Missing Memories di Shadeyes (/viewuser.php?uid=63997)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte prima ***
Capitolo 2: *** Passato I ***
Capitolo 3: *** Passato II ***
Capitolo 4: *** Passato III ***
Capitolo 5: *** Passato IV ***
Capitolo 6: *** Passato V ***
Capitolo 7: *** Passato VI ***
Capitolo 8: *** Parte seconda ***
Capitolo 1 *** Parte prima ***
Missing
Memories
Parte
prima
Lì ero al sicuro, lo sapevo.
Quel silenzio, quella tranquillità, quel lieve
scroscio…
Quel luogo era capace di allontanarmi da tutto, persino dal mio dolore.
Ma, talvolta, sfogarsi è l’unico modo per sentirsi
meglio.
Era da tempo che non venivo quassù, forse due o tre mesi, ma
l’atmosfera non aveva perso quella veste maliarda di cui mi
ero innamorata.
L’odore di salsedine, il lieve rumore delle onde che
s’infrangevano sugli scogli, il fresco venticello mattutino
m’inebriavano i sensi ancora una volta, portando via le
lacrime e ridandomi un po’ di quella speranza che ormai era
andata perduta.
Troppo tardi, pensai incurvano le labbra in uno stanco sorriso.
Ero esausta, madida di sudore e di lacrime, con i vestiti laceri e
ancora sporchi di sangue. Avevo corso per disperazione, per rabbia, ma
la meta era proprio questa.
In grembo stringevo quel piccolo, frusto quaderno, lo stesso che per
anni aveva sostenuto i miei sfoghi. Le sue pagine straripavano di
frustrazione, di sentimenti che una ragazzina come me non avrebbe mai
dovuto provare.
Lo portai al petto, poi lo aprii all’ultima pagina, quella
della mia vita.
L’amaro in
bocca,
la vista che
vacilla,
l’immagine
che sfoca.
E il pensiero,
la muta
consapevolezza
di una vita
calpestata.
La mia.
Così
cambio strada,
lascio i miei
ricordi
che raccontano
di quel passato.
Mai esistito.
Tra le mani
non ho nulla,
stringo
polvere,
annego in quel
terriccio ignorato.
Ho lasciato
tutto,
e allora
farò quel salto,
l’ultimo
bacio gelato.
Risi.
Accarezzai quella pagina, poi la strappai e permisi alla brezza marina
di portare con sé quelle parole, quell’odio che
nutrivo dentro. Lo feci ancora, e ancora, pagina dopo pagina, versi e
versi di rancore, singhiozzi, sogni e desideri mai realizzati. Il vento
si portò via tutto. Anche la mia anima.
Mi rimisi in piedi e feci gli ultimi passi barcollando. Ero debole.
La testa girava e il respiro si faceva sempre più
accelerato. Non ne potevo più.
Io ero la brava ragazza, la moglie disponibile, la figlia ubbidiente,
ma nessuno si era mai fermato a pensare a chi io fossi veramente. Una
bambina.
Sempre ad abbassare il capo, a chinare la schiena, a fare
l’adulta responsabile. Io volevo solo essere una bambina. E
lo ero ancora.
Fragile, impaurita, riuscivo a malapena a sorreggermi sulle gambe.
Ventisei anni di sottomissione.
Non contavano i miei sogni, le mie passioni. Era lui a decidere. Loro.
E io stavo zitta, annuivo, sorridevo. Fingevo.
Erano gli anni in cui una donna poteva solo sperare in un buon partito.
Il resto della vita rimaneva di contorno.
Mi avvicinai al dirupo, dove la roccia finiva e l’acqua
dell’oceano era agitata e profonda.
Avevo sempre amato l’acqua, quella ghiacciata,
l’odore di purezza. Ogni sera mi ritiravo per il bagno,
l’unica ora della giornata che potevo concedermi, e mi
immergevo nella grossa tinozza con un sospiro di sollievo, avvolta da
un gelido ma confortante abbraccio. Non la scaldavo neanche, tutto quel
freddo mi dava l’impressione di poter lavar via ogni male,
rancore o ferita che possedevo.
Portai una mano sul ventre, non era più gonfio. Come mi
sentivo vuota, ora…
Il seno… Il seno invece pungeva terribilmente.
Se solo avessi potuto ricominciare, le cose sarebbero andate
diversamente, ma ero una bimba con un fragile cuoricino e le violente
scosse che aveva subito lo avevano distrutto completamente. Non avrei
mai smesso di piangere.
Basta soffrire, ero stanca di quella vita. Volevo solo abbandonare
tutto, e che Dio mi
accolga tra i suoi angeli servitori. Il paradiso almeno
non conosceva dolore.
Aprii le braccia, inspirando ancora una volta l’aria pura di
quella fosca mattina.
E quel volo, lo spiccai davvero.
Eccomi
di nuovo qui, con un'altra storia da proporvi!
In realtà, questa fanfiction l'avevo già
pubblicata anni addietro, ed era rimasta terribilmente incompiuta...
L'ho ripresa in mano quest'oggi, l'ho riletta e l'ho sistemata,
correggendo qualche errore infantile, e l'ho postata ora con
l'obbiettivo di portarla a termine a breve :)
È nata con l'intenzione di essere lunga non più
di sette o otto capitoli, e non ho intenzione di allungarla
inutilmente. La trama è sempre stata presente nella mia
testa, quella è e quella rimane xD
Spero di regalarvi qualche emozione, magari con un po' di
originalità vista la coppia ;) Anche loro, in fondo,
meritano un po' d'attenzione, non credete? ^^
Spero vi abbia intrigato questo primo capitolo, vi assicuro che i
prossimi saranno più interessanti xD
Aspetto i vostri commenti (molto
cattivi, mi raccomando! xD).
Un bacio!
Ne approfitto per ricordarvi l'altra mia long-fic su Twilight.
Infantility
Fiction molto dura, ambientata durante le vicende di Eclipse e, in
seguito, di Breaking Dawn. Non si tratta della solita storia
sdolcinata, piena di amore e problemi di coppia. No, questa storia
vuole ritrarre qualcosa di doloroso, di cupo e drammatico. Qualcosa di
immutabile. Qualcosa che la Meyer ha giusto accennato e qualcosa di cui
molti di noi si sono dimenticati.
Ci sarà passione, delusione, gelosia, rabbia e malinconia.
Ci saranno lacrime, ferite, ricordi dolorosi, tradimenti.
E ci sarà lei, l’innocenza e la morte. La piccola,
dolce, spietata Meredith.
Certe cose sono fatte
per andare e venire, il tempo è fatto per essere passato,
presente e futuro, altrimenti nulla avrebbe più davvero
senso. Ma la verità è che il cambiamento era un
privilegio che ci era negato e vivere iniziava a perdere di
significato.
Ecco perché
ci trovavamo sul tetto di un palazzo, quella notte. Stavamo dando un
senso a ciò che eravamo.
Questa fanfiction si
preoccupa di sensibilizzare il lettore, in maniera metaforica, sugli
aspetti di una rara malattia psicosomatica: l’infantilismo.
Hilary
|
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Capitolo 2 *** Passato I ***
Missing
Memories
Passato I
«Dunque, stasera a cena avrete l’ambito capitano
Charles Evenson! Tuo padre deve avere amicizie davvero influenti per
offrirti un’opportunità
simile…».
Bernice continuava a parlare, mentre la mia attenzione si concentrava
su diversi particolari del parco che stavamo attraversando.
Fine aprile era un periodo meraviglioso per farsi una passeggiata tra
le querce centenarie del centro di Columbus. Certo, la strada che
percorrevo ogni giorno da casa al mercato e ritorno si allungava, ma
nulla era mai troppo per gustarsi un po’ di splendida,
semplice natura.
Ricordavo che da piccola mia madre mi portava spesso in quel posto. Si
sedeva sul prato fresco e tirava fuori uno dei suoi libri preferiti con
la copertina logora dal tempo. Il suo lungo vestito si apriva in uno
splendido ventaglio, rendendola molto più graziosa di quello
che già non sembrava, e io, da bimba, sognavo un giorno di
poter essere come lei e di poter indossare quegli stessi, incantevoli
abiti.
In quel momento ne portavo uno simile, ma ancora dovevo riconoscere di
non apparire come la donna che tanto ammiravo.
«Esme, mi ascolti o no?», mi riprese Bernice,
infastidita dalla mia mancanza di educazione.
Con lei, d’altronde, potevo permettermelo… Eravamo
cresciute assieme.
«Sì… certo.», mentii.
Mi guardò storto.
«No», sospirai.
Scosse la testa in un misto di espressione tra il divertito e
l’esasperato, poi tornò a fissarmi.
«Ti ho chiesto quando avverranno le nozze».
«Nozze? Di chi?», chiesi sorpresa.
«Le tue, ovviamente!».
Roteai gli occhi, stufa di sentir parlare di quell’argomento.
Erano due anni ormai che non la smettevano di assillarmi con quella
storia. Evidentemente, non era solo la mia famiglia a volermi vedere
maritata.
«Sposarmi, io? Suvvia, Bernice, ho sedici anni!»,
le risposi quasi disgustata.
«Appunto! Hai sedici anni… se aspetti ancora un
po’, nessun uomo che si rispetti ti vorrà
più come moglie.», cercò di rammentarmi.
Anche quello me lo dicevano sempre tutti. Nemmeno fossi una zitella
trentenne!
Sbuffai.
«Io… io mi sento ancora troppo…
immatura per compiere un passo così importante.»
Ed era vero.
Il capitano Evenson era un uomo di tutto rispetto, garbato e di bella
presenza, ma non era ciò che realmente desideravo.
Io sognavo l’amore, l’intesa, la
passione… Tutte qualità che alla presenza di
Charles tendevano a nascondersi.
«Immatura? Dammi ascolto, se fossi in te non mi lascerei
sfuggire un partito del genere! Dovresti ringraziare Dio per la fortuna
che hai avuto invece di startene lì a ciondolare come una
bambina troppo cresciuta…».
Bernice era sempre molto delicata.
Sospirai di nuovo.
«Forse hai ragione…», le concessi.
«Ma certo», mi sorrise.
In fondo, anche lei era rimasta un po’ bambina, proprio come
me.
Camminammo in silenzio per un po’, ascoltando solo il rumore
dei nostri passi sulla ghiaia.
«E tu?», le chiesi d’improvviso.
«Io?»
«Sì, tuo padre chi sta invitando a casa
ultimamente?».
Anche se l’argomento matrimonio non mi elettrizzava
granché, ero davvero curiosa di sapere a chi fosse toccata
in moglie la mia esuberante amica.
«Oh… beh, il panettiere mi fa il filo»,
la vidi arrossire.
«Il signor Collins? Stai scherzando?», le domandai
stupita.
Sì, era un bell’uomo e anche simpatico,
aggiungerei, ma quarant’anni li portava tutti.
«Quale sarebbe il problema, scusa? È un tenerone!
Pensa che ogni domenica fa recapitare alla mia residenza un mazzo di
rose blu…», s’interruppe, sognante.
«Dice che gli ricordano tanto i miei occhi!».
Scrollai le spalle. Che potevo fare se non essere felice per lei? Chi
ero io per criticarla, dopotutto?
Bernice sussultò quando due bambini le corsero a fianco,
urtandola e facendole rovesciare il cesto del mercato per
metà.
«Ah, dannati bambini… Guardate che avete
combinato!», li sgridò.
Erano proprio piccoli, non più di nove anni.
«Ci… ci dispiace, signora»,
mormorò uno quasi in lacrime.
«Anche a me! Ora come faccio a tornare a casa con la frutta
tutta ammaccata?», gridò ancora.
Bernice riusciva davvero ad essere insopportabile quando si irritava
per qualcosa… E a me iniziava a dare tremendamente fastidio
il suo modo di ingigantire le cose.
«Dai, Bernice, sono solo bambini. Le arance sono buone
comunque…».
La sentii grugnire mentre rimetteva tutto nel cesto.
Io mi voltai verso i due piccoli e gli sorrisi.
«Fate più attenzione la prossima volta».
«Sì, signora…», risposero
all’unisono.
«Ehi, non è successo niente, su. Non
c’è bisogno di piangere…»,
consolai quello che mi parve il più piccolo.
«No… io non piango perché
l’altra signora mi ha sgridato, ma perché il mio
aquilone si è incastrato tra i rami di
quell’albero e non siamo riusciti a tirarlo
giù…», confessò in lacrime.
«Cercavamo aiuto…», mi spiegò
l’altro.
Mi voltai ed effettivamente vidi qualcosa di rosso tra le foglie di una
quercia lì vicino.
«Va bene, andiamo a vedere…», gli
promisi prendendoli per mano.
«Esme, che diavolo vuoi fare?», intervenne Bernice.
«Aiutarli».
«Grazie, gentile signora!», dissero loro.
La sentii sbuffare, ma mi seguì ugualmente.
«Ditemi, dov’è la vostra mamma? Non
sarete rimasti tutti soli qui al parco, vero?», chiese di
nuovo, stavolta ai due bambini.
«Oh, no, signora… Nostro padre ci ha accompagnati
qui ed è solo andato fino dal tabaccaio a prendere i
sigari».
A me quella spiegazione bastava.
Arrivammo sotto un’alta quercia, alzai lo sguardo e lo vidi
impigliato tra un ammasso di foglie. Da quell’angolazione non
sembrava danneggiato, una volta tirato giù sarebbe stato
ancora un perfetto aquilone.
Capivo perché quel bambino vi era affezionato. Non li avevo
mai visti di una fattezza così pregiata.
Mi guardai intorno, poi tornai a fissare in alto.
«Aspettate qui», dissi.
Mi piegai per fare un nodo appena sotto il ginocchio
all’ingombrante gonna, in modo che non mi intralciasse, poi
calciai via gli stivaletti e mi avvicinai al tronco. Avevo
già adocchiato il primo ramo raggiungibile.
«Che vuoi fare, Esme? Sei pazza!», mi
urlò Bernice nel tentativo di dissuadermi.
«Tranquilla. Ricordi quando ci arrampicavamo
sull’albero di casa mia?».
«Sì, ma era molto più basso
e… Insomma, era diverso!».
«A me non sembra…», ribattei e con una
lieve spinta avevo già i piedi sulla prima fronda.
Rimasi immobile per qualche attimo, studiando il prossimo passo. Non
appena lo intravidi, mi aggrappai saldamente con le mani e mi tirai su.
Accidenti, era davvero alta quella quercia!
In equilibrio, alzai la testa e lo vidi ormai a poca distanza. Serviva
solo salire ancora un po’.
A sinistra, un ramo faceva al caso mio, quindi mi allungai con il
braccio, ma lo sfioravo solamente, allora feci una cosa che reputai io
stessa sconsiderata e mi lanciai.
Riuscii a tenermi piuttosto bene, ma avevo entrambe le gambe penzoloni
e le foglie da quella stessa parte si mossero in un fastidioso fruscio.
«Esme!», sussultò Bernice.
«Sto bene…», le urlai di rimando, poi
feci uno sforzo e tornai cavalcioni. Piano, riuscii a rimettermi in
piedi.
Ora constatai che bastava distendersi un poco e sarei riuscita a
districare l’aquilone. Lo feci, allungando il braccio
più che potevo, poi mi issai sulle punte e finalmente
riuscii ad afferrarlo.
Lo tirai da una parte cercando di non rovinarlo, ma uno dei rami
più piccoli s’era proprio incastrato tra
l’attaccatura del legno e il telo, così fui
costretta a tirare dall’altra parte.
Abbracciai più saldamente il tronco e mi sporsi a destra.
Ero quasi riuscita a districarlo, bastava un altro piccolo sforzo,
quello che non avrei mai dovuto fare.
Ricordo solo che urlai quando mi sentii scivolare, poi le immagini
scomparvero e tutto divenne buio. Non sentii nulla, davvero. Solo
fruscii e un sonoro tonfo, poi probabilmente svenni.
«Non ha battuto la testa, abbiamo già fatto tutti
i controlli. Aspettiamo che si risvegli, poi la portiamo in sala
operatoria».
«In sala operatoria? È così
grave?».
«No, signora, non vi allarmate. Normalmente avremo ingessato,
ma il femore ha bisogno di un sostegno per saldare la
frattura… Ci vorrà un po’, ma vi posso
assicurare che sua figlia non subirà nessun danno
permanente».
La voce di mia madre si mischiava a quella di uno sconosciuto dal tono
gentile. Percepivo la preoccupazione e una vena di tensione
nell’aria, ma mi sentivo intontita, inconsapevole di tutto.
Grugnii qualcosa per far sentire la mia presenza.
«Bambina mia…».
Aprii la bocca, ma non riuscii a parlare.
La paura di aver perso il controllo mi sovrastò. Non sapevo
dov’ero né perché mia madre fosse
così agitata.
D’istinto, tentai di mettermi a sedere, ma un dolore atroce
mi obbligò ad abbandonare quell’idea.
Non riuscii nemmeno ad urlare, ma boccheggiai come se fossi stata
sott’acqua.
«Non ti muovere», mi sentii dire dalla stessa voce
di prima. Mi fece venire in mente il caramello.
«La sala operatoria è pronta, dottor
Cullen».
«Bene. Fate firmare il consenso per l’anestesia ai
genitori e procediamo».
Il lettino su cui ero sdraiata iniziò a muoversi ed
immaginai fosse un pavimento piastrellato quello che stavo
attraversando perché le rotelle continuavano a prendere
piccoli sobbalzi fastidiosi.
Quando udii l’ultima porta sbattere, il lettino si
fermò e la stessa voce mi parlò dopo qualche
minuto.
«Fai sì con la testa se mi senti», mi
ordinò.
Feci come mi aveva detto, ma non ero certa di esserci riuscita.
«Ti ha fatto male muoverla?», chiese.
Trassi un profondo respiro: «No…». Non
sembravo nemmeno io talmente la mia voce era flebile.
«Che… che è successo?»,
sentii il bisogno di chiedere, ma nessuno mi rispose. Caddi in un sonno
profondo e mi sorpresi a sperare che fosse permanente.
La prima cosa che udii fu una calda, dolce risata. Avevo sognato quella
voce.
«Non saprei dire se d’ora in poi odierai gli
aquiloni o gli alberi…», scherzò.
Solo in quel momento fui in grado di aprire gli occhi, ma
ciò che vidi non era neanche lontanamente paragonabile alla
bellezza del parco di Columbus.
Non avrei potuto svegliarmi in modo migliore.
«Fino a domani potresti provare un senso di smarrimento. Ti
sei procurata una bella frattura alla gamba, ma non devi preoccuparti.
Sei giovane, ti rimetterai prima del previsto».
Sì, solo ora mi tornavano in mente delle immagini familiari:
Bernice, del rosso, un tronco massiccio…
«Prova a parlare».
Quello era l’uomo più bello che io avessi mai
visto. Il suoi occhi, così particolarmente ambrati da
sembrare quasi oro liquido, fissavano i miei con
un’espressione cordiale, di riverente comprensione, e il
sorriso stampato su un volto scultoreo.
Non potei che attribuire a lui quella voce così deliziosa
che si era impressa nella mia mente dal primo momento che
l’avevo sentita.
«Chi siete?», mi sforzai di domandargli. Il tono
era molto basso, ma pareva già più simile al
normale.
«Mi chiamo Carlisle, sono il dottore che ti ha
operato».
Carlisle. Chiaro, un uomo così distinto non poteva che
essere portatore di un nome altrettanto nobile.
«Grazie», dissi e mi costrinsi a muovere la mano.
Lentamente, riuscii ad appoggiarla sulla sua ed ebbi la piacevole
sorpresa di essere pervasa da un brivido fresco e inaspettato. Avrei
chiuso gli occhi nel tentativo di assaporare al meglio
quell’attimo, se solo non avessi avuto il timore di perdere
anche solo un istante di quell’immagine così
sublime.
«Non ringraziarmi…», mi disse.
«È stato un onore che non avrei lasciato a nessun
altro medico quello di prendermi cura di una ragazza di cuore come
voi».
Le sue parole mi riempirono di una gioia immensa, una
felicità che non ebbi modo di esprimere.
La sua mano si ritrasse dalla mia.
«Le infermiere ti riporteranno in camera. Sarete contenta di
sapere che il vostro promesso, il capitano Evenson, è
accorso qui in ospedale non appena ha saputo
dell’incidente».
Due donne mi si avvicinarono e spinsero il lettino verso la porta della
sala operatoria.
«Buona fortuna, Esme».
Pronunciò quelle ultime parole come se non avrei
più avuto modo di rivederlo, ma in cuor mio sapevo che avrei
fatto di tutto per potermi un giorno presentare davanti a lui sulle mie
gambe, per sentirgli ripetere il mio nome, per provare di nuovo quella
straordinaria, ignota sensazione.
Allora,
mie care lettrici, vi è piaciuto questo secondo capitolo
tratto dal passato? :)
Come avrete capito, la storia sarà costituita da una prima
parte, ossia il capitolo scorso, una serie di cinque o sei capitoli
tratti dal passato, e, infine, una seconda (e ultima) parte che
farà da conclusione ^^ Lo so, sono complicata...
Pensate che in Infantility sto scrivendo una storia nella storia! xD
Un po' da sbatterci la testa, ma sembra che piaccia, per cui
proseguo così ^^ Comunque, stavo pensando di scrivere
più avanti un capitolo aggiuntivo di questa fanfiction... A
parte, però, come one-shot, perché anche chi non
avrà seguito questa sarà in grado di leggerla :)
So già più o meno cosa ci scriverò, ma
non vi svelo niente per ora :P Perfida me v.v
Bene, abbiamo visto entrare in scena il nostro caro dottore xD
Non vi ho fatto aspettare troppo, visto? :) Spero
di aver rispettato il suo carattere ^^'
Per il prossimo capitolo, che pubblicherò molto presto, vi
sto riservando qualcosa di interessante xD Ma... non vi
anticipo niente nemmeno qui xD
Ringrazio le mie carissime recensitrici e i lettori silenziosi ^^
Un bacio!
Ne approfitto per ricordarvi l'altra mia long-fic su Twilight.
Infantility
Fiction molto dura, ambientata durante le vicende di Eclipse e, in
seguito, di Breaking Dawn. Non si tratta della solita storia
sdolcinata, piena di amore e problemi di coppia. No, questa storia
vuole ritrarre qualcosa di doloroso, di cupo e drammatico. Qualcosa di
immutabile. Qualcosa che la Meyer ha giusto accennato e qualcosa di cui
molti di noi si sono dimenticati.
Ci sarà passione, delusione, gelosia, rabbia e malinconia.
Ci saranno lacrime, ferite, ricordi dolorosi, tradimenti.
E ci sarà lei, l’innocenza e la morte. La piccola,
dolce, spietata Meredith.
Certe cose sono fatte
per andare e venire, il tempo è fatto per essere passato,
presente e futuro, altrimenti nulla avrebbe più davvero
senso. Ma la verità è che il cambiamento era un
privilegio che ci era negato e vivere iniziava a perdere di
significato.
Ecco perché
ci trovavamo sul tetto di un palazzo, quella notte. Stavamo dando un
senso a ciò che eravamo.
Questa fanfiction si
preoccupa di sensibilizzare il lettore, in maniera metaforica, sugli
aspetti di una rara malattia psicosomatica: l’infantilismo.
In realtà, ne ho scritta un'altra di fanfiction su Twilight.
^^' Sarebbe una one-shot, descrive la prima notte d'amore di
Edward e Bella. Dico subito che è una storia che ho scritto
molto tempo fa, andrebbe assolutamente rivisitata e corretta... E poi,
sarò sincera, a descrivere certe scene proprio non sono
capace xD Se volete farci un salto, giusto per farvi due
risate, cliccate su La mia prima volta. Spero
non vi deluda troppo ^^'
Hilary
|
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Capitolo 3 *** Passato II ***
Missing
Memories
Passato
II
Pioggia, fulmine, vento.
E le mie lacrime che accompagnano quel tempo ribelle.
Non esiste scelta,
è
un privilegio inconcesso.
Il
destino di una ragazza,
il
marchio di una donna.
Quanto
c’è di vero nella mia vita?, pensai
amaramente.
Solo il tuo dolore.
Scossi la testa, ma non potevo più mentire a me stessa.
Il suo sorriso,
le
labbra attraenti,
e
quel suo tocco gelato.
Avevo giurato che non avrei mai più sfogliato quel vecchio
diario, ma sapevo che non sarei riuscita a mantenere quella promessa.
Se l’avessi gettato via, avrei fatto una cosa molto
più saggia.
E quei suoi occhi,
caldi ma
sfuggenti.
Guardarlo
è un piacere intenso,
pari al dolore
di sentirlo lontano.
L’avevo scritto la stessa sera in cui mi avevano dimessa
dall’ospedale, circa due anni addietro. Era stato un fiume di
parole, pensieri e sensazioni che non ero stata in grado di ignorare.
Il dottor Cullen era rimasto vivo nella mia mente per settimane. Quella
breve conversazione mi ossessionava come un bisogno impellente di
cogliere invano quell’ignota emozione.
E quando ormai ogni speranza di godere ancora della sua presenza era
svanita, lo trovai accomodato nel soggiorno di casa un pomeriggio di
fine novembre a rifiutare cordialmente un caffè offerto da
mia madre.
«Esme, saluta il dottor Cullen da ragazza a modo, quale
sei!», mi intimò mia madre.
Probabilmente ero rimasta più che stupita perché
sentii la sua occhiataccia gelarmi fin le ossa.
Mi riscossi e lo accolsi chinando leggermente il capo: «Lieta
di rivedervi, dottore».
«Il piacere è mio. Vedo che vi siete ripresa
egregiamente, ma permettetemi di appurarlo con certezza»,
disse alzandosi dalla poltrona e facendomi segno di sistemarmi sul
divano.
Era solo per quello che era venuto, per una visita di controllo.
Mascherai la mia delusione e annuii ad occhi bassi. Ero stanca di farmi
illusioni.
«Oh, no… Dottore, vi prego di accomodarvi al piano
di sopra, nella stanza di Esme. Avrete modo di lavorare con maggiore
tranquillità», cinguettò mia madre e il
dottor Cullen non poté fare altro che accettare.
Gli feci strada aprendogli la porta di legno della mia camera appena
rassettata da Lorei, la nostra governante.
Entrò accennando un sorriso, e come quella volta in ospedale
ebbe il potere di scaldarmi il cuore. Ero certa che le mie guance si
fossero tinte di rosso, ma il vero imbarazzo mi attanagliò
lo stomaco quando mi chiese di sdraiarmi sul letto e di alzare la gonna.
Lo feci, conscia del fatto che lui mi aveva già vista priva
di vestiti e che mostrargli le gambe non doveva essere un problema.
La differenza ingente stava nel fatto che la prima volta ero
completamente addormentata e comunque sedata dai farmaci, ma nella
situazione in cui mi trovavo ora mi veniva terribilmente difficile non
pensare a certe cose.
«Rilassatevi, e se vi faccio male non esitate a
dirlo».
Le sue parole suonavano quasi automatiche, frasi fatte per rassicurare
il paziente, e questo mi fece provare una punta di delusione.
Lo fissai come avevo fatto la prima volta e sorrisi dolcemente nel
vedere che nulla dei miei ricordi era stato compromesso.
Era bello, sempre.
Nemmeno i medicinali erano riusciti a nascondere
quell’abbacinante realtà.
Provai l’insormontabile impulso di toccarlo, ma prima che
anche solo formulassi quel pensiero fu lui a toccare me.
Il senso di gelo che la sua mano trasmetteva alla mia gamba pervase
tutto il mio corpo e non potei impedire ai brividi di percorrermi la
schiena, lo stomaco, il petto… fin nella testa.
Lui se ne accorse perché sentì il bisogno di
scusarsi: «Perdonatemi, non durerà
molto».
Lo sapevo bene, ma non avrei lasciato che la consapevolezza mi
rovinasse quel momento tanto atteso.
Assaporai ogni suo movimento che accompagnava il mio, il ginocchio che
si piegava, che s’alzava lentamente sotto il suo tocco
delicato. Sussultai appena quando spinse la gamba verso il mio petto:
quell’esercizio richiedeva un’elasticità
che non ero più stata in grado di recuperare.
«Scusate», ripeté allentando la
pressione.
Allora mi accorsi che cercava di sfuggire al mio sguardo, quasi come se
temesse di guardarmi negli occhi.
Sembrava… imbarazzato. E, se fosse stato possibile, la sua
naturale bellezza si fece ancora più marcata.
Strani pensieri mi turbinavano in testa, cose che avrebbero fatto
rabbrividire mia madre e che l’avrebbero portata a
rinchiudermi in convento per il resto della vita.
Pensieri che sarebbero parsi più concreti se lui mi avesse
guardato anche solo per un secondo, ma forse era proprio per quello che
evitava il contatto.
«Bene», la sua voce scacciò
all’istante quell’illusione. «Come
pensavo, non avete avuto problemi a riprendervi. Consiglio comunque un
ulteriore mese di fisioterapia, per sicurezza. Potete
alzarvi».
Lentamente, lasciai scivolare le gambe giù dal letto e mi
puntellai sui gomiti per issarmi a sedere. La vista mi si
offuscò per qualche secondo e d’istinto mi portai
una mano alla tempia.
«Oh…».
Finalmente i suoi occhi si puntarono su di me.
«Succede spesso?», mi domandò senza
ulteriori spiegazioni.
«Io… Sì, beh… quando mi alzo
velocemente».
«E questo da quanto?».
Ci pensai su.
«Uhm… da tre o quattro mesi, credo»,
risposi infine.
Il dottore annuì serio. La fronte aggrottata entrava in
contrasto con lo sguardo benevolo, ma questo non comprometteva la
perfezione del suo viso. Anzi, se possibile, la accentuava.
«L’operazione è stata causa di una
vostra ingente perdita di sangue. Non vorrei che gli accorgimenti presi
non siano bastati».
Le sue parole per me iniziavano a perdere di senso. Il calore che il
suo tono manifestava mi attraeva in un modo quasi scandaloso.
«In ogni caso, ne parlerò con vostra
madre», concluse e mi porse la mano.
L’accettai per godere ancora una volta della sua gentile
essenza, e quando mi fui issata in piedi non riuscii a trovare la forza
di ritrarmi.
Alzai lo sguardo, scrutai in quelle iridi color miele e con sgomento vi
trovai un dolore represso, un sentimento che non sarei mai riuscita ad
attribuirgli.
Cancellai dalla mia mente ogni cosa, ogni pensiero razionale che
avrebbe potuto frenarmi.
Mi sollevai sulle punte dei piedi e poggiai le mie labbra sulle sue.
Il mio primo bacio, timido e incerto.
Non pensai a nulla, se non quanto avessi sognato
quell’attimo, e quella fervida sensazione, cocente,
confortante, terribilmente estranea ma così deliziosamente
in equilibrio con quello che provavo per lui.
La sua totale immobilità non mi scoraggiò, anzi,
la interpretai come una muta concessione, così gli posai le
mani sul petto e corsi fino alle ampie spalle, indugiando sul suo
profilo scultoreo.
Per un attimo sentii le sue braccia sollevarsi e cingermi la vita, la
sua bocca si dischiuse appena, ma in quel momento tutto si infranse.
«No…», mormorò quasi
disgustato. Si staccò da me e si voltò. Pareva
sconvolto.
Un po’ interdetta per la sua reazione, mi feci coraggio e mi
avvicinai di nuovo, posandogli una mano sulla spalla.
«Che succede?», gli domandai dandomi subito della
stupida per la mia idiozia.
Si divincolò ancora, ma questa volta si girò per
guardarmi negli occhi.
Ebbi quasi un sussulto. Le sue iridi non erano più di quel
dolce color oro fuso, ma di un nero profondo e agghiacciante.
«State… state bene?».
«Perché l’avete fatto?».
La sua voce aveva in parte abbandonato quel tono amabile,
trasformandosi in un roco sussurro.
«Io…». L’imbarazzo
tornò repentino, questa volta bruciandomi il viso.
«Perché io vi…».
«Non lo dite, Esme, ve ne prego», mi
zittì, ma lo vidi pian piano riprendere il controllo della
situazione.
«Voi siete giovane, desiderosa di nuove esperienze, ma non
è in me che troverete quello che cercate»,
parlò come se si fosse aspettato ciò che poco
prima era successo.
«Sbagliate, io…».
«No, Esme, no. Ascoltatemi, per il vostro bene. Il capitano
Evenson è un uomo rispettabile, e lui saprà
regalarvi una vita da vera signora. Non gettate all’aria
quest’opportunità per un falso
sentimento».
L’ultima cosa che desideravo era un’altra persona
che mi dicesse cosa per me era più giusto.
Scacciai le lacrime minacciose.
«Quello che mi dite l’ho già sentito
troppe volte, fino alla nausea! Per la prima volta nella mia vita ho
fatto qualcosa che non fosse dovuto o ordinato, ma semplicemente
voluto. Desiderato da me. Perché date per scontato che
ciò che provo per voi sia solo illusione?».
Avrei tanto voluto urlare quelle parole, ma non potevo rischiare che
Lorei o mia madre cogliessero quella conversazione. Sarebbe stata la
fine per me e per la carriera del dottor Cullen.
«L’illusione non siete voi, ma io. Sono un uomo di
trent’anni che trascorre la sua vita ad occuparsi di malati.
Salvo vite tutti i giorni e ognuna di queste persone mi sono
riconoscenti. Voi confondete l’amore con la
gratitudine», disse con un sorriso accondiscende, quasi a
volermi convincere.
Scossi la testa ripetutamente.
«Carlisle, voi non capite! Da quel giorno in ospedale non ho
fatto altro che pensarvi, attendendo ogni giorno questo momento, di
riprovare ancora quelle emozioni che solo voi siete riuscito a
trasmettermi. Con il capitano non è nulla più che
amicizia, credetemi».
Ora fu lui a scuotere la testa.
«Esme, la realtà è più
complessa di quel che pensate. Anche se ricambiassi i vostri sentimenti
non sarebbe possibile arrivare ad un qualcosa di concreto»,
mi fece notare avvicinandosi e stringendomi le mani, come a pregarmi di
comprendere le sue parole.
«E perché mai?».
Sospirò.
«Ho un figlio, Esme».
«Dunque?».
«Ha la vostra età», ritentò.
«So come trattare con i miei coetanei, e comunque so per
certo che non è di sangue. Edward è vostro figlio
adottivo».
«Perché non riuscite a comprendere la mia
situazione? Sì, ho adottato Edward, e l’ho fatto
con l’intenzione di potergli dare una madre un giorno, non
una compagna di giochi».
Quella frase mi trafisse il petto da parte a parte. Ormai non
c’era più motivo di trattenere le lacrime.
Carlisle Cullen mi considerava una ragazzina, una bambina da accudire
perché non ancora pronta alla vita. E ciò bastava
a farmi crollare il mondo addosso.
«Mi dispiace, Esme, che sia stato proprio io a procurarvi
tanto male al cuore», disse per consolarmi.
No, non ci potevo credere. Non era illusione, non lo era!
«Voi mentite», mormorai abbassando lo sguardo.
«Posso assicurarvi che nulla potrebbe darmi più
dolore delle vostre lacrime», ripeté con
più convinzione.
«No, voi mentite a voi stesso. Voi vi state illudendo, non
io».
Ero disperata, forse solo perché non ero pronta ad accettare
una porta in faccia, eppure sentivo che le sue erano solamente semplici
scuse. Non avrei dovuto essere così insistente, ma il
pensiero di rinunciare a lui era troppo amaro, e decisi di non volerlo
nemmeno prendere in considerazione.
«Vi prego, non dite queste cose. Rendete la mia posizione
ancora più scomoda di quanto già non
sia…».
«Ammettetelo, almeno! Confessate i vostri sentimenti, quelli
veri che tentate di nascondere, e siate fedele al vostro cuore. Allora
forse capirò le vostre ragioni, ma solo dopo aver letto la
verità nei vostri occhi».
«Conoscete già la verità».
«Non sembrava la pensaste così dieci minuti
fa», sentenziai, continuando a fissarlo.
La sua espressione sembrò vacillare, ma solo per un momento.
Tuttavia, il silenzio piombò nella stanza come a evidenziare
la veridicità delle mie parole e rese certe tutte le
ambiguità.
Se ne accorse anche lui. Si voltò e frettolosamente
ritirò le sue scartoffie nella valigetta.
Mi sovrastò una paura immensa e quasi mi maledissi per aver
agito così sconsideratamente.
Non volevo che se ne andasse, non l’avrei sopportato. Non
volevo perderlo, non un’altra volta. Non era così
che doveva finire…
«Avete provato esattamente quello che ho provato io in quel
bacio, non è vero?», cercai di riportarlo alla
conversazione, ma sembrava che non mi volesse nemmeno ascoltare.
Continuava a darmi le spalle.
«È stato quello che vi ha trattenuto, il motivo
per cui non avete avuto la forza di divincolarvi
subito…».
Finalmente si girò, sospirò nel guardarmi.
Mi si avvicinò con un passo, mi posò la sua mano
gelida sulla guancia e mi diede un rapido bacio sulla fronte. Quello
bastò a farmi sentire una bambina al suo confronto. Non
l’adulta che tutti credevano, ma una bambina.
Lui, almeno, mi vedeva come tale, ed era quasi ironico il fatto che
fosse davvero l’unica persona a cui io volevo apparire come
una donna. Ma forse non lo ero.
«Addio, Esme. È stato un piacere avervi
conosciuto».
Mi oltrepassò, bloccandosi appena prima di aprire la porta.
«Davvero». E se ne andò.
Rimasi immobile, al centro della stanza, a versare lacrime silenziose,
ascoltando il rumore dei suoi passi sul parquet che si facevano sempre
più lontani, distanti, inesistenti.
Mi avvicinai alla finestra e lo vidi camminare a passi svelti sul lato
della strada ciottolata, le spalle incurvate e l’ombrello a
ripararlo dalla pioggia.
Una malevola consapevolezza, una voce interiore mi sussurrò
tristemente che quella era la fine del capitolo Cullen, un libro
compianto che svaniva come il resto della mia vita.
Niente di più vero c’era in quella riflessione.
Quel ricordo mi perseguitava ancora, scritto a lettere incancellabili
su quel vecchio diario che riesumai dallo scaffale due anni dopo.
Scrutando la strada dalla mia camera, potevo ancora vederlo, e chiudere
gli occhi non serviva perché le immagini di quel giorno
aggredivano la mia mente, graffiandola fino a farla sanguinare.
Così piansi ancora, sfogandomi senza mai provare
soddisfazione.
Carlisle si era sbagliato, non era illusione. Non avevo mai smesso di
desiderarlo.
Ma ormai quel che era stato faceva parte del passato perché
lui se n’era andato. Lo venni a sapere pochi giorni dopo.
Dicevano avesse chiesto il trasferimento in un ospedale a nord, ma
nessuno sapeva precisamente dove.
Dal suo addio non ero più riuscita a tornare la Esme solare
di prima. Passavo le mie giornate in casa, sorridevo per convenzione, e
fingevo.
«Esme, mi concedereste l’onore di farvi mia
sposa?».
«Sì, Charles. Sarò vostra
moglie».
Finsi.
Sono
tornata, come promesso, con il terzo capitolo :)
La Meyer non parla assolutamente di questa discussione avvenuta tra i
protagonisti, ma mi piaceva l'idea, quindi l'ho inserita di mia sana
pianta xD
Spero vi abbia emozionato *-* Personalmente, a distanza di tempo l'ho
riletto e mi batteva forte il cuoricino xD Ma solo per la nostalgia...
in fondo, l'avevo scritto tempo fa, mi emoziona leggere i miei vecchi
scritti :) Purtroppo questo mi impedisce di essere oggettiva,
quindi spero lo sarete voi per me, con le vostre recensioni :)
Il prossimo capitolo è in fase di elaborazione, spero di
riuscire a pubblicarlo presto :) Sono anni che è in fase di
lavorazione, ormai xD Non so perché, ma l'ho trovato molto
difficile da scrivere o.o Tranquille, comunque xD Presto
sarà online ^^
Un bacio!
Ne approfitto per ricordarvi l'altra mia long-fic su Twilight.
Infantility
Fiction molto dura, ambientata durante le vicende di Eclipse e, in
seguito, di Breaking Dawn. Non si tratta della solita storia
sdolcinata, piena di amore e problemi di coppia. No, questa storia
vuole ritrarre qualcosa di doloroso, di cupo e drammatico. Qualcosa di
immutabile. Qualcosa che la Meyer ha giusto accennato e qualcosa di cui
molti di noi si sono dimenticati.
Ci sarà passione, delusione, gelosia, rabbia e malinconia.
Ci saranno lacrime, ferite, ricordi dolorosi, tradimenti.
E ci sarà lei, l’innocenza e la morte. La piccola,
dolce, spietata Meredith.
Certe cose sono fatte
per andare e venire, il tempo è fatto per essere passato,
presente e futuro, altrimenti nulla avrebbe più davvero
senso. Ma la verità è che il cambiamento era un
privilegio che ci era negato e vivere iniziava a perdere di
significato.
Ecco perché
ci trovavamo sul tetto di un palazzo, quella notte. Stavamo dando un
senso a ciò che eravamo.
Questa fanfiction si
preoccupa di sensibilizzare il lettore, in maniera metaforica, sugli
aspetti di una rara malattia psicosomatica: l’infantilismo.
Hilary
|
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Capitolo 4 *** Passato III ***
Missing
Memories
Passato
III
«Mrs. Evenson, va bene così?», mi chiese
la piccola Charlotte, avvicinandosi alla cattedra.
Guardai il cartoncino che mi porse. Il Babbo Natale che le avevo
disegnato ora era tutto colorato, con la cintura decorata da tanti
piccoli chicchi di caffè e la folta barba resa
più vaporosa da batuffolini di cotone. Era così
buffo!
«È perfetto, Charlotte. Sei stata davvero
brava», mi congratulai per il lavoro che aveva fatto.
«Questo va subito appeso!».
Sorrideva, felice del mio responso positivo.
Insieme, attaccammo un nastrino rosso sul retro del foglio, poi glielo
restituii. «Ecco fatto».
Mi alzai dalla sedia e la seguii mentre i suoi saltelli entusiasti
facevano svolazzare il suo bel grembiulino.
Con estrema precisione, quella di una bimba a modo, sistemò
il cordoncino attorno a uno dei rametti del giovane pino che avevo
portato in classe una settimana prima.
«Che bello. Avete visto, bambini? Il nostro alberello di
natale ora è più colorato di quello della
piazza!».
I miei quattordici alunni batterono le mani ed esultarono.
«Però non ci sono i regali!», fece
notare Anthony.
Lo guardai e sorrisi della sua espressione innocente. «Beh,
Babbo Natale non è ancora passato, ma ho saputo che ha letto
tutte le letterine che gli abbiamo spedito la scorsa settimana. Gli
sono piaciute così tanto che mi ha pregato di ringraziarvi
con un pacchettino extra».
Mentre prendevo la sacca dal vecchio armadio a muro, udii tanti
“oh” di stupore alle mie spalle.
«Allora, cosa state aspettando? Me li tengo tutti io,
eh!», li incitai scherzosamente e subito tutti si
precipitarono intorno a me.
La Casa del Dolciume del signor Leeroy era una meta ambita da molti di
loro mentre giravano per il centro città mano nella mano con
le mamme, ma le barrette di cioccolato costavano
un’esagerazione per colpa della crisi che già si
faceva sentire nella povera Columbus.
Ne feci impacchettare quindici quella mattina, per i miei allievi e per
il figlio della mia amica Bernice.
La campanella suonò e tutti iniziarono a ritirare le loro
cose nelle cartelle, e anche io feci lo stesso.
«A domani, Mrs. Evenson!», mi salutarono in coro.
«A domani, bambini».
Guardai fuori dalla finestra. La neve ricopriva le vie e non sarebbe
tardato molto prima di vedere la seconda gelata invernale. Mi infilai
il cappotto e strinsi bene la sciarpa di lana intorno al collo,
preparandomi al terribile sbalzo termico.
«Mrs. Evenson…».
Mi voltai notando che la piccola Janette mi si stava avvicinando rossa
in viso.
«Dimmi, Janette. Cosa c’è che non
va?», le chiesi preoccupata, posandole una mano sulla spalla
e inginocchiandomi alla sua altezza.
«Niente, Mrs. Volevo solo darle questo. È il mio
regalo per lei», disse porgendomi un biglietto ripiegato.
Lo aprii lentamente, con la paura di stropicciarlo o rovinarlo in
qualche modo.
Al suo interno vi era scritta a mano, con una calligrafia infantile,
una semplice filastrocca:
Splendi nella notte
stella bianca,
stella d'amore.
Splendi su di
noi
e una speranza
cresce nel cuore.
Ti viene la
voglia di sognare
per volare
lassù, dove vivi tu.
Tu, stella di
Natale,
stella di
Natale portaci la pace
e lascia un
po' della tua luce dentro di noi.
Stella di
Natale,
resta un po'
di più...
fermati
lassù!
«Me la canta sempre la mia mamma la vigilia di Natale, prima
che mi addormenti. A me piace tanto e pensavo che anche a lei e a suo
marito potesse piacere».
Io… non sapevo cosa dire. Il boccone che mandai
giù in quel momento era più dolce del cioccolato.
«Janette, è bellissimo, davvero. Sarà
il regalo più bello sotto l’albero,
quest’anno».
Il suo sorriso valse più di mille parole.
«Grazie».
Dio solo sapeva quanto amavo trascorrere le mattinate con loro, i miei
studenti, i miei bambini. Era una soddisfazione infinita.
La loro innocenza, la semplicità con cui si esprimevano era
una gioia ai miei occhi. Mi sentivo parte di loro. E forse un
po’ lo ero davvero.
Mi rialzai e incurvai le labbra tremanti, ricacciando le lacrime di
contentezza che premevano per sgorgare. Non potevo farmi vedere in
quello stato… Non da insegnante, almeno.
Le presi la mano e la accompagnai fino all’uscita della
scuola, dove mi salutò spensierata. «Arrivederci,
Mrs. Evenson!».
Sospirai.
Erano appena le quattro del pomeriggio, ma per me la giornata era
già giunta al termine.
Avrei tanto voluto poter tornare a casa e assopirmi fino al giorno
dopo, quando l’istituto riapriva i battenti e io potevo di
nuovo stare con i miei bambini. Sì, sarebbe stato bello, ma,
come ogni volta, sapevo che non sarebbe stato così facile.
Il tempo in solitudine non passava mai e io rischiavo di impazzire
rinchiusa entro quelle quattro mura che erano la villa di mio marito.
Sempre,
sempre… sempre da sola.
Una ventata d’aria gelida mi costrinse ad infilare le mani in
tasca e a stringermi meglio che potevo nel cappotto, poi
m’incamminai abbassando un poco la testa per proteggere il
naso nel morbido tessuto di lana.
«Esme!», urlò Bernice dalla contentezza.
«Oh, Esme… quanto mi sei mancata!». Mi
abbracciò come se non mi vedesse da una vita.
Risi della sua genuinità e la assecondai.
«Bernice, dai… sono passati solo pochi
mesi…».
Mi liberò dalla sua formidabile stretta impazzita e mi
guardò sorridendo, con un finto cipiglio. «Che
fine hai fatto, si può sapere? Cosa ti ha tenuta
così impegnata da non avere più tempo per la tua
migliore amica?».
«Oh, beh…».
Mi fece accomodare in soggiorno, una piccola stanzetta accogliente
dalle assi di parquet cigolanti e mobili in legno di scarsa
qualità.
Mi sedetti sul divano un po’ malconcio e cercai di trovare
una scusa per rispondere alla sua domanda.
«Sai… il lavoro, la casa, le cose di tutti i
giorni…».
Non ero molto brava a mentire. Poi, a Bernice era difficile darla a
bere.
«Anche io ho di queste faccende da sbrigare… e il
bambino, naturalmente. Tuttavia, riesco sempre a trovare del tempo per
me stessa e le mie amiche. Tu dovresti fare lo stesso, Esme».
Già… forse avrei dovuto farlo anche io.
Il mio fu un sospiro impercettibile. Ero andata a trovarla per sfuggire
alla mia vita per qualche minuto, e non avevo alcuna voglia di sentire
ramanzine.
«Oh, giusto! Dov’è il piccolo David? Ero
passata per dargli un pensierino», dissi tentando di cambiare
discorso.
Lo sbuffo concitato di Bernice mi fece capire che non aveva gradito i
miei modi evasivi. «È da mia madre in questi
giorni. Sotto le feste il lavoro si è triplicato e cerchiamo
di mantenerci attivi per sbaragliare la concorrenza».
Camminò scocciata fino in cucina.
«Vuoi un tè?», mi chiese.
Sospirai. «No, grazie».
Tornò poco dopo con un bicchiere di vino in mano, si sedette
sulla sedia di legno davanti a me e ne bevve un sorso.
Piombò il silenzio.
Era incredibile. Non la vedevo solo da qualche mese e già la
nostra amicizia si stava sgretolando.
Non ci potevo credere. Non ci volevo credere!
Possibile che non avevamo nulla da raccontarci dopo tutto questo tempo?
«E Robert?», le domandai del marito, il panettiere.
Bernice scrollò le spalle. «Come ti ho detto,
siamo tutti e due molto impegnati con il negozio. E con
l’arrivo di David, beh…».
Sospirò. «Diciamo che le cose tra noi si sono un
po’ smorzate».
Nemmeno la vita di Bernice era come l’aveva sognata da
ragazzina. Forse, nessuna donna di quell’epoca poteva
semplicemente permettersi di sognare. Io lo sapevo bene.
«Il tuo Charles, invece?», chiese.
Abbassai lo sguardo. Non ci volevo pensare.
«È ancora al fronte», mormorai a fil di
voce.
Bernice sussultò dalla vergogna. «Oh,
Dio… Esme, non volevo, non ricordavo
che…». Si alzò dalla sedia e venne a
sedersi accanto a me. Mi prese le mani tra le sue, cercando di
confortarmi.
«Tornerà presto, vedrai!», mi
rassicurò. «Sano e salvo».
Non aveva capito. Nessuno mi poteva capire. Ma così doveva
essere.
Continuavo a fingere. E la finzione stava iniziando ad essere la mia
realtà, insieme a quella di tutti gli altri.
La piccola Esme che c’era dentro di me, quella bambina piena
di sogni e speranze, stava a poco a poco svanendo, e Mrs. Evenson stava
prendendo il suo posto.
Lasciai casa Collins pregando che le parole di Bernice non si
avverassero.
Eccomi
con il terzo capitolo tratto dal passato :)
Perdonatemi, lo so che non è così
entusiasmante... ma era estremamente necessario.
Secondo la Meyer, Esme riesce a coronare il suo sogno di diventare
insegnante solo dopo che scappa da Columbus, ma ho voluto apportare
questa piccola (grande xD) modifica per dare più senso alla
mia trama, che comunque non si vuole distaccare troppo dai fatti nudi e
crudi che la nostra cara Stephenie ci ha fornito :)
Vi prometto che il prossimo capitolo sarà mooooooolto
più interessante xD Oh, sì... decisamente! Preparate i fazzolettini,
care lettrici *.*
Ah, chiedo scusa se a qualcuna di voi ho detto che non avrei pubblicato
questa settimana... Purtroppo, la vacanza è saltata,
quindi... q.q Beh, scrivere mi risolleva :)
Importante: forse
molte di voi si aspettavano che parlassi del matrimonio di Esme,
piuttosto che saltare subito a qualche anno dopo :) Non disperatevi,
mai avrei voluto deludervi xD Diciamo solo che ho voluto prendere due
piccioni con una fava, quindi... vi ho preparato un extra xD Fa sempre
parte di questa storia, ma l'ho pubblicata a parte come One-shot ^^
Perché? Beh, perché descrive la scena del
matrimonio di Esme dal punto di vista di Carlisle xD Spero
vi piaccia, io ho letteralmente amato scriverla ^^'
Senza ulteriori indugi, a questo
link troverete la storia ^^ Posso aspettarmi
qualche commentino? ^^
Un bacio!
Hilary
|
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Capitolo 5 *** Passato IV ***
Missing
Memories
Passato
IV
Tornai a casa a piedi, infradiciandomi gli stivaletti e
l’orlo del mio lungo cappotto, ma non me ne curai
granché.
Nonostante fosse un po’ spostata dal centro do Columbus, e
piuttosto isolata, raggiunsi villa Evenson prima che il sole dicembrino
tramontasse.
Non avevo alcuna voglia di rinchiudermi di nuovo fra quelle quattro,
sontuose mura, così in contrasto con l’idea
semplice e familiare che avevo del concetto di
“casa”, eppure vi ero costretta da quel mostro di
consuetudini che chiamavano società.
Erano mesi, ormai, che ignoravo le voci che giravano sul mio conto in
città, ma la situazione stava diventando insostenibile. La
gente non faceva altro che giudicarmi, etichettandomi come una pazza
che aveva dimenticato il suo posto nel mondo, come donna e come moglie,
e, anche se non avevo nulla di cui scusarmi, desideravo farli tacere,
quindi, mio malgrado, dovevo continuare la mia vita in
quell’orrenda casa, da brava mogliettina che attende
preoccupata il ritorno del marito dalla trincea.
Era maligno come pensiero, lo so, ma, nonostante fossi sfavorevole agli
scontri e alla violenza, per una volta bramai che quella maledetta
guerra durasse per il resto della mia vita, o almeno per un decennio, o
addirittura… la sua, di fine. Non chiedevo molto, dopotutto.
Scossi la testa e mi trascinai fin sul portico, trafficando nella borsa
in cerca delle chiavi.
Non c’era nessuno ad accogliermi al mio ritorno, nemmeno la
governante, che mi ero premurata di congedare dai suoi oneri settimane
addietro. La sua presenza era diventata soffocante per me,
così preferii crogiolarmi nella beata solitudine e vivere
finalmente come avevo sempre sognato. Libera, o quasi.
Casa Evenson era piuttosto grande e impegnativa da tenere in ordine, ma
pulire incessantemente non mi disturbava affatto. Anzi, riusciva a
tenermi occupata la mente e, di conseguenza, a farmi stare meglio,
anche se solo un poco.
Infilai la chiave nella serratura e cercai di dargli la mandata per
farla scattare, ma non accadde nulla. Indispettita da quel fuori
programma, afferrai il pomello per forzarlo, ma non fece resistenza. La
porta si aprì con un mio sussulto.
Restai immobile, spaventata.
Ero certa di averla chiusa quella mattina. Sicurissima.
Un ladro,
pensai.
Era stupida come supposizione, ma non avevo nessun’altra
spiegazione per quello. Un malvivente avrebbe scardinato la porta, non
l’avrebbe aperta così meticolosamente bene.
Accantonai quella riflessione afferrando il mio ombrello con entrambe
le mani, saldamente, ed entrai.
Strisciai contro il muro dell’entrata lentamente, senza fare
rumore, guardandomi intorno. Tutto era perfettamente in ordine,
lasciandomi ancora più confusa. I vasi di porcellana
c’erano ancora, mentre un rapinatore li avrebbe quasi
certamente portati via per rivenderli al mercato ad un buon prezzo.
Erano di valore, eppure erano lì, integri.
Nel cassettone in camera mia tenevo i miei gioielli e non potevo sapere
se erano spariti o meno, ma a quel punto ne dubitavo.
Mi passai una mano sulla fronte, rilassando i muscoli. Stavo
impazzendo.
Da sola, denigrata persino dalla mia stessa famiglia, in quella
prigione nobile e imperiosa, stavo perdendo il senso di me stessa. La
scuola era l’unica cosa che ancora mi teneva ancorata al
presente, il resto era nulla.
Sussultai. Un rumore metallico, dal salotto.
Imposi alle mie mani di non tremare rinserrando la presa sul manico
dell’ombrello. C’era qualcuno.
Tutti i pensieri scemarono dalla mia mente, svuotandomi, mentre un
sudore freddo mi pervase tutto il corpo. Non ero in grado di
combattere, né tantomeno di respingere un assalitore, ma che
altro avrei potuto fare? Quella era casa mia e, per quanto la odiassi,
ci vivevo ancora. Vivere nel terrore, sola com’era, non mi
era concesso.
Respirai profondamente, silenziosa, e mi avvicinai alla stanza attigua
con cautela, nascosta solo da un muro bianco e spoglio, ma abbastanza
da oscurarmi alla vista dell’intruso.
Come avrei agito, non lo sapevo. Qualsiasi azione sembrava troppo
pericolosa e avventata. Senza sapere con esattezza dove si trovasse ―
il salotto era piuttosto grande e arredato ―, mi era impossibile
progettare un assalto. Se avesse avuto un fucile, poi, non avrei
nemmeno avuto il tempo di raggiungerlo. Sarei morta.
A quel pensiero avvertii una curiosa e insolita
tranquillità. Mi fece stare… bene. O forse era
soltanto semplice apatia. Ormai tutto mi rendeva indifferente, persino
l’idea di morire.
Strinsi le dita attorno all’arma di legno improvvisata,
portandola in alto, pronta a compiere quel gesto. Quale fosse non lo
sapevo neanche io, in realtà, ma ero pronta a farlo comunque.
«Hai il respiro così pesante che ti si sente
dall’ingresso, tesoro».
Fui scossa all’istante da un formicolio bollente che mi prese
alla testa e mi scese fino al petto, come se di colpo l’aria
si fosse fatta pesante e l’eccessiva pressione mi avesse
schiacciato dall’interno. Era bastata quella sola voce,
improvvisa, inaspettata, molesta. Odiata.
Quei mesi di silenzio non erano bastati a farmela dimenticare. Era
tornata, ed era reale.
Non sapevo che fare, se lasciar cadere l’ombrello ai miei
piedi e sorridere o se stringerlo convulsamente tra le mani tremanti.
Non dissi nulla, immobile, il respiro trattenuto, ancora con la schiena
appoggiata a quel muro che mi separava da lui. Solo di poco. Troppo
poco.
«Vieni qui, figlia dell’imprenditore, e accogli tuo
marito come si converrebbe», mi ordinò con tono
duro e autorevole. Mi chiamava sempre così quando voleva
canzonarmi, figlia
dell’imprenditore, ricordandomi che di fatto non
ero nessuno. Io non ero Esme, ma la
figlia di mio padre, la
moglie del capitano Evenson. Non avevo mai avuto
un’identità che fosse solo mia e che non
dipendesse da altri. Speravo di poterla ottenere un giorno, anche
“la maestra” mi sarebbe andato bene, ma in quel
momento mi resi conto di quanto tutto fosse stato soltanto una mera
illusione.
Oh, piccola
Esme… sciocca Esme!
Lasciai che l’ombrello mi scivolasse dalle mani e cadesse a
terra, sbattendo sul tappeto con un tonfo silenzioso. Il mio sguardo si
abbassò quasi automaticamente, le spalle si incurvarono un
poco. Staccai la schiena dal muro ed entrai in salotto, lentamente,
sbirciando la sua figura austera accanto al camino che a sua volta mi
fissava con un ghigno che significava tutt’altro che un
semplice sorriso sghembo. Non avevo ancora imparato a decifrare
quell’espressione o, più banalmente,
l’avevo intenzionalmente rimossa dalla mia testa.
«Bentornato, Charles», mormorai soltanto.
Perché era rincasato così, da un giorno
all’altro, senza avvertire? La guerra era finita? Non ci
eravamo scritti nessuna lettera in quei mesi, ma il suo rientro in
città avrebbe dovuto essere sulla bocca di tutti da giorni!
Per quale motivo usare una tale riservatezza?
«Dov’è finita la governante, Esme? E il
resto della servitù?», mi domandò
serio. La sua mano faceva ondeggiare freneticamente un bicchiere di
scotch. «Dove sono finiti tutti? Hanno scelto di andarsene,
in mancanza del padrone?».
Scossi la testa, incapace di aprire bocca. L’aria
s’era improvvisamente fatta opprimente e così,
senza nulla a dividermi da lui, mi sentivo terribilmente fragile e
spoglia.
Quando mi si avvicinò di un passo, dovetti reprimere
l’istinto di indietreggiare. Forse avrei semplicemente dovuto
voltarmi e correre via, ma avevo troppa paura per farlo. Ogni parola,
ogni gesto poco calibrato avrebbe potuto provocarlo e scatenargli
reazioni a cui non volevo partecipare. Dovevo stare attenta, lo sapevo,
ma avevo la sensazione che questa volta qualcosa fosse già
scattato.
«E tu dov’eri, bambina sventata?».
Rimasi in silenzio, inghiottendo l’insulto e mantenendo uno
sguardo basso e sottomesso. Non avrebbe approvato una simile
emancipazione da parte mia. In città, davano la colpa di
tutto a lui, al marito, incapace di tenere la moglie tra le briglie. Se
solo avesse saputo, mi avrebbe spedita dritta all’inferno.
In un attimo il suo umore apparentemente calmo mutò.
Scagliò il bicchiere contro la parete alle mie spalle,
frantumandolo in mille pezzi, facendomi trasalire dallo spavento e
tremare da quello che sarebbe potuto succedere di lì a poco.
Mi afferrò le braccia con entrambe le mani, scuotendomi
rabbiosamente.
«Rispondi!». Mi fiatò a pochi centimetri
dal viso, nauseandomi con l’odore di alcol e di sigaro.
«Io… io ero da Bernice. L’aiuto con il
bambino…».
Mi lasciò così bruscamente da farmi vacillare,
ridendo.
«Oh, Esme… disobbediente e pure bugiarda me la
sono sposata!», esclamò con tono beffardo.
«La giovane maestrina!».
Non mostrai nessuno sgomento a quell’affermazione, ma ero
terrorizzata. Come l’aveva scoperto, se era tornato solo da
qualche ora? Poi pensai che forse si trovava già a Columbus
da giorni, nella tenuta di campagna del padre, e che avesse avuto tutto
il tempo per informarsi delle mie scelleratezze. Maledizione!
«Hai licenziato la mia servitù, e con quale
diritto? Hai lasciato che la mia stalla cadesse in rovina e hai provato
a fare lo stesso con la mia casa!». Si avvicinò di
nuovo, stringendomi le braccia più forte di prima.
«Quante libertà ti sei presa in mia assenza?
Sentiamo, cosa insegni ai tuoi piccoli e ingenui allievi? Ad essere dei
ribelli come te, dei pazzi ingrati?», urlò
rabbioso.
Mi spinse con tutta la sua forza, facendomi cadere rovinosamente sul
duro parquet. La disperazione aveva preso il soppravvento sulla paura,
schiacciandomi ancora una volta nell’umiltà
più assoluta.
Non potevo fare niente. Subivo e basta, sperando ogni volta che si
stancasse il più in fretta possibile.
I pianti lo facevano infuriare ancora di più, ma non riuscii
a trattenermi. Soffocai un gemito, mentre le lacrime iniziavano a
rigarmi il volto silenziose, anch’esse sottomesse da quella
spaventosa figura che mi fissava dall’alto.
Si chinò su di me, sopraffacendomi col suo peso, e mi
afferrò per i gomiti. Non feci resistenza, scongiurando
almeno una violenza fisica peggiore. Ormai avevo imparato a capire cosa
voleva, almeno un poco.
«Mi prendo anch’io queste libertà, ora.
Che ne pensi, moglie? Voglio essere un pazzo proprio come hai voluto
esserlo tu. Vediamo se così ti piace!».
Piansi, perché già sapevo cosa mi avrebbe fatto.
Piansi per dolore, per vergogna, per umiliazione. Piansi
perché avrei desiderato morire, prima di indossare
quell’abito bianco o quello stesso giorno, sotto le sue mani
rudi e volgari. Non mi importava più.
«Fammi vedere, Esme! Fammi vedere cosa insegni a quei
mocciosi!».
Mi sollevò la gonna con rabbia e mi strappò via i
collant, prendendomi a forza, facendomi male, spingendosi dentro di me
con tutta la furia che aveva in corpo.
Non ero più Esme, ma una bambola incapace di muoversi o di
reagire quando viene malamente sbattuta su un ripiano della camera.
Resta zitta, ancora sorridente e la bocca rosea, ma con gli occhi
perennemente lucidi.
Giurai in quel momento di soffocare ogni mio istinto. Di non amare,
né essere mai amata; di non avere pietà e di non
essere mai compatita; di non sposarmi e di non essere mai data in
sposa, finché non fosse giunta la fine.
Se avevo già contratto matrimonio, solo loro me
l’avrebbero rinfacciato. Dio sapeva fin dall’inizio
che i miei voti non avevano alcun significato per il mio cuore, e non
mi avrebbe punito per essere stata sincera con lui e con me stessa. No,
mi avrebbe dato una seconda possibilità, alla fine.
E se non me l’avesse data, me la sarei concessa da sola. Alla
fine.
Buongiorno,
fanciulle e fanciulli!
Lo so, mi devo vergognare. Non aggiorno questa storia da luglio o.o Non
è ammissibile un'attesa del genere!
Purtroppo, ragazze, scuse a parte, si scrive quando si ha tempo e
soprattutto quando si ha ispirazione q.q E spesso non basta.
Non sono granché soddisfatta di questo capitolo, ma era
esattamente ciò che dovevo dire, niente di più
niente di meno. Il rating è arancione, quindi non potevo
esagerare con la violenza ^^' E francamente non volevo. Insomma, questa
storia è narrata da Esme per vari motivi, tra cui la
dolcezza che il personagio mi ispira. Di certo non potevo essere troppo
volgare, perché Esme non lo sarebbe mai stata. Beh, avete
letto quello che ne è uscito, e spero che vi abbia
soddisfatto :)
Vi invito a leggere l'extra di Missing Memories, Angelo Bianco, che racconta del
matrimonio di Esme dal punto di vista di Carlisle, vincitore del premio
Cuore, per la storia d'amore più bella, e del premio
Lacrima, per la storia più commovente.
Ringrazio il giudice del contest, sweetPotterina, per aver assegnato i
bannerini personalizzati che troverete postati all'inizio della
one-shot :)
Un bacio!
Hilary
|
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Capitolo 6 *** Passato V ***
Missing
Memories
Passato
V
Esme Ann Platt Evenson, così mi chiamavo.
Ero nata da una famiglia benestante, avevo avuto una buona educazione e
infine mi ero maritata, come si conveniva ad ogni donna che meritasse
rispetto.
Avevo contratto il matrimonio con uno degli scapoli più
ambiti di Columbus, un capitano dell’esercito americano, un
partito invidiabile a quei tempi. Tempi che ormai erano finiti, almeno
per me.
Il treno su cui ero salita era partito da qualche minuto, e ogni miglio
che metteva fra me e quel posto che ricordavo di aver tanto amato
cancellava lentamente ciò che ero stata, per sempre.
Mi lasciavo alle spalle una vita di obbedienza, di rinuncia e
rassegnazione, di umiliazione, di rabbia repressa e di pianti
soffocati. Guardavo il mio passato scorrere dal finestrino di una
carrozza della seconda classe e mi accorsi di non provare niente. Non
ero triste, né malinconica, né arrabbiata, e
nemmeno felice. Non ero nulla.
Esme si stava spegnendo dentro di me, e con lei morivano tutti i suoi
dolori.
Che tu possa riposare in
pace, piccola bambina innocente.
Anne Elisabeth O’Malley, così mi chiamavo, ed era
l’unica cosa che sapevo di me. Forse avevo delle origini
irlandesi, ma era solo una supposizione.
Orfana, nessun parente, nessun amico. Non avevo una casa, non avevo un
lavoro, ma solo qualche spicciolo per poter cominciare ad essere
qualcuno.
Ero a bordo di un treno che non aveva una destinazione precisa.
Viaggiava verso nord, sapevo solo questo, e sinceramente non mi serviva
sapere altro.
Solo di due cose ero certa. La prima, che il viaggio sarebbe durato a
lungo, perché avevo intenzione di scendere ad una fermata
lontana, molto lontana. La seconda, che ero incinta.
L’avevo scoperto da poco, qualche giorno appena, ma
sicuramente il bambino cresceva dentro di me già da un paio
di mesi. Se me ne stavo andando da quella città, lo dovevo
soprattutto a lui. Era la mia piccola benedizione.
Se qualcuno mi avesse chiesto del padre, avrei risposto che non ce
n’era mai stato uno.
Sapevo che le ragazze madri non erano granché ben viste
nella società Occidentale, ma poco mi importava
sinceramente. Non avevo bisogno dell’approvazione di nessuno.
Saremo stati soltanto lui e io, e ci saremo trovati bene, ne ero sicura.
Finalmente avrei avuto l’amore che avevo sempre desiderato.
Finalmente avrei potuto essere me stessa.
Finalmente, avrei iniziato a vivere.
Io, Anne Elisabeth, o più comunemente chiamata Lisetta,
tipico nome della bassa estrazione sociale, avevo avuto un passato che
cercavo di insabbiare con tutte le mie forze.
A ricordarmelo però non fu la nostalgia, la lontananza dalla
mia terra natia, bensì l’unica cosa,
l’unico oggetto dal quale non avevo avuto il coraggio di
separarmi.
Oh, non era affatto la fede nuziale! Quella fu la prima cosa da cui
presi le distanze, ancor prima di gettarla fisicamente dalla finestra
della mia prigione.
No, quello che ora stringevo fra le mani era un vecchio quaderno
sgualcito, il mio diario degli anni della mia adolescenza, quando
ancora la piccola Esme nutriva dei sogni e delle speranze.
L’avevo riletto durante il viaggio, con calma, versando
qualche lacrima, provando compassione per ciò che ero stata,
per ciò che avevo dovuto essere, e desiderando solo per un
momento di poter tornare bambina e rivivere quei pochi attimi in cui mi
ero davvero sentita felice.
Carlisle…
Oh, quand’ero giovane ero rimasta affascinata da
quell’uomo in una maniera che persino ora faticavo a
descrivere! Ricordavo di averlo amato, di averlo desiderato, di aver
sognato un futuro insieme a lui… almeno finché
non si trasferì, senza dire a nessuno dove o
perché.
Ancora non so se lo fece per causa mia o per i suoi interessi, fatto
sta che mi spezzò il cuore e mi privò
dell’unica cosa per cui ancora potevo sorridere.
Nonostante questo, non sono mai riuscita a fargliene una vera colpa.
Per me, Carlisle è sempre rimasto l’uomo
più buono e gentile che abbia mai conosciuto, e se mai fosse
nato un maschio da questa mia gravidanza, avrei voluto che fosse
proprio come lui.
Sì, l’avrei educato come se fosse stato davvero
figlio suo, così avrebbe potuto crescere e rendere felice
una fortunata giovane donna, una ragazza sognatrice come lo ero stata
io.
Carlisle. L’avrei chiamato così, se fosse stato un
maschio, e O’Malley
sarebbe stato perfetto oltretutto, perché gli avrebbe
conferito un’aria europea che era propria anche del mio
dottore perduto.
Per la prima volta dopo anni, sorridevo. Mi accarezzavo il ventre e
gioivo nel sentire la leggera prominenza che presto sarebbe stata anche
visibile.
Non vedevo l’ora di stringerlo tra le braccia, di dargli
tutto l’amore che solo una madre può avere per un
figlio… e di contare finalmente qualcosa per qualcuno.
La mamma Lisetta e il piccolo Carlisle. Oh, non poteva promettere un
futuro più prospero!
Ehilà,
care lettrici e amanti della coppia in
questione! xD
Sì, lo so... sono mesi che non mi faccio viva ^^' Perdonate
q.q Quest'anno è l'ultimo di liceo per me e... l'esame
incombe (ombe... ombe...) o.o Inquietante.
Sì, insomma, avevo troppo da studiare e ho dovuto mettere da
parte le mie storie. Non che ora abbia più tempo da dedicare
loro, però forse sono riuscita ad organizzarmi meglio e a
riservarmi qualche oretta per la scrittura *.*
Sono molto felice di aver aggiornato questa storia, anche
perché siamo quasi alla fine :) Ebbene, sì,
questo era il terzultimo! Avrei potuto allungarlo e accorpare a questo
anche il penutlimo, ma non mi piaceva per niente. Questo è
un pezzo tratto dal passato molto corto, ma ha un suo perché
e deve stare da solo v.v Che memorie perdute sarebbero, altrimenti?
O.o' Avrei dovuto chiamarla Memorie Ritrovate, la storia v.v No, questa
long è nata per raccontare di frammenti, e così
farà fino alla fine (che è vicinaaaa! *.*).
E visto che la fine è vicina (mi ripeto troppo? xD),
cercherò di tentare di essere più tempestiva con
i prossimi due aggiornamenti :) E' una fanfiction che porto avanti da
troppo tempo e Esme sta iniziando a rompere le scatole con tutta questa
tristezza v.v Però, dai... un po' in questo frammento ha
sorriso :)
Spero vi sia piaciuto e che vi abbia fatto piacere rivedermi :) E so
che è poco professionale, ma... recensite! xD Su, su, dai
v.v Sarebbe un perfetto modo per dirmi "bentornata!" :)
Daiii, lo so che siete arrabbiate per il mio solito tremendo ritardo,
ma dovete ammettere che sono adorabile quando mi scuso! xD Okay, no q.q
Un bacio! :)
Hilary
|
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Capitolo 7 *** Passato VI ***
Missing
Memories
Passato
VI
Rientrai in stanza intorno alle otto di sera, sfinita.
La schiena mi doleva terribilmente, tanto che ormai avevo iniziato a
soffrire di nausea, e non per colpa del bambino che avevo in grembo. Le
mie gambe erano gonfie e pulsanti e avevo delle caviglie
così grosse che da qualche settimana ai piedi potevo portare
soltanto ciabatte.
Lavorare in una scuola elementare era sempre stato il mio sogno, ma
come insegnante, non certo come donne delle pulizie. Eppure, da quando
ero diventata Lisa, la ragazza madre senza passato, nessuno dei rettori
degli istituti di Vancouver si era sentito di assumermi; dicevano che
con quel mio pancione senza padre avrei potuto solo avere
un’influenza negativa sugli allievi. Ma il mio disgusto non
aveva avuto la meglio sul mio bisogno di trovare lavoro,
così avevo accettato l’unico impiego che mi era
stato offerto, come bidella.
Non ero nelle condizioni di potermi permettere il lusso di scegliere,
comunque. Lamentarmi non sarebbe servito a nulla.
«Buonasera, Hester», salutai, chiudendo la porta
alle mie spalle.
«Oh, ciao, Liz!».
Hester era la mia compagna di stanza, una ragazza bassa, dai capelli
ricci e castani, un viso rotondo dai lineamenti vagamente infantili. A
differenza mia, lei mi aveva raccontato molto del suo passato e della
sua famiglia: faceva parte della classe operaia, per niente ricca ma
decisamente unita, tanto che i suoi genitori si stavano massacrando di
lavoro e di sacrifici per permettere alla loro terza di quattro figli
di andare a vivere in un’altra città e di poter
seguire i corsi universitari.
Tuttavia, né io né lei avevamo i soldi per una
stanza d’albergo o per affittare un appartamento, per questo
soggiornavamo dalle suore e dividevamo la camera.
Alla Madre Superiora avevo dovuto raccontare che mio marito era morto
in guerra dopo avermi messa incinta, e, nonostante dubitavo ci avesse
davvero creduto, mi aveva accolto ugualmente nei dormitori del convento
di Saint Helena, ai piedi del promontorio che si affacciava
sull’oceano Pacifico, nella periferia della città.
Evidentemente, facevo più compassione di quel che pensavo.
Tolsi le ciabatte e mi sdraiai sulla branda senza nemmeno levarmi il
cappotto, sospirando tra dolore e stanchezza.
Non avevo ancora cenato, ma francamente non mi sentivo di mandar
giù neanche un sorso di tè, tanto era il
voltastomaco. Stavo davvero male…
«Come stai, oggi? Sei più pallida del solito,
Liz…», commentò Hester. Era sempre
tanto premurosa con me, più di quanto lo erano stati i miei
famigliari a Columbus.
Ora che ci pensavo, Hester somigliava molto a Bernice.
Oh, mi mancava così tanto! Ero fuggita senza neanche avere
avuto il tempo per dirle addio…
«Non è niente. Sono solo stanca», le
risposi.
«Sicura di non avere la febbre?».
Scrollai le spalle, sconsolata. Non avevo soldi per le medicine e non
potevo assolutamente mancare al lavoro, quindi non faceva differenza.
Avevo solo bisogno di riposare un po’.
«Non preoccuparti», le dissi.
Per tutta risposta, Hester chiuse il tomo di diritto penale e venne a
sedersi accano a me.
«Liz, devi smetterla di sfiancarti in questo modo. Non vedi
come ti sei ridotta?», mi fece notare, indicando prima il mio
viso emaciato, poi le caviglie ingrossate.
«Non posso, Hester», risposi. «Ho bisogno
di quei soldi. Non posso vivere qui per sempre. Devo assicurare a mio
figlio una vita migliore di quella che ho vissuto io».
Devo assicurargli una
scelta, pensai.
«Ma lui ha bisogno di te adesso! Credi che ammazzandoti di
lavoro così, tu gli stia facendo del bene?».
«Sono solo al settimo mese di gravidanza, Hester. E comunque
non ho scelta», ribattei. Tanto per cambiare.
«Invece, sì! Potrai ripagare la Madre Superiora
una volta che il bambino sarà nato e ti sarai ripresa. Di
certo, non ti lascerà in strada per un paio di mesi di quote
arretrate».
Mi passai una mano sulla fronte nel vano tentativo di placare il mal di
testa che mi stava venendo e mi accorsi di stare sudando freddo.
«Non è ancora il momento», sentenziai,
chiudendo il discorso.
Non mi andava di pensare ai debiti che ancora non avevo accumulato.
Volevo solo dormire, e sognare il giorno in cui nella mia vita sarebbe
finalmente comparsa la primavera.
Mi svegliai di soprassalto nel cuore della notte, il respiro accelerato
e pesante.
Mi ci volle qualche istante per capire cosa mi stava succedendo, poi
una fitta improvvisa mi colpì al basso ventre, mozzandomi il
respiro.
Istintivamente, mi portai una mano alla pancia e mi accorsi con orrore
che le coperte erano bagnate.
Accesi la luce del paralume sul mio comodino e scostai le lenzuola. La
mia camicia da notte era zuppa di liquido appena tiepido.
Un’altra fitta mi fece sussultare, e a quel punto mi prese il
panico.
«Hester… Hester, svegliati!», esclamai.
«Mmm… che succede?», chiese con la voce
impastata dal sonno. «Perché hai acceso la
luce?».
I suoi occhi si aprirono a fatica, ma quando incontrò il mio
sguardo atterrito si riscosse immediatamente e si tirò su a
sedere. «Cosa…».
«Credo… credo mi si siano rotte le
acque», dissi d’un fiato.
L’espressione di Hester era confusa, forse incredula, ma poi
abbassò gli occhi e vide com’erano conciati i miei
vestiti, allora capì. Saltò giù dal
letto e mi si avvicinò, non sapendo bene cos’altro
fare.
«Stai per partorire», mormorò con un
tono tra il dispiaciuto e l’incredulo. La sua voce non aveva
nulla di rassicurante.
Quel dolore acuto mi prese ancora, dilatandosi dal ventre alla schiena,
schiacciandomi contro il materasso. Se non urlavo era solo per il fiato
corto che avevo, ma afferrai la mano della mia compagna e strinsi per
tutta la durata di quella straziante sofferenza.
«È impossibile…», riuscii a
biascicare. «Mancano ancora due mesi!».
«Vado a chiamare la Madre Superiora. Lei saprà
cosa fare», rispose soltanto, agghiacciata. Si
liberò dalla mia stretta ed uscì dalla porta
correndo, lasciandomi su quel letto a prendere coscienza di quello che
stava realmente accadendo. Un parto prematuro.
I miei occhi si riempirono di lacrime e finalmente riuscii ad urlare,
ma non per il male della contrazione. Il dolore proveniva dal cuore.
«Voglio mio figlio! Datemelo in braccio, vi prego! Vi
scongiuro!».
Hester mi tenne ferma per le spalle e mi obbligò a rimanere
distesa. «Liz, calmati! Hai appena partorito, sei molto
debole. Riposati. Il tuo bambino starà bene, le suore gli
daranno tutta la cura di cui avrà bisogno». Mi
disse quelle parole mentre vedevo la Madre Superiora che richiudeva la
porta dietro di sé col mio piccolo tra le braccia.
«No, no! Lo voglio vedere, voglio abbracciarlo! Sono sua
madre!», urlai isterica.
Ero esausta, sudata, sdraiata sulle lenzuola ormai sudice della mia
branda, e piene di sangue, ma non sentivo male da nessuna parte. Non
sentivo niente.
L’unica cosa che desideravo in quel momento era stringere al
petto il mio bambino, tutto ciò che mi restava al mondo. E
me lo stavano portando via.
«È nato con due mesi di anticipo, Liz, cerca di
capire. Deve subito essere visitato da un medico».
Scossi la testa più volte, piangendo e continuando a
dimenarmi.
Non riuscivo a dire nulla, la mia mente era come svuotata.
Pregai Dio perché potesse salvare mio figlio, anche a costo
di dover rinunciare alla mia stessa vita. Non cambiava nulla, intanto.
L’avevo già fatto. Ma il mio piccolo Carlisle, no.
Lui doveva vivere!
Singhiozzai, in preda ai tremori.
Riuscivo solo più a mormorare frasi sconnesse.
«Il mio bambino… ti prego, ti prego… il
mio bambino… ti prego…».
Erano trascorsi tre giorni ed io ero riuscita ad alzarmi.
Disgraziatamente, era stato così.
«Mio figlio,
Madre, dov’è? Come sta?».
Il suo sguardo e le sue
spalle curve parlarono per primi, distruggendo tutte le mie speranze.
Non ero più consapevole di ciò che mi circondava,
né del mio stesso corpo. Non esistevo già
più.
Guardavo fuori dalla finestra della mia camera quel promontorio boscoso
dove ricordavo di essermi rifugiata parecchie volte dopo
l’arrivo a Vancouver, senza più alcun sentimento.
Lassù l’oceano era bellissimo, ed era molto
alto… lassù.
«Mi dispiace,
Elisabeth. Il piccolo è nato troppo presto, non ha resistito
nemmeno all’arrivo del pediatra».
Parole che mi uccisero.
«È
morto».
Mi uccisero davvero.
Curioso come ora avessi ripreso in mano quel vecchio diario.
Ogni sua pagina racchiudeva un pezzo della mia vita, un pezzo di
tristezza, un pezzo del mio cuore. Un pezzo di Esme.
Era arrivato il momento di chiudere quel capitolo, per sempre.
Fu proprio mentre guardavo quell’irta scogliera che aprii il
quaderno all’ultima pagina, e scrissi.
Ho lasciato tutto,
e
allora farò quel salto,
l’ultimo
bacio gelato.
La piccola Esme, finalmente, riposava in pace.
Come
promesso, ecco l'aggiornamento con una sola settimana di attesa ** Sono
fiera di me stessa! xD Voi non lo siete? **
Bando alle ciance... non avete idea di quanto sia stato emozionante per
me scrivere questo capitolo. E' stato... non saprei descriverlo...
Unico.
Questa storia non ha mai avuto molte pretese, probabilmente
perché di originale non ha nulla, di fatto. Volevo solo
mettere nero su bianco le vicende che hanno portato l'amore tra Esme e
Carlisle, più o meno accennate dalla Meyer qua e
là, non so più dove. Davvero, non avrei mai
pensato che il personaggio di Esme potesse darmi tanto, e invece
è stato così. Spero lo sia stato anche per voi :)
Anzi, spero davvero con tutto il cuore che il capitolo vi sia piaciuto
almeno la metà di quanto sia piaciuto a me scriverlo :) E'
stata pura emozione.
E con questo aggiornamento, non vi resta altro che attendere il gran
finale con il prossimo xD Un po' di nostalgia, lo ammetto,
già ce l'ho... ma sono anni che questa piccola long-fic
aspetta una conclusione e voglio potergliela dare, finalmente :)
Voglio solo precisare una cosetta riguardo la trama. Secondo la Meyer,
dopo che Esme si trasferisce al nord (dove non lo dice O.o'), riesce a
realizzare il suo sogno e diventa maestra di scuole elementari.
Partorisce il figlio concepito con Charles, che muore pochi giorni
dopo. Non dice altro.
Ecco, io ho preferito sviluppare la trama un po' diversamente, da come
avrete capito, aggiungendo particolari per darle un senso e cambiando
poche cose, ma che secondo me sono significative. Tutto qui :)
Ringrazio Ninfea Blu, Leaena e Dank_angel
per il sostegno che mi hanno dato (e mi stanno tutt'ora dando) per
realizzare al meglio questa storia :)
Un bacio!
Hilary
|
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Capitolo 8 *** Parte seconda ***
Missing
Memories
Parte
seconda
Point
of view
-Carlisle-
«Profumo. Dolce, profumo.
Quello della vaniglia, innocente, e del latte fresco, delicato. Bianco.
Ma non era né l’uno né
l’altro. No, quel profumo era caldo, vivo. Si spandeva piano,
lentamente, pulsava appena, ma c’era, potevo sentirlo.
Lavoravo all’ospedale di Vancouver ormai da qualche anno, ma
quando quella mattina presi servizio mi accorsi che c’era
qualcosa di diverso tra le mura dei reparti. Tutto era impregnato di un
odore che mi era terribilmente familiare, eppure la mia mente non
voleva saperne di riesumare il ricordo al quale era legato.
Avevo scelto Vancouver perché era una città nuova
per me, non ci avevo mai vissuto prima, e mi era sembrata perfetta come
meta, abbastanza lontana e assai dissimile dal posto dal quale ero
fuggito.
Columbus.
La mia espressione cambiò all’istante.
Il profumo che mi tormentava prese finalmente forma; un volto, una
folta chioma castana, uno sguardo amabile color cioccolato, un sorriso
gentile e, infine, quel nome tanto sospirato.
Esme.
Si trovava lì, in quell’ospedale.
Perché a Vancouver? Non poteva avermi trovato, non avevo
lasciato la minima traccia, nessuna informazione sulla mia nuova
residenza.
Le avevo detto addio anni addietro ed era stato già doloroso
all’epoca; non avrei sopportato una seconda separazione, non
avrei avuto la forza necessaria per allontanarmi ancora da lei.
Dovevo andarmene, subito. La tentazione di poterla rivedere era forte,
irresistibile, ma la mia forza di volontà andava ben oltre
il mio desiderio egoistico. Già una volta l’avevo
salvata dal mio inferno, e l’avrei salvata ancora.
Aprii la finestra del mio ufficio, deciso a voler cambiare quel destino
così ingiusto, a mettere fra me e l’angelo bianco
più miglia possibili, per lei, per il suo bene, la sua
felicità… ma non lo feci.
Il profumo si era affievolito fin quasi a svanire del tutto.
C’era qualcosa che non andava. Conoscevo fin troppo bene
quella sensazione.
Esme… non stava bene.
Il pensiero che si trovasse lì per problemi di
salute mi colpì come un pugno in pieno petto.
Se davvero era così, non si trattava di una semplice e
innocua freddura.
Esme stava morendo.
Uscii dal mio ufficio quasi scardinando la porta, lottando contro me
stesso per mantenere un’umana capacità di
movimento. Camminavo veloce, tutto ciò che mi potevo
concedere.
«Dottor Cullen…».
«Non adesso!».
Mi allontanai dal mio reparto e dalle infermiere che mi cercavano;
seguivo il debole profumo di Esme, ormai dimentico di tutti i buoni
propositi che avevo per lei. Volevo solo raggiungerla, ora.
Avevo paura.
Per la prima volta nella mia lunga vita immortale, avevo paura.
Terrore di perderla, sì, perché anche se
l’avevo abbandonata non l’avevo mai persa davvero.
Finché ci fosse stata lei al mondo, io avrei ancora potuto
vivere di amore e di speranze, un piccolo bagliore di luce
nell’immensa oscurità del mio dolore.
Esme.
Senza di lei, sentivo che avrei perso la ragione. Sarei morto dentro
senza mai perire davvero, e questa era una condanna che non sarei
riuscito a sopportare.
Scesi le scale a due a due, ancorato a Esme con la mente e con il
cuore, pregando Dio di non portarmela via, di darle una
possibilità di salvezza.
Varcai la porta dell’obitorio senza quasi rendermene conto.
Non è morta,
Esme. Non è morta, non ancora.
La sua dolce fragranza era flebile, sovrastata dal pungente odore di
corpi senza vita, ma era presente come l’ossigeno
nell’aria.
La luce del sole non raggiungeva quella stanza, resa ancora
più lugubre dalle barelle accostate al muro, le lenzuola
tirate a coprire i volti delle persone il cui cuore aveva appena smesso
di battere. Tutti tacevano. Tutti, tranne uno.
Oh, com’era debole il suo pulsare… Il mio udito di
vampiro, seppur cento volte più sviluppato di quello umano,
faticava a percepirlo.
Mi avvicinai a quel lettino coperto, le mie mani afferrarono
convulsamente il telo bianco, esitando, poi mi costrinsi a scostarlo.
Esme era lì, stesa e immobile, livida e sporca di sangue
rappreso su tutto il volto e sulle vesti strappate.
Cosa ti è
accaduto, angelo mio?
Il suo viso era bello, angelico, esattamente come lo ricordavo, ma
dolorosamente provato, troppo stanco per appartenere a lei, alla mia
piccola Esme.
Una smorfia di mestizia mi increspò le labbra. Ormai era una
donna, la mia Esme. La ragazzina che si era rotta una gamba per aiutare
due bambini era solo più un lontano ricordo, come quel bacio
che mi aveva donato e che ancora custodivo con estrema cura tra le mie
memorie.
Strinsi dolcemente la sua mano tra le mie, fredda e inerte, e me la
portai alle labbra, posando un lieve bacio sul dorso.
La sua pelle era violacea, la sua bocca, una volta rossa come le
ciliegie di maggio, era pallida e screpolata. Col tatto percepivo il
suo sangue scorrere nelle vene, lento, insufficiente, mentre il suo
respiro era quasi impercettibile.
«Aiutami, Signore. Cosa posso fare per salvarla?».
La mia voce era irriconoscibile, così roca e soffocata. Se
soltanto avessi potuto, avrei iniziato a piangere.
Nessuno avrebbe aiutato la mia Esme. Tutti pensavano che fosse morta,
ormai. E lo era, lo sarebbe stata presto.
Non puoi lasciarmi,
Esme, ti prego.
Non potevo supplicarla di restare, quando io stesso le avevo voltato le
spalle anni prima. Che razza di ipocrita!
«Non costringermi a farlo, Esme, ti scongiuro! Svegliati, ti
prego… svegliati…».
Niente.
Il destino mi stava ponendo di fronte ad una scelta troppo dolorosa da
dover prendere: donarle una vita d’inferno, con me, o
lasciarla morire.
Appoggiai la fronte al suo petto, abbracciandola, ascoltando il suo
cuore che spirava faticosamente gli ultimi battiti. In un modo o
nell’altro, si sarebbe fermato comunque.
Non potevo, non avevo la forza di lasciarla andare. Io amavo Esme. Era
l’unica donna per cui avrei mai potuto provare quel sacro
sentimento. L’unica per cui ero disposto a commettere
peccato. E lo commisi, perché nessun prezzo da pagare
avrebbe eguagliato il dolore di quella perdita.
«Perdonami, Esme», mormorai a fil di voce.
Le accarezzai una guancia e i capelli, poi le affondai i denti alla
base del collo, dove la giugulare riusciva ad avere ancora qualche
spasimo, così da permettere al mio veleno di invadere
più velocemente tutto il corpo, e il cuore.
Il suo sangue era l’apoteosi di tutto quel dolce profumo che
ancora riusciva ad emanare, un sapore così afrodisiaco da
minacciare il mio saldo autocontrollo, ma non abbastanza da farlo
cedere.
Mai avrei permesso a me stesso di pensare a Esme come a del cibo
perverso.
Mi staccai dalla sua gola per incidere i polsi e le caviglie. Il veleno
agiva più rapidamente e, di conseguenza, più
indolore se penetrava da più punti; avevo commesso
l’errore di non farlo con mio figlio Edward, quando lo
trasformai, ed era stato orribile.
Rimasi con Esme per tutto il resto della giornata, nascosti in un
magazzino, lontano da tutto e da tutti, in attesa che la notte
scendesse sulla città così da poterla trasportare
a casa senza destare il minimo sospetto.
Era una gioia poter sentire il suo cuore battere così
frenetico, segno che il veleno stava agendo in tempo, ma sotto la
felicità per averla salvata dall’oblio stava
nascendo un senso di colpa che, sapevo, non si sarebbe mai
più estinto.
Point of view
-Esme-
Dolore. Atroce dolore.
Un attimo prima nemmeno esistevo, l’attimo dopo ero sveglia,
di nuovo me stessa, e urlavo.
Era come avere il fuoco vivo dentro; ogni fibra del mio corpo bruciava,
avvolta da fiamme invisibili, mentre i muscoli si contraevano e
distendevano, facendomi dimenare.
Non sentivo nulla, se non dolore.
La mia pelle aveva perso sensibilità con
l’esterno. Ero solo certa di essere sdraiata,
perché non avrei assolutamente avuto la forza di sorreggermi
in piedi.
I miei occhi erano spalancati, ma non vedevano realmente. Colori,
miscugli indistinti. Ambra.
C’erano suoni, tanti, sovrastati dalle mie urla insistenti.
Una voce che non riconobbi.
Dolore, dolore, troppo
dolore.
Il fuoco abbandonò i miei arti, che ricaddero inerti. Adesso
infiammava al centro del mio petto, mozzandomi il respiro.
Rimase lì, a consumarsi lentamente come una candela accesa,
e quando finalmente si spense, liberandomi dal bruciore insopportabile,
mi spensi anch’io.
Abbracciai la morte come una bambina poteva abbracciare la sua mamma,
con una sorta di felicità, di sollievo che non provavo
più da molto tempo. E fu buio eterno.
Assenza.
Suoni, immagini, sensazioni. Assenza totale.
Fluttuavo in uno spazio indefinito, nero, buio, profondo, senza meta
alcuna.
Intorno a me c’era il nulla, il vuoto assoluto. Nemmeno io
avevo più una consistenza.
Non provavo niente. Né paura, né angoscia, ma
nemmeno pace e tranquillità. Di quell’assenza
facevo parte anche io.
«Esme».
Una parola, un nome. Così
lontano…
«Esme!».
Di nuovo, più deciso.
Ero io, Esme? Sì, quello era il mio nome. Adesso lo
ricordavo.
All’improvviso fu percezione, e io iniziai a prendere una
forma, ad occupare quello spazio che prima neanche esisteva.
«Apri gli occhi, Esme».
Una voce. Dolce, pensai. Calda.
E fu di nuovo sensazione.
«Apri gli occhi!».
Un ordine privo di significato.
L’attimo prima galleggiavo in un denso nero,
l’attimo dopo ogni cosa ebbe una forma, una massa, un colore,
una ragione di esistere.
Un telo bianco che si chiamava soffitto, una macchia dorata al centro,
il lampadario, e due pietre ambrate incastonate in un ovale perfetto.
Ambra.
«Respira, Esme».
Due linee piene, le labbra di un viso, si mossero.
Da un momento all’altro, i miei polmoni si espansero, e
l’aria riprese a circolarmi in corpo.
Però era diverso. Non mi diede alcun sollievo.
Sentivo di non averne davvero bisogno.
Aprii la bocca perché ricordavo di poter parlare, ma non vi
uscì niente.
«Riprovaci», m’impose l’uomo.
Sì, era un uomo.
Lo guardai meglio, soffermandomi sui lineamenti. Osservarlo mi
procurava una sensazione strana, un misto tra disagio e gioia, sollievo
e dolore, nostalgia e confusione.
Corrugai la fronte. Mi era… familiare.
Boccheggiai, mentre delle lettere lampeggiavano nella mia mente.
«Carlisle».
Bastò pronunciare quel nome, e i ricordi di tutta una vita
mi piombarono addosso, schiacciandomi in un mare di tristezza e mesta
malinconia.
Trasalii, stringendo convulsamente qualcosa di solido, qualcosa che
scoprii essere la sua mano. La mano di Carlisle, del mio vecchio
dottore di Columbus, del mio primo amore; quell’uomo a cui
avevo donato il mio primo bacio, e tutto il mio cuore. Quello stesso
uomo che se n’era andato, lasciandomi al mio destino.
C’era stato il matrimonio, la guerra, il sesso, la
violenza… poi, la fuga, la gravidanza, il parto…
e la morte, quella di mio figlio e la mia.
«Sono… viva», mormorai, incredula. Ma
forse, mi sbagliavo.
Erano anni che non rivedevo Carlisle, e trovarlo così, bello
e giovane come all’epoca, che mi sorrideva
dolcemente… Oh, era il Paradiso!
«Sì, sei viva, Esme», mi disse. La sua
espressione si colmò di una gioia immensa e la sua mano
lasciò la mia per carezzarmi la guancia. «Sei
viva», ripeté.
Avevo dimenticato la splendida sensazione che mi procuravano i suoi
tocchi. Chiusi gli occhi per un istante, beandomi di quel momento come
se potesse essere l’ultimo, vivendolo e assaporandolo per
tutta la sua durata, ma quando tornai a guardarlo, lui era
lì, ancora vicino, ancora con le dita sulla mia pelle.
«Se non sono morta, voi perché siete qui? Sto
forse sognando?».
Lui rise appena, scuotendo la testa. «È tutto
vero, Esme».
Sbattei le palpebre, confusa. «Ma io ricordo di essermi
gettata dalla rupe… di essere caduta in
mare…».
«È tutto finito, adesso», mi
spiegò, negando ancora con la testa. «Non
soffrirai più, Esme, te lo prometto. Ora posso farlo, posso
giurartelo. D’ora in avanti e per
l’eternità, ci sarò io a proteggerti,
se tu lo vorrai».
Avevo sognato quelle parole per un tempo che mi sembrava infinito, e
ora che quella bocca, quella voce le pronunciava, mi sentivo come se
qualcuno ― o lui, proprio lui ― avesse forzato la serratura
della gabbia nella quale avevo sempre vissuto, e per la prima volta mi
sentii libera. Libera di vivere, libera di amare, di essere finalmente
me stessa.
«Mi avete… salvata», sussurrai,
saturando il mio tono di immensa gratitudine.
Non mi importava come, perché tutto fosse accaduto. Non mi
importava del passato, di quello che era successo. Ci sarebbe stato
tempo per tutto, in futuro. Ora, volevo solo vivere quel presente che
avevo tanto agognato.
Gli portai le braccia al collo senza più nessuna inibizione.
Entrambe le sue mani corsero ad accarezzarmi la schiena, mentre
avvicinavo il mio viso al suo, ma quella volta fu diverso.
Non fu veloce, né improvviso come lo era stato la prima
volta.
No, adesso entrambi sapevamo cosa stava per succedere, e non ci
sarebbero stati ripensamenti.
Nessuno sarebbe fuggito, quella volta.
Fu Carlisle a baciarmi, adesso, a unire le nostre labbra in un tocco
carico di significati, di sentimento, di passione… di un
amore represso per troppi anni.
Il mio, ma anche il suo. L’avevo sempre saputo.
Fu un’esplosione di baci passionali, profondi, intervallati
dalle sue sole parole, dal suo enorme dispiacere. «Perdonami,
Esme… per tutti questi anni… per averti
abbandonata… perdonami».
Oh, ma io non dovevo perdonarlo. Non l’avevo mai incolpato di
nulla.
Lo strinsi di più a me, rispondendo ai baci con foga,
dimostrandogli che non portavo alcun rancore nel cuore, ma soltanto
quell’immenso desiderio che avevo di lui.
«Resta con me, Esme. Ti voglio accanto fino alla fine dei
giorni, angelo mio».
Risi di gioia a quelle parole, e lui con me, abbracciandomi forte come
nessuno mai aveva fatto.
E lì, avvolta da quelle braccia, premuta contro il corpo
dell’uomo che amavo, quel passato tanto doloroso sembrava non
essere mai esistito, così fosco e confuso nella mia mente e
così in contrasto con la felicità che stavo
provando.
Lì, in quel momento, seppi che non stavo vivendo il lieto
fine di una storia tragica, bensì l’inizio di
qualcosa di molto più grande.
D’ora in avanti, avrei vissuto per davvero.
Fine
Et
voilà!
Ora, posso dichiarare conclusa Missing Memories.
Mi fa strano dirlo xD
C'è un po' di nostalgia nelle mie parole, perché
nonostante fosse nata come long-fic breve, resta sempre una storia alla
quale ho dedicato molti sentimenti, e con la quale ho condiviso tante
emozioni.
Riconosco di non essere molto portata per i capitoli conclusivi. In un
modo o nell'altro, li rovino sempre. Ma ho davvero impegnato tutta me
stessa per scriverlo, e spero ne sia valsa la pena :)
Spero di avervi soddisfatto come autrice, di avervi trasmesso il
più possibile, di avervi fatto commuovere e sospirare. Spero
di essere stata all'altezza delle vostre aspettative. E spero mi
seguirete ancora.
In questo ultimo capitolo c'è stato qualche riferimento alla
one-shot "Angelo bianco" da parte di Carlisle, e ve la linko nel caso
non l'abbiate ancora letta e abbiate nostalgia di questa coppia (Angelo bianco).
Ho ancora molto da dire su Carlisle ed Esme, di certo non è
finita qui :) Ho già in progetto di scrivere una one-shot
molto tenera e magari un po' più ricca di passione su di
loro, che andrà a far parte della serie di Missing Memories.
E magari, qualcos'altro. Non lo so. Andrò dove l'ispirazione
mi porterà :)
Ringrazio tutti coloro che hanno seguito questa storia, che l'hanno
saputa apprezzare, e ringrazio le ragazze che mi hanno sostenuta
dall'inizio alla fine. Non posso vantare un numero esorbitante di
lettori, ma posso vantarne la qualità, di sicuro :) Siete
stai e sarete sempre importanti per me. Grazie di tutto, davvero.
Un bacio e buon sabato a tutti!
Hilary
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