Missing Memories

di Shadeyes
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte prima ***
Capitolo 2: *** Passato I ***
Capitolo 3: *** Passato II ***
Capitolo 4: *** Passato III ***
Capitolo 5: *** Passato IV ***
Capitolo 6: *** Passato V ***
Capitolo 7: *** Passato VI ***
Capitolo 8: *** Parte seconda ***



Capitolo 1
*** Parte prima ***







Carlisle and Esme









Missing Memories









Parte prima









Lì ero al sicuro, lo sapevo.
Quel silenzio, quella tranquillità, quel lieve scroscio…
Quel luogo era capace di allontanarmi da tutto, persino dal mio dolore.
Ma, talvolta, sfogarsi è l’unico modo per sentirsi meglio.
Era da tempo che non venivo quassù, forse due o tre mesi, ma l’atmosfera non aveva perso quella veste maliarda di cui mi ero innamorata.
L’odore di salsedine, il lieve rumore delle onde che s’infrangevano sugli scogli, il fresco venticello mattutino m’inebriavano i sensi ancora una volta, portando via le lacrime e ridandomi un po’ di quella speranza che ormai era andata perduta.
Troppo tardi, pensai incurvano le labbra in uno stanco sorriso.
Ero esausta, madida di sudore e di lacrime, con i vestiti laceri e ancora sporchi di sangue. Avevo corso per disperazione, per rabbia, ma la meta era proprio questa.
In grembo stringevo quel piccolo, frusto quaderno, lo stesso che per anni aveva sostenuto i miei sfoghi. Le sue pagine straripavano di frustrazione, di sentimenti che una ragazzina come me non avrebbe mai dovuto provare.
Lo portai al petto, poi lo aprii all’ultima pagina, quella della mia vita.


L’amaro in bocca,
la vista che vacilla,
l’immagine che sfoca.

E il pensiero,
la muta consapevolezza
di una vita calpestata.

La mia.

Così cambio strada,
lascio i miei ricordi
che raccontano di quel passato.

Mai esistito.

Tra le mani non ho nulla,
stringo polvere,
annego in quel terriccio ignorato.

Ho lasciato tutto,
e allora farò quel salto,
l’ultimo bacio gelato.



Risi.
Accarezzai quella pagina, poi la strappai e permisi alla brezza marina di portare con sé quelle parole, quell’odio che nutrivo dentro. Lo feci ancora, e ancora, pagina dopo pagina, versi e versi di rancore, singhiozzi, sogni e desideri mai realizzati. Il vento si portò via tutto. Anche la mia anima.
Mi rimisi in piedi e feci gli ultimi passi barcollando. Ero debole.
La testa girava e il respiro si faceva sempre più accelerato. Non ne potevo più.
Io ero la brava ragazza, la moglie disponibile, la figlia ubbidiente, ma nessuno si era mai fermato a pensare a chi io fossi veramente. Una bambina.
Sempre ad abbassare il capo, a chinare la schiena, a fare l’adulta responsabile. Io volevo solo essere una bambina. E lo ero ancora.
Fragile, impaurita, riuscivo a malapena a sorreggermi sulle gambe. Ventisei anni di sottomissione.
Non contavano i miei sogni, le mie passioni. Era lui a decidere. Loro.
E io stavo zitta, annuivo, sorridevo. Fingevo.
Erano gli anni in cui una donna poteva solo sperare in un buon partito. Il resto della vita rimaneva di contorno.
Mi avvicinai al dirupo, dove la roccia finiva e l’acqua dell’oceano era agitata e profonda.
Avevo sempre amato l’acqua, quella ghiacciata, l’odore di purezza. Ogni sera mi ritiravo per il bagno, l’unica ora della giornata che potevo concedermi, e mi immergevo nella grossa tinozza con un sospiro di sollievo, avvolta da un gelido ma confortante abbraccio. Non la scaldavo neanche, tutto quel freddo mi dava l’impressione di poter lavar via ogni male, rancore o ferita che possedevo.
Portai una mano sul ventre, non era più gonfio. Come mi sentivo vuota, ora…
Il seno… Il seno invece pungeva terribilmente.
Se solo avessi potuto ricominciare, le cose sarebbero andate diversamente, ma ero una bimba con un fragile cuoricino e le violente scosse che aveva subito lo avevano distrutto completamente. Non avrei mai smesso di piangere.
Basta soffrire, ero stanca di quella vita. Volevo solo abbandonare tutto, e che Dio mi accolga tra i suoi angeli servitori. Il paradiso almeno non conosceva dolore.
Aprii le braccia, inspirando ancora una volta l’aria pura di quella fosca mattina.
E quel volo, lo spiccai davvero.





Rosa blu










Eccomi di nuovo qui, con un'altra storia da proporvi!
In realtà, questa fanfiction l'avevo già pubblicata anni addietro, ed era rimasta terribilmente incompiuta... L'ho ripresa in mano quest'oggi, l'ho riletta e l'ho sistemata, correggendo qualche errore infantile, e l'ho postata ora con l'obbiettivo di portarla a termine a breve :)
È nata con l'intenzione di essere lunga non più di sette o otto capitoli, e non ho intenzione di allungarla inutilmente. La trama è sempre stata presente nella mia testa, quella è e quella rimane xD
Spero di regalarvi qualche emozione, magari con un po' di originalità vista la coppia ;) Anche loro, in fondo, meritano un po' d'attenzione, non credete? ^^
Spero vi abbia intrigato questo primo capitolo, vi assicuro che i prossimi saranno più interessanti xD  
Aspetto i vostri commenti (molto cattivi, mi raccomando! xD).
Un bacio!


Ne approfitto per ricordarvi l'altra mia long-fic su Twilight.


Infantility
Fiction molto dura, ambientata durante le vicende di Eclipse e, in seguito, di Breaking Dawn. Non si tratta della solita storia sdolcinata, piena di amore e problemi di coppia. No, questa storia vuole ritrarre qualcosa di doloroso, di cupo e drammatico. Qualcosa di immutabile. Qualcosa che la Meyer ha giusto accennato e qualcosa di cui molti di noi si sono dimenticati.
Ci sarà passione, delusione, gelosia, rabbia e malinconia. Ci saranno lacrime, ferite, ricordi dolorosi, tradimenti.
E ci sarà lei, l’innocenza e la morte. La piccola, dolce, spietata Meredith.
Certe cose sono fatte per andare e venire, il tempo è fatto per essere passato, presente e futuro, altrimenti nulla avrebbe più davvero senso. Ma la verità è che il cambiamento era un privilegio che ci era negato e vivere iniziava a perdere di significato.
Ecco perché ci trovavamo sul tetto di un palazzo, quella notte. Stavamo dando un senso a ciò che eravamo.
Questa fanfiction si preoccupa di sensibilizzare il lettore, in maniera metaforica, sugli aspetti di una rara malattia psicosomatica: l’infantilismo.







Hilary




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Capitolo 2
*** Passato I ***







Carlisle and Esme









Missing Memories









Passato I









«Dunque, stasera a cena avrete l’ambito capitano Charles Evenson! Tuo padre deve avere amicizie davvero influenti per offrirti un’opportunità simile…».
Bernice continuava a parlare, mentre la mia attenzione si concentrava su diversi particolari del parco che stavamo attraversando.
Fine aprile era un periodo meraviglioso per farsi una passeggiata tra le querce centenarie del centro di Columbus. Certo, la strada che percorrevo ogni giorno da casa al mercato e ritorno si allungava, ma nulla era mai troppo per gustarsi un po’ di splendida, semplice natura.
Ricordavo che da piccola mia madre mi portava spesso in quel posto. Si sedeva sul prato fresco e tirava fuori uno dei suoi libri preferiti con la copertina logora dal tempo. Il suo lungo vestito si apriva in uno splendido ventaglio, rendendola molto più graziosa di quello che già non sembrava, e io, da bimba, sognavo un giorno di poter essere come lei e di poter indossare quegli stessi, incantevoli abiti.
In quel momento ne portavo uno simile, ma ancora dovevo riconoscere di non apparire come la donna che tanto ammiravo.
«Esme, mi ascolti o no?», mi riprese Bernice, infastidita dalla mia mancanza di educazione.
Con lei, d’altronde, potevo permettermelo… Eravamo cresciute assieme.
«Sì… certo.», mentii.
Mi guardò storto.
«No», sospirai.
Scosse la testa in un misto di espressione tra il divertito e l’esasperato, poi tornò a fissarmi.
«Ti ho chiesto quando avverranno le nozze».
«Nozze? Di chi?», chiesi sorpresa.
«Le tue, ovviamente!». 
Roteai gli occhi, stufa di sentir parlare di quell’argomento.
Erano due anni ormai che non la smettevano di assillarmi con quella storia. Evidentemente, non era solo la mia famiglia a volermi vedere maritata.
«Sposarmi, io? Suvvia, Bernice, ho sedici anni!», le risposi quasi disgustata.
«Appunto! Hai sedici anni… se aspetti ancora un po’, nessun uomo che si rispetti ti vorrà più come moglie.», cercò di rammentarmi.
Anche quello me lo dicevano sempre tutti. Nemmeno fossi una zitella trentenne!
Sbuffai.
«Io… io mi sento ancora troppo… immatura per compiere un passo così importante.»
Ed era vero.
Il capitano Evenson era un uomo di tutto rispetto, garbato e di bella presenza, ma non era ciò che realmente desideravo.
Io sognavo l’amore, l’intesa, la passione… Tutte qualità che alla presenza di Charles tendevano a nascondersi.
«Immatura? Dammi ascolto, se fossi in te non mi lascerei sfuggire un partito del genere! Dovresti ringraziare Dio per la fortuna che hai avuto invece di startene lì a ciondolare come una bambina troppo cresciuta…».
Bernice era sempre molto delicata.
Sospirai di nuovo.
«Forse hai ragione…», le concessi.
«Ma certo», mi sorrise.
In fondo, anche lei era rimasta un po’ bambina, proprio come me.
Camminammo in silenzio per un po’, ascoltando solo il rumore dei nostri passi sulla ghiaia.
«E tu?», le chiesi d’improvviso.
«Io?»
«Sì, tuo padre chi sta invitando a casa ultimamente?».
Anche se l’argomento matrimonio non mi elettrizzava granché, ero davvero curiosa di sapere a chi fosse toccata in moglie la mia esuberante amica.
«Oh… beh, il panettiere mi fa il filo», la vidi arrossire.
«Il signor Collins? Stai scherzando?», le domandai stupita.
Sì, era un bell’uomo e anche simpatico, aggiungerei, ma quarant’anni li portava tutti.
«Quale sarebbe il problema, scusa? È un tenerone! Pensa che ogni domenica fa recapitare alla mia residenza un mazzo di rose blu…», s’interruppe, sognante. «Dice che gli ricordano tanto i miei occhi!».
Scrollai le spalle. Che potevo fare se non essere felice per lei? Chi ero io per criticarla, dopotutto?
Bernice sussultò quando due bambini le corsero a fianco, urtandola e facendole rovesciare il cesto del mercato per metà.
«Ah, dannati bambini… Guardate che avete combinato!», li sgridò.
Erano proprio piccoli, non più di nove anni.
«Ci… ci dispiace, signora», mormorò uno quasi in lacrime.
«Anche a me! Ora come faccio a tornare a casa con la frutta tutta ammaccata?», gridò ancora.
Bernice riusciva davvero ad essere insopportabile quando si irritava per qualcosa… E a me iniziava a dare tremendamente fastidio il suo modo di ingigantire le cose.
«Dai, Bernice, sono solo bambini. Le arance sono buone comunque…».
La sentii grugnire mentre rimetteva tutto nel cesto.
Io mi voltai verso i due piccoli e gli sorrisi.
«Fate più attenzione la prossima volta».
«Sì, signora…», risposero all’unisono.
«Ehi, non è successo niente, su. Non c’è bisogno di piangere…», consolai quello che mi parve il più piccolo.
«No… io non piango perché l’altra signora mi ha sgridato, ma perché il mio aquilone si è incastrato tra i rami di quell’albero e non siamo riusciti a tirarlo giù…», confessò in lacrime.
«Cercavamo aiuto…», mi spiegò l’altro.
Mi voltai ed effettivamente vidi qualcosa di rosso tra le foglie di una quercia lì vicino.
«Va bene, andiamo a vedere…», gli promisi prendendoli per mano.
«Esme, che diavolo vuoi fare?», intervenne Bernice.
«Aiutarli».
«Grazie, gentile signora!», dissero loro.
La sentii sbuffare, ma mi seguì ugualmente.
«Ditemi, dov’è la vostra mamma? Non sarete rimasti tutti soli qui al parco, vero?», chiese di nuovo, stavolta ai due bambini.
«Oh, no, signora… Nostro padre ci ha accompagnati qui ed è solo andato fino dal tabaccaio a prendere i sigari».
A me quella spiegazione bastava.
Arrivammo sotto un’alta quercia, alzai lo sguardo e lo vidi impigliato tra un ammasso di foglie. Da quell’angolazione non sembrava danneggiato, una volta tirato giù sarebbe stato ancora un perfetto aquilone.
Capivo perché quel bambino vi era affezionato. Non li avevo mai visti di una fattezza così pregiata.
Mi guardai intorno, poi tornai a fissare in alto.
«Aspettate qui», dissi.
Mi piegai per fare un nodo appena sotto il ginocchio all’ingombrante gonna, in modo che non mi intralciasse, poi calciai via gli stivaletti e mi avvicinai al tronco. Avevo già adocchiato il primo ramo raggiungibile.
«Che vuoi fare, Esme? Sei pazza!», mi urlò Bernice nel tentativo di dissuadermi.
«Tranquilla. Ricordi quando ci arrampicavamo sull’albero di casa mia?».
«Sì, ma era molto più basso e… Insomma, era diverso!».
«A me non sembra…», ribattei e con una lieve spinta avevo già i piedi sulla prima fronda.
Rimasi immobile per qualche attimo, studiando il prossimo passo. Non appena lo intravidi, mi aggrappai saldamente con le mani e mi tirai su.
Accidenti, era davvero alta quella quercia!
In equilibrio, alzai la testa e lo vidi ormai a poca distanza. Serviva solo salire ancora un po’.
A sinistra, un ramo faceva al caso mio, quindi mi allungai con il braccio, ma lo sfioravo solamente, allora feci una cosa che reputai io stessa sconsiderata e mi lanciai.
Riuscii a tenermi piuttosto bene, ma avevo entrambe le gambe penzoloni e le foglie da quella stessa parte si mossero in un fastidioso fruscio.
«Esme!», sussultò Bernice.
«Sto bene…», le urlai di rimando, poi feci uno sforzo e tornai cavalcioni. Piano, riuscii a rimettermi in piedi.
Ora constatai che bastava distendersi un poco e sarei riuscita a districare l’aquilone. Lo feci, allungando il braccio più che potevo, poi mi issai sulle punte e finalmente riuscii ad afferrarlo.
Lo tirai da una parte cercando di non rovinarlo, ma uno dei rami più piccoli s’era proprio incastrato tra l’attaccatura del legno e il telo, così fui costretta a tirare dall’altra parte.
Abbracciai più saldamente il tronco e mi sporsi a destra. Ero quasi riuscita a districarlo, bastava un altro piccolo sforzo, quello che non avrei mai dovuto fare.
Ricordo solo che urlai quando mi sentii scivolare, poi le immagini scomparvero e tutto divenne buio. Non sentii nulla, davvero. Solo fruscii e un sonoro tonfo, poi probabilmente svenni.


«Non ha battuto la testa, abbiamo già fatto tutti i controlli. Aspettiamo che si risvegli, poi la portiamo in sala operatoria».
«In sala operatoria? È così grave?».
«No, signora, non vi allarmate. Normalmente avremo ingessato, ma il femore ha bisogno di un sostegno per saldare la frattura… Ci vorrà un po’, ma vi posso assicurare che sua figlia non subirà nessun danno permanente».
La voce di mia madre si mischiava a quella di uno sconosciuto dal tono gentile. Percepivo la preoccupazione e una vena di tensione nell’aria, ma mi sentivo intontita, inconsapevole di tutto.
Grugnii qualcosa per far sentire la mia presenza.
«Bambina mia…».
Aprii la bocca, ma non riuscii a parlare.
La paura di aver perso il controllo mi sovrastò. Non sapevo dov’ero né perché mia madre fosse così agitata.
D’istinto, tentai di mettermi a sedere, ma un dolore atroce mi obbligò ad abbandonare quell’idea.
Non riuscii nemmeno ad urlare, ma boccheggiai come se fossi stata sott’acqua.
«Non ti muovere», mi sentii dire dalla stessa voce di prima. Mi fece venire in mente il caramello.
«La sala operatoria è pronta, dottor Cullen».
«Bene. Fate firmare il consenso per l’anestesia ai genitori e procediamo».
Il lettino su cui ero sdraiata iniziò a muoversi ed immaginai fosse un pavimento piastrellato quello che stavo attraversando perché le rotelle continuavano a prendere piccoli sobbalzi fastidiosi.
Quando udii l’ultima porta sbattere, il lettino si fermò e la stessa voce mi parlò dopo qualche minuto.
«Fai sì con la testa se mi senti», mi ordinò.
Feci come mi aveva detto, ma non ero certa di esserci riuscita.
«Ti ha fatto male muoverla?», chiese.
Trassi un profondo respiro: «No…». Non sembravo nemmeno io talmente la mia voce era flebile. «Che… che è successo?», sentii il bisogno di chiedere, ma nessuno mi rispose. Caddi in un sonno profondo e mi sorpresi a sperare che fosse permanente.


La prima cosa che udii fu una calda, dolce risata. Avevo sognato quella voce.
«Non saprei dire se d’ora in poi odierai gli aquiloni o gli alberi…», scherzò.
Solo in quel momento fui in grado di aprire gli occhi, ma ciò che vidi non era neanche lontanamente paragonabile alla bellezza del parco di Columbus.
Non avrei potuto svegliarmi in modo migliore.
«Fino a domani potresti provare un senso di smarrimento. Ti sei procurata una bella frattura alla gamba, ma non devi preoccuparti. Sei giovane, ti rimetterai prima del previsto».
Sì, solo ora mi tornavano in mente delle immagini familiari: Bernice, del rosso, un tronco massiccio…
«Prova a parlare».
Quello era l’uomo più bello che io avessi mai visto. Il suoi occhi, così particolarmente ambrati da sembrare quasi oro liquido, fissavano i miei con un’espressione cordiale, di riverente comprensione, e il sorriso stampato su un volto scultoreo.
Non potei che attribuire a lui quella voce così deliziosa che si era impressa nella mia mente dal primo momento che l’avevo sentita.
«Chi siete?», mi sforzai di domandargli. Il tono era molto basso, ma pareva già più simile al normale.
«Mi chiamo Carlisle, sono il dottore che ti ha operato».
Carlisle. Chiaro, un uomo così distinto non poteva che essere portatore di un nome altrettanto nobile.
«Grazie», dissi e mi costrinsi a muovere la mano.
Lentamente, riuscii ad appoggiarla sulla sua ed ebbi la piacevole sorpresa di essere pervasa da un brivido fresco e inaspettato. Avrei chiuso gli occhi nel tentativo di assaporare al meglio quell’attimo, se solo non avessi avuto il timore di perdere anche solo un istante di quell’immagine così sublime.
«Non ringraziarmi…», mi disse. «È stato un onore che non avrei lasciato a nessun altro medico quello di prendermi cura di una ragazza di cuore come voi».
Le sue parole mi riempirono di una gioia immensa, una felicità che non ebbi modo di esprimere.
La sua mano si ritrasse dalla mia.
«Le infermiere ti riporteranno in camera. Sarete contenta di sapere che il vostro promesso, il capitano Evenson, è accorso qui in ospedale non appena ha saputo dell’incidente».
Due donne mi si avvicinarono e spinsero il lettino verso la porta della sala operatoria.
«Buona fortuna, Esme».
Pronunciò quelle ultime parole come se non avrei più avuto modo di rivederlo, ma in cuor mio sapevo che avrei fatto di tutto per potermi un giorno presentare davanti a lui sulle mie gambe, per sentirgli ripetere il mio nome, per provare di nuovo quella straordinaria, ignota sensazione.





Rosa blu










Allora, mie care lettrici, vi è piaciuto questo secondo capitolo tratto dal passato? :)
Come avrete capito, la storia sarà costituita da una prima parte, ossia il capitolo scorso, una serie di cinque o sei capitoli tratti dal passato, e, infine, una seconda (e ultima) parte che farà da conclusione ^^  Lo so, sono complicata... Pensate che in Infantility sto scrivendo una storia nella storia! xD  Un po' da sbatterci la testa, ma sembra che piaccia, per cui proseguo così ^^ Comunque, stavo pensando di scrivere più avanti un capitolo aggiuntivo di questa fanfiction... A parte, però, come one-shot, perché anche chi non avrà seguito questa sarà in grado di leggerla :) So già più o meno cosa ci scriverò, ma non vi svelo niente per ora :P  Perfida me v.v
Bene, abbiamo visto entrare in scena il nostro caro dottore xD  Non vi ho fatto aspettare troppo, visto? :)  Spero di aver rispettato il suo carattere ^^'
Per il prossimo capitolo, che pubblicherò molto presto, vi sto riservando qualcosa di interessante xD  Ma... non vi anticipo niente nemmeno qui xD
Ringrazio le mie carissime recensitrici e i lettori silenziosi ^^
Un bacio!


Ne approfitto per ricordarvi l'altra mia long-fic su Twilight.


Infantility
Fiction molto dura, ambientata durante le vicende di Eclipse e, in seguito, di Breaking Dawn. Non si tratta della solita storia sdolcinata, piena di amore e problemi di coppia. No, questa storia vuole ritrarre qualcosa di doloroso, di cupo e drammatico. Qualcosa di immutabile. Qualcosa che la Meyer ha giusto accennato e qualcosa di cui molti di noi si sono dimenticati.
Ci sarà passione, delusione, gelosia, rabbia e malinconia. Ci saranno lacrime, ferite, ricordi dolorosi, tradimenti.
E ci sarà lei, l’innocenza e la morte. La piccola, dolce, spietata Meredith.
Certe cose sono fatte per andare e venire, il tempo è fatto per essere passato, presente e futuro, altrimenti nulla avrebbe più davvero senso. Ma la verità è che il cambiamento era un privilegio che ci era negato e vivere iniziava a perdere di significato.
Ecco perché ci trovavamo sul tetto di un palazzo, quella notte. Stavamo dando un senso a ciò che eravamo.
Questa fanfiction si preoccupa di sensibilizzare il lettore, in maniera metaforica, sugli aspetti di una rara malattia psicosomatica: l’infantilismo.



In realtà, ne ho scritta un'altra di fanfiction su Twilight. ^^'  Sarebbe una one-shot, descrive la prima notte d'amore di Edward e Bella. Dico subito che è una storia che ho scritto molto tempo fa, andrebbe assolutamente rivisitata e corretta... E poi, sarò sincera, a descrivere certe scene proprio non sono capace xD  Se volete farci un salto, giusto per farvi due risate, cliccate su La mia prima volta. Spero non vi deluda troppo ^^'





Hilary




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Capitolo 3
*** Passato II ***







Carlisle and Esme









Missing Memories









Passato II









Pioggia, fulmine, vento. E le mie lacrime che accompagnano quel tempo ribelle.


Non esiste scelta,
è un privilegio inconcesso.
Il destino di una ragazza,
il marchio di una donna.


Quanto c’è di vero nella mia vita?, pensai amaramente.
Solo il tuo dolore.
Scossi la testa, ma non potevo più mentire a me stessa.


Il suo sorriso,
le labbra attraenti,
e quel suo tocco gelato.


Avevo giurato che non avrei mai più sfogliato quel vecchio diario, ma sapevo che non sarei riuscita a mantenere quella promessa.
Se l’avessi gettato via, avrei fatto una cosa molto più saggia.


E quei suoi occhi,
caldi ma sfuggenti.
Guardarlo è un piacere intenso,
pari al dolore di sentirlo lontano.


L’avevo scritto la stessa sera in cui mi avevano dimessa dall’ospedale, circa due anni addietro. Era stato un fiume di parole, pensieri e sensazioni che non ero stata in grado di ignorare.
Il dottor Cullen era rimasto vivo nella mia mente per settimane. Quella breve conversazione mi ossessionava come un bisogno impellente di cogliere invano quell’ignota emozione.
E quando ormai ogni speranza di godere ancora della sua presenza era svanita, lo trovai accomodato nel soggiorno di casa un pomeriggio di fine novembre a rifiutare cordialmente un caffè offerto da mia madre.
«Esme, saluta il dottor Cullen da ragazza a modo, quale sei!», mi intimò mia madre.
Probabilmente ero rimasta più che stupita perché sentii la sua occhiataccia gelarmi fin le ossa.
Mi riscossi e lo accolsi chinando leggermente il capo: «Lieta di rivedervi, dottore».
«Il piacere è mio. Vedo che vi siete ripresa egregiamente, ma permettetemi di appurarlo con certezza», disse alzandosi dalla poltrona e facendomi segno di sistemarmi sul divano.
Era solo per quello che era venuto, per una visita di controllo. Mascherai la mia delusione e annuii ad occhi bassi. Ero stanca di farmi illusioni.
«Oh, no… Dottore, vi prego di accomodarvi al piano di sopra, nella stanza di Esme. Avrete modo di lavorare con maggiore tranquillità», cinguettò mia madre e il dottor Cullen non poté fare altro che accettare.
Gli feci strada aprendogli la porta di legno della mia camera appena rassettata da Lorei, la nostra governante.
Entrò accennando un sorriso, e come quella volta in ospedale ebbe il potere di scaldarmi il cuore. Ero certa che le mie guance si fossero tinte di rosso, ma il vero imbarazzo mi attanagliò lo stomaco quando mi chiese di sdraiarmi sul letto e di alzare la gonna.
Lo feci, conscia del fatto che lui mi aveva già vista priva di vestiti e che mostrargli le gambe non doveva essere un problema.
La differenza ingente stava nel fatto che la prima volta ero completamente addormentata e comunque sedata dai farmaci, ma nella situazione in cui mi trovavo ora mi veniva terribilmente difficile non pensare a certe cose.
«Rilassatevi, e se vi faccio male non esitate a dirlo».
Le sue parole suonavano quasi automatiche, frasi fatte per rassicurare il paziente, e questo mi fece provare una punta di delusione.
Lo fissai come avevo fatto la prima volta e sorrisi dolcemente nel vedere che nulla dei miei ricordi era stato compromesso.
Era bello, sempre.
Nemmeno i medicinali erano riusciti a nascondere quell’abbacinante realtà.
Provai l’insormontabile impulso di toccarlo, ma prima che anche solo formulassi quel pensiero fu lui a toccare me.
Il senso di gelo che la sua mano trasmetteva alla mia gamba pervase tutto il mio corpo e non potei impedire ai brividi di percorrermi la schiena, lo stomaco, il petto… fin nella testa.
Lui se ne accorse perché sentì il bisogno di scusarsi: «Perdonatemi, non durerà molto».
Lo sapevo bene, ma non avrei lasciato che la consapevolezza mi rovinasse quel momento tanto atteso.
Assaporai ogni suo movimento che accompagnava il mio, il ginocchio che si piegava, che s’alzava lentamente sotto il suo tocco delicato. Sussultai appena quando spinse la gamba verso il mio petto: quell’esercizio richiedeva un’elasticità che non ero più stata in grado di recuperare.
«Scusate», ripeté allentando la pressione.
Allora mi accorsi che cercava di sfuggire al mio sguardo, quasi come se temesse di guardarmi negli occhi.
Sembrava… imbarazzato. E, se fosse stato possibile, la sua naturale bellezza si fece ancora più marcata.
Strani pensieri mi turbinavano in testa, cose che avrebbero fatto rabbrividire mia madre e che l’avrebbero portata a rinchiudermi in convento per il resto della vita.
Pensieri che sarebbero parsi più concreti se lui mi avesse guardato anche solo per un secondo, ma forse era proprio per quello che evitava il contatto.
«Bene», la sua voce scacciò all’istante quell’illusione. «Come pensavo, non avete avuto problemi a riprendervi. Consiglio comunque un ulteriore mese di fisioterapia, per sicurezza. Potete alzarvi».
Lentamente, lasciai scivolare le gambe giù dal letto e mi puntellai sui gomiti per issarmi a sedere. La vista mi si offuscò per qualche secondo e d’istinto mi portai una mano alla tempia.
«Oh…».
Finalmente i suoi occhi si puntarono su di me.
«Succede spesso?», mi domandò senza ulteriori spiegazioni.
«Io… Sì, beh… quando mi alzo velocemente».
«E questo da quanto?».
Ci pensai su.
«Uhm… da tre o quattro mesi, credo», risposi infine.
Il dottore annuì serio. La fronte aggrottata entrava in contrasto con lo sguardo benevolo, ma questo non comprometteva la perfezione del suo viso. Anzi, se possibile, la accentuava.
«L’operazione è stata causa di una vostra ingente perdita di sangue. Non vorrei che gli accorgimenti presi non siano bastati».
Le sue parole per me iniziavano a perdere di senso. Il calore che il suo tono manifestava mi attraeva in un modo quasi scandaloso.
«In ogni caso, ne parlerò con vostra madre», concluse e mi porse la mano.
L’accettai per godere ancora una volta della sua gentile essenza, e quando mi fui issata in piedi non riuscii a trovare la forza di ritrarmi.
Alzai lo sguardo, scrutai in quelle iridi color miele e con sgomento vi trovai un dolore represso, un sentimento che non sarei mai riuscita ad attribuirgli.
Cancellai dalla mia mente ogni cosa, ogni pensiero razionale che avrebbe potuto frenarmi.
Mi sollevai sulle punte dei piedi e poggiai le mie labbra sulle sue.
Il mio primo bacio, timido e incerto.
Non pensai a nulla, se non quanto avessi sognato quell’attimo, e quella fervida sensazione, cocente, confortante, terribilmente estranea ma così deliziosamente in equilibrio con quello che provavo per lui.
La sua totale immobilità non mi scoraggiò, anzi, la interpretai come una muta concessione, così gli posai le mani sul petto e corsi fino alle ampie spalle, indugiando sul suo profilo scultoreo.
Per un attimo sentii le sue braccia sollevarsi e cingermi la vita, la sua bocca si dischiuse appena, ma in quel momento tutto si infranse.
«No…», mormorò quasi disgustato. Si staccò da me e si voltò. Pareva sconvolto.
Un po’ interdetta per la sua reazione, mi feci coraggio e mi avvicinai di nuovo, posandogli una mano sulla spalla.
«Che succede?», gli domandai dandomi subito della stupida per la mia idiozia.
Si divincolò ancora, ma questa volta si girò per guardarmi negli occhi.
Ebbi quasi un sussulto. Le sue iridi non erano più di quel dolce color oro fuso, ma di un nero profondo e agghiacciante.
«State… state bene?».
«Perché l’avete fatto?».
La sua voce aveva in parte abbandonato quel tono amabile, trasformandosi in un roco sussurro.
«Io…». L’imbarazzo tornò repentino, questa volta bruciandomi il viso. «Perché io vi…».
«Non lo dite, Esme, ve ne prego», mi zittì, ma lo vidi pian piano riprendere il controllo della situazione.
«Voi siete giovane, desiderosa di nuove esperienze, ma non è in me che troverete quello che cercate», parlò come se si fosse aspettato ciò che poco prima era successo.
«Sbagliate, io…».
«No, Esme, no. Ascoltatemi, per il vostro bene. Il capitano Evenson è un uomo rispettabile, e lui saprà regalarvi una vita da vera signora. Non gettate all’aria quest’opportunità per un falso sentimento».
L’ultima cosa che desideravo era un’altra persona che mi dicesse cosa per me era più giusto.
Scacciai le lacrime minacciose.
«Quello che mi dite l’ho già sentito troppe volte, fino alla nausea! Per la prima volta nella mia vita ho fatto qualcosa che non fosse dovuto o ordinato, ma semplicemente voluto. Desiderato da me. Perché date per scontato che ciò che provo per voi sia solo illusione?».
Avrei tanto voluto urlare quelle parole, ma non potevo rischiare che Lorei o mia madre cogliessero quella conversazione. Sarebbe stata la fine per me e per la carriera del dottor Cullen.
«L’illusione non siete voi, ma io. Sono un uomo di trent’anni che trascorre la sua vita ad occuparsi di malati. Salvo vite tutti i giorni e ognuna di queste persone mi sono riconoscenti. Voi confondete l’amore con la gratitudine», disse con un sorriso accondiscende, quasi a volermi convincere.
Scossi la testa ripetutamente.
«Carlisle, voi non capite! Da quel giorno in ospedale non ho fatto altro che pensarvi, attendendo ogni giorno questo momento, di riprovare ancora quelle emozioni che solo voi siete riuscito a trasmettermi. Con il capitano non è nulla più che amicizia, credetemi».
Ora fu lui a scuotere la testa.
«Esme, la realtà è più complessa di quel che pensate. Anche se ricambiassi i vostri sentimenti non sarebbe possibile arrivare ad un qualcosa di concreto», mi fece notare avvicinandosi e stringendomi le mani, come a pregarmi di comprendere le sue parole.
«E perché mai?».
Sospirò.
«Ho un figlio, Esme».
«Dunque?».
«Ha la vostra età», ritentò.
«So come trattare con i miei coetanei, e comunque so per certo che non è di sangue. Edward è vostro figlio adottivo».
«Perché non riuscite a comprendere la mia situazione? Sì, ho adottato Edward, e l’ho fatto con l’intenzione di potergli dare una madre un giorno, non una compagna di giochi».
Quella frase mi trafisse il petto da parte a parte. Ormai non c’era più motivo di trattenere le lacrime.
Carlisle Cullen mi considerava una ragazzina, una bambina da accudire perché non ancora pronta alla vita. E ciò bastava a farmi crollare il mondo addosso.
«Mi dispiace, Esme, che sia stato proprio io a procurarvi tanto male al cuore», disse per consolarmi.
No, non ci potevo credere. Non era illusione, non lo era!
«Voi mentite», mormorai abbassando lo sguardo.
«Posso assicurarvi che nulla potrebbe darmi più dolore delle vostre lacrime», ripeté con più convinzione.
«No, voi mentite a voi stesso. Voi vi state illudendo, non io».
Ero disperata, forse solo perché non ero pronta ad accettare una porta in faccia, eppure sentivo che le sue erano solamente semplici scuse. Non avrei dovuto essere così insistente, ma il pensiero di rinunciare a lui era troppo amaro, e decisi di non volerlo nemmeno prendere in considerazione.
«Vi prego, non dite queste cose. Rendete la mia posizione ancora più scomoda di quanto già non sia…».
«Ammettetelo, almeno! Confessate i vostri sentimenti, quelli veri che tentate di nascondere, e siate fedele al vostro cuore. Allora forse capirò le vostre ragioni, ma solo dopo aver letto la verità nei vostri occhi».
«Conoscete già la verità».
«Non sembrava la pensaste così dieci minuti fa», sentenziai, continuando a fissarlo.
La sua espressione sembrò vacillare, ma solo per un momento. Tuttavia, il silenzio piombò nella stanza come a evidenziare la veridicità delle mie parole e rese certe tutte le ambiguità.
Se ne accorse anche lui. Si voltò e frettolosamente ritirò le sue scartoffie nella valigetta.
Mi sovrastò una paura immensa e quasi mi maledissi per aver agito così sconsideratamente.
Non volevo che se ne andasse, non l’avrei sopportato. Non volevo perderlo, non un’altra volta. Non era così che doveva finire…
«Avete provato esattamente quello che ho provato io in quel bacio, non è vero?», cercai di riportarlo alla conversazione, ma sembrava che non mi volesse nemmeno ascoltare.
Continuava a darmi le spalle.
«È stato quello che vi ha trattenuto, il motivo per cui non avete avuto la forza di divincolarvi subito…».
Finalmente si girò, sospirò nel guardarmi.
Mi si avvicinò con un passo, mi posò la sua mano gelida sulla guancia e mi diede un rapido bacio sulla fronte. Quello bastò a farmi sentire una bambina al suo confronto. Non l’adulta che tutti credevano, ma una bambina.
Lui, almeno, mi vedeva come tale, ed era quasi ironico il fatto che fosse davvero l’unica persona a cui io volevo apparire come una donna. Ma forse non lo ero.
«Addio, Esme. È stato un piacere avervi conosciuto».
Mi oltrepassò, bloccandosi appena prima di aprire la porta.
«Davvero». E se ne andò.
Rimasi immobile, al centro della stanza, a versare lacrime silenziose, ascoltando il rumore dei suoi passi sul parquet che si facevano sempre più lontani, distanti, inesistenti.
Mi avvicinai alla finestra e lo vidi camminare a passi svelti sul lato della strada ciottolata, le spalle incurvate e l’ombrello a ripararlo dalla pioggia.
Una malevola consapevolezza, una voce interiore mi sussurrò tristemente che quella era la fine del capitolo Cullen, un libro compianto che svaniva come il resto della mia vita.
Niente di più vero c’era in quella riflessione.
Quel ricordo mi perseguitava ancora, scritto a lettere incancellabili su quel vecchio diario che riesumai dallo scaffale due anni dopo.
Scrutando la strada dalla mia camera, potevo ancora vederlo, e chiudere gli occhi non serviva perché le immagini di quel giorno aggredivano la mia mente, graffiandola fino a farla sanguinare.
Così piansi ancora, sfogandomi senza mai provare soddisfazione.
Carlisle si era sbagliato, non era illusione. Non avevo mai smesso di desiderarlo.
Ma ormai quel che era stato faceva parte del passato perché lui se n’era andato. Lo venni a sapere pochi giorni dopo. Dicevano avesse chiesto il trasferimento in un ospedale a nord, ma nessuno sapeva precisamente dove.
Dal suo addio non ero più riuscita a tornare la Esme solare di prima. Passavo le mie giornate in casa, sorridevo per convenzione, e fingevo.
«Esme, mi concedereste l’onore di farvi mia sposa?».
«Sì, Charles. Sarò vostra moglie».
Finsi.





Rosa blu










Sono tornata, come promesso, con il terzo capitolo :)
La Meyer non parla assolutamente di questa discussione avvenuta tra i protagonisti, ma mi piaceva l'idea, quindi l'ho inserita di mia sana pianta xD
Spero vi abbia emozionato *-* Personalmente, a distanza di tempo l'ho riletto e mi batteva forte il cuoricino xD Ma solo per la nostalgia... in fondo, l'avevo scritto tempo fa, mi emoziona leggere i miei vecchi scritti :)  Purtroppo questo mi impedisce di essere oggettiva, quindi spero lo sarete voi per me, con le vostre recensioni :)
Il prossimo capitolo è in fase di elaborazione, spero di riuscire a pubblicarlo presto :) Sono anni che è in fase di lavorazione, ormai xD Non so perché, ma l'ho trovato molto difficile da scrivere o.o  Tranquille, comunque xD Presto sarà online ^^

Un bacio!


Ne approfitto per ricordarvi l'altra mia long-fic su Twilight.


Infantility
Fiction molto dura, ambientata durante le vicende di Eclipse e, in seguito, di Breaking Dawn. Non si tratta della solita storia sdolcinata, piena di amore e problemi di coppia. No, questa storia vuole ritrarre qualcosa di doloroso, di cupo e drammatico. Qualcosa di immutabile. Qualcosa che la Meyer ha giusto accennato e qualcosa di cui molti di noi si sono dimenticati.
Ci sarà passione, delusione, gelosia, rabbia e malinconia. Ci saranno lacrime, ferite, ricordi dolorosi, tradimenti.
E ci sarà lei, l’innocenza e la morte. La piccola, dolce, spietata Meredith.
Certe cose sono fatte per andare e venire, il tempo è fatto per essere passato, presente e futuro, altrimenti nulla avrebbe più davvero senso. Ma la verità è che il cambiamento era un privilegio che ci era negato e vivere iniziava a perdere di significato.
Ecco perché ci trovavamo sul tetto di un palazzo, quella notte. Stavamo dando un senso a ciò che eravamo.
Questa fanfiction si preoccupa di sensibilizzare il lettore, in maniera metaforica, sugli aspetti di una rara malattia psicosomatica: l’infantilismo.







Hilary




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Capitolo 4
*** Passato III ***







Carlisle and Esme









Missing Memories









Passato III









«Mrs. Evenson, va bene così?», mi chiese la piccola Charlotte, avvicinandosi alla cattedra.
Guardai il cartoncino che mi porse. Il Babbo Natale che le avevo disegnato ora era tutto colorato, con la cintura decorata da tanti piccoli chicchi di caffè e la folta barba resa più vaporosa da batuffolini di cotone. Era così buffo!
«È perfetto, Charlotte. Sei stata davvero brava», mi congratulai per il lavoro che aveva fatto. «Questo va subito appeso!».
Sorrideva, felice del mio responso positivo.
Insieme, attaccammo un nastrino rosso sul retro del foglio, poi glielo restituii. «Ecco fatto».
Mi alzai dalla sedia e la seguii mentre i suoi saltelli entusiasti facevano svolazzare il suo bel grembiulino.
Con estrema precisione, quella di una bimba a modo, sistemò il cordoncino attorno a uno dei rametti del giovane pino che avevo portato in classe una settimana prima.
«Che bello. Avete visto, bambini? Il nostro alberello di natale ora è più colorato di quello della piazza!».
I miei quattordici alunni batterono le mani ed esultarono.
«Però non ci sono i regali!», fece notare Anthony.
Lo guardai e sorrisi della sua espressione innocente. «Beh, Babbo Natale non è ancora passato, ma ho saputo che ha letto tutte le letterine che gli abbiamo spedito la scorsa settimana. Gli sono piaciute così tanto che mi ha pregato di ringraziarvi con un pacchettino extra».
Mentre prendevo la sacca dal vecchio armadio a muro, udii tanti “oh” di stupore alle mie spalle.
«Allora, cosa state aspettando? Me li tengo tutti io, eh!», li incitai scherzosamente e subito tutti si precipitarono intorno a me.
La Casa del Dolciume del signor Leeroy era una meta ambita da molti di loro mentre giravano per il centro città mano nella mano con le mamme, ma le barrette di cioccolato costavano un’esagerazione per colpa della crisi che già si faceva sentire nella povera Columbus.
Ne feci impacchettare quindici quella mattina, per i miei allievi e per il figlio della mia amica Bernice.
La campanella suonò e tutti iniziarono a ritirare le loro cose nelle cartelle, e anche io feci lo stesso.
«A domani, Mrs. Evenson!», mi salutarono in coro.
«A domani, bambini».
Guardai fuori dalla finestra. La neve ricopriva le vie e non sarebbe tardato molto prima di vedere la seconda gelata invernale. Mi infilai il cappotto e strinsi bene la sciarpa di lana intorno al collo, preparandomi al terribile sbalzo termico.
«Mrs. Evenson…».
Mi voltai notando che la piccola Janette mi si stava avvicinando rossa in viso.
«Dimmi, Janette. Cosa c’è che non va?», le chiesi preoccupata, posandole una mano sulla spalla e inginocchiandomi alla sua altezza.
«Niente, Mrs. Volevo solo darle questo. È il mio regalo per lei», disse porgendomi un biglietto ripiegato.
Lo aprii lentamente, con la paura di stropicciarlo o rovinarlo in qualche modo.
Al suo interno vi era scritta a mano, con una calligrafia infantile, una semplice filastrocca:

Splendi nella notte
stella bianca, stella d'amore.
Splendi su di noi
e una speranza cresce nel cuore.
Ti viene la voglia di sognare
per volare lassù, dove vivi tu.
Tu, stella di Natale,
stella di Natale portaci la pace
e lascia un po' della tua luce dentro di noi.
Stella di Natale,
resta un po' di più...
fermati lassù!


«Me la canta sempre la mia mamma la vigilia di Natale, prima che mi addormenti. A me piace tanto e pensavo che anche a lei e a suo marito potesse piacere».
Io… non sapevo cosa dire. Il boccone che mandai giù in quel momento era più dolce del cioccolato.
«Janette, è bellissimo, davvero. Sarà il regalo più bello sotto l’albero, quest’anno».
Il suo sorriso valse più di mille parole.
«Grazie».
Dio solo sapeva quanto amavo trascorrere le mattinate con loro, i miei studenti, i miei bambini. Era una soddisfazione infinita.
La loro innocenza, la semplicità con cui si esprimevano era una gioia ai miei occhi. Mi sentivo parte di loro. E forse un po’ lo ero davvero.
Mi rialzai e incurvai le labbra tremanti, ricacciando le lacrime di contentezza che premevano per sgorgare. Non potevo farmi vedere in quello stato… Non da insegnante, almeno.
Le presi la mano e la accompagnai fino all’uscita della scuola, dove mi salutò spensierata. «Arrivederci, Mrs. Evenson!».
Sospirai.
Erano appena le quattro del pomeriggio, ma per me la giornata era già giunta al termine.
Avrei tanto voluto poter tornare a casa e assopirmi fino al giorno dopo, quando l’istituto riapriva i battenti e io potevo di nuovo stare con i miei bambini. Sì, sarebbe stato bello, ma, come ogni volta, sapevo che non sarebbe stato così facile. Il tempo in solitudine non passava mai e io rischiavo di impazzire rinchiusa entro quelle quattro mura che erano la villa di mio marito.
Sempre, sempre… sempre da sola.
Una ventata d’aria gelida mi costrinse ad infilare le mani in tasca e a stringermi meglio che potevo nel cappotto, poi m’incamminai abbassando un poco la testa per proteggere il naso nel morbido tessuto di lana.

«Esme!», urlò Bernice dalla contentezza. «Oh, Esme… quanto mi sei mancata!». Mi abbracciò come se non mi vedesse da una vita.
Risi della sua genuinità e la assecondai.
«Bernice, dai… sono passati solo pochi mesi…».
Mi liberò dalla sua formidabile stretta impazzita e mi guardò sorridendo, con un finto cipiglio. «Che fine hai fatto, si può sapere? Cosa ti ha tenuta così impegnata da non avere più tempo per la tua migliore amica?».
«Oh, beh…».
Mi fece accomodare in soggiorno, una piccola stanzetta accogliente dalle assi di parquet cigolanti e mobili in legno di scarsa qualità.
Mi sedetti sul divano un po’ malconcio e cercai di trovare una scusa per rispondere alla sua domanda.
«Sai… il lavoro, la casa, le cose di tutti i giorni…».
Non ero molto brava a mentire. Poi, a Bernice era difficile darla a bere.
«Anche io ho di queste faccende da sbrigare… e il bambino, naturalmente. Tuttavia, riesco sempre a trovare del tempo per me stessa e le mie amiche. Tu dovresti fare lo stesso, Esme».
Già… forse avrei dovuto farlo anche io.
Il mio fu un sospiro impercettibile. Ero andata a trovarla per sfuggire alla mia vita per qualche minuto, e non avevo alcuna voglia di sentire ramanzine.
«Oh, giusto! Dov’è il piccolo David? Ero passata per dargli un pensierino», dissi tentando di cambiare discorso.
Lo sbuffo concitato di Bernice mi fece capire che non aveva gradito i miei modi evasivi. «È da mia madre in questi giorni. Sotto le feste il lavoro si è triplicato e cerchiamo di mantenerci attivi per sbaragliare la concorrenza».
Camminò scocciata fino in cucina.
«Vuoi un tè?», mi chiese.
Sospirai. «No, grazie».
Tornò poco dopo con un bicchiere di vino in mano, si sedette sulla sedia di legno davanti a me e ne bevve un sorso.
Piombò il silenzio.
Era incredibile. Non la vedevo solo da qualche mese e già la nostra amicizia si stava sgretolando.
Non ci potevo credere. Non ci volevo credere!
Possibile che non avevamo nulla da raccontarci dopo tutto questo tempo?
«E Robert?», le domandai del marito, il panettiere.
Bernice scrollò le spalle. «Come ti ho detto, siamo tutti e due molto impegnati con il negozio. E con l’arrivo di David, beh…». Sospirò. «Diciamo che le cose tra noi si sono un po’ smorzate».
Nemmeno la vita di Bernice era come l’aveva sognata da ragazzina. Forse, nessuna donna di quell’epoca poteva semplicemente permettersi di sognare. Io lo sapevo bene.
«Il tuo Charles, invece?», chiese.
Abbassai lo sguardo. Non ci volevo pensare.
«È ancora al fronte», mormorai a fil di voce.
Bernice sussultò dalla vergogna. «Oh, Dio… Esme, non volevo, non ricordavo che…». Si alzò dalla sedia e venne a sedersi accanto a me. Mi prese le mani tra le sue, cercando di confortarmi.
«Tornerà presto, vedrai!», mi rassicurò. «Sano e salvo».
Non aveva capito. Nessuno mi poteva capire. Ma così doveva essere.
Continuavo a fingere. E la finzione stava iniziando ad essere la mia realtà, insieme a quella di tutti gli altri.
La piccola Esme che c’era dentro di me, quella bambina piena di sogni e speranze, stava a poco a poco svanendo, e Mrs. Evenson stava prendendo il suo posto.
Lasciai casa Collins pregando che le parole di Bernice non si avverassero.







Rosa blu










Eccomi con il terzo capitolo tratto dal passato :)
Perdonatemi, lo so che non è così entusiasmante... ma era estremamente necessario.
Secondo la Meyer, Esme riesce a coronare il suo sogno di diventare insegnante solo dopo che scappa da Columbus, ma ho voluto apportare questa piccola (grande xD) modifica per dare più senso alla mia trama, che comunque non si vuole distaccare troppo dai fatti nudi e crudi che la nostra cara Stephenie ci ha fornito :)
Vi prometto che il prossimo capitolo sarà mooooooolto più interessante xD Oh, sì... decisamente! Preparate i fazzolettini, care lettrici *.*
Ah, chiedo scusa se a qualcuna di voi ho detto che non avrei pubblicato questa settimana... Purtroppo, la vacanza è saltata, quindi... q.q Beh, scrivere mi risolleva :)


Importante: forse molte di voi si aspettavano che parlassi del matrimonio di Esme, piuttosto che saltare subito a qualche anno dopo :) Non disperatevi, mai avrei voluto deludervi xD Diciamo solo che ho voluto prendere due piccioni con una fava, quindi... vi ho preparato un extra xD Fa sempre parte di questa storia, ma l'ho pubblicata a parte come One-shot ^^ Perché? Beh, perché descrive la scena del matrimonio di Esme dal punto di vista di Carlisle xD Spero vi piaccia, io ho letteralmente amato scriverla ^^'
Senza ulteriori indugi, a questo link troverete la storia ^^ Posso aspettarmi qualche commentino? ^^


Un bacio!






Hilary




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Capitolo 5
*** Passato IV ***







Carlisle and Esme









Missing Memories









Passato IV









Tornai a casa a piedi, infradiciandomi gli stivaletti e l’orlo del mio lungo cappotto, ma non me ne curai granché.
Nonostante fosse un po’ spostata dal centro do Columbus, e piuttosto isolata, raggiunsi villa Evenson prima che il sole dicembrino tramontasse.
Non avevo alcuna voglia di rinchiudermi di nuovo fra quelle quattro, sontuose mura, così in contrasto con l’idea semplice e familiare che avevo del concetto di “casa”, eppure vi ero costretta da quel mostro di consuetudini che chiamavano società.
Erano mesi, ormai, che ignoravo le voci che giravano sul mio conto in città, ma la situazione stava diventando insostenibile. La gente non faceva altro che giudicarmi, etichettandomi come una pazza che aveva dimenticato il suo posto nel mondo, come donna e come moglie, e, anche se non avevo nulla di cui scusarmi, desideravo farli tacere, quindi, mio malgrado, dovevo continuare la mia vita in quell’orrenda casa, da brava mogliettina che attende preoccupata il ritorno del marito dalla trincea.
Era maligno come pensiero, lo so, ma, nonostante fossi sfavorevole agli scontri e alla violenza, per una volta bramai che quella maledetta guerra durasse per il resto della mia vita, o almeno per un decennio, o addirittura… la sua, di fine. Non chiedevo molto, dopotutto.
Scossi la testa e mi trascinai fin sul portico, trafficando nella borsa in cerca delle chiavi.
Non c’era nessuno ad accogliermi al mio ritorno, nemmeno la governante, che mi ero premurata di congedare dai suoi oneri settimane addietro. La sua presenza era diventata soffocante per me, così preferii crogiolarmi nella beata solitudine e vivere finalmente come avevo sempre sognato. Libera, o quasi.
Casa Evenson era piuttosto grande e impegnativa da tenere in ordine, ma pulire incessantemente non mi disturbava affatto. Anzi, riusciva a tenermi occupata la mente e, di conseguenza, a farmi stare meglio, anche se solo un poco.
Infilai la chiave nella serratura e cercai di dargli la mandata per farla scattare, ma non accadde nulla. Indispettita da quel fuori programma, afferrai il pomello per forzarlo, ma non fece resistenza. La porta si aprì con un mio sussulto.
Restai immobile, spaventata.
Ero certa di averla chiusa quella mattina. Sicurissima.
Un ladro, pensai.
Era stupida come supposizione, ma non avevo nessun’altra spiegazione per quello. Un malvivente avrebbe scardinato la porta, non l’avrebbe aperta così meticolosamente bene.
Accantonai quella riflessione afferrando il mio ombrello con entrambe le mani, saldamente, ed entrai.
Strisciai contro il muro dell’entrata lentamente, senza fare rumore, guardandomi intorno. Tutto era perfettamente in ordine, lasciandomi ancora più confusa. I vasi di porcellana c’erano ancora, mentre un rapinatore li avrebbe quasi certamente portati via per rivenderli al mercato ad un buon prezzo. Erano di valore, eppure erano lì, integri.
Nel cassettone in camera mia tenevo i miei gioielli e non potevo sapere se erano spariti o meno, ma a quel punto ne dubitavo.
Mi passai una mano sulla fronte, rilassando i muscoli. Stavo impazzendo.
Da sola, denigrata persino dalla mia stessa famiglia, in quella prigione nobile e imperiosa, stavo perdendo il senso di me stessa. La scuola era l’unica cosa che ancora mi teneva ancorata al presente, il resto era nulla.
Sussultai. Un rumore metallico, dal salotto.
Imposi alle mie mani di non tremare rinserrando la presa sul manico dell’ombrello. C’era qualcuno.
Tutti i pensieri scemarono dalla mia mente, svuotandomi, mentre un sudore freddo mi pervase tutto il corpo. Non ero in grado di combattere, né tantomeno di respingere un assalitore, ma che altro avrei potuto fare? Quella era casa mia e, per quanto la odiassi, ci vivevo ancora. Vivere nel terrore, sola com’era, non mi era concesso.
Respirai profondamente, silenziosa, e mi avvicinai alla stanza attigua con cautela, nascosta solo da un muro bianco e spoglio, ma abbastanza da oscurarmi alla vista dell’intruso.
Come avrei agito, non lo sapevo. Qualsiasi azione sembrava troppo pericolosa e avventata. Senza sapere con esattezza dove si trovasse ― il salotto era piuttosto grande e arredato ―, mi era impossibile progettare un assalto. Se avesse avuto un fucile, poi, non avrei nemmeno avuto il tempo di raggiungerlo. Sarei morta.
A quel pensiero avvertii una curiosa e insolita tranquillità. Mi fece stare… bene. O forse era soltanto semplice apatia. Ormai tutto mi rendeva indifferente, persino l’idea di morire.
Strinsi le dita attorno all’arma di legno improvvisata, portandola in alto, pronta a compiere quel gesto. Quale fosse non lo sapevo neanche io, in realtà, ma ero pronta a farlo comunque.
«Hai il respiro così pesante che ti si sente dall’ingresso, tesoro».
Fui scossa all’istante da un formicolio bollente che mi prese alla testa e mi scese fino al petto, come se di colpo l’aria si fosse fatta pesante e l’eccessiva pressione mi avesse schiacciato dall’interno. Era bastata quella sola voce, improvvisa, inaspettata, molesta. Odiata.
Quei mesi di silenzio non erano bastati a farmela dimenticare. Era tornata, ed era reale.
Non sapevo che fare, se lasciar cadere l’ombrello ai miei piedi e sorridere o se stringerlo convulsamente tra le mani tremanti. Non dissi nulla, immobile, il respiro trattenuto, ancora con la schiena appoggiata a quel muro che mi separava da lui. Solo di poco. Troppo poco.
«Vieni qui, figlia dell’imprenditore, e accogli tuo marito come si converrebbe», mi ordinò con tono duro e autorevole. Mi chiamava sempre così quando voleva canzonarmi, figlia dell’imprenditore, ricordandomi che di fatto non ero nessuno. Io non ero Esme, ma la figlia di mio padre, la moglie del capitano Evenson. Non avevo mai avuto un’identità che fosse solo mia e che non dipendesse da altri. Speravo di poterla ottenere un giorno, anche “la maestra” mi sarebbe andato bene, ma in quel momento mi resi conto di quanto tutto fosse stato soltanto una mera illusione.
Oh, piccola Esme… sciocca Esme!
Lasciai che l’ombrello mi scivolasse dalle mani e cadesse a terra, sbattendo sul tappeto con un tonfo silenzioso. Il mio sguardo si abbassò quasi automaticamente, le spalle si incurvarono un poco. Staccai la schiena dal muro ed entrai in salotto, lentamente, sbirciando la sua figura austera accanto al camino che a sua volta mi fissava con un ghigno che significava tutt’altro che un semplice sorriso sghembo. Non avevo ancora imparato a decifrare quell’espressione o, più banalmente, l’avevo intenzionalmente rimossa dalla mia testa.
«Bentornato, Charles», mormorai soltanto. Perché era rincasato così, da un giorno all’altro, senza avvertire? La guerra era finita? Non ci eravamo scritti nessuna lettera in quei mesi, ma il suo rientro in città avrebbe dovuto essere sulla bocca di tutti da giorni! Per quale motivo usare una tale riservatezza?
«Dov’è finita la governante, Esme? E il resto della servitù?», mi domandò serio. La sua mano faceva ondeggiare freneticamente un bicchiere di scotch. «Dove sono finiti tutti? Hanno scelto di andarsene, in mancanza del padrone?».
Scossi la testa, incapace di aprire bocca. L’aria s’era improvvisamente fatta opprimente e così, senza nulla a dividermi da lui, mi sentivo terribilmente fragile e spoglia.
Quando mi si avvicinò di un passo, dovetti reprimere l’istinto di indietreggiare. Forse avrei semplicemente dovuto voltarmi e correre via, ma avevo troppa paura per farlo. Ogni parola, ogni gesto poco calibrato avrebbe potuto provocarlo e scatenargli reazioni a cui non volevo partecipare. Dovevo stare attenta, lo sapevo, ma avevo la sensazione che questa volta qualcosa fosse già scattato.
«E tu dov’eri, bambina sventata?».
Rimasi in silenzio, inghiottendo l’insulto e mantenendo uno sguardo basso e sottomesso. Non avrebbe approvato una simile emancipazione da parte mia. In città, davano la colpa di tutto a lui, al marito, incapace di tenere la moglie tra le briglie. Se solo avesse saputo, mi avrebbe spedita dritta all’inferno.
In un attimo il suo umore apparentemente calmo mutò. Scagliò il bicchiere contro la parete alle mie spalle, frantumandolo in mille pezzi, facendomi trasalire dallo spavento e tremare da quello che sarebbe potuto succedere di lì a poco.
Mi afferrò le braccia con entrambe le mani, scuotendomi rabbiosamente.
«Rispondi!». Mi fiatò a pochi centimetri dal viso, nauseandomi con l’odore di alcol e di sigaro.
«Io… io ero da Bernice. L’aiuto con il bambino…».
Mi lasciò così bruscamente da farmi vacillare, ridendo.
«Oh, Esme… disobbediente e pure bugiarda me la sono sposata!», esclamò con tono beffardo. «La giovane maestrina!».
Non mostrai nessuno sgomento a quell’affermazione, ma ero terrorizzata. Come l’aveva scoperto, se era tornato solo da qualche ora? Poi pensai che forse si trovava già a Columbus da giorni, nella tenuta di campagna del padre, e che avesse avuto tutto il tempo per informarsi delle mie scelleratezze. Maledizione!
«Hai licenziato la mia servitù, e con quale diritto? Hai lasciato che la mia stalla cadesse in rovina e hai provato a fare lo stesso con la mia casa!». Si avvicinò di nuovo, stringendomi le braccia più forte di prima. «Quante libertà ti sei presa in mia assenza? Sentiamo, cosa insegni ai tuoi piccoli e ingenui allievi? Ad essere dei ribelli come te, dei pazzi ingrati?», urlò rabbioso.
Mi spinse con tutta la sua forza, facendomi cadere rovinosamente sul duro parquet. La disperazione aveva preso il soppravvento sulla paura, schiacciandomi ancora una volta nell’umiltà più assoluta.
Non potevo fare niente. Subivo e basta, sperando ogni volta che si stancasse il più in fretta possibile.
I pianti lo facevano infuriare ancora di più, ma non riuscii a trattenermi. Soffocai un gemito, mentre le lacrime iniziavano a rigarmi il volto silenziose, anch’esse sottomesse da quella spaventosa figura che mi fissava dall’alto.
Si chinò su di me, sopraffacendomi col suo peso, e mi afferrò per i gomiti. Non feci resistenza, scongiurando almeno una violenza fisica peggiore. Ormai avevo imparato a capire cosa voleva, almeno un poco.
«Mi prendo anch’io queste libertà, ora. Che ne pensi, moglie? Voglio essere un pazzo proprio come hai voluto esserlo tu. Vediamo se così ti piace!».
Piansi, perché già sapevo cosa mi avrebbe fatto. Piansi per dolore, per vergogna, per umiliazione. Piansi perché avrei desiderato morire, prima di indossare quell’abito bianco o quello stesso giorno, sotto le sue mani rudi e volgari. Non mi importava più.
«Fammi vedere, Esme! Fammi vedere cosa insegni a quei mocciosi!».
Mi sollevò la gonna con rabbia e mi strappò via i collant, prendendomi a forza, facendomi male, spingendosi dentro di me con tutta la furia che aveva in corpo.
Non ero più Esme, ma una bambola incapace di muoversi o di reagire quando viene malamente sbattuta su un ripiano della camera. Resta zitta, ancora sorridente e la bocca rosea, ma con gli occhi perennemente lucidi.
Giurai in quel momento di soffocare ogni mio istinto. Di non amare, né essere mai amata; di non avere pietà e di non essere mai compatita; di non sposarmi e di non essere mai data in sposa, finché non fosse giunta la fine.
Se avevo già contratto matrimonio, solo loro me l’avrebbero rinfacciato. Dio sapeva fin dall’inizio che i miei voti non avevano alcun significato per il mio cuore, e non mi avrebbe punito per essere stata sincera con lui e con me stessa. No, mi avrebbe dato una seconda possibilità, alla fine.
E se non me l’avesse data, me la sarei concessa da sola. Alla fine.







Rosa blu










Buongiorno, fanciulle e fanciulli!
Lo so, mi devo vergognare. Non aggiorno questa storia da luglio o.o Non è ammissibile un'attesa del genere!
Purtroppo, ragazze, scuse a parte, si scrive quando si ha tempo e soprattutto quando si ha ispirazione q.q E spesso non basta.
Non sono granché soddisfatta di questo capitolo, ma era esattamente ciò che dovevo dire, niente di più niente di meno. Il rating è arancione, quindi non potevo esagerare con la violenza ^^' E francamente non volevo. Insomma, questa storia è narrata da Esme per vari motivi, tra cui la dolcezza che il personagio mi ispira. Di certo non potevo essere troppo volgare, perché Esme non lo sarebbe mai stata. Beh, avete letto quello che ne è uscito, e spero che vi abbia soddisfatto :)

Vi invito a leggere l'extra di Missing Memories, Angelo Bianco, che racconta del matrimonio di Esme dal punto di vista di Carlisle, vincitore del premio Cuore, per la storia d'amore più bella, e del premio Lacrima, per la storia più commovente. Ringrazio il giudice del contest, sweetPotterina, per aver assegnato i bannerini personalizzati che troverete postati all'inizio della one-shot :)


Un bacio!






Hilary




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Capitolo 6
*** Passato V ***







Carlisle and Esme









Missing Memories









Passato V









Esme Ann Platt Evenson, così mi chiamavo.
Ero nata da una famiglia benestante, avevo avuto una buona educazione e infine mi ero maritata, come si conveniva ad ogni donna che meritasse rispetto.
Avevo contratto il matrimonio con uno degli scapoli più ambiti di Columbus, un capitano dell’esercito americano, un partito invidiabile a quei tempi. Tempi che ormai erano finiti, almeno per me.
Il treno su cui ero salita era partito da qualche minuto, e ogni miglio che metteva fra me e quel posto che ricordavo di aver tanto amato cancellava lentamente ciò che ero stata, per sempre.
Mi lasciavo alle spalle una vita di obbedienza, di rinuncia e rassegnazione, di umiliazione, di rabbia repressa e di pianti soffocati. Guardavo il mio passato scorrere dal finestrino di una carrozza della seconda classe e mi accorsi di non provare niente. Non ero triste, né malinconica, né arrabbiata, e nemmeno felice. Non ero nulla.
Esme si stava spegnendo dentro di me, e con lei morivano tutti i suoi dolori.
Che tu possa riposare in pace, piccola bambina innocente.


Anne Elisabeth O’Malley, così mi chiamavo, ed era l’unica cosa che sapevo di me. Forse avevo delle origini irlandesi, ma era solo una supposizione.
Orfana, nessun parente, nessun amico. Non avevo una casa, non avevo un lavoro, ma solo qualche spicciolo per poter cominciare ad essere qualcuno.
Ero a bordo di un treno che non aveva una destinazione precisa. Viaggiava verso nord, sapevo solo questo, e sinceramente non mi serviva sapere altro.
Solo di due cose ero certa. La prima, che il viaggio sarebbe durato a lungo, perché avevo intenzione di scendere ad una fermata lontana, molto lontana. La seconda, che ero incinta.
L’avevo scoperto da poco, qualche giorno appena, ma sicuramente il bambino cresceva dentro di me già da un paio di mesi. Se me ne stavo andando da quella città, lo dovevo soprattutto a lui. Era la mia piccola benedizione.
Se qualcuno mi avesse chiesto del padre, avrei risposto che non ce n’era mai stato uno.
Sapevo che le ragazze madri non erano granché ben viste nella società Occidentale, ma poco mi importava sinceramente. Non avevo bisogno dell’approvazione di nessuno.
Saremo stati soltanto lui e io, e ci saremo trovati bene, ne ero sicura.
Finalmente avrei avuto l’amore che avevo sempre desiderato.
Finalmente avrei potuto essere me stessa.
Finalmente, avrei iniziato a vivere.


Io, Anne Elisabeth, o più comunemente chiamata Lisetta, tipico nome della bassa estrazione sociale, avevo avuto un passato che cercavo di insabbiare con tutte le mie forze.
A ricordarmelo però non fu la nostalgia, la lontananza dalla mia terra natia, bensì l’unica cosa, l’unico oggetto dal quale non avevo avuto il coraggio di separarmi.
Oh, non era affatto la fede nuziale! Quella fu la prima cosa da cui presi le distanze, ancor prima di gettarla fisicamente dalla finestra della mia prigione.
No, quello che ora stringevo fra le mani era un vecchio quaderno sgualcito, il mio diario degli anni della mia adolescenza, quando ancora la piccola Esme nutriva dei sogni e delle speranze.
L’avevo riletto durante il viaggio, con calma, versando qualche lacrima, provando compassione per ciò che ero stata, per ciò che avevo dovuto essere, e desiderando solo per un momento di poter tornare bambina e rivivere quei pochi attimi in cui mi ero davvero sentita felice.
Carlisle…
Oh, quand’ero giovane ero rimasta affascinata da quell’uomo in una maniera che persino ora faticavo a descrivere! Ricordavo di averlo amato, di averlo desiderato, di aver sognato un futuro insieme a lui… almeno finché non si trasferì, senza dire a nessuno dove o perché.
Ancora non so se lo fece per causa mia o per i suoi interessi, fatto sta che mi spezzò il cuore e mi privò dell’unica cosa per cui ancora potevo sorridere.
Nonostante questo, non sono mai riuscita a fargliene una vera colpa. Per me, Carlisle è sempre rimasto l’uomo più buono e gentile che abbia mai conosciuto, e se mai fosse nato un maschio da questa mia gravidanza, avrei voluto che fosse proprio come lui.
Sì, l’avrei educato come se fosse stato davvero figlio suo, così avrebbe potuto crescere e rendere felice una fortunata giovane donna, una ragazza sognatrice come lo ero stata io.
Carlisle. L’avrei chiamato così, se fosse stato un maschio, e O’Malley sarebbe stato perfetto oltretutto, perché gli avrebbe conferito un’aria europea che era propria anche del mio dottore perduto.
Per la prima volta dopo anni, sorridevo. Mi accarezzavo il ventre e gioivo nel sentire la leggera prominenza che presto sarebbe stata anche visibile.
Non vedevo l’ora di stringerlo tra le braccia, di dargli tutto l’amore che solo una madre può avere per un figlio… e di contare finalmente qualcosa per qualcuno.
La mamma Lisetta e il piccolo Carlisle. Oh, non poteva promettere un futuro più prospero!







Rosa blu










Ehilà, care lettrici e amanti della coppia in questione! xD
Sì, lo so... sono mesi che non mi faccio viva ^^' Perdonate q.q Quest'anno è l'ultimo di liceo per me e... l'esame incombe (ombe... ombe...) o.o Inquietante.
Sì, insomma, avevo troppo da studiare e ho dovuto mettere da parte le mie storie. Non che ora abbia più tempo da dedicare loro, però forse sono riuscita ad organizzarmi meglio e a riservarmi qualche oretta per la scrittura *.*
Sono molto felice di aver aggiornato questa storia, anche perché siamo quasi alla fine :) Ebbene, sì, questo era il terzultimo! Avrei potuto allungarlo e accorpare a questo anche il penutlimo, ma non mi piaceva per niente. Questo è un pezzo tratto dal passato molto corto, ma ha un suo perché e deve stare da solo v.v Che memorie perdute sarebbero, altrimenti? O.o' Avrei dovuto chiamarla Memorie Ritrovate, la storia v.v No, questa long è nata per raccontare di frammenti, e così farà fino alla fine (che è vicinaaaa! *.*).
E visto che la fine è vicina (mi ripeto troppo? xD), cercherò di tentare di essere più tempestiva con i prossimi due aggiornamenti :) E' una fanfiction che porto avanti da troppo tempo e Esme sta iniziando a rompere le scatole con tutta questa tristezza v.v Però, dai... un po' in questo frammento ha sorriso :)

Spero vi sia piaciuto e che vi abbia fatto piacere rivedermi :) E so che è poco professionale, ma... recensite! xD Su, su, dai v.v Sarebbe un perfetto modo per dirmi "bentornata!" :)
Daiii, lo so che siete arrabbiate per il mio solito tremendo ritardo, ma dovete ammettere che sono adorabile quando mi scuso! xD Okay, no q.q



Un bacio! :)






Hilary




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Capitolo 7
*** Passato VI ***







Carlisle and Esme









Missing Memories









Passato VI









Rientrai in stanza intorno alle otto di sera, sfinita.
La schiena mi doleva terribilmente, tanto che ormai avevo iniziato a soffrire di nausea, e non per colpa del bambino che avevo in grembo. Le mie gambe erano gonfie e pulsanti e avevo delle caviglie così grosse che da qualche settimana ai piedi potevo portare soltanto ciabatte.
Lavorare in una scuola elementare era sempre stato il mio sogno, ma come insegnante, non certo come donne delle pulizie. Eppure, da quando ero diventata Lisa, la ragazza madre senza passato, nessuno dei rettori degli istituti di Vancouver si era sentito di assumermi; dicevano che con quel mio pancione senza padre avrei potuto solo avere un’influenza negativa sugli allievi. Ma il mio disgusto non aveva avuto la meglio sul mio bisogno di trovare lavoro, così avevo accettato l’unico impiego che mi era stato offerto, come bidella.
Non ero nelle condizioni di potermi permettere il lusso di scegliere, comunque. Lamentarmi non sarebbe servito a nulla.
«Buonasera, Hester», salutai, chiudendo la porta alle mie spalle.
«Oh, ciao, Liz!».
Hester era la mia compagna di stanza, una ragazza bassa, dai capelli ricci e castani, un viso rotondo dai lineamenti vagamente infantili. A differenza mia, lei mi aveva raccontato molto del suo passato e della sua famiglia: faceva parte della classe operaia, per niente ricca ma decisamente unita, tanto che i suoi genitori si stavano massacrando di lavoro e di sacrifici per permettere alla loro terza di quattro figli di andare a vivere in un’altra città e di poter seguire i corsi universitari.
Tuttavia, né io né lei avevamo i soldi per una stanza d’albergo o per affittare un appartamento, per questo soggiornavamo dalle suore e dividevamo la camera.
Alla Madre Superiora avevo dovuto raccontare che mio marito era morto in guerra dopo avermi messa incinta, e, nonostante dubitavo ci avesse davvero creduto, mi aveva accolto ugualmente nei dormitori del convento di Saint Helena, ai piedi del promontorio che si affacciava sull’oceano Pacifico, nella periferia della città.
Evidentemente, facevo più compassione di quel che pensavo.
Tolsi le ciabatte e mi sdraiai sulla branda senza nemmeno levarmi il cappotto, sospirando tra dolore e stanchezza.
Non avevo ancora cenato, ma francamente non mi sentivo di mandar giù neanche un sorso di tè, tanto era il voltastomaco. Stavo davvero male…
«Come stai, oggi? Sei più pallida del solito, Liz…», commentò Hester. Era sempre tanto premurosa con me, più di quanto lo erano stati i miei famigliari a Columbus.
Ora che ci pensavo, Hester somigliava molto a Bernice.
Oh, mi mancava così tanto! Ero fuggita senza neanche avere avuto il tempo per dirle addio…
«Non è niente. Sono solo stanca», le risposi.
«Sicura di non avere la febbre?».
Scrollai le spalle, sconsolata. Non avevo soldi per le medicine e non potevo assolutamente mancare al lavoro, quindi non faceva differenza. Avevo solo bisogno di riposare un po’.
«Non preoccuparti», le dissi.
Per tutta risposta, Hester chiuse il tomo di diritto penale e venne a sedersi accano a me.
«Liz, devi smetterla di sfiancarti in questo modo. Non vedi come ti sei ridotta?», mi fece notare, indicando prima il mio viso emaciato, poi le caviglie ingrossate.
«Non posso, Hester», risposi. «Ho bisogno di quei soldi. Non posso vivere qui per sempre. Devo assicurare a mio figlio una vita migliore di quella che ho vissuto io».
Devo assicurargli una scelta, pensai.
«Ma lui ha bisogno di te adesso! Credi che ammazzandoti di lavoro così, tu gli stia facendo del bene?».
«Sono solo al settimo mese di gravidanza, Hester. E comunque non ho scelta», ribattei. Tanto per cambiare.
«Invece, sì! Potrai ripagare la Madre Superiora una volta che il bambino sarà nato e ti sarai ripresa. Di certo, non ti lascerà in strada per un paio di mesi di quote arretrate».
Mi passai una mano sulla fronte nel vano tentativo di placare il mal di testa che mi stava venendo e mi accorsi di stare sudando freddo.
«Non è ancora il momento», sentenziai, chiudendo il discorso.
Non mi andava di pensare ai debiti che ancora non avevo accumulato. Volevo solo dormire, e sognare il giorno in cui nella mia vita sarebbe finalmente comparsa la primavera.



Mi svegliai di soprassalto nel cuore della notte, il respiro accelerato e pesante.
Mi ci volle qualche istante per capire cosa mi stava succedendo, poi una fitta improvvisa mi colpì al basso ventre, mozzandomi il respiro.
Istintivamente, mi portai una mano alla pancia e mi accorsi con orrore che le coperte erano bagnate.
Accesi la luce del paralume sul mio comodino e scostai le lenzuola. La mia camicia da notte era zuppa di liquido appena tiepido.
Un’altra fitta mi fece sussultare, e a quel punto mi prese il panico.
«Hester… Hester, svegliati!», esclamai.
«Mmm… che succede?», chiese con la voce impastata dal sonno. «Perché hai acceso la luce?».
I suoi occhi si aprirono a fatica, ma quando incontrò il mio sguardo atterrito si riscosse immediatamente e si tirò su a sedere. «Cosa…».
«Credo… credo mi si siano rotte le acque», dissi d’un fiato.
L’espressione di Hester era confusa, forse incredula, ma poi abbassò gli occhi e vide com’erano conciati i miei vestiti, allora capì. Saltò giù dal letto e mi si avvicinò, non sapendo bene cos’altro fare.
«Stai per partorire», mormorò con un tono tra il dispiaciuto e l’incredulo. La sua voce non aveva nulla di rassicurante.
Quel dolore acuto mi prese ancora, dilatandosi dal ventre alla schiena, schiacciandomi contro il materasso. Se non urlavo era solo per il fiato corto che avevo, ma afferrai la mano della mia compagna e strinsi per tutta la durata di quella straziante sofferenza.
«È impossibile…», riuscii a biascicare. «Mancano ancora due mesi!».
«Vado a chiamare la Madre Superiora. Lei saprà cosa fare», rispose soltanto, agghiacciata. Si liberò dalla mia stretta ed uscì dalla porta correndo, lasciandomi su quel letto a prendere coscienza di quello che stava realmente accadendo. Un parto prematuro.
I miei occhi si riempirono di lacrime e finalmente riuscii ad urlare, ma non per il male della contrazione. Il dolore proveniva dal cuore.



«Voglio mio figlio! Datemelo in braccio, vi prego! Vi scongiuro!».
Hester mi tenne ferma per le spalle e mi obbligò a rimanere distesa. «Liz, calmati! Hai appena partorito, sei molto debole. Riposati. Il tuo bambino starà bene, le suore gli daranno tutta la cura di cui avrà bisogno». Mi disse quelle parole mentre vedevo la Madre Superiora che richiudeva la porta dietro di sé col mio piccolo tra le braccia.
«No, no! Lo voglio vedere, voglio abbracciarlo! Sono sua madre!», urlai isterica.
Ero esausta, sudata, sdraiata sulle lenzuola ormai sudice della mia branda, e piene di sangue, ma non sentivo male da nessuna parte. Non sentivo niente.
L’unica cosa che desideravo in quel momento era stringere al petto il mio bambino, tutto ciò che mi restava al mondo. E me lo stavano portando via.
«È nato con due mesi di anticipo, Liz, cerca di capire. Deve subito essere visitato da un medico».
Scossi la testa più volte, piangendo e continuando a dimenarmi.
Non riuscivo a dire nulla, la mia mente era come svuotata.
Pregai Dio perché potesse salvare mio figlio, anche a costo di dover rinunciare alla mia stessa vita. Non cambiava nulla, intanto. L’avevo già fatto. Ma il mio piccolo Carlisle, no. Lui doveva vivere!
Singhiozzai, in preda ai tremori.
Riuscivo solo più a mormorare frasi sconnesse.
«Il mio bambino… ti prego, ti prego… il mio bambino… ti prego…».



Erano trascorsi tre giorni ed io ero riuscita ad alzarmi. Disgraziatamente, era stato così.

«Mio figlio, Madre, dov’è? Come sta?».
Il suo sguardo e le sue spalle curve parlarono per primi, distruggendo tutte le mie speranze.

Non ero più consapevole di ciò che mi circondava, né del mio stesso corpo. Non esistevo già più.
Guardavo fuori dalla finestra della mia camera quel promontorio boscoso dove ricordavo di essermi rifugiata parecchie volte dopo l’arrivo a Vancouver, senza più alcun sentimento.
Lassù l’oceano era bellissimo, ed era molto alto… lassù.

«Mi dispiace, Elisabeth. Il piccolo è nato troppo presto, non ha resistito nemmeno all’arrivo del pediatra».

Parole che mi uccisero.

«È morto».

Mi uccisero davvero.
Curioso come ora avessi ripreso in mano quel vecchio diario.
Ogni sua pagina racchiudeva un pezzo della mia vita, un pezzo di tristezza, un pezzo del mio cuore. Un pezzo di Esme.
Era arrivato il momento di chiudere quel capitolo, per sempre.
Fu proprio mentre guardavo quell’irta scogliera che aprii il quaderno all’ultima pagina, e scrissi.


Ho lasciato tutto,
e allora farò quel salto,
l’ultimo bacio gelato.


La piccola Esme, finalmente, riposava in pace.







Rosa blu










Come promesso, ecco l'aggiornamento con una sola settimana di attesa ** Sono fiera di me stessa! xD Voi non lo siete? **
Bando alle ciance... non avete idea di quanto sia stato emozionante per me scrivere questo capitolo. E' stato... non saprei descriverlo... Unico.
Questa storia non ha mai avuto molte pretese, probabilmente perché di originale non ha nulla, di fatto. Volevo solo mettere nero su bianco le vicende che hanno portato l'amore tra Esme e Carlisle, più o meno accennate dalla Meyer qua e là, non so più dove. Davvero, non avrei mai pensato che il personaggio di Esme potesse darmi tanto, e invece è stato così. Spero lo sia stato anche per voi :) Anzi, spero davvero con tutto il cuore che il capitolo vi sia piaciuto almeno la metà di quanto sia piaciuto a me scriverlo :) E' stata pura emozione.

E con questo aggiornamento, non vi resta altro che attendere il gran finale con il prossimo xD Un po' di nostalgia, lo ammetto, già ce l'ho... ma sono anni che questa piccola long-fic aspetta una conclusione e voglio potergliela dare, finalmente :)
Voglio solo precisare una cosetta riguardo la trama. Secondo la Meyer, dopo che Esme si trasferisce al nord (dove non lo dice O.o'), riesce a realizzare il suo sogno e diventa maestra di scuole elementari. Partorisce il figlio concepito con Charles, che muore pochi giorni dopo. Non dice altro.
Ecco, io ho preferito sviluppare la trama un po' diversamente, da come avrete capito, aggiungendo particolari per darle un senso e cambiando poche cose, ma che secondo me sono significative. Tutto qui :)

Ringrazio Ninfea Blu, Leaena e per il sostegno che mi hanno dato (e mi stanno tutt'ora dando) per realizzare al meglio questa storia :)



Un bacio!






Hilary




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Capitolo 8
*** Parte seconda ***







Carlisle and Esme









Missing Memories









Parte seconda








Point of view
-Carlisle-



«Profumo. Dolce, profumo.
Quello della vaniglia, innocente, e del latte fresco, delicato. Bianco.
Ma non era né l’uno né l’altro. No, quel profumo era caldo, vivo. Si spandeva piano, lentamente, pulsava appena, ma c’era, potevo sentirlo.
Lavoravo all’ospedale di Vancouver ormai da qualche anno, ma quando quella mattina presi servizio mi accorsi che c’era qualcosa di diverso tra le mura dei reparti. Tutto era impregnato di un odore che mi era terribilmente familiare, eppure la mia mente non voleva saperne di riesumare il ricordo al quale era legato.
Avevo scelto Vancouver perché era una città nuova per me, non ci avevo mai vissuto prima, e mi era sembrata perfetta come meta, abbastanza lontana e assai dissimile dal posto dal quale ero fuggito.
Columbus.
La mia espressione cambiò all’istante.
Il profumo che mi tormentava prese finalmente forma; un volto, una folta chioma castana, uno sguardo amabile color cioccolato, un sorriso gentile e, infine, quel nome tanto sospirato.
Esme.
Si trovava lì, in quell’ospedale. Perché a Vancouver? Non poteva avermi trovato, non avevo lasciato la minima traccia, nessuna informazione sulla mia nuova residenza.
Le avevo detto addio anni addietro ed era stato già doloroso all’epoca; non avrei sopportato una seconda separazione, non avrei avuto la forza necessaria per allontanarmi ancora da lei.
Dovevo andarmene, subito. La tentazione di poterla rivedere era forte, irresistibile, ma la mia forza di volontà andava ben oltre il mio desiderio egoistico. Già una volta l’avevo salvata dal mio inferno, e l’avrei salvata ancora.
Aprii la finestra del mio ufficio, deciso a voler cambiare quel destino così ingiusto, a mettere fra me e l’angelo bianco più miglia possibili, per lei, per il suo bene, la sua felicità… ma non lo feci.
Il profumo si era affievolito fin quasi a svanire del tutto.
C’era qualcosa che non andava. Conoscevo fin troppo bene quella sensazione.
Esme… non stava bene.
 Il pensiero che si trovasse lì per problemi di salute mi colpì come un pugno in pieno petto.
Se davvero era così, non si trattava di una semplice e innocua freddura.
Esme stava morendo.
Uscii dal mio ufficio quasi scardinando la porta, lottando contro me stesso per mantenere un’umana capacità di movimento. Camminavo veloce, tutto ciò che mi potevo concedere.
«Dottor Cullen…».
«Non adesso!».
Mi allontanai dal mio reparto e dalle infermiere che mi cercavano; seguivo il debole profumo di Esme, ormai dimentico di tutti i buoni propositi che avevo per lei. Volevo solo raggiungerla, ora.
Avevo paura.
Per la prima volta nella mia lunga vita immortale, avevo paura.
Terrore di perderla, sì, perché anche se l’avevo abbandonata non l’avevo mai persa davvero. Finché ci fosse stata lei al mondo, io avrei ancora potuto vivere di amore e di speranze, un piccolo bagliore di luce nell’immensa oscurità del mio dolore.
Esme.
Senza di lei, sentivo che avrei perso la ragione. Sarei morto dentro senza mai perire davvero, e questa era una condanna che non sarei riuscito a sopportare.
Scesi le scale a due a due, ancorato a Esme con la mente e con il cuore, pregando Dio di non portarmela via, di darle una possibilità di salvezza.
Varcai la porta dell’obitorio senza quasi rendermene conto.
Non è morta, Esme. Non è morta, non ancora.
La sua dolce fragranza era flebile, sovrastata dal pungente odore di corpi senza vita, ma era presente come l’ossigeno nell’aria.
La luce del sole non raggiungeva quella stanza, resa ancora più lugubre dalle barelle accostate al muro, le lenzuola tirate a coprire i volti delle persone il cui cuore aveva appena smesso di battere. Tutti tacevano. Tutti, tranne uno.
Oh, com’era debole il suo pulsare… Il mio udito di vampiro, seppur cento volte più sviluppato di quello umano, faticava a percepirlo.
Mi avvicinai a quel lettino coperto, le mie mani afferrarono convulsamente il telo bianco, esitando, poi mi costrinsi a scostarlo.
Esme era lì, stesa e immobile, livida e sporca di sangue rappreso su tutto il volto e sulle vesti strappate.
Cosa ti è accaduto, angelo mio?
Il suo viso era bello, angelico, esattamente come lo ricordavo, ma dolorosamente provato, troppo stanco per appartenere a lei, alla mia piccola Esme.
Una smorfia di mestizia mi increspò le labbra. Ormai era una donna, la mia Esme. La ragazzina che si era rotta una gamba per aiutare due bambini era solo più un lontano ricordo, come quel bacio che mi aveva donato e che ancora custodivo con estrema cura tra le mie memorie.
Strinsi dolcemente la sua mano tra le mie, fredda e inerte, e me la portai alle labbra, posando un lieve bacio sul dorso.
La sua pelle era violacea, la sua bocca, una volta rossa come le ciliegie di maggio, era pallida e screpolata. Col tatto percepivo il suo sangue scorrere nelle vene, lento, insufficiente, mentre il suo respiro era quasi impercettibile.
«Aiutami, Signore. Cosa posso fare per salvarla?». La mia voce era irriconoscibile, così roca e soffocata. Se soltanto avessi potuto, avrei iniziato a piangere.
Nessuno avrebbe aiutato la mia Esme. Tutti pensavano che fosse morta, ormai. E lo era, lo sarebbe stata presto.
Non puoi lasciarmi, Esme, ti prego.
Non potevo supplicarla di restare, quando io stesso le avevo voltato le spalle anni prima. Che razza di ipocrita!
«Non costringermi a farlo, Esme, ti scongiuro! Svegliati, ti prego… svegliati…».
Niente.
Il destino mi stava ponendo di fronte ad una scelta troppo dolorosa da dover prendere: donarle una vita d’inferno, con me, o lasciarla morire.
Appoggiai la fronte al suo petto, abbracciandola, ascoltando il suo cuore che spirava faticosamente gli ultimi battiti. In un modo o nell’altro, si sarebbe fermato comunque.
Non potevo, non avevo la forza di lasciarla andare. Io amavo Esme. Era l’unica donna per cui avrei mai potuto provare quel sacro sentimento. L’unica per cui ero disposto a commettere peccato. E lo commisi, perché nessun prezzo da pagare avrebbe eguagliato il dolore di quella perdita.
«Perdonami, Esme», mormorai a fil di voce.
Le accarezzai una guancia e i capelli, poi le affondai i denti alla base del collo, dove la giugulare riusciva ad avere ancora qualche spasimo, così da permettere al mio veleno di invadere più velocemente tutto il corpo, e il cuore.
Il suo sangue era l’apoteosi di tutto quel dolce profumo che ancora riusciva ad emanare, un sapore così afrodisiaco da minacciare il mio saldo autocontrollo, ma non abbastanza da farlo cedere.
Mai avrei permesso a me stesso di pensare a Esme come a del cibo perverso.
Mi staccai dalla sua gola per incidere i polsi e le caviglie. Il veleno agiva più rapidamente e, di conseguenza, più indolore se penetrava da più punti; avevo commesso l’errore di non farlo con mio figlio Edward, quando lo trasformai, ed era stato orribile.
Rimasi con Esme per tutto il resto della giornata, nascosti in un magazzino, lontano da tutto e da tutti, in attesa che la notte scendesse sulla città così da poterla trasportare a casa senza destare il minimo sospetto.
Era una gioia poter sentire il suo cuore battere così frenetico, segno che il veleno stava agendo in tempo, ma sotto la felicità per averla salvata dall’oblio stava nascendo un senso di colpa che, sapevo, non si sarebbe mai più estinto.





Point of view
-Esme-



Dolore. Atroce dolore.
Un attimo prima nemmeno esistevo, l’attimo dopo ero sveglia, di nuovo me stessa, e urlavo.
Era come avere il fuoco vivo dentro; ogni fibra del mio corpo bruciava, avvolta da fiamme invisibili, mentre i muscoli si contraevano e distendevano, facendomi dimenare.
Non sentivo nulla, se non dolore.
La mia pelle aveva perso sensibilità con l’esterno. Ero solo certa di essere sdraiata, perché non avrei assolutamente avuto la forza di sorreggermi in piedi.
I miei occhi erano spalancati, ma non vedevano realmente. Colori, miscugli indistinti. Ambra.
C’erano suoni, tanti, sovrastati dalle mie urla insistenti. Una voce che non riconobbi.
Dolore, dolore, troppo dolore.
Il fuoco abbandonò i miei arti, che ricaddero inerti. Adesso infiammava al centro del mio petto, mozzandomi il respiro.
Rimase lì, a consumarsi lentamente come una candela accesa, e quando finalmente si spense, liberandomi dal bruciore insopportabile, mi spensi anch’io.
Abbracciai la morte come una bambina poteva abbracciare la sua mamma, con una sorta di felicità, di sollievo che non provavo più da molto tempo. E fu buio eterno.



Assenza.
Suoni, immagini, sensazioni. Assenza totale.
Fluttuavo in uno spazio indefinito, nero, buio, profondo, senza meta alcuna.
Intorno a me c’era il nulla, il vuoto assoluto. Nemmeno io avevo più una consistenza.
Non provavo niente. Né paura, né angoscia, ma nemmeno pace e tranquillità. Di quell’assenza facevo parte anche io.
«Esme».
Una parola, un nome. Così lontano…
«Esme!».
Di nuovo, più deciso.
Ero io, Esme? Sì, quello era il mio nome. Adesso lo ricordavo.
All’improvviso fu percezione, e io iniziai a prendere una forma, ad occupare quello spazio che prima neanche esisteva.
«Apri gli occhi, Esme».
Una voce. Dolce, pensai. Calda.
E fu di nuovo sensazione.
«Apri gli occhi!».
Un ordine privo di significato.
L’attimo prima galleggiavo in un denso nero, l’attimo dopo ogni cosa ebbe una forma, una massa, un colore, una ragione di esistere.
Un telo bianco che si chiamava soffitto, una macchia dorata al centro, il lampadario, e due pietre ambrate incastonate in un ovale perfetto.
Ambra.
«Respira, Esme».
Due linee piene, le labbra di un viso, si mossero.
Da un momento all’altro, i miei polmoni si espansero, e l’aria riprese a circolarmi in corpo.
Però era diverso. Non mi diede alcun sollievo.
Sentivo di non averne davvero bisogno.
Aprii la bocca perché ricordavo di poter parlare, ma non vi uscì niente.
«Riprovaci», m’impose l’uomo. Sì, era un uomo.
Lo guardai meglio, soffermandomi sui lineamenti. Osservarlo mi procurava una sensazione strana, un misto tra disagio e gioia, sollievo e dolore, nostalgia e confusione.
Corrugai la fronte. Mi era… familiare.
Boccheggiai, mentre delle lettere lampeggiavano nella mia mente.
«Carlisle».
Bastò pronunciare quel nome, e i ricordi di tutta una vita mi piombarono addosso, schiacciandomi in un mare di tristezza e mesta malinconia.
Trasalii, stringendo convulsamente qualcosa di solido, qualcosa che scoprii essere la sua mano. La mano di Carlisle, del mio vecchio dottore di Columbus, del mio primo amore; quell’uomo a cui avevo donato il mio primo bacio, e tutto il mio cuore. Quello stesso uomo che se n’era andato, lasciandomi al mio destino.
C’era stato il matrimonio, la guerra, il sesso, la violenza… poi, la fuga, la gravidanza, il parto… e la morte, quella di mio figlio e la mia.
«Sono… viva», mormorai, incredula. Ma forse, mi sbagliavo.
Erano anni che non rivedevo Carlisle, e trovarlo così, bello e giovane come all’epoca, che mi sorrideva dolcemente… Oh, era il Paradiso!
«Sì, sei viva, Esme», mi disse. La sua espressione si colmò di una gioia immensa e la sua mano lasciò la mia per carezzarmi la guancia. «Sei viva», ripeté.
Avevo dimenticato la splendida sensazione che mi procuravano i suoi tocchi. Chiusi gli occhi per un istante, beandomi di quel momento come se potesse essere l’ultimo, vivendolo e assaporandolo per tutta la sua durata, ma quando tornai a guardarlo, lui era lì, ancora vicino, ancora con le dita sulla mia pelle.
«Se non sono morta, voi perché siete qui? Sto forse sognando?».
Lui rise appena, scuotendo la testa. «È tutto vero, Esme».
Sbattei le palpebre, confusa. «Ma io ricordo di essermi gettata dalla rupe… di essere caduta in mare…».
«È tutto finito, adesso», mi spiegò, negando ancora con la testa. «Non soffrirai più, Esme, te lo prometto. Ora posso farlo, posso giurartelo. D’ora in avanti e per l’eternità, ci sarò io a proteggerti, se tu lo vorrai».
Avevo sognato quelle parole per un tempo che mi sembrava infinito, e ora che quella bocca, quella voce le pronunciava, mi sentivo come se qualcuno ― o lui, proprio lui ― avesse forzato la serratura della gabbia nella quale avevo sempre vissuto, e per la prima volta mi sentii libera. Libera di vivere, libera di amare, di essere finalmente me stessa.
«Mi avete… salvata», sussurrai, saturando il mio tono di immensa gratitudine.
Non mi importava come, perché tutto fosse accaduto. Non mi importava del passato, di quello che era successo. Ci sarebbe stato tempo per tutto, in futuro. Ora, volevo solo vivere quel presente che avevo tanto agognato.
Gli portai le braccia al collo senza più nessuna inibizione. Entrambe le sue mani corsero ad accarezzarmi la schiena, mentre avvicinavo il mio viso al suo, ma quella volta fu diverso.
Non fu veloce, né improvviso come lo era stato la prima volta.
No, adesso entrambi sapevamo cosa stava per succedere, e non ci sarebbero stati ripensamenti.
Nessuno sarebbe fuggito, quella volta.
Fu Carlisle a baciarmi, adesso, a unire le nostre labbra in un tocco carico di significati, di sentimento, di passione… di un amore represso per troppi anni.
Il mio, ma anche il suo. L’avevo sempre saputo.
Fu un’esplosione di baci passionali, profondi, intervallati dalle sue sole parole, dal suo enorme dispiacere. «Perdonami, Esme… per tutti questi anni… per averti abbandonata… perdonami».
Oh, ma io non dovevo perdonarlo. Non l’avevo mai incolpato di nulla.
Lo strinsi di più a me, rispondendo ai baci con foga, dimostrandogli che non portavo alcun rancore nel cuore, ma soltanto quell’immenso desiderio che avevo di lui.
«Resta con me, Esme. Ti voglio accanto fino alla fine dei giorni, angelo mio».
Risi di gioia a quelle parole, e lui con me, abbracciandomi forte come nessuno mai aveva fatto.
E lì, avvolta da quelle braccia, premuta contro il corpo dell’uomo che amavo, quel passato tanto doloroso sembrava non essere mai esistito, così fosco e confuso nella mia mente e così in contrasto con la felicità che stavo provando.
Lì, in quel momento, seppi che non stavo vivendo il lieto fine di una storia tragica, bensì l’inizio di qualcosa di molto più grande.
D’ora in avanti, avrei vissuto per davvero.





Fine






Rosa blu










Et voilà!
Ora, posso dichiarare conclusa Missing Memories.
Mi fa strano dirlo xD
C'è un po' di nostalgia nelle mie parole, perché nonostante fosse nata come long-fic breve, resta sempre una storia alla quale ho dedicato molti sentimenti, e con la quale ho condiviso tante emozioni.
Riconosco di non essere molto portata per i capitoli conclusivi. In un modo o nell'altro, li rovino sempre. Ma ho davvero impegnato tutta me stessa per scriverlo, e spero ne sia valsa la pena :)
Spero di avervi soddisfatto come autrice, di avervi trasmesso il più possibile, di avervi fatto commuovere e sospirare. Spero di essere stata all'altezza delle vostre aspettative. E spero mi seguirete ancora.
In questo ultimo capitolo c'è stato qualche riferimento alla one-shot "Angelo bianco" da parte di Carlisle, e ve la linko nel caso non l'abbiate ancora letta e abbiate nostalgia di questa coppia (Angelo bianco).

Ho ancora molto da dire su Carlisle ed Esme, di certo non è finita qui :) Ho già in progetto di scrivere una one-shot molto tenera e magari un po' più ricca di passione su di loro, che andrà a far parte della serie di Missing Memories. E magari, qualcos'altro. Non lo so. Andrò dove l'ispirazione mi porterà :)

Ringrazio tutti coloro che hanno seguito questa storia, che l'hanno saputa apprezzare, e ringrazio le ragazze che mi hanno sostenuta dall'inizio alla fine. Non posso vantare un numero esorbitante di lettori, ma posso vantarne la qualità, di sicuro :) Siete stai e sarete sempre importanti per me. Grazie di tutto, davvero.



Un bacio e buon sabato a tutti!






Hilary




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