi sparire negli scarichi.

Gli avevano dato un accappatoio, lo avevano fatto sedere su di un lettino e gli avevano applicato cinque punti sul taglio, corredati con una dose generosa di antidolorifici che non migliorarono affatto lo stato catatonico in cui versava. Mycroft aveva poi provveduto a fargli avere dei vestiti di ricambio.

I soliti. Pantaloni neri, camicia bianca. C’erano anche calzini scuri e scarpe, così come la giacca del completo, ma Sherlock non li aveva indossati.

Era scalzo, infatti, sul pavimento freddo dell’ospedale semi-vuoto e silenzioso.

Silenzioso come lo era il piccolo manipolo di persone nell’altrettanto piccola saletta appositamente adibita per l’attesa di amici e parenti, dalle mura di un rivoltante color crema. I loro volti, cinerei e ansiosi, si voltarono quasi in sincrono quando comparve.

Sherlock non fece niente. Non salutò, non parlò, non respirò.

Aveva desiderato di addormentarsi. Di passare dormendo, per una volta seriamente, il tempo che lo separava dalla fine dell’operazione di John.

Così da non dover aspettare. Di nuovo.

Aveva già aspettato abbastanza, quel giorno. Tutto quel giorno. E l’attesa era stata ripagata.

Ma ora?

Ora arrivava una seconda punizione, voluta chissà da chi e chissà perché; doveva attendere di nuovo, un’attesa claustrofobica, circondata da muri di pietra ed odore di disinfettante.

Non appena fece un passo in avanti, dopo minuti interi passati in piedi appena oltre la porta dell’ascensore, mrs. Hudson scattò in piedi e gli si avvicinò a passo svelto, circondandogli prima il viso con le mani e poi tirandolo direttamente a sé, costringendolo a piegarsi per riuscire ad abbracciarlo.

Sussurrò al suo orecchio qualcosa che Sherlock non capì pienamente, ma che suonava molto come una serie di “andrà tutto bene” e “si salverà” e “tornerà sicuramente a casa” e “non preoccuparti”.

Holmes chiuse gli occhi, prendendo delicatamente le braccia di mrs. Hudson per sciogliere l’abbraccio in cui l’aveva stretto. Strinse per un attimo le mani raggrinzite della donna fra le sue, guardandola negli occhi per una frazione di secondo – trovandoli lucidi e bagnati di calde lacrime a stento trattenute – per poi lasciarla e sorpassarla a passo lento, andandosi a posizionare esattamente al centro della stanza, davanti a tutti quanti, gli occhi sulla porta dalla quale era appena entrato.

Diede le spalle ai presenti e, con un movimento stanco, si sedette a terra, i piedi incrociati e le ginocchia strette al petto.

Nessuno glielo impedì, o sottolineò quanto fosse inelegante.

Non sapeva come doveva sentirsi, né come effettivamente si sentiva. La mente continuava a dirgli che non avrebbe dovuto distruggersi in quel modo, che gli serviva riposo (o un antidolorifico più potente, magari morfina? Come da vecchie abitudini?(2)), che John Watson era solo un coinquilino. Ok, magari un amico, ma aveva comunque fatto il suo tempo. Continuava a spiegarli, con argomenti scientifici e logici, che sarebbe stato male a causa della perdita forse per le prime due settimane, perché lui era veloce ad elaborare il lutto, e dunque non gliene sarebbero servite di più. Gli diceva che John Watson non era tutta questa specialità, non era rilevante, era... sacrificabile. Sostituibile.

Di contro, ogni battito lento di cuore che sentiva esplodergli nelle orecchie – quel cuore neonato, ancora incapace di provare una sensazione definendo anche quale fosse – portava con sé parole del tutto diverse: calde e rassicuranti a volte, paurose e tese altre.

Gli sussurrava che era importante, restare lì. Che doveva farlo perché lo doveva a John. Che sarebbe dovuto rimanere fino alla fine, sveglio, presente, per poterne vedere il risultato, qualunque fosse.

Per potergli dare il bentornato se avesse riaperto gli occhi, o per potergli dire addio se non li avesse riaperti mai più.

Mormorava quietamente l’importanza del dottor Watson direttamente nel suo orecchio, facendogli presente come si sentisse ogni volta che riceveva un complimento sincero da quella voce umana, o quando il medico si lamentava a vuoto dei suoi esperimenti sparsi nel frigorifero ed in giro per la cucina.

Gli faceva ricordare ogni fremito che le corde del proprio cuore avevano percepito in tutto il tempo passato assieme; quando John faceva qualcosa di gentile per lui, si preoccupava per lui, sorrideva per lui.

Le occhiate e gli sguardi con cui capivano esattamente cosa l’altro volesse dire senza aver bisogno di parlare. Quegli attimi in cui Watson capiva, solo da una sua piccola e lieve occhiata, il bisogno che aveva di un tè – uno dei suoi tè, buoni in un modo che solo John sapeva fare, con quantità perfette di zucchero e limone – e qualche complimento, o di un pubblico che ascoltasse un suo ragionamento particolarmente brillante.

I momenti in cui John si addormentava sulla poltrona dopo essere rimasto sveglio per 72 ore di fila, seguendolo su e giù per Londra durante la risoluzione di un caso. Gli stessi momenti in cui Sherlock, mosso dai fili di qualche marionettista dal cuore tenero, si alzava dal divano in silenzio e lo copriva con la coperta, rimanendo poi seduto di fianco alla sua poltrona con l’unico scopo di ascoltarne il respiro regolare.

Le notti in cui, nonostante l’altro dormisse, Sherlock si metteva a suonare il violino. E John scendeva in punta di piedi le scale e si fermava dietro la porta chiusa del salotto, la schiena appoggiata al legno, e lo ascoltava suonare.

E allora Sherlock cambiava melodia, suonando qualcosa di dolce che sapeva piacere a John, facendo scivolare l’archetto sulle corde a creare note come il miele e facevano entrambi finta: Sherlock faceva finta di non essersi accorto di John, e John fingeva che Sherlock non si fosse accorto della sua presenza.

Tutte quelle circostanze in cui Sherlock si era sentito bene, meglio. Occasioni in cui aveva sorriso con affetto a qualcuno che non fosse se stesso, o a qualcosa che non fosse una sua deduzione o il teschio sul caminetto.

Sherlock Holmes cominciava a capire, e capire faceva male. Il suo cuore finalmente a pieno regime soffriva per l’emozione e la paura di ciò che provava mentre il suo cervello, testardo fino alla fine, continuava ad attivare meccanismi di difesa razionalizzanti, non facendo altro che confonderlo ancora di più.

Era nauseante.

E quella maledetta attesa non migliorava affatto la situazione.

 

 

 

Aprì gli occhi di scatto, sussultando.

Un sentimento di paura, forse di angoscia. La sensazione di cadere che è capace di svegliare una persona in piena notte e dal suo sonno più profondo.

In realtà, un po’ si sentiva esattamente così. Una persona svegliata nel cuore della notte.

Ma si guardò intorno, John, ed il posto in cui si ritrovò non aveva niente a che fare con la realtà.

Pareti bianche, pavimenti bianchi, tappeti bianchi, mobili bianchi, libri dai frontespizi bianchi come le relative pagine. Si ritrovò seduto su di una poltrona bianca, indossando vestiti bianchi – un paio di pantaloni larghi di cotone leggero, molto simili a quelli di un pigiama, e una maglietta bianca a maniche corte, semplicissima – e circondato in ogni dove da cose bianche. Anche la luce, che filtrava da una finestra con le tende bianche e dava su di uno spazio bianco uniforme, era bianca.

Si guardò meglio intorno. Le uniche note di colore erano un teschio sulla mensola sopra il camino, osso invecchiato, grigio sporco. Uno smile giallo sulla parete all’estrema destra. Un violino dalle venature marroni appoggiato sul divano.

Era famigliare, quel posto. Abitudinario. Gli dava una sensazione di calore, d’affetto, di protezione, di...

« Casa ».

Si irrigidì nel sentire una voce che non gli apparteneva e, ora completamente in allerta, girò velocemente il capo verso la sua fonte, fin troppo vicina per pensare che non fosse nella stanza già da prima.

Come aveva fatto a non notarla?

Di fronte a lui, su di una poltrona posizionata esattamente di dirimpetto a quella su cui era seduto, una ragazza era intenta a leggere un libro dalla copertina bianca e dalle pagine vuote. Non vi era scritto nulla eppure lei leggeva, attenta, concentrata.

Indossava un tailleur bianco a pantalone, elegante, con una camicia altrettanto bianca. La pelle era lievemente olivastra, i capelli corti e neri, scalza. Lo erano entrambi, in realtà. Era seduta a gambe incrociate.

La conosceva. Sapeva chi era.

« Joy? » domandò infatti.

Quella, alzando gli occhi su di lui, sorrise appena. « Più o meno » rispose, chiudendo piano il libro ed appoggiandosi allo schienale della poltrona.

Chissà perché, John sentiva che era strana l’immagine di lei su quella poltrona. Sbagliata.

Ma non ricordava perché.

Aggrottò le sopracciglia nell’osservarla, senza scostare i propri occhi dai suoi. « Sei morta » affermò poi.

Quella annuì.

« Io sono morto? » domandò allora, facendo un’associazione di idee.

Lei fece spallucce, negando con il capo. « Non lo so » disse poi.

Sorpresa. Smarrimento. « Non lo sai? » domandò John: « cioè, se tu sei qui... e io sono qui... » ipotizzò, ma lei lo interruppe.

« E queste due condizioni danno per forza come risultato la tua dipartita? » domandò lei con un sorrisetto ad inclinarle le labbra: « non potremmo semplicemente essere qui perché sì? Perché è così che deve essere? » continuò, senza mai smettere di guardarlo.

John inarcò un sopracciglio. Una voce nella coscienza gli sussurrò una frase.

Le coincidenze non esistono, John.

La ripeté ad alta voce: « le coincidenze non esistono » disse.

Quella roteò gli occhi, ma sorrideva ancora. « Come sei puntiglioso... » lasciò cadere, per poi ritornare a guardarlo: « rispondi a questa domanda, allora: dov’è “qui”? ».

Al dottor Watson scappò una risatina, una di quelle supponenti che poche volte gli avevano inclinato le labbra. « Beh, qui siamo... » cominciò, ma si fermò a poche parole dall’inizio della frase, bloccato.

Distogliendo lo sguardi da lei, osservò di nuovo ciò che lo circondava: tutto quell’insieme di oggetti bianchi contro pareti bianche su mobili bianchi nella luce bianca.

Riconosceva il posto, eppure non riusciva a dire dove fosse. Si sentiva a casa, eppure non riusciva a spiegarsi perché.

Sentiva che mancava qualcosa, qualcosa di importante, ma non sapeva spiegarsi cosa. No, qualcuno. Qualcuno. Ma non sapeva ricordare chi.

Non ricordava niente.

« Dove... dove...? » boccheggiò, ancorandosi con le mani ai braccioli della poltrona nel tentativo di non cedere al panico che stava lentamente montando nel suo petto.

Joy, sempre appollaiata sull’altra poltrona, intervenne appena in tempo: « rilassati, John. Non è grave. Sei qui apposta » gli disse, facendogli segno con la mano destra di calmarsi un poco.

Watson, finalmente consapevole delle parole, riportò gli occhi su di lei. La guardò in silenzio per qualche istante, attimi in cui lei si lasciò osservare.

« Cosa intendevi prima con “più o meno”? E cosa vuol dire che sono qui apposta? » domandò l’uomo, calmando a fatica i battiti accelerati del proprio cuore smarrito.

Il sorrisetto sulle labbra di lei si allargò. « “Più o meno” vuol dire che sono Joy, ma al contempo non lo sono. In realtà, John, non lo sono affatto. Io sono solo una proiezione del tuo subconscio che il tuo cervello ha deciso di associare alla figura di una povera ragazza morta proprio sotto al tuo naso. Suppongo che si sia ispirato all’ultimo trauma subito per ricreare quest’immagine, niente di così originale... » spiegò, ma John la interruppe all’improvviso.

« Frena, frena, rallenta! » esclamò, portandosi istintivamente la mano sinistra sugli occhi, massaggiandoseli: « mi stai dicendo che tu sei me? » chiese.

Lei annuì. « Ai minimi termini, sì » rispose.

« E quindi sto parlando con me stesso? » aggiunse l’uomo.

L’altra annuì di nuovo.

« Ah. Mh... bene. Ok » balbettò John, cercando con tutto se stesso di non dare a vedere la sorpresa e la stranezza che tutto quello gli provocava. Non ce la fece poi molto: « Cristo, non può essere reale... » sussurrò.

« Oh, avanti John! Cosa ti sembra reale, qui? » esclamò la ragazza, aprendo le braccia in modo da indicare l’ambiente attorno a loro: « cerchiamo di concentrarci, ti va? Devi dirmi dove sei, John. Fa parte della scelta » disse.

Watson, ancora con la mano posata sugli occhi, trattenne il fiato. « “Scelta”? Quale scelta? » domandò, distogliendo le mano dai propri occhi e tornando a guardarla. « Anzi, non hai ancora risposto ad una delle mie domande: cosa vuol dire che sono qui apposta? » chiese, sempre più stranito e perplesso.

Joy – o la presunta tale – prese un grosso sospiro e si massaggiò le tempie con le dita. Trovò una sorta di concentrazione, di equilibrio emotivo tutto suo, poi finalmente prese parola.

« Non è la prima volta che ci vediamo noi due, sai? ».

John sembrò sorpreso dell’affermazione, lei annuì di nuovo.

« Qualche anno fa ti hanno sparato, ricordi? Spalla sinistra. Non ti hanno colpito il cuore ma hanno rischiato di farti fuori comunque » una piccola pausa: « ...in quell’occasione sei stato molto vicino alla morte, e ti è stata data la stessa scelta che ti viene offerta ora. Ci siamo incontrati lì, io e te. Certo, all’epoca non avevo questa faccia » disse, indicandosi con entrambe le mani: « però il concetto di base è quello » terminò.

Il medico rimase in silenzio, catalogando e mettendo in ordine le informazioni appena ricevute. Aveva deciso di fidarsi, ad un certo punto del racconto, perché la situazione gli sembrava troppo assurda ed irreale per non credere alle sue parole. Ovviamente non si ricordava del fantomatico incontro, però...

« Non puoi » disse lei all’improvviso.

« Come, scusa? » domandò John, ridestandosi dai propri pensieri.

« Non puoi ricordartene » precisò lei: « sarebbe come ricordare un sogno, o meglio, una visione. Questo luogo non si ricorda mai, è destinato a rimanere un punto disperso nel tempo infinito di uno spazio inesistente » spiegò.

Non si stupì più di tanto che potesse leggergli nel pensiero, se veramente era il suo subconscio. Anzi, era una sorta di prova del nove, in fondo.

« Quindi mi stai dicendo... » cominciò lui, convinto di essere arrivato ad una sorta di soluzione: « ...che questo posto è una specie di corridoio di passaggio per la gente che rischia di morire ma non è ancora morta. Dico bene? » domandò, cercando conferma.

Quella, lasciandosi scivolare di lato fino a stendersi di traverso sulla poltrona, annuì con uno sbadiglio. « Il termine più corretto è “limbo”. Hai ragione, nella realtà sei a tanto così... » e mostrò una distanza irrisoria con l’indice ed il pollice della mano destra « ...dalla morte. Sei qui perché devi scegliere cosa fare e sei uno dei pochi fortunati che possono permetterselo. Io gioirei se fossi in te, se mi passi la battuta » disse quella, ridacchiando piano.(3)

John ignorò lo squallore dell’ironia, preferendo concentrarsi sui particolari importanti. « E cosa devo scegliere? » domandò.

« Se restare o andare » rispose semplicemente l’altra, ed il significato era ovvio.

Così semplice? « Resto » pronunciò.

« Perché? » chiese allora l’altra.

« Come “perché”? » esclamò allora John, stranito. « Se chiedi ad una persona di vivere o morire è logico che risponderà “vivere”, no? » disse, quasi stizzito da quella domanda a suo parere scontata.

« Ah sì? » cominciò però Joy, guardandosi le dita dei piedi nudi mentre le muoveva: « eppure hai pensato tante volte di voler morire, John. Tante. Anche l’ultima volta che ci siamo visti. Ci ho messo molto tempo per convincerti, quella volta » disse.

John prese fiato per risponderle, ma non lo fece. Le sue parole erano vere, e lo sapeva lui così come lo sapeva lei.

No. Effettivamente non era una domanda scontata.

« Ma il fatto che tu sia intenzionato a tornare alla vita mi rincuora, almeno siamo un passo avanti » aggiunse poi, rimettendosi seduta a gambe incrociate con un movimento fluido ed agile. « Allora John, dove siamo? » domandò di nuovo, guardandolo in attesa di una risposta.

Risposta che non arrivò. Non subito, almeno.

« Non me lo ricordo » ammise Watson.

« Però lo sai » sostenne lei.

« Come fai a dirlo? » domandò ancora John.

« Perché so che lo sai » rispose ancora Joy.

John cominciava a spazientirsi. « E tu lo sai, dove siamo? » domandò allora, cambiando strategia.

Joy negò con il capo.

« Ma come? Tu non sei me? » sbottò il medico, al limite della pazienza.

« Giusto. Ma vedi, io sono una parte diversa di te. Sono quella parte senza regole e senza costrizioni. Sono quella parte che esce fuori nel sonno, dove le catene delle inibizioni sociali mi vengono tolte e io posso giocare con i tuoi sogni facendoti vedere la verità su molte cose che ti ostini a negare. Che ti ostini a non fare. Sono quella parte di te che esce fuori quando hai troppo alcool in corpo, o quando sei su di giri, o quando anche la stronzata più assurda ti sembra una buona idea. Dunque sì, è vero, sono te. Ma sei tu quello con il cervello, non io: io sono solo istinto » puntualizzò, ammaliante e suadente.

A vederla dall’esterno, avrebbe dubitato che quella ragazza così disinibita potesse realmente essere una parte di lui, seppur minima.

« Ho studiato Freud » la apostrofò: « devo dedurne che ho il piacere di parlare con il mio Es? ».(4)

Quella gli fece un piccolo applauso, un sorriso di plastica sulle labbra. « Bravo! » esultò: « è un piacere, davvero. Di solito non godo di tutta questa libertà, con quell’accidenti di Io militarizzato che ti ritrovi! » aggiunse poi, sproloquiando apposta per farlo arrabbiare ancora di più.

Gesù, nemmeno Sherlock riusciva a farlo irritare così!

Trattenne il fiato, serrando improvvisamente le labbra. Joy, di fronte a lui, si calmò ed esibì un sorrisetto sornione.

Sherlock? Perché aveva pensato a quel nome? Chi era Sherlock?

Al solo pensarci, una sensazione strana gli esplodeva nel petto. Un sentimento di ammirazione misto ad agitazione, paura, ma anche calore, e tanto, tanto affetto. Importanza. Qualcuno di importante.

Ma non riusciva ad associare un volto a quel nome, una storia a quel nome, ricordi a quel nome.

Niente, a quel nome. Solo un nome.

“Sherlock”.

« Devi dirmi dove sei, John » intervenne Joy, ripetendogli per l’ennesima volta quella richiesta. La voce calma, seria, composta.

« Perché? » soffiò lui, confuso, scombussolato.

« Perché non te lo ricordi. Ed è importante per te farlo ».

« ...perché? » sussurrò di nuovo, questa volta più piano, più indeciso.

« Perché hai smarrito la strada di casa.  E se non ti aiuto a trovarla non riuscirai più a tornare indietro ».

 

 

 

Erano passate quattro ore e mezza.

Infinite. Viscose. Appiccicose.

Avevano sentito sulla pelle ogni minuto, ogni secondo, ogni ticchettio d’orologio. Si erano voltati ad ogni passo, sussultato ad ogni sospiro, guardato i rispettivi orologi all’incirca ogni quarto d’ora convinti che fossero passati almeno quaranta minuti – ogni volta.

Mai il tempo era stato così lento, mai l’attesa così angosciante.

Relativismo. Tutto cambia a seconda dei punti di vista. Per questo motivo il tempo sembra lento o veloce, il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto.

Oggettivamente, il tempo era sempre lo stesso. Scorreva sempre alla stessa velocità.

Soggettivamente, ognuno di loro aveva la sensazione di essere seduto in quella sala d’attesa da un giorno intero, quando invece era lì solamente da quattro ore e trentatre minuti.

L’orologio segnava le cinque meno nove e fuori nemmeno albeggiava. Era ancora notte. C’era ancora buio e silenzio, all’esterno, lo stesso che aleggiava pesante in quella stanza illuminata di luce artificiale, abbastanza fioca da far venire sonno a chi era stanco ma altrettanto violenta da non permettere a nessuno di addormentarsi veramente.

Lestrade, seduto sul sedile accanto a Mycroft, faceva ciondolare il capo ogni volta che un attacco di sonno se ne approfittava e lo trovava con gli occhi chiusi.

A sua volta, Mycroft teneva gli occhi puntati sulla schiena del fratello, scostandoli solo di tanto in tanto per fare attenzione che Greg non perdesse l’equilibrio sulla sedia o si facesse male al collo.

Molly, ancora accanto a mrs. Hudson, si era appisolata sulla testa della donna, che a sua volta aveva appoggiato la fronte alla spalla della giovane senza tuttavia dormire. Languiva in una sorta di dormiveglia agitato, ansiogeno, respirando a tratti veloce, a tratti profondamente.

Harry Watson, invece, seduta ci era stata solo per la prima ora. Si era poi avvicinata alla finestra e aveva guardato il buio dall’altra parte del vetro per le rimanenti tre ore e mezza. In silenzio, immobile, persa.

Sherlock, d’altro canto, non si era mai mosso da dove si era seduto. Non aveva cambiato posizione, modo di stare seduto, non si era alzato per sgranchirsi le ossa... niente. Non aveva parlato, ancora, il che era molto peggio.

Chissà perché, il silenzio profondo in cui Sherlock si era rinchiuso si ripercuoteva sugli altri presenti come un’onda d’urto. In realtà come un buco nero, perché aveva trascinato tutti con sé in una situazione pesante come piombo in cui sembrava addirittura un crimine pronunciare anche solo una parola.

Ne erano tutti consapevoli e, forse per paura di spezzare chissà quale prezioso equilibrio, nessuno fiatava.

Nell’assoluto silenzio che veniva così a crearsi, si sentiva tutto. E Sherlock era sempre il primo a percepire qualsivoglia suono, soprattutto dall’interno dell’ospedale, ancora più precisamente all’interno del reparto in cui si trovavano.

Passi in lontananza, Sherlock alzava il capo dalle braccia appoggiate sulle ginocchia piegate al petto.

Fruscii, i muscoli della schiena di Sherlock si tendevano, in attesa di scattare.

Respiri... sì, probabilmente Sherlock sentiva anche quelli.

Sembrava che tutto, lì dentro, facesse ormai parte di Sherlock. Parte integrante.

Sherlock era nelle pareti, nei pavimenti, nei sistemi antincendio. Sherlock era nell’acqua, nell’aria e anche nelle intenzioni.

Talmente assuefatto, deformato, stravolto da quella situazione che sembrava ormai catatonico, completamente isolato in una bolla di protezione assoluta, immerso talmente tanto nella realtà che essa aveva cominciato a fondersi con i brandelli della sua pelle.

Attendeva. Aspettava i passi diretti in loro direzione che gli avrebbero finalmente detto cos’avrebbe dovuto fare della propris vita.

E questo, lo sapevano tutti. Tutti sapevano che per Sherlock Holmes non era la stessa cosa aspettare in quel posto, paziente, muto. Per lui era diverso perché là dentro c’era John, e John era colui che poteva essere la sua fortuna o la sua rovina.

Ora John rischiava la vita, e Sherlock era perso. Si era ritrovato a gestire un cuore con cui non era abituato a trattare e gli effetti erano, purtroppo, palesi.

Non sarebbe riuscito a proteggersi ancora per molto. Ad un certo punto la paura avrebbe spinto i sentimenti a prendere il sopravvento, complice la chimica dell’organismo umano, e probabilmente l’unico consulting detective del mondo sarebbe crollato.

E in quel momento, doveva esserci John a rimettere insieme i pezzi. Doveva.

 

 

 

« Dove sei John? »

« Non lo so. »

« Dove sei, John? »

« Non lo so. »

« John, dove sei?! »
« NON LO SO! »

L’urlo del medico risuonò ovattato fra le pareti bianche, che assorbirono la frustrazione di quelle parole come se fossero fatte di spugna.

Joy roteò gli occhi, guardandolo con astio malcelato. « Smetti di dire che non lo sai e mettiti in testa che lo sai! » esclamò, battendo con rabbia le mani sui braccioli della poltrona.

John la fissò iracondo. « Smettila tu di assillarmi con questa storia e dì qualcosa che abbia del senso, una volta ogni tanto! » sbottò.

Sbuffò, risentita. « John, stai facendo ostruzionismo » ammise, fissandolo male.

Lui restituì lo sguardo con un grado addirittura maggiore di risentimento. « Io non ostruisco proprio niente, se non lo so, non lo so » disse, sottolineando con la voce le ultime parole, duro.

« Oh, Cristo! » imprecò la ragazza, piantandosi esasperata i palmi delle mani sugli occhi. « Quante volte dovremo ricominciare questo discorso? Quante volte, prima che tu ti convinca che ti stai dando la zappa sui piedi da solo senza nemmeno accorgertene? » domandò retoricamente, le mani ancora a coprire gli occhi.

Watson sospirò pesantemente, massaggiandosi l’attaccatura del naso fra le sopracciglia.

Era una cosa completamente inutile. Inutile.

Aveva guardato quel maledetto posto per minuti interi, ore probabilmente, senza riuscire a capire altro se non che si trovava in un salotto. Poltrone, divano, un caminetto... sì, su quello non vi erano dubbi.

Ma non aveva comunque la più pallida idea di dove fosse. Sapeva solo che si sentiva bene, in pace, a casa, ma queste sensazioni non lo aiutavano, se mai lo confondevano ancora di più.

Gli facevano venire il dubbio che, se le aveva, magari lui doveva per forza sapere che tipo di posto fosse, quel salotto. Altrimenti non si sarebbero spiegate. Il che lo portava, a sua volta, ad una sola conclusione:

Se ne era dimenticato.

Passarono in silenzio alcuni attimi che sembrarono non finire più. Poi, prendendo un lungo respiro, fu la ragazza ad interrompere la stasi.

« Si può sapere perché vuoi morire? »

La domanda sorprese non poco il medico, che si tolse la mano da davanti agli occhi e la guardò.

« Io non voglio morire » le rispose, come se la cosa fosse ovvia.

« Non mi pare » ribatté però subito quella.

John sentì una nuova ondata di rabbia montargli in petto, ma resistette per il bene dei suoi nervi.

Dio, non credeva che il suo subconscio fosse un tale dito in culo.

« E perché? Perché non mi ricordo dove sono? » domandò retorico.

Si aspettava una reazione piccata, magari una frase intricata e cosparsa di ossimori, ma non avvenne. La ragazza si limitò semplicemente a guardarlo, fisso, le labbra chiuse e lo sguardo concentrato.

« Cosa c’è... ? » chiese allora Watson, facendosi avanti per primo.

« Sto cercando di capire » disse quella.

Si fissarono negli occhi per altri lunghi istanti, John con la testardaggine di chi non vuole abbassare lo sguardo per primo e Joy con una sorta di interesse scientifico misto a rassegnazione.

« Non c’è scelta » disse infatti poco dopo, puntellando le mani sui braccioli e sedendosi sullo schienale della poltrona, i piedi nudi ben fissi sul sedile della stessa: « devo metterti davanti alla realtà dei fatti. Avrei preferito non forzarti, ma tu sei talmente cocciuto che non mi dai altre possibilità! » si lamentò.

Ecco. Ora era totalmente ed incommensurabilmente irritato dal suo io interiore, che a quanto pareva provava una sorta di perverso piacere nel torturarlo mentalmente.

« Ora sono io che voglio sapere una cosa » la interruppe però John, impedendole di pronunciare la frase per la quale aveva appena aperto bocca: « per quale accidenti di motivo ti sta così tanto a cuore che io viva, mh? » domandò, serio.

Il sopracciglio di Joy si alzò come dotato di vita propria. « Ma dico, mi stai prendendo in giro? » domandò retorica, senza nemmeno dargli il tempo di rispondere (o di pensare di farlo): « John Hamish Watson, cosa del concetto “io sono te” non ti penetra in testa? Ok, forse come io irrazionale sono molto diverso dall’io razionale, ma fatto sta che “abitiamo” nello stesso corpo. Se crepi tu crepo anche io » disse, indicandosi con gli indici di entrambe le mani: « e, senza offesa, ma ci sono un paio di cose che desidero fare – o meglio, farti fare – prima di morire » concluse.

Il medico, stringendo le labbra per non dare voce ed epiteti poco adatti ad un inglese bene educato, non fece altro se non scuotere il capo negativamente.

Prese fiato per esprimere tutto il suo disappunto, ma una dolorosissima scossa al torace gli bloccò la voce in gola, lasciando che si esprimesse solo tramite un gemito sorpreso di dolore.

Istantaneamente, si portò la mano al petto, trattenendo il fiato. Sembrava come se gli fosse passato un fiotto di energia elettrica attraverso la gabbia toracica, localizzato, da parte a parte.

Poi un’altra, e un’altra ancora. Quattro, cinque volte.

Si fermarono.

Joy, dalla sua posizione sopraelevata, lo guardò con espressione preoccupata ma consapevole, senza fiatare.

John attese qualche istante senza respirare – aspettando forse che il dolore si ripetesse ancora una volta – ma poi decise di prendere finalmente fiato.

« Cos’era? » domandò allora, la mano destra a stringere la maglietta bianca all’altezza dello sterno. « Si può sentire dolore qui? » chiese subito dopo, guardandosi intorno per sottolineare che si riferiva al luogo in cui si trovavano.

Joy negò con il capo.

« Quello, John, era un rintocco d’orologio » disse: « il tuo tempo sta scadendo ».

 

 

 

Il fruscio dei suoi capelli ricci e scuri sul colletto umido della camici riempì il silenzio come uno squillo di tromba.

Sherlock Holmes aveva alzato lo sguardo sulla porta d’ingresso e, solamente dopo che quel movimento aveva

attirato l’attenzione dei presenti, anche tutti gli altri poterono sentire un rumore di passi in avvicinamento.

Scattò in piedi, seguito a ruota da tutti i presenti. Sei paia di sguardi si fissarono in una stessa direzione.

L’orologio di Lestrade scoccava le cinque del mattino ed il cielo all’esterno cominciava ad avere una sfumatura più chiara, preparandosi per accogliere prima l’aurora, poi l’alba.

Dopo qualche istante che sembrò infinito, un medico fece il suo ingresso nella sala d’attesa.

Niente camice, notò Sherlock: veniva dalla sala operatoria. Indossava uno dei coordinati ospedalieri verde, maniche corte, calzini bianchi e ciabatte di plastica. A giudicare dalle suole pulite delle calzature si era appena cambiato e, dati i segni degli elastici del camice sui polsi e i lievi residui di talco sotto le unghie – lasciati dai guanti di lattice – si poteva capire che non era un infermiere, ma un medico.

Carnagione olivastra, capelli rossicci, occhi marroni, naso un po’ rotondo, sguardo fermo, abituato. La mente vola ad una pagina di una rivista sfogliata una volta in cui compare il volto di quest’uomo come contorno ad un articolo sulla chirurgia cardio-vascolare. Medico famoso.

L’ha chiamato Mycroft.

Il cervello di Sherlock aveva già capito tutto persino prima che l’uomo si presentasse, o aprisse del tutto bocca. Fu infatti lo stesso Holmes ad impedirgli di farlo, tagliando subito i convenevoli e passando a ciò che più gli premeva: « come sta John? » domandò, velocemente, urgentemente.

Quello, osservandolo, richiuse la bocca. « Lei è un parente? » chiese.

Sherlock sbuffò. Procedure standard di condivisione delle informazioni solo con coniugi o parenti, salvo altra indicazione.

Lanciò un’occhiata al fratello maggiore che, per tutta risposta, negò leggermente con il capo. Contatto oculare per dirgli che no, non poteva farci niente, quello era segreto professionale dei medici. Lui era il Governo, ma anche se aveva l’autorità di farsi dire praticamente tutto non aveva ragioni o motivazioni abbastanza importanti per farlo in quel momento.

Il fratello minore dovette arrendersi e ammutolì, senza tuttavia distogliere lo sguardo. Al che il medico posò gli occhi sulle altre persone presenti, domandando: « la signorina Harriett Watson? ».

Harry, che non si era spostata da accanto alla finestra, gli fece un cenno con il capo. Non si avvicinò al medico, non abbandonò la sua posa ermetica con le braccia incrociate al petto e, in definitiva, fece persino fatica a staccare gli occhi dal panorama esterno alla finestra. Non gli diede tempo a sua volta di presentarsi, esibendosi in un: « lo dica pure ad alta voce, le persone qui presenti sono tutte fidate » dando il permesso al dottore di parlare alla presenza di tutti.

Quello annuì, sospirando pesantemente.

« Il dottor Watson aveva un’emorragia interna del cavo peritoneale, probabilmente dovuta al trauma » cominciò: « gli abbiamo praticato un taglio, abbiamo drenato il sangue e siamo riusciti ad individuare e richiudere la ferita che l’ha scatenata » disse.

La signora Hudson, le mani strette l’una nell’altra in una morsa, sospirò sollevata. Così fece Molly, che si lasciò andare in un lieve sorriso.

« Ma? » intervenne però Sherlock, che guardava il chirurgo con occhi attenti e famelici – non si sapeva se di informazioni o di sangue, considerando l’intensità di quello sguardo.

Il medico sbuffò, portandosi una mano sul collo dolorante, massaggiandoselo. « Ma... l’emorragia ha avuto due conseguenze: la prima è una lieve insufficienza renale, che ha bloccato il lavoro dei reni per qualche ora. La seconda, è una tachicardia continua causata dall’abbassamento della pressione arteriosa » disse.

 « In poche parole, il cuore del dottor Watson ha battuto troppo in fretta per troppo a lungo. E dato che i suoi reni avevano smesso di funzionare, il sangue che non ha perso si è riempito di tossine » spiegò poi.

La signora Hudson trattenne rumorosamente in fiato, così come Greg e Mycroft lo fecero silenziosamente. Harry sembrava non respirare già da molti minuti mentre Sherlock, esattamente di fronte al chirurgo, sgranò un poco gli occhi.

Il suo cervello volò alle possibili cure, ai rimedi, alle analisi e alle conseguenze mediche di ogni singola parola.

A ciò che sarebbe potuto andare bene, male, a come si sarebbe trasformata la vita di John – la loro vita – se una di quelle anomalie avesse avuto conseguenze permanenti sull’altro, invalidanti magari.

Il suo respiro aumentò, ma la voce del medico che riprendeva il discorso nascose agli altri quel piccolo particolare.

« Avremmo dovuto mettere il dottor Watson in dialisi, per ripulirgli il sangue, ma non potevamo prima di aver fermato l’emorragia. Una volta fatto i reni hanno ripreso la loro funzione e non sembra che siano stati danneggiati. Così è anche per il cuore: le analisi mostrano che, nonostante la tachicardia, il cuore non ha subito danni... tuttavia, durante l’intervento ha avuto un arresto cardiaco » rivelò.

E fu il cuore di Sherlock, questa volta, a perdersi un battito per strada. Lo avvertì dolorosamente, lo avvertì sentendosi anche mancare il respiro, lo avvertì vergognandosi di se stesso e di quella debolezza che stava mostrando di possedere.

Lo sapeva già da prima. Lo aveva scoperto poco prima che Moriarty glielo dicesse con quel sorrisetto mellifluo sulle labbra.

Un cuore lo aveva. E faceva male.

Avrebbe tanto voluto strapparselo dal petto seduta stante.

Il medico continuò: « lo abbiamo rianimato con il defibrillatore, ci sono voluti quasi due minuti. Non ci sono stati problemi, ma ha rischiato il tracollo cardiaco altre due volte nonostante abbia ricevuto trasfusioni di sangue, e per non rischiare lo abbiamo messo in coma farmacologico e abbiamo applicato, per la durata dell’intervento, un bypass. Gli è già stato tolto ed il cuore batte con una frequenza normale, ma per evitare eventuali stress abbiamo deciso di mantenerlo in coma farmacologico anche per tutta la durata della dialisi » prese una pausa, finalmente al termine della sua “relazione”, guardando i presenti uno ad uno: « adesso è in terapia intensiva. Potete andare a vederlo » terminò del tutto.(5)

Sherlock non aspettò nemmeno un istante. Il suo corpo si muoveva da solo in direzione del reparto di terapia intensiva, ovviamente consapevole di dove fosse, dato che si era studiato la pianta dell’ospedale mentre un tirocinante gli applicava i punti in testa.

Entrò a passo svelto nel reparto deserto, cercando con occhio vigile il nome di John sulle targhette accanto alle varie porte. Superò a passo deciso la parte con le stanze in comune, poiché essendo raccomandato da Mycroft Holmes quasi sicuramente gli avevano dato una stanza tutta sua.

Lo trovò, infatti, in una delle camere singole in fondo al corridoio. Il nome “Watson, John H.” era stato scritto con un pennarello a punta fine che aveva sbavato in ultimo. Probabilmente lo avevano fatto di fretta, quasi sicuramente lo aveva fatto una donna, e poteva scommettere che fosse stata l’infermiera che lo aveva guardato allarmata quando si era precipitato lì a piedi nudi.

Davanti a quella porta, però, ebbe improvvisamente paura.

Dall’altra parte, steso in un letto dalle lenzuola bianche, incosciente e collegato come minimo a due macchinari – che potevano essere anche di più – c’era John. Il suo John. Lo stesso John che di solito era sempre accanto a lui, in ogni momento, sveglio e vigile e sorridente e ammirante e vivo.

Resistette all’impulso di fare dietro front e mettersi a correre per uscire dall’ospedale.

Lo sapeva, Sherlock, che non era morto. Che non sarebbe morto. Ma non poteva fare a meno di figurarselo disteso su quel letto come se fosse stato disteso sul tavolo di un obitorio. Deformazione professionale, forse. Probabilmente.

A due centimetri dalla maniglia della porta, ritirò le dita e chiuse la mano a pugno, incapace di aprirla. Si morse il labbro dalla frustrazione per quella sua mancanza terrificante, per quel buco delle sue infallibili facoltà intellettive che prendeva il nome di “cuore”.

« Maledizione... » sussurrò a se stesso, facendo qualche passo indietro ed appoggiandosi con la schiena alla parete di dirimpetto alla dannata porta chiusa e rimasta tale.

Gli altri lo raggiunsero, ed entrarono uno ad uno. Sherlock li guardò in faccia, uno ad uno, ma non seguì all’interno nessuno di loro.

Rimase fuori, nel corridoio, a fissare la maniglia di una porta che all’improvviso aveva una fottuta paura d’aprire.

 

 

 

In una stanza completamente bianca, le uniche cose che stonavano – le uniche macchie di colore – erano principalmente tre. John le aveva osservate e fissate per almeno un’ora senza nemmeno aprire bocca per poi sospirare rassegnato.

C’erano uno smile giallo sulla parete, un violino ed un teschio.

Sapeva alcune cose di quegli oggetti, alcuni aneddoti. Uno nascondeva qualcosa, uno era incompleto e l’altro non aveva senso.

In realtà, sapeva veramente molto poco. Mettendosi le mani nei corti capelli biondo cenere, lasciò andare un pesante sospiro affranto.

« Potresti mettere al corrente anche me dei tuoi ragionamenti? » domandò la ragazza – altro sé, alter ego, Es – dalla poltrona sulla quale si era accomodata – e che a John dava sempre più fastidio, che fosse seduta proprio lì, ma anche quella era una delle cose che non sapeva spiegarsi.

Senza alzare lo sguardo, si massaggiò la fronte con la mano sinistra. « Sto pensando che siamo fottuti, dato che non riesco a cavare un ragno dal buco » le disse.

Quella, seduta con le gambe ancorate allo schienale e la testa a penzoloni verso il basso, fece una faccia a metà fra il dubbio ed un assenso. « Possibile. Forse anche un po’ probabile » disse: « spero non diventi sicuro, però. Sarebbe davvero pietoso » aggiunse.

John, tornando ad accomodarsi meglio sulla propria poltrona, la guardò stranito. Allo sguardo di richiesta che la ragazza gli inviò da quella sua posizione sottosopra, si decise a parlare.

« Lo smile giallo sulla parete... » cominciò Watson.

« Ti ascolto » lo incoraggiò Joy.

« So che è disegnato con un tipo particolare di vernice, usata dalla mafia cinese per contrabbando di merci importate illegalmente e poi rivendute all’asta a cifre astronomiche. E dovrebbe essere crivellato di colpi di proiettile, lo so, anche se non so il perché. So che il teschio sul caminetto... » ed indicò il cranio in bella mostra: « ...nasconde un pacchetto di sigarette. E quel violino... » John fece una pausa, indicando con la mano aperta lo strumento in questione: « ...non ho la minima idea di cosa ci faccia qui e a cosa mi serva, dato che non so suonarlo. So solo che mi piace sentirlo suonare, ma non essendo io un amante di musica classica mi sfugge seriamente il perché » concluse, ancora più seccato di quando aveva cominciato.

Joy, che stava sottosopra senza risentirne minimamente, lo guardò ridacchiando. « Fuochino » lo sfotté.

Il dottore cominciava seriamente a provare l’istinto, alquanto criminale, di sgozzare il suo subconscio.

Intuendo il suo pensiero, la ragazza si rialzò con agilità e si rimise seduta composta, le gambe accavallate e lo sguardo improvvisamente serio.

Aveva gli stessi occhi dei suoi ufficiali comandanti in Afghanistan ogni volta che gli comunicavano una missione, che la maggior parte delle volte dava l’idea di essere più un martirio che altro. Oppure lo stesso sguardo che aveva avuto Harry quando gli aveva comunicato, attraverso una video-chat, che aveva intenzione di lasciare Clara nonostante si fossero appena sposate.

Come conseguenza di quegli occhi fissi sui suoi, John si fece serio a sua volta.

Poi, le parole che uscirono dalla bocca di Joy ebbero il potere di far esplodere qualcosa dentro di sé.

« Chi è Sherlock Holmes? » domandò lei, fissandolo.

John boccheggiò, improvvisamente incapace di spiaccicare parola. L’eco di quel nome aveva fatto sì che il proprio cuore si contraesse dolorosamente e battesse più rumorosamente; ne sentiva il battito nelle orecchie e nella gola, un tamburo veloce ed assordante.

« Io... Io non... » balbettò, ma fu interrotto.

« Sì che lo sai » disse lei, piccata. « Non sei stato tu a sparare a quel muro. Hai nascosto tu le sigarette sotto quel teschio ma non per te, tu non fumi. Non sei tu che suoni il violino, non sei capace, ma hai ragione nel dire che ti piace ascoltarlo. Anzi, ti piace vederlo suonare il che è una cosa essenzialmente diversa » aggiunse, sporgendosi verso l’altro con fare quasi serpentino, viscido. « John... chi è Sherlock Holmes? » gli ripeté la domanda.

La testa di John Watson era un completo disastro. Sembrava che gli fosse esplosa una bomba a qualche centimetro dall’orecchio o che lo avessero preso a pugni dopo essersi scolato una bottiglia di Jack Daniels.

Si portò le mani alle orecchie, improvvisamente preda di un fortissimo fischio continuo che sembrava volergli bucare il timpano e risalire fino al cervello al momento sotto sforzo. Trattenne il fiato nell’inconscio tentativo di far sparire tutti quei fastidi, ma inutilmente, anzi; sembravano peggiorare, trasformarsi. Da fischio... in voci, immagini, eco lontane di ricordi cancellati per chissà quale motivo.

« Cosa mi sta succedendo?! » sbottò allora Watson, tenendosi forte la testa e piegandosi su se stesso.

« È la transizione » gli disse Joy.

« Vuoi dire che sto morendo?! NO! » urlò il dottore, ancora piegato in due da quella confusione che aveva in testa.

La ragazza negò con la testa. « Tutto l’opposto. Te lo avevo detto che sarebbe stato meglio se avessi fatto da solo, se ti fossi impegnato a ricordarti le tue ragioni di vita con calma, ma tu non mi hai dato scelta. Come sempre sono costretta a forzarti i ricordi nella mente. Sei un idiota, John Watson! » esclamò quella, tuttavia il suo tono si mantenne pacato.

John gemette alla comparsa di un dolore sordo alla tempia destra, e subito serrò gli occhi con forza, imprecando a mezza voce.

Nella sua testa, immagini di un treno della metropolitana. Urla, lacrime. Poi una strada, il Tamigi, un ufficio di New Scotland Yard, la sua insegna rotante davanti all’entrata. Simboli gialli su un muro di fianco a dei binari, una pistola puntata alla testa, una brughiera infinita, gli occhi rossi di un mastino ringhiante, una voce che diceva di non avere amici (plurale), ma uno solo (singolare). E ancora un frustino da fantino, una donna completamente nuda, una cassaforte, Buckingham Palace, un ombrello nero, una jeep, lucine di Natale, un I-phone dalla cover rosa, un paio di scarpe, bombe, una piscina, una voce: “è un Westwood”. E momenti, tanti, passati in un appartamento così simile a quello solo con più colori. Notti passate sul divano, davanti al pc, a mettere bende su di una pelle diafana ferita, a curare ferite su se stesso; il salotto pieno di fogli sparsi a terra, la cucina ricolma di alambicchi, 38 ore di veglia ininterrotta, una partita indicibile a Cluedo, bollette da pagare e una testa nel frigorifero.

« Continua così, John. Stai andando bene. Fra poco finirà tutto » disse Joy.

Una figura slanciata, dita affusolate, pelle candida. Vestito elegante nero, camicia viola o bianca o azzurrina a righe, tutte buone, tutte costose. Un cappotto lungo, una sciarpa blu. Capelli scuri in morbidi riccioli, zigomi ridicolmente alti, occhi azzurro ghiaccio dalle incredibili sfumature verdi sotto la luce forte del sole.

Una voce profonda.

“Io sono Sherlock Holmes e l’indirizzo è il 221B di Baker Street.”

Il dolore cessò così com’era venuto, riportando alla normalità sia il battito del cuore che la respirazione.

John alzò il viso dalle proprie mani con gli occhi sbarrati e le labbra socchiuse in un moto d’incredulità. Si guardò attorno, posando gli occhi su di ogni superficie candida che lo circondava, riuscendo ad immaginarsela del proprio colore originario. Riuscendo a ricordarsela.

Come aveva potuto dimenticarsi di lui? Come aveva potuto dimenticarsi della persona che lo aveva letteralmente travolto con la sua presenza, restituendogli la vita che era convinto di aver perso? Come aveva potuto dimenticarsi le avventure, i casi da risolvere, la piscina, James Moriarty, le deduzioni e tutti i momenti che avevano passato insieme, giorno dopo giorno, anche solo parlando del più e del meno o facendo colazione insieme alla signora Hudson?

Ancora smarrito, perso in una calma irreale dopo una tempesta, puntò gli occhi su quelli scuri di Joy, ancora protesa verso di lui ma immobile sulla poltrona.

La poltrona di Sherlock. Era per questo che gli dava fastidio, vederla seduta lì.

« È normale, qui... » disse lei: « ...dimenticarsi dei motivi per cui vogliamo restare in vita, che ci spingono a sopravvivere. È normale quando si arriva in questo limbo. Vieni messo alla prova. Avresti dovuto ricordartene da solo, ma io non potevo lasciare che tu ti arrendessi e morissi, perché sapevo che per te sarebbe stato difficile richiamare quei ricordi, nonostante la loro intensità. Perché tu hai scoperto, e questo lo sappiamo benissimo entrambi, che ciò che provi per Sherlock Holmes va oltre un’amicizia normale. Non sai cos’è, non sai definirlo, oppure lo sai ma non lo vuoi ammettere, hai paura di pronunciare quel verbo associato alla figura del caro sociopatico ad alta funzionalità. Il vostro rapporto si sta trasformando e, purtroppo, te ne sei reso conto quando la tua vita è arrivata per la seconda volta al punto di non ritorno: te ne sei accorto sul vagone di quella metropolitana » gli disse, pacata.

John, chiudendo gli occhi, assorbì quelle parole come se fossero acqua nel deserto.

Sospirò poi, ritrovando la calma.

« Allora, John... » riprese Joy, alzandosi dalla poltrona e posizionandosi di fronte a lui: « ...dove sei? » gli chiese.

Questa volta, Watson non ebbe dubbi: « 221B di Baker Street. Casa mia. Casa nostra, mia e di Sherlock ».

Lei annuì. « E chi è Sherlock Holmes? » domandò di nuovo.

« La ragione per cui devo tornare » rispose lui, alzando lo sguardo.

Lei, ancora ammantata in quel suo completo bianco elegante, gli sorrise. « Andiamo » aggiunse, allungando la mano verso di lui.

 

 

 

Erano passati alcuni minuti, forse dieci, quando la porta della camera di John si aprì, facendone uscire Harry Watson.

Sembrava provata, anche se sugli occhi aveva la maschera della donna forte ed impassibile. Sherlock poteva notarlo da un piccolo accenno di sudore freddo e dal pallore innaturale della pelle del viso rispetto a quella del collo.

Non lo guardò. Nemmeno un’occhiata. Semplicemente fece due passi per spostarsi e, appoggiandosi con la schiena al muro, si lasciò scivolare lentamente a terra.

Il silenzio calò nel corridoio e fra i due. Erano quasi l’una di fronte all’altro, Sherlock ancora in piedi nella sua indecisione, Harry abbandonata sul pavimento con una mano a massaggiarsi la fronte e gli occhi chiusi.

Fu la donna a rompere il silenzio.

« Perché non entri? » domandò, continuando a non guardarlo.

Sherlock le riservò uno sguardo lungo dieci secondi. Poi, sospirando, decise che parlare in modo sincero con la sorella maggiore dell’uomo oltre la porta poteva avere una sua logica. Contorta, ma poteva averla.

Dopotutto, c’era tanto di Harry che gli ricordava John. Forse non il colore dei capelli o degli occhi, ma il naso aveva la stessa forma, e il taglio delle labbra era molto simile.

E sotto sotto, molto in fondo, nascosta dai vari strati di durezza con cui Harriett aveva deciso di proteggersi per sopravvivere al resto del mondo, c’era anche la stessa, incredibile forza di volontà.

I fratelli Watson erano, nonostante le imperfezioni e gli errori di entrambi, parte di uno stesso disegno genetico che li portava ad ubbidire prima al cuore, poi alla logica. E Sherlock aveva provato sulla pelle l’esperienza di stare accanto ad un uomo simile.

La verità era qualcosa che doveva loro.

« Penso di non volerlo vedere » rivelò, breve e conciso.

Harry non si arrabbiò e non ne rimase per nulla colpita, o comunque turbata in qualche modo. Continuava semplicemente a massaggiarsi la testa, ora con entrambe le mani, tenendo gli occhi chiusi e sospirando ogni tanto.

« Perché? » soffiò infine, quando ormai sembrava che non avesse più intenzione di aprire bocca.

Holmes, che si aspettava la domanda ma non era comunque abbastanza preparato a riceverla, socchiuse gli occhi.

« Non credo di saperlo... » si ritrovò a dire, a sussurrare, in direzione della donna.

Aveva sempre creduto che affidandosi alla logica e alla ragione sarebbe riuscito a superare qualsiasi difficoltà. La vita era come un libro di algebra: man mano che vai avanti i problemi da risolvere diventano più difficili, ma se si hanno le basi logiche e conoscitive adeguate tutte le difficoltà finiscono per diventare semplici rompicapi da risolvere.

Sono solo numeri.

Lui aveva sempre amato l’algebra. Lo metteva alla prova come nessun’altra materia riusciva a fare. Enigmi sempre più difficili, nodi sempre più intrigati, giochi di logica e di abilità che erano in grado di assorbirlo completamente. Non erano i numeri che sfidavano lui, ma lui che sfidava i numeri.

Ogni cosa della sua vita era sempre stata sotto controllo, intuibile, intelligibile.

Dopotutto, se sai perfettamente quali possono essere le possibili conseguenze di una tua azione, quando esse si manifestano non possono di certo coglierti alla sprovvista.

Erano sempre stati solo numeri.

Il dispiacere di sua madre quando lasciò l’università? Prevedibile. Una costante aritmetica che si era ripetuta lungo il corso di tutta la sua vita, si stava ripetendo in quel momento e si sarebbe ripetuta anche dopo. Come il valore del greco: quello era, quello sarebbe rimasto.

La droga? Un calcolo fin troppo banale. Una volta letta su di un manuale la soglia massima raggiungibile per non incorrere nei fastidiosi contraccolpi dell’assunzione di sostanze psicotrope – abbastanza da sparargli il cervello al massimo dei giri senza distruggerlo o stare troppo male – controllarne l’assunzione fu un gioco da ragazzi.

I casi da risolvere? Indovinelli che avevano sempre una causa ed una conseguenza, esperimenti scientifici capaci di evitare al suo cervello la metastasi. C’è sempre una vittima, a volte anche un colpevole, a volte la vittima ed il colpevole sono la stessa persona. Ci sono indizi, ci sono cose da vedere, ci sono intrecci logici da dedurre.

Pura matematica. Solo numeri.

Poi, John.

John era stato un giochino di matematica solo per i primi cinque minuti. Solo il tempo necessario per capire chi fosse, da dove venisse, cos’avesse fatto. Cinque minuti che, di fronte ad un anno e mezzo di completa allegoria dell’impossibile, impallidivano miseramente.

John non si era rivelato un enigma irrisolvibile. Ogni volta che Sherlock arrivava ad una soluzione – o comunque pensava di averlo fatto – John faceva qualcosa per cui quella cifra si rivelava errata o incompleta.

John era un mistero che Holmes non aveva mai risolto e, con il tempo, semplicemente si era dimenticato di risolvere, convenendo faticosamente con se stesso che Watson era interessante proprio perché senza soluzione, e forse non ne prevedeva nemmeno una.

Per questo motivo tutto ciò che lo riguardava non faceva parte di una costante, non era prevedibile. Forse era per questo che Sherlock non riusciva ad accettare tutte le variabili in gioco, preferendo chiudere la mente.

Perché sapeva che John avrebbe potuto sopravvivere, e allora la sua vita sarebbe lentamente ritornata alla normalità, ma poteva anche morire... ed in quel caso il suo sguardo si perdeva in un universo infinito di possibili scelte che però perdevano di colore, di calore, di lucentezza.

Un universo probabile e non impossibile davanti al quale, però, Sherlock Holmes preferiva chiudere gli occhi.

Lo fece anche in quel momento, davanti alla porta chiusa di quella camera d’ospedale: chiuse gli occhi.

La voce di Harriett ruppe di nuovo un silenzio che non sapeva per quanto poteva essersi prolungato.

« Io credo che tu dovresti entrare » gli disse a bruciapelo.

Sherlock riaprì gli occhi di scatto. « No » si impuntò.

« Perché? » domandò ancora lei.

« Perché non tu? » rispose allora il detective, attaccandola.

La donna, osservandolo di sottecchi, sorrise amaramente. « Sai, io e John abbiamo stipulato una sorta di patto di non aggressione. A dire il vero non so nemmeno quando, perché non è stato detto a parole... ma il succo è uno sterile “vivi e lascia vivere” » gli disse, piegando entrambe le ginocchia ed appoggiandosi sopra le braccia.

« Noi ci facciamo favori non facendoci dei favori. Io bevo e lui non dice niente, e io non lo biasimo, anzi. Lui se ne va in Afghanistan ed io non dico niente, e so che lui non mi ha biasimato, anzi. Io mi sposo e divorzio subito dopo e lui trattiene dentro di sé la delusione e non dice niente e Dio, Dio, solo Dio sa quanto l’ho ringraziato per averlo fatto, quando praticamente tutti gli altri non sono stati in grado di fare la stessa cosa. E poi... » una piccola pausa, finalmente gli occhi della donna che si posano su Sherlock: « ...poi lui va ad abitare con un pazzo che non fa altro che fargli rischiare la vita ma io non dico niente, e so che me ne è grato, che io non dica niente. Fra di noi funziona così » spiega, gli occhi che vanno al soffitto a malapena illuminato dalla fioca luce dell’aurora ancora lontana.

Un sospiro. « Sono sua sorella maggiore, è logico che io mi preoccupi per lui più di quanto lui si preoccupi per me. È scritto nel nostro DNA... ».

Il cervello di Holmes creò per un istante l’immagine fastidiosa di Mycroft, salvo poi archiviarla subito dopo.

« Però essere in quella stanza non cambierà niente, non per me. Perché non è me che vuole al suo fianco, e non sono nemmeno tutte quelle persone là dentro. Lui vuole l’unico che è riuscito a farlo sorridere di nuovo in un periodo della sua vita in cui niente sembrava andare per il verso giusto. È per questo che devi alzare il culo ed attraversare quella porta, Sherlock Holmes » gli disse, tornando a fissarlo con decisione.

Al detective, tutto sommato, non serviva altro che una spinta. Qualcuno che gli dicesse che stava facendo la cosa sbagliata, aspettando lì fuori. Qualcuno che ammettesse ad alta voce che lui era parte della vita di John così come John era ormai parte imprescindibile della sua.

Osservò Harriett ancora per qualche prezioso istante poi, guardandosi mani, si diede – per la prima volta in completa autonomia – dell’idiota.

Anche John trovava sempre il modo di dirgli che era un idiota. E ci riusciva solo John. Era prerogativa sua, riuscire a dare dell’idiota ad uno come Sherlock Holmes.

Annuì in silenzio, staccandosi dalla parete e coprendo in due passi la distanza che lo separava dalla porta. Appoggiò la mano destra sulla maniglia e, facendo forza, finalmente entrò nella stanza.

Le pareti erano di due colori, e questa fu la prima cosa che notò. La metà superiore ed il soffitto erano bianchi, la metà inferiore di un verde pastello che doveva forse sembrare rilassante, ma che gli dava solo la classica sensazione d’ospedale. Era una camera ampia, pulita, con una finestra coronata di tendine bianche.

Al centro della stanza c’era il letto su cui giaceva John, circondato di persone silenziose o che singhiozzavano compostamente.

Mycroft e Lestrade erano in disparte, un po’ distanti dal letto. Quando entrò suo fratello gli fece un cenno con il capo, mentre Greg distolse semplicemente lo sguardo, tornando a fissare il letto con espressione vuota.

Al capezzale di John, mrs. Hudson si asciugava gli occhi con il fazzolettino bianco ricamato e, alle sua spalle, Molly lasciava che calde e mute lacrime le cadessero dagli occhi, rigandole le guance. Tratteneva il respiro a tratti, osservò Sherlock, che non aveva ancora trovato il coraggio necessario a posare lo sguardo sul suo migliore amico.

Lo fece in quel momento.

Si fermò ai piedi del letto, immobile, le mani abbandonate lungo i fianchi ed in viso un’espressione sospesa, a metà fra la voglia repressa di urlare e quella di chiudere gli occhi e fingere che fosse tutto un brutto sogno.

John era disteso supino sul letto; le lenzuola bianche gli arrivavano al torace e gli coprivano il petto lasciando però fuori le spalle nude, sulla sinistra delle quali era chiaramente visibile la cicatrice lasciata dal proiettile che lo aveva colpito di Afghanistan.

Distese lungo i fianchi stavano le sue braccia, nude anch’esse: al braccio destro erano collegate le due estremità del macchinario per la dialisi – il suo sangue che correva all’interno dei tubi trasparenti al momento tinti di rosso – mentre nel braccio sinistro penetrava l’ago di una flebo di barbiturici, ovvero ciò che manteneva John in coma farmacologico.

Sul volto campeggiava una mascherina d’ossigeno che gli prendeva bocca e naso e le labbra, dischiuse sotto di essa, erano testimoni di un respiro debole e stentato, ma presente.

Sherlock non sapeva cosa fare. Ancora combatteva l’irrazionale sensazione di girarsi ed andarsene, mettersi a correre per tornare a casa e buttarsi sul divano lasciando fuori il resto del mondo con quella situazione al limite del surreale; dall’altra percepiva il suo corpo come paralizzato e, di conseguenza, era incapace di muoversi. Teneva gli occhi azzurri fissi su John ma, nonostante fosse così vicino, gli sembrava lontano, distante anni luce da quella stanza, in un posto tutto suo in cui Sherlock non riusciva ad entrare per costringerlo ad aprire gli occhi, a dimostrargli che fosse ancora vivo e non solo uno spauracchio messo lì per ritardare un’eventualmente certa dipartita.

Voleva sfiorarlo, toccargli un piede, ma  di tutto il movimento necessario per farlo riuscì a muovere solamente un dito.

Un dito e nient’altro.

Fu Molly, fra tutti, quella che capì ogni cosa.

Chissà perché le bastava guardare Sherlock in faccia per intuire cosa provasse, e nonostante fosse ormai sopraffatta dalla tristezza per le condizioni di John, fu l’unica in grado di curarsi anche di Sherlock, che soffriva in un modo tutto suo chiuso in una mente per molti impenetrabile.

Tranne che per John. E, a volte, raramente e più che altro casualmente, anche per Molly Hooper.

In silenzio si mosse verso il detective, facendo il giro del letto e arrivandogli al fianco. Allungò la mano verso la sua, prendendo le dita sottili ed affusolate di Sherlock fra le sue calde, e con delicatezza fece qualche passo indietro, tirandolo a sé in direzione di John.

Holmes, guardandola senza un particolare cambiamento d’espressione, seguì il movimento.

Si ritrovò, guidato da Molly, esattamente accanto a John. Mrs. Hudson gli posò una mano sulla spalla, lasciandoci piccole pacche, poi a sua volta si fece indietro.

Sherlock osservò il volto di John in silenzio, le labbra schiuse ed il respiro quasi inudibile. Lo guardava dormire un sonno innaturale che lo proteggeva dal dolore e, pensandoci, non poteva fare a meno di dirsi che sarebbe stato meglio vederlo soffrire, piuttosto che guardarlo giacere immobile come se fosse morto.

Solo il continuo ronzare dell’ossigeno e i battiti regolari dell’elettrocardiogramma dicevano a gran voce il contrario.

Dischiuse le labbra per dire qualcosa, ma nulla gli uscì. La sua voce faticava a formarsi nella bocca e, comunque, non avrebbe saputo davvero cosa dire.

Rimase così, immobile nel silenzio teso dei presenti, senza mai staccare lo sguardo dagli occhi chiusi dell’unica persona al mondo che era riuscita a guadagnarsi un posto nella sua vita.

Lentamente, appoggiò la mano sinistra su quella inerte di John, sfiorandone il palmo con i polpastrelli delle dita.

 

 

 

Le aveva preso la mano, alzandosi dalla poltrona e seguendola.

Joy aveva attraversato la soglia dell’appartamento, guidandolo giù dai diciassette scalini, arrivando in un numero ben preciso di passi alla porta che dava su Baker Street.

Sempre mano nella mano.

John avrebbe potuto pensare che fosse strano, tenere e farsi tenere la mano da una persona morta, o ancora peggio dal proprio subconscio. Tuttavia si era anche detto che pensare come le persone razionali in quel mondo non aveva molto senso, così aveva semplicemente seguito la ragazza, fiducioso che lei sapesse cosa fare.

Davanti alla porta, lei si girò e gli sorrise incoraggiante. Lui sorrise a sua volta, annuendo, come per dirle silenziosamente di essere pronto ad andare ovunque l’avesse portato.

Quella, annuendo a sua volta, appoggiò la mano destra sulla maniglia e la spinse, aprendo l’anta bianca su di uno scenario ancora più candido... che però non era Baker Street.

Attraversando la soglia, John si trovò davanti a quello che aveva tutta l’aria di un atrio. Non era eccessivamente ampio, ma era lungo, e non appena cominciarono a camminare per attraversarlo, poté notare sulla loro sinistra le tipiche postazioni dei bigliettai della metropolitana.

Alzò gli occhi e, attaccata ad una porta di vetro bianca come tutto ciò che li circondava, la scritta “Waterloo Underground Station” troneggiava sull’unica nota di colore presente: un lungo e sottile cartello blu.

« Questa è... » fece fatica a trovare le parole giuste per cominciare il discorso, rompere il silenzio: « ...la stazione della metropolitana di Waterloo? » domandò allora, sicuro di ciò che stava dicendo ma smanioso di sentirselo dire da Joy.

Quella, continuando a guidarlo per mano fino alle scale in discesa nel ventre della terra, annuì distrattamente.

Non c’era niente intorno a loro, né persone né suoni. Il silenzio, che faceva da padrone incontrastato, veniva spezzato solamente dai loro respiri e dai loro passi nudi sui gradini.

Watson sentiva la mano calda di Joy stringere la sua in una morsa gentile, e chissà perché non tentò nemmeno di liberare la presa nonostante la strada da percorrere fosse ormai abbastanza ovvia. La presenza della ragazza al suo fianco, la mano stretta nella sua, dal momento in cui si era ricordato tutto aveva smesso di essere strana ed inquietante ed era divenuta quantomeno rassicurante.

Joy lo fece scendere fino alla fine, addentrandosi nei corridoi sotterranei a passo sicuro. Di nuovo, solo i loro piedi nudi sulle piastrelle del pavimento emettevano l’unico rumore udibile.

A colpo sicuro, Joy lo guidò sulla banchina per i treni in direzione Paddington. Arrivata ai binari, con le dita dei piedi a sfiorare la linea gialla a terra – l’unica cosa colorata, anche in quel caso – si fermò. Entrambi lo fecero.

« Cosa stiamo facendo? » chiese John, la voce ridotta ad un sussurro per non rischiare di rompere troppo violentemente il silenzio quasi totale.

« Aspettiamo » rispose lei.

Fin qui c’era arrivato. « Cosa? » chiese dunque John, accigliato.

« Il treno, naturalmente » gli rispose quella, gli occhi incollati di fronte a sé.

John, per un attimo, la guardò come si guarda un pazzo. Poi rammentò che era il suo Es, quello, e diede del pazzo a se stesso per diretta conseguenza. « Naturalmente... » ripeté in un soffio, fissando uno sguardo vacuo e decisamente interdetto sui binari sotto di loro.

Non ce la fece a stare in silenzio.

« Sì... ma perché Waterloo? » chiese di nuovo, tornando a guardarla.

Lei non fece una piega ma si dipinse un lieve sorriso sulle labbra che, da quando si era ricordato tutto, era ormai onnipresente. Si voltò semplicemente di qualche grado in sua direzione.

« Devi riprendere il viaggio da dove lo hai lasciato » gli disse solo, tornando con lo sguardo davanti a sé.

Guardava tutto e non guardava niente, in realtà, e John lo aveva intuito. Strinse la sua mano nella propria, ricevendo in cambio una stretta simile.

Contrariamente alle sue aspettative, fu Joy a riprendere parola.

« Io non verrò con te, John » gli disse, la voce limpida e tranquilla, come se parlassero del tempo.

« No, cos...? » balbettò John: « perché? » chiese poi, guardandola con negli occhi una lieve punta di panico.

Quella sospirò, aspettandosi la reazione. « Perché io ho fatto ciò che dovevo fare. Ti sto mostrando la strada di casa, ma quest’ultimo pezzo è qualcosa che devi affrontare da solo, senza aiuti » gli spiegò.

John si sforzò di ritrovare la calma ed annuì. « In cosa consiste? » domandò poi, cominciando a rendere tangibile nella propria mente l’idea che da lì in poi se la sarebbe cavata da solo.

« Il treno che prenderai non sarà vuoto » cominciò a spiegargli: « è tanta, la gente che si perde qui. Persone che smarriscono la strada, che non sanno dove andare, cosa fare. Tutti trovano l’aiuto che serve loro, alcuni riescono a tornare a casa. Altri... beh, altri si perdono di nuovo. Rimangono intrappolati in questo mondo senza possibilità di uscirne » spiegò, tornando poi a guardare John negli occhi: « come avrai notato, le persone tendono a dimenticare le ragioni per cui vale la pena tornare a vivere. Più passa il tempo, più la memoria svanisce. Molto presto finiscono per dimenticare anche la loro identità e allora stanno semplicemente ferme, immobili, a fissare oggetti e paesaggi che fanno parte di loro ma che non riconoscono » una pausa, il sorriso che svanisce pian piano: in lontananza, il rumore sulle rotaie di un convoglio in arrivo.

« Sul treno su cui salirai ora ci saranno molte anime perdute, John. Alcune molto vecchie. Probabilmente non tenteranno di parlarti, ma tu non devi distrarti: ascolta sempre le fermate e, quando arrivi alla tua, scendi senza guardarti indietro. La maggior parte di queste persone non può più essere aiutata... » sussurrò infine, lasciandogli la mano.

Nel momento in cui lo fece, un treno bianco della metropolitana arrivò e rallentò piano, lasciando che una delle porte si fermasse proprio di fronte a lui. Quando quella si aprì, e John si voltò per vedere Joy un’ultima volta, quella era già sparita.

Deglutì, facendo un passo avanti ed entrando. Le porte si richiusero subito dietro di lui.

Il convoglio riprese la sua corsa, esattamente come avrebbe fatto un treno della metropolitana nella realtà.

Come aveva detto la ragazza, il vagone non era vuoto. Una serie di persone tra le più disparate, vestite tutte di bianco e tutte a piedi scalzi, erano sedute sui sedili; alcune guardavano a terra, altre fuori dal vetro, altre ancora la mappa delle fermate presente sopra ogni porta automatica.

Mentre il treno prendeva velocità, John andò a sedersi nel primo posto disponibile, ovvero fra una signora di mezz’età fasciata in quella che sembrava una camicia da notte ed un signore compito con indosso un abito d’inizio novecento ed una tuba.

Non rivolse loro la parola e, così come gli aveva detto Joy, nemmeno loro lo fecero con lui.

In pochi minuti, la voce metallica dello all’altoparlante annunciò la fermata successiva.

“Prossima fermata: Enbankment. Siamo in arrivo a Enbankment.”

Enbankment. A sentire il nome della stazione successiva, John drizzò la schiena e guardò automaticamente fuori dai finestrini.

Avevano superato il punto dello scontro, a quanto sembrava. Lui non aveva notato niente nei tunnel bui nei quali sfrecciavano a bordo di quel treno candido; non aveva sentito rallentamenti, sobbalzi o qualsiasi altra cosa che avesse anche potuto far pensare a qualche detrito, i binari sconnessi, o anche solo un segno che gli avesse suggerito qualcosa come “questo è il punto in cui sei quasi morto, ma fatti coraggio, stai andando avanti, stai proseguendo, stai ancora respirando”.

Vedeva la stazione di Enbankment fuori dal vetro e, così come il treno si era fermato, ora ripartiva con la stessa calma di una routine disarmante.

« Lei è una delle persone dell’incidente ferroviario? ».

La domanda giunse inaspettata per John, che trasalì. Nella mente gli passò per un secondo il consiglio di Joy – “non ti distrarre, ascolta le fermate” – ma quella frase era stata pronunciata con una voce ed un tono così gentili, che il suo animo inglese protestò quando la prima intenzione fu quella di non rispondere affatto.

Si voltò alla sua sinistra, dove l’uomo vestito in abiti d’inizio ventesimo secolo lo stava guardando in attesa di una risposta. Era palese che fosse stato lui a prendere parola, e l’attenzione di John rimase per un attimo catturata dai suoi baffi voluminosi.

« S-Sì... » confermò, accompagnando la voce con il capo.

Quello annuì a sua volta, tornando a fissare un punto qualsiasi del buio oltre al finestrino. « Non è il primo che passa da queste parti, ultimamente. Dev’essere stato proprio un brutto incidente. Fra Waterloo ed Enbankment, dico bene? Siete saliti tutti in quel punto » disse, pacato.

John lo osservò per un istante, decidendosi poi a seguire l’istinto e a parlargli. Sarebbe comunque stato attento alle fermate, dato che venivano dette all’altoparlante, ma poteva benissimo passare quei minuti che lo separavano dalla sua fermata chiacchierando con una di quelle persone “sperdute”. Soprattutto perché, al contrario delle altre, l’uomo al suo fianco sembrava essere pienamente cosciente di dove fosse.

« Immagino di sì » disse dunque, appoggiandosi meglio con la schiena al sedile: « ma non lo so con certezza... ».

« È logico supporlo » aggiunse l’uomo, sembrando lieto di poter fare conversazione con qualcuno: « se si trova qui, molto probabilmente non è ancora riuscito a sapere quali siano effettivamente le dimensioni del disastro. Ma le posso assicurare che siete transitati in parecchi, dunque può tranquillamente aspettarsi qualcosa di grave. A proposito, dove scende lei? » gli domandò, tornando a guardarlo.

“Prossima fermata: Charing Cross. Siamo in arrivo a Charing Cross.”

Watson trattenne sorpreso le parole, ancora scombussolato. « Baker Street » disse poi, portando automaticamente gli occhi alla mappa. Cosa che fece anche l’altro.

« Oh, capisco. Cinque fermate quindi » considerò abbastanza frivolmente: « lei è il primo che si ferma così vicino; mi è capitato di parlare con una signorina un po’ spaventata che doveva scendere a Willesden Junction, mentre un anziano, pensi, doveva percorrere l’intera linea fino a Harrow & Wealdstone » gli spiegò.

John era sempre più perplesso, e nel suo tentare di non darlo a vedere ne era il ritratto perfetto. Probabilmente l’uomo lo notò, perché si limitò a sorridergli con occhi gentili, accavallando una gamba sull’altra con fare elegante.

« Deve sapere, caro signore, che più tempo si passa qui e più è probabile che ci si dimentichi dove si deve andare. Non è la prima persona che vedo fallire, e io sono uno di quelli rimasti qui troppo a lungo, purtroppo » gli disse, usando una pacatezza ed una leggerezza espressiva che lo lasciarono basito.

« Cosa le è successo? Sempre se non le dispiace che glielo chieda... » gli domandò Watson, ormai incuriosito dal modo di parlare e di vestire dell’uomo, entrambi palesemente vecchio stile.

Quello, sorridendogli di nuovo, negò con il capo e si dimostrò disponibile ai convenevoli della chiacchierata.

« Oh, amico mio, sono stato assassinato! » rivelò, John trasalì. « O meglio, suppongo che l’intento di mio cognato fosse quello, quando mi ha spinto davanti ad un convoglio in arrivo. Purtroppo credo che non gli sia andata bene, considerando che sono qui, ma... beh, è successo moltissimo tempo fa. Credo che fosse il 1910... no, il 1909. Purtroppo mi sono ricordato troppo tardi perché dovessi tornare alla mia vita, e ho perso la fermata... adesso mi impegno a fare in modo che persone come lei non dimentichino dove devono scendere » raccontò.

“Prossima fermata: Piccadilly Circus. Siamo in arrivo a Piccadilly Circus.”

Il medico lo guardò con un’espressione a metà fra il sorpreso e il dispiacere cortese, cosa che l’uomo sembrò apprezzare dato che gli diede una piccola pacca sulla spalla. Disse qualcosa di simile a “è passato molto tempo ormai” e, togliendosi della polvere invisibile dalla manica della giacca, tornò a rivolgergli la parola.

« E lei, se non sono indiscreto, si ricorda ancora perché vuole tornare in vita? » gli chiese.

John capiva qual’era lo scopo di quell’interrogatorio, così come era consapevole delle buone intenzioni della persona al suo fianco; tuttavia parlare delle sue scoperte in quel campo era e rimaneva leggermente imbarazzante.

« C’è... beh, c’è una persona che voglio rivedere, ecco... » rivelò, pronunciando la frase più semplice del mondo senza nemmeno rendersene conto.

Serviva forse una spiegazione filosofica per ciò che voleva davvero fare? Il suo desiderio di rivedere Sherlock, qualsiasi fosse il motivo scatenante, era così carente dal lato morale?

Ogni persona ha un motivo per voler continuare a vivere, e forse la causa che aveva portato tutti gli altri individui in quel vagone a rimanere lì seduti in eterno, dimentichi dei loro sentimenti, era proprio perché avevano avuto il dubbio che le ragioni per vivere non fossero abbastanza, agli occhi degli altri.

L’uomo al suo fianco, di fatti, annuì comprensivo. « È sempre la miglior ragione » gli rispose.

“Prossima fermata: Oxford Circus. Siamo in arrivo a Oxford Circus.”

« E... questa persona è la sua fidanzata? » domandò l’uomo, assottigliando le labbra sotto i baffi in uno di quei sorrisetti indagatori.

John deglutì, e forse arrossì un poco. Non seppe dirlo con certezza.

« N-No... cioè... no. Proprio no » balbettò, indeciso su cosa rispondere.

L’altro, davanti al suo dubbio, continuò la sua indagine: « però vorrebbe che lo fosse? » domandò, indiscreto.

Watson fu costretto a deglutire di nuovo, cercando in qualsiasi anfratto della sua testa una risposta da dare che corrispondesse al meglio alla situazione in cui versavano lui e Sherlock. Ma quel pensiero si mescolava un po’ troppo con le proprie, personali prospettive per un futuro di cui sapeva ancora poco o niente, perciò non era nemmeno sicuro che la risposta che avrebbe finito per dargli sarebbe stata, oggettivamente, corretta o meno.

« È una persona a cui tengo molto, e a cui voglio molto bene. Però non so se... cioè, non ho mai preso in considerazione al possibilità che... » iniziò, trovando subito difficoltà ad esprimersi.

L’uomo, guardandolo con un sorriso, alzò una mano come per fermarlo e risparmiargli la fatica. « Mi perdoni se la metto alle strette, ma ha appena ammesso che questa persona è il motivo per cui vorrebbe continuare a vivere... » gli disse: « ...io credo che la sua importanza sia abbastanza scontata, una volta detto questo. Cosa potrebbe essere, dunque, per lei, un passo in più come il fidanzamento, se parte già da una premessa di assoluta dipendenza da essa? » domandò, usando quell’inflessione un po’ antica per cui le relazioni amorose sfociavano subito nel fidanzamento.

A parte quel piccolo particolare, però, l’osservazione dell’uomo aveva un senso. Ed era giusta.

Ormai Sherlock era parte della propria vita, e anzi... ne era direttamente il fulcro.

E più ci pensava, più Watson sentiva che non era importante dare una definizione socialmente accettabile al loro rapporto; probabilmente, finché avesse avuto la possibilità e l’occasione di stare al fianco di Sherlock, gli sarebbe andato bene anche così.

Watson gli sorrise, annuendo. « Sì... dopotutto non ha tutti i torti » asserì.

“Prossima fermata: Regent’s Park. Siamo in arrivo a Regent’s Park.”

Il treno si fermò e ripartì di nuovo nel silenzio calato fra i due uomini.

Un silenzio complice e sollevato, che portava a John più benefici che malesseri e che cancellava i dubbi dalla sua mente uno ad uno. Non si sarebbe dimenticato qual’era il motivo per cui stava tornando indietro, per cui decideva ancora una volta di affrontare la vita e tutti i problemi che, impietosa, gli aveva messo davanti e, ne era sicuro, con cui avrebbe continuato a disseminare il suo cammino fino al giorno in cui sarebbe definitivamente morto.

Voleva vedere Sherlock. Voleva sorridergli, parlargli, sedere con lui nel salotto del 221B bevendo un tè ed ascoltando l’ennesimo, prolisso sproloquio su qualche caso d’importanza nazionale che Mycroft aveva avuto l’ardire di proporgli, oppure che lui aveva accettato e poi risolto nel giro di qualche ora.

E se avesse potuto passare il resto della sua vita così... invecchiare fra le pareti famigliari e piene di fori di proiettile del loro appartamento, fra il sempre maggiore disordine del loro salotto, con provette a riempire ogni angolo della cucina e qualche testa mozzata nel frigorifero ogni tanto, beh... gli sarebbe stato bene.

Anzi, forse non chiedeva di meglio.

“Prossima fermata: Baker Street. Siamo in arrivo a Baker Street.”

« Credo che sia la sua fermata, amico mio » gli disse il signore al suo fianco, sorridendogli incoraggiante.

John annuì, alzandosi e posizionandosi davanti alla porta in mezzo agli sguardi vuoti ma incuriositi delle persone del vagone.

La fine del tunnel, poi una stazione piena di luce.

Il treno rallentò e si fermò. Le porte si aprirono.

In un respiro, John attraversò la soglia, consapevole che non appena avrebbe aperto gli occhi nella realtà – nella realtà vera – avrebbe dimenticato ogni cosa di quel limbo bianco e luminoso, terra di passaggio per chi si era perso fra la vita e la morte.

Chiuse gli occhi e, con un sorriso e molte aspettative, si lasciò andare alla luce.

 

 

 

Era mezzogiorno del 4 marzo, e John dormiva.

I medici erano venuti quattro ore dopo l’inizio del trattamento per staccarlo dal macchinario per la dialisi, che ormai aveva completato la sua funzione di ripulitura del sangue. Avevano controllato le pulsazioni, l’elettroencefalogramma, l’elettrocardiogramma, le ferite e il taglio chirurgico fatto in sala operatoria; era risultato tutto nella norma e, ormai convinti che tenerlo in coma fosse superfluo, avevano rimosso anche la flebo di barbiturici.

Il medico era lo stesso che era venuto a parlare con loro in sala d’attesa prima dell’alba.

Con un sorriso sollevato aveva detto loro che andava tutto bene, e che John si sarebbe svegliato una volta smaltiti i medicinali. Siccome i barbiturici erano farmaci che limitavano l’accesso di sangue al cervello – di modo da “disattivarlo” se non per le funzioni principali, quali respirare e fare battere il cuore – ci sarebbe voluto un po’ prima che riuscisse a recuperare in pieno tutte le sue facoltà, ma nel giro di ventiquattrore sarebbe tornato la persona di sempre.

Nell’udire quelle parole, mrs. Hudson era scoppiata in lacrime. Aveva ringraziato Dio cinque o sei volte, il medico che aveva parlato con loro altre tre o quattro, poi si era limitata ad asciugarsi gli occhi con un sorriso tenero tutto per John.

Lestrade aveva sospirato pesantemente, sentendosi improvvisamente crollare addosso tutta la stanchezza accumulata durante la giornata. Nonostante sorridesse era palese che non si sentisse bene e, a sorpresa un po’ di tutti, era stato Mycroft a sorreggerlo, tenendolo per le spalle finché non si era accomodato su di una sedia nelle vicinanze. Dopotutto erano le nove del mattino e Gregory non aveva chiuso occhio dalle sette del mattino precedente – e la giornata non era stata una delle più leggere, ovviamente.

Harry, con la spalla appoggiata allo stipite della porta, si era limitata ad un sorriso sollevato. Non aveva detto niente, né aggiunto alcunché a parole; semplicemente aveva chiuso gli occhi ed era tornata dov’era rimasta fino a quel momento, seduta in sala d’attesa nel posto accanto alla finestra. La sua convinzione nel non voler entrare in camera del fratello non le impediva, però, di rimanere nelle vicinanze finché non si fosse definitivamente svegliato.

Molly si era lasciata andare in una risata liberatoria e aveva incrociato le mani sotto al mento con uno schiocco. Aveva poi rivolto un sorriso radioso a Sherlock, il quale però non l’aveva guardata; teneva gli occhi fissi su John, sempre al suo fianco su di una scomodissima sedia d’acciaio con la seduta in plastica, e nonostante ascoltasse tutto ciò che veniva detto nella stanza non gli aveva staccato di dosso lo sguardo nemmeno per un istante.

Cosa che stava facendo anche in quel momento, quando ormai l’orologio al suo polso segnò le dodici passate.

Sherlock non aveva dormito, non aveva mangiato, non aveva nemmeno bevuto qualcosa che non fosse qualche sorso d’acqua dalla bottiglia che Mycroft gli aveva portato verso le otto del mattino. Aveva un taglio in testa che pulsava come l’inferno, era sotto antibiotici e antidolorifici per la stessa ragione e, in più, arrivava da una giornata ancora più pesante di quella che aveva infine steso l’ispettore Lestrade, ormai arrivato a casa.

Molly era tornata al Barts, la signora Hudson faceva la spola fra la camera di John e la sala d’attesa mentre Mycroft era dovuto tornare al lavoro, facendosi comunque promettere di essere chiamato non appena John avesse ripreso conoscenza.

Il guaio, però, era che non lo aveva ancora fatto.

Vero era che il tempo di metabolizzazione dei farmaci era diverso da persona a persona, e che probabilmente il fisico di John, già inizialmente debilitato, ci avrebbe messo un po’ di più del solito... tuttavia Sherlock non riusciva a levarsi dalla testa il pensiero che tre ore fossero troppe.

Cominciò a pensare che la causa potesse essere un’altra. Non c’erano segni che mostrassero la caduta di John in un coma naturale, però rimanevano sempre cause di tipo psicologico.

E se John non avesse desiderato svegliarsi? Era possibile controllare quella condizione con la mente? Dopotutto non era questo il processo logico dietro al dolore psicosomatico?

E se John non si fosse più svegliato perché semplicemente non voleva farlo? Perché riteneva, magari, di non avere niente per cui aprire gli occhi? Niente che meritasse la sua presenza nel mondo della veglia?

Sherlock era confuso e la stanchezza che alla fine aveva bussato anche alla sua porta non lo aiutava. Nonostante le buone notizie non riusciva a tranquillizzarsi. Probabilmente sarebbe stato a suo agio solamente quando John avesse aperto gli occhi, avesse parlato, gli avesse sorriso.

In poche parole, solamente davanti alla prova empirica ed oggettiva che stesse bene.

Chiudendo gli occhi si chinò sul letto, appoggiando la braccia incrociate sul materasso e la testa su di esse, a contatto con la coscia di John. Osservando ad occhi socchiusi la mano immobile del migliore amico a pochi centimetri dal proprio volto, allungò le dita a sfiorarle, afferrando il suo indice e tenendolo stretto.

L’indice. Solo l’indice. Un minimo contatto per capacitarsi che fosse caldo, che qualcosa vivesse ancora, in John Watson. Che niente era perduto e che tutto sarebbe ritornato com’era stato appena trenta ore prima.

Chiuse gli occhi giusto un attimo, cercando inconsciamente di sincronizzare il proprio respiro con quello di John.

Un attimo, ecco il lasso di tempo in cui tutto accadde.

Sherlock Holmes sentì un fruscio, poi una lieve carezza sulle dita della mano.

Spalancò gli occhi. Li tenne fissi sulle loro mani, aspettando che quel fenomeno si ripetesse, così da poter convincere se stesso che non se l’era immaginato, che non era frutto della sua immaginazione.

Che quelle dita si erano mosse davvero contro le sue.

Avvenne. Questa volta vide la lieve carezza che il dito medio di John depositò sul dorso delle sue, muovendosi con fatica ma volontariamente.

Si drizzò di scatto, puntando subito gli occhi azzurri verso il volto di John, un groppo in gola che si disciolse solo quando vide le iridi blu dell’amico sotto le ciglia socchiuse e percepì il lieve sorriso che gli tendeva le labbra sotto la mascherina per l’ossigeno.

Gli sembrò di riprendere a respirare dopo una notte passata sott’acqua, in apnea, chiuso su se stesso in una pozza d’acqua sporca e cupa in cui i suoni arrivavano attutiti e rimbombavano come tamburi stonati.

Scattò in piedi, lasciando che la sedia cadesse rumorosamente a terra. Si chinò sull’amico con il busto, occhi negli occhi, e solo allora si accorse di quanto fosse agitato: le mani, bloccate a mezz’aria nell’intento puramente istintivo di circondare il volto di John, gli tremavano leggermente, senza controllo.

Lui stesso non era padrone della sua paura, del suo sollievo, dell’esplosione di gioia e dei battiti accelerati del proprio cuore e mescolava tutte quelle emozioni in una sorta di soluzione chimica ormai satura; la sua mente non riusciva a disciogliere tutte quelle emozioni e così le lasciava sedimentare, creando solo caos, panico immotivato.

John lo notò subito. Si era appena svegliato ma aveva già intuito le condizioni in cui versava Sherlock.

Lo aveva letto nei suoi occhi indecisi e sgranati, spaventati dalla confusione, brillanti della stessa luce che gli aveva visto a Baskerville quando, per una notte, ogni sua sicurezza era crollata ad effetto domino.

Cercò di parlare, ma dalla bocca gli uscì solo un rantolo. Cercò allora di sollevare la mano ma nemmeno il movimento degli arti sembrava concepibile, in quel momento. L’unica cosa che riuscì a fare, grazie alla vicinanza fra loro, fu afferrargli il lembo della camicia e tirare il tessuto, di modo da trasmettergli in quel misero gesto ciò che con le parole non era ancora in grado di dirgli.

Calmati, Sherlock. Va tutto bene. Sono qui, va tutto bene.

Sherlock avvertì la presa sulla sua camicia e, trattenendo il respiro, cercò dentro di sé la calma. Il suo cervello si ridestò dal trauma e dalla sorpresa, riprendendo a fare il suo lavoro, concedendo al detective di respirare finalmente la sua aria, il suo ossigeno: quello fatto di pensieri e ragionamenti.

Deglutì, e fu soltanto la voce a tradire un lieve tremore, questa volta. Le mani, tornate immobili, si posarono finalmente sul viso di John, i polpastrelli bollenti delle proprie dita a sfiorare le guance tiepide dell’altro.

« H-Hai avuto un’emorragia interna » cominciò, lo sguardo incatenato a quello di John, che non aveva la minima intenzione di scostare i suoi occhi da quelli di Sherlock: « l’emorragia ti ha provocato un’insufficienza renale lieve. Ti hanno messo in dialisi ma in sala operatoria il tuo cuore ha ceduto e... » deglutì: « ...hanno deciso di metterti in coma farmacologico. È per questo che non riesci a parlare o a muoverti » gli spiegò, tornando gradualmente lo Sherlock Holmes di sempre. Il suo sguardo si era stabilizzato, la sua mente aveva ripreso il controllo della situazione.

John era sveglio, e sorrideva. Andava tutto bene. Tutto bene.

Fece scivolare via le mani dalle gote del medico, appoggiandosi con le mani sul cuscino ai lati della sua testa. Continuò a guardarlo fisso negli occhi ma questa volta con una punta di rabbia, unita forse a qualche rimasuglio di ansia.

« Non farlo mai più » soffiò il detective.

John continuò a guardarlo, impossibilitato a fare altro.

« Non farlo mai più... questo. Mai più. Tu non c’eri e io non sapevo cosa fare. Non farlo mai più » disse – ordinò.

Watson, socchiudendo gli occhi, annuì.

Dopotutto... era diventato un maestro nello scusarsi per cose che non aveva fatto.

 

 

Dopo essere stato visitato dai medici, avere conosciuto il chirurgo che lo aveva operato, avere ricevuto un abbraccio in lacrime da sua sorella, uno stritolatore da mrs. Hudson e avere assistito a come quest’ultima convinceva Sherlock a dormire almeno qualche ora – rigorosamente sulla poltrona della camera, dato che tutti i tentativi della donna di farlo tornare con lei a Baker Street erano andati in pezzi contro la cocciutaggine del detective – John si era addormentato di nuovo, concedendo al proprio corpo tutto il riposo di cui aveva bisogno.

Quando si risvegliò era ormai il tramonto, Sherlock dormiva ancora e qualcuno aveva ritenuto opportuno rimuovergli la mascherina d’ossigeno. A quanto pareva, respirava bene anche senza.

Si guardò intorno e puntò sul comodino alla propria destra il telecomando del piccolo televisore a parete.

Prima di prenderlo, però, fece un controllo generale di quanto il suo cervello avesse giovato del riposo concessogli. Mosse prima le dita delle mani, tutte e dieci, cercando di non forzare troppo la destra per non spostare la flebo di fisiologica che gli avevano inserito nella vena sul dorso della mano. Alzò poi entrambe le braccia parallelamente, notando con piacere di riuscirci. Mosse infine le dita dei piedi sotto le coperte e girò la testa a destra e a sinistra, constatando che tutto sembrava essere tornato al proprio posto.

Avrebbe tentato anche di parlare, probabilmente, ma aveva paura di svegliare Sherlock. Per quei pochi minuti che lo aveva visto gli era sembrato tremendamente stanco e non voleva assolutamente privarlo del sonno a cui si era infine arreso.

Allungando il braccio quindi – e sentendo i punto su fianco tirare quando si mosse per accompagnare il movimento – afferrò il piccolo aggeggio e rimase per un attimo a fissare il comodino.

A quanto pare era venuta della gente mentre dormiva, perché una piantina di primule gialle aveva trovato posto accanto alla caraffa dell’acqua e al relativo bicchiere. Sul biglietto, scritto a mano, un “rimettiti presto (ci servi per tenere a bada il geniaccio)! Anderson - S. Donovan” lo fece ridacchiare silenziosamente.

Accanto alla piantina c’era poi una confezione che conosceva bene, proveniente dal pub in cui ogni tanto si rifugiavano lui e Greg quando decidevano di passare una serata a bere birra, mangiare panini e a lamentarsi di Sherlock. Sulla carta marrone, con una penna a sfera era stato scritto un “so quanto fa schifo il cibo dell’ospedale. Goditelo. Greg”.

Un pacchettino di cioccolatini era quello che aveva lasciato Molly, invece, con un bigliettino allegato che diceva semplicemente un “rimettiti presto! Ti voglio bene. Molly”.

Mrs. Hudson non aveva lasciato biglietti, ma l’odore dolce della sua torta di mele gli colpì piacevolmente il naso non appena tirò su un lembo della carta che la ricopriva.

Non avrebbe mai ringraziato abbastanza quella donna, lo sapeva.

Mycroft non aveva portato niente di nuovo, ma si era premurato di fare irruzione nel loro appartamento – ma più probabilmente lo aveva fatto entrare mrs. Hudson – e gli aveva portato il suo notebook, su cui era stato lasciato un biglietto scritto in un’eccepibile grafia: “Sarebbe perso senza il suo blogger. Mycroft Holmes”.

Gli sorse spontaneo un sorriso. Fratelli maggiori, non cambiavano mai.

Interiormente grato per tutti quei pensieri lasciati per lui, prese il telecomando e lo puntò verso la televisione, togliendogli la voce non appena si accese. Girò qualche canale poi, trovato quello che gli interessava, guardò le immagini che il telegiornale stava passando.

Il solo pensiero di essere stato all’interno di quel groviglio di acciaio gli faceva salire la nausea. Il cameraman stava mostrando l’interno del tunnel, accompagnato dai vigili del fuoco, ed il giornalista incaricato di fare il reportage indicava freneticamente i vagoni distrutti del treno, parlando di cosa non riusciva a capirlo, dato che nel leggere il labiale non era mai stato bravo. Ne guardò qualche altro minuto poi, semplicemente, spense il televisore.

Vedere da fuori quello che lui aveva provato sulla pelle lo infastidiva troppo. Gli chiudeva lo stomaco in una morsa e gli troncava il respiro nei polmoni. Probabilmente la sua analista ci sarebbe andata a nozze.

« Probabilmente sì ».

Sussultò nel sentire la voce di Sherlock tagliare in due il silenzio, leggendogli come al solito nella mente ed indovinando perfettamente ciò che stava pensando.

Lo guardò alzarsi dal divano, i ricci neri spettinati ma gli occhi vigili e riposati come li aveva visti ogni mattina da quasi due anni a quella parte.

Gli si avvicinò a grandi passi, fermandosi a fianco del letto ed osservandolo indagatore, nel tentativo di percepire ogni piccolo segnale, segno o chissà cos’altro potesse indicare al detective le sue condizioni di salute. John glielo lasciò fare.

« Perché sono sempre io quello che finisce all’ospedale? » scherzò, riuscendo pian piano a ritrovare la capacità di parola. Prova voce: superata!

Ma Sherlock non era in vena di scherzi.

John incatenò lo sguardo ai suoi occhi azzurri, cercando – inutilmente – la causa di quell’espressione contrita. « Cosa c’è, Sherlock? » chiese poi, serio.

L’altro sospirò, chiudendo gli occhi un secondo per poi riaprirli di nuovo.

« Ho un cuore, John » gli disse poi, tono grave, voce bassa. Come se si vergognasse. Come se se ne pentisse. Come se lo rifiutasse.

Lo stomaco di John si contrasse di nuovo, ma lui lo nascose bene. Voleva fare una cosa ma non sapeva se Sherlock sarebbe stato d’accordo, se si sarebbe scostato, se gliel’avrebbe permesso o meno.

Nel silenzio, decise di rischiare. A qualche passo dalla morte le prospettive cambiano ed i dubbi calano di dimensioni come iceberg che si sciolgono nel lungo viaggio verso l’equatore.

Alzò la mano sinistra – quella libera dalla flebo – e la poggiò delicatamente sul petto di Sherlock. Quello non si mosse, lasciandolo fare senza il minimo imbarazzo o dubbio.

John sentì il battito del cuore di Sherlock contro il palmo della mano, e sorrise. « Lo sapevo già » disse.

« ...fa male » gli rispose Sherlock: « voglio strapparlo via ».

John chiuse gli occhi e negò con il capo. « Non farlo... » mormorò. « Dallo... dallo a me. Me ne prenderò cura per te » aggiunse, gli occhi incapaci di incontrare di nuovo quelli azzurri dell’altro.

Almeno finché la mano di Sherlock non raggiunse la sua, appoggiata ancora sul suo petto. Solo allora John alzò di nuovo gli occhi sull’altro, oceano nel ghiaccio, in attesa di una risposta che avrebbe potuto renderlo l’uomo più felice del mondo o un animale malmenato che si lecca le ferite in un angolo.

Sherlock strinse con la propria mano quella di John, intrecciando le dita a quelle del medico.

« È tuo » gli rispose.

John non poté far altro che sorridergli.

Poté quasi giurare, sentendolo con la mano, che il cuore di Sherlock – ora suo – avesse appena perso un battito.

 

 

 

 

 

Epilogo • un mese dopo

221B Baker Street

 

 

Quando riaprì gli occhi alla luce del nuovo giorno, il letto accanto a sé era sfatto ma vuoto.

John sospirò in un sorriso, chiudendo gli occhi e facendo scivolare la mano sulle lenzuola stropicciate, trovandole fredde. Sherlock doveva essersi alzato già da un pezzo, come la maggior parte delle volte.

Trovando la forza di alzare la testa dal morbido cuscino che aveva ospitato il suo sonno per l’intera nottata, prese visione della sveglia sul comodino, scoprendo che erano le nove meno un quarto del mattino. Sbadigliò e, finalmente cosciente di sé, si mise a sedere.

Subito il fianco si fece sentire. John vi portò sopra la mano, massaggiando i muscoli intorno al taglio chirurgico ancora in via di guarigione nel tentativo di scioglierli. Si rilassò un poco quando smise di fare male e, finalmente, si alzò in piedi, recuperò le ciabatte ed uscì dalla propria camera  dirigendosi giù per le scale, obiettivo cucina.

Fu lì che trovò Sherlock, seduto al tavolo con le gambe accavallate a leggere il giornale.

Indossava la vestaglia blu e solo quella, John ne era sicuro. A volte, i livelli di pigrizia del suo coinquilino – avrebbe dovuto cominciare a chiamarlo “compagno”, d’ora in poi? – sfioravano quelli di Mycroft, ma si era sempre guardato bene dal farglielo notare.

« Buongiorno » salutò entrando.

« Mh... » fu l’onnicomprensiva risposta di Sherlock. John sorrise, gli scostò i capelli dalla fronte con una mano e vi posò le labbra in un piccolo bacio fugace.

Holmes non si distrasse dalla lettura ma John non se ne curò affatto. Il detective e le dimostrazioni d’affetto non erano termini adatti a stare nella stessa frase, ma andava comunque bene così.

Dopotutto, era Sherlock Holmes. Non riusciva a pensare a qualcosa di diverso dalla stramba quotidianità affettiva ancora in via di costruzione.

« Hai già fatto colazione? » chiese John dirigendosi ai fornelli.

« Solo tè per me » rispose il moro mentre John afferrava tutto il necessario per preparare il tè e metteva in tavola fette biscottate e marmellata.

« Trovato qualcosa di interessante? » domandò poi al detective, riferendosi al quotidiano. Per una persona che non conosceva nemmeno il nome dell’attuale Primo Ministro, la lettura del giornale significava che c’era un caso interessante, dunque probabile lavoro in arrivo.

« La mia camera è più spaziosa ».

Watson si accigliò. « Prego? ».

« Sono sicuro che la tua roba ci entrerebbe senza problemi » continuò imperterrito Sherlock, ignorando la domanda implicita dell’altro.

John non poté fare a meno di nascondere un sorriso soddisfatto. « Ed è tutto scritto sul giornale? » ironizzò, mettendo in infusione due bustine di tè direttamente nella teiera.

Se Sherlock ebbe intenzione di rispondere, probabilmente gli fu impedito dal doppio suono del campanello. Il postino, decifrò John, che con un “vado io” – abbastanza scontato, in realtà, dato che Sherlock non si sarebbe comunque sprecato ad alzarsi per andare alla porta – John scese velocemente le scale, salutando il portalettere e ricevendo la solita montagna di posta.

Ritornando al piano superiore, la scorse velocemente. A parte le bollette da pagare, praticamente immancabili, una cartolina da Dublino attirò la sua attenzione. La girò, e nel leggere la calligrafia infantile con cui era stata scritta sorriso rincuorato; Alice era alla sua prima gita scolastica fuori porta e, a quanto diceva, aveva scelto per lui la cartolina più bella del negozio.

Avrebbe dovuto ringraziarla, magari telefonandole.

Continuò a scorrere le buste, incontrandone una che portava lo stemma della British Army. La aprì alla bene e meglio.

Insieme ad una lettera scritta a mano che lesse solo sommariamente vi era la fotografia di un gruppo di soldati, tra i quali spiccava Edward Miller. Era appena tornato al reggimento e aveva chiesto esplicitamente di essere trasferito al 5th Northumberland Fusiliers; richiesta accettata, considerando che il plotone apparteneva a quella compagnia. Lo informava inoltre di essere appena rientrato dall’infortunio, che la spalla stava benone e che aveva rinunciato a partire. Lui e la sua ragazza avevano parlato di matrimonio, dunque voleva rimanere in Inghilterra per farsi una vita, magari una carriera nell’esercito.

Sorrise di nuovo, arrivando nel frattempo al piano superiore. Finché non si trovò fra le mani una busta strana, con l’effige di una... culla?

« Sherlock? » chiamò dall’ingresso, chiudendo la porta dietro di sé con aria decisamente allibita.

« John? » si sentì rispondere dalla voce profonda dell’altro, segno che lo stava ascoltando.

« Nella posta di oggi c’è l’invito ad un... battesimo? » borbottò stranito, leggendo velocemente il biglietto di cartoncino: « ...un battesimo fra quattro mesi, per giunta. Chi è Nicholas Ryder? » domandò.

Sherlock, alzatosi per spegnere il bollitore del tè, sorrise appena nel versarlo in due tazze.

« Sherlock, perché il pargolo si chiamerà “John Sherlock”? » chiese John, alzando gli occhi dal biglietto quando dall’altro non venne risposta: « Sherlock? ».

« Cosa ti fa pensare che io ne sappia qualcosa, John? » ironizzò il detective con un sorrisetto furbo, avvicinandosi all’altro e porgendogli una delle due tazze di tè.

Watson lo guardò con un sopracciglio sollevato: « preferisci che ti risponda prima di mandarti al diavolo o posso togliermi subito la soddisfazione? ».

Sherlock nascose un sorrisetto divertito sul bordo della propria tazza, bagnandosi le labbra con il tè. Davanti allo sguardo di John che non ammetteva silenzi programmati o cambi repentini di discorso, alla fine capitolò.

« Beh, trovo che sia una scelta di nomi oculata. Oltre che lusinghiera, certo. “John S. Ryder” suona bene » commentò, impedendo con la frase successiva la risposta che John aveva già sulle labbra: « e poi, l’alternativa era Marcus » disse, sottolineando il nome con una sorta di scherzoso disprezzo.

John, ormai conscio di essere entrato nella tana del lupo con tutto il braccio e non solo con la mano, semplicemente lasciò perdere. Bevve qualche sorso di tè, appoggiò tazza e posta sul tavolo di fianco al detective e, approfittando della vicinanza dell’altro per rubargli un bacio, si diresse a passo svelto verso camera sua.

« Dove stai andando? » domandò Sherlock.

« Beh, la mia roba non traslocherà da sola ».

 

 

 

 

 

~ the END.

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1. "Passing Afternoon" è il titolo di una canzone di Iron & Wine. È la OST di chiusura dell'episodio 4x16 di Dr. House ("Il Cuore di Wilson") e, da quando l'ho rivisto per raccogliere ispirazione, anche di diritto la OST ufficiale di questo capitolo.

 

2. Sherlock Holmes, nei lavori originali di Doyle, è un drogato. Nella serie della BBC il duo Mofftis ha deciso di fargli superare la dipendenza, ma tracce del fatto che comunque lo fosse sono visibili in "Uno Studio in Rosa" (quando Lestrade è nel loro appartamento con la scusa di una retata antidroga) e anche nell'episodio pilota mai andato in onda (in cui è lo stesso Sherlock ad ammettere che il vizio di drogarsi gli era passato da poco).

In particolare, Sherlock (di Doyle) era solito cadere in profondi stati depressivi quando era senza casi da risolvere, e riusciva ad iniettarsi in vena dosi di cocaina e/o morfina anche 3 volte al giorno.

 

3. È un gioco di parole con il significato del nome "Joy", che significa "gioia"

 

4. Brevemente: Sigmund Freud, il padre della Psicoanalisi, divise la mente umana in tre parti principali, ovvero "Es", "Io" e "Super-Io".

Mentre il Super-Io è l'interiorizzazione delle regole morali apprese dai genitori durante lo sviluppo (distinzione fra giusto e sbagliato, buono e cattivo...), e l'Io è una sorta di "sistema di controllo" che permette all'individuo di bilanciare la propria personalità in relazione alla realtà e alle regole sociali, l'Es è la parte del subconscio completamente slegata dalla logica; è puro impulso primitivo, che secondo Freud si libera del tutto durante il sonno (perché nel sonno si è soggetti ad un minor controllo razionale ed inibitorio).

 

5. A scuola di Medicina (da Zia Wikipedia e con la gentile partecipazione del dr. House).

- la Dialisi è un macchinario che ripulisce il sangue. Vengono applicati due aghi sul braccio del paziente, uno per il sangue in entrata e uno per quello in uscita; il sangue passa in questo macchinario che ne separa i componenti, pulendolo dalle scorie, per poi "ricomporlo" e rimandarlo in circolo nel corpo.

- il Bypass aorto-coronarico non è altro che una circolazione extra corporea del sangue per escludere il cuore. Vengono collegati dei "tubicini" alle due principali arterie del cuore (Aorta e Coronaria) e questo continua la sua circolazione senza passare dal cuore grazie ad una macchina che ne mima la funzione. Il cuore, in quel lasso di tempo, ovviamente non batte.

- Il coma indotto (o farmacologico, o famaco-indotto) è uno stato di coma provocato dai medicinali. L'attività del cervello è ridotta, durante il periodo di coma, e teoricamente non dovrebbe esserci fase REM, dunque niente sogni. Ma non ho raccolto abbastanza dati sull'argomento, dunque prendetelo come necessità di trama ;D

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