Spy Eleven -Inazuma Agency

di Melabanana_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mission 1. ~The Beginning ***
Capitolo 2: *** Mission 2. ~The Beginning ***
Capitolo 3: *** Mission 3. ~The Beginning ***
Capitolo 4: *** Mission 4. ~The Beginning ***
Capitolo 5: *** Mission 5. ~The Beginning ***
Capitolo 6: *** Mission 6. ~The Beginning ***
Capitolo 7: *** Mission 7. ~Dancing Party01 ***
Capitolo 8: *** Mission 8. ~Dancing Party02 ***
Capitolo 9: *** Mission 9. ~Jordaan's Arc ***
Capitolo 10: *** Mission 10. ~Jordaan's Arc ***
Capitolo 11: *** Mission 11. ~Jordaan's Arc ***
Capitolo 12: *** Mission 12 ~Jordaan's Arc ***
Capitolo 13: *** Mission 13 ~Jordaan's Arc ***
Capitolo 14: *** Mission 14 ~Jordaan's Arc ***
Capitolo 15: *** Mission 15. ~Decision01 ***
Capitolo 16: *** Mission 16. ~Decision02 ***
Capitolo 17: *** Mission 17. ~Diam's Arc. ***
Capitolo 18: *** Mission 18. ~Diam's Arc. ***
Capitolo 19: *** Mission 19. ~Diam's Arc. ***
Capitolo 20: *** Mission 20. ~Diam's Arc. ***
Capitolo 21: *** Mission 21. ~Diam's Arc. ***
Capitolo 22: *** Mission 22. ~Diam's Arc. ***
Capitolo 23: *** Mission 23. ~Hiroto's Arc. ***
Capitolo 24: *** Mission 24. ~Hiroto's Arc. ***
Capitolo 25: *** Mission 25. ~Hiroto's Arc. ***
Capitolo 26: *** Mission 26. ~Hiroto's Arc. ***
Capitolo 27: *** Mission 27. ~Hiroto's Arc. ***
Capitolo 28: *** Mission 28. ~Hiroto's Arc. ***
Capitolo 29: *** Mission 29. ~Hiroto's Arc. ***
Capitolo 30: *** Mission 30. ~Hiroto's Arc. ***
Capitolo 31: *** Mission 31. ~Hiroto's Arc. ***
Capitolo 32: *** Mission 32. ~Hiroto's Arc. ***
Capitolo 33: *** Mission 33. ~Hiroto's Arc. ***
Capitolo 34: *** Mission 34. ~Hiroto's Arc. ***
Capitolo 35: *** Mission 35. ~Hiroto's Arc. ***
Capitolo 36: *** Mission 36. ~Hiroto's Arc. ***
Capitolo 37: *** Mission 37. ~Hiroto's Arc. ***
Capitolo 38: *** Mission 38. ~Hiroto's Arc. ***
Capitolo 39: *** Mission 39. ~Hiroto's Arc. ***
Capitolo 40: *** Mission 40. ~Hiroto's Arc. ***
Capitolo 41: *** Mission 41. ~Hiroto's Arc. ***
Capitolo 42: *** Mission 42. ~Hiroto's Arc. ***
Capitolo 43: *** Mission 43. ~Hiroto's Arc. ***
Capitolo 44: *** Mission 44. ~Hiroto's Arc. ***
Capitolo 45: *** Mission 45. ~Hiroto's Arc. ***
Capitolo 46: *** Mission 46. ~Hiroto's Arc. ***
Capitolo 47: *** Mission 47. ~Hiroto's Arc. ***
Capitolo 48: *** Mission 48. ~Midorikawa's Arc. ***
Capitolo 49: *** Mission 49. ~Midorikawa's Arc. ***
Capitolo 50: *** Mission 50. ~Midorikawa's Arc. ***
Capitolo 51: *** Mission 51. ~Midorikawa's Arc. ***
Capitolo 52: *** Mission 52. ~Midorikawa's Arc. ***
Capitolo 53: *** Mission 53. ~Midorikawa's Arc. ***
Capitolo 54: *** Epilogo (1) ***
Capitolo 55: *** Epilogo (2) ***



Capitolo 1
*** Mission 1. ~The Beginning ***


Midorikawa's P.O.V.

Notte fonda.
Il buio era accecante, le luci dei lampioni in fondo alla strada appena appena visibili.
Tokio, o meglio quell’esatta zona di Tokio, non era certo il posto più bello per affrontare una nottata buia come quella. Sentivo il freddo penetrarmi nelle ginocchia.
Da quanto tempo ero seduto su quell’edificio di ferro?
I lavori di quell’edificio erano incompleti e lo sarebbero  rimasti per sempre visto che c’era qualcosa di grosso dietro. Interessi grossi, di un personaggio grosso. Peccato che, per il momento, di quel personaggio ci era nota solo l’ombra, che si allungava sulla città in lungo e in largo da un paio di anni.
Qualcuno si stava costruendo un impero colossale.
Ed è contro quel qualcuno che noi combattevamo.
-Fai attenzione, è scivoloso quassù- mi sussurrò il mio partner.
Gli feci cenno di star zitto.
In quel momento sotto di noi stava avvenendo una trattativa.
Uno dei due era un uomo massiccio (ma quanta palestra aveva fatto?!) con barba da capretta, l’altro un ometto basso, vestito di viola e rotondo con una decina di guardie del corpo.
Facile dire che fra i due fosse il pezzo grosso.
-Sarà meglio coglierli di sorpresa- mormorai.
Non riuscivo a vedere bene a causa della poca luce.
- Dannazione. Vado un po’ più in là- lo avvisai, gattonavo per avanzare sulle spesse assi di ferro. Intravidi i suoi occhi castani sgranarsi mentre scuoteva il capo in cenno di disapprovazione.
C’era una puzza tremenda, per colpa del canale di fogne che passava proprio sotto la strada.
Cercando di non respirare, arrivai in un punto in cui ero proprio sopra le loro teste.
Mamma mia,il pezzo grosso  dovevano proprio rimediare alle calvizie…
L’altro invece aveva una bella chioma bionda fluente da camionista, non mi sarei meravigliato se avesse avuto anche un tatuaggio a forma di cuore stile “I love Mama”.
Parlavano troppo in fretta.
Il camionista aveva una valigetta, che l’altro gli aveva appena passato.
Mi sporsi in avanti per vedere di più.
-Midorikawa!- Il mio partner sibilò il mio nome, e sarebbe stato un grido se avesse potuto.
Mi voltai appena per chiedergli qual era il problema, quando accadde ciò che temeva.
Molto semplicemente, scivolai e caddi. Pronto di riflessi, mi appesi con le braccia all’asse di ferro, ma ormai era tardi. Il rumore aveva attirato la loro attenzione.
- Cosa succede?! Chi è quel ragazzino?!- sbraitò il camionista.
Guardando verso il basso incrociai gli occhietti da topo del tipo in viola. Stava fissando il mio mantello, orlato d’oro.
- Agente ficcanaso- sillabò, subito dopo ordinò:- Sparategli!!!
Tutte le guardie puntarono su di me e in un secondo fui sommerso di proiettili.
- Merda- borbottai.
Mi dondolai con le braccia, dando slancio al mio corpo, e mi lanciai giù con le gambe tese  in avanti.
Tirai un calcio sul mento del camionista, che barcollò all’indietro facendo cadere la valigetta.
Atterrai fra le guardie, con il braccio tirai il mantello davanti al viso e mi protessi dai proiettili, poi con una scivolata abbattei tre di loro. Appena il tempo di rialzarmi che mi furono tutti addosso.
Era tempo di dare fondo alle mie risorse di kung-fu.
Diedi un pugno violento al più vicino, un altro mi venne addosso di carica ed io balzai all’indietro per evitarlo: essendo atterrato con le mani usai i piedi per afferrare il fucile e farlo volare all’indietro, nell’acqua di fogna. Disarmato, l’uomo cercò di tirarmi un pugno, ma io gli bloccai la mano e lo feci volare in aria, mandandolo a sbattere di schiena contro l’asfalto.
-Ragazzino!- ringhiò un uomo con occhiali scuri.
Con la canna del fucile mi tirò una mazzata che mi mancò di striscio,  ci provò di nuovo, mi abbassai per scansare il secondo colpo e con un calcio gli feci volare in alto il fucile, che sparì nel buio della notte.
Mi resi conto che ero circondato e peggio disarmato mentre loro avevano perso solo due fucili.
D’un tratto l’aria si riempì di fischi e poco dopo tutte le guardie fecero cadere i fucili, mantenendosi le mani sanguinanti. Non erano stati colpi seri ma semplicemente di disarmo.
Alzai lo sguardo e sorrisi al mio partner, che maneggiava con attenzione il fucile che prima avevo lanciato verso l’alto. Afferrai tutti i fucili che erano a terra e li lanciai nelle fogne.
- Midorikawa!- mi gridò il mio partner.
Il camionista stava fuggendo con la valigetta.
- Kazemaru, salta giù!- gli gridai in risposta.
Lui annuì, mi lanciò il fucile; corse sulle assi di ferro finché non fu su di lui, poi si lanciò sulle sue spalle.
Il camionista ruggì e mulinò le braccia nerborute cercando di liberarsi, ma Kazemaru si agganciò con le gambe alle sue spalle e si gettò all’indietro piegandolo in due: lo strappo del suo corpo ebbe un suono doloroso, quello dell’urlo di dolore che cacciò.
L’uomo si rovesciò a terra, con le pupille bianche, svenuto.
Kazemaru lo ammanettò ad un palo della luce, poi corse verso di me, che intanto tenevo testa a cinque guardie.
Intuii al volo la mossa di Kazemaru e mi abbassai per permettergli di saltare oltre il mio corpo, appoggiandosi con le mani alla mia schiena per darsi lo slancio. Con un calcio prese in faccia uno e lo fece svenire.
Mi alzai e mi guardai intorno.
Nella confusione, l’uomo in viole se l’era svignata con tre delle guardie.
- Merda!- ringhiai, feci un passo all’indietro saltellando e poi subito uno in avanti con il ginocchio proteso verso lo stomaco del mio avversario, che rotolò a terra.  
- Trovatevi un altro lavoro!- gridai irritato ai due che mi correvano incontro, ne afferrai uno per un braccio e lo alzai da terra scaraventandolo sull’altro. Un quarto si avventò su Kazemaru, che si spostò e gli assestò un duro colpo fra le scapole, poi girò su sé stesso e ammanettò al volo l’ultimo, dandogli come extra un bel calcio negli attributi.
Si girò verso di me con un sorriso teso.
- Beh… di certo li hai presi di sorpresa- scherzò.
Seppur non soddisfatto né dell'umore per apprezzare l'umorismo, sorrisi e gli diedi il cinque.
Andammo verso la valigetta e io ci misi un piede sopra, osservando il campo di battaglia.
Kazemaru accese il suo cercapersone e se lo portò alla bocca.
-Agente Kazemaru a rapporto. Missione compiuta. Stiamo tornando- affermò. Sentii una voce femminile dall'altra parte e capii che ci stavano mandando qualcuno per aiutarci a pulire la scena.
Non ero d’accordo sulla definizione di “missione compiuta”, avevamo fallito… quello lì c’era sfuggito.
Tutto per colpa della mia distrazione.
-La prossima volta non fallirò- mormorai. Kazemaru mi lanciò uno sguardo comprensivo e annuì senza dire niente.
Restammo fermi all'angolo della strada finché non arrivarono i rinforzi.





**Angolo di quella pazza squinternata autrice!**
Ma ciao ^o^
Questa fic è ovviamente AU, ambientata a Tokyo. Volevo scrivere da tempo qualcosa del genere, ci ho pensato l'anno scorso e non riuscivo a togliermela dalla testa! E finalmente ho trovato il coraggio di postarla qui, fatemi gli auguri XD
I titoli dei capitoli non hanno un significato particolare, si chiameranno tutti "Mission" e poi il numero del capitolo! Mi piace di più così, mi pare azzeccato ^o^
Spero che la storia vi incuriosisca! Commentate anche, se volete! Mi farete felice uwu
Baci baci baci <3
Roby

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Capitolo 2
*** Mission 2. ~The Beginning ***


Ehi! ^o^
Ecco il secondo capitolo, che introduce ben cinque nuovi personaggi!
Ah, approfitto dello spazio per dire che nella fic potrebbero apparire anche OC inventati da me ^^ come al solito insomma!
kisses
Roby C:

 


Eravamo tornati nella sede centrale dell’agency.
Solo il rumore dei nostri passi erano udibili nel corridoio, lungo il quale si aprivano uffici continuamente, a destra e a sinistra, e dentro c’erano altre persone che lavoravano.
Per lo più si trattava di agenti come noi, ma vi erano anche addetti informatici e altri.
Frustai la coda, seccato.
La missione non era andata come volevo.
Kazemaru mi fissava di sottecchi, con l’aria di chi vuole dire qualcosa ma non osa farlo. Sembrava finalmente sul punto di farlo, quando un rumore di tacchi a spillo si interpose.
Alzammo entrambi lo sguardo verso la donna che ci veniva incontro.
Ci sorrise, mentre spostava i lunghi capelli neri dalle spalle con un gesto fluido ed elegante. Indossava una giacca di pelle gialla, lunghi pantaloni a sigaretta e scarpe con tacchi dieci.
Avanzando con quel portamento fiero, che metteva tutti in soggezione, non distolse lo sguardo da noi finché non fu ad un passo, quindi abbassò gli occhi blu e posò una mano sul capo ad entrambi.
- Bel lavoro, agente Midorikawa, agente Kazemaru- disse. La sua voce era fredda, secca.
Aveva classe da vendere.
-Niente affatto- borbottai –Big D è fuggito.
Kazemaru non aggiunse nulla.
-Mi dispiace, Hitomiko, avrei dovuto inseguirlo, ma io…- dicevo a testa bassa, ma lei mi interruppe tirandomi uno schiaffo sulla nuca.
-Smettila di dire sciocchezze. La vostra missione era recuperare la valigetta, e l’avete portata a termine. Non solo, avete anche catturato il “camionista”, Kurt Russell- disse.
Mi massaggiai la nuca dolorante e accennai una smorfia che doveva essere un sorriso.
-Erano in superiorità numerica, e dopotutto voi lavorate qui da appena due mesi. Perciò, ottimo lavoro, squadra. Ci aspettiamo molto da voi anche in seguito- concluse Hitomiko.
La sua voce si era un po’ addolcita. In fondo il suo cuore non era del tutto congelato.
-Che ti avevo detto?- mi sussurrò Kazemaru stringendomi la mano.  
-Chi si sta occupando della valigetta?- chiese subito dopo a voce alta.
La donna si riavviò nuovamente i capelli, che tuttavia si ostinava a non legare.
-La valigetta è chiusa da un lucchetto con processo di sicurezza, potrebbe esplodere se l’aprissimo a mani nude. Se ne sta occupando Gazel- affermò.
Gazel, il cui vero nome era a noi sconosciuto, è il miglior addetto informatico che io abbia mai conosciuto: nessun hard disk, sistema di sicurezza o banca dati ha segreti per lui.
Peccato che sia una persona poco socievole, diciamo solo che se gli occhi potessero uccidere sarebbe un serial killer di professione.
In ogni caso, avevo capito presto perché rivolgersi a lui era spesso la soluzione migliore.
-Allora andremo da lui per…- dicevo, ma le mie parole furono coperte da alcune grida.
Femminili, oserei dire.
Era la seconda volta che qualcuno mi interrompeva nell’arco di pochi minuti.
Mi voltai appena.
Due ragazzi si facevano largo fra le persone che erano improvvisamente uscite dagli uffici per salutarli. Uno dei due salutava tutti con un largo sorriso, stringendo mani a destra e a manca. L’altro invece attraversava il corridoio con grande calma, apparentemente senza notare le ragazze che gli morivano dietro, arrivando persino a lasciare la propria postazione di lavoro per affacciarsi alle porte degli uffici per guardarlo. 
-Vedo che sono rientrati sani e salvi. Vado ad informare mio padre- commentò Hitomiko senza battere ciglio, quindi si voltò e andò via. 
Non appena fu abbastanza lontana, mi lasciai sfuggire un sospiro esasperato. -Oh no- sbottai sottovoce.
Hiroto Kiyama era una delle persone che meno desideravo vedere in assoluto, specialmente in una giornata no come questa, e il motivo era che mi faceva andare l'autostima sotto i piedi. Hiroto aveva più di un motivo per vantarsi. Era bello ed atletico, ma non era solo un manichino: era anche molto intelligente, un agente di incredibile talento che portava sempre a termine i propri incarichi con successo. Ma alle ragazze, probabilmente, importava anche la sua posizione alta all'interno dell'agency: era infatti figlio del capo e fratello minore di Hitomiko. Il profilo perfetto di un eroe senza macchia e apparentemente senza difetti, insomma.
Mi girai verso Kazemaru per dirgli di muoversi, ma era rimasto come imbambolato. Guardava nella direzione dei due agenti appena tornati, ma sapevo che non era Hiroto a lasciarlo senza parole.
Era invece il suo partner, il dispensatore di sorrisi, Endou Mamoru, per cui Kazemaru aveva un'enorme, vistosa cotta. Era così palese che non capivo come mai Endou non ci fosse ancora arrivato, per quanto ottuso potesse sembrare.
Non appena ci vide, Endou sfoderò il suo sorriso più luminoso e trotterellò nella nostra direzione.
-Ciao, Kazemaru! Dopo vogliamo giocare a calcio insieme? Porto io la palla!- esclamò. Fra le mani stringeva un pallone rosso e dorato.
- E-Endou! M-Mi fa piacere vederti!- rispose Kazemaru. Era già diventato paonazzo.
Ci risiamo pensai. Ogni volta che aveva di fronte Endou, era come se l’area di Broca, nel suo cervello, si spegnesse completamente: poteva balbettare e ripetere una stessa cosa per ore.
- I-I-Io… M-Mi…- balbettò, agitandosi. Intervenni prontamente in suo aiuto.
-Gli piacerebbe molto giocare con te, non vede l’ora- dissi con un sorriso.
Endou annuì con forza, per niente turbato dal fatto che a rispondere fossi stato io benché l'invito fosse rivolto a Kazemaru. Endou era fatto così: semplice e spontaneo, prendeva le cose come venivano senza porsi troppe domande.
Kazemaru annuì subito dopo, poi strinse i pugni e tentò di parlare:- Uhm... V-volevo dirti che…
-Cosa?- chiese subito Endou interrompendolo. I suoi occhi nocciola erano grandi, curiosi ed amichevoli. Strinsi le dita di Kazemaru con le mie per fargli coraggio. Lui tirò un sospiro e poi tutto d’un fiato:- Volevo-farti-le-congratulazioni-per-la-vostra-missione!
Endou non si scompose, ancora una volta ignorando la anormalità di questa conversazione.
-Grazie! Anche tu hai portato a termine la tua missione con successo! Bravo!- esclamò allegramente.
La sua missione? Feci schioccare la lingua, seccato dal fatto che Endou continuasse ad ignorare il fatto che ci fossi anche io. Finalmente sembrò accorgersi di me.
-Ah, scusa, Midorikawa. Complimenti ad entrambi, ovviamente- si affrettò a specificare, senza perdere il sorriso ma vagamente imbarazzato. Sorrisi per pura cortesia e annuii.
-Ho saputo però che Big D è scappato. Come è successo?- s'intromise una voce apparentemente calma e controllata. Quando vidi di chi si trattava, sentii l'immediato bisogno di andare via da là. Strinsi la mano di Kazemaru più forte, ma prima che potessi dire qualcosa o voltare loro le spalle, Hiroto ci raggiunse. -È sfuggito per un pelo, vero? Che peccato- osservò. 
Il suo tono era mite, ma mi parve quasi che stesse sottolineando il nostro insuccesso. Certo, lui ovviamente non l'avrebbe mai fatto scappare... Avrebbe risolto tutto in modo perfetto. Sentii un nodo alla bocca dello stomaco.
-Sì, è scappato di poco. La prossima volta lo prendiamo di sicuro- ribattei, tagliente, rivolgendo appena uno sguardo al mio interlocutore. -Andiamo, Kazemaru?
Kazemaru colse al volo la mia implicita richiesta di aiuto e, grazie al cielo, mi assecondò.
-Oh, andate via? Allora ci vediamo dopo, Kazemaru! Passo a bussarti in camera- esclamò Endou. Mi chiesi come potesse sorridere così a lungo senza che i muscoli facciali si stancassero. Kazemaru, invece, ne era affascinato come sempre ed annuì con forza alle sue parole.
Ci allontanammo in fretta e, quando fummo abbastanza lontani, gli lasciai andare la mano e gli rivolsi nuovamente la parola.
-Sei terribile, lo sai?- gli dissi affettuosamente –Non riesci a mettere due parole di fila quando c’è Endou.
-Beh, e tu sei sempre sulla difensiva con Hiroto- ribatté Kazemaru. Non sapevo cosa rispondergli: era vero.
Entrammo nell’ufficio di Gazel, che in realtà veniva usato come base anche dal suo assistente tecnico, Burn. Il suo vero nome era Nagumo Haruya, ma chissà perché insisteva a farsi chiamare con quel soprannome; forse in riferimento al suo potere, che a quanto sapevo aveva in effetti a che vedere col fuoco.
Era davvero impressionante la differenza a livello ordine fra il lato della stanza in cui lavorava Gazel e quello in cui lavorava Burn.
-Uhm… Gazel?- chiamò Kazemaru incerto.
Da un mucchio di scartoffie fece capolino un ciuffo di capelli rossi.
- T’oh, chi si rivede… Ciao, pivelli- ci salutò la voce arrogante di Burn.
-Ciao, tulipano- risposi tranquillamente. Mi fulminò con lo sguardo.
-Potrei anche arrabbiarmi- disse, il che significava che, con ogni probabilità, era già arrabbiato. L’idea mi preoccupava un po’, perché l’ufficio era pieno di cose infiammabili, fra cui una montagna di fascicoli e la lacca di Gazel.
-Calma i bollenti spiriti, tu non ti muovi finché non riordini questo schifo- intervenne una voce piatta e disgustata, senza dubbio appartenente a Gazel. Poco dopo infatti il ragazzo si alzò dalla propria scrivania, dove si nascondeva dietro l’enorme scatola del computer.
Indossava una camicia (rigorosamente senza maniche come tutte quelle che portava; sospettavo le tagliasse lui stesso), pantaloncini neri e scarpe da ginnastica.
-Non mi faccio dare ordini da te- gli rispose Burn, piccato.
Con un gesto rapidissimo, Gazel afferrò la spillatrice e la puntò verso Burn: alcune lamette d’acciaio schizzarono fuori, e con una precisione incredibile spillarono il ragazzo alla sedia imbottita della sua scrivania. Burn cercò invano di tirare via la maglietta.
-Sarà meglio che impari a ragionare prima di parlare, o la prossima volta ti spillerò le labbra- minacciò Gazel in tono mite, ma con uno sguardo tale che era impossibile non prenderlo sul serio.
Burn imprecò sottovoce e cominciò ad armeggiare con la maglietta attaccata alla sedia.
Gazel posò la spillatrice, si spruzzò un po’ di lacca sui capelli e si passò una mano nel ciuffo di capelli che aveva sulla fronte per sistemarlo. Ci guardò pensieroso, dondolandosi sulla sedia.
Dopo circa cinque minuti, durante i quali nessuno osò interrompere la sua meditazione, Gazel estrasse una valigetta scura da sotto la scrivania e la mise sul suo tavolo di lavoro.
-L’ho aperta- affermò con nonchalance. –Non c’è nulla dentro. È evidente che fosse soltanto un’esca per far fesso Russell. Non sappiamo le loro intenzioni, ma ci hanno fregati tutti alla grande.
Sospirai, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi, inerti.
-Allora la nostra missione è stata davvero un fallimento…- sussurrai sconfitto.
-Non esattamente, ora abbiamo le impronte digitali di Big D. È pur sempre qualcosa- obiettò Gazel. -Sai a quante scene del crimine potremo ricollegarlo d'ora in poi?
Kazemaru fece un piccolo sorriso, rincuorato, ma io non riuscivo comunque a star sereno. Gazel continuò ad osservarmi, mettendomi non poco a disagio.
-So che ti senti insoddisfatto- commentò infine. –Ma devi smetterla di preoccuparti. Ti farebbe bene ridere un po’, invece.  
-E perché dovrei ridere, sentiamo!- sbuffai, guardandolo torvo.
Proprio in quel momento un lungo rumore di strappo risuonò nella stanza, seguito da un botto, un assordante fruscio di carte ed infine un'imprecazione furente da parte di Burn. -Ma porca...! GAZEL! 
Ci girammo tutti verso di lui. Sembrava che nel tentativo di liberarsi avesse strappato la maglietta, ruzzolando tanto lontano quanto forte aveva tirato il tessuto; aveva poi colpito un mobile pieno di scartoffie ed un mucchio di queste era caduto sulla sua testa. Ora, seppellito sotto le carte, era a stento visibile grazie al ciuffo di capelli rossi fiammanti.
-Ti sembra abbastanza per ridere?- disse Gazel, accennò un sorriso. Non potevo dargli torto. Kazemaru scoppiò a ridere ed anch'io non riuscii a trattenermi.

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Capitolo 3
*** Mission 3. ~The Beginning ***


Vorrei ringraziare tutti quelli che stanno recensendo o seguendo questa storia ^^ Grazie mille!
 





La mia sveglia cominciò a suonare.
La spensi buttandola giù dal comodino. Purtroppo, però, non potevo “spegnere” anche Kazemaru.
-Se non ti alzi, mi vedrò costretto a prenderti a calci- mi intimò sedendosi sulla sponda del letto. Lo fissai accigliato, dubitando che avesse davvero il coraggio di farlo, e lui ricambiò con un'occhiata torva.
Incrociò le braccia. Notai che era già vestito.
-Vestiti. Hai saltato l'ora di pranzo. Tu dormi troppo- disse.
-Cavolo, per forza- obiettai rotolando per affondare la faccia nel cuscino. La mia voce risultò soffocata. -Faccio i turni di notte, io.
-Anche io, ma mi sono alzato stamattina...
-Vero, ma tu dovevi giocare a calcio con Endou e non ci avresti rinunciato a costo di non dormire per altre venti ore.
Sbirciai il suo viso e sorrisi soddisfatto vedendo che era arrossito, punto nel vivo. Reagì quasi subito: si alzò e tirò via le coperte di scatto.
-In piedi, Midorikawa!!- gridò, schiaffeggiandomi la nuca.
Protestai per il dolore improvviso e mi girai a pancia in su, fissando il soffitto.
-Ci sono novità?- mormorai.
Kazemaru tornò serio e scosse il capo.
-Non molte. Solo una su Endou e Hiroto, che sono appena stato mandati sulle tracce sulle tracce di Big D. - m'informò.
Finalmente mi alzai, mi infilai nel bagno per lavarmi e mi vestii. Appena pronto, mi resi conto di avere fame.
Kazemaru rise al gorgoglio del mio stomaco.
-Che ne dici di andare a procacciarti del cibo? Credo che Maki e Reina ti abbiano tenuto qualcosina da parte- propose. Annuii e insieme uscimmo dalla stanza chiudendola a chiave. Scendemmo con l'ascensore al piano terra.
L'agency aveva tre piani. Nel pianoterra c'erano tutti gli uffici, tranne quello del capo, e la sala da pranzo; al primo piano, le camere di tutti (si dormiva con il proprio partner, solitamente); all'ultimo, l'ufficio (e le camere) del capo e di Hitomiko.
Dunque, eravamo appena scesi.
Quando si aprirono le porte ci trovammo di fronte un ragazzo con un lungo mantello rosso e occhiali da aviatore, che ci fece un cenno di saluto prima d'infilarsi nell'ascensore. Non ricordavo il suo nome, ma l'avevo già visto qualche volta insieme al suo partner, un ragazzo abbronzato con alti capelli bianco panna. Diciamo che erano due tipi che si facevano notare.
Voltammo l'angolo e proseguimmo nel corridoio. A destra e a sinistra, si susseguivano porte tutte uguali. Poi, finalmente scorgemmo una porta decorata con adesivi di varia forma e dimensione che coprivano quasi del tutto la facciata, lasciando visibili pochi angolini del legno rosa sottostante: Maki ne faceva la collezione e li attaccava un po' dove gli pareva, a casaccio, ma con molta cura.
Kazemaru mi precedette e bussò.
Sentì un ticchettio nel silenzio, poi lo scatto della porta che si aprì.
Chi ci trovammo davanti non era Maki, bensì Reina.
La ragazza dal caschetto azzurro ci squadrò per qualche minuto, attorcigliando attorno alle dita una delle due ciocche bianche che le ricadevano davanti alle orecchie, poi voltò i suoi tacchi dodici e chiamò la sua compagna.
Mi sporsi per vedere meglio.
Seduta su una poltrona, con le gambe che dondolavano avanti e indietro, Maki, la ragazza con capelli verdi acqua acconciati con due strane eliche, stava sfogliando una rivista di gossip. Quando ci vide però sorrise e mollò tutto per saltarmi addosso entusiasticamente.
Mi piantò quasi le unghie nel braccio. Nascosi il dolore con una smorfia.
Maki si staccò, andò verso la sua scrivania e aprì un cassetto che si rivelò essere un frigobar. Da lì tirò fuori un piatto di onigiri avvolto da pellicola trasparente e me lo porse. -Ho pensato a te, visto?- cinguettò.
-Tu pensi sempre a me, ma cosa vuoi in cambio?- replicai.
Lei rise. Reina invece era indecifrabile come al solito, sembrava troppo intenta a limarsi le unghie per preoccuparsi di noi. Il suo lato di ufficio era abbastanza normale, mentre quello di Maki era un trionfo di colori e allegria, come del resto era anche la loro camera.
Ma solo la nostra camera era normale da ambedue le parti?
-Ho disegnato una giacca. Un bel completo davvero, ma mi manca un modello...- accennò Maki indicando il suo libretto degli schizzi.
Sospirai. Non c'era speranza di farle cambiare idea.
Fin dal momento in cui aveva messo gli occhi su di me, due mesi prima, il divertimento di Maki era quello di usarmi come modello per i suoi schizzi: ogni tanto capitava che Kazemaru ed io portassimo vestiti disegnati e confezionati da lei per le missioni, mentre per Reina era un'abitudine.
Be', bisognava dire che Reina sarebbe stata carina anche con una busta di plastica addosso.
-Va bene- accettai con rassegnazione.
-Non capisco di che ti lamenti, i suoi abiti sono sempre comodi- commentò Kazemaru. Sospettavo ci trovasse gusto a indossarli.
-Grazie, Kaze-chan!- disse lei con un sorriso, scrisse alcuni appunti vicino al disegno del vestito e poi aprì la porta che stava dietro alla sua scrivania, accesso per la stanza in cui nascevano le sue creazioni, il suo laboratorio e santuario di pace e creatività.
Spacchettai gli onigiri e li mangiai, facendo attenzione a non far cadere il riso a terra, o Reina mi avrebbe ucciso.
-Mido-chan, sarà pronto domani, passa a prenderlo!- gridò Maki dalla stanza, la sua voce appena udibile al di sopra del rumore della cucitrice automatica. Se si diverte, meglio per lei.
-Okay- mugugnai passandomi il dorso della mano sulle labbra per pulirmi dall'unto del riso. Reina mi guardò, sospirò e prese una salvietta dalla scatola che aveva sulla scrivania.
-Sei proprio un bambino- mormorò, mentre si chinava in avanti e mi puliva la bocca con la salvietta. Arretrai d'istinto, con una smorfia. Era come se io risvegliassi in lei l'istinto materno, cosa impossibile da credere per uno che la vede la prima volta.
Reina era una persona molto riservata, che raramente parlava con persone esterne alla sua cerchia di amici; e non si accorgeva neanche dei ragazzi che le cadevano ai piedi, sembrava che non li vedesse neppure. Aveva però una spiccata tendenza a prendersi cura degli altri, una sorta di istinto materno. Per mia fortuna mi aveva subito preso in simpatia e si prendeva cura di me come una sorella maggiore. Ma, anche se nutrivo grandissima ammirazione per lei, essere trattato come un bambino non mi piaceva affatto.
-Torniamo al lavoro- dissi con un lungo sospiro, alzandomi. Anche Kazemaru si alzò dalla poltrona. Sorrisi alle ragazze prima di aprire la porta e uscire.
Avevamo appena voltato l'angolo del corridoio quando c'imbattemmo in Burn.
Il ragazzo, ancora risentito dell'incidente della spillatrice, che aveva fatto a pezzi la sua maglietta, ci guardò molto male. Sembrava indeciso sul da farsi: era chiaro che avrebbe voluto litigare, ma non poteva. Alla fine aprì bocca.
-Hitomiko ti cerca. A quanto pare avete una nuova missione, pivelli- disse.
-Nell'ufficio di Seijirou?- chiesi. Lui annuì, poi ci spostò con una spallata e bussò alla stanza di Maki.
-Ehi, Dyson! Mi serve un favore!-gridò, probabilmente il suo era un tentativo di farsi aggiustare la maglietta.

-Se la pianti di chiamarmi così, magari ti aiuterò!- rispose la ragazza, irritata dal fatto che il suo migliore amico le avesse affibbiato la marca di un ventilatore come nickname, a causa della sua buffa pettinatura con le eliche.
-Andiamo- esclamò Kazemaru, sorridendo. Sospettava, come me, che Reina non avrebbe gradito l'intrusione di Mr Tulipano.
L'ascensore era occupata -dannazione!- e dovemmo salire ai piedi.
Duecento tredici gradini più tardi, eravamo nel corridoio dell'ultimo piano.
Stavamo riprendendo fiato quando la porta in fondo si spalancò.
La voce di Hitomiko ci fece sobbalzare.
-Che fate voi due, dormite?! Subito dentro!- gridò -Vi ho mandati a chiamare più di mezz'ora fa!
-Mezz'ora fa?! Ma Burn ha...- Kazemaru cercò di ribattere, ma lei lo sovrastò:
-Ho detto DENTRO!
Promettendo a noi stessi di farla pagare a Burn al più presto, entrammo seguiti da Hitomiko che sbatté la porta.
Lo studio era tappezzato di targhe e fotografie su tutte le pareti: prima di diventare una Spy Eleven, Seijirou Kira era stato un apprezzato e rispettato capitano di polizia. Si vociferava che avesse molti vecchi contatti soprattutto con l'ambito militare; voci di corridoio con un probabile fondo di verità. In fondo alla stanza, su uno scaffale, erano esposti due trofei e una serie di medagliette conservate in una teca, mentre sulla scrivania, un fermacarte dorato recava la scritta “A Kira Seijirou, eroe di Tokyo”. Seduto alla scrivania, con un kimono vecchio stile indosso e un tazza di tè fumante in mano, c'era proprio Seijirou Kira, il nostro capo, nonché padre di Hitomiko e Hiroto. Onestamente, guardandolo in quel momento, era difficile immaginarlo come il protagonista di tutti i racconti eroici che giravano tra gli impiegati; sospettavo che, passando di bocca in bocca, alcuni dettagli fossero stati modificati o esagerati.
-Buonasera- ci salutò Seijirou Kira con un sorriso mite. Era un ometto largo e tozzo, con i lobi delle orecchie molto più lunghi del normale e profonde rughe sul volto. Doveva avere una sessantina d'anni, ma appariva molto più vecchio, forse a causa dei suoi trascorsi. Non ci guardava mai dritti in faccia, ma teneva gli occhi socchiusi, come una talpa alla luce del sole. E non somigliava per nulla a nessuno dei suoi figli.
Nonostante il suo aspetto, però, nessuno avrebbe mai osato prenderlo in giro: aveva un certo non so ché di austero, un portamento elegante e raffinato che, in aggiunta alle storie che giravano su di lui e ai premi messi in bella mostra, gli conferivano un'aria di grande credibilità. Nessuno metteva in dubbio che fosse diventato una Spy Eleven per i suoi meriti. Non c'era da discutere.
-Buonasera signore- rispondemmo all'unisono Kazemaru ed io. Ci inchinammo di scatto, un po' intimiditi perché avevamo fatto aspettare il nostro capo.
-Ci scusi per il tardo, ci dispiace terribilmente...- farfugliò Kazemaru, ma Seijirou non sembrava arrabbiato.
-Va bene, non importa- disse in tono pacato. -Passiamo subito alle cose importanti-. Accennò con una mano ai due ragazzi che erano in piedi accanto alla scrivania. Li riconobbi subito. Li avevamo incrociati varie volte, perché erano amici di Endou.
-Ho deciso di affiancarvi a Kidou e Gouenji. Darete loro una mano per questa missione- disse Seijirou. I due fecero un passo avanti.
Uno dei due, che portava degli occhialini da aviatore sul naso e un mantello rosso annodato sulla divisa, chinò un po' la testa in cenno di saluto. Kidou Yuuto. Era famoso per essere un mostro di strategia. L'altro ragazzo, Gouenji, fece un gesto con la mano. Non sapevo molto di lui, a parte che il suo dono aveva a che fare con il fuoco.
-Inseguirete una coppia di ladruncoli- proseguì Seijirou, spingendo in avanti delle cartelline piene di fogli. -In genere di questi casi se ne occupa la polizia di zona, ma questi non sono ladri comuni, per cui gli agenti richiedono spesso il nostro intervento. Sfortunatamente, danno alla polizia un bel po' di problemi.
-E non solo alla polizia- aggiunse Kidou. -Sono praticamente inafferrabili.
-Inafferrabili e veloci come il vento- sussurrò Gouenji. 
 



 

**Angolino di quella folle dell'autrice!**
Saaaaaalveeeeee! 
Trovo che la cosa più difficile in una fic sia introdurre i personaggi. Non vorrei sembrare banale, o troppo descrittiva, anche perché sono dell'idea che il personaggio si debba rivelare al lettore durante tutta la durata della storia, un passo alla volta: insomma, si caratterizza per quello che dice e fa durante la storia. 
Grazie per aver letto anche questo capitolo!
Baciiii,
     Roby 
 

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Capitolo 4
*** Mission 4. ~The Beginning ***


 

Tutto sembrava tranquillo, lungo quella strada in cui solo il tono di grigio metallico delle saracinesche chiuse, su cui si rifletteva il bagliore dei lampioni, dava colore al buio.
Eravamo seduti dietro due cassonetti verdastri, uno dei due era per metà liquefatto -un avvertimento o un innocente scherzo?-, e aspettavamo.
Aspettavamo loro.
Non sapevamo quando si sarebbero fatti vedere, ma Kidou sembrava sicuro che quella sera avrebbero colpito proprio lì, nella gioielleria nell'angolo, che quella mattina aveva esposto dei nuovi gioielli di perle e ametiste. Erano bellissimi, tanto che alcuni li avevano paragonati ai gioielli di Era, la dea greca. Di certo facevano gola a molti.
Nel silenzio, si udì una specie di scampanellio.
Vidi i tratti del viso di Gouenji tendersi. Era un segnale?
Allo scampanellio seguirono una risata a stento trattenuta e un rumore secco.
-Ehi, Atsuya!- disse una voce dolce e mite -Credi che quel bel detective si farà vedere anche stanotte?
L'altro fece schioccare la lingua contro il palato, seccato.
-Vorrei sapere che ci trovi in lui, io invece non ci tengo proprio a rivederlo- rispose con una punta di gelosia nella voce. Complesso del fratello minore?
-È carino. Mi fa divertire- rispose il fratello con una risata.
Ci fu un altro rumore secco, a quel punto saltammo fuori.
-Inazuma Agency! Fermi!- gridai puntando la mia glock contro di loro.
Si voltarono di scatto. Io e Kazemaru li osservavamo stupefatti: erano due gocce d'acqua, non fosse stato per il colore dei capelli, grigio per quello dolce e pacato e rosa per l'altro. Sapevo che erano fratelli, ma gemelli?!
-Non è giusto, detective- mormorò il grigio guardando Gouenji. -Questa cosa doveva restare fra me e te...
-Non dire sciocchezze e tieni le mani in alto- gli intimò il ragazzo.
-D'accordo...- mormorò lui, alzò le braccia all'altezza del petto e le incrociò.
-No!- gridò Kidou. Subito dopo il grigio sorrise e gridò:- Snow Angel!
Spuntoni di ghiaccio emersero dalla strada, sfasciando l'asfalto, in successione e con una rapidità tale che non riuscivamo a seguirli.
Kazemaru mi prese per un braccio e, sospinto dal vento stesso, mi portò fuori dal raggio di portata del ghiaccio, che arrivato a Gouenji e Kidou li avvolse completamente intrappolandoli all'interno.
Gridai i loro nomi, e il mio sguardo guizzò verso il grigio e suo fratello, che avevano ghiacciato la saracinesca e, ora che il metallo era friabile come una fetta biscottata, l'avevano sbriciolato con un calcio ed erano entrati. Io e Kazemaru cercammo di avvicinarci, ma il ghiaccio ci faceva scivolare, e gli spuntoni non lasciavano spazi di uscita.
D'un tratto il freddo fu sostituito da un caldo asfissiante.
Ci voltammo nella direzione da cui proveniva: nel cubo di ghiaccio che intrappolava i nostri compagni si stava formando uno strano nucleo di colore rosso violaceo che poi esplose, divorando tutto il ghiaccio intorno.
Fummo sommersi dall'acqua. -Kidou! Gouenji! State bene?!- esclamai.
Loro annuirono, Kidou strizzandosi il mantello, poi dissero:-Entriamo.
Passammo attraverso le schegge che una volta erano la saracinesca e ci trovammo di fronte ad una stanza enorme e vuota, illuminata appena dalle luci laterali, piena di teche contenenti oggetti preziosi.
Nulla sembrava essere stato toccato, tutte le teche erano intatte.
Qualcuno applaudì. Alzammo la testa e vedemmo il grigio, seduto a gambe accavallate su una ringhiera del piano superiore, che ci guardava dall'alto.
-Wow, lo dicevo ad Atsuya che vi sareste liberati in fretta-. Sorrise. -Che mossa hai usato stavolta, detective?
Gouenji lo ignorò, ma borbottò sottovoce:- Si chiama Tempesta di fuoco.
-Sei stato tu a generare tutta quella potenza?!- soffiai ammirato.
Gouenji annuì e si passò la mano fra i capelli bagnati, asciugandoli in un secondo in modo che si tenessero su come prima.
-Io e te faremmo una bella coppia- disse il ladro, interrompendoci. Sembrava volesse a tutti i costi attirare l'attenzione di Gouenji su di sé.
-Ti piacciono i miei gioielli?- chiese sbarazzino, mostrando la mano destra, sul cui anulare vi era un anello dal cinturino argentato, con una perla incastonata.
-Non sembro una dea greca anche io?- chiese ancora, inclinando il collo e mostrando il pendente di perle che aveva al collo.
-Mettili a posto- intimò Gouenji, e l'attimo dopo aveva spiccato un salto altissimo, fino alla ringhiera. Il ragazzo scattò in piedi sulla ringhiera e indietreggiò camminando su quella superficie così difficile. Gouenji cercò di colpirlo con un calcio, ma lui s'inclinò all'indietro e con una rovesciata eseguita perfettamente si rimise in piedi sulla ringhiera.
Continuarono a lottare lassù, Gouenji con la sua forza e l'altro con la sua eleganza. Erano entrambi molto agili.

-Vi godete lo spettacolo?- gridò il ragazzo con i capelli rosa e in un sol colpo congelò metà della stanza. Scattammo ai lati, evitando il colpo, e poi cominciammo a combattere con lui.
Kidou si muoveva con una velocità davvero impressionante, lo vedevamo scomparire e riapparire con il suo mantello di continuo e sapeva sempre prendere Atsuya di sorpresa. Gli aveva appena impedito di attaccare che lui si spostò su Kazemaru, afferrandogli il braccio.
Il mio partner rabbrividì come sentì la presa gelida e bruciante sulla pelle e si piegò di scatto.

-Astro Break!- gridai e una sferzata di energia colpì Atsuya costringendolo a mollare la presa. La mia tecnica era ancora incompleta, debole, ma funzionava quanto bastava.
Notai che Kidou mi aveva osservato con interesse.

-Stai bene?- chiesi. Kazemaru annuì, accennando un sorriso. Si manteneva il braccio, quindi Kidou glielo afferrò e controllò rapidamente che fosse a posto.
-Dovrai fasciarlo, ma va tutto bene- assicurò. Annuii e tornai a concentrarmi su Atsuya, ma lui era sparito.
Poi Shirou gridò. Gouenji gli aveva afferrato il braccio e lo teneva stretto dietro la sua schiena, in modo che non si potesse muovere.
-Allora, che effetto fa stare tra le mie braccia?- gli sussurrò. Shirou gli scoccò un'occhiata torva: gli piaceva prendere in giro gli altri, ma non essere preso in giro.
-Shirou!- gridò Atsuya. Era in piedi sulla ringhiera di fronte alla loro, dall'altro lato della stanza: era evidente che voleva saltarci addosso ma la situazione del fratello l'aveva costretto a fare retromarcia.
Shirou si voltò, per quanto potesse, a guardare Gouenji, e sorrise nonostante il dolore.
-Allora, che effetto fa, detective, stare dietro di me?- rispose, sexy.

Gouenji arrossì lievemente e allentò la presa. Non gli piaceva l'idea di fargli del male, e Shirou ne approfittò per liberarsi facendo passare le loro braccia sopra la sua testa, come stessero danzando. Le sue labbra sfiorarono il collo di Gouenji, sensualmente, poi si staccò con uno scatto e balzò di nuovo sulla ringhiera.
-Non male, detective- commentò leccandosi le labbra. Gouenji sorrise. 

-Già- replicò e mostrò il pendente che gli aveva strappato.
Shirou istintivamente nascose le mani dietro la schiena, come proteggendo l'anello di Era. Atsuya cominciò a correre sulla ringhiera per raggiungere il fratello.
Lanciai una sferza di energia che lo fece barcollare, ma non cadere.
Ci volevo riprovare ma Kidou mi bloccò. -Ascolta, mi è venuta un'idea per sfruttare meglio il tuo potere- disse e mi sussurrò all'orecchio.
Annuii e mi arrampicai fin su, dove erano Gouenji, Shirou e ora Atsuya.
-Nessuno tocca mio fratello senza il mio permesso!- urlò Atsuya arrabbiato e saltò su Gouenji, che evitò il colpo abbassandosi e indietreggiando.
Atsuya, frustrato, scagliò di nuovo il pugno in avanti, senza pensarci due volte.
Approfittai di quest'occasione.
Mi frapposi fra loro, e appoggiai la mano destra sul petto di Atsuya e provai a fare quello che mi aveva suggerito Kidou, cioè di concentrare l'energia in un solo punto del corpo.
L'energia mi attraversò il braccio e, quando tesi la mano avanti, uscì fuori.

Atsuya fu respinto all'indietro dalla forza del mio colpo e lo spostamento d'aria lo fece volare fra le braccia del fratello, che fece un grande sforzo per non cadere dalla ringhiera.
-Atsuya!- gridò. Mi guardò, palesemente irritato.

-Ho capito, per oggi mi accontento degli anelli- mormorò, poi il ghiaccio si espanse a partire dal suo corpo divorando tutto quello che lo circondava. Gouenji mi afferrò le spalle e ci fece scudo con una barriera di fuoco, mentre Kidou usò il suo mantello come scudo per lui e Kazemaru. Quando tutto finì, Gouenji usò un'altra tecnica, il Tornado di Fuoco, per liberarsi del ghiaccio senza fare a pezzi anche la gioielleria. Quando tutto si sciolse, i Fubuki erano spariti lasciandosi dietro solo una scia d'acqua. L'anello di perle e l'anello di ametista di Era erano svaniti assieme a loro.  

Stavamo tornando alla base, in silenzio.
Kidou aveva provveduto alla fasciatura di Kazemaru e notavo che mi fissava ancora pensieroso. Sentivo che era curioso nei miei confronti, ma perché? Che fosse interessato alla mia tecnica? Eppure Gouenji era centomila volte più forti di me. Mi sentivo in soggezione sotto quello sguardo attraverso le lenti degli occhialini.
Mi chiesi come fosse possibile che uno intelligente come lui e uno forte come Gouenji potessero lasciarsi sfuggire i Fubuki ogni volta, anche se di certo erano quelli che ottenevano i risultati migliori. Qualcosa, comunque, mi diceva che c'era qualcosa che non andava, nel loro atteggiamento.
Con questi pensieri, tornai all'agency, desiderando solo di dormire.
 


**Angolino dell'autrice che ormai sclera fuori controllo u.u**
Ma salve ^o^ Spero che il capitolo vi sia piaciuto!
Mi sono divertita troppo a descrivere la scena del "combattimento" fra Gouenji e Shirou XD
E Atsuya è trooooppo carino, con il suo complesso da fratello minore.
Ora vado a vedere il mio amato NCIS <3
baci
Roby

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Capitolo 5
*** Mission 5. ~The Beginning ***


 

Corridoi affollati, uffici pieni.
Sembrava che tutti si stessero dando da fare per rimediare al furto degli anelli, ma sospettavo che, se i Fubuki Twins non erano stati mai catturati, certo tutto quel da farsi fosse completamente inutile. Sospettavo anche la strana affinità fra Gouenji e Shirou Fubuki fosse il motivo per cui quel caso fosse stato affidato al duo Gouenji-Kidou, e solo a loro. Del resto, si erano mostrati ampiamente capaci di fronteggiarli. Avevano limitato di molto i danni subiti, e se non fosse stato per Kidou non sarei riuscito ad usare bene la mia tecnica speciale. Quel ragazzo era un vero genio.
Kazemaru, passati due o tre giorni, si era ripreso quasi completamente dalla ferita sul braccio lasciatagli da Fubuki Atsuya, e attendevamo il prossimo incarico per metterci al lavoro. I più impegnati, comunque, erano sempre Endou e Hiroto, perciò li vedevamo molto di rado.
-Ti manca eh? Da quanto non giocate a calcio insieme?- gli chiesi una mattina, osservandolo mentre fissava nostalgicamente dei bambini giocare fra di loro.
Stavamo attraversando la strada per andare al lavoro.
Agli occhi di qualunque persona, la nostra era una normale agenzia investigativa, con reparti d'ufficio che si occupavo di oggetti e persone smarrite. Nessuno sospettava che, invece, ai piani alti ci fosse un vero cuore di spie, agenti come noi specializzati nel lavoro sotto copertura.
-C-cosa?! C-chi?!- Kazemaru avvampò. Roteai gli occhi.
-Non ricominciare a balbettare, Endou non c'è- commentai ironico.
-N-non mi manca affatto- borbottò Kazemaru frustando la coda di cavallo di lato mentre voltava la testa, offeso dalla mia insinuazione.
-Ti ostini a dire che siete solo amici?- chiesi accigliato.
-Non mi ostino. È così- replicò lui. Non aggiunsi altro, la sua voce era così piena di esitazione che risultava chiaro che lui avrebbe voluto di più.
-Che carino, Kazemaru- ridacchiai. Mi guardò confuso e quando capì arrossì di nuovo.
-Non prendermi in giro- borbottò. Ci conoscevamo troppo bene per mentirci, anche se io come bugiardo me la cavavo molto meglio.
E
ntrammo nell'edificio e trovammo la solita confusione d'ufficio. Mi facevano un po' pena, quei poverini, soprattutto quello che al centralino insisteva nel dire ad una vecchina che il suo canarino era tornato a casa da due settimane: la povera signora continuava ad essere convinta che l'avessero rapito. E il povero centralinista continuava a ripetergli che era tornato, ma niente.
Salimmo al piano di sopra per sistemare le borse in stanza, ci aspettava un lungo week-end di lavoro quindi tanto valeva dormire là.
Solo che davanti alla camera c'era una piccola sorpresa... Senza dubbio una bella sorpresa per Kazemaru, un po' meno per me.
Davanti alla stanza ci aspettavano Endou e Hiroto.
Kazemaru si irrigidì, avvampò e la sua capacità comunicativa si spense. Come al solito.
-E-Endou!- esclamò. Sospirai, esasperato.
-Kazemaru!- Endou parve illuminarsi non appena lo vide. Si avvicinò a lui con passo baldanzoso e un gran sorriso, ma quando notò la fasciatura sul suo braccio si accigliò leggermente. -Come sta il tuo braccio? Ho sentito che ti sei fatto male- chiese preoccupato.
Kazemaru scosse la testa. -Sto bene- mormorò.
-Per fortuna sembra una cosa da niente- commentò Hiroto. Portava degli occhiali da sole a lente colorata, cosicché era difficile leggere il suo sguardo.
Le sue parole mi indispettirono, perché quella che lui chiamava "una cosa da niente" per me era motivo di ansia. Solo ripensare al fatto che Kazemaru fosse stato ferito bastava a farmi arrabbiare. Fulminai Hiroto con lo sguardo, ma lui mi ignorò, mentre Endou annuiva energicamente.

-Eh già! Meno male!- commentò sfoderando il sorriso che fa sciogliere Kazemaru. Hiroto si avvicinò e mise una mano sulla spalla di Endou.
-Ma non è per questo che siamo qui- sospirò.

-E perché siete qui?- replicai immediatamente, incrociando le braccia. Va bene, Kazemaru aveva ragione: ero sempre sulla difensiva quando si trattava di Hiroto. Era una cosa più forte di me, sembrava non potessi farne a meno.
Hiroto si tirò gli occhiali da sole sui capelli con un gesto elegante, poi mise le mani nelle tasche dei jeans e si accostò leggermente di più a me.
-Mio padre vuole vederci tutti e quattro insieme. Ma prima dobbiamo passare da Gazel- mi informò. Stava quasi invadendo il mio spazio personale e quell'improvvisa vicinanza mi fece arrossire. Distolsi lo sguardo e mi voltai, sperando di averlo colpito in faccia con la coda di cavallo. Mi avviai a grandi passi da Gazel.
Beh, almeno Kazemaru starà con Endou, pensai mentre bussavo alla porta. Mi venne ad aprire Burn, con le mani piene di fascicoli. Ne presi una parte per aiutarlo.
-Grazie- borbottò lui -Posali nell'armadietto.

Annuii ed obbedii, ficcando i fascicoli nell'armadietto di Burn. Gazel era al computer, o meglio andava avanti e indietro dal microscopio al computer. Osservai curioso l'intreccio di molecole nello schermo.
-DNA?- azzardai. Gazel alzò appena lo sguardo.
-DNA- confermò.

-C'è stato un omicidio stanotte. Un tossicodipendente ammazzato all'angolo di una strada. Tre colpi di pistola. Un lavoro pulito- disse Hiroto.
-Sarebbe stato pulito se il terzo colpo non l'avesse preso in fronte. Pare che ci fosse un lago di sangue, cervella di fuori, un macello.- Gazel sospirò. Non sembrava che parlare di roba splatter come quella gli facesse alcun effetto; per fortuna non scese in ulteriori dettagli.-Comunque, è stato trovato un capello sulla giacca dell'uomo. Ho mandato il campione alla scientifica prima di archiviarlo come prova, e pare sia di un certo... ah, Russell Dumb. Che nome infelice.
-Infelice, ma azzeccato. Pare sia un riccone che ama spassarsela con le donne, apparentemente innocuo, ma stupido come una gallina- aggiunse Burn alzando gli occhi al cielo. Sembrava già stufo di quella storia, o forse è che si sentiva sprecato a lavorare sempre con le carte, lo riteneva un lavoro noioso.
-Ma se era sulla scena del crimine... o è l'assassino, o è un testimone- osservò Kazemaru.
-Ecco, bravo. Come premio hai vinto questo- ribatté Burn. Afferrò un fascicolo e glielo ficcò in mano, non molto delicatamente. Kazemaru lo guardò accigliato, mentre io mi sporsi per darci una sbirciata rapida.

-Dobbiamo indagare su questo Dumb, quindi?- chiesi.
-Già. I dettagli ve li comunicherà il capo. Ora levatevi dai piedi che devo lavorare.- Gazel si voltò e rimase con lo sguardo fisso sullo schermo del computer, il che significava che la conversazione finiva lì.



Uscimmo dalla stanza e prendemmo l'ascensore per salire, poi ci incamminammo nel lungo corridoio dell'ultimo piano.
Notai che Hiroto stava ostinatamente attaccato ad Endou, col risultato che Kazemaru era cupo e silenzioso. Mi dava sui nervi quella situazione.
-Ehi- borbottai, afferrai Hiroto per un braccio e lo trascinai avanti con me.
-Che vuoi?- domandò lui perplesso.
-Impedirti di mettere i bastoni fra le ruote di quei due- replicai tagliente.
Hiroto continuava ad essere perplesso. Si girò, o almeno cercò di farlo, ma io lo trattenni perché sarebbe stato evidente che parlavamo di loro.
-Ah... A Kazemaru piace Endou, giusto?- disse Hiroto dopo un po'. Non ne sembrava particolarmente entusiasta. Decisi che non mi piaceva il suo tono di voce.
-Beh, lasciali in pace, okay?- sussurrai, stringendo di più il suo braccio. Hiroto scrollò le spalle.

-Non credo tu abbia il diritto di dirmi cosa fare o no- mormorò, inespressivo, ma non oppose una vera resistenza. Ero certo che, se avesse voluto, avrebbe potuto liberarsi facilmente e tornare da Endou, invece continuò a camminarmi a fianco anche dopo che gli avevo lasciato il braccio.
-Midorikawa- mi chiamò dopo un po'. Aspettò che mi voltassi verso di lui e chiese:- Io non ti sto per niente simpatico, vero?
-No, non direi- replicai, onesto. Hiroto sospirò, apparentemente rassegnato.
-L'avevo immaginato- disse, e non aggiunse altro. Non riuscivo a capire cosa gli passasse per la testa.
Nessuno dei due aprì più bocca. Hiroto affrettò il passo e mi lasciò indietro, come se non vedesse l'ora di allontanarsi da me. Per un momento, mi sentii offeso, ma poi scrollai le spalle. Il sentimento era del tutto reciproco, al momento.



-Entrate- disse la voce profonda di Kira Seijirou.
Su suo invito entrammo e ci sedemmo sulle poltroncine laterali. Il nostro capo, seduto alla propria scrivania, stava bevendo il tè tranquillamente e sorrideva.
-Agenti Kiyama, Endou, Kazemaru e Midorikawa- chiamò, come se stesse facendo un appello a scuola. -Voi quattro state per partecipare attivamente ad una missione sotto copertura per incastrare Russell Dumb. Il tutto è top secret, ovviamente. Le informazioni necessarie vi verranno passate dall'agente Yagami in un paio di giorni. È una missione importante e, in quanto tale, mi aspetto il massimo da voi.
-Sì- esclamammo io, Endou e Kazemaru.
Hiroto, invece, appariva inquieto.
-Padre... no, Kira-san, posso chiederti come mai hai scelto questa... formazione?- chiese, titubante.
Sul momento, non capii cosa volesse dire, poi realizzai che stava mettendo in dubbio le capacità mie e di Kazemaru. Che faccia tosta, a farlo proprio davanti a noi!

-Ehi!- protestai, sentendomi preso in causa. Hiroto mi ignorò, continuando a fissare ostinatamente soltanto davanti a sé. Avevo improvvisamente voglia di prendergli a calci la sedia, ma non sarebbe stato molto maturo e mi era appena stata affidata una missione importante, per cui mi trattenni.
-Gli agenti Midorikawa e Kazemaru non hanno abbastanza esperienza, le loro tecniche speciali sono ancora molto acerbe- continuò Hiroto con serietà quasi snervante. -Potrebbero compromettere la missione- concluse, poi tacque.
Sta dicendo che siamo due incapaci, o sbaglio?! Lo fissavo, attonito. Tra l'altro, dal suo sguardo sembrava più che si riferisse a me che non a Kazemaru. Che stronzo, lo insultai mentalmente, cercando di contenere la mia rabbia.
Per fortuna, Seijirou intervenne prima che io esplodessi e facessi qualcosa di cui mi sarei pentito.
-Ora basta, Hiroto. Io ho piena fiducia nelle capacità di questi due agenti- dichiarò Seijirou.
Hiroto restò in silenzio, mentre io mi lasciai sfuggire un sorriso sorpreso e soddisfatto.

-È proprio questo tuo atteggiamento che non capisco- borbottò Hiroto. Si alzò, si abbassò nuovamente gli occhiali sugli occhi, come se in quel modo tentasse di rendere la propria espressione indecifrabile, ed uscì con le spalle curve. Endou scattò subito in piedi, fece un accenno d'inchino e seguì il suo partner.
Seijirou aspettò che fossero usciti entrambi prima di rivolgersi a noi. -Dovete scusarlo, vuole solo che tutto vada per il meglio- disse con grande tranquillità.
-No, non lo scuso- replicai sottovoce. Kazemaru mi diede una gomitata. Ero certo che fosse d'accordo con me, ma il suo carattere era più accomodante e diplomatico del mio.
-Andrà per il meglio. La sua fiducia in noi non è mal riposta- disse con un sorriso nervoso.

-Lo so-. Seijirou sorrise, sembrava molto sicuro di sé e ciò mi sorprese. Ora che Hiroto non era vicino a me, la mia rabbia stava sbollendo ed anche io, come lui, mi trovai a chiedermi da dove venisse tutta quella sicurezza.
-Potete andare- Seijirou ci congedò, quindi ci voltammo e uscimmo.
Appena fuori, la mia mente cominciò subito a riflettere e analizzare quanto detto.
Una missione top secret... di cosa poteva trattarsi? Ed era anche di vitale importanza...
Così i miei circuiti mentali mi portarono alla reazione di Hiroto.
Nonostante il suo stupore fosse in un certo senso giustificato (io per primo mi chiedevo perché noi?), la sua maleducazione e soprattutto il suo continuo insultarci velatamente erano inaccettabili! Eravamo tutti colleghi, tutti agenti con lo stesso grado. Mi ribolliva il sangue nelle vene al pensiero che Hiroto si ritenesse superiore a noi.
-Midorikawa, non mi piace quell'espressione- commentò Kazemaru.
Lo guardai confuso. -Quale espressione?- domandai.
-Quella che hai sul volto. L'espressione di uno che non vede l'ora di farla pagare a Kiyama...
-Wow, è un'espressione che deve calzare a molta gente...
-Ah ah- Kazemaru fece una risata sarcastica. -No, Midorikawa, sul serio. So che ti ha dato fastidio il suo atteggiamento... A volte sembra così saccente, vero? Ma in ogni caso farai meglio a non farti venire nulla di strano in mente.
Scrollai le spalle, mentre effettivamente mi accorgevo di avere un'idea in mente.
-Hai ragione- dissi bloccandomi di colpo. Kazemaru non se ne accorse e continuò a camminare mentre mi rispondeva: -Su cosa?
-Hiroto ha un atteggiamento così da saccente! Ma, voglio dire, nessuno è perfetto. Deve per forza avere un punto debole!
-Ovvio che...- Kazemaru si voltò e mi vide voltare l'angolo. Mi seguì di corsa.
-Un momento, che vuoi fare?!- esclamò. Non risposi, ma continuai a camminare, superando la stanza di Reina e Maki.
-Anche Hiroto deve avere un punto debole... ed io lo scoprirò!

-Da dove viene tutta questa determinazione?! No... Aspetta... da questa parte c'è solo una camera...- esclamò Kazemaru, impallidendo a vista d'occhio. I suoi occhi si sgranarono. -No! Midorikawa, no!- disse senza fiato.
Mi fermai di fronte all'unica camera presente.

-No?- ripetei divertito. Bussai alla porta e siccome non c'era nessuno, mi chinai e armeggiai con la serratura: dopo cinque minuti, si aprì con uno schiocco.
-E ora scopriamo un po' di segreti sul nostro rosso preferito- sussurrai mentre spingevo la porta illegalmente aperta della camera di Hiroto ed Endou.

 


**Angolino dell'Autrice**
Salve! Spero che il capitolo vi sia piaciuto, mi dispiace ma è uscito un po' corto... Ma vi prometto che, di media, i capitoli più importanti saranno abbastanza lunghi ^^ 
Nel prossimo, comunque, sarà svelata non solo il contenuto della missione top secret, ma anche l'abilità speciale di Midorikawa, che non riguarda per niente la sua hissatsu o forse sì?.
Ma ora parliamo un po' di piccoli aspetti tecnici che potrei aver trascurato...
Prima di tutto, diciamo che i personaggi apparsi finora hanno tutti sedici o diciassette anni (ad eccezion fatta per Hitomiko e Seijirou, naturalmente). Sono più o meno divisi così: Gazel, Burn e Maki (16) / Reina, Kazemaru, Midorikawa, Hiroto, Endou, Kidou e Gouenji (17). I Fubuki Twins hanno 17 anni. Hitomiko ne ha circa 22-23, mentre Seijirou ha superato i sessanta.
Vi saluto qui, al prossimo capitolo!
Roby


 

 

 


 

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Capitolo 6
*** Mission 6. ~The Beginning ***


La stanza di Endou e Hiroto era pulita ed ordinata.
Ma, mentre la parte di Endou era coperta di poster e gadget vari sul calcio (un vero fanatico!), quella di Hiroto era piuttosto spoglia, fatta eccezione per un mucchio di vestiti abbandonati in modo confuso sul letto.
-Midorikawa, non ho un buon presentimento- commentò Kazemaru, che si era messo davanti alla porta. Aveva la mano stretta sulla maniglia come se temesse che da un momento all'altro potesse abbassarsi, segno che qualcuno entrava, e sembrava incapace di stare fermo per l'agitazione.
-Calmati, Kazemaru- dissi, cominciando ad aprire i cassetti della scrivania di Hiroto per frugarci dentro.
Lui mi ignorò e continuò a parlare da solo.
-Hiroto si arrabbierà, me lo sento... E cosa dirò ad Endou?- si lamentò.
-Nulla- replicai seccato. -Tu non gli dici mai nulla.
Kazemaru mi fulminò con lo sguardo. -Solo perché balbetto non significa che non sappia parlare- esclamò, piccato.
-Se lo dici tu...- mormorai, chiusi l'ultimo dei cassetti ispezionati.
Kazemaru osservava i miei movimenti senza perdersi nulla.
-Una cosa bisogna ammetterla, si veste bene- constatò quando aprii l'armadio.
Presi una giacca di pelle nera e me la poggiai sul petto, non mi stava affatto male. -Hai ragione- ammisi titubante e posai la giacca.
Infili la testa fra le fila di vestiti e cominciai a frugare dietro per essere certo che non ci fosse nulla nemmeno sul fondo.
-Cosa ti aspetti di trovare? Un doppiofondo magari?- domandò Kazemaru sarcastico. Uscii da lì e lo guardai, con le braccia sui fianchi.
-Di' un po', ma tu da che parte stai?!
-Non è un fatto di parti... Solo che non mi piace questa situazione, non credo che dovremmo essere qui...
-Non ricordavo di averti assunto come mia coscienza.
-Uno di noi due deve pur avercela, una coscienza.
Scossi il capo, deciso a concludere lì quel battibecco che non ci avrebbe portato da nessuna parte. Chiusi le ante dell'armadio e mi guai intorno. Possibile che non ci fosse niente? Niente di niente? Una persona apparentemente così impeccabile doveva avere per forza qualche segreto oscuro!
Mi sedetti sul letto, deluso, mentre Kazemaru mi fissava trionfante. Era ovvio che non vedeva l'ora di dire “te l'avevo detto”.
Mi misi a temporeggiare per farmi venire qualche altra idea. Dondolando le gambe avanti e indietro, mi resi conto che i loro letti, al contrario dei nostri, non toccavano terra, ma anzi lasciavano uno spazio di almeno un metro e mezzo fra pavimento e materasso.
Colto da un'improvvisa ispirazione, mi buttai in ginocchio vicino al letto, sollevai le lenzuola e scrutai il buio. Tesi una mano, tastando il pavimento, e con le dita urtai lo spigolo di una scatola. La tirai fuori.
Kazemaru strabuzzò gli occhi quando la posai fra le mie gambe e cominciai a disfare i nodi della corda con cui era sigillata. Era una scatola quadrata, di modeste dimensioni, di color grigio vecchio, impolverata, vissuta.
Sciolti i nodi, misi finalmente la mano sul coperchio per aprirla, e in quel momento ebbi una specie di scossa, che mi portò a sussultare.
-Midorikawa- sussurrò Kazemaru -Hai sentito qualcosa?
Non risposi. Fin da quando ricordo, sono stato molto empatico... e quando tocco cose a cui sono legati sentimenti intensi li percepisco chiaramente. E quando sono molto, molto intensi...
Esitante e allo stesso tempo attratto, aprii la scatola e ci guardai dentro.
Tutto ciò che c'era era un vecchio pallone da calcio, consunto ed ingrigito.
-Oh- commentai, sorpreso. Ma la sensazione di delusione si dissolse quasi subito in un misto di ansia e nostalgia: ora le mie dita sfioravano il cuoio del pallone. Lo presi fra le mani, senza tirarlo fuori dalla scatola.
Qualcosa m'indusse a chiudere gli occhi, e li riaprii in un altro tempo...

Due bambini, con i capelli rossi, stanno rincorrendo un pallone.
Stanno ridendo... Sembrano molto felici.
Poi una voce femminile li chiama, quindi uno dei due raccoglie il pallone. Si guardano ed anche i loro occhi sono di colori simili; sembrano proprio fratelli gemelli.
Sono felici, ma una felicità destinata a sparire presto...
Ora davanti a me c'è solo Hiroto, che accarezza questo pallone con aria nostalgica. È così profondamente triste il suo sguardo... che mi fa male il petto.


 

-Midorikawa!-
Per lo shock, il pallone mi cadde delle mani nella scatola e d'improvviso mi resi conto che avevo smesso di respirare: cominciai a tossire, a respirare affannosamente. Avevo gli occhi velati di lacrime.
Kazemaru, avendo capito al volo cos'era successo, chiuse in fretta la scatola, rifacendo i nodi e la ficcò sotto il letto, in fondo.
Poi mi cinse la vita con il braccio sinistro, facendo passare il mio braccio destro intorno alle sue spalle. Le gambe mi cedettero, non ero in grado di alzarmi.
-Scusami- mormorai. Kazemaru fece cenno che ne avremmo riparlato.
Ora più che mai aveva fretta di uscire e toglierci dai guai in cui ci avevo cacciati.
Aprì la porta con la mano destra e ci incamminammo lungo il corridoio.
-Andiamo in camera nostra, tra un po' starò meglio- lo rassicurai. Lui annuì, nervoso, mentre mi trascinava perché non mi reggevo in piedi.
Quando i sentimenti legati alle cose che toccavo erano molto intensi, poteva capitare che mi sentissi esausto. Era come se mi fossi immedesimato troppo. Anche con le persone mi capitava... Non sapevo perché, era una capacità che possedevo fin da piccolo.
-Cosa è successo? 
Entrambi scattammo quando sentimmo quella voce.
Hiroto era dall'altra parte del corridoio e ci aveva visti; notò subito che non ero in buona condizione, perciò si avvicinò rapidamente. Sembrava addirittura preoccupato, ma probabilmente era solo un'impressione... Ero troppo stanco per sforzarmi di leggere la sua espressione.
-Che gli è successo?- chiese a Kazemaru non appena fu abbastanza vicino da osservarci meglio.
Kazemaru arrossì e disse la prima cosa che gli saltò in mente:- U-Un capogiro.
Hiroto lo fissò accigliato. Il mio partner era davvero il peggior bugiardo che avessi mai conosciuto.
Mi staccai da Kazemaru ed inspirai a fondo, facendomi forza per parlare. -Sto bene. Non è niente. Non mangio da stamattina e per questo sono un po' debole...- assicurai.
La mia bugia sembrò convincere Hiroto più di quella di Kazemaru.
-Beh, è meglio che tu ti rimetta in forze allora. Chiederò a Maki di farti avere qualcosa. Per la missione di domani sera dovete essere perfetti- ci avvisò severo e, ci potrei giurare, ancora seccato per la nostra partecipazione.
Mi sforzai di sputare fuori un ringraziamento che suonasse abbastanza sincero, quindi Hiroto se ne andò e Kazemaru ed io riprendemmo a zoppicare verso la stanza.
Aspettammo seduti sul letto l'arrivo della ragazza, che mi ingozzò di onigiri e ramen con porro, assolutamente convinta delle doti salutari di quest'ortaggio. Come se non bastasse, ci portò due o tre modelli da lei disegnati.
-Questo è per la missione di domani sera- esclamò ridacchiando. -Non sapete quanto mi sono divertita nel disegnare questi!
Kazemaru cominciò a sfogliare l'album della ragazza, fino all'ultima pagina. Alzò gli occhi accigliato.
-Maki... questi sono abiti da donne- constatò.
-Esatto!- esclamò lei allegra. -Sembra che voi due domani vi divertirete un sacco...
-Stai scherzando?!- dissi sconvolto, mi alzai di scatto ma ebbi un capogiro (stavolta veramente) e mi lasciai ricadere sul letto.
-Lascia stare, vado a chiedere io- mi rassicurò Kazemaru, aprì la porta ma si trovò di faccia la giacca giallo canarino di Hitomiko. Sobbalzò.
-Ah... s-salve- salutò, ancora intimorito dalla recente sfuriata della donna.
La donna ignorò il saluto, si ravviò i capelli e strinse le labbra, gelida.
-Questo è il fascicolo che contiene tutte le informazioni riguardanti la missione di domani sera. Spero siate preparati. E tu...-Mi fissò per un attimo. -Vedi di rimetterti presto. Mangia e fatti una bella dormita... Devi essere al cento per cento domani, è chiaro?
-Sissignora- esclamai intimorito. Lei sbuffò e uscì, sbattendo la porta.
Maki si sedette vicino a Kazemaru per poter leggere il fascicolo.
Più leggeva, più la faccia del mio partner si trasformava in una smorfia.
-Allora?!- scoppiai -Non tenermi sulle spine!
Kazemaru chiuse il fascicolo e lo lanciò a terra, quindi incrociò le braccia.
-Domani sera Dumb terrà un ballo nella sua villa, in cui gli ospiti devono presentarsi accompagnati da belle ragazze. Noi andremo sotto copertura...- e qui s'interruppe, arrossendo vistosamente.
-Beh, che c'è? Continua!- lo esortai -Aspetta... hai detto ragazze?
Guardai Maki, che scosse il capo con un sorriso inquietante.
-È questo il punto- Kazemaru sospirò -Siamo noi le ragazze. I nostri cavalieri saranno Endou e Hiroto... Mi sa che dovremo imparare a ballare.


 


**Angolo dell'autrice esaurita (?)**
Ma salveeee! ^o^
Che piacere riuscire a pubblicare un nuovo capitolo dopo tanto tempo!
Innanzitutto, mi scuso per il ritardo ma, causa scuola, mi sa che ciò si ripeterà spesso ^^
Perché la scuola deve cominciare così presto?! E soprattutto perché Epicuro scriveva così tante lettere in greco, che poi noi poverelli del classico dobbiamo tradurre?
Magari fosse come in Inazuma Eleven... là non sono andati a scuola manco tre giorni e poi sono stati promossi lo stesso ò.ò
... 
Ho deciso, parto per sconfiggere gli alieni! ù.ù
...
Tornando al capitolo, mi piacerebbe sapere cosa ne pensate perché non mi soddisfa granché... Non so se sono riuscita a spiegare bene qual è l'abilità di Midorikawa. In pratica, è un'iper-empatia. Dovrebbero chiamarlo "Mr Sensibile" XD
Oooh, con la missione ci sarà molto da divertirsi! Kazemaru dovremo ricoverarlo d'infarto perché dovrà passare tutta la serata con il suo caro Endou... e Midorikawa con Hiroto... poverino mica tanto XD
 Ci vediamo al prossimo capitolo!
Baciiii C:
Roby

 

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Capitolo 7
*** Mission 7. ~Dancing Party01 ***




-Ouch...! Cavolo, questi tacchi mi stanno letteralmente uccidendo.
Mi voltai verso Kazemaru con un‘espressione a metà fra lo sconcertato e il preoccupato.
Entrambi, a causa di quella stupida missione, eravamo stati costretti a vestirci da donne, ma chissà perché Maki era stata più clemente verso di me: le mie scarpe avevano sì i tacchi, ma erano bassi e quadrati, mentre quelli a spillo di Kazemaru sembravano di gran lunga più fastidiosi (e dolorosi).
-Kazemaru, stai bene?- chiese Endou vedendolo tentennare.
Prima che Kazemaru potesse balbettare una qualunque risposta, l’altro aveva già allungato un braccio per cingergli la vita e sorreggerlo con il suo corpo. Il mio partner divenne paonazzo.
Camminavamo così, Endou e Kazemaru dietro e io a braccetto di Hiroto davanti.
Non potevo non ammettere che Endou e Hiroto facessero un figurone in smoking. In particolare, Hiroto sembrava una versione giapponese di James Bond, sexy ed elegante... Vedevo le ragazze morirgli dietro ovunque passassimo, da quando eravamo scesi dalla limousine e avevamo cominciato a camminare.
-Kazemaru sta bene? Lo vedo traballante- disse Hiroto con una punta di divertimento che non mi sfuggì per niente.
-Vorrei vedere te, a camminare sui tacchi- replicai in difesa del mio partner. Le labbra di Hiroto si piegarono in un lieve sorriso mentre sussurrava:- Che c’è? Hai problemi anche tu? Se perdi l'equilibrio, puoi appoggiarti a me, sai. Sono qui apposta per accompagnarti.
Sospirai e scossi il capo. -No, grazie- replicai. Speravo vivamente di non essere arrossito (non troppo, almeno).
Il sorriso di Hiroto si trasformò in una smorfia.
-Non capisco davvero perché ti sto così antipatico.
-Non mi riesce difficile, siamo proprio incompatibili- risposi attorcigliando una ciocca di capelli con un dito. Hiroto mi guardò confuso, allora mi spiegai.
-Per cominciare, tu sei troppo appariscente. Sai, con tutto quell'essere perfetto, e poi sei il figlio del capo e tutto...
-Non sono perfetto e, per quanto riguarda mio padre, vengo trattato esattamente come tutti gli altri- mormorò Hiroto, con un'espressione crucciata. Per un attimo pensai di averlo ferito e stavo per scusarmi, ma lui scosse il capo e si ricompose in un attimo.
Si girò verso Endou. -Ehi, siete pronti? Stiamo per entrare- disse.
Il suo partner annuì. Hiroto ci fece strada fino all’enorme villa color crema che sembrava essere l’unica fonte di luce lungo la strada buia; al suo ingresso, una lunga fila di persone aspettava di passare attraverso le tende purpuree ed entrare all’interno.
Ci mettemmo in fila con loro ed aspettammo il nostro turno. Davanti alle tende c’era un grosso uomo vestito in nero che ci sbarrava la strada. Hiroto estrasse il falso invito che Gazel ci aveva procurato. L’uomo lo fissò per circa un secondo, poi spostò le tende per farci passare.
-Non bada a spese, il nostro uomo- commentai non appena fummo dentro.
Ci trovavamo in un salone enorme, illuminato da più di dieci lampadari di oro e cristallo, le pareti erano di marmo rosato. Colonne di marmo bianco perlato percorrevano tutta la fila del muro, e le due centrali costituivano il varco di una lunga scalinata di moquette rossa e corrimani di legno pregiato che si sottraeva alla vista una volta raggiunto il primo piano.
Da lì, proprio come fosse su una terrazza, un gruppo di uomini in nero osservavano le persone nel salone, probabilmente controllando che niente andasse storto: avevano pistole nella cintura.
Arretrai fino ad appoggiarmi contro un muro, affianco a dove iniziava il lunghissimo tavolo del buffet, che si chiudeva ad U dal lato opposto della sala, ed era adornato con rose rosse, in evidente risalto con la tovaglia bianca immacolata.
-Endou, tieni le mani a posto- sussurrò Hiroto, scherzoso e preoccupato al tempo stesso, al suo partner che guardava voglioso le pietanze sul tavolo.
-Ma visto che siamo qui un assaggino potremmo anche farlo- obiettò Endou puntando gli occhi sul pollo che due camerieri vestiti in rosso e bianco stavano cuocendo flambé davanti agli occhi stupiti e ammirati di un gruppo di signorine. Hiroto mise una mano sulla spalla di Endou, sospettavo per trattenerlo dal fare qualcosa di stupido.
Sentii Kazemaru maledire sottovoce i tacchi ed il vestito, un’elegante tubino rosa che si apriva in balze di velo sulle caviglie e era molto gonfio sul petto e sulle spalle per impedire che si vedesse il seno, o meglio per impedire che non si vedesse il seno, visto che non c’era.
Il mio vestito invece era di un giallo molto chiaro, quasi bianco panna, e oltre alla parte di sopra di gonfio aveva anche la gonna, le cui pieghe tendevano fastidiosamente a sovrapporsi.
Cominciai a lisciarle per passare il tempo.
D’un tratto un rumore lungo e acuto  ci fece sobbalzare tutti.
Era lo stridio di un microfono. Intravidi delle piccole casse nere ai quattro angoli della stanza.
-Accolgo lietamente i miei ospiti di stasera. Per chi torna, bentornati. Per chi è la prima volta, benvenuti. Spero che la mia festa vi sia gradita- dichiarò una voce bassa, che voleva essere sensuale. Endou strinse Kazemaru a sé in un gesto istintivo quando l’uomo posò gli occhi su di noi. Io mi accostai ad Hiroto, entrambi avevamo gli occhi fissi su lui.
Russell Dumb aveva solo ventitré anni, ma ne dimostrava più di trenta per il volto tirato a causa dei sorrisi costruiti e la barba ispida che gli copriva il mento e gli zigomi, era moro e indossava un completo viola Dolce & Gabbana su una giacca giallo acceso (dubitavo di aver mai visto niente di così cattivo gusto). Accompagnato dalle sue guardie del corpo, discese lentamente le scale e si accostò ad una delle colonne di marmo.
I suoi occhi vagavano sulle signore e signorine presenti lì quella sera con molto interesse.
-Che uomo disgustoso. Le guarda come fossero pezzi di carne e non persone- sibilò Hiroto, irritato.
Lo guardai, sorpreso. Era raro vederlo perdere la calma così.
-Stasera vi invito a ballare… prima faremo dei lenti, poi un po’ di discoteca, che ne dite?- disse Dumb, ricevendo in risposta urla entusiastiche.
Mentre si formavano le coppie, Kazemaru si rivolse dubbioso ad Endou, ma il ragazzo sembrava ancora troppo preso dal cibo per capire la situazione.
Mi avvicinai a Kazemaru e gli diedi una leggera spintarella, cosicché il mio partner perse il suo già precario equilibrio e precipitò fra le braccia di Endou. Di nuovo.
-Stai attento- disse il ragazzo preoccupato.
-Sì… mi sono distratto- rispose Kazemaru dandomi un’occhiataccia, poi rendendosi conto di quanto vicino fosse al ragazzo che amava avvampò e si ammutolì.
Endou volse gli occhi sul centro della sala, dove varie coppie già stavano dondolando sulle note di un valzer di Tchaikovsky.
-Kazemaru, ti va di provare anche noi? Sembra divertente- esclamò.
Kazemaru annuì con forza e Endou sfoderò il suo sorriso abbagliante, Lo guidò verso il centro della sala tenendolo delicatamente per mano, quindi gli mise una mano sul fianco.
La musica era molto bella e continuai ad osservarli per un po’, mentre con una mano mi attorcigliavo nervosamente una ciocca di capelli.
-Non vogliamo andare anche noi?
Una mano si posò sulla mia ed i miei occhi si spostarono su Hiroto.
Sollevai un sopracciglio.
-Io e te? Sei impazzito?- domandai. Hiroto sorrise leggermente.
-Farebbe parte della copertura- affermò. Scossi il capo e feci una smorfia.
-Sono sicuro che troverai ragazze disposte a concederti questo ballo- replicai. Notai alcune ragazze in abiti colorati che fissavano Hiroto come fossero sull’orlo di uno svenimento, ma lui non pareva averle nemmeno viste.
Hiroto poggiò una mano sul muro e si abbassò verso di me finché il suo viso non fu abbastanza vicino al mio da impedire che orecchie indiscrete potessero sentire quello che dicevamo.
-Ma sei tu il mio accompagnatore stasera. Come potrei lasciarti qui da solo?- sussurrò. Avvampai senza volerlo. Il suo profumo mi fece per un attimo perdere lucidità e Hiroto ne approfittò per trascinarmi a ballare. Sussultai sentendo la sua mano sul fianco.
-Non te ne approfittare, mi sembra che ti stai divertendo un po' troppo a mie spese!- lo minacciai. Lui rise.
-Non lo farei mai- rispose e, molto delicatamente, cominciò a guidarmi. Non sapevo ballare, ma la sua sicurezza e la sua eleganza m’infondevano tranquillità e così lasciai che il mio vestito scivolasse aggraziato mentre giravamo e giravamo e giravamo.
Socchiusi un po’ gli occhi a causa della luce forte dei lampadari. Le dita di Hiroto erano intrecciate con le mie e stranamente stargli accanto non era una brutta sensazione.
-Midorikawa… So cosa pensi di me e credo che tu sia troppo prevenuto nei miei confronti- disse all’improvviso.
-Ah, sì? E cosa penso di te?
Lui piegò gli angoli della bocca in un piccolo sorriso e mi fece volteggiare su me stesso; la mia gonna svolazzò alzandosi appena da terra.
-Tu pensi che io sia superficiale e vanesio. E che non volevo te e Kazemaru in missione con noi perché vi sottovaluto- disse. Rimasi in silenzio, stupito dal fatto che avesse indovinato tutto. Dopotutto, allora, non mi stava ignorando.
-Non è forse così?- sbottai.
-Non volevo offendervi. Penso solo che potrebbe essere pericoloso.
-Nel caso tu non l'abbia notato, questo lavoro è pericoloso... Ehi!- M’interruppi, restando di colpo senza fiato quando Hiroto mi fece scendere all’improvviso in un elegante casquet.
-Voglio solo dire che i piani di mio padre non sono sempre sicuri come sembrano. Ed è facile finire intrappolati in rete senza accorgersene- concluse Hiroto. Non aggiunse altro, ma mi rivolse un sorriso che mi fece arrossire più di quanto avrei voluto. Mi resi conto che stavo cadendo nella sua ragnatela e mi affrettai nel districarmi da quella situazione.
Con gli occhi cercai rapidamente qualcosa su cui fare affidamento.
Fu allora che intravidi Kazemaru… Fin qui niente di strano, a parte il fatto che non era con Endou, ma con Russell Dumb in persona.
-Hiroto, guarda- sussurrai. Apparentemente, Kazemaru gli aveva macchiato il vestito con qualcosa (di proposito?) e si stava scusando, ma tanto lui sembrava piuttosto incline a perdonarlo… Diciamo pure che se lo mangiava letteralmente con gli occhi.
-Ha fatto colpo, direi- osservò Hiroto sottovoce. Endou sembrava sparito.
Alcune coppie si frapposero fra noi e Kazemaru, coprendomi la visuale.
-Non c'è più musica- osservai. Dumb sembrava essersi stufato dei valzer; poco dopo, infatti, annunciò l’apertura della discoteca. C’era silenzio in sala, fatta eccezione per le chiacchiere stolte dei presenti.
Dopo alcuni minuti di tranquillità, la sala cominciò a tremare come in un terremoto, tanto che fui costretto ad appoggiarmi ad Hiroto per non cadere a terra. Il soffitto si aprì, spostando due lampadari, e dall'alto discese una sfera da discoteca.
Le luci si soffusero e si accesero riflettori con luci bianche o colorate, che si riflettevano sulla sfera e abbagliavano i ballerini.
-Non ci voleva- protestai, con quel buio non potevo sperare di trovare Kazemaru.
-Di certo Kazemaru e Endou hanno in mente qualcosa- disse Hiroto. Probabilmente aveva ragione: Kazemaru doveva aver approfittato dell’incidente per avvicinarsi a Dumb senza sembrare sospetto. Probabilmente Endou li stava osservando e seguendo da lontano. Mi appoggiai ad un muro, desideroso di riposarmi un po' dopo il ballo: l'ultimo casquet mi aveva fatto girare la testa e mi sentivo accaldato. Volevo solo un po' di tempo per riflettere sul da farsi.
-Signorina… Mi scusi… Signorina?
Alzai lo sguardo. Perso com’ero nelle mie riflessioni, non mi ero accorto che un uomo di fronte a me mi stava chiamando. 
-Balla con me?- chiese. Il tono di voce era cordiale, ma il suo sguardo fin troppo avido. Non sapevo cosa dire per liberarmene, ma non dovetti far nulla perché intervenne Hiroto.
-Mi dispiace, è già occupata- affermò, tranquillo ma tagliente, mentre con un braccio mi cingeva la vita. Senza sapere come, mi trovai stretto a lui, con le mani poggiate sul suo petto. Fallito il tentativo, l’uomo decise di andarsene e lasciarci soli.
-Visto? Pericoli ovunque- commentò Hiroto, scherzoso. Ora aveva entrambe le mani sui miei fianchi e ringraziai il buio che celava il mio rossore. Non andava bene proprio per niente, mi stavo facendo incantare da lui…
Approfittando di un cameriere passava con un vassoio, mi presi un succo d'arancia e decisi di concentrarmi sulla canzone per non pensare a Hiroto. Pessima idea: non avevo pensato ad eventuale alcol nei drink. Che idiota.

-Midorikawa- mi chiamò Hiroto.
La sua voce era appena un sussurro, a pochi centimetri dal mio orecchio, e mi fece rabbrividire. Mi girai, incrociai i suoi occhi e rimasi paralizzato, incapace di distogliere lo sguardo. Ora più che mai, ero consapevole che le sue mani erano ancora sui miei fianchi. Sentivo di star impazzendo, forse per la tensione, o forse per via del fatto che non ero abituato a bere alcolici, per quanto diluiti.
O forse era tutta colpa di Hiroto Kiyama, che fino ad un'ora prima ero sicuro di detestare. Ma in quel momento volevo stare più stretto a lui, e la musica da sala sembrava incitarmi a farlo.
Stanco di quella confusione fuori e dentro la mia testa, cercai di spingerlo via.
-Midorikawa- Hiroto mi chiamò di nuovo. Delicatamente, ma con una certa decisione, mi sospinse verso un muro, al quale fece aderire la mia schiena. Mi guardò, esitando un momento, come se volesse darmi il tempo di spostarmi; tuttavia, anche se capivo perfettamente cosa stava per succedere, scoprii di non riuscire a muovere un muscolo. Il bicchiere mi scivolò dalle dita mentre Hiroto annullava la distanza rimasta tra noi, s’infranse sul pavimento ed il liquido mi schizzò sulle caviglie. Il rumore mi arrivò come un suono lontano, estraneo, incomprensibile.
L’unica cosa che sentivo era un calore che ardeva in tutto il mio corpo, a partire dalle labbra di Hiroto, premute contro le mie. Era un bacio casto, ma bollente. Mi stupii a pensare che non mi bastava per niente. Volevo più contatto fisico, molto di più. Le labbra di Hiroto stavano uccidendo tutti i miei pensieri logici. Le mie braccia, sfuggite al mio controllo, gli strinsero le spalle, le mie dita scivolarono lungo la nuca fino ad affondare nei suoi capelli. Non sapevo nemmeno cosa stavo facendo, non avevo mai baciato nessuno prima, ma provai comunque ad approfondire il contatto. Morsi il labbro inferiore di Hiroto e poi ci passai sopra la lingua: il verso soffocato che lui si lasciò sfuggire accese un fuoco nel mio petto.
-Hiroto! Hiroto!-
La voce di Endou ci arrivò come lontana... poi però divenne più forte e disperata e noi ci staccammo di colpo, bruscamente.
-Hiroto, dove sei?!
Tenendomi il polso fermamente per non perdermi nella folla, Hiroto corse incontro a Endou.
-Che succede?- chiese preoccupato, a mezza voce. Era a corto di fiato a causa del bacio, notai; il pensiero mi fece arrossire ancora più furiosamente. -Stavo seguendo Kazemaru e Dumb, ma li ho persi- disse Endou angosciato. Mi girai di scatto verso di lui, mentre mi tornava in mente ciò che aveva detto Hiroto poco prima.
Il mio partner era finito dritto dritto nella rete.
 


**Angolino dell'autrice**
Salveeeee!
Finalmente mi è venuta la giusta ispirazione per questo capitolo, perciò eccolo qui! Che ne pensate?
Per quanto riguarda la musica, per i valzer e i lenti ho scelto Tchaikovsky perché mi piace molto (ha composto il valzer della Bella Addormentata, che consiglio di sentire!) ♥
Bene, ora vado a scrivere altre storie! Oggi sono straordinariamente ispirata!
Baci a tutti!
Roby



 

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Capitolo 8
*** Mission 8. ~Dancing Party02 ***


I corridoi lunghi ed infiniti della villa non facevano che aumentare la mia tensione.
Nonostante correre sui tacchi non fosse proprio una passeggiata, Endou e Hiroto non riuscivano a tenere il mio passo.
-Midorikawa! Aspettaci!- gridò Hiroto.
Scossi il capo, frustrato, e continuai a camminare veloce, guardandomi intorno.
-Dannazione, è tutta colpa mia- sussurrò Endou mordendosi il labbro. Hiroto si fermò a consolarlo, gli poggiò una mano sulla spalla.
-Quello lì è un bastardo… Non è stata affatto colpa tua, tranquillo- lo confortò.
-Oh, Hiroto… grazie...
-Vi spiacerebbe non flirtare in una situazione drammatica come questa?!- Mi voltai stizzito.
Endou mi guardò interrogativo e Hiroto accigliato.
-Sei geloso?- chiese, stranamente serio.
-No!- gridai, e mentivo. -Io sono incazzato!- Questo invece era vero. Ero incazzato perché non capivo cosa passasse per la mente di Hiroto e perché Russell Dumb mi era sfuggito sotto il naso e per di più aveva rapito il mio partner portandolo chissà dove.
Sentii lacrime di rabbia salirmi agli occhi e mi voltai, camminando a passo ancora più spedito. Avrei voluto seminarli, lasciandomeli alle spalle, ma mi rendevo conto che non era esattamente una buona idea; non potevo agire da solo, non avevo speranze di farcela.
-Midorikawa-. La voce di Hiroto mi giunse all’orecchio, improvvisamente vicina, troppo vicina.
Ebbi appena il tempo di reagire che una mano mi tappò la bocca, soffocando il mio urlo, ed un’altra mi strinse una spalla e mi trascinò contro un muro. Eravamo di nuovo a pochi centimetri di distanza, ma stavolta Endou era al nostro fianco, appoggiato al muro e leggermente chino in avanti, tentando di scorgere quello che accadeva dietro l’angolo. Sgranai gli occhi riconoscendo due degli uomini in nero di Dumb.
-Oggi ne ha trovata una carina, vero?
-Già… quei capelli azzurri sono davvero belli.
Sussultai, ora che potevo immaginare il soggetto della conversazione ero profondamente disgustato.
Uno di loro scoppiò in una risata lunga e roca, quasi un latrato. –E cosa vuoi che importi, tanto Dumb ha in mente solo una cosa… E infatti l’ha portata nella camera dove porta tutte le sue donne...
Stavo per saltare fuori, con l’intenzione di picchiarli fino a che non mi avessero portato da Kazemaru o non fossero svenuti, ma Hiroto mi manteneva saldamente proprio perché io evitassi di commettere azioni troppo avventate.
Già, Hiroto manteneva me.
-Brutti bastardi!
Ma non Endou.
Il ragazzo senza esitazione uscì dal nascondiglio, fronteggiandoli a pugni stretti, rabbioso.
-Chi diavolo sei? Come sei arrivato fin qui?- gridò uno dei due. L’altro infilò una mano in tasca, cercando la pistola.
Endou non parve minimamente preoccupato; potevo intravedere un groviglio indistinto di luce crescere intorno al suo corpo, con bagliori di luce altalenanti.
-Non è importante come sono arrivato qui, ma come mi farete arrivare dove voglio!- disse.
 I due uomini estrassero le pistole e fecero fuoco, ma il ragazzo non si mosse. Cosa potevano mai fare quelle misere pistole contro la grossa mano di luce a cui l’aura di Endou aveva dato forma? Rimasi anche io a bocca aperta. Era la prima volta che lo vedevo usare il suo potere.
-Mano di Luce!- gridò Endou e la mano si chiuse catturando i proiettili e lasciandoli cadere, come mozzi di sigarette spente, a terra. I due uomini, che non dovevano essere stupidi né particolarmente temerai, buttarono le pistole scariche e corsero precipitosamente verso gli ascensori, ma Endou non aveva certo finito lì la sua lezione.
-Pugno di Giustizia!-. La mano, rispondendo al suo comando, si staccò quasi completamente dal suo corpo e inseguì gli uomini, chiudendo le dita come un pugno intorno ai loro corpi, immobilizzandoli, e li trascinò indietro, fino a tornare davanti ad Endou.
-Ora- disse il ragazzo, arrabbiato, -mi porterete da Dumb, è chiaro?!
-Dovreste ubbidirgli, quel pugno potrebbe stritolarvi- aggiunse Hiroto, uscendo allo scoperto. Lo seguii, guardandolo interrogativo: non credevo che Endou potesse essere tanto spaventoso.
Il rosso sembrò leggermi nella mente e rispose:- Vedi, Endou è molto impulsivo, quindi se perde il controllo potrebbe inavvertitamente ucciderli…
Questa frase, pronunciata con un sorriso disinvolto e tranquillo, ebbe un effetto istantaneo sui due uomini: evidentemente già abbastanza terrorizzati, buttarono immediatamente via la propria fedeltà al loro padrone per assicurarsi la sopravvivenza.
Dopo che ci ebbero indicato corridoio e stanza, li ammanettammo alla ringhiera delle scale. Non appena fummo abbastanza lontani, mi rivolsi a Hiroto, curioso.
-Poteva davvero ucciderli?
-Nah. Endou è un pezzo di pane... Non avrebbe fatto loro alcun male, ma loro non potevano saperlo, no?
-Quindi quello spaventoso sei tu- bofonchiai, ma in quest'occasione gli davo ragione. Quei tizi se lo meritavano, in ogni caso.
Seguendo le loro indicazioni, proseguimmo da soli lungo il corridoio del terzo piano, nel quale l’unica stanza era dritta di fronte a noi, in fondo a tutto. Man mano che ci avvicinavamo, mi cresceva l’ansia.
E poi vennero le voci.
-No… lasciami in pace… non voglio…!
-Cosa credevi, bella signorina, che avremmo giocato a carte? Magari potremmo… una partitella di strip poker però!- A queste parole seguirono una risata volgare ed uno schiaffo.
-Mi fai schifo!
-Come hai osato… colpirmi… sgualdrina! Ti farò piangere!
-Lasciami! Midorikawa! Midorikawa, aiutami!
Quando Kazemaru pronunciò il mio nome, persi il controllo e rilascai una sferzata d’energia che fece saltare in aria la porta.
Dumb, che era seduto a cavalcioni su Kazemaru, bloccandogli i polsi, si coprì istintivamente il viso con un braccio. Con un moto di rabbia mi frapposi fra loro due in un balzo, sollevai la gamba e tirai un calcio alla parete; il tacco della scarpa sfiorò l’orecchio di Dumb e lo mise spalle al muro.
-Midorikawa!- esclamò Kazemaru. Aveva le lacrime agli occhi ed il vestito strappato sulle spalle, dettagli che accrebbero il mio desiderio di vendetta.
-Tu… lurido bastardo…- sibilai. Dumb rabbrividì quando il tacco della mia scarpa, sfregando contro il suo collo, gli aprì un leggero taglio nella pelle. Una goccia di sangue colò sul colletto bianco della camicia.
-Come hai osato toccare il mio partner! Io ti uccido!- gridai, isterico, ed abbassai la gamba, chinandomi per afferrargli il colletto e sollevarlo alla mia altezza. Il mio pugno lo colpì sotto la mascella, facendolo cadere a terra. 
Solo allora mi voltai verso Kazemaru e mi accorsi che Endou e Hiroto erano alla porta.
-Midorikawa!- piagnucolò Kazemaru tendendomi le braccia e facendosi abbracciare.
-Non ti preoccupare, sono qui ora- sussurrai accarezzandogli i capelli.
All’improvviso lui s’irrigidì e si staccò precipitosamente da me.
-Attento!- esclamò, allarmato. Mi spinse di lato, ma qualcosa mi colpì ugualmente alla caviglia: avvertii un forte bruciore e vidi che sanguinava.
-Sei ferito?- mi chiese Kazemaru, ma io scossi il capo.
All’altro capo della stanza, Dumb era in ginocchio e con entrambe le mani stringeva una pistola.
-Siete fottuti- disse, ridendo anche se aveva il respiro affannato. -Ho chiamato la sicurezza. Vi prenderanno e vi uccideranno.
Ci scambiammo un’occhiata preoccupata, in quattro contro cento non sarebbe stata una passeggiata. Dumb colse la nostra esitazione e rise più forte.
-Perdenti! Vi ho fottuti, perdenti! Morirete tutt…- A quel punto il Pugno di Giustizia di Endou lo interruppe sollevandolo e sbattendolo dentro il muro; Dumb svenne subito. Hiroto scavalcò il suo corpo con disgusto, come se fosse stato un mucchio d'immondizia, e procedette ad ammanettarlo. Raccolse la sua pistola da terra rivolgendogli uno sguardo gelido, poi si ricompose.
-In quattro attireremo troppo l’attenzione... Dovremmo dividerci- propose. Annuii e fissai uno per uno i miei compagni... Non che ci fosse molta scelta, in realtà.
-Allora… Endou, potresti prenderti cura di Kazemaru?- chiesi. Il ragazzo disse di sì con energia e Kazemaru divenne rosso pomodoro al solo pensiero di restare solo con lui.
Mi aspettavo che Hiroto obiettasse, invece fu d’accordo.
-Io e Midorikawa passeremo dal retro. Endou, voi andate verso il terrazzo e aspettate che Reina passi a prendervi in elicottero- ordinò, e ci separammo.
Appena Endou e Kazemaru furono spariti, Hiroto si voltò verso di me e mi squadrò da capo a piede, poi senza preavviso mi prese in braccio. Preso in contropiede, arrossii e cominciai a dimenarmi.
-C-Cosa cavolo fai?! Mettimi giù!- protestai.
Lui mi ignorò e cominciò a correre verso la fine del corridoio, voltò l’angolo da dove degli uomini appena usciti dall’ascensore ci videro e ci inseguirono.
Hiroto sorrise inquadrando la finestra che aveva di fronte.
-Sei pronto, Midorikawa?
-Pronto per cos… Oh, no, no, no! Un attimo! Tu sei pazzooooo!- Il mio grido si perse nell’aria quando Hiroto senza esitare saltò sul davanzale della finestra e poi giù.
Mi aggrappai forte a lui mentre restavamo sospesi in aria, e poi lui atterrò splendidamente nel giardino e si rimise in piedi senza che nessuno di noi si facesse male né si beccasse proiettili volanti. A pensarci bene, inoltre, il salto non era alto come credevo, Hiroto l'aveva pianificato bene. Si guardò intorno, poi s’infilò nella grande serra laterale. Una volta dentro, mi posò a terra e, dopo aver dato una rapida occhiata in giro, decise di barricare la porta con un mini ficus molto angosciante.
-Ci sarà una seconda uscita da questo posto?- chiesi, guardandomi intorno nel buio. Hiroto scrollò le spalle.
-Non so, ma possiamo usare questo posto come trincea. E poi, è un ottimo nascondiglio- spiegò mentre si sedeva accanto a me.
-Ti sei ferito ad una caviglia, vero?- disse. Sollevò un po’ la gonna per esaminare il graffio che avevo sulla caviglia e asciugò con un dito il sangue. Sobbalzai per il bruciore causato da quel semplice gesto.
Hiroto decise di usare la propria cravatta per tamponare e fasciare la ferita.
-Grazie- mugugnai.  
Dopo questo, calò un silenzio molto imbarazzante.
Mi diedi mentalmente dello stupido. Non avrei mai voluto restare da solo con lui, specialmente dopo quel bacio, ma in quel momento mi era parsa l'unica soluzione accettabile per non far preoccupare Kazemaru.
-Perché non hai detto a Kazemaru che eri ferito?- domandò Hiroto.
Non me l’aspettavo e lo fissai senza capire.
-Quando ti ha chiesto se eri ferito perché hai mentito?
Ecco, ora la domanda era un po’ più specifica. Mi morsi il labbro inferiore nervosamente.
-Se Kazemaru sapesse che per proteggerlo mi sono ferito si arrabbierebbe-  risposi con lo sguardo fisso a terra.
Hiroto si ravviò i capelli con un sospiro.
-Ti senti in dovere di proteggerlo perché è il tuo partner?- chiese.
Non risposi subito, valutando la domanda e la persona che avevo di fronte.
-No…- risposi alla fine. La mia voce si addolcì. -È perché lui è stato il primo a credere in me. Ha creduto in me, che non ero nessuno. Io… non avevo niente e non credevo in nessuno- dissi piano.
Mi tornavano in mente i ricordi di quel giorno. Pioveva ed io ero seduto nella pioggia, senza un amico, una famiglia, una casa. Io ero seduto nella pioggia da solo e Kazemaru invece era a bordo di una macchina, con i suoi genitori.
Lo fissavo, pensando al calduccio di quell’auto, con invidia. Ma poi, nonostante quella pioggia fitta, i nostri sguardi s’incrociarono e Kazemaru lasciò la macchina, venendomi accanto. Il suo sguardo curioso, eppure dolce, mi riscaldò in un attimo.
-Poiché Kazemaru mi ha trovato, ora posso credere in qualcuno. Per questo voglio proteggerlo- conclusi, rannicchiandomi su me stesso.
Hiroto, che prima mi fissava con sorpresa, si sciolse in un sorriso. Alzò una mano, la posò sul mio capo e mi accarezzò dolcemente.
-Credo di capire come ti senti. Sei una persona inaspettatamente molto dolce, Midorikawa.
Avvampai, preso di nuovo alla sprovvista.
-Non voglio complimenti da te- mormorai imbronciato, anche se a dire il vero non mi dava del tutto fastidio. Hiroto rise leggermente, poi tornò di colpo serio e gattonò verso di me, intrappolandomi sotto il suo corpo.
-C-cosa fai ora?!- esclamai scioccato.
-Sssh, arrivano- bisbigliò Hiroto. Mi strinse a sé ed io non vidi più nulla se non la sua camicia premuta contro il mio viso, ma rimasi in ascolto. Così, sentii benissimo il rumore assordante dei vetri che s’infrangevano sotto i mitra degli uomini.
Alcuni dei vetri ci volarono addosso e sentii del sangue caldo scivolare sotto le mie dita quando mi aggrappai al braccio di Hiroto.
-Ehi…- mormorai, ma lui scosse il capo.
-Questa volta lasciati proteggere, Midorikawa- disse semplicemente.
Non riuscii a ribattere perché una nuova raffica di colpi gettò giù un secondo vetro e le schegge ci coprirono di nuovo. Hiroto mi strinse più forte. Dapprima mi chiesi perché non stesse reagendo, poi mi sentii terribilmente in colpa quando capii che lo faceva per proteggere me che ero ferito.
I colpi s’interruppero all’improvviso. Poi nel silenzio sentimmo una voce.
-Ah, non è davvero da gentleman attaccare in tanti contro soli due.
Io non sapevo chi fosse, ma Hiroto sì. Lo intuii dalla sua espressione, che s'irrigidì di colpo. Un altro nemico?
-Hiroto…- dissi, con il fiato corto, ma lui mi ignorò e si alzò, strattonandomi con forza per tirarmi in piedi. Davanti a noi, nel vasto giardino, vi era un ammasso di divise nere, tutti uomini armati che sembravano aver cambiato improvvisamente obiettivo.
Il ragazzo in questione, che poteva avere al massimo una ventina d’anni, somigliava a Kazemaru per i lunghi capelli azzurri che gli coprivano uno degli occhi azzurri anch’essi, solo che era l’occhio sinistro e non quello destro.
Inoltre, aveva un portamento e un eleganza che non avevo mai visto prima in nessun altro: quel ragazzo aveva stile nei gesti, nell’abito bianco che indossava, nella voce mite.
Gli uomini in nero, evidentemente spaesati, ci misero un po’ per decidere di puntare il mitra anche su di lui.
-Ah! Attento!- esclamai. Hiroto mi trattenne. Il ragazzo non si scompose minimamente.
-Ah, che maleducazione- sospirò -Dovrò darvi una lezione…
-Che cazzo vai blaterando, damerino?! Uccidiamolo!- gridò un uomo, aprendo il fuoco.
Il ragazzo evitò i colpi con elegante maestria, poi si alzò in aria e fece una rovesciata.
-Excalibur.- Le sue labbra si mossero appena, con voce profonda.
Non avevo mai visto una tecnica potente e maestosa come quella che vidi.
Nel momento in cui la gamba del ragazzo colpì la terra, apparve attorno ad essa un enorme spada di luce azzurra, che fendette il terreno spazzando via ogni cosa o persona.
Tutti gli uomini furono scaraventati via, alcuni anche di molti metri, e quando quella luce azzurra si spense fu chiaro chi era il vincitore dello scontro.
-Un vero gentleman resta calmo e sicuro di sé in ogni situazione, davanti ad ogni avversario- commentò il vincitore con un sorriso di illusoria cortesia.
-Ma chi cavolo è quello?- soffiai, basito.
Il ragazzo inglese si voltò a metà e si accorse di noi.
Solo in quel momento notai la spilla d’oro che luccicava sul suo abito bianco.
-Good evening- disse con un sorriso.
Un filo di vento scosse i suoi lunghi capelli. Hiroto mi sorpassò, andandosi a mettere fra noi due.
- Midorikawa, ti presento Edgar Valtinas, una delle Spy Eleven.




**Angolino dell'autrice costretta ad andare a scuola anche se piove, fa freddo ed è sola come un albero nella tundra**

Buon pomeriggio, miladies and milords.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Ho fatto una fatica a scriverlo -w- Mi ci sono voluti due giorni e mezzo -w-
Forse perché in effetti è un capitolo succoso.
All'inizio è molto incentrato su Midorikawa e i suoi pensieri per Kazemaru.
Per quanto riguarda la loro situazione familiare: Kazemaru li ha entrambi ma lavorano all'estero, Midorikawa è orfano, Hiroto è adottato, Endou li ha entrambi in città.
Beh, i più disgraziati sono Midorikawa e Hiroto, e poi un terzo personaggio che apparirà fra un bel po' di tempo.

La fine del capitolo è servita ad introdurre Edgar, che avrà un ruolo abbastanza importante in questa parte della storia. 
Mi piace come personaggio. E poi è figo e beve tè Twinings.
E poi a me piace tanto l'inglese e mi piace infilarlo nelle frasi di Edgar, anche se non ha senso. Scusatemi (lol).

Nel prossimo capitolo, vi spiegherò anche cosa sono le "Spy Eleven" ^^
Ricordate, "un vero gentleman resta calmo e sicuro di sé in ogni situazione, davanti ad ogni avversario" (vi abbiamo presentato: le perle di saggezza di Edgar Valtinas davanti ad una tazza di tè Twinings!).
Baci <3
Roby

 



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Capitolo 9
*** Mission 9. ~Jordaan's Arc ***


Il gentleman che si era presentato davanti a noi all’improvviso, burrascoso come una tempesta ed elegante come un vento di primavera, ora ci sorrideva con tranquillità.
Non riuscivo a smettere di guardarlo; più lo osservavo più mi rendevo conto che, nonostante i capelli, non era affatto somigliante a Kazemaru.
C’era qualcosa, nelle ombre del suo viso, che lo rendeva maturo; qualcosa nel sorriso che lo rendeva ambiguo; qualcosa nel modo di vestirsi che lo rendeva eccentrico.
Ma la cosa più affascinante erano gli occhi azzurri, come diamanti di freddo vetro, ma intensi.
- Midorikawa, ti presento Edgar Valtinas, una delle Spy Eleven.
Non riuscivo a spiccicare parola.
Hiroto, al contrario di me, non era per nulla in soggezione; si fece avanti e tese la mano a Valtinas.
-It's good to see you again,Kiyama-kun- salutò Valtinas cortese, mentre gli stringeva la mano.
- It’s a pleasure for me too, Edgar- rispose Hiroto con un accento inglese che lasciava intendere che avesse studiato bene la lingua. Chissà quante ne conosceva, di lingue.
Cominciarono a parlare fra loro in inglese, e io che avevo una conoscenza davvero indecente di quella lingua me ne stavo da parte senza afferrare i loro discorsi.
Mi faceva male la caviglia, tanto da farmi lacrimare gli occhi.
Me li asciugai con il dorso del braccio, leggermente indignato di essere stato lasciato a me stesso.
Fui tentato dall’andarmene e mollarli lì, ma non appena feci cenno di volermi muovere la caviglia si ricordò dolorosamente di essere ferita: senza preavviso, persi l’equilibrio e caddi seduto a terra.
Per fortuna, il lungo vestito mi copriva le gambe.
Non avevo fatto tanto rumore, ma Hiroto e Valtinas parvero accorgersi lo stesso di me.
-Cosa c’è? Ti fa ancora male?- chiese il rosso chinandosi per aiutarmi. Rifiutai la mano tesa verso di me, voltando la testa dall’altra parte.
-Una lady non dovrebbe essere tanto testarda- obiettò Valtinas accigliato.
Lo fissammo interdetti, poi io sibilai:- Sono un maschio.
Valtinas rise sommessamente, coprendosi le labbra con una mano.
-Oh, mi dispiace. Ma ammetterai che la situazione dà adito a malintesi...
Borbottai tra i denti:- Non fa niente.
Valtinas si avvicinò e mi guardò meglio in volto, poi osservò:- È vero, guardandovi meglio è evidente che siete un ragazzo. Vi prego di accettare le mie scuse più sentite.
Anche se mi sapeva di presa in giro, acconsentii a perdonarlo perché non volevo sembrare più infantile di quanto già non fossi. Ma rifiutai ancora l’aiuto di Hiroto.
Il rosso si mise le mani sui fianchi e sbuffò.
-Vuoi rimanere lì seduto per l’eternità?- chiese, sarcastico.
Non gli risposi, una semplice occhiata torva fu sufficiente a farlo rassegnare: nel suo volto vedevo perfettamente la sua confusione di fronte al fatto che continuasse a non andarmi a genio.
Evidentemente, dopo quello che era successo quella sera, pensava di avermi già ai suoi piedi...
Beh, si sbagliava. Ovvio che si sbagliava. Abbassai lo sguardo, intento a convincermi che mi fosse impossibile non essere arrabbiato con lui. Mi chiesi se avremmo mai chiarito la questione del bacio; non ero sicuro di volerne più parlare, ma accantonarlo così facilmente non sembrava giusto.
D’improvviso un vento fortissimo si alzò e il rumore delle pale dell’elicottero ci assordò per qualche istante, prima che il grosso velivolo atterrasse a pochi metri da noi.
Kazemaru si affacciò ad un finestrino.
-Midorikawa! Sali, dai!- gridò, il vento gli scuoteva i capelli mandandoglieli in faccia.
Alzai un po’ il viso e notai anche Endou con Dumb, in manette e indifeso, e Reina, seduta accanto al pilota dell’elicottero. Mi sorrise, un po’ incerta.
Hiroto si passò una mano fra i capelli.
–Tempo di tornare a casa- mormorò e mi tese di nuovo la mano, ed io di nuovo la rifiutai, cercando invece di alzarmi da solo.
Il rosso scosse il capo e mi seguì, pronto ad afferrarmi se fossi caduto.
Ma quando barcollai la prima volta, fu Edgar Valtinas a cingermi la vita per primo.
-Un vero gentleman deve sempre aiutare le persone in difficoltà- disse e così mi aiutò (praticamente mi trasportò) fin dentro l’elicottero, su cui poi salirono anche lui e Hiroto.
Fino ad allora, avevo sentito parlare delle Spy Eleven solo nel discorso di apertura che il signor Seijirou aveva tenuto per i nuovi arrivati, ma quel giorno ero talmente nervoso che non mi soffermai sulle sue parole.
Ora, però, mi tornavano in mente.
Avrei dovuto sentirmi onorato di trovarmi lì con una Spy Eleven, perché quello era un titolo che meritavano solo i boss delle undici squadre di spie disperse in tutto il mondo: un titolo di cui si fregiavano solo i migliori.
Nella mia brevissima carriera (voglio dire, due anni), ne avevo conosciute solo due: Seijirou, il mio capo, e Edgar Valtinas, Spy Eleven dell’Inghilterra, di sede a Londra. Ricordandomi tutte queste cose, provai una sorta di deferenza nei confronti di quel ragazzo e per tutto il viaggio evitai di parlargli o incrociare il suo sguardo.
Appena arrivati, Hiroto, Kazemaru e Endou andarono a sbattere Dumb in una cella; Valtinas venne accolto da Hitomiko e portato da Seijirou; Reina mi accompagnò all’infermeria.
-Certo che tu dai un gran da fare- commentò la ragazza mentre, seduto su un lettino, aspettavo che lei prendesse dall’armadietto le fasciature.
-Scusa- mormorai. –Hiroto non ha tutti i torti a pensare che io sia un incapace…
Reina si avvicinò e premette forte un tampone inzuppato di acqua ossigenata sulla mia ferita. Sibilai di dolore. Le sue mani con delicatezza avvolsero la caviglia di fasce.
-Non dire sciocchezze, non volevo dire quello- replicò dura. Rimasi paralizzato quando i suoi occhi si posarono su di me.
-Tu vai bene così come sei, Midorikawa. Sei sincero e spontaneo e va bene così- disse.
Arrossii. –Grazie- mormorai. Reina si alzò e prese il suo cellulare.
-Vado un attimo in bagno, nel frattempo ascolta un po’ di musica e rilassati- disse, accese il telefono e lo lasciò sul comodino di fronte al mio lettino.
Quando il rumore dei suoi tacchi sparì, riuscii a sentire le prime note, così leggere che quasi sembravano un soffio di vento. Chiusi gli occhi, concentrandomi solo sulla musica. D'un tratto la stanza scomparve e davanti ai miei occhi si disegnarono delle immagini così vivide che sembravano uscite dalla pellicola di un film. Per prima sulla scena entrò una donna bellissima, che attraversava una camera, si fermava davanti ad una porta. Un marito amorevole le prese il viso tra le mani, le baciò la fronte e le infilò un fermaglio fra i capelli; lei rise, disse qualcosa e gli aggiustò la cravatta, sciogliendo il nodo e rifacendolo daccapo. La scena era apparentemente piena d’amore e dolcezza, eppure una strana malinconia le faceva da ombra. Mi sembrò di essere trasportato in quel mondo, in quella scena, e provai una sensazione di tristezza.
-Midorikawa?- esclamò Reina.
Aprii gli occhi di scatto e mi ritrovai nuovamente sul lettino dell’infermeria. L'uomo e la donna che avevo visto erano svaniti, probabilmente erano tornati nei meandri della mia immaginazione.
-R-Reina!- dissi, con una sorta di eccitazione addosso. –Che canzone era quella?!
La ragazza mi guardò perplessa. Prese il cellulare e lo chiuse, quindi lo mise in tasca.
-È una sonata in pianoforte del maestro Jordaan- rispose.
Per me era un punto interrogativo, così lei aggiunse:- È un famoso compositore e pianista… anche se da due anni si è ritirato, continuano a tenere concerti con le sue sonate.
-Si è ritirato?
-Sì. Due anni fa, in seguito ad un incidente, ha annunciato che avrebbe smesso di suonare. Infatti viene sempre ai concerti, ma sono altri a suonare i suoi pezzi.
-Oh- dissi deluso. Mi sarebbe piaciuto sentirlo suonare dal vivo quella canzone, peccato che non fosse possibile. Reina notò il mio stato d’animo.
-Senti, io e Maki dobbiamo andare ad indagare sotto copertura in una casa d’aste di proprietà di Big D, e ci è stato detto che si terrà anche un concerto del maestro. Ti va di venire?
La sua proposta mi fece di nuovo sentire l’eccitazione di prima e annuii con vigore.
-Grazie, Reina!- esclamai. La ragazza annuì e disse che avrebbe chiamato Maki per farmi confezionare un abito adatto; quando fece scorrere la porta verso il muro, si trovò a faccia a faccia con Edgar Valtinas.
Entrambi lo guardammo con sorpresa.
-Oh!- esclamò lui facendo un piccolo inchino – Good evening, milady.
Reina non si scompose. – Good evening, mister Valtinas- rispose, accennò un inchino col capo e uscì.
Avrei voluto fermarla e chiederle di non lasciarmi solo con Valtinas, ma sarebbe stato scortese, oltre che inutile: Reina già era partita in quarta.
-Midorikawa Ryuuji- disse Valtinas sedendosi su una sedia di fronte al mio letto; accavallò le gambe e vi poggiò sopra le mani, con i lunghi capelli a cascata lungo i fianchi. Mi metteva tremendamente in soggezione, perciò mantenni il mio sguardo basso.
Annuii, nervoso. Speravo che qualcuno entrasse e ci interrompesse, ma non accadde: tutte le persone inopportune e ficcanaso sembravano d’un tratto sparite, volatilizzate.
-Kira mi ha parlato un po’ di te. Crede che tu abbia del talento- osservò lui disinvolto, non immaginando neanche lontanamente il mio disagio. Non risposi.
-Tuttavia ho delle perplessità sul tuo conto- continuò Valtinas – Ascolta… credi che sia stato giusto quello che stiamo facendo?
Pensai a tutti i crimini perpetrati da Big D e i suoi e rabbrividii.
-Certo che sì!- esclamai, rinvigorito, alzando la testa di scatto –Quelle persone sono malvagie! Vanno fermate a tutti i costi!- Mi resi conto che avevo alzato la voce e chiusi la bocca. Tornai a sedermi, imbarazzato.
Valtinas non parve impressionato, piuttosto aveva un'aria pensierosa.
–Hai una concezione di bene e male molto netta- commentò –E credo che questo sia un tuo limite.
-Non mi sembra che ci sia niente da eccepire. Quelle persone sono malvagie- ripetei. Se dovevo fare una figura del cavolo, tanto valeva andare fino in fondo ed essere onesti.
Valtinas si chinò in avanti, poggiando il mento sulle mani.
-Davvero? Ritieni Dumb malvagio? È un bastardo, indubbiamente, e ha molte colpe. Ma lo ritieni davvero malvagio? Da parte mia, credo sia solo un ricco viziato, accecato da una visione del mondo del tutto sbagliata- replicò studiando il mio viso.
-Ma ha sparato a me e quasi aggredito Kazemaru!- obiettai torvo. Dumb era chiaramente cattivo, non capivo dove Valtinas volesse arrivare.
-E su questo ti do ragione, è un bastardo. Ma non dovresti essere così netto nel dividere il bene dal male. In ogni persona esistono entrambi, anche in Dumb. Solo in alcuni il senso di giustizia è profondamente radicato, come in te. Bisogna essere obiettivi- disse Valtinas.
Lo fissai confuso, senza cogliere il punto focale del discorso.
-Sta dicendo che sto sbagliando?- chiesi.
Valtinas fece un sorriso arrendevole.
–Non esattamente. Ma un giorno, Midorikawa-kun, ti troverai davanti persone in cui il bene e il male sono così confusi fra loro, così strettamente legati, che farai fatica a trovare un senso di giustizia. Quando ciò accadrà, sarai costretto crescere bruscamente, sai?
-Non capisco…
-Adesso non puoi capirlo. Ma quel giorno, in cui non saprai cosa fare, lo capirai- concluse Valtinas e si alzò, sistemandosi i vestiti.
-Mister Valtinas!- esclamai mentre stava per uscire –Grazie di averci salvato, stasera!
-Chiamami pure Edgar, Midorikawa-kun- disse lui.
L'’ultima cosa che intravidi prima che lasciasse la stanza fu il lampo azzurro del suo occhio, sotto il ciuffo di capelli azzurri, beffardo. 




**Angolo dell'autrice che ha questa paralisi facciale (^______^) da quando ha saputo che andrà al Lucca comics!**
Salve °^°
Proprio così! Quest'anno riuscirò finalmente ad andare a Lucca per il comics, e non vedo l'ora!
Incontrerò i mitici gemelli Phelps e avrò i loro autografi *^*
Magari potessi incontrare dal vivo anche i gemelli Fubuki D:
...
Comunque, passiamo al capitolo.
Spero che la spiegazione sulle Spy Eleven sia chiara, ma riassumendo ci sono undici centri di spie nel mondo e a capo di ognuna c'è una persona, che merita il titolo di Spy Eleven. Durante il corso della fic, ne incontreremo varie :D
Con il prossimo, in cui sarà inserito un mio OC (il maestro Jordaan), comincerà il primo dei quattro "nuclei" narrativi in cui questa fic è suddivisa... Per dire la verità, Midorikawa è il protagonista assoluto di tutta la fic, ma in ogni nucleo narrativo ci sarà un altro personaggio su cui la storia si focalizza: per esempio il primo sarà sul maestro Jordaan.
Midorikawa è ancora piuttosto immaturo, come dice Edgar; dovrà diventare molto più forte.
Ci vediamo nel prossimo capitolo!
kisses <3
Roby



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Capitolo 10
*** Mission 10. ~Jordaan's Arc ***


 

 ~ Nocturne,
bénie par le génie de la musique~  -
 

 

 
Avevo gli occhi socchiusi.
Le note dolci e basse si diffondevano lungo le pareti, scivolano giù dai tasti d’avorio, lungo il pianoforte, e correvano lungo il palco e i muri, allargandosi in tutta la stanza. Respiravo piano, perché mi sembrava un crimine spezzare quella magia.
Eppure, una nota di delusione rovinava quel momento: non era il Maestro Jordaan a suonare, bensì un altro musicista, ben più giovane, era salito sul palco, con indosso un completo bianco e una cravatta a pois rossi. Certo, era bravo, anzi bravissimo. Mi sarebbe piaciuto avere anche solo un briciolo del suo talento, invece non avevo mai avuto abbastanza orecchio per suonare uno strumento, né avevo avuto la possibilità di imparare.
Per quanto abile potesse essere questo pianista, però, non era paragonabile al Maestro. Le esecuzioni del Maestro, che avevo sentito dall’mp3 di Reina, avevano un ché di divino, superavano l'umano. Quell'uomo doveva essere molto amato dalla musa della musica, o da un dio, o qualcosa del genere.
Dìun tratto, Reina mi toccò il braccio e si sporse verso di me, appoggiandosi col gomito al bracciolo che separava le nostre poltrone.
-Ti piace?- mi chiese in un sussurro.
Annuii. Lei tornò a fissare il pianista.
-Non mi sembri convinto- aggiunse piano, sistemandosi lo scialle con un sorriso.
-No, no, mi piace, te lo giuro. Però mi sarebbe piaciuto di più ascoltare il maestro, lo ammetto- le risposi.
Il sorriso di Reina si allargò, meno scettico e più grazioso.
–Oh, questo posso capirlo. Io sono stata ad un suo concerto da piccola. Non me lo dimenticherò mai…- mormorò, con un filo di malinconia.
Rimasi in silenzio. Per me, invece, questo era il primo concerto a cui ero stato in assoluto, eccezion fatta per gli spettacoli del coro a cui avevamo partecipato alle elementari. Kazemaru aveva una voce molto intonata. Io un po' meno, ma cantare era l'unica opzione oltre ad entrare nella banda e, come ho detto, non sapevo suonare strumenti. Venivamo da una famiglia modesta, non potevamo permetterci lezioni di flauto o altro.
Se ero stato ad un concerto negli anni precedenti al mio incontro con Kazemaru, questo non avrei saputo dirlo. La mia infanzia era piena di lacune; non avevo nessun ricordo, se non i difficili giorni che avevo trascorso per strada, soffrendo il freddo e i crampi per la fame, fino al giorno in cui i Kazemaru mi raccolsero come se fossi stato un gattino randagio.
-Che sensazione ti dà?- bisbigliò Reina dopo un po', interrompendo il mio flusso di pensieri.
Scossi il capo, indeciso. –Beh, non mi dà affatto le stesse sensazioni che provo quando ascolto Jordaan. Può sembrare strano, visto che non l'ho mai sentito suonare dal vivo, ma questo è quello che penso- dissi.
-Non so come spiegarlo, mi sembra di fare un torto al pianista... La composizione è bella, ma è neutra. È come un libro con una bella copertina, ma senza nulla di vero da dire.
Reina annuì.
-Lo penso anch'io- disse. -E cosa senti quando suona Jordaan? -Amore… dolcezza… malinconia.
Reina mi lanciò un ultimo sguardo, poi annuì di nuovo e tornò a concentrarsi sulla musica.
La imitai, ridendo in silenzio perché Maki, accanto a me, si era addormentata.
 

La confusione in sala mi faceva venire mal di testa.
Davanti al lungo tavolo del rinfresco, arricchito con fiori finti e tovaglie bianco latte, stavano tutte le persone partecipanti alla vendita d’aste; dai discorsi che facevano e dal modo in cui si atteggiavano, non era difficile capire che fossero ricchi e viziati.
Me ne stavo in disparte, disgustato.
Mi sembrava quasi un oltraggio che quella gente stesse lì a godersi la vita, vantandosi dei propri gioielli, mentre si lamentava dei morti di fame nella città senza fare nulla per cambiare le cose. Glieli avrei fatti ingoiare, quei gioielli.
Reina era di gran lunga la più affascinante della sala. Era talmente bella che chiunque venisse sfiorato dal suo sguardo glaciale anche solo per pochi minuti arrossiva e si lusingava. Maki, invece, amava indossare colori che la distinguessero dalla massa, cosa che le riusciva molto bene grazie all'abito rosso che aveva scelto. Mi sentivo particolarmente orgoglioso di potermi definire loro amico.
Maki aveva anche deciso personalmente i miei vestiti: una camicia bianca, una cravatta nera, pantaloni neri, scarpe nere italiane. Sospettavo avesse scelto quei colori per far risaltare ancora di più il suo vestito rosso scintillante, in verità, ma non era importante. In ogni caso, non ricordavo di essere mai stato tanto elegante in vita mia.
-Si sta annoiando, signorino?
Sorpreso, alzai lo sguardo per vedere chi mi avesse rivolto la parola e mi trovai a fissare direttamente due occhi color cioccolato al latte. L'uomo aveva uno sguardo profondo, acuto. I lunghi capelli castani erano legati in una coda di cavallo sulla nuca, e indossava un abito semplice, marrone. Il marrone sembrava essere il suo colore preferito; infatti, lo era anche la montatura dei suoi occhiali, sottili e rotondi.
L'uomo mi rivolse un sorriso gentile e imbranato. Così, mi accorsi che lo stavo fissando da circa tre minuti senza rispondere, in modo alquanto maleducato. Arrossii e mi affrettai a dire qualcosa, la prima che mi venne in mente.
-Mi scusi- mi giustificai. –Ma le mie amiche si sono allontanate e non conosco nessun altro.
-Ah, capisco. Le persone in sala sono molto noiose vero?- replicò lui.
Per un momento i nostri sguardi vagarono sul resto della sala, senza soffermarsi su niente in particolare. Poi lui tornò a guardarmi ed io annuii. Lui continuò a sorridere.
-Allora, gradirebbe la mia compagnia?- chiese, con una voce mite e profonda, quasi come se volesse rassicurarmi. Forse voleva aiutarmi a rilassarmi. Cominciò infatti a parlarmi di feste precedenti, episodi divertenti successi in sala, ed altre chiacchiere a cui presto mi unii, commentando qui e lì. Scherzare con lui era divertente.
Intanto, non potevo fare a meno di osservarlo e fare congetture su di lui. Il suo volto dimostrava almeno una cinquantina d’anni, per via della stanchezza calcata nei lineamenti, ma quando glielo chiesi lui scoppiò a ridere e mi disse di averne solo quarantatré.
-Temo che il vedere sempre le stesse facce mi abbia invecchiato- commentò, sempre ridendo.
-Mi scusi, sono stato sgarbato a chiedere!- esclamai.
-Ma no, ma no, è solo un numero. Gli anni passano per tutti- disse lui, ma io ero comunque imbarazzato dalla mia stessa maleducazione, che avrebbe fatto rabbrividire Edgar.
-Oh, piuttosto, non ci siamo neanche presentati- aggiunse, e stava per dire qualcos altro quando una signora con un lungo abito di seta beige si frappose fisicamente tra noi due, interrompendo la nostra conversazione. La donna sollevò la mano e la tese verso di lui, attendendo che gliela baciasse, cosa che lui non mancò di fare, nonostante i modi non proprio gentili dell'interlocutrice.
Arretrai, schiacciato dal senso di soggezione. Per fortuna, la donna mi ignorò totalmente.
-Maestro, desideravo da tempo incontrarla. Come si trova qui? Mio marito ha cercato di metterla a suo agio, spero- disse, in modo affettato. Lui sorrise.
–Naturalmente. Sì, è tutto magnifico- replicò.
La donna rise compiaciuta. –Sarebbe tutto perfetto, se non mancassero le sue sonate, Maestro! Ma proprio non vuole suonare lei, oggi?- domandò, speranzosa, ma lui scosse il capo.
-Ha già cercato di convincermi molte volte, ma non ci riuscirà. Credo che il mio studente se la caverà altrettanto bene, in ogni caso- rispose, cortese ma deciso. La sua voce era leggermente più fredda, ma la signora non se ne accorse.
-Sì, sì, ma non creda di poter rimandare per sempre! Un giorno la convincerò!- esclamò. Sebbene stesse ridendo, sembrava più una minaccia che uno scherzo. Lui scrollò le spalle, perciò la signora fece un inchino e se ne andò, senza riuscire a nascondere la delusione di avere ottenuto ciò che voleva.
Il Maestro la guardò trascinarsi via. Quando fu abbastanza lontana, sospirò di stanchezza e si rivolse di nuovo a me.
-Perdona l’intrusione- disse, tornando più allegro. Dal momento che lo fissavo intensamente, però, si accigliò.
-Qualcosa non va?-chiese sorpreso.
-S-scusi, ah, mi perdoni, ma... P-per caso, s-sto parlando con il Maestro Jordaan?- ribattei, inciampando nelle parole. Ora sì che mi sentivo in imbarazzo.
Il suo volto si distese in una calda risata, ma non rideva di me. Capii che anche lui cercava di nascondere un certo imbarazzo. Mi tese la mano, come in segno di pace.
-Sì. Il mio nome è Alistair Jordaan- si presentò.
Ancora istupidito, strinsi la sua mano con esitazione. Trattenevo il fiato, ma mi sfuggì un sospiro quando il calore si diffuse dalle sue dita alle mie. Un tempo quella mano aveva composto le più belle melodie del mondo sui tasti d’avorio, ma quel periodo di ispirazione era tristemente finito.
-Midorikawa Ryuuji- dissi tutto d'un fiato, arrossendo e tirando fuori la mano dalla stretta. Jordaan non si scompose affatto.
-Spero che tu abbia ascoltato il mio studente, ha davvero buona mano- commentò invece.
Io abbassai lo sguardo, sperando che il mio volto non tradisse la stessa delusione di quella signora. Purtroppo, mi era stato spesso detto che la mia faccia era un libro aperto. Dissi perciò la verità.
-È stato molto bello, ma in realtà io speravo di poter ascoltare lei, Maestro.
Jordaan scosse il capo e mi voltò le spalle per afferrare un calice dal vassoio di un cameriere di passaggio. A giudicare dall'odore pungente, il bicchiere conteneva qualche bevanda alcolica. Lui si mise a sorseggiare, apparentemente sereno, ma percepii una certa tensione.
-Mi dispiace- dissi goffamente. -Forse sarò scortese, ma... È solo che le sensazioni che la vostra musica riesce a comunicare sono così diverse- aggiunsi, incapace di star zitto. Strinsi un braccio con le dita e mi morsi il labbro.
Le mie parole sembrarono sortire un misterioso effetto: Jordaan smise di bere, si girò e mi fissò quasi allibito. -Come hai detto?- balbettò, suonando impacciato. 
Addossandomi al muro per la vergogna, mi affrettai a ritrattare.
-Niente, mi scusi, non dovrei giudicare… Sono un vero imbecille musicale quindi…
Il Maestro mi fissò sorpreso, poi scoppiò a ridere.
-Un imbecille musicale! Non ho mai sentito quest’espressione prima d’ora- dichiarò divertito.
-E dire che ci sono molte persone che meritano questo titolo più di te, ragazzo mio! Ma dimmi, cosa intendevi dire?
Arrossii e abbassai lo sguardo. D’un tratto le mie scarpe italiane nuove mi sembravano infinitamente interessanti.
-Per favore, solo un piccolo indizio, Midorikawa. Non tenermi sulle spine- insistette il Maestro, curioso.
Scossi il capo. –Sono stato scortese. Mi perdoni, Maestro.
Il maestro mi fissò ancora un po’, ma, siccome evitavo il suo sguardo inquisitore, alla fine si arrese e smise di studiarmi.
-Non preoccuparti, Midorikawa. Sei senza dubbio la cosa migliore che mi sia capitata in serata- mi rassicurò, rivolgendomi un gran sorriso. Fece un inchino, poi sparì nella folla.
Rimasi fermo vicino al muro come uno stupido. Come mi era saltato in mente di dirgli quelle cose? Ero stato fin troppo insensibile, e dire che avevo avuto la fortuna di incontrarlo dal vivo...! Avrei voluto sprofondare per la vergogna... Affondai il viso tra le mani, fu così che Maki e Reina mi trovarono qualche minuto dopo.
-Midorikawa! Eccoti qua!- gridò Maki. Mi corse incontro e si bloccò di colpo, squadrandomi con gli occhi spalancati.
-Che stai facendo? Perché le mani in faccia?- chiese, stupita.
-Provo vergogna di me stesso- risposi a mezza voce. Lei restò senza parole per un momento, poi scoppiò a ridere.
-Come sei serio! Ridi un po' con me!- gridò, e mi gettò le braccia attorno al collo, abbracciandomi senza pietà. Sorpreso, mi limitai a darle delle pacche sulla schiena.
Reina si fece largo fra i presenti e si accostò a noi.
-Mi spiace. Credo sia ubriaca. Mi sono distratta un momento, poi l'ho trovata a bere lo champagne che servono sui vassoi.
-Ah, quindi era champagne- commentai sottovoce. Beh, ora si spiegava perché Maki continuava a ridere compulsivamente, come se non riuscisse a controllarsi.
-Che facciamo? La riportiamo a casa?- chiesi.
-Non mi sembra che ci resti altro da fare qui- rispose Reina, fulminando con lo sguardo dei ragazzi che si stavano avvicinando, probabilmente per flirtare con lei e Maki.
Sorrisi e annuii. Non credevo che avrei avuto una seconda occasione per parlare col Maestro, in ogni caso. Non quella sera. 







**Angolo dell’autrice.**
Ciao!
Vi è piaciuto il capitolo? Troppo breve?
Come avrete capito, questo è un capitolo di passaggio: serviva per introdurre, finalmente, il personaggio di Alistair Jordaan. E’ ovviamente un mio OC; ed è un vero genio della musica. Uno Chopin olandese, praticamente!
Il maestro Jordaan è personaggio complicato, di quelli che piacciono a me. Ma lo scoprirete presto :P
Ci vediamo al prossimo capitolo!
Kisses!
roby
 
 
  


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Capitolo 11
*** Mission 11. ~Jordaan's Arc ***


 

-Perché siamo qui?
Mi girai verso Reina, interrogativo.
Quella mattina eravamo diventati partner temporari, non sapevo perché. Era vero che Maki stava ancora risentendo degli effetti della sbornia del giorno prima (aveva vomitato quasi tutta la notte) e che Kazemaru era rimasto a prendersi cura di lei, ma in condizioni normali non sarebbe dovuta rimanere Reina con Maki? Invece, Hitomiko mi aveva specificamente detto di andare con Reina.
-Dobbiamo svolgere delle indagini sul Maestro. Nel caso tu te lo sia scordato, non eravamo al concerto solamente per una visita di piacere- mi rispose Reina.
Il panorama della casa d'aste era familiare, anche se la mattina dopo non era più festoso né affollato, ma anzi sembrava tornato in un antico squallore.
-Cosa cerchiamo, allora?- incalzai, seguendola fra le lunghe file di sedie.
-Chi cerchiamo, direi- mi corresse. -Midorikawa, non hai letto il fascicolo per intero, vero?
Si voltò verso di me a metà strada, così all'improvviso che per poco non le sbattei addosso, ma aveva un'espressione tanto seria che non protestai. E poi, era vero che non lo avevo letto tutto. Tendevo a sfogliare soltanto i fascicoli per catturare solo le informazioni fondamentali, non c'era tempo di scendere in dettagli.
Reina intuì dalla mia espressione cosa stessi pensando. Ero davvero un libro aperto, dannazione.
-Alistair Jordaan potrebbe essere finito nella rete di Garshield- dichiarò.
-Il nostro capo, il signor Kira, ha ragione di credere che il Maestro sia un informatore. Non a caso, sono organizzati suoi concerti solo in ville i cui proprietari sono implicati nei sporchi affari di Garshield.
Rimasi a fissarla con aria stordita, cercando di metabolizzare la scioccante notizia.
-Cosa? Ma non è possibile!- balbettai, inciampando nelle parole.
Reina scosse il capo.
-Calmati, so cosa stai pensando. Penso anche io che Jordaan sia una brava persona, ma è probabile che Garshield lo ricatti. Dopotutto...- Si zittì, e si morse il labbro.
La incalzai, curioso di conoscere di più sull'uomo che con la sua musica mi aveva affascinato tanto.
-Cosa? Dopotutto, cosa, Reina?- domandai battendo nervosamente il piede a terra.
La ragazza incrociò le braccia e piegò la testa di lato.
-Tu non sai il motivo per cui il maestro ha smesso di suonare, vero Midorikawa? Non ne hai mai sentito parlare?- chiese.
Il mio sguardo interrogativo dovette essere una risposta eloquente, perché Reina sospirò e diventò di nuovo serissima. -Sua moglie è stata assassinata e da tempo si sospetta che sia avvenuto per ordine di Garshield, magari per punire il maestro di qualcosa...
La sua voce tremò leggermente.
-La melodia che ti piace tanto si chiama Brielle, era il nome di lei... è stata l'ultima sonata composta da Jordaan prima che lei morisse. Da allora, ha giurato di non suonare mai più.
Non osai emettere nemmeno un verso.
Rimasi in un silenzio annichilito, e la malinconia di
Brielle mi attanagliò per tutto il resto della mattinata.

 

xxx
 

Eravamo tornati alla casa d'aste per incontrare il maestro, ma ci dissero che era rimasto a casa a badare ai suoi affari, perciò ce ne tornammo indietro.
Appena tornati, Hitomiko ci fermò, dicendomi che dovevo venire con lei nel suo ufficio.
La pioggia cadeva, battendo piano sui vetri.
La luce soffusa della stanza non era abbastanza ad illuminare i volti delle persone presenti, e una leggera penombra ne offuscava i contorni dei corpi, ombre granulate di gocce di pioggia. Stavo in piedi, appoggiato vicino ad un muro in fondo alla stanza; quel giorno Kazemaru non era con me e ciò mi faceva sentire nervoso.
Non mi piaceva, la pioggia.
Erano i rumori della pioggia a spaventarmi quando me ne stavo rannicchiato, tutto solo, sul ciglio di una strada. Era collegata a ricordi spiacevoli... Odiavo la pioggia.
Non sapevo davvero cosa stessi aspettando. Mi era stato semplicemente detto di aspettare lì da Hitomiko e stavo obbedendo, sebbene nella stanza fossero riunite le due persone più irritanti che avessi mai conosciuto: Hiroto Kiyama ed Edgar Valtinas, perlopiù impegnate in una conversazione in solo inglese di cui non capivo assolutamente niente. Tirai un lungo sospiro.
Delle voci sconosciute venivano dal corridoio.
Non riconobbi subito la lingua, ma poi quel poco d'italiano che avevo imparato (in un corso che avevo seguito nei primi mesi di lavoro all'agency) poco a poco risalì a galla nella mia memoria.
La maniglia della porta scricchiolò ed io alzai lo sguardo interessato.
-Marco, toglimi le mani di dosso o te le taglio!-Le parole furono seguite dalrumore di uno schiaffo.
-Ahia, Gianlu, mi hai fatto male!
I due ragazzi che erano entrati indossavano lo stesso completo, giacca e pantaloni bianchi, scarpe nere Gucci e cravatte nere o rosso scuro (impossibile dirlo con così poca luce), ma per il resto non sembravano avere niente in comune.
Quello che aveva parlato per primo aveva la pelle bianchissima, al confronto con la quale risaltavano i capelli nerissimi; gli occhi azzurri, dal taglio sottile, era illuminati dalla stessa scintilla di irritazione che traspariva dalle labbra increspate.
L'altro era leggermente più alto,con pelle abbronzata, capelli arruffati -una nuvola di color fucsia brillante- e occhi verdi che sorridevano nonostante il broncio che gli arricciava le labbra.
-Sei cattivo- disse con voce lamentosa.
L'altro lo fulminò con uno sguardo glaciale, ricordandomi molto Gazel.
-Se sono tanto cattivo allora perché non vai a rompere le scatole a qualcun altro, Marco?!- replicò seccato, e allontanò le mani del compagno da sé. -E non toccarmi, cazzo!
-My, my, guarda chi abbiamo qui!- Edgar sorrise.
Uno ricambiò allegramente, l'altro fece un gesto spazientito.
-Ci mancava solo quel damerino da strapazzo...- borbottò.
-Devo dedurre che è finalmente arrivato anche Fideo- disse Hiroto.
Fideo chi? pensai, ma non sprecai neppure fiato a chiederlo perché tanto nessuno dei quattro dava segno di notare la mia presenza.
-Proprio così.
Ci girammo verso il ragazzo che era entrato nella stanza per ultimo: snello e slanciato, aveva i capelli castani e grandi occhi blu. Come gli altri due era italiano ed indossava abiti dello stesso taglio e colore.
Edgar e Hiroto gli sorrisero, avvicinandosi a lui.
-Fideo! Eccoti, ti aspettavamo!- esclamò il rosso in italiano. Chissòà in quante altre lingue poteva comunicare. Dannazione, sapeva fare proprio di tutto...
-Non ci vediamo da tanto, eh- rispose il nuovo arrivato, con aria decisamente amichevole.
Edgar fece un leggero inchino. -It's always nice to see you~
Fideo annuì, quindi si rivolse ai propri connazionali.
-Marco, Gianluca... Smettetela di fare tanto casino, d'accordo? Abbiamo già attirato l'attenzione di tutti qui dentro, a causa vostra...- sospirò.
Prima che uno dei due potesse replicare incolpando l'altro, Hitomiko entrò nella stanza ed accese la luce. L'improvvisa chiarezza e il colore giallo canarino della sua giacca mi abbagliarono per un paio di minuti. Mi facevano male gli occhi.
La donna entrò seguita da Seijirou ed entrambi si sedettero nelle poltrone più vicine alla scrivania. Hiroto gli si affiancò subito, mentre Edgar e i tre italiani prendevano posto un po' più lontano.
Soltanto io rimasi in piedi, nel mio angolino vicino alla finestra su cui la pioggia batteva, ignorato da tutti.
-Sono felice che abbiate accettato il mio invito a venire- disse Seijirou, mite.
Fideo sorrise e fece un gesto di riverenza.
-Avere la vostra collaborazione è un onore, signore- disse. -Tutte le Spy Eleven dovrebbero unirsi e collaborare per fermare quel furfante di Garshield.
Il rumore della pioggia diventò più forte. Chiusi gli occhi, stringendomi le braccia al petto.
Quei suoni mi irritavano tantissimo... mi ricordavano la voce di qualcuno, qualcuno che non avrei dovuto dimenticare... Quel qualcuno era affondato nell'oblio insieme a gran parte della mia infanzia.
Cominciai a respirare piano.
Quando pioveva una struggente sensazione di malinconia faceva tremare quell'oblio, cercando di riportare alla luce qualcosa, che invece riaffondava ancora più lentamente nella mia mente. Come se io, io stesso, non volessi riportarla alla luce. Ecco perché odiavo la pioggia.
-Purtroppo le indagini riguardanti il maestro Jordaan ristagnano- si lamentò Fideo, incrociando le braccia. -L'omicidio della moglie resta un vero mistero, benché abbiamo ritrovato la possibile arma del delitto non abbiamo fatto passi avanti.
-
Li faremo presto- lo rassicurò Seijirou.
Edgar alzò un sopracciglio, accigliato.
-Sembri piuttosto sicuro di te. Devi credere di avere più informazioni di noi, o un asso nella manica- osservò.
Si passò una mano fra i capelli azzurri, spostandosi il ciuffo che dopo due minuti ricadde di nuovo nella stessa posizione di prima.
Seijirou sorrise.
-Credo entrambe le cose- ribatté tranquillamente.

-Midorikawa? Puoi venire qui vicino a me?- mi chiamò.
Le sue parole mi strapparono all'improvviso dal rumore della pioggia che mi frastornava la mente.
Alzai gli occhi di scatto e arrossii.

Avevo a stento ascoltato cosa dicevano e ora dieci paia di occhi mi fissavano interrogativi e dubbiosi, tutti fuorché Seijirou e Hitomiko.
-Midorikawa?- ripeté Hiroto lentamente, senza distogliere lo sguardo da me. Feci del mio meglio per non incrociare i suoi occhi. Come avrei voluto essere davvero invisibile! Davanti a lui mi sentivo impotente, ora più che mai. Ero certo che se lo avessi fissato di rimando, mi sarebbero venuti in mente i momenti in cui mi aveva stretto a sé e baciato... No, no, ci stavo già pensando e non era né il luogo né il momento adatto.
Rabbrividii e mi presi a calci mentalmente.
-Midorikawa, vieni qua- mi ordinò Hitomiko.
Con il cuore in gola, obbedii ed avanzai finché non mi trovai proprio al centro dei loro sguardi, ad un passo dalla scrivania.
-Midorikawa, prima di tutto gradirei presentarti queste persone- disse Seijirou. 
-Lui è Fideo Ardena, Spy Eleven e capo dell'agency italiana. I suoi diretti sottoposti sono Marco Maseratti e Gianluca Zanardi.-
Tutti e tre mi fecero un cenno e Fideo persino sorrise. Ricambiai timidamente.
-Non capisco come Midorikawa possa aiutarci- commentò Hiroto asciutto.
-Sempre una buona parola per me, eh?- borbottai torvo.
Lui trattenne ancora lo sguardo su di me, poi lo distolse.
-Padre...- mormorò, ma Seijirou scosse il capo.
-Fidatevi di me. Midorikawa può esserci molto utile- insistette, poi bisbigliò a Hitomiko di prendere qualcosa e la donna uscì dalla stanza.
Marco si alzò e mi fece un giro intorno, osservandomi. -Sembri una persona del tutto normale- commentò.
-Beh, perché lo sono- ribattei alzando gli occhi al cielo. -Non è che tutto il mondo debba esibirsi come fate voi!- Ed incrociando le braccia gli diedi le spalle, fingendomi offeso.
Edgar emise un risolino soffocato. -Che caratterino...
-Suvvia, Midorikawa-kun, sono certo che Marco non volesse essere scortese...- intervenne Fideo.
Si tolse la giacca, rivelando una camicia blu a righe sottilissime bianche, e si sistemò la cravatta.

-Capisci l'italiano?- chiese tendendomi la mano.
-L'ho studiato, giusto un po'.
Fideo s'illuminò raggiante e mi strinse la mano con fervore.
-Piacere, piacere davvero! Chiamami pure Fideo!- esclamò.
-Tu allora potresti togliere il “kun” dal mio cognome- risposi educatamente e lo ringraziai in italiano. Continuavo a cercare di non guardare in direzione di Hiroto, sebbene sapessi che lui mi stava fissando.
Poco dopo rientrò Hitomiko: aveva fra le mani una teca di vetro, nella quale c'era la presunta arma del delitto, un coltello su un cuscinetto rosso.
Deglutii. Quella era la causa per cui il maestro non voleva più suonare... Odio e tristezza mi assalirono mentre la fissavo con disgusto.
-Midorikawa- disse Seijirou. Mi voltai verso di lui.
-Ti dispiace toccare questo coltello e dirci se è veramente l'arma del delitto?-
Tornai a fissare il coltello, poi annuii lentamente.
Mentre Hitomiko lo estraeva dalla teca, Edgar parlò di nuovo.
-What? Sorry, credo di non seguirvi- disse, colsi dello scetticismo nel suo tono.
Hitomiko mi fece avvicinare maggiormente, poi con delicatezza lasciò scivolare il coltello fra le mie mani.
Ebbi un brivido per il freddo del metallo e chiusi gli occhi.
Mi aspettavo dolore, disperazione...
Invece non accadde nulla.

Continuavo a sentire solo il freddo e basta.
Lasciai di nuovo scivolare il coltello sul cuscinetto.
Mi voltai verso Seijirou, torvo, e scossi il capo.

-Dunque questa non è l'arma del delitto- dichiarò lui in tutta tranquillità.
Tutti ci guardarono sorpresi, tranne Hitomiko, e Hiroto si alzò di scatto.
-Padre! Come puoi dire una cosa del genere basandoti unicamente sul suo giudizio?!- esclamò incredulo e scettico.
-Cosa ha appena fatto?- chiese invece Fideo.
Seijirou gli sorrise. -Perspicace come sempre, Fideo- commentò.
-Si chiama empatia, “l'immedesimarsi nelle sensazioni altrui”. In Midorikawa questa capacità è sviluppata al punto che gli basta ascoltare un suono o toccare un oggetto per conoscere i sentimenti a cui esso è legato... E funziona anche con le persone. Se qualcuno vicino a lui prova sentimenti o sensazioni molto forti, lui le avverte come fossero sue, le fa proprie. È un'abilità che può essere molto utile in casi come questi.

Durante la sua spiegazione, i presenti spostavano di continuo lo sguardo da me a Seijirou, da Seijirou al coltello, e poi di nuovo a me. 
-Quindi...- Gianluca esitò. -Prima, quando gli ha chiesto di toccare il coltello... 
-Esatto- intervenne Hitomiko. -Era per verificare che il coltello fosse veramente l'arma del delitto. Se lo fosse stato, sicuramente Midorikawa avrebbe avvertito qualcosa, o magari avrebbe anche visto come era avvenuto il delitto attraverso immagini collegate all'oggetto... 
-Ma questa non è l'arma del delitto- concluse Gianluca con serietà, mi scocco un'occhiata circa impressionata. 
Marco sgranò gli occhi, sbalordito e ammirato.
-Sei davvero capace di fare tutto questo?!- esclamò.  
Arrossii. -Beh... sì- risposi imbarazzato. 
-Ma è troppo figo!- commentò l'italiano eccitato. -Insegna anche a me!
-Non posso insegnartelo, è il mio dono- risi, nervoso. 
Il rumore della pioggia era fastidioso, faceva quasi interferenza con i miei pensieri.
Mi strinsi di nuovo le braccia al petto, proteggendomi. Non riuscivo a togliermi di dosso la nostalgia. 
E poi sapevo perfettamente che Hiroto mi stava fissando.
-Non è che sia poi una cosa così bella... a volte è molto doloroso- sussurrai abbassando lo sguardo. 
Notando il mio repentino cambio d'umore, Hitomiko mi prese per il braccio e mi trascinò fuori, apportando come scusa che dovevo aiutarla a sistemare a posto la teca.
Una volta fuori mi disse di raggiungere Kazemaru, Maki e Reina.
-La ringrazio.- Accennai un sorriso e lei ricambiò. 
-Grazie a te. Ci sei stato di grande aiuto- disse e andò via con la teca.
Io andai nella direzione opposta.

 

 

 


**Angolo dell'autrice**
Buon pomeriggio = w =
Infine, sono riuscita ad aggiornare...! Mi spiace di farvi aspettare sempre tanto con questa fic, ma è difficile scriverla perché è lunga e ha una trama complessa, inoltre spesso mi mancano tempo e ispirazione... Sorry.

(Ma passiamo al capitolo che stavolta per fortuna è uscito abbastanza lungo ° ^ °)

Mi sono davvero divertita a far entrare in scena l'agency italiana! XD
Hiroto riesce ancora abbastanza antipatico.
Vorrei vederlo preso a pugni da Midochan, ma ahimè non è nella trama... anzi il rosso è destinato a migliorare presto :'DDDD

La sonata del maestro Jordaan è ispirata alla piano cover di Brielle, una canzone di Owl City.
Ascoltate sia la piano cover che la canzone originale, ve la straconsiglio perchè è dolcissima. Mi piace molto la voce di questo cantante.

Comunque, il mistero s'infittisce, si suol dire. Nel prossimo capitolo avremo di nuovo un incontro ravvicinato con il maestro Jordaan! ° ^ °
kisses
roby 

...

 

 

Ah, e spero di aver chiarito bene in cosa consiste l'abilità speciale di Midorikawa ^^” Se a qualcuno interessa, il termine εμπαθεια in greco viene dall'unione della preposizione ἐν (“in”) e del sostantivo πάθος (“emozione”), e quindi rimanda propriamente al significato di “immedesimarsi nelle emozioni altrui” ° ^ °  

 

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Capitolo 12
*** Mission 12 ~Jordaan's Arc ***


Fissavo il soffitto, come svuotato.
Ero rimasto deluso dalla totale mancanza di prove che avevamo riguardo al caso Jordaan.
Non so perché mi ci sentissi così legato, in fondo era un uomo che non conoscevo affatto. Però...
Mi giri su un fianco e osservai il volto addormentato di Kazemaru, abbracciato al cuscino.
Il problema è che non potevo fare a meno di ripensare ai sentimenti che la sua musica mi faceva provare… C’era una sofferenza fra quelle note che non potevo ignorare.
Scossi il capo e mi sollevai di scatto. Il movimento brusco fece sussultare Kazemaru.
-Perché sei così irrequieto…?- mormorò mentre si stropicciava gli occhi, con aria spaesata. Gli sorrisi appena.
-Sembri stanco. Ieri il turno con Endou è stato faticoso?- chiesi.
Lui annuì, stava per richiudere gli occhi, ma improvvisamente si accigliò.
-Cos’è quel sorrisetto?- borbottò sospettoso.
-Quale sorrisetto?- mi finsi innocente, ma mi venne ancora di più da ridere.
-Stai sorridendo.
-Oh, nulla. Cos’avete fatto tu e Endou? Avete avuto tutta la notte per stare da soli… Avrete legato, no?- buttai lì con disinvoltura.
Le mie parole lo spiazzarono. I suoi occhi si aprirono completamente, mentre il volto gli si tingeva di rosso. Iniziò a boccheggiare.
-A-abbiamo solo parlato!- esclamò.
Con le mani si torturava le lunghe ciocche di capelli azzurri, nervoso come ogni volta in cui il nome di Endou veniva pronunciato. -Voglio dire, stavamo lavorando...- brontolò, lievemente corrucciato.
Risi piano, ma non aggiunsi altro. Dopo un attimo di silenzio da parte di entrambi, Kazemaru alzò timidamente lo sguardo.
-Midorikawa?- esitò. Mi voltai.
–Stai bene?- mi chiese, preoccupato.
Sbattei le palpebre perplesso. Poi capii che Hitomiko doveva avergli fatto cenno agli avvenimenti del giorno precedente. Lo rassicurai:- Sta tranquillo. Non è niente.
-Non mi piace che Kira ti usi così. Anche se è il nostro capo...- mormorò Kazemaru.
Sospirai e scesi dal mio letto, andando verso il suo. Kazemaru capì e mi fece posto accanto a lui.
-Kira è un buon comandante, non abbiamo ragioni per dubitarne. E poi, a me non dispiace rendermi utile…- dissi. Per qualche motivo, Kazemaru evitò il mio sguardo.
-Sì, però tu… Hai sempre un’espressione così triste, dopo aver usato il tuo potere.
La sua voce era quasi un sussurro. Rimasi in silenzio.
Dei passi lungo il corridoio ci distrassero, quindi lasciammo in sospeso il discorso per restare in ascolto.
-Non dovresti. Midorikawa non c’entra nulla con questa storia.
-Il giorno in cui tu mi darai degli ordini, l'inferno gelerà!
Seguì un’energica bussata alla porta, insieme ad un sospiro di rassegnazione da parte di Hiroto.
Saltai giù dal letto di Kazemaru, mi cambiai in fretta e furia, indossando gli stessi vestiti del giorno prima, e corsi alla porta, sulla quale la mano continuava a battere con insistenza, tanto che quasi mi arrivò uno schiaffo quando la porta si aprì.
Mi ritrovai davanti Hiroto e Reina; la ragazza aveva un’aria alquanto seccata e, al tempo stesso, impaziente .
-Ce ne hai messo di tempo- protestò, afferrandomi per un braccio.
Quando prese a trascinarmi via, anche Kazemaru uscì dalla stanza (anche lui si era cambiato al volo) e ci seguì legandosi i capelli mentre camminava.
Lanciai uno sguardo interrogativo a Hiroto, che, giusto dietro di noi, scrollò le spalle.
-Alistair Jordaan è stato preso in custodia dall’Agency. Ovviamente, si rifiuta di dire alcunché. Appena gli è stato accennato il nome della moglie, si è chiuso in se stesso- disse Reina in fretta, mentre voltava l’angolo e mi guidava dentro ad una stanza.
Quando entrai, me lo trovai subito davanti. Non ero pronto, non avevo avuto il tempo di prepararmi.
Gli occhi di Jordaan erano vacui e persi nel vuoto, fissi sul soffitto. Le sue labbra si muovevano appena, come se stesse cantando, o meglio mimando col labiale, una melodia. Quando aprimmo la porta, abbassò il capo molto lentamente e girò lo sguardo verso di noi. Dapprima mi guardò con perplessità, poi nei suoi occhi brillò un barlume di consapevolezza.
-Midorikawa... non è vero?- disse. –Era questo il tuo nome, credo... Buongiorno.
Dell'uomo brillante e arguto che avevo incontrato al concerto sembrava essere rimasto poco. Vederlo in quello stato fu scioccante. Mi sentivo terribilmente a disagio, ma accorsi comunque al suo fianco.
-Maestro, si sente bene?- chiesi, esitante, mentre scrutavo il suo volto pallido e infossato.
Mi guardò trasognato. –Bene? Sì, suppongo di sì. Sai dirmi dove sono? Non vedo più la luce del sole da un po’… A me non piace alzarmi tardi, sai? Ah, ma credo sia pieno giorno... C'è questo velo buio, qui, davanti ai miei occhi, non capisco... Tu lo vedi? Lo puoi togliere?
-Come, scusi?- Facevo fatica a seguirlo, il suo discorso non aveva il minimo senso.
-Oh, è inutile che cerchi di capirci qualcosa. Fa così da quando l’hanno portato qui- disse Hitomiko, e solo allora mi accorsi che c'era anche lei. Stava in piedi in un angolo, con le braccia incrociate al petto e il solito sguardo severo.
-Però non sembra sotto l’effetto di droghe, o di allucinogeni- mormorò Reina, sconsolata.
Annuii, senza smettere di guardare Jordaan.
Non aveva le pupille dilatate, parlava con voce piana e carezzevole. Non sembrava affatto un drogato. Se ne stava seduto lì,  tranquillo, con le mani ammanettate sulle ginocchia e la testa appoggiata allo schienale della sedia, e fissava i dintorni della stanza con l'aria di chi ha preso semplicemente una botta in testa.
-Midorikawa?- mi chiamò, di nuovo. -Cosa intendevi dire quella volta- domandò, la sua fronte si aggrottò esprimendo tutta la sua confusione. Non sapevo cosa rispondergli, ma non ce ne fu bisogno; infatti, dopo averci riflettuto un attimo, lui stesso cambiò rapidamente argomento.
-Ti prego, portami a casa. Non faccio niente, lo giuro. Se sei tu, ti dirò tutto- disse.
Tutti gli sguardi si spostarono su di me.
-Visto? L’avevo detto io- commentò Reina, rivolgendosi a Hiroto.
-Non credo comunque sia una buona idea coinvolgere Midorikawa- commentò il ragazzo a mezza voce. Si guadagnò un'occhiata torva da parte di Reina.
Li ignorai e mi girai verso Hitomiko. La donna ci rifletté un po', poi annuì.
-Vi accompagneranno degli agenti con una volante. Farò richiesta personalmente- stabilì. Mi avvicinai a Jordaan e gli poggiai delicatamente una mano sulla spalla.
-Maestro? L’accompagnerò al suo appartamento. Venga con me- sussurrai.
L’uomo abbassò il capo e sorrise.
 
xxx
 
Era un appartamento moderno, con molte finestre che lasciavano entrare luce e vento da ogni parte, e molti mobili di stampo antico, accostati a quadri dei più svariati artisti e biblioteche cadenti di libri; però era molto più modesto di quello che ci si aspetterebbe da un pianista di sicuro ceto agiato. D’altronde, durante la vendita d’aste avevo già potuto vedere quanta poca importanza Jordaan desse all’apparenza.
-Posso offrirti un tè, Midorikawa-kun?  
Alzai un sopracciglio e il mio sguardo cadde sulle manette che ancora gli bloccavano i polsi (Hiroto e Hitomiko avevano ritenuto più saggio lasciargliele).
Eppure, nonostante quella “libertà vigilata”, il maestro non sembrava per nulla turbato.
Si lasciò cadere sul divano con un sospiro quando rifiutai il suo cortese invito con altrettanta cortesia, quanta mi fosse possibile dato l’assurdo della situazione.
-Mi dirai davvero tutto?- mormorai.
Ero appena percettibile, ma lui alzò il capo e mi fissò con occhi curiosi.
-Ci tieni così tanto a vedere il lato peggiore di me, Midorikawa-kun?- disse.
In lui non c’era traccia di malizia, era sincero.
-Io non posso dirti nulla di ciò che vuoi sentire. O forse potrei dirti tutto. Ti fideresti di me ciecamente? In fondo, noi non ci conosciamo.- continuò pensoso.
-Cosa intendevi dire quella volta? In che modo la mia musica ti trasmette sensazioni diverse?
Ripartì all’attacco con quella domanda.
Sorpreso, lo fissai dritto negli occhi per la seconda volta quella mattina.
E d’un tratto capii che quello era il solo motivo per cui mi trovavo lì. Jordaan non aveva la benché minima intenzione di parlarmi di Garshield, dei suoi presunti rapporti con lui o qualunque fosse la ragione che lo costringeva ad indossare quelle manette.
Jordaan voleva solo continuare quella conversazione: quando mi aveva visto quella mattina, aveva deciso che era giunto il momento che io rispondessi e non gli importava nient’altro.
Lo shock di questa consapevolezza mi paralizzò per alcuni minuti.
-Ho capito, ho capito. Do ut des, giusto?
Jordaan parlò con disinvoltura mentre si andava a rannicchiare nell’angolo della stanza, contro una superficie nera e impolverata. Solo quando il maestro lasciò scorrere il coperchio dei tasti capii che quello era un pianoforte. Il respiro mi si spezzò in gola.
Le sue dita accarezzarono i tasti, per riprendervi familiarità…
E poi scivolarono nella musica.
Nonostante i polsi fossero bloccati dalle manette, le sue mani scorrevano velocemente fra una nota e l’altra, sfiorandole una ad una, catturandole e poi lasciandole dolcemente per lasciare posto alle altre successive. Sembrava che no avesse mai smesso.
Letteralmente rapito dalla melodia, ascoltavo inerme.
La nostalgia sussurrava il nome di Brielle, come lo stesse accarezzando amorosamente.
Jordaan la amava… più della sua stessa vita. Brielle era tutto per lui. Quando l’aveva persa, il mondo era diventato fosco, si era abbruttito.
La risata cristallina di lei risuonò al mio udito come se fosse stata affianco a me, anzi davanti a me, potevo vederli entrambi mentre ballavano un valzer, in questo stesso appartamento, ridendo e inciampando nel tappeto di cashmir, e lei gli toccava le mani, le baciava…
Ma già una fosca ombra stava calando, il colore grigio lambiva gli angoli della stanza e inghiottiva il tappeto e portava via lei, che improvvisamente era a terra…
In un lago di sangue.
Sobbalzai quando la melodia s’interruppe bruscamente: Jordaan aveva sbattuto entrambe le mani con violenza sui tasti.
Corsi ad aiutarlo, ma l’uomo non era più in sé. Urlava il nome di lei, scuoteva il capo e sbatteva le mani sui tasti, ancora e ancora, in un crescendo di orrore e aggressività.
Scansai per un soffio la spallata che cercò di darmi per liberarsi dalle mie mani che tentavano di tenerlo fermo.
Era nel pieno di una crisi isterica, che aveva cancellato in lui ogni traccia di quella pacata armonia che lo caratterizzava.
-Maestro, la prego! Si farà del male!- gridai, la sua voce mi sovrastava.
Non ce la potevo fare da solo. Non avrei mai voluto, ma mi venne in mente di chiamare l’Agency.
Non volevo, ma c’erano altre soluzioni?
Riflettevo su questo, quando all’improvviso, senza apparente motivo, Jordaan cedette.
Si lasciò cadere mollemente fra le mie braccia. Sorpreso, approfittai dell’occasione per trascinarlo fino al divano e stenderlo.
-Capisci? Non posso più suonare…- mormorò.
Mi fu subito chiaro che non parlava a me.
Il suo sguardo era di nuovo trasognato, e perso forse in tempi lontani.
-Non posso più… Brielle, con queste mie mani coperte di sangue… non potrò mai più suonare una melodia pura come te… non posso… la tua canzone…
Delirava. Mi chinai e notai che le sue pupille si erano leggermente dilatate.
E capii un’altra cosa: non aveva assunto droghe. Era proprio questo il problema. La sua era una crisi di astinenza. Ansimava, come chi ha bisogno di droghe.
Mi incupii. “Ma allora… è davvero legato a Garshield in qualche modo?” mi chiesi.
Lo osservai con crescente tensione, aveva iniziato a tremare violentemente. Mani e polsi sfregavano contro il metallo, facendo uscire rivoli di sangue. Non riuscivo quasi a guardarlo.
Non potevo farcela da solo, dovevo chiamare aiuto.
-Brielle, Brielle, dove sei?- piagnucolò Jordaan, si girò su se stesso e quasi cadde.
Sospirai e cercai di tirarlo su.
Fu allora che dalla tasca dei pantaloni del maestro cadde qualcosa. Mi chinai e presi l’oggetto con delicatezza, timoroso che questo potesse scatenare in Jordaan altre reazioni isteriche, ma lui aveva gli occhi chiusi e il corpo mollemente abbandonato.
Rigirai l'oggetto tra le dita. Era una spilla color blu notte, con ricami dorati, perle e piume bianco latte; era molto bella, ma più appuntita di quanto pensassi. Inavvertitamente mi punsi e, mentre osservavo una goccia di sangue formarsi sul mio polpastrello, avvertii un brivido.
Non era possibile, eppure…
Lanciai un’occhiata veloce a Jordaan, che sembrava aver perso i sensi, quindi mi buttai a capofitto in ciò che la spilla di Brielle mi mostrava.
 
Chiusi gli occhi e, quando li riaprii, ero di nuovo in quella stanza.
Jordaan non era sul divano, bensì in piedi ed in abito da sera. I suoi occhi erano pieni d’amore per la sua accompagnatrice: sua moglie, Brielle, indossava un lungo vestito blu di seta.
Lui le accarezzava i capelli rossi, tenuti su dalla spilla.
Non lo vedevano, loro, il grigio che avanzava nella stanza, che li ricopriva.
Volevo urlargli di scappare, ma la mia voce non esisteva in quel tempo, e loro erano troppo offuscati dalla felicità per poter vedere quale dolore avrebbe portato il calare della sera.
Le loro immagini scomparvero e scomparve il sole, riapparvero ed emerse la luna.
E il maestro era già inginocchiato a terra, con la spilla stretta nelle mani insanguinate, e lei era a terra senza vita, e lui la guardava incredulo mentre ascoltava le parole di un uomo.
Non riconoscevo la voce, non capivo le parole mormorate in fretta, in silenzio.
Il sangue colava lungo i muri bianchi, era schizzato sul tappeto rovinato per sempre e sul divano e sui mobili. Sul pianoforte.
Rabbrividii. Cercai di concentrarmi sulla voce.
Ripeteva sempre le stesse parole: tre parole veloci, aggressive, inesorabili.
Sei stato tu.
Nel momento in cui le afferrai, lo rividi.
Lei urlava, gli diceva di tornare in sé, piangeva. Aveva perso la spilla e ora i capelli le cadevano disordinatamente sul volto. Piangeva e gli colava il trucco e gridava.
E le mani di lui affondavano ogni colpo con violenza.
Uno al petto, uno al collo, con la spilla continuò ad affondare un colpo dietro l’altro.
E poi se ne stava inginocchiato, a fissare come un bambino i suoi occhi senza vita, con le mani sporche del suo sangue…
 
Mi lasciai scivolare contro la parete che fino a pochi secondi prima avevo visto piena di sangue fresco. Ora non ce n’era più traccia.
La mia mente era svuotata dal terrore.
La spilla mi scivolò di mano e il rumore fece svegliare di scatto il maestro, che si tirò a sedere bruscamente. Per un momento, si guardò intorno spaesato, poi con la stessa incredulità di allora si mise a fissarsi le mani e a mormorare il nome di sua moglie.
Ero certo che la stessa voce di allora gli parlasse ancora nei suoi incubi; gli ripeteva maligna all’orecchio: Sei stato tu, sei stato tu.







**Angolo dell'Autrice**
Ciao!
Vi è mancata questa fic? :D

Con questo capitolo siamo all'apice dello Jordaan's Arc.
Vi ho sconvolti? Se sì, beh, era l'effetto che volevo.
Mi dava piacere l'idea di una storia complessa, che andasse al di là della morale comune.
E poi amo i personaggi contraddittori. 

Finalmente Midorikawa è costretto a fare una scelta, ma cosa sceglierà?
Lo scoprirete nei prossimi capitoli!

Un bacio, 
roby

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Capitolo 13
*** Mission 13 ~Jordaan's Arc ***




-È andato tutto bene?
Alzai gli occhi verso Hitomiko e annuii.
-Non hai scoperto nulla, quindi?- mi interrogò ancora.
Esitai.
Avevo lasciato la casa correndo; avevo così tanta paura che correvo con il fiato spezzato, rischiando di soffocare ad ogni svolta, e più mi allontanavo da casa di Jordaan più mi chiedevo cos’avrei fatto.
Devo denunciarlo, questo era ciò che la mia testa mi urlava, seguendo il mio innato senso di giustizia… d’altra parte, il mio cuore frenava la logica. Perché, logicamente, sarebbe stato giusto denunciarlo...Solo che io non volevo farlo.
-Purtroppo no, mi dispiace.- Le parole mi uscirono ancor prima di pensarle. Il sorriso che assaporavo sulle labbra era il più falso che avessi mai fatto. Mi sentii malissimo subito dopo aver mentito.
Per fortuna Hitomiko fissava fuori dalla finestra, pensierosa, e non notò il mio comportamento strano. Non so se avrei sopportato di stare sotto il suo sguardo indagatore.
-Va bene. Devi scusarmi per l'insistenza, so che ultimamente lavori anche troppo... Puoi andare a riposarti- disse, gentile.
Avrei obbedito con molto piacere, ma un dubbio mi assillava.
-E… c-cosa farete con lui?- osai chiedere. Speravo che non notasse il tremolio nella voce.
Hitomiko si girò a guardarmi. Soppesò la domanda, poi disse:- Abbiamo un mandato di perquisizione per la sua casa. Inoltre, lo terremo sotto sorveglianza, non possiamo lasciarlo andare finché non si deciderà a testimoniare.
Socchiuse gli occhi e mi squadrò sospettosa.
-Ma come mai ti interessa tanto?
-No... No, è solo che...- mormorai, imbarazzato, e deglutii. Il sangue mi ribolliva in volto, facendomi arrossire con violenza.
-È che non mi sembra una persona cattiva…- aggiunsi, più cauto, dato che ero decisamente sospetto. Lei rimase in silenzio a riflettere. Infine, si avvicinò e mi mise una mano sulla spalla, facendomi sobbalzare.
-Capisco come ti senti, ma non puoi farti coinvolgere troppo. Ci sono in ballo cose troppo grandi per te- disse e mi fissò seria.
Mi costrinsi ad annuire. Quando lei mi lasciò andare, ero così agitato che, non appena fui certo che lei non potesse vedermi, ripresi a correre. Raggiunsi la nostra camera e mi ci chiusi dentro, tirando un sospiro di sollievo perché non avevo incontrato nessuno.
Kazemaru uscì dal bagno in quel momento e mi guardò sorpreso.
-Perché hai il fiatone?- chiese.
-Ho corso.- Non mentivo, tutto sommato. Mi facevano male le gambe. Cercando di incrociare il suo sguardo, mi spogliai e mi infilai il pigiama, poi mi lasciai cadere sul letto.
-Vai già a dormire?- chiese Kazemaru.
-Sì, sono stanchissimo, scusa.- Ero esausto, gli occhi mi si chiudevano da soli e mi chiesi se fossi riuscito a sorridere come si doveva. Ma probabilmente no, perché l'ultima cosa che sentii prima di cadere in un sonno angosciato, con il volto girato verso il muro, furono le braccia di Kazemaru avvolgermi il petto e stringermi forte.
 
xxx
 
La distesa di ghiaccio che andava dalla via del mercato fino alla Banca Centrale non mentiva.
Scintillava al sole, senza accennare a sciogliersi, e rivestiva elegantemente ogni cosa sulla sua strada –un’auto gialla era stata trasformata in un’armoniosa scultura di specchi riflessi.
Kazemaru era già caduto due volte, strappandomi un sorriso.
Eravamo stati mandati lì per controllare la situazione di “improvviso gelo” estivo in città, ma a dire il vero c’era ben poco da controllare.
C’erano solo due persone capaci di tanto.
-Fubuki Shirou! Fubuki Atsuya! Siete in arresto per danni pubblici e tentata rapina in banca!
I due gemelli lanciarono un’occhiata di sbieco al poliziotto che li aveva appena minacciati, con la pistola puntata e le manette pronte all’opera, poi si fissarono e ridacchiarono.
-Hai sentito, Atsuya? Tentata.
-Strano, l’ultima volta che ho guardato la rapina mi sembrava riuscita.
Il poliziotto diventò paonazzo fino alle orecchie e gli intimò nuovamente di consegnarsi.
Fubuki Shirou, quello con i capelli grigi, leggermente più basso del fratello, si mise una mano sul fianco e stese l’altra di fronte a sé.
-Che noia. Fatevi un riposino- disse, seccato.
L’aura azzurra cominciò a fluire dal suo corpo al palmo della mano, scaturendo sotto forma di cristalli di ghiaccio –in pochi istanti il suo Snow Angel scivolò fino al blocco di polizia e trasformò in statue uomini e macchine.
-Andiamo, Atsuya…- disse, si voltò per aiutare il fratello a trasportare dei sacchi pieni di soldi, ma non si era accorto della nostra presenza.
-Astro Break!- gridai, ed una sferza di energia volò verso di loro.
Atsuya Fubuki, più rapido di riflessi, afferrò il fratello e lo costrinse ad abbassarsi, giusto in tempo per schivare il mio colpo, che aprì una leggera crepa nel muro dietro di loro.
Il ragazzo dai capelli rosa bestemmiò non appena mi riconobbe.
-Tu sei quello dell’altra volta!- esclamò. 
–Sì, sono proprio quello che ti ha messo K.O.- risposi con un sorriso. Atsuya avvampò, ferito nell’orgoglio, lasciò fratello e soldi per saltarmi addosso.
Più rapidamente di quanto mi aspettassi, la sua faccia inferocita fu a pochi centimetri dalla mia ed il suo ginocchio mi sfiorò il mento mentre mi ritraevo di scatto; un secondo calcio mi colse impreparato e mi colpì all’anca.
Ricordandomi come l’avevo abbattuto la prima volta, tesi la mano a palmo aperta verso il suo petto, ma stavolta lui mi afferrò il polso e mi sollevò da terra con una tale forza da scaraventarmi cinque metri più in là. Riuscii miracolosamente ad atterrare in piedi, almeno per un istante, poi la scivolosità del ghiaccio mi mandò a terra.
Kazemaru scattò in avanti e tirò un calcio ad Atsuya, ma il ragazzo era persino più veloce di lui –scansò il colpo abbassandosi e affondò un colpo con il dorso della mano al suo fianco.
Kazemaru si ritrasse, affannato. Atsuya ghignò.
-Che ne dite? Credevate che mi sarei fatto mettere sotto da voi due?- esclamò, fiero. -Ora vi faccio assaggiare la mia mossa speciale!- Atsuya saltò e fece una specie di giravolta su se stesso, per avvolgersi in un turbine di minuscoli cristalli ghiacciati e brina che –ne ero sicuro al cento per cento- ci avrebbe trasformato in ghiaccioli se ci avesse sfiorati. Rabbrividii.
Kazemaru cercava di usare la sua Shippu Dash, ma il terreno era troppo scivoloso.
Fu allora che una scia di fuoco e fiamme si fece largo zampillando come un fiume di lava, divorando il ghiaccio, prosciugandolo fino a farlo diventare vapor d’acqua; avvolse il blocco di polizia, lasciando incolumi e fradicie le vittime, e s’infilò sotto i nostri piedi. Poi si sollevò come un uccello di fuoco, le cui grandi ali da un lato ci schermavano dalla tormenta di Atsuya, dall’altro la respingevano con energia.
Atsuya resistette per qualche minuto, poi il fuoco travolse il ghiaccio e l’acqua gelata cadde giù come una cascata sulle nostre teste. I due gemelli si voltarono verso la fine della strada, i loro volti erano illuminati da emozioni diverse e opposte: quello di Shirou era pervaso da pura gioia, quello di Atsuya da rabbia e contrarietà.
I nostri senpai, Gouenji Shuuya e Kidou Yuuto, cui era affidato il “caso Fubuki”, avevano appena fatto la loro entrata in scena.
-Sempre in giro a combinare guai.- Kidou fissò torvo i due gemelli attraverso le lenti spesse dei suoi occhialini. Fubuki Shirou lo ignorò: per lui esisteva solo Gouenji.
-Detective! Mi stavi quasi facendo preoccupare. Nessuno riesce a farmi divertire come fai tu!- Rise. –Dai, vieni a prendermi!
Gouenji non se lo fece certo ripetere.
Cominciò a correre verso Shirou e, quando Atsuya si frappose tra loro e gli sferrò un calcio, lui lo evitò abilmente. Usando una macchina come appoggio, saltò in alto, oltre il ragazzo dai capelli rosa, e si slanciò contro Shirou. Atsuya cercò di seguirlo, ma da un momento all'altro si trovò impegnato a difendersi dall’attacco dei pinguini al comando di Kidou.
Mentre i pinguini sgusciavano sulla strada e il fuoco di Gouenji riempiva il cielo, Kidou si voltò un attimo verso di me.
-Grazie per averli trattenuti, ora ci pensiamo noi… Dovete tornare alla base. Hitomiko ti ha convocato- dichiarò, serio.
-Di nuovo?!- esclamai. Improvvisamente il pensiero che avesse scoperto qualcosa sul Maestro Jordaan mi passò per la testa e mi fece sudare freddo. Se avessero scoperto che stavo mantenendo segrete le informazioni di cui ero in possesso, mi avrebbero cacciato fuori a calci e forse condannato a morte.
No, ora calmati, mi dissi, respirando a fondo. Non esiste la pena di morte per questa cosa.
-Andiamo, Midorikawa?- mi chiese Kazemaru. Lanciai un ultimo sguardo alla battaglia fra i nostri amici e i Fubuki, poi annuii e lo seguii.
Tornammo alla base a piedi, di corsa perché Hitomiko mal tollerava i ritardi.
Nel corridoio fra l’ingresso e l’ascensore per i piani alti incrociammo Hiroto ed Endou.
-Oh, eccoti.- disse il rosso bloccandomi la strada. –Sei molto richiesto, a quanto pare.
Sebbene fosse facile cogliere una punta di sarcasmo nel commento, l’espressione di Hiroto era tutt’altro che divertita, anzi sembrava piuttosto seccato. Era evidente che avrebbe preferito avermi fuori dai piedi, tuttavia mi strinse il braccio con una mano e mi trascinò personalmente da sua sorella.
Kazemaru ed Endou rimasero fuori. Il mio partner iniziò a mangiucchiarsi le unghie per la preoccupazione, nemmeno la presenza di Endou riusciva a distrarlo.
La stanza era in penombra. Hiroto accese la luce e il neon illuminò le facce serie di Hitomiko e Seijirou. La donna non fece preamboli.
-Alistair Jordaan è riuscito ad eludere la nostra sorveglianza. È scappato questa mattina e non ha fatto più ritorno alla sua abitazione- annunciò. -Quello che vogliamo sapere è se tu hai idea di dove possa essere andato.
Le sue parole mi pietrificarono. Il respiro mi si mozzò in petto e a stento riuscii a scuotere il capo, non osando rispondere vocalmente perché temevo che la voce mi avrebbe tradito. Impallidii notando l’oggetto che Hitomiko si rigirava fra le dita. Lei vide che lo fissavo con una certa intensità e lo sollevò verso di me.
-L’abbiamo trovata mentre perquisivamo la casa. L’hai mai vista prima?- domandò.
La spilla era bella come sempre, ma ai miei occhi allucinati luccicava in modo inquietante.
-Sì... appartiene al Maestro- sussurrai, su questo non riuscii a mentire.
-Ti spiace toccarla?- chiese ancora Hitomiko.
Non risposi, né feci cenni col capo.
Non posso farlo. Non voglio, mi ripetevo. La testa iniziava a girarmi al pensiero di essere finito in trappola come un idiota. Il terrore di essere scoperto da un lato, la prospettiva di tradire Jordaan dall’altro: nessuna delle due cose mi allettava
-Midorikawa mi sembra molto provato. Non credo sia il caso di fargli fare una cosa del genere ora.- Con mia grande sorpresa, fu Hiroto intervenire in mio aiuto.
Lo guardai incredulo. Hitomiko mi osservò per qualche momento, poi convenne con suo fratello. Per il momento, quindi, ero salvo, e dovevo ringraziare la persona che mi irritava di più al mondo. Mi chiesi se non dovessi almeno ringraziarlo, ma Hiroto mi trascinò di nuovo fuori dalla stanza senza darmi il tempo di parlare.
O meglio, riuscii a stento a farfugliare qualcosa prima che lui mi interrompesse. Hiroto mi afferrò le spalle e mi fissò dritto negli occhi.
-Vai in camera tua. Dormi. Hai l’aria di uno che sta per svenire- ordinò, poi mi lasciò e se ne andò, lasciando indietro non solo me, ma anche Endou e Kazemaru, che spostavano lo sguardo da me a lui senza capire nulla.
 
xxx
 
-Sembri un cadavere- commentò Maki.
Stesa sulla pancia sul mio letto, dondolava le gambe avanti e indietro, mangiucchiando biscotti e patatine -mix decisamente strano- e sfogliano svogliatamente una rivista di moda.
-Di’ un po’, ma non hai niente di meglio da fare?- chiesi, scoccandole un’occhiata scocciata. -Fai briciole sul letto- aggiunsi, secco. Non ci tenevo a dormire con le formiche.
Ogni volta che qualcuno bussava alla porta, avevo l’impressione che i miei nervi stessero per spezzarsi: da quando Hitomiko mi aveva dato notizia della fuga di Jordaan, tre giorni prima, mi aspettavo in ogni momento che venisse a prendermi perché io usassi la mia empatia con la spilla.
-Non posso andarmene da qua finché Kazemaru non torna- dichiarò la ragazza rotolando su un fianco e sollevando la rivista con le braccia stese in alto.
Stavolta mi girai completamente verso di lei e la fissai a lungo.
E così, in realtà, il suo passatempo era osservare me, e non quella rivista.
-Quanto ti ha dato Kazemaru per controllarmi?
-Una miseria, solo cinquecento yen.
–Ne ero certo- borbottai, feci girare di nuovo la sedia a rotelle e schiacciai la fronte contro il legno della scrivania. Sospirai.
Un fruscio mi fece intuire che Maki aveva posato, o fatto cadere, la rivista.
-È tanto preoccupato per te... ma anche io e Reina lo siamo- disse, piano. Sembrava muoversi con cautela, come se d’un tratto avesse perso tutta la sua innata sicurezza.
-Da quando hai incontrato il Maestro Jordaan, non sei più la stessa persona. Sei cupo, lunatico… a volte sembri totalmente perso nei tuoi pensieri- continuò, mogia.
Non mi girai a guardarla, anzi affondai ancora di più la testa nelle braccia. Fissavo la scrivania, respirando piano.
-E sei anche troppo irritabile. Ci chiedevamo se…- Maki si fermò e si morse un labbro, incerta. Non dissi nulla, attendendo che finisse. La sua voce si ridusse ad un sussurro. -…se per caso quell’uomo non ti avesse detto qualcosa.
In un battito mi alzai di scatto, la presi per un braccio e la spinsi fuori dalla porta con una certa furia. Dapprima Maki si lasciò trasportare, colta di sorpresa, poi iniziò a fare resistenza, scalciando e protestando.
-Ma che ti prende?! Se continui così, diventerai strano davvero!- strillò, con le mani si attaccò agli stipiti della porta, spingendomi per impedirmi di buttarla fuori.
-Non vi azzardate mai più a dire qualcosa sul Maestro!- gridai in risposta.
Maki si ammutolì: nei suoi occhi sgranati lessi sbigottimento di fronte alla mia espressione arrabbiata, ma così arrabbiata che non l’aveva mai vista prima.
Nessuno, nemmeno Kazemaru, mi aveva mai visto realmente arrabbiato, tanto che pensavo di non essere capace di sfoggiare tanta ferocia: il me stesso che vidi riflesso negli occhi increduli di Maki spaventò anche a me.
Deciso e impaziente di liberarmi di lei, la sbattei fuori con un ultimo spintone, approfittando del fatto che avesse allentato la presa per la sorpresa, e chiusi a chiave la porta.
-Dici a Kazemaru che non esco per la cena!- gridai.
La sentii singhiozzare. Grandioso, l’ho fatta piangere, pensai, scuotendo il capo. Scivolai lungo la porta e mi tappai le orecchie con le mani, cercando di ignorare il pianto silenzioso di Maki. Non avevo alcun diritto di arrabbiarmi, perché aveva perfettamente ragione su tutto.
Cupo. Lunatico. Irritabile perché non dormivo da due giorni e mezzo. Ogni volta che chiudevo gli occhi rivedevo le lacrime di Brielle immersa in una pozza di sangue, sentivo la voce accusatrice coperta dalle urla di lei, e mi sembrava di avere davanti il luccichio della spilla…
Decisamente i miei nervi erano troppo tesi.
 
xxx
 
È incredibile quanto siano brave le persone a non farsi trovare quando devi cercarle, riflettevo su questo mentre vagavo per i corridoi dell'edificio. In poco più di mezz’ora, infatti, Maki sembrava sparita.
Certo, non avevo osato chiedere informazioni a nessuno, per paura di dover dire perché la cercavo, cioè che l’avevo cacciata e fatta piangere e ora volevo scusarmi perché ero pentito di quella mia pessima condotta che non mi si addiceva per niente.
Così, stavo percorrendo il corridoio del piano terra, quando sentii Hitomiko parlare al telefono e dire a qualcuno che il Maestro Jordaan era stato individuato su una torre di ferro a ovest della città.
 
Ed è esattamente lì che stavo correndo un istante dopo, ignaro che su quella torre si sarebbe consumato l’epilogo della storia del genio del pianoforte.










 


**Angolo dell'Autrice**

E' destino che questa fic sia aggiornata con molto ritardo.
Per questo chiederò eternamente scusa a voi lettori.
Ringrazio inoltre tutti i recensori di questa fic, e anche chi l'ha aggiunta fra le preferite/seguite/ricordate.
Grazie di cuore 
Passando al capitolo, posso dire con certezza che questo è il penultimo che componga lo Jordaan's Arc.
Il prossimo, come dice lo stesso Midorikawa, è un epilogo che conclude non solo la storia di Jordaan, ma anche il primo nucleo narrativo della fic.
Quindi vi consiglio di non perderlo -e di preparare i fazzoletti- :'''D
Sto leggermente esaurita per via dell'esame che devo preparare stupidà maturità e forse ho trasferito molta ansia su Midorikawa, che infatti in questo capitolo è decisamente lunatico e schizzofrenico -a questo punto, tanta stima per Hiroto, LOL. 

Kisses,
roby


 



 

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Capitolo 14
*** Mission 14 ~Jordaan's Arc ***


Il cielo si era tinto di un rosso acceso, che si andava sfumando in arancione e rosa chiaro nei contorni delle nuvole fumose. Non c’era un filo di vento, eppure il gelo mi accapponava la pelle, o forse erano le sensazioni che mi perforavano il petto a farmi rabbrividire: una paura pungente, un vago senso di tradimento, sensi di colpa. Odio verso Garshield, che era la causa di tutto quel dolore.
Dubbi su me stesso. Non riuscivo a riconoscermi nella persona che stava proteggendo un criminale il me stesso che credeva solidamente –ciecamente?- nella giustizia. Ero cambiato, ma era un male o un bene? Per come la vedevo io, decisamente un male.

Ai piedi della Torre, sentii delle voci.
Iniziai a salire di corsa, ero totalmente concentrato sulle voci, mi fermai sulla quarta rampa.
-A cosa devo il motivo della visita?
Rabbrividii. Impossibile che quella voce incolore e fredda appartenesse a Jordaan, lo stesso uomo che mi parlava con dolcezza. Nelle parole che seguirono c’era un certo disgusto, anche.
-Mi avete praticamente trascinato fuori di casa.
-Ho sentito dire che ultimamente vai d’accordo con la polizia. Erano dappertutto, vicino al tuo appartamento. Sai quanto è stato difficile farti fuggire?- Questa voce non la riconobbi subito, ma poi scorsi un lembo di tessuto viola scuro e mi ricordai: avevo sentito parlare Big D, il leccapiedi di Garshield, solo una volta, ma il suo tono viscido e antipatico mi fece venire voglia di saltar su e strozzarlo.
-Sono venuti a cercarmi. Non potevo fare nulla se non consegnarmi.- replicò Jordaan, la sua voce trasudava il medesimo disprezzo per quell’uomo che sentivo di provare io.
-Il mio signore si chiedeva se sia ancora il caso di fidarsi di te. Ma tu non parlerai vero? Non puoi resistere una settimana senza la droga che ti procuriamo. Quindi continuerai a fare da tramite fra il mio signore e gli ambienti alti.- Big D fece una risatina sadica. –Altrimenti puoi sempre andare dai tuoi amici poliziotti e raccontargli com’è morta tua moglie.
Non c’era bisogno di guardarlo in faccia per sapere che Jordaan era impallidito.
Nel momento in cui Big D aggiunse quella frase, restai pietrificato. Ero sconvolto dal fatto che avesse detto una cosa così grave con leggerezza, e poi lui che ne sapeva? A meno che…
Capii improvvisamente tutto.
L’uomo che accusava Jordaan… doveva essere Big D. Lui era presente durante tutta la scena dell’assassinio di Brielle. Se l’era goduta. Dovevano averlo sotto scacco da molto, con la faccenda della droga… Era un giro da cui non si usciva più. In un momento compresi perché Brielle fosse così disperata. Fui preso da una rabbia sorda e irrazionale.
Feci di corsa gli scalini d’acciaio che mi separavano dai due e saltai sulla piattaforma, con i pugni stretti lungo i fianchi e il fiato corto e il viso paonazzo.
Entrambi si voltarono verso di me, la sorpresa evidente sui loro volti.
-Midorikawa?- La voce di Jordaan s’incrinò leggermente.
Big D spostò lo sguardo da lui a me, accigliato. Per un attimo ci fissammo, poi finalmente lui parve riconoscermi, anche se ci eravamo “incontrati” una volta sola, in una situazione abbastanza confusa. I suoi occhietti spietati squadrarono la mia divisa e si strinsero mentre sul suo volto compariva un ghigno.
-Guarda chi è tornato a giocare al detective- pronunciò quella battuta con scherno. -Adesso te la fai con questa gente, Jordaan? Degno della mezza calzetta che sei…
-Basta. Stai. Zitto- sibilai. -Il Maestro non è la persona che credono tutti! Lui… è molto più buono! È una brava persona!
-Ah! Una brava persona, lui…- Big D sogghignò di nuovo. -Sciocco ragazzino, non lo conosci bene come credi. È chiaro che non sei a conoscenza di tutti i fatti
-Sono perfettamente a conoscenza di ciò che è accaduto a Brielle-. Troncai sul nascere l’obiezione che quell’uomo spregevole si preparava a fare. La mia voce era piena di amarezza.
Il Maestro Jordaan, a pochi metri da me, si voltò e i suoi occhi cambiarono rapidamente espressione: mostrarono prima shock e stupore, poi si riempirono di dolore. Ancora non capiva come lo sapessi, ma era profondamente addolorato che io ne fossi rimasto ferito: suonava assurdo, eppure era proprio così.
Come può una persona del genere aver fatto del male a qualcuno?
Un click attirò nuovamente la mia attenzione su Big D: l’uomo aveva estratto una magnum dalla giacca violacea e la puntava contro di me.
I muscoli delle braccia mi tremavano, mentre le mie dita cercavano invano di estrarre la mia arma dalla tasca dei pantaloni. L’avevo dimenticata nella fretta.
Merda.
-Il tuo giocare a fare l’eroe finisce qui- ridacchiò Big D.
Si fece serio tutto d’un tratto. Tesi l’orecchio ad un rumore concitato di passi, che poteva significare una cosa sola: l’Inazuma Agency era sul posto.
Le scalinate tremavano sotto i piedi degli agenti, riconobbi la voce di Hitomiko e quella di Hiroto, nonostante il fracasso metallico di sottofondo.
Big D si voltò di nuovo verso di me. -Sembra che dovrò fare in fretta-. Non esitò un istante di più: premette il grilletto e lo sparo risuonò nell’aria.
Chiusi gli occhi d'istinto. Sentii solo un improvviso senso di oppressione e il calore di un altro corpo contro il mio, un respiro affannato sul collo, poi un crescendo di passi.
Silenzio.
Erano passati sì e no una manciata di secondi, eppure a me sembravano un’eternità.
Aprii gli occhi e mi vidi intrappolato fra le braccia di Jordaan, proprio nel momento in cui Hiroto apparve sulla piattaforma. vedendoci, Hiroto esitò per un momento; probabilmente era sorpreso e confuso di trovarmi lì. Poi però ci scavalcò e continuò a correre, tuffandosi sulla scalinata per l’ultimo piano, dove Big D era fuggito.
Hitomiko apparve poco dopo. Mi scoccò un’occhiata di rimprovero, ma poi anche lei si diresse nella direzione presa da Hiroto. Prima di tuffarsi nell’inseguimento, però, mi gridò di prendermi cura io del Maestro: il suo ordine fu coperto da un rumore assordante, che associai alle pale di un elicottero al di sopra della Torre.
Ma Big D era diventato l’ultimo dei miei pensieri. Jordaan aveva le braccia avvinghiate alle mie spalle, le gambe scomposte al lato del corpo, i capelli sciolti e disordinati sul volto sudato.
Tossì e si spostò un poco, ma il semplice movimento gli causò un fitta di dolore, che trapassò il suo volto, il cui pallore si faceva sempre più intenso.
-Maestro! Si sente ben…- Poi capii e la domanda mi morì in gola.
Avevo una sensazione di appiccicoso sulle dita e sui vestiti –abbassai lo sguardo sul suo petto, che fino a poco prima combaciava con il mio, solo per scoprire con terrore la macchia rosso scuro che si allargava sulla camicia bianca.
La stretta del Maestro si allentò notevolmente mentre si lasciava scivolare a terra.
-Maestro, tenga duro!- esclamai. Tastavo febbrilmente la camicia, ma non appena la aprii un’ondata di acido mi risalì lungo la gola: il colpo l’aveva trapassato da parte a parte.
Jordaan, con un buco nel petto, cadde steso in una pozza di sangue scuro, che gocciolava dalla grata metallica da cui era costituito il pavimento della piattaforma. Sangue, realizzai con un brivido. Gocce di sangue che cadevano nel vuoto sotto di noi.
La confusione in testa aumentò quando, stringendogli la mano, scoprii che stava perdendo rapidamente calore. Cominciai a strillare, a chiamare aiuto, ad invocare i nomi di Hiroto e Hitomiko e poi ancora aiuto. Avevo le mani e i vestiti zuppi di sangue, ma avevo l’impressione che un schizzo mi avesse preso anche in faccia, sulla guancia destra.
Strinsi le sue mani fra le mie e chiamai aiuto, finché lui non aprì gli occhi e scosse il capo.
Lo guardai incredulo mentre alzava un dito e se lo poggiava sulle labbra.
-Midorikawa... va tutto bene... tranquillo.- Sciolse anche l’altra mano alla presa e mi sfiorò il volto. Le mie lacrime gli caddero sul viso.
-Come posso stare tranquillo?! Lei… sta…- Singhiozzai. –Insomma, perché mi ha protetto?!
Jordaan continuò ad accarezzarmi il viso. Un sorriso gli distese le labbra smorte, mentre i suoi occhi, già vitrei, si colmavano di tenerezza.
-Perché tu sei così puro- sussurrò. -Anche se conosci le cose orribili che ho fatto, continui a credere in me… Sei migliore di quanto io sia mai stato. Sei innocente, esattamente come lo era lei... Io non merito di continuare a vivere.
Ansimò e le sue palpebre si abbassarono lievemente; per un attimo temetti che se ne fosse andato, ma poi la sua mano cadde dal mio volto e si aggrappò al mio mantello.
-Ti prego, dimmelo- supplicò. -Perché ti piace tanto la mia canzone?
Non riuscii più a trattenermi: le lacrime traboccavano dai miei occhi, dal mio volto, come cascate, piombavano giù e si mischiavano al sangue e non avevo tempo di asciugarle o fermarle. Non si potevano più fermare.
-Perché ci sono dentro tutti i tuoi sentimenti-. La mia voce si spezzò. -Perché tu la amavi così tanto... E io amavo la tua canzone, ma non posso perdonarti per quello che hai fatto!
Sorrise.
-Midorikawa, la spilla… Fa’ in modo che riposi per sempre con me e lei. Ti prego. È il mio ultimo desiderio- disse. La sua stretta si allentò, ebbe un ultimo fremito e poi basta. Era morto.
Il silenzio era rotto solo dai miei singhiozzi irregolari. Il mio dolore, la mia confusione, la mia rabbia… tutto si riversò nel grido che lanciai al cielo rosso di tramonto e sangue prima che lo shock mi facesse perdere i sensi.
 
xxx
 
Il bianco del soffitto era snervante.
L’odore di medicinale –morfina?- rendeva l’aria irrespirabile, e io avevo già la mente abbastanza confusa perché mi si togliesse anche l’aria.
Non era difficile indovinare dove fossi; la vera domanda era perché.
Aprii gli occhi e mi guardai intorno. Sentivo le braccia e le gambe pietrificate, un dolore accecante perforarmi la testa e un ronzio strano nelle orecchie.
Sembrava tutto tranquillo.
Ma mentre mi chiedevo cosa era successo, i ricordi tornarono: picchiavano sulla mia testa come uno stormo di picchi, minacciando, distruggendo, gridando.
Immagini svariate mi ripassarono nella memoria. Avvertii una sensazione spiacevole di appiccicoso ovunque.
Mi alzai di scatto e mi fissai le mani.
Sangue.
Era dappertutto, lo sentivo sul viso e sulle mani, ma anche sulla veste bianca da ospedale, e sulle gambe che lasciava scoperte.
Sopraffatto dal calore e dallo shock, scalciai le coperte e mi lanciai giù dal letto. Le gambe non mi ressero e mi fecero cadere. Iniziai a sfregare freneticamente le mani l’una contro l’altra, nel tentativo di lavare via il sangue, ma non c’era modo. Mi pulsavano le tempie, mentre un’ondata di acido mi risaliva dallo stomaco.
Avevo una sola immagine in mente: gocce di sangue che cadevano nel vuoto.
Vomitai e iniziai a tossire. Non riuscivo a respirare, ma non interessava, volevo solo che iò sangue andasse via, che si cancellasse…
Sfregavo, piangevo, urlavo. E poco dopo mi trovai circondato di persone che cercavano di rialzarmi e di ributtarmi a letto; due uomini mi afferrarono le braccia e iniziarono a trascinarmi.
Urlai e scalciai.
Una strisciata di sangue dove passavo io. Un altro tentativo di pulirsi le mani, vano. Poi un’occhiata intorno, confusa, spaurita, mentre mi lasciavo andare e mi arrendevo momentaneamente. Eravamo quasi arrivati al letto, quando vidi il lavabo attraverso la porta socchiusa di un bagno e ripresi a dimenarmi.
Strillavo di lasciarmi, che dovevo lavare via il sangue. Uno dei due uomini mi disse qualcosa, non capii e lo strattonai perché mi lasciasse.
-Non lasciatelo! Si farà del male!
-Con quello che ha passato, per forza ha avuto attacco isterico...
-Secondo me sta per vomitare.
Non so chi fossero, ma l’ultima persona che aveva parlato aveva ragione. Sentii una nuova ondata acida risalire e poi il sapore amarognolo in bocca quando buttai tutto fuori. Ripresi a respirare freneticamente, ansimante.
Approfittando del fatto che mi credevano più tranquillo, sferrai una gomitata ad uno dei due uomini e mi liberai; corsi al bagno, spalancai la porta con violenza e misi le mani sotto al rubinetto: le sfregavo febbrilmente, cercando di lavare via il sangue.
Ma l’acqua era incolore. La sensazione di caldo e appiccicoso non svaniva.
Una porta lontana da me si aprì ed entrò qualcuno; pochi minuti dopo era dietro di me e mi stringeva tra le sue braccia. Mi ribellai alla presa, strillando e dimenandomi come un uccello che ha l’uncino di un amo artigliato in gola: provavo dolore in tutto l’apparato respiratorio.
Lui non si fece intimidire, sussurrava parole di conforto al mio orecchio, parole che nemmeno capivo ma che lentamente si aprirono un varco fino alla parte più profonda di me, e mi calmarono senza che me ne accorgessi. Così mi lasciai scivolare fra le sue braccia.
Le mie ginocchia toccavano terra, le mie mani erano premute contro il mio volto perché non volevo aprire gli occhi e vedere di nuovo il sangue del Maestro, che non riuscivo a lavare.
-Non va via, il sangue non va via- singhiozzai. –Non sono riuscito a salvarlo.
-Midorikawa, Midorikawa-. Riconobbi Hiroto a fatica: non l'avevo mai sentito dire il mio nome in modo così dolce e accorato. Non diceva altro, solo il mio nome, come una litania. Mi lasci trascinare dalla sua voce e, quando guardai di nuovo le mie mani, il sangue non c’era più. O forse non c’era mai stato, avevo immaginato tutto. La voce di Hiroto, ripetendo il mio nome, aveva compiuto un piccolo incantesimo e mi aveva dato il coraggio di aprire gli occhi alla realtà. Quando lo compresi, lo ringraziai mentalmente e mi lasciai andare totalmente al suo corpo, l’unico che mi fosse di conforto in quel momento.
 
xxx
 
-Mi dispiace. Ho detto loro di aspettare, ma non hanno potuto.
Il funerale del Maestro era già finito.
Era stato tenuto la mattina del quattro dicembre, tre giorni dopo la sua morte; io, che ero ancora in ospedale, non avevo potuto prenderne parte.
-So che ci tenevi. Mi dispiace molto.- Hiroto suonava sincero, e comunque non vedo perché avrebbe dovuto mentirmi.
Non avevo dimenticato che era stato lui a calmarmi al mio risveglio, quando ero stato preda di una crisi isterica, e Kazemaru mi disse che era stato proprio Hiroto a trasportarmi in braccio fino all’ospedale mentre ero svenuto.
-Non preoccuparti. Sono certo che hai fatto il possibile- risposi con un sorriso sbiadito.
Lui annuì. Kazemaru ed Endou camminavano al nostro fianco, in silenzio.
Vero, mi ero perso il funerale, ma niente mi vietava di andare a trovare la sua tomba: era stato quello il mio primo desiderio non appena dimesso dall’ospedale.
Il Maestro Jordaan era stato seppellito accanto a sua moglie in un cimitero poco fuori città, dove lei era nata; si trovava in un ampio spazio verde, nel quale si ergevano di tanto in tanto dei salici, o dei tempietti di marmo bianco.
Passammo accanto ad uno di questi, davanti al quale c’era una folla di persone. Riconobbi Edgar Valtinas, poi Reina, Maki, Gazel, Burn. Hiroto fece loro un cenno, mentre io tirai avanti senza salutarli né incrociare i loro occhi puntati su di me: sentivo che se avessi letto pietà nelle loro espressioni, ne sarei morto.
Un paio di agenti mi scoccarono un’occhiata sospettosa. Avrei voluto ignorarli, ma sembrava che volessero farmi sentire di proposito le loro chiacchiere.
-Sembra che il Maestro possedesse una spilla che valeva diversi milioni…
-Già. Era stata presa in custodia dall’Agency, ma è misteriosamente sparita.
-Peccato! Ci si poteva ricavare un bel gruzzolo…
Mi fermai, indeciso se colpirlo o no. Oscillavo decisamente per un sì, quando un rumore secco e un gemito mi fecero voltare: Reina gli aveva appena tirato un pugno sul naso, e l’uomo stava piegato con le mani premute sul viso rigato di sangue. Rotto, senza dubbio.
-Ehm… da perfetto gentleman inglese, devo dire che questo non è il modo più corretto per esprimere il proprio dissenso- fece notare Edgar, accigliato. Ma tratteneva un sorriso.
Reina si spostò i capelli con un gesto seccato.
–Lo so- disse. -Ma ha fatto sentire meglio me. E sicuramente anche qualcun altro…
In effetti, osservai, Maki e Burn stavano ridendo e persino Gazel sorrideva compiaciuto. Però lo sguardo di Reina era rivolto soprattutto a me. Con le labbra formai la parola “grazie” e le mandai un timido sorriso, poi mi voltai e tornai a procedere verso la tomba.
Arrivato a pochi metri, sentii le ginocchia cedere.
-Stai bene?- chiese subito Kazemaru. Endou e Hiroto mi offrirono le braccia, ma le rifiutai.
-Sì. Scusatemi, ma… voglio proseguire da solo- dissi, cupo. Non fecero nessun cenno d’assenso, però non mi seguirono quando ripresi a camminare e rimasero fermi ad osservarmi con preoccupazione. Lo apprezzai molto.
Davanti alle loro tombe, di Alistair e Brielle Jordaan, inizialmente il respiro mi mancò e non seppi più cosa fare o dire.
Poi però sospirai e mi inginocchiai davanti a loro; respiravo piano mentre scavavo un piccola buca fra le due tombe, in profondità, e ci infilavo dentro la spilla, nascondendo sotto metri di terra il suo luccichio. Sarebbe stata loro, per sempre.
-Addio- sussurrai e mi alzai.
E mentre tenevo lo sguardo fisso sul cielo azzurro, mi sentii diverso.
 
Ero cambiato. Ero cresciuto.
Una nuova pagina della mia vita stava iniziando a scriversi…











**Angolo dell'Autrice**
Salve :D
E così finalmente sono riuscita a finire una parte della storia: con questo capitolo - ma va?- si conclude il Jordaan's Arc.
Avevo programmato il tragico epilogo della storia dall'inizio, sin da quando avevo creato il personaggio di Alistair Jordaan. Questo mi era parso l'unico modo giusto per farlo uscire di scena.
Spero che non mi odierete per questo...

In ogni caso, come già preannunciano le ultime due frasi, dal prossimo capitolo si apre una nuova fase della storia. Ci saranno alcuni capitoli di passaggio e poi si passerà al secondo arco narrativo, in cui probabilmente ci sarà Angst a palate per via del nuovo disgraziato personaggio che apparirà :'DDDD
Midorikawa è cresciuto un po'... e dovrà fare tesoro delle esperienze passate per affrontare le difficoltà che ancora lo aspettano nel cammino che si è scelto! 
Mi farebbe super piacere se continuaste a seguirmi 
Kisses,
Roby

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Capitolo 15
*** Mission 15. ~Decision01 ***


Uno strillo, seguito da un rumore contro il vetro della finestra, mi fece sobbalzare.
Le carte mi volarono via di mano e si accatastarono sul pavimento. Le fissai rassegnato: i lavori d’ufficio non sono per niente il mio forte… Ma il vero problema era che, con l’arrivo del Natale, il lavoro giù si era accumulato in quantità tali da coinvolgere alcuni agenti come noi anche in questi lavoretti che solitamente non ci toccavano.
Mi alzai ed aprii la finestra, e una pigna gelata mi volò nella stanza.
-Mido-chan, scendi! Guarda come nevica!- gridò Maki.
Indossava un lungo cappotto bianco, e se non fosse stato per i capelli e gli occhi vivaci si sarebbe mimetizzata perfettamente nella neve.
Aveva delle pigne in mano.
-Ma sei impazzita?- risposi di rimando. –Con una di quelle mi hai quasi colpito in fronte!-
-E dai, musone!- rise lei. –Ci sono anche Gazel e Haruya!-
-Avanti, Midorikawa, non fare la femminuccia!- aggiunse Burn: la fiamma rossa sulla sua testa spuntava in modo particolare al di sopra dello spazio bianco intorno a lui.
Gazel se ne stava appoggiato ad un palo della luce spento, con le braccia strette al petto, come se il maglione enorme che aveva indosso non bastasse a tenerlo caldo.
-Va bene!- Decisi di assecondarli. –Metto la giacca e scendo.- Beh, al diavolo il lavoro.
Gettai un’occhiata al cappotto, poi un brivido di freddo mi convinse a mettermi anche il maglione marrone a girocollo che mi era stato regalato dalla famiglia di Kazemaru. Mi infilai sopra il cappotto e ai piedi gli scarponcini di pelliccia e scesi di corsa.
-Già finito il lavoro?- chiese Reina vedendomi passare nel corridoio.
-Certo- mentii, risi. Reina mi sorrise e si strinse la giacca al petto.
-Certo- ripeté, rendendo chiaro che non ci credeva per niente. Poi mi seguì nel cortile sul retro, dove Maki e gli altri ci aspettavano.
Mi fermai, sorpreso. Il cortile era deserto, immerso in una così vasta distesa di bianco che sembrava di star sospesi nel nulla... Mi permisi di chiudere un attimo gli occhi e sospirare.
L’aria era pulita e bella, anche se fredda, e il cielo era terso.
Il nuovo anno era cominciato da una settimana e devo ammettere che la fine del vecchio mi aveva fatto sentire molto meglio: era passato appena un mese e mezzo dalla morte di Jordaan.
Dopo il primo periodo d’intenso dolore, la sofferenza si era attenuata fino a rendere piacevoli i ricordi che avevo di lui, e ora mi sentivo più maturo, calmo, rilassato.
E poi, l’anno nuovo aveva portato anche un’altra cosa: l’amore.
Un rumore affrettato di passi ruppe l’incanto del bianco, e poco dopo un istante di gelo intenso e pungente mi disse che avevo ricevuto una palla di neve sulla nuca. Mi affrettai ad asciugarmi con le dita dei guanti prima che le gocce gelide scendessero lungo la schiena.
Pochi metri più in là Burn e Maki si tenevano la pancia dalle risa.
-Lo trovate molto divertente vero?- chiesi accigliato.
-Abbastanza, sì- rispose Burn con un ghigno, che scomparve ben presto quando Gazel gli infilò una manciata di neve nella maglia: dalle smorfie che fece intuimmo che l'acqua gelida gli stesse scendendo lungo tutta la spina dorsale, con sensazioni non proprio piacevoli.
Scoppiai a ridere. –Sì, hai ragione, è molto divertente!- esclamai.
Reina sorrideva, Maki aveva persino le lacrime agli occhi.
-Gazel, piccolo bastardo, questa me la paghi!!- Burn ringhiò e iniziò ad inseguire il compagno per vendicarsi.
-Che bambini... fanno sempre così, ma alla fine Burn non farebbe mai del male a Gazel- osservò Reina.
Aveva ragione: in qualunque modo li si guardasse, l’affetto e la stima che Burn e Gazel provavano l’uno verso l’altro era evidente persino in momenti come questi.
-Non startene troppo rilassato, Mido-chan!- gridò Maki, e scansai di poco un mucchio neve che mi aveva lanciato contro.
-Allora è guerra…- mormorai, sogghignando. Lei ricambiò con una linguaccia.
Mi abbassai a prendere un bel mucchio di neve e iniziai ad inseguirla per infilargliela nella giacca. Quando riuscii ad afferrarla da dietro e quasi la sollevai da terra, iniziò a dimenarsi.
-No… no!- strillò, ma la sua voce era un misto di preoccupazione di divertimento.
Risi, ero quasi riuscito nel mio intento quando Kazemaru arrivò di corsa.
-Midorikawa! Midorikawa!- gridava. Sembrava parecchio agitato. Si fermò e si piegò sulle ginocchia a prendere fiato, aveva tutto il viso rosso e i capelli in disordine.
Lasciai andare Maki, che sospirò di sollievo. Raggiunsi il mio partner in pochi passi.
Mentre Burn e Gazel erano ancora impegnati a rincorrersi (o meglio: Burn correva menando palle di neve a destra e a manca e Gazel si limitava ad evitarle con eleganza), Reina e Maki si avvicinarono curiose.  -Che succede, Kazechan?- chiese la più piccola.
-Endou mi ha…- Kazemaru alzò il volto, affannato. –Endou mi ha invitato ad uscire con lui questa domenica!!- disse velocemente, poi divenne paonazzo.
Restammo a bocca aperta. Reina fu la prima a parlare:- Beh… buon per voi, no?
-Un appuntamento! UN APPUNTAMENTO!- strillò Maki. Quasi più eccitata di Kazemaru stesso, gli prese le mani e iniziò a ballare facendolo girare con sé. –Ti vestirò personalmente! Sarai perfetto, vedrai!
Kazemaru annuì e mi guardò. Gli sorrisi, felice per lui con tutto il cuore, anche se ero pervaso da un insolito senso di allarme. Mentre cercavo di capire cosa riguardasse, un pensiero mi colpì.
Come sarebbe riuscito Kazemaru a sostenere un appuntamento con Endou se in sua presenza non riusciva a mettere due parole di fila?
 
xxx
 
Quel giorno Kazemaru indossava un cardigan bianco sopra un paio di pantaloni blu scuro, i cui orli erano stati infilati negli stivali in modo che il tessuto formasse due morbidi palloncini all’altezza dei polpacci; il tocco di classe, un cappello alla francese, lasciava facilmente intuire che ogni singolo pezzo di quel completo era stato scelto da Maki, la quale aveva insistito per occuparsi di lui per le due ore e mezza precedenti all’appuntamento.
-Kazemaru!- La voce allegra di Endou lo fece sussultare. Kazemaru divenne rosso in viso e balbettò un saluto. Sospirai: non cominciavamo affatto bene.
-Hai freddo? Tremi- osservò Endou preoccupato. Con il braccio avvolse le spalle del mio compagno, attirandolo a sé. Kazemaru scosse il capo e si sforzò di sorridere malgrado quel contatto fisico lo stesse mandando in tilt.
Dal mio nascondiglio, mi dissi che avevo fatto decisamente bene a seguirli per assicurarmi che tutto andasse per il verso giusto.
Mi chiesi come cavolo facesse Endou a non capire che a far tremare Kazemaru era più l’eccitazione e il nervosismo che il freddo, e quel braccio intorno alle spalle non aiutava. E come avrebbe fatto il mio amico a sopravvivere? Sperai che non svenisse, o fuggisse.
Si avviavano verso l’entrata del parco.
Feci un passo per uscire dal nascondiglio, ma Endou si voltò nella mia direzione e io fui costretto ad abbassarmi rapidamente, scomparendo dietro un muretto.
Da là sotto, li vidi attraversare la strada e mettersi in fila all’entrata, dove si concentrava il flusso di persone.
Il parco era dominato dal verde della natura e dal giallo dei sentieri; dei bambini correvano e lasciavano liberi palloncini rossi, rosa, verdi, gialli, arancioni, che volavano su stagliandosi nell’azzurro del cielo. Un’immensa ruota panoramica azzurro confetto sovrastava la parte est del parco e non potei fare a meno di pensare che fosse bellissima… Stava vicino alle giostre per bambini, dalle tazze ai cavallucci, e doveva essere stata costruita di recente, perché non la ricordavo. La superficie metallica rifletteva la luce del sole, la trasformava in luce propria dando l’impressione che la giostra fosse avvolta in un unico, scintillante involucro di luce bianca, mentre sui vetri delle cabine si rifrangevano i colori dell’iride. Anche di notte, grazie ai faretti e alle luci sistemate sui raggi della ruota, doveva essere uno spettacolo incantevole.
La osservavo rapito quando, improvvisamente, un’altra immagine si sovrappose a ciò che vedevo: un’altra ruota, grigia ed arruginita, in rovina. La vedevo sempre, quando vivevo per strada. In effetti, era l'unica cosa che ricordavo vividamente del periodo che precedeva la mia adozione da parte dei Kazemaru.
Rigettai il ricordo, seccato. Mi stavo distraendo troppo. Gettai un’occhiata alla folla ed intravidi la testa azzurra di Kazemaru vicino ai cancelletti d’entrata. Non potevo perderli. Nella fretta di seguirli, scavalcai il muretto con un salto e mi lanciai in strada così velocemente che non vidi neanche il colore del semaforo; il dubbio mi venne solo quando una Honda grigia non mi tamponò per un soffio, a pochi metri dal marciapiede della biglietteria. Subito dopo, qualcuno mi afferrò per un braccio e mi tirò via dalla strada. La macchina suonò il clacson e coprì le prime parole che il mio salvatore mi rivolse.
-Ma non ti ha insegnato nessuno ad attraversare la strada?!
Alzai il capo e sussultai quando incrociai occhi verdi colmi di preoccupazione e di rimprovero. Annuii, ma dalla mia espressione confusa Hiroto dovette capire che non lo stavo ascoltando.
-D’accordo, è capitato- sospirò. -Però la prossima volta sta più attento... Non sto certo qua a salvarti la vita tutti i giorni!- sbottò e lasciò il mio braccio lentamente. Di norma avrei subito reagito rispondendogli per le rime, invece stavolta rimasi ad osservarlo a bocca aperta. Perché Hiroto Kiyama sembrava sempre spuntarmi davanti ovunque io andassi?
-Qualcosa non va?- La domanda di Hiroto mi riscosse dai miei pensieri su di lui. Per fortuna.
I miei occhi guizzarono verso l'entrata del parco, Endou e Kazemaru erano quasi entrati. Mi girai verso Hiroto ed accennai una risata sperando che non risultasse troppo nervosa.
-Ah, uhm, grazie mille per prima... Scusami, eh, ora devo proprio andare!- esclamai. Prima che potessi correre via, però, Hiroto mi afferrò per il cappuccio della felpa.
-Fermo lì: dove staresti andando? - esclamò. –Ora che ci penso... Non avevi del lavoro d’ufficio da sistemare?- aggiunse, aggrottando la fronte. Per un momento pensai di inventarmi una scusa, poi ci rinunciai e lo guardai torvo.
-E perché tu, invece, non ce l’avevi?- borbottai, cupo.
-Ce l'avevo. Ho semplicemente finito in fretta- ribatté lui, scrollò le spalle come a dire "che ci vuoi fare, sono bravo". Non stentavo a credere, in effetti, che avesse finito il lavoro in così poco tempo: per quanto mi sforzassi di trovargli difetti, Hiroto dimostrava di essere efficiente ed affidabile ogni qualvolta si presentava l'occasione.
Non sapevo dire se ciò mi irritasse o meno.
Notai che la sua stretta era ferma, ma nervosa. Il suo sguardo si spostava da me a Endou e capii che Hiroto si trovava lì per il mio stesso motivo.
-Se non la smetti di trattenermi, li perdiamo di vista- gli feci notare, serio. Hiroto mi guardò sorpreso mentre prendevo la sua mano e la spostavo con delicatezza. Mi sistemai il colletto della felpa e mi voltai verso il parco.
-Muoviti, o ti lascio qua- minacciai, poi mi misi a correre per prendere un posto nella fila.
Endou e Kazemaru erano già entrati insieme a milioni di persone, ma ancora riuscivo ad intravederli. Con la coda dell’occhio intravidi Hiroto esitare e guardarsi intorno, come per accertarsi che nessuno ci avesse notati, poi finalmente si diede una mossa e, nel giro di pochi minuti, eccolo al mio fianco mentre attraversavamo i bassi cancelli di metallo. Eravamo nel parco.
Endou e Kazemaru, molto più avanti di noi, camminavamo talmente attaccati che era difficile capire se si tenessero per mano, nonostante i miei sforzi per sbirciare; sembravano dirigersi verso il lato est del parco… Ricordai improvvisamente un articolo letto giorni prima.
Ecco perché la ruota panoramica! Nel lato est, di recente, era stato inaugurato un piccolo angolo svago, in cui dovevano essere comprese varie attrazioni da luna park o roba simile. Non c'era solo la ruota, quindi… Che bel posto per un appuntamento! Ero quasi geloso.
-Bisogna tenerli d’occhio, assolutamente!- esclamai, eccitato, dimenticando per un momento chi avevo a fianco.
Hiroto emise un piccolo sbuffo, il che mi fece ricordare che non era mai stato entusiasta del fatto che Endou e Kazemaru andassero d’accordo. Un pensiero spiacevole mi balenò in mente…
-Senti un po’...- Mi fermai e mi voltai verso di lui con le mani sui fianchi. -Non è che sei venuto per sabotare il loro appuntamento, vero?- lo accusai, sospettoso.
Hiroto mi guardò con un'espressione indecifrabile. Per un momento pensai di aver indovinato; poi, però, lui sbuffò e alzò gli occhi al cielo.
-Oh sì, certo, mi hai proprio beccato- disse. –Ora se non ti dispiace, ho una coppia da rovinare... A quanto pare, non ho proprio niente di meglio da fare.- Non sembrava agitato, ma sotto il suo atteggiamento apparentemente tranquillo percepivo una certa esasperazione. Il suo sarcasmo mi fece avvampare di vergogna... Okay, forse ero stato un po’ precipitoso.
-Sono solo preoccupato per Kazemaru…- mi giustificai debolmente.
-Ovviamente. Come ho potuto non pensarci? Tu lo difendi sempre a spada tratta, il povero Kazemaru...
Stavo per rispondergli a tono, ma il suo sguardo mi fece desistere. Mi morsi la lingua mentre un brutto senso di colpa mi infiammava il petto. Quando fece per voltarsi, lo fermai.
-Aspetta! Mi dispiace. Io…- Deglutii. –Mi sono sbagliato.
-Wow. Allelujah. Grazie- brontolò Hiroto tornando sui propri passi. Gli scoccai un’occhiata torva e lui lasciò cadere il broncio e sospirò.
-Senti, so di non essere esattamente il principe azzurro... E so anche che non hai grande stima di me- disse, rassegnato. –Ma, che tu ci creda o no, io e te siamo qui con le stesse intenzioni.
Qualche obiezione immediata mi salì alla bocca, non solo riguardo il discorso sulle "intenzioni"; nella mia mente si era allertata una vocina molesta, che cercava di convincermi che Hiroto non era poi così male come principe azzurro. Mentre scacciavo quella stupidaggine dalla mia testa, Hiroto continuò a parlare.
-Sono qui perché sono come te. Sono solo... preoccupato per il mio partner. Voglio solo accertarmi che Endou stia bene e sia felice, va bene?- ammise, tenendo insistentemente lo sguardo fisso sul pavimento. Notai che un lieve rossore si era fatto strada sul delicato incarnato del suo viso.
-Insomma, puoi stare tranquillo... Non farei mai niente che possa rendere infelice Endou- concluse Hiroto. Quando alzò di nuovo lo sguardo e vide che lo fissavo a bocca aperta, assunse un'espressione perplessa.
-Che c’è? Hai ancora dubbi?
Chiusi la bocca e scossi il capo, imbarazzato. Bene, pensai, amareggiato: se Hiroto aveva ancora dei dubbi che io fossi stupido, ora glieli avevo tolti del tutto.
-No… Non penso che tu sia una brutta persona- confessai, sincero. Non lo pensavo più da molto tempo, ormai. Mi bastava ricordare il momento in cui mi aveva confortato dopo la morte del maestro Jordaan; ripensare alle sue braccia che mi stringevano in un abbraccio e alla sua voce che sussurrava il mio nome dava una brusca accelerata al mio battito cardiaco. Arrossii e, prima che lui potesse ribattere, esclamai in fretta:- Okay, dai, andiamo.
Hiroto annuì senza fare commenti, ma non potei fare a meno di notare il suo sguardo sorpreso e forse leggermente compiaciuto.

-
 
Mi ero preoccupato inutilmente. Kazemaru se l’era cavata molto bene, a quanto potevo vedere… Lui ed Endou si tenevano la mano, parlavano amabilmente e, ogni tanto, scoppiavano a ridere insieme. Sembravano ubriachi di felicità: in effetti, Kazemaru ridacchiava come fosse stato un po' brillo.
Mi sorpresi persino a provare un piccolo moto di gelosia pensando che quell’espressione di gioia era riservata solo a Endou Mamoru; ma come potevo arrabbiarmi per una sciocchezza del genere, mentre il mio migliore amico viveva forse il giorno più felice della sua vita?
Hiroto, che era rimasto accanto a me per tutto il tempo, stava in silenzio. Non sapevo esattamente se la cosa dovesse farmi piacere, o inquietarmi. Non disse una parola nemmeno quando li vedemmo dirigersi verso la ruota ed entrare in una cabina insieme.
Mi fermai a pochi metri dalla giostra, valutando le mie opzioni: seguirli dentro la ruota era fuori discussione. Sarebbe stato troppo imbarazzante e... In effetti, dubitavo anche che Hiroto avrebbe accettato di salirci con me.
Quella costatazione mi colpì come un pugno allo stomaco e subito cercai di convincermi che io stesso non sarei sopravvissuto allo stare un quarto d’ora a fissare Hiroto in una cabina di pochi metri quadri... Sì, non sarei sopravvissuto, ma non per i motivi che cercavo disperatamente per negare la verità.
Il problema era che Hiroto mi piaceva. Mi piaceva davvero. Probabilmente ero affascinato da lui fin dall'inizio, ma, da quando avevo scoperto quanto potesse essere dolce, quella semplice attrazione era diventata qualcosa di molto più profondo e terrificante. E, quanto più lo negavo, più capivo quanto ero perso per lui.
Mi accorsi che lo stavo fissando e distolsi lo sguardo di scatto. Sicuramente ero rosso in viso, ma non sapevo se Hiroto se ne fosse accorto, perché il suo sguardo era fisso sulla ruota. Capii che, come al solito, stava pensando solo a Endou e mi ritrovai a provare un soffocante, inaspettato bisogno di attenzioni.
Il mio sguardo allucinato vagò sulla sfumatura violacea che il cielo invernale andava assumendo anche se erano appena le sei, poi sulle luci lampeggianti che illuminavano la giostra con le tazzine, dalla quale proveniva una soffusa melodia.
Allora mi decisi: afferrai il braccio di Hiroto e lo tirai con forza verso la giostra. Il ragazzo mi guardò stralunato, ma, forse proprio per la sorpresa, non oppose resistenza mentre lo trascinavo sulle tazzine di metallo luccicante.
-Che fai?- chiese quando lo feci sedere. Un bambino passò con la propria madre e ci indicò ridendo. Scrollai le spalle.
-Beh... è inutile stare lì a fissare la ruota… Aspettiamo che escano- dissi.
-Qui?- Hiroto alzò un sopracciglio, ma non sembrava infastidito, quanto piuttosto curioso e divertito.
Le tazzine iniziarono a muoversi, girando lentamente. Hiroto si sistemò meglio; per stare più comodo, dovette piegare le gambe e tirarle a sé. Mi scappò una risata: le tazzine, a misura di bimbo, erano decisamente troppo piccole per ragazzi così grandi. Benché Hiroto fosse un po' più basso di me, avevamo entrambi gambe fin troppo lunghe per quel tipo di giostra. Visti dall'esterno, dovevamo apparire veramente ridicoli, però non m'importava. Mi stavo sinceramente divertendo, cosa che fino a pochi mesi prima non pensavo fosse possibile in sua compagnia.
-Non ridere, è stata un'idea tua- mi rimbeccò Hiroto, notando che gli angoli delle mie labbra erano piegati all’insù.
-Scusa, scusa- dissi ridendo. Hiroto sbuffò ed abbassò lo sguardo, ma notai l'ombra di un sorriso sulle sue labbra.
-Era da tanto che non salivo su una giostra- commentò. Non aggiunse altro, io non feci domande e nessuno di noi due parlò più. Il silenzio, per il resto del giro, fu riempito da voci infantili e musica.
La risata mi si spense in gola mentre osservavo rapito il profilo di Hiroto, ritagliato dalle luci della giostra contro il buio del pomeriggio. Qualunque ricordo gli avessi fatto venire in mente lo aveva reso triste. Il suo sguardo seguì i movimenti dei bambini che saltavano su e giù sui sedili delle tazzine, ma ebbi l'impressione che stesse guardando più lontano di così, verso un passato nostalgico. Chissà cosa vedeva, guardando quei bambini? In quel momento, era lontano dal presente e da me.
E io invece volevo che mi guardasse, che prestasse attenzione a me, solo a me, come quando mi aveva abbracciato. Volevo che si accorgesse che era lì con me, e non in chissà quale altro luogo del suo passato a cui sembrava così devotamente legato.
Quando la giostra si fermò, il giro mi parve finito troppo tardi e troppo presto allo stesso tempo. Hiroto si alzò e scese. Sospirai e lo seguii, ma dopo pochi metri sbattei contro la sua spalla; alzai lo sguardo interrogativo, curioso di vedere perché si fosse fermato di colpo.
Notai subito che pure la ruota panoramica aveva terminato il suo giro, squadrai le cabine e anch'io, come Hiroto, mi pietrificai: Endou e Kazemaru erano stretti in un abbraccio solido e si stavano baciando, entrambi rossi in viso per il freddo e l'imbarazzo.
Sentii una stretta al petto tanto forte da soffocarmi per alcuni minuti; poi un’emozione immensa, agghiacciante, ma soprattutto straniante, mi travolse come una tempesta e mi sconvolse totalmente. L’avevo conosciuta già, solo che ora brillava di una luce leggermente diversa… 

Il dolore di vedere una persona amata che si allontana da te. 




xxx
 
**Angolo dell’Autrice con le ginocchia martoriate (?)**
Buongiornooo.
Sono mattutina, lo so ma se sono quasi le undici xD
On realtà il capitolo l’ho scritto ieri, ma poi visto che avevo problemi di connessione ho deciso di non pubblicarlo. Invece, che ho fatto?
Sono andata a giocare a basket, ho fatto un bel volo e mi sono aperta le ginocchia sull’asfalto!Un macello, davvero XD
Ma passando al capitolo: mi sono divertita molto a scriverlo!
Non solo perché finalmente c’è un po’ di amore nell’aria, ma anche per la scena iniziale in cui tutti si divertono nella neve. Anche la scena delle tazzine mi soddisfa abbastanza :)
Questo e il prossimo capitolo sono da considerarsi di passaggio, perché fanno da “ponte” fra due Arc.
 
Kisses,
        roby

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Capitolo 16
*** Mission 16. ~Decision02 ***


Mi portai una mano al petto, sconvolto.
Lo shock mi aveva tolto per un attimo il respiro; quella sensazione di dolore mi aveva colpito così forte, così all’improvviso da impedirmi di reagire subito.
Avevo già provato il dolore di perdere qualcuno (e neanche troppo tempo prima), ma stavolta era molto più… come dire, dispersivo: come se invece di un gomitolo, mi trovassi a che fare con una matassa di fili ingarbugliati. E non riuscivo a districarmene.
A ricordarmi dov’ero e cosa stava succedendo intorno a me, ci pensò Hiroto.
Alzò il braccio e cominciò ad agitarlo, mentre urlava:- Endou!
Sussultai e il mio sguardo corse da lui all’altro capo del viale, dove Endou e Kazemaru stavano passeggiando abbracciati; al richiamo di Hiroto Endou si voltò e sorrise, incerto.
Quando anche Kazemaru seguì il suo sguardo e vide me con Hiroto, entrai nel panico e iniziai a dare dei colpetti alla spalla di Hiroto per dirgli di andare via, ma sapevo che era inutile.
Era inutile perché ormai lui aveva urlato, perché ormai ci avevano visti e perché Hiroto non aveva alcuna intenzione di andarsene.
Endou e Kazemaru si avvicinarono.
-Ehilà, Hiroto! Che ci fai da queste parti?- esclamò Endou ingenuamente.
-Nulla di ché. Passavo di qua, poi ho incontrato Midorikawa e mi sono unito a lui- rispose il rosso ed Endou scoppiò a ridere.
-Ma dai! Davvero? Quando vi ho visti insieme, ho pensato che foste nel bel mezzo di un appuntamento! Sembrate così affiatati!- commentò divertito. Arrossii e gli lanciai un’occhiataccia.
-Veramente io…- stavo per protestare, ma lo sguardo interrogativo di Kazemaru puntato addosso mi fece distogliere lo sguardo. La mia protesta si perse del tutto in un borbottio.
-Forse avrei dovuto chiederglielo, un appuntamento- rispose Hiroto con apparente tranquillità.
Ero sconvolto dalla facilità con cui mentiva al suo migliore amico. Come poteva non sentirsi in colpa? Io mi sentivo una merda solo perché Kazemaru mi fissava insistentemente.
-Avresti accettato, Midorikawa?- mi chiese Hiroto con un sorriso.
-Certo che no!- risposi, un po’ troppo precipitosamente. Hiroto e Endou risero, Kazemaru parve un po’ sollevato.
Ebbi il sospetto che Kazemaru credesse davvero che Hiroto ed io fossimo usciti insieme, e la cosa non mi garbava molto.
-E tu, Endou? Non hai niente da dirci?- continuò Hiroto, piano.
Io e lui scoccammo contemporaneamente un’occhiata al braccio di Endou, che era ancora avvolto intorno alla vita di Kazemaru, forse pensando la stessa cosa.
-Oh sì! Ho una notizia buona. Io e Kazemaru ci siamo messi insieme!- annunciò Endou allegro.
Kazemaru avvampò e abbassò lo sguardo, forse timoroso delle nostre reazioni.
-Che bello. Sono felice per voi- mi affrettai a dire, nel tentativo di rassicurarlo.
Kazemaru mi sorrise, riconoscente. Beh, era vero: ero felice per loro. Perché non avrei dovuto dirlo? O almeno, questo era quello che sentivo io…
Ma dentro di me, quella sensazione di dolore non si era spenta.
-Anche io… sono contento per te, Endou- dichiarò Hiroto. La sua voce era bassa e controllata. Endou gli fece un gran sorriso e Hiroto ricambiò.
Alzai lo sguardo verso di lui e capii.
 
-
 
Tornammo all’agenzia tutti e quattro insieme, parlando del più e del meno, poi arrivati nel corridoio principale Endou annunciò che sarebbe andato da tutti a dargli la buona notizia; Kazemaru, quasi morto d’imbarazzo, gli pregò di non farlo, ma il suo ragazzo era già partito di corsa su per le scale e al mio partner toccò inseguirlo.
Mi trovai di nuovo solo con Hiroto.
-Ehm, dovrei posare dei documenti in quest’ufficio. Ci vediamo…- Cercai di cavarmi d’impaccio come meglio potevo, ma il nervosismo nella mia voce suonava troppo evidente.
Hiroto, comunque, scelse di non farci caso.
-No, ti accompagno… Non che abbia molto da fare adesso- disse.
-E questo che vorrebbe dire?- Lo guardai accigliato.
-Dai, abbiamo appena avuto un "appuntamento", a quanto pare. Non trattarmi con tanta freddezza.- Hiroto mi sorrise e capii che stava scherzando. Gli feci una linguaccia.
-Non abbiamo avuto nessun appuntamento, non montarti la testa- replicai, lui rise leggermente.
Mi aspettò sulle scale mentre trovavo i documenti già compilati nel caos primordiale della mia camera (non avevo ancora finito di mettere tutto a posto dopo la mattinata sulla neve con Maki e gli altri) e poi mi seguì mentre tornavo giù all’ufficio.
Mentre io cercavo il cassetto giusto in cui mettere la cartellina, Hiroto chiuse la porta e si sedette su una scrivania.
-Allora... Che ne pensi?- chiese d’un tratto. 
Alzai lo sguardo, sorpreso. –Di cosa?
-Di quei due, ovviamente. Mi sembrano una bella coppia. Si vede che Endou è molto felice.
Lasciai cadere la cartellina nel cassetto e lo chiusi di botto.
-Sì. Anche Kazemaru è felice... e io lo sono per lui. Anche se, ad essere sincero, credo che questo ci allontanerà, mi dispiace dirlo- mormorai.
Strizzai gli occhi e poi mi voltai con decisione. –E tu invece cosa ne pensi?
Hiroto non rispose subito. Era sorpreso, ma anche pensieroso.
Distolse lo sguardo da me e parlò con la stessa voce bassa e mite di prima, mentre sollevava una mano per passarsela nei capelli.
-Kazemaru non è il mio tipo, ma se ad Endou sta bene non vedo a me cosa dovrebbe importare…
-Non è quello che volevo sentire- lo interruppi.
La sua mano si fermò a mezz’aria, pietrificata, mentre io proseguivo:- Come puoi mentire così? Come fai ad essere così tranquillo? Tu…- Presi fiato. Non sapevo se dirlo o no, ma arrivati a quel punto che senso aveva nascondere che lo sapevo?
-Tu… eri innamorato di lui, vero?- mormorai. -Eri innamorato di Endou.
Hiroto restò immobile, solo un leggero tremito mosse la sua mano. Se la portò alle labbra, mentre l’altra mano si chiudeva, aggrappandosi al metallo freddo della scrivania.
Lo osservavo con crescente tensione. Guardarlo soffrire così faceva male anche a me, ma ero deciso a non distogliere più lo sguardo. Non avrei più fatto finta di non vedere.
Quando Hiroto parlò, finalmente, mi sembrò passata un’eternità.
-Come fai a dirlo?- domandò. La sua voce non era più mite: era turbata, tremava. -Perché tu te ne sei accorto? Perché proprio tu?
Sentivo le lacrime salirmi agli occhi, il dolore mi travolse di nuovo: toglieva il respiro, ma non faceva altro che rendermi ancora più convinto della mia teoria.
-Perché tu sei educato con tutti, ma con lui sei gentile... Lo tratti sempre in modo diverso- dissi, deglutii.
-Davvero non lo sai, Hiroto, perché proprio io me ne sono accorto? Davvero non lo sai che io… ti osservo sempre?- Mi morsi il labbro inferiore; le parole che uscirono dalle mie labbra subito dopo mi facevano venire da piangere.
-Tu… mi piaci, Hiroto.
Le lacrime scesero lungo le mie guance. Hiroto fece cadere le braccia lungo il corpo e si voltò completamente verso di me con sguardo afflitto.
- Mi dispiace, Midorikawa. Io… non so... non so cosa dirti- rispose, sincero. –Sto cercando di dimenticarlo, ma non riesco a guarire così velocemente. Endou è sempre stato importante per me, ma mi ha sempre respinto dolcemente, non ha mai creduto che i miei sentimenti per lui fossero veri. Sto già cercando di dimenticarlo... ma ci vorrà un po' di tempo. Perdonami.
Annuii e finalmente mi concessi di chiudere gli occhi, ma le lacrime non si fermarono; quel dolore non cessava, anzi era più forte…
Non era mio.
Sentii Hiroto alzarsi e poco dopo le sue dita mi sfiorarono il viso.
-Perché stai piangendo?- mi chiese, gentile.
-Mi dispiace- singhiozzai. –Perdonami… ma io… temo di essere troppo empatico.- Non aggiunsi altro, non ci riuscii. Dapprima Hiroto sembrò sorpreso, confuso; poi però un lampo di consapevolezza gli balenò nello sguardo.
Senza pensarci due volte, Hiroto mi afferrò un braccio e mi attirò a sé: fu l’abbraccio più caldo che io avessi mai sperimentato fino a quel momento. Nonostante tutto, Hiroto non pianse; inizialmente pensai fosse strano, ma poi mi resi conto che lui era fatto così, non piangeva mai davanti a nessuno.
Hiroto mi tenne stretto in silenzio, nascose il viso nei miei capelli ed io mi aggrappai forte a lui, accettando dentro di me il suo dolore… L’avevo già accettato.
 
-
 
Nelle settimane successive, Hiroto ed io non ci rivolgemmo più la parola se non in casi strettamente necessari, come il “buongiorno” a colazione”, o il “ciao” casuale che ci scambiavamo incontrandoci nei corridoi. Eravamo troppo in imbarazzo per fare altrimenti.
Agli occhi degli altri, non c’era stato nessun mutamento nel nostro rapporto; ovviamente nessuno dei due aveva fatto parola dell’abbraccio e delle lacrime e di tutto il resto.
Non ne parlai nemmeno a Kazemaru e Reina, pur essendo i miei amici più vicini. Sentivo che quella era una memoria che dovevo tenere per me, era solo mia... ed avevo l’impressione che anche Hiroto la pensasse così.
In presenza di Endou, lui continuava a sorridere come nulla fosse. Mentiva come io non sarei mai riuscito e questo mi turbava talmente tanto che finivo sempre col distogliere lo sguardo, incapace di sopportare.
Del resto, non ebbi neanche l’occasione per mentire a Kazemaru, perché lui non si accorse di nulla, e in ogni caso lo vidi molto poco durante quelle due settimane: Tokyo se ne stava in pace, non c’erano missioni e Kazemaru passava tutto il suo tempo libero con Endou.
Poi venne febbraio, e il tre di febbraio Hitomiko ci convocò tutti nell’aula magna.
Era l’inizio di qualcosa di nuovo.
 
-Dunque, la strategia di cattura di Garshield è ad un punto morto. Abbiamo bisogno di più prove, informazioni per poterlo mettere sotto…-
La voce di Hitomiko rimbombava nella sala, dando vita ad una specie di eco profondo, come una litania che faceva sbadigliare.
Quando Kazemaru mi raggiunse e si sedette di fianco a me, mi tamburellò sulla spalla ed io sobbalzai. Lui ridacchiò.
-Mammia mia, quanto sei sveglio stamattina.- commentò.
-Sapessi…- borbottai. –L’eco che c’è qua dentro è orrendo. E non ho dormito tanto bene…
Kazemaru si voltò verso Hitomiko, pur non ascoltando una parola.
-I soliti incubi sulla tua infanzia?- mormorò.
Annuii: a parte quegli strani sogni e casuali sensazioni di déjà-vu, il mio passato non era solito tornare a tormentarmi. Sapevo che ci voleva ben’altro, per disseppellire ciò che avevo scordato.
Nei miei sogni non c’era che buio, e ogni tanto una voce… Non sapevo chi fosse.
Ma non erano solo gli incubi a tormentarmi.
-Ascolta, Kazemaru, io…- mormora, ma mi accorsi che non mi stava più sentendo: Endou era entrato in sala con Hiroto e si era seduto in fondo alla sala, da dove parlava a gesti con il mio partner. Sospirai: avevo perso la sua attenzione.
Succedeva spesso, ormai. Era una cosa che odiavo, e speravo che quella fase finisse presto. In fondo, Kazemaru ed io ci conoscevamo da più tempo.
 -…ed è per questo che ci è stato proposto un gemellaggio con l’altra squadra giapponese di Hokkaido. Il loro capo, una Spy Eleven, si è offerto di mandare una sua recluta da noi per aiutarci, mentre noi invieremo una nostra lì per controllare la situazione.
Solo allora guardai Hitomiko e capii che stava succedendo qualcosa d’importante. Non era una semplice riunione per fare il piano della situazione. Guardandomi attorno, vidi che molti stavano parlando con i colleghi più vicini, bisbigliando e mormorando parole che non riuscivo a capire. Sembrava che tutti fossero tutti curiosi ed eccitati.
-Che succede?- chiesi sottovoce a Reina e Maki, che erano sedute alla mia destra.
Fu Reina a rispondermi.
–La Spy Eleven di Hokkaido ha individuato dei movimenti sospetti in quell’area. Ci ha proposto un gemellaggio- disse sottovoce.
-Uniamo le forze, eh?- osservò Maki con aria pensierosa.
-Chi ci andrà?- chiesi, sperando un po’ che fosse Endou, ma subito dopo avrei voluto prendermi a schiaffi per quel pensiero così egoista. Per fortuna né Reina né Maki ci fecero caso.
-No. Lo sta per dire- bisbigliò Reina. Si voltò di nuovo verso Hitomiko, e così anche Maki, mentre io abbassai lo sguardo, torcendomi nervosamente le mani.
Nel frattempo il discorso di Hitomiko era andato avanti. -Questo non è un lavoro come gli altri. Non avrete tempo di rilassarvi o divertirvi. Vi troverete in un ambiente ostile e dovrete imparare a lavorare di squadra con l'altro team in pochissimo tempo.
Hitomiko fece una pausa e il suo sguardo passò su tutti i presenti. Con quegli occhi avrebbe potuto gelare l'intera stanza. Il brusio nella stanza si spense gradualmente. Solo quando calò un silenzio assoluto, Hitomiko riprese a parlare.
-È inutile dire che il volontario dovrà essere un agente operativo. Questo è un lavoro delicato- disse con grande serietà. -Avete tutti poca esperienza, perciò sarà qualcosa di nuovo per voi. Ma credo che sarà un'ottima opportunità per crescere e maturare come persone e come agenti. Chiunque voglia offrirsi è il benvenuto.
-Potrei andare io- mormorai. Maki e Reina si voltarono verso di me, stupite.
-A che stai pensando?- chiese Reina, ma non le risposi. Ero troppo preso dai miei pensieri:le parole di Hitomiko risuonavano nella mia testa.
Qualcosa di nuovo…
Ecco la soluzione, esattamente ciò che mi serviva. Non chiedevo altro che essere spedito da qualche parte, lontano da lì. Non volevo più essere costretto a vedere Endou, Kazemaru, Hiroto. Era necessario che mi allontanassi per poter osservare da fuori la nostra situazione e tornare a pensare con lucidità.
Mi alzai in piedi di scatto e, in quel momento, ebbi la certezza che ogni singola persona nella sala avesse gli occhi puntati su di me. Andai da Hitomiko direttamente e a passo spedito, per timore che qualcuno potesse fermarmi o precedermi. E non osai guardarmi indietro, nemmeno per un istante.
Mi fermai davanti a Hitomiko e feci un mezzo inchino.
-Mi offro volontario. La prego, non mi dica di no- dissi con fermezza.
Intorno a me c’era il silenzio. Rimasi a testa china e provai a immaginare l’espressione sul volto di Kazemaru. Era scioccato? Preoccupato? E Hiroto, cosa provava? Avrei voluto scoprirlo, ma allo stesso tempo avevo paura di saperlo. Non alzai il capo finché Hitomiko non rispose.
-Molto bene. Vieni nel mio ufficio per ricevere tutti i dettagli- disse con calma. -Prenderai l’aereo che parte da Tokyo domani alle quattro di mattina. Buona fortuna, agente Midorikawa.







xxx

**Angolo dell'Autrice**
Ehilà! 
So che molti stavano aspettando questo capitolo, e di certo vi ho rovinato la festa ora mi lincerete in massa vero? facendo rifiutare Midorikawa da Hiroto.
La HiroMido è una delle mie coppie preferite; ma in verità, col passare del tempo, mi sono convinta che è Midorikawa quello più preso dalla loro relazione -da questa riflessione, nasce uno dei miei headcanon, cioè che Midorikawa ha avuto parecchi due-di-picche da Hiroto prima che lui accettasse la sua dichiarazione. 
Dunque, ho preferito così perché altrimenti il rapporto fra Hiroto e Midorikawa si sarebbe guastato subito, capite? Sarebbe avvenuto tutto troppo in fretta -cioè, non è che Hiroto poteva dimenticarsi di Endou da un giorno all'altro, non era realistico.
Mi piace come si stanno svolgendo i fatti e come si svolgeranno d'ora in poi: il prossimo capitolo sarà il primo del secondo Arc, vale a dire che comparirà uno dei personaggi principali della fic 
(che non a caso è uno dei miei preferiti ♥ e qui mi sono sgamata). 

Vorrei ringraziare tutte le persone che hanno messo fra le preferite/seguite questa fic. Grazie anche a chi recensisce, e a chi legge e non recensisce, grazie a tutti.
Spero che continuerete a seguire questa fic
 ♥  

Kisses,
Roby



 

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Capitolo 17
*** Mission 17. ~Diam's Arc. ***


Nuovo arc!!! Evviva!!!


Faceva freddo, molto più freddo di quanto ne facesse giù a Tokyo.
Nonostante indossassi il mio cappotto pesante, mi sentivo fradicio e infreddolito. Non avevo pensato di mettermi gli stivali, e le mie scarpe da ginnastica di nylon avevano assorbito l'umidità come spugne.
L’aereo era atterrato verso le cinque e mezza del mattino, ma l’aeroporto era molto lontano da dove si trovava in realtà la sede. Il mio nuovo capo (almeno in via temporanea) era venuto a prendermi in taxi. Il tragitto mi era parso interminabile, complice il traffico nella zona dell'aeroporto, che ci aveva tenuti bloccati per un'ora; nel frattempo, aveva cominciato a nevicare. Lui era rimasto in silenzio per tutto il tempo, poi ad un certo punto aveva fatto fermare l’autista in mezzo al nulla. Mi aveva ordinato di scendere, cosa che avevo fatto non solo perché lui era il mio capo, ma anche perché mi incuteva un po' di timore.
Saginuma Osamu era un uomo alto, con lunghi capelli corvini sciolti sulle spalle ed il naso adunco. I lineamenti spigolosi gli davano un’aria severa, che mi metteva in soggezione. Non mi aveva sorriso nemmeno una volta, apparentemente immerso nei propri pensieri.
Mi sfuggì uno starnuto.
Affondai il viso nel colletto imbottito del cappotto, imprecando a bassa voce contro la strada ghiacciata e in salita. La neve della notte si era indurita per il gelo, ma era stata poi coperta da un altro strato più morbido, quello appena caduto. Questo rendeva piuttosto difficile percorrere la strada, prima di tutto perché non avevo le scarpe adatte, e poi perché dovevo trascinare la valigia. Inoltre, lo zaino era abbastanza pesante, al punto che le spalline mi stavano segando le spalle. Avevo paura che, se fossi scivolato per errore, il peso dello zaino mi avrebbe sbilanciato e fatto rotolare all'indietro, vanificando gli sforzi fatti fino a quel momento.
Ma dove diavolo sono capitato…? pensai. Quando avevo detto che volevo dimenticarmi per un po’ di Hiroto e gli altri, non intendevo certo perdere la memoria per congelamento delle sinapsi. Speravo almeno che non fossimo troppo lontani dalla destinazione.
Eravamo quasi in cima alla strada quando intravidi la punta di un edificio violetto, che si ergeva dignitosamente sulla distesa di bianco. Continuando a camminare, la mia visuale migliorò e mi resi conto che il palazzo somigliava ad un piccolo castello, con delle torrette e tutto il resto. Mi fermai un attimo, confuso, ma Saginuma mi rimproverò.
-Muoviti se non vuoi diventare un pupazzo di neve- disse, secco. Se era una battuta, era terribile. Mi sforzai di restare inespressivo. Lui sbuffò, scosse il capo e riprese a camminare, costringendomi ad affrettarmi per non perderlo di vista.
Arrivati davanti al portone, Saginuma tirò fuori un mazzo di chiavi. Approfittando del fatto che fossimo finalmente fermi, provai a rivolgergli la parola.
-Uhm, Saginuma-san...
-Non chiamarmi così qui. Il mio nome in codice è Desarm- mi interruppe. Gli lanciai un'occhiata confusa, ma non sembrava uno scherzo. La sua espressione era così seria da farmi sentire a disagio.
-Sì, signore- risposi, piano. Lui parve soddisfatto.
-Ti spiegherò tutto ciò che serve sapere una volta dentro- disse.
Aprì la porta e mi fece segno di seguirlo all’interno. L'ingresso era una stanza circolare, discretamente grande. Notai subito una serie di sedie di legno dall'aria antica e un lampadario ancora più vetusto. Fissati al muro c'erano degli agganci di legno, presumibilmente degli appendiabiti. Desarm mi disse di lasciare là il cappotto, l’avrei ripreso più tardi.
Obbedii, poi mi tolsi lo zaino di dosso e cominciai a sgranchire un po' i muscoli mentre mi guardavo intorno. Una porta davanti a me dava su un corridoio tappezzato da moquette rossa. Avevo l'impressione che quel palazzo dovesse essere un vecchio castello o qualcosa del genere; non avevo idea che in Hokkaido ci fossero cose simili, per di più ben nascoste tra i ghiacci.
-Devo fare una chiamata- mi disse Desarm. -Intanto, puoi cominciare a entrare. Procedi dritto nel corridoio, prima porta sulla destra.
Se ne andò prima che potessi fare domande: s'incamminò nel corridoio, superò la porta che mi aveva indicato e sparì dietro un angolo. Mi guardai intorno, sconsolato. Non avevo scelta se non seguire le indicazioni, quindi presi la valigia e, zaino in spalla, mi avviai. Dalla stanza provenivano delle voci, si sentivano perfettamente anche nel corridoio. Non c'era una porta e, attraverso l'arcata, osservai la stanza, un ampio rettangolo in cui c'era un solo tavolo quadrato, piuttosto largo, e varie sedie. In un angolo, su un mobile a più scomparti, vidi un cestino di vimini, che conteneva una manciata di posate, due pile separate di piatti e bicchieri di terracotta e dei fazzoletti di tessuto ripiegati in quattro parti. Quel posto doveva essere la mensa.
Dentro mi aspettavano alcune persone.
La prima a farsi avanti fu una ragazzina dai lunghi capelli violetti.
-Hai della neve dei capelli- osservò, mentre gentilmente mi liberava della brina rimasta sulla coda di cavallo. Mi squadrò da capo a piedi, pensierosa, poi si sfilò la sciarpa dal collo e me la avvolse sul collo e attorno alle spalle. Arrossii per il gesto.
-Sei tutto infreddolito- commentò, sorrise. –Te la regalo, okay? Come regalo di benvenuto.
-Ti ringrazio- risposi piano. Ricambiai il sorriso, incerto.
-Di nulla. Da oggi siamo amici giusto? Qui mi chiamano IC.
Annuii. Hitomiko mi aveva avvisato che avrebbero usato nomi in codice. A quanto pareva, era un'abitudine tipica di quel team, e non avevo capito se fosse una cosa seria o soltanto un vezzo.
-Tu sei il nuovo agente, vero?- chiese IC.
-Sì… Mi chiamo Midorikawa Ryuuji, piacere di conoscerti.- dissi.
-Che nome buffo!- commentò lei ridendo, e pensai che non era affatto la persona giusta per dirmelo, ma era carina e quindi glielo perdonai.
IC si voltò e indicò un ragazzo con gli occhiali che era seduto a leggere un libro dal titolo complicato.
-IQ è il mio partner e il mio fratellone. Siamo IC e IQ, capito?
Quindi erano fratelli. In effetti, la somiglianza tra i due era evidente, a parte gli occhiali e la totale differenza di atteggiamento. IQ aveva un'aria matura e riflessiva, e sembrava non avere neanche un briciolo dell'esuberanza di sua sorella. Ma giudicare il libro dalla copertina non è mai una buona idea, perciò mi avvicinai e gli tesi la mano.
-Ehm, IQ, vero? Buongiorno, piacere di...- dissi, ma fui bruscamente interrotto dal mio interlocutore.
-Sarebbe stato più opportuno salutare con un “buonasera”. È già passata la mezza- precisò IQ in tono freddo e distaccato. Si sistemò gli occhiali e mi squadrò. Mi irrigidii sotto quello sguardo torvo.
–Ah, okay, scusami- dissi, indispettito. -Buonasera e scusa il disturbo, eh.
IQ rimase a guardarmi impassibile. Mi ricordava un po' Gazel, e questo mi fece realizzare che non sarebbe stato facile andare d'accordo con lui.
-E ti pareva! Manco è arrivato che già IQ lo ha fulminato con lo sguardo- disse una voce alle mie spalle. Incredibilmente, IQ cambiò espressione: ora sembrava infastidito. Quando mi girai per vedere cosa gli avesse dato tanto fastidio, vidi altri due ragazzi venire verso di noi. Uno dei due, quello che aveva parlato, mi mise un braccio intorno alle spalle, senza presentarsi né salutare. Mi girai verso di lui, perplesso. Aveva capelli castani pettinati di lato e tenuti su da una fascia, occhi chiari e un sorrisetto stampato sulle labbra.
-Dai, tranquillo! Se ti fai mettere in soggezione, è finita!- esclamò. -IQ è un osso duro, ma imparerai a sopportarlo.
-Piantala di parlare a vanvera, Nepper. Potresti morderti la lingua- replicò acido IQ. Wow, per uno che appariva così distaccato poco fa, ora sembra davvero arrabbiato, pensai. Ma l'altro ragazzo, Nepper, non pareva affatto colpito dall'astio di IQ contro di lui. Scrollò le spalle e il suo sorriso si allargò in un ghigno.
-Ti piacerebbe- ribatté, poi si girò di nuovo verso di me. -Ehi, io sono Nepper. Il mio partner è qui con me. Scusalo, non sa cos’è un pettine…- Ridacchiò. Il suo partner protestò immediatamente.
-Mi piace tenerli così, Nepper- disse, imbronciato.
Nepper mi lasciò stare e andò invece ad abbracciare il suo partner. -Ma sì, scusa, dolcezza. Mi sono lasciato prendere la mano- rispose. Non sembrava per niente pentito, anzi continuò a ridere anche quando l’altro gli tirò un pugno nella spalla. Alla fine il ragazzo coi capelli bianchi si arrese e, superato il piccolo bisticcio, si scrollò di dosso Nepper. Si voltò verso di me, tendendomi la mano. Notai che aveva una cicatrice, un graffio sulla guancia destra.
-Ciao, puoi chiamarmi Heat. Spero che andremo d’accordo- mi disse.
Gli strinsi la mano, ancora un po’ a disagio, ma sollevato che ci fosse almeno una persona non eccessivamente eccentrica o sopra le righe.
Intanto, IQ e Nepper avevano ripreso a battibeccare, così che IC e Heat dovettero intervenire nel litigio per mediare. Osservandoli, mi venne in mente una cosa.
-Il mio partner non è qui?- chiesi.
Trasalii quando quattro paia di occhi si puntarono su di me all'istante. I ragazzi ammutolirono all'istante e una miriade di emozioni attraversò i loro volti. La prima a parlare fu IC.
-Ora che ci penso, è dalla colazione che non lo vedo- cinguettò, portandosi un dito al mento con aria pensierosa.
-Sarà in giro a far danni, come sempre- brontolò IQ.
Quel tipo di conversazione mi rendeva inquieto. Era calata un'atmosfera innaturale, come se qualcosa di non detto aleggiasse nell'aria, e tutti sapevano cos'era tranne me. Non mi piaceva.
-C'è qualcosa che dovrei sapere?- domandai. -Qualcosa non va con il mio partner...?
-Eh- disse Nepper -non proprio...
Tacque e fece spallucce. Guardai istintivamente Heat, che tra tutti sembrava il più normale. Lui mi rivolse un sorriso nervoso.
-Non è nulla di serio, non preoccuparti. Siamo solo un po'... sorpresi, ecco tutto- disse. Aggrottai la fronte, accigliato.
-Sorpresi? Perché?
-Uhm... Non so come dirlo, ma, ecco, Diam non è il tipo da lavorare in coppia. È l'unico a non avere un partner e... Be', ci è sembrato strano che abbia detto di sì- rispose Heat.
-Oh...- Non sapevo cosa dire. Vedendo la mia espressione corrucciata, Heat mi poggiò una mano sulla spalla.
-Ah, ma non abbiamo nessun problema con te! È una cosa nostra, non preoccupartene, dico davvero!- si affrettò a dire.
-Senti, amico- disse Nepper d'un tratto -tu sembri uno a posto... Magari ci preoccupiamo per nulla, ma stai attento lo stesso, Diam è...
-Mmh, sbaglio o ho appena sentito il mio nome~?
Nepper e gli altri si voltarono di scatto. Da una delle porte laterali era appena entrato un ragazzo. Era alto più o meno quanto me, forse un po' meno, e stava venendo verso di noi con passo rilassato, le mani nelle tasche dei jeans strappati sul ginocchio. Per il resto, il suo abbigliamento era un vero pugno nell'occhio, a cominciare dalla felpa viola ed arancione per finire con le scarpe da ginnastica verde acido con lacci verdi fosforescenti. I capelli castani, ondulati e morbidi, erano costellati da una miriade di mollette azzurre, fucsia, gialle, verdi. Che problema aveva quel ragazzo coi colori? Sembrava che avesse deciso di non lasciarne in pace nemmeno uno e, in ciò, mi ricordò Maki.
Scacciai subito il pensiero per non sentire nostalgia di casa.
Nella stanza era sceso un silenzio imbarazzato, ma per fortuna IC prese in mano la situazione e salutò il ragazzo con la solita allegria.
-Ciao, Diam! Ci stavamo solo chiedendo dov'eri!
-Eh? Ah... Stavo facendo un pisolino…- spiegò l'altro e, con meraviglioso tempismo, fece un lungo sbadiglio, senza preoccuparsi di coprire la bocca con una mano.
-Oooh, allora grazie di esserti degnato di farci visita- disse Nepper in tono sarcastico. Diam gli scoccò un'occhiata annoiata, ma sembrava essere ancora mezzo addormentato, perciò non raccolse la provocazione.
Dal canto mio, mi ero già stufato dei loro battibecchi. Prima che potesse scoppiarne un altro, mi infilai rapidamente fra Nepper e Diam e tesi la mano a quest'ultimo.
-Ehm… Sono Midorikawa Ryuuji, l’agente venuto per il gemellaggio. Da quanto ho capito, tu sarai il mio partner, piacere di conoscerti- dissi nel tono più garbato e cordiale che conoscevo.
Purtroppo non riuscii a restare composto a lungo, perché non appena incrociai i suoi occhi mi sentii completamente paralizzato. I suoi occhi erano di un viola intenso, il suo sguardo profondo e quasi ipnotico. Fissandolo non sentivo nulla, nessuna emozione, come se non fosse neanche una persona. Non mi era mai capitata una cosa del genere. Ero pietrificato.
Diam mugugnò qualcosa sottovoce, poi in un attimo cambiò espressione, come colto da un'improvvisa ispirazione. Il suo viso si illuminò con un largo sorriso, che gli fece brillare anche gli occhi.
-Ah, ora ricordo! Sei il mio primo partner!- esclamò. Mi strinse la mano con calore, poi mi abbracciò... e mi baciò a stampo.
Avvampai e mi ritrassi subito, spingendolo via.
-C-che cosa… Cos’era q-quello?!- farfugliai, sconvolto.
-Era solo un saluto! Sei diventato tutto rosso, che carino!- disse Diam con espressione divertita.
Si chinò e raccolse la mia valigia, portandola per il manico.
-Dai, forza, ti mostro la camera! Seguimi!- esclamò. Senza aspettare una risposta, si girò e tornò indietro per dove era venuto. Mi girai verso gli altri in una silenziosa richiesta di aiuto.
Heat mi fece cenno di incoraggiamento, IQ mi ignorò, e Nepper e IC mi salutarono con la manina e un sorriso divertito stampato sul volto. Insomma, ero da solo.
Deglutii e, facendomi coraggio, mi affrettai a raggiungere il mio partner, il quale, nonostante la camminata rilassata, era sorprendentemente veloce e mi aveva già distaccato.
Lo raggiunsi, ma non mi avvicinai troppo. Dopo il bacio inaspettato, avevo paura di cosa aspettarmi da lui, per cui mi tenni ad almeno due metri di distanza da lui lungo la via. Lui lo notò e rise.
-Ehi, guarda che non mordo mica! Vieni più vicino- disse. Lo ignorai e lui rise di nuovo.
-Va bene, allora parliamo un po', almeno... Cominciamo a conoscerci! Qui mi chiamano Diam. Tu hai detto che ti chiami Ryuuji, vero?
D’un tratto svoltò a destra e, dopo qualche metro, si fermò davanti ad una porta. Estrasse una chiave dalla tasca del jeans, la infilò nella serratura e girò. Entrammo nella stanza: era più piccola di quella che avevo a Tokyo, ma c’era una bella finestra con veranda che affacciava giù sulle falde del monte. Il vero problema era che sembrava ci fosse passato un uragano: chiamarla "disordinata" sarebbe stato un eufemismo. Il letto più vicino alla finestra era stato più o meno rifatto, ripulito e liberato dalla roba, probabilmente all'ultimo minuto.
Inspirai a fondo per calmarmi. Intanto, Diam continuava a parlare senza tregua.
-Ti farò una copia delle chiavi. Ah, e devo decidere un nome per te… Credo che al capo andrà bene che lo scelga io, sei il mio partner dopotutto… Sai che anche il nostro capo ha un soprannome? Lo chiamano Desarm- stava dicendo in quel momento.
Mi sedetti sul letto sotto alla finestra e, con mio grande sollievo, lasciai cadere lo zaino sul pavimento. Cominciai a togliermi le scarpe.
-Se proprio ci tieni- risposi. -Ma perché i soprannomi? Non hai un nome vero?
Diam si sedette sul letto di fronte al mio, o meglio su una pila di vestiti usati e arrotolati su se stessi. Mi studiò per un po', pensieroso, finché non diventò quasi imbarazzante. Stavo per dirgli di smetterla, ma lui mi anticipò.
-Ce l'ho- disse.
Lo guardai sorpreso.
-Cosa?
-Un nome vero, ce l'ho- disse. -Ma che differenza fa?
Non capivo dove quel discorso stesse andando a parare, o se avesse il minimo senso dal principio, ma cercai lo stesso di ragionarci.
-Be', io ti ho dato nome e cognome. Sarebbe educato che lo facessi anche tu- spiegai. Mi sembrava di dire cose ovvie, ma Diam mi guardava con un'espressione sinceramente perplessa, quindi cominciai a sentirmi piuttosto in imbarazzo. Mi chinai per mettere le mie scarpe sotto il letto, solo per avere una scusa per distogliere lo sguardo.
-Senti, lasciamo stare, se non vuoi...
-Hiromu- disse Diam, interrompendomi. -Miura Hiromu.
Alzai lo sguardo e vidi la sua mano tesa verso di me. La fissai.
-Non mi hai ancora chiesto scusa per...- dissi, mi interruppi e arrossii. Non riuscivo a dirlo. Diam parve capire lo stesso.
-Oh, per quello? Scusami, scusami- rispose. Inclinò un po' il capo, con un sorriso innocente. Mi accigliai.
-Non sembri molto pentito...
-No, no, mi dispiace davvero. È che sei così carino che ho agito d'impulso... Ma voglio andare d'accordo con te, quindi se ti dà fastidio non lo farò più. Promesso- disse Diam.
La sua mano era ancora sollevata. Esitai ancora un attimo, poi la strinsi, guardingo.
Il sorriso di Diam si allargò.
-Ehi, ho appena pensato a un soprannome per te!- esclamò. -Che ne dici di Reize? Somiglia al tuo nome, no?
Mi fermai a pensare. Non ci trovavo niente di male.
-Sì, va bene- risposi, scrollai le spalle. –Mi piace Reize.
Diam rise.
-Allora è deciso!- esclamò, ritraendo la mano. Adesso aveva un'aria davvero spensierata. Incrociò le gambe e si appoggiò col gomito al ginocchio sollevato, così da poter poggiare il mento sulla propria mano. La manica della felpa scivolò giù rivelando la presenza di tre bracciali d'argento al suo polso. Solo allora notai le unghie dipinte di viola scuro e i due anelli di rame sulle dita affusolate.
Non potei fare a meno di pensare, anche solo per un attimo, che fosse davvero un bel ragazzo.
-Reize, questo nome sarà l’inizio della tua nuova vita qui. È una nuova vita che stavi cercando, giusto?- disse Diam solennemente.
Sbattei le palpebre, sorpreso. -Tu come fai a…?
-Tutti quelli che sono qui hanno accettato perché volevano una nuova vita. Capirai presto perché ci diamo dei soprannomi- rispose, tranquillo. Si ravviò una ciocca di capelli dietro l’orecchio destro, e così notai che portava un orecchino pendente con una gemma violetta al termine.
-A proposito, ti ho detto il mio nome perché lo hai chiesto, e voglio che ci sia fiducia tra noi, ma chiamami Diam, d'accordo? Solo Diam- aggiunse.
-D'accordo-. Acconsentii alla richiesta senza fare resistenze. Diam sorrideva, ma non con gli occhi. Di nuovo mi ritrovai a pensare che c'era qualcosa di misterioso nel suo sguardo, ma anche sforzandomi non riuscii a leggere le sue emozioni: era come un libro chiuso e sigillato. Restammo in silenzio finché a Diam non venne in mente qualcos altro.
-Oh!- esclamò. -Mi sono dimenticato. Il tuo armadio è quello a sinistra. L'ho svuotato in fretta e furia, stamattina.
E così si spiegava la confusione sull'altro letto. Diam mi sorrise, questa volta con vero calore. Per qualche motivo, mi sentii sollevato.
Prima che potessi rilassarmi davvero, però, Diam si alzò di colpo e si lasciò cadere sul mio letto, proprio vicino a me. Mi girai a guardarlo, perplesso.
-Che stai facendo?
Diam non mi rispose subito, ma scrutò il mio volto in silenzio.
-Ehi, Reize- disse -che ne dici di diventare il mio ragazzo, oltre che il mio partner?
-Cosa?!- Non me lo aspettavo per nulla, ma senza esitare gli afferrai le spalle e lo spinsi via.
-Scordatelo! Non prendermi in giro!
-Ma sono serio!
Scossi il capo, allibito.
-Ci siamo appena conosciuti!- protestai. -Se dici queste cose così alla leggera, le persone potrebbero pensare che sei superficiale, sai?
Diam mi guardò sorpreso, poi fece un sorriso sardonico.
-E perché dovrebbe importarmi cosa pensano le persone?- esclamò. -Non me ne frega niente di che pensano gli altri, voglio sapere cosa pensi tu.
La cosa mi lusingava un po', ma mi confondeva, anche. Lo guardai di sottecchi, senza abbassare le difese.
-Perché dovrebbe importarti di cosa penso io?- chiesi.
-Perché mi piaci?
-Non dirlo come se fosse una domanda!! Questo non è il gioco dei perché!- lo rimbeccai, irritato dal suo essere così sfuggente. Diam parve trovarlo molto divertente e scoppiò a ridere. Cercai di spingerlo giù dal letto, ma lui mi schivò e scivolò a terra per conto proprio. Appoggiò un braccio e la testa sulle ginocchia e mi scoccò un'occhiata laterale.
-Mi incuriosisci- disse. -Puoi credere almeno a questo?
Sapevo che stavo sorridendo, sfuggevole e beffardo come un gatto. Scrollai le spalle e distolsi lo sguardo.
-Forse ci crederò- borbottai. Diam non si scompose.
–Okay, ho ricevuto il messaggio. Il tuo cuore è già occupato, vero, Reize?
Arrossii, e stavo per rispondergli a tono (o chiedergli come diavolo l'avesse capito), ma fui interrotto dal suono di una sirena.
-Che cos’è?- chiesi stupito.
Diam si alzò e si stiracchiò, tendendo le mani verso l'alto.
-Che fortuna, Reize. Sembra che sia ora del tuo primo lavoro!


 

xxx

 


Era un edificio poco più che fatiscente, tanto che quando Diam buttò giù la porta con un calcio, credetti che ci sarebbe crollato tutto addosso.
Tossii. Là era pieno di polvere.
Dopo che la sirena aveva suonato, Diam mi aveva trascinato di nuovo nella mensa, dove Zell ci aveva consegnato un rapporto secondo cui alcuni spacciatori di droga stavano bazzicando una casa abbandonata ai limiti di uno dei paesini sotto il monte Fujii. Erano solo piccoli malfattori, ma pareva che stessero causando dei grattacapi alla gente locale. La nostra missione era quella di stanarli, arrestarli e consegnarli in anonimato alla polizia locale perché fossero arrestati. Heat e Nepper erano di turno con me e Diam.
Avevamo raggiunto il posto con una corriera, poi a piedi per un bel pezzo; una volta individuata e circondata la casa, però, ci eravamo resi conto che era inutile: se c’era qualcuno lì dentro, non sarebbe certo uscito allo scoperto tanto facilmente.
-Bene, quindi come li facciamo uscire?- disse Heat sottovoce, accucciato nella neve sotto una finestra. Teneva sempre sott'occhio la corda e la slitta che lui e Nepper si erano portati dietro per misteriosi motivi.
Gettai un'occhiata dentro, ma non riuscii a vedere nessuno. Sapevamo solo che erano in tre, presumibilmente armati.
-Qualche idea?- chiesi, guardando Nepper, Heat e poi Diam.
Il mio partner fece un gran sorriso che non mi rassicurò neanche un pochino.
-Certo- disse in tono tranquillo. Poi si alzò, andò davanti alla porta e la sfondò con un calcio.
-Permesso!- esclamò quando ormai era già dentro, senza neanche la pistola in mano.
-Oddio- disse Heat a bassa voce - l'ha fatto di nuovo?
Vidi che aveva gli occhi chiusi, strizzati, come se non ci potesse credere. Nepper gli diede un colpetto sulla schiena.
-L'ha fatto di nuovo- confermò, alzandosi. -Dai, andiamo anche noi.
Heat sospirò e si alzò. -Devi proprio entrare così?- si rivolse a Diam in tono di rimprovero, con un'espressione corrucciata e un po' esasperata.
-Ehi, ho chiesto “permesso”- ribatté Diam. Si guardò intorno. –Allora, dove sono tutti?
-Ah, laggiù...- Heat indicò un porta a sbarre di ferro, chiusa con un lucchetto.
Dietro di essa, un omaccione senza capelli, ma con folti baffi neri, ci fissava torvo: ovviamente non aveva gradito molto l’interruzione.
-Ragazzini ficcanaso- borbottò. Si voltò a parlare con qualcuno che era dietro di lui.
-Cos'è, il vostro magazzino? Bella roba- disse Diam in tono indifferente. Gettò un’altra occhiata intorno, poi tornò a fissare l’uomo.
-Se apri la porta con le buone, non ti succederà niente di grave- aggiunse con un sorriso freddo, che non gli arrivava agli occhi. Ebbi un brivido avvertendo la velata minaccia, anche se non era rivolta a me. Ero ancora fermo appena fuori dalla porta e fissavo Diam a occhi e bocca spalancata; le sue azioni mi avevano del tutto spiazzato...
–Andate a fanculo- ribatté l'uomo digrignando i denti. -Non abbiamo tempo di giocare con voi ragazzini, tornate a casa da mamma.
-Potrei dirti la stessa cosa, ma oh be', ti ho dato la possibilità di farlo pacificamente-. Diam si voltò, sempre sorridendo. -Nepper?
Nepper ghignò e tirò fuori uno oggetto scuro e rotondo dalla tasca, che appese vicino al lucchetto della porta. Heat sospirò.
-Speravo che non dovessimo arrivare fino a questo punto…- mormorò. Diam uscì di corsa e mi afferrò per un braccio, trascinandomi con lui, così che per poco non inciampai nei miei stessi piedi. Confuso, gettai un'occhiata dietro di me e vidi Nepper e Heat correre a gambe levate.
-Reize, salta!- gridò Diam, e d'istinto obbedii lanciandomi dietro un cumulo di neve insieme agli altri, a circa una decina di metri da lì.
Passarono solo pochi secondi prima dell’esplosione.
-Una granata?!- esclamai, sconvolto, ma Nepper e Diam scoppiarono a ridere. Heat scosse il capo con rassegnazione: visto che non aveva fatto niente per fermarli, immaginai che non fosse la prima volta. Quando feci per alzarmi, fu Heat a prendermi per un braccio e tenermi giù.
-Aspetta...- mormorò. Lo guardai, deglutii. Restammo immobili ancora per qualche momento, nel silenzio più assoluto. Poi Heat mi fece un cenno col capo e mi lasciò andare.
A quel punto tornammo correndo verso la casa, o in quel che ne rimaneva: tre muri, una porta di ferro sfondata, macerie e polvere di gesso.
I tre uomini che c’erano dentro erano svenuti, ma non feriti gravemente, per cui Heat li ammanettò e con l’aiuto di Nepper li legò alla slitta. Ora mi spiegavo la slitta e la corda.
Io ero veramente sconcertato. Ma che razza di metodi erano? Con chi ero finito?
Diam intuì i miei pensieri e sorrise.
-Ah, non hai ancora visto niente- gongolò. Lo fissai come se fosse stato pazzo, e cominciavo a credere che lo fosse davvero.
–Ma… insomma, non ci saranno dei problemi?! Non dovreste agire in segreto?!
-E perché mai? Nessuno potrebbe mai scoprirci-. Diam scrollò le spalle.
-Oddio, mi sembra di essere finito in un manicomio…- borbottai.
Diam non rispose subito, era immerso nei suoi pensieri.
Si voltò un attimo verso Nepper e Heat. Seguii automaticamente il suo sguardo, ma quei due erano occupati in… ehm, dolci occupazioni. Quindi stanno insieme? Oh wow, okay. Era imbarazzante e inopportuno fissarli, quindi mi girai di scatto.
Sicuro che nessuno ci stesse ascoltando, Diam scelse quel momento per prendermi per un braccio e sussurrarmi all’orecchio.
-Ehi, Reize, ricordi quello di cui ti parlavo oggi? Ti rivelo un segreto. I ragazzi del Monte Fuji non potranno mai venire scoperti... perché, pubblicamente, noi non esistiamo.
Si ritrasse. Aveva un sorriso malinconico in volto.
-Che cosa vuoi dire...?- chiesi, ancora più confuso.
Diam si mise le mani in tasca.
–Be', la società non sa che ci siamo. Siamo tutti orfani qui, quindi anche se siamo scomparsi, nessuno ci cerca più... Così possiamo continuare ad agire in incognito. La gente pensa a queste cose come incidenti, poi se ne dimentica. Perché non sanno niente. Per la legge, per il mondo, noi non esistiamo più. Ecco perché non ci sono problemi, capisci?- spiegò. -Adesso capisci? "Miura Hiromu" è morto... E io sono solo Diam.
Non sapevo cosa pensare, né di quello che mi aveva appena rivelato, né di Diam stesso. Parlava con nonchalance di qualcosa che doveva essere doloroso, qualcosa che gli avrebbe dovuto spezzare il cuore.
Forse era così, ma io non potevo saperlo. Non sentivo niente, la mia empatia non funzionava su di lui. Per questo, ebbi la sensazione che porsi dubbi adesso fosse inutile. Tutte le mie aspettative sarebbero state sconvolte... Così accettai il nome "Reize" e mi preparai a cominciare una nuova avventura che non sapevo dove mi avrebbe portato.





 

**Angolo dell'Autrice**
Ciao 
~
Sono felice di essere riuscita ad aggiornare :DD
Questo capitolo mi piace molto perché introduce uno dei miei personaggi preferiti di questa fic!! Diam è solo un pg secondario nell'anime, ma mi ispira tantissimo. Ovviamente ci ho ricamato sopra un bel po' (ma proprio tanto tanto! Ecco a che serve l’avvertimento OOC, lol). Come avrete capito, in Spy Eleven Diam non sarà affatto un secondario: è il protagonista di questo arc, nonché la persona più vicina a Midorikawa! Già, Kazemaru e Hiroto appariranno davvero poco! Cercherò di concentrarmi solo sui personaggi che fanno parte dell'agency del Monte Fujii; di loro si scoprirà qualcosa in più nel prossimo capitolo ^^
Bacioni,
       Roby

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Capitolo 18
*** Mission 18. ~Diam's Arc. ***


Ciao :) 
Ecco a voi il secondo capitolo del Diam's Arc
Diam è un personaggio decisamente misterioso, ma piano piano si scopriranno molte cose su di lui...
Aspettatevi un po' di Angst, perché la sua è una brutta storia (del resto già partiamo dal presupposto che "avrebbe dovuto essere morto", come detto nello scorso capitolo). Questo capitolo è un po' lunghetto, soprattutto perché mi sono dedicata a spiegare le abilità speciali dei vari agenti. Bene, ci vediamo giù ;) 
Buona lettura! 





Uno strano rumore continuava a suonarmi vicino all’orecchio destro.
Per un po’ lo ignorai, sollevandomi le coperte fin sul capo e affondando nel cuscino; ma poi quel ticchettio, seguito ogni tanto da un trillo, iniziò ad irritarmi non poco.
-Kazemaru, spegni la tua stupida sveglia- mi lamentai con la voce impastata dal sonno.
Non accadde nulla, il ticchettio continuò.
-Dannazione…- borbottai e tesi la mano verso il comodino, tastando a tentoni.
Ma non c’era nessun comodino, nessuna sveglia, e quello che le mie dita strinsero fu soltanto una chioma morbida e disordinata. Sorpreso, aprii leggermente gli occhi e incontrai un viso dormiente a pochi centimetri dal mio; rimasi a fissarlo per alcuni minuti, insonnolito.
Poi realizzai dov’ero e chi era quella persona, e mi sollevai di scatto, allontanandomi di istinto da Diam mentre lui si alzava a sedere e si stropicciava gli occhi, confuso.
-Mm? Reize? Che succede?- disse, all’ultimo sbadigliò e si portò le dita davanti alla bocca.
-T-tu… che ci fai nel mio letto?!- esclamai, sconvolto. Cercai di ricordare dettagli della sera precedente, ma probabilmente ero troppo stanco ed ero piombato a dormire come un sasso.
Intanto, Diam si stiracchiò, scese dal letto ed iniziò a rovistare in un mucchio di vestiti a terra.
-Ah, eccolo…- mormorò, estrasse il suo cellulare dalla tasca del jeans che aveva indossato il giorno precedente e lo spense. Il fastidioso rumore cessò all’istante.
-Scusa per quel ticchettio… era morto il telefono, ed è come si lamentasse tipo- spiegò Diam, ingarbugliandosi nelle parole. Doveva essere ancora assonnato.
Mi sorrise ed io ricambiai, incerto.
-Okay, il bagno è mio!- gridò, mentre già schizzava oltre il mio letto e raggiungeva il bagno. La porta si chiuse con uno schiocco dietro di lui e poco dopo sentii il suono dell’acqua corrente, il che voleva dire che si era infilato sotto la doccia.
Sospirai e mi passai la mano fra i capelli sciolti; benché non sopportassi quel calore dietro la nuca, non li avevo mai tagliati, il solo pensiero mi faceva una certa tristezza. Li legai nella solita coda di cavallo alta che la madre di Kazemaru mi aveva insegnato a fare, poi scesi dal letto e mi vestii in fretta: mi ero dato appuntamento con Kazemaru su Skype, così da poterci scambiare un saluto e magari qualche osservazione personale sulla situazione attuale, e non volevo ritardare un solo minuto. Presi il portatile dalla valigia e me lo posai sulle gambe.
Circa un quarto d’ora dopo, ero collegato in video-chat con il mio migliore amico.
-Midorikawa!
Quando il volto di Kazemaru apparve nello schermo e sentii la sua voce, un sospiro rilassato lasciò il mio petto. Non mi ero reso conto di quanto già mi mancasse… Ero stato al suo fianco per molto, forse troppo, tempo e abituarmi alla sua assenza non era facile.
-Come stai? Non vedevo l’ora di sentirti!- esclamò Kazemaru con un sorriso.
-Bene, grazie. Ieri è stata una giornata un po’… confusionaria, diciamo- risposi. Ripensai per un attimo alla baita e all’esplosione. No, quello non era il caso di dirglielo.
-Ci sono tante cose nuove qui… da voi come va?- continuai.
-Oh, bene… Sono stato messo temporaneamente in coppia con Endou, sai…- Arrossì leggermente.
-Uh? E come mai?
–Be', perché hanno affidato la nuova arrivata a Hiroto.
Sussultai solo a sentire quel nome, ma per fortuna Kazemaru non parve accorgersene: lui non sapeva che ero innamorato di Hiroto, e men che meno che mi ero dichiarato ed ero stato rifiutato.
Cercai di non risultare troppo interessato quando chiesi che tipo di persona era la nuova arrivata e come si trovava con Hiroto e gli altri.
-Oh, Kurakake è una gran brava ragazza, un po' timida, ma gentile… Strano ma vero, va abbastanza d’accordo con Gazel. Forse ha risvegliato il suo lato umano-. Kazemaru ridacchiò e anche io non potei che sorridere alla battuta.
-E tu come ti trovi, Midorikawa? Che mi dici del tuo partner?- continuò il mio amico. Notai che nella sua voce c’era un velo di preoccupazione e mi chiesi cosa fosse arrivato alle loro orecchie. Heat mi aveva detto che Diam non aveva mai avuto partner, quindi chi era quella ragazza e che legame aveva con Diam? Cosa sapeva su di lui che io ignoravo?
Risi nervosamente. Volevo rassicurare Kazemaru, ma cosa potevo dirgli? Che Diam mi aveva baciato? Che aveva fatto esplodere una porta così, tanto per divertirsi? Che l’empatia non aveva alcun effetto su di lui?
-Mi trovo bene, grazie- dissi alla fine. Evitare la domanda era una cosa patetica, lo sapevo anche da me, e infatti Kazemaru non parve molto convinto. Non poté dire altro, però, perché in quel momento la porta del bagno alle mie spalle si aprì di schianto. Diam uscì con indosso solo un asciugamano avvolto intorno alla vita. La stanza si riempì di un forte profumo di limone, probabilmente il suo bagnoschiuma.
-Aww, una bella doccia al mattino risveglia tutti i sensi- osservò in tono soddisfatto.
Quando il suo sguardo si posò su di me, intravidi un lampo attraversare il suo sguardo. Diam guardò me, poi il computer, e l'attimo dopo balzò sul letto, incollandosi con il petto alla mia schiena e poggiando il mento nell’incavo della mia spalla. Sentii le sue braccia intorno alla vita e arrossii.
-Diam! Hai promesso!- protestai, ma lui mi ignorò e rivolse un gran sorriso a Kazemaru, che ci fissava esterrefatto dallo schermo. La bocca del mio amico era così aperta che temevo gli sarebbe caduta la mascella.
-Ehilà!- esclamò Diam con eccessiva allegria. –Tu devi essere il vero partner di Reize, vero? Non ti devi preoccupare per lui, è un po’ imbranato, ma me ne prenderò cura io.
-Ehm… io sono Kazemaru, piacere…- mormorò il mio amico sforzandosi di sorridere.
Scoccai un'occhiata torva a Diam.
-Non sono un imbranato- brontolai.
- Be', lo vedremo oggi!- ribatté Diam divertito. -Ora vado a vestirmi! Ciao ciao, Kazemaru!
Fece un cenno con la mano a Kazemaru, poi si staccò da me e si tuffò dall’altra parte del letto, lanciando via l’asciugamano e restando completamente nudo. Urlai e gli tirai addosso il cuscino. Per fortuna, almeno, non era più davanti allo schermo. Mi girai verso Kazemaru.
-Non pensare troppo male, ti prego. E non dire a nessuno di questa cosa- dissi, supplichevole. Kazemaru aggrottò la fronte.
-È... un tipo particolare- mormorò, dando prova di grande autocontrollo. -E perché ti chiama Reize...?
-Lunga storia, te la racconterò prima o poi… Ora però devo andare. Salutami tutti, okay?
Kazemaru sorrise, ancora un po' incerto.
–Sì, certo. Ci manchi, Midorikawa… manchi a tutti, credimi- disse prima che il collegamento si chiudesse. Quando lo schermo tornò nero, chiusi il pc e lo misi da parte.
Il volto di Hiroto mi tornò in mente. Pensavo a lui ogni tanto, e con "ogni tanto" intendevo dire sempre. Manco a tutti, eh? pensai. Hiroto era incluso in quel tutti? Era patetico sperare che pensasse almeno un pochino a me?
-Reizeee, non stare lì impalato!- mi chiamò Diam. Alzai lo sguardo e ritrovandomi il suo viso a pochi centimetri dal mio mi scappò un piccolo urlo. Diam ridacchiò.
-Sei sempre sovrappensiero… Non sarà che hai una cotta per il tuo partner, vero?- chiese.
Registrai la domanda e arrossii. –No, hai frainteso- mi affrettai a correggerlo.
-Ah, quindi non c'è rischio che diventi geloso dopo oggi- osservò Diam allegramente.
Gli lanciai uno sguardo incredulo. Non capivo mai se fosse serio o scherzasse. Diam mi ignorò. Afferrò una felpa da terra e se la allacciò intorno alla vita, poi andò verso la porta.
Messa una mano sulla maniglia, si voltò verso di me con un gran sorriso.
-Andiamo, Reize!- esclamò. E, nonostante tutto ciò che pensavo di lui, lo seguii.
 
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A colazione un ragazzo dai capelli bianchi ci servì uova e pancetta su una scodella di riso e una zuppa calda di miso.
-Ecco qui! Forza, mangiate, dovete essere in forma stamattina- si raccomandò.
Notai che in realtà gli altri non avevano alcun bisogno di essere spronati a mangiare: Nepper e IC già si stavano abbuffando, mentre Heat e IQ avevano iniziato a mangiare silenziosamente.
-Come va, novellino? Tutto bene?- mi chiese il ragazzo con i capelli bianchi.
Sorrisi. –Sì, grazie. Hai cucinato tu? È tutto ottimo- risposi.
Lo vidi riempirsi d’orgoglio mentre gonfiava il petto e la voce.
-Certo! Io sono un cuoco eccezionale, sai!- esclamò ridendo. –Piuttosto, non ci siamo presentati… Puoi chiamarmi Zell- aggiunse.
Qualcosa mi diceva che anche quello non fosse il suo vero nome, ma non diedi voce al mio pensiero. Tesi la mano oltre il tavolo e gliela strinsi. Stavo per presentarmi a mia volta, ma Diam mi anticipò.
-Lui si chiama Reize! L’ho deciso io!- annunciò allegramente.
I ragazzi in sala si girarono verso di noi.
-Reize… Be', è bello. A me piace- disse Heat.
-Pare che Diam abbia avuto una buona idea, per una volta…- mormorò IQ, pacato. Diam gli fece la linguaccia e tornò a tuffarsi nel suo cibo.
Intanto Nepper mi si avvicinò e si sedette al mio fianco.
-Bene, bene! Oggi ci sono le esercitazioni, spero che tu sia al meglio, Reize- dichiarò mettendomi un braccio intorno alla spalla come se fossimo già amiconi.
Gli scoccai uno sguardo confuso e alzai un sopracciglio.
–Come? Quali esercitazioni?- chiesi.
-Per “esercitazioni” vuole dire che andiamo in sala addestramento. Lo facciamo circa una volta alla settimana per allenarci con le nostre abilità speciali- intervenne Heat. Gli fui grato per la spiegazione semplice e tempestiva.
-Tutti noi non vediamo l’ora di vedere cosa sai fare, Reize!- esclamò Nepper con un ghigno. Ogni volta calcava il mio soprannome con una nota sarcastica. Mi tolsi il suo braccio dalle spalle, sentendomi preso in giro.
Nepper sembrava sul punto di aggiungere qualcosa, insoddisfatto dalla mia reazione, ma in quel momento Heat lo tirò per una manica.
–Ehi, non vedi che lo metti a disagio?- disse, scuro in volto. Nepper sbuffò e incrociò le braccia dietro la nuca.
-Sai, Nepper, non dovresti prendere in giro il mio partner. Sono certo che Reize ha qualche asso nella manica- disse Diam con un mezzo sorriso, e si alzò prima di tutti. Lo guardai, perplesso.
-Dove vai?
-Mi avvio, ho bisogno di un po’ di concentrazione- mi rispose, poi ringraziò Zell per la colazione e corse via, mollandomi lì.
-Ehi! E io che faccio?- gridai, ma lui era già troppo lontano per sentirmi.
Sospirai, finii di mangiare e mi alzai dal tavolo. Non avevo la minima idea di dove fosse la sala addestramenti, ovviamente, e il pensiero che il mio partner mi avesse appena abbandonato a me stesso non era piacevole, specie considerato che Kazemaru (appena entrato nel periodo tutto-rose-e-fiori con Endou) non aveva fatto altro nelle ultime tre settimane o giù di lì.
Era la prima volta che Diam si separava da me. Il giorno prima mi era rimasto appiccicato tutto il tempo, e senza di lui non avevo la minima idea di come muovermi nell’ambiente sconosciuto.
Per fortuna IC, vedendomi disorientato, mi venne in aiuto.
-Reize, ti accompagno io in sala addestramenti, seguimi!- esclamò.
Mi prese la mano e mi trascinò fuori dalla sala con lei; suo fratello ci seguiva, apparentemente immerso nella lettura di un libro, ma ero certo che in realtà osservasse ogni mio movimento, torvo e geloso della propria sorellina e partner.
-Ehm… tu che tipo di abilità hai, IC?- chiesi per allentare un po’ la tensione.
La ragazzina mi sorrise, felice come se non aspettasse altro che glielo chiedessi.
–Io e mio fratello abbiamo poteri molto simili… Siamo come dei fenomeni naturali! Per esempio, io potrei far nevicare con uno schiocco di dita, se volessi. Però non riesco a creare tempeste forti come quelle che fa mio fratello… Lui è veramente fantastico, sai, anche se è un po’ burbero- spiegò. Dal suo tono intuii che andava molto fiera di suo fratello, dovevano essere molto legati. Sentii IQ sbuffare, ma una breve occhiata mi bastò per accorgermi che era compiaciuto.
-Siamo tutti curiosi di vedere te, Reize- continuò IC. La guardai sorpreso.
-Me? Come mai?
Lei aprì la bocca per rispondere, però si fermò inaspettatamente. Arrossì, si guardò i piedi e rivolse di soppiatto uno sguardo complice al fratello, il quale annuì piano.
–Beh… è un segreto, okay?- disse IC facendomi cenno di chinarmi un po’, così che lei potesse parlarmi nell’orecchio.
-Abbiamo origliato la conversazione online fra Hitomiko-san e Desarm, parlavano di te e lei ha detto delle cose molto buone sul tuo conto- sussurrò con un sorriso furbo.
–Eh?!- Mi scappò un verso incredulo. Mi rialzai di scatto e fissai IQ in cerca di conferma.
-È come dice mia sorella- dichiarò il ragazzo tranquillo. Chiuse il libro, tenendoci dentro un dito per mantenersi il segno, e si sistemò gli occhiali sul naso con nonchalance.
-Dal momento che tutti noi abbiamo una grande stima di Hitomiko-san, eravamo tutti molto curiosi di conoscere chi è il ragazzo di cui parlava così bene… E naturalmente anche di scoprire quali sono le sue grandi abilità. Chiaro, no?- proseguì serio.
-Mmh... Ma non ho idea del perché Hitomiko dovrebbe nutrire grandi aspettative su di me. In realtà, ho sempre avuto l'impressione che sia molto severa con me- ammisi, titubante.
I miei poteri facevano veramente pena, non ne avevo il pieno controllo e l’unica volta che ero stato in grado di usarli in modo produttivo era stato merito di Kidou. Per quanto riguardava l’empatia, a cui probabilmente Hitomiko attribuiva maggiore importanza, non vedevo come potesse essermi utile durante una sessione di allenamento.
-Ma no, andrà bene! Su con la vita!- esclamò IC allegramente. Mi diede una vigorosa pacca sulla schiena e andò avanti con passo baldanzoso. Non cercai di stare al suo passo. Anche IQ camminava piuttosto lentamente e mi adeguai al suo passo quasi d'istinto. IQ non era il tipo da fare chiacchiere, quindi era la compagnia perfetta quando si voleva pensare.
Per questo, quando mi rivolse la parola, fu del tutto inaspettato.
-Se non si aspettasse niente da te, Hitomiko-san non avrebbe ragione di essere severa. Io la vedo così- disse IQ in tono serio. Sembrava quasi mi stesse difendendo. Capii che aveva aspettato che la sorella si allontanasse un po' prima di parlarmi.
-Uhm... grazie?- dissi. IQ mi guardò.
-Perché sembri sorpreso?- chiese.
-Be'... a essere sincero, pensavo di non piacerti molto, IQ- ammisi. IQ aggrottò la fronte e distolse subito lo sguardo.
-Non fraintendermi. Non ho ragioni di avercela con te, non è così? È solo che non sono solito dare confidenza a chiunque, e mi piace dire tutto ciò che penso, anche se risulto duro. Tutto qui. Non prenderla sul personale- spiegò in tono distaccato. Benché le sue parole fossero dure, non potei fare a meno di sentirmi sollevato.
-Ah, sono contento- dissi con un sorriso.
-Non capisco perché dovresti. Sei strano- ribatté IQ, e mi resi conto in quel momento che era probabilmente imbarazzo. Adesso capivo che era solo una persona chiusa, forse un po' asociale, ma non cattiva.
-Be', anche se sei duro quando parli, sei sempre sincero, no? È meglio che dover mettere in dubbio ogni parola dell'altro...- osservai.
IQ si girò verso IC per assicurarsi che lei non stesse ascoltando, poi si sistemò gli occhiali e abbassò la voce.
-Se ti riferisci a Diam, fai bene ad avere dubbi- disse. Per la prima volta, sembrava che stesse esitando.
-Non so cosa gli passi per la testa, ma quando ha saputo dei tuoi poteri Diam ha cambiato improvvisamente atteggiamento. Pensavamo che avrebbe rifiutato un partner, specie se imposto da Desarm... Ma non l'ha fatto- raccontò. -Dovresti stare molto attento a Diam.
-Lo farò- mormorai, serrando i pugni lungo i fianchi. Quelle parole mi davano molte cose a cui pensare.
D'un tratto IC alzò la voce. -Buongiorno, Desarm!- esclamò. Alzai lo sguardo e vidi la Spy Eleven in mezzo al corridoio. Non sapevo quando e da dove fosse comparso.
-Midorikawa- mi chiamò con voce seria e profonda.
Mi affrettai ad andare da lui e lo fissai con un filo di timore. Essendo più alto di me, mi sovrastava completamente.
-Sì, signore...?- risposi, esitante.
-Immagino che i ragazzi ti abbiano già informato della sessione di addestramento, ma per oggi non ne prenderai parte. Vorrei che tu restassi soltanto a guardare, d’accordo?- disse Desarm.
Ero sorpreso, ma anche sollevato, perciò acconsentii subito.
-Cosa? Ma non vedevo l'ora!- protestò IC, ma Desarm non fece una piega.
-Vieni con me, Midorikawa. Voi due, andate a prepararvi. Ci vediamo in sala addestramento fra quindici minuti- ordinò dando una rapida occhiata al suo orologio da polso. Salutai i gemelli e seguii Desarm.
Desarm camminava con portamento fiero, impettito. Solo quando i due gemelli se ne furono andati e il corridoio si svuotò, ricominciò a parlare.
-Sono sicuro che ti starai chiedendo perché non voglio farti partecipare alle sessione di addestramento, Midorikawa- disse serio. –Il motivo è molto semplice: desidero che tu rimanga concentrato su Diam, che lo osservi attentamente. Poi mi dirai cosa senti.
Gli lanciai uno sguardo malinconico e sconfortato. -Se si riferisce alla mia empatia, signore, mi dispiace d’informarla che Diam è un buco nero per me- replicai.
-Un buco nero, dici…? Oh, io più che altro lo chiamerei un’interferenza.- La risposta di Desarm mi spiazzò, perché dava a intendere molto di più di ciò che era stato detto: lui sapeva esattamente perché la mia empatia su Diam andasse a vuoto.
All’improvviso mi spostai davanti a lui, bloccandogli il passaggio.
-La prego!- esclamai. -Mi dica perché non riesco a sentirlo! Lei lo sa, vero?
Desarm incrociò le braccia al petto e inclinò un po’ il capo.
-Diciamo che ho fatto qualche ipotesi. Quando vedrai in cosa consiste il potere di Diam, capirai perché l’ho definito una “interferenza”- disse.
 
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La sala di addestramento era grande, spaziosa, illuminata da più finestre quadrate poste in alto e sempre aperte perché non avevano vetri; il vento entrava da lì e riempiva d’aria nuova l’ambiente, a volte portando i profumi della natura, come il forte odore di neve che c’era nel momento in cui Desarm ed io entrammo.
La Spy Eleven mi guidò verso una camera  con le pareti nere, attaccata alla sala e separata da essa solo da un vetro scuro, attraverso il quale chi si trovava nella camera poteva osservare bene ogni cosa che accadesse nella sala, mentre chi si trovava nella sala non poteva vedere la camera. Mi sedetti su una sedia, Desarm rimase in piedi.
Poco dopo entrò Zell con una tazza di caffè per il suo capo, e rimase con noi ad osservare.
I primi ad entrare in sala furono i due gemelli. Andarono a posizionarsi su una sorta di piattaforma, davanti alla quale c'erano dei manichini imbottiti di forma umana, che dovevano rappresentare un eventuale nemico, o almeno credevo. In men che non si dica i manichini furono congelati da una tempesta di neve e poi trafitti di mille schegge di ghiaccio, e cominciarono a perdere uno strano liquido molle e rossastro dalle ferite. Sembrava quasi che da un momento all'altro potesse comparire un tabellone con la scritta game over. IQ e IC si diedero il cinque, e la ragazzina rivolse un saluto allegro anche al vetro scuro dietro cui c'eravamo noi. Non ricambiai il gesto perché non poteva vedermi, ma non riuscii a trattenere un sorriso. IC ti faceva venire voglia di sorridere sempre.
Dopo che i gemelli ebbero lasciato la piattaforma, in sala entrarono Nepper e Heat. I due ragazzi si posizionarono davanti ai manichini e Heat fu il primo ad attaccare: con le mani chiuse a coppa, creò dapprima una semplice fiammella, poi la fece ruotare rapidamente tra le dita abili fino a formare una sfera di fuoco dardeggiante. Il suo dono gli consentiva di manipolare il fuoco. Heat separò le mani di colpo e le due sfere di fuoco rimasero come incollate alle sue dita; lui le scagliò verso i loro bersagli di legno, che presero immediatamente fuoco. Ma non era finita lì.
All'improvviso dall'alto caddero delle gabbie simili a ragni dalle con lunghe zampe. A quel punto Heat mi sorprese: invece di usare subito il suo dono, arretrò e lasciò spazio al suo partner. Nepper s’infilò veloce in bocca una pillola dal colore rosso, poi il suo petto si gonfiò e dalla sua bocca fuoriuscì un getto di fuoco, simile al soffio di un drago. Senza esitare, Heat sollevò un braccio e con il proprio dono di manipolazione raccolse a sé la potente fiammata del compagno e la reindirizzò verso le gabbie. Queste ultime presero fuoco, rivelando così di essere semplici strutture di cartone. Rimasi a bocca aperta davanti a quell'esecuzione maestrale. Erano tutti molto più bravi di quanto mi aspettassi!
Proteggendosi il capo dai frammenti di carta bruciacchiata che fluttuavano sopra di loro, Heat si girò verso Nepper.
-Nepper, hai esagerato un po'- osservò. Nepper lo attirò a sé e con un braccio gli circondò le spalle.
-Oh, ma a te piace quando esagero- disse, e poi gli sussurrò nell’orecchio qualcosa che lo fece arrossire di brutto. In quel momento, però, la voce severa di Desarm rimbombò nella sala.
-Voi due, smettetela di perdere tempo! Fuori!- berciò. Heat si staccò subito da Nepper per l'imbarazzo, ma non si ribellò quando il compagno gli prese la mano mentre uscivano.
Desarm sospirò. -Quei due… Non mi interessa cosa fanno in privato, ma se questa cosa ostacola le missioni dovrò separarli- brontolò, massaggiandosi le tempie con aria stanca.
-Soprattutto se Heat non può camminare perché...- Zell incrociò lo sguardo del capo ed evitò accuratamente di completare la frase. Tutto ciò mi confermò che fra Heat e Nepper ci fosse un certo tipo di relazione, cosa che comunque avevo già intuito da solo.
Imbarazzato, mi girai verso IQ e provai a cambiare argomento.
-Cos'era quella pillola che ha preso Nepper?- chiesi.
-Si tratta di una sorta di inibitore. Nepper è pressoché incapace di controllare i suoi poteri ancora adesso, quindi Desarm ha trovato il modo di procurarsi degli inibitori appositamente per lui- spiegò IQ. Sospirò, spingendo gli occhiali sul proprio naso con un dito. -Seriamente, abbiamo fin troppi piantagrane qui...- borbottò. Stavo per fargli notare che anche lui aveva un caratteraccio, ma in quel momento Desarm mi poggiò una mano sulla spalla e richiamò la mia attenzione sull'addestramento.
-Midorikawa, guarda- disse. Seguendo il suo sguardo, capii subito cosa voleva farmi vedere.
Diam era appena entrato nella sala. Indossava delle grandi cuffie di colore bianco poggiate sulle spalle, con lunghi fili che le collegavano ad un lettore musicale da cui usciva musica ad altissima volume. Potevo quasi sentire la canzone nota per nota. Mi pareva che fosse musica straniera, probabilmente in inglese.
Di fronte a Diam scesero molti più fantocci rispetto a quelli contro cui avevano combattuto gli altri, ma a colpirmi fu soprattutto il modo in cui erano fatti: non erano né di legno, né di stoffa, bensì di metallo, come tanti piccoli robot.
In quel momento Zell mi infilò delle cuffie nere sulle orecchie. -Credimi, ti serviranno- disse quando lo guardai confuso.
-Diam, puoi cominciare- disse intanto Desarm. Lanciai un’occhiata a Diam, dubbioso, chiedendomi cosa sarebbe successo di tanto drammatico. Tuttavia Diam si limitò a infilare le cuffie e stiracchiare le braccia con nonchalance. Sembrava tranquillissimo, immune a tutte le aspettative che c'erano nei suoi confronti. D'un tratto si voltò verso il vetro scuro con un gran sorriso.
-Ehi, Reize, so che sei lì dietro! Mi raccomando, osservami con attenzione, d’accordo? Oggi sono tutto per te- esclamò e mi mandò un bacio in aria. Scossi il capo, esasperato, anche se non poteva vedermi.
-Diam- disse Desarm in tono d'avvertimento.
-Sììì, signore-. Diam scoppiò a ridere, poi finalmente si girò e parve concentrarsi sui nemici. Lo vidi aprire la bocca e inspirare come se volesse risucchiasse tutta l'aria nella stanza.
Poi accadde.
Dalla bocca di Diam cominciarono a uscire onde sonore allo stato puro. Di colpo capii a cosa servivano le cuffie che mi aveva dato Zell. Percepii un canto forte e melodioso, un canto di morte che distruggeva ogni orecchio pronto ad ascoltarlo. Osservai con stupore i robot perdere la testa ed esplodere mentre gli ultrasuoni proseguivano, allargandosi il più possibile nell’aria. Non sembrava neanche che Diam dovesse fermarsi a respirare, come se quel canto non dovesse mai cessare… Invece, dopo qualche minuto, il ragazzo iniziò a chiudere pian piano le labbra e le onde diminuirono d’intensità. Ma non fu tutto questo, a sorprendermi di più. Con mia grande sorpresa, infatti, dal momento in cui Diam aveva cominciato a urlare la mia empatia aveva ripreso a funzionare normalmente. Era come se un blocco fosse stato tolto e, per un attimo, riuscii a vedere delle immagini provenire da Diam: una donna che piangeva, una mano che tendeva un orecchino.
Poi Diam serrò le labbra e le onde cessarono. Mi guardai intorno e deglutii: i robot intorno a lui erano ridotti ad ammassi di ferraglia. Diam si tolse le cuffie e li guardò come se fossero mera spazzatura.
Mi girai subito verso Desarm e mi accorsi che anche lui mi fissava.
-Hai mai studiato la fisica delle onde, Midorikawa?- chiese serio. -Facciamo un esempio… Due onde possono rafforzarsi o annullarsi; ora, se la particella del suono viaggia su entrambe le creste o entrambe le buche delle onde, esse si rafforzeranno e si formerà un interferenza costruttiva. Ma mettiamo il caso che la particella viaggi differentemente… le due onde non si troveranno più sulla stessa frequenza e si annulleranno a vicenda- disse.
-Vuole dire che…?-
-Esatto. Diam è un’interferenza distruttiva. Solo che quando usa i suoi poteri, non può annullare l'effetto dei tuoi.
-Quindi il contatto che si è creato poco fa è stato possibile solo perché lui stava usando i suoi poteri, giusto?- chiesi. Desarm fece un cenno di assenso.
-Ma questa è solo una mia ipotesi, naturalmente- disse. Sembrava che stesse per aggiungere altro, ma fu interrotto da uno squillo di cellulare. Era il suo. Desarm gettò un’occhiata allo schermo e la sua espressione si fece torva.
-Heat, Nepper! Vi voglio pronti in dieci minuti! Scendete in città!- abbaiò uscendo dalla stanza. I due scattarono sull’attenti.
-Che succede?- osò chiedere Heat, con rispetto timoroso.
-Le guardie in nero di Big D sono state intraviste in città… Deve essere nei paraggi- disse atono Desarm. Subito dopo la porta della stanza venne spalancata di botto e Diam apparve sull'uscio.
-Manda me!- ringhiò, ma Desarm lo afferrò per la collottola come un gatto e lo gettò da parte.
-Scordatelo. Torna in camera a riposarti- decise, severo e deciso. –Midorikawa, accompagnalo e assicurati che resti dov’è-. Il suo ordine mi lasciò confuso, ma obbedii senza esitare. Diam lo fulminò con lo sguardo, ma si lasciò trascinare via da me.
A metà del corridoio, percorso di fretta e in silenzio, mollò improvvisamente la presa e mi allontanò da sé con uno schiaffo. Era scuro in volto e sorrideva con amarezza.
-Ah… E magari pensa anche che lo fa per il mio bene…- mormorò sprezzante.
-Sono sicuro che lo faccia per il tuo bene- affermai, cercando di mediare.
-Non mi serve la sua preoccupazione- replicò Diam.
Non capivo di cosa stesse parlando, ma per il momento avevo un solo ordine da eseguire. Superai Diam e aprii la porta della camera. Lui mi seguì dentro, apparentemente docile. Chiusi la porta e, quando mi voltai, vidi che Diam si era seduto con la schiena contro una parete e le ginocchia tirate al petto.
Mi sedetti sul mio letto e lo fissai preoccupato.
–Hanno tutti paura- disse Diam d'un tratto.
-Di cosa? Di Big D?
Diam scosse il capo.
-Hanno paura di cosa farei se trovassi Big D prima di loro- rispose.
Esitai, ma poi la curiosità prese il sopravvento.
-E cosa faresti?- chiesi sottovoce.
Diam rimase in silenzio per qualche momento, poi alzò lo sguardo e un brivido di freddo mi percorse la schiena. I suoi occhi erano privi di qualsiasi emozione.
-Lo ucciderei- mormorò Diam, gelido. -Lo ucciderei con le mie stesse mani.





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**Angolo dell'Autrice**
Aaah, ci ho messo tre giorni a scrivere questo capitolo, è stata una faticaccia. L'università è cominciata, devo andare al british, e poi c'è anche un tempo orribile... che palle però.
Ma comunque: Diam è un personaggio che mi piace molto, anche in IE è un personaggio molto secondario. Per come la vedo io, lui è l'eterno compagno e amico di Midorikawa, quello che gli è rimasto a fianco anche nel periodo dell'Alius. Lo immagino come un tipo tranquillo, mite ed estroverso, che però s'atteggia a persona sicura ed esuberante per farsi accettare; sa quello che vuole e come ottenerlo e non ha paura di mettersi alla prova, veste in modo particolare e ascolta i Linkin Park... e io lo amo (?). LOL.
Spero che la spiegazione sulle onde e le interferenze sia stata chiara... Io purtroppo non conosco benissimo la fisica, conosco solo quello che ho studiato a liceo (che è molto poco in effetti).

Ringrazio vivamente i pochi che recensiscono, ma grazie anche a tutti quelli che mi seguono <3

Baci, 
      Roby



 

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Capitolo 19
*** Mission 19. ~Diam's Arc. ***


Buonasera~ ♪
Oggi pomeriggio, avendo del tempo libero, ho deciso di dedicarmi al continuo di questa fic. 
Questo capitolo è pieno di sottintesi, eheh~ ♪
Cioé, ci sono un sacco di riferimenti a cose di cui si parlerà anche più avanti, e ciò è molto divertente (?).
Dal momento che gli eventi raccontati accadono all'Agency di Tokyo e Midorikawa non è presente, ho adottato il [Normal P.O.V.], cioè il racconto in terza persona e non in prima. Potrebbe capitare ancora, nel corso della fic; in ogni caso, lo segnalerò sempre con l'avvertimento [Normal P.O.V.] all'inizio del capitolo :)
Ci vediamo nelle note in basso!







[Normal P.O.V.]

 


La finestra della chat si chiuse di scatto e lo schermo del pc tornò vuoto.
Kazemaru rimase per alcuni minuti a fissare lì dove un attimo prima c’era il volto del suo migliore amico, lontano chilometri da lui.
Ancora non capiva bene il motivo della sua scelta. Glielo aveva chiesto più volte ma tutto ciò che aveva ottenuto era stata una vaga spiegazione sul “prendere le distanze”… Distanze da cosa, poi, lo sapeva solo lui. Midorikawa, negli ultimi tempi, era sempre teso come una corda di violino. Più di una volta, rientrando da un appuntamento con Endou, Kazemaru lo aveva trovato che già dormiva, nonostante fosse molto presto. Chissà se aveva ancora incubi, e chissà se a quelli sul mistero della sua infanzia se ne erano aggiunti alcuni sul Maestro Jordaan… Midorikawa non ne aveva mai fatto parola: si era chiuso completamente in se stesso.
Qualcuno bussò alla porta.
Sospirò e chiuse il pc per andare ad aprire e si trovò di fronte Maki e Reina.
-Ciao, Kaze-kun! Andiamo a fare colazione insieme?- esclamò Maki. Quel giorno indossava un esuberante maglione arancione che le arrivava fino alle ginocchia che non poteva non saltare all’occhio. Kazemaru decise di non fare commenti.
-Sì, vengo subito- mormorò.
Afferrò un codino qualunque dal cassetto e si legò i capelli nella solita coda di cavallo, lasciando che un ciuffo di capelli azzurri gli ricadesse sull’occhio destro. Mentre girava la chiave nella toppa, Maki lo squadrò da capo a piede, osservò che i suoi pantaloni non si intonavano con l’elastico per capelli e si mise a insistere perché lo cambiasse. Kazemaru si girò verso Reina, che gli fece un cenno di assenso: tutti ormai erano rassegnati alle numerose stranezze di Maki. Il ragazzo assecondò il suo capriccio, usò il codino che Maki scelse per lui, e solo dopo altri cinque minuti riuscirono a scendere per la colazione.
-Allora… hai sentito Midorikawa?- chiese Reina.
-Oh! Sì, proprio stamattina. Abbiamo parlato un po’…
–Come si trova?
-Bene… ha detto bene- rispose Kazemaru, sovrappensiero. In effetti, Midorikawa aveva ripreso un po’ di colorito rispetto a quando l’aveva visto l’ultima volta. Questo era positivo, no?
-E il suo partner…? Com’è che Clara ha detto che si chiama?- domandò Maki.
-Diam- rispose Kazemaru, poi tacque, indeciso su cosa riferire di ciò a cui aveva assistito. Diam non gli aveva fatto una bella impressione, proprio no. Sembrava che si divertisse a stuzzicare Midorikawa… Povero Midorikawa, lo aspettavano giorni duri.
-Midorikawa ha detto che si trova bene- disse infine, cercando di suonare convinto. A giudicare dalle espressioni delle ragazze, però, non doveva esserci riuscito tanto bene.
-Speriamo- borbottò infatti Reina.
Intanto avevano raggiunto la mensa, in cui il rumore di posateria e piatti disturbava ogni possibile conversazione. Si avvicinarono al bancone e si fecero servire una porzione di uova strapazzate abbondanti e riso dall’addetto alla cucina, un ragazzo di nome Tobitaka che era stato assunto da poco. Nonostante fosse lì da appena un paio di settimane, si era già fatto notare: odiava a morte gli sprechi di cibo e quando assisteva a episodi simili finiva per perdere il controllo e tirare calci a tutto ciò che aveva attorno, ragion per cui la maggior parte delle persone più che rispettarlo lo temeva. Ma era anche una brava persona e riempiva generosamente i loro piatti, soprattutto quando sapeva che erano i loro preferiti.
-Buon appetito. Mangiate fino all’ultima briciola!- raccomandò Tobitaka, con un sorriso fiero.
-Okay, Mister!- replicò Maki, facendo allegramente il saluto militare. Tobitaka annuì con una certa soddisfazione, mentre si occupava di servire altre persone in fila.
Kazemaru si voltò e intravide una testolina blu fare capolino fra la folla. Clara era così bassa che scompariva quasi quando era circondata di persone, e di certo sarebbe stata calpestata se non avesse avuto la fortuna di finire sotto l’ala protettiva di Gazel.
Forse perché era così timida ma intelligente, o forse perché l’affascinavano i misteri così come affascinavano lui, Gazel l’aveva subito presa in simpatia, tanto che non era raro vederla più spesso con lui che non con Hiroto, il partner assegnatole.
Quando li vide, un timido rossore le tinse il volto pallido. Kazemaru, Reina e Maki la raggiunsero e si sedettero al suo tavolo, dove c’erano anche Gazel e Burn.
-Buongiorno!- esclamò Maki, scompigliando i capelli di Burn con affetto. Il ragazzo sbuffò e affondò il viso nella propria ciotola di riso. Maki ridacchiò, indovinando il motivo del suo cattivo umore: ultimamente Gazel non faceva che prendersi cura di Clara.
-Clara, dovresti mangiare di più, o ti mancheranno le forze- stava appunto dicendo Gazel, mentre spostava un generoso cucchiaio di riso dalla sua ciotola a quella di Clara, che in effetti sembrava così fragile da poter essere spostata da un soffio di vento.
-Ti ringrazio, ma per me va bene così…- disse Clara in un filo di voce, accennando un sorriso imbarazzatissimo.
-Oggi ho sentito Midorikawa, dice che si trova bene- buttò lì Kazemaru, tanto per dire qualcosa.
-Non ne dubito. Quel ragazzo ha delle capacità di adattamento impressionanti- osservò Gazel.
-Sono felice per lui. I ragazzi lì sono fantastici- aggiunse Clara, piano.
-Anche Diam?- chiese Kazemaru. Non riuscì proprio a trattenersi.
Notò subito come Clara si bloccò per un istante, presa in contropiede. La mano che teneva la forchetta tremò un pochino. La ragazza doveva pensare che fosse successo qualcosa, o semplicemente conosceva bene quel Diam. In ogni caso, la sua esitazione nel rispondere riempì Kazemaru di apprensione. Dopo quel singolo momento di sorpresa, però, Clara posò la forchetta, si coprì la mano tremante con l'altra e rivolse a Kazemaru una lunga occhiata eloquente.
-Sì, anche lui, anche se può sembrare un po'... strano- disse in tono tranquillo e inaspettatamente fermo. Poi tornò alla propria colazione come se non fosse successo nulla.
Kazemaru annuì e tornò a guardare il proprio piatto. Non era ancora sicuro di cosa pensare e l'apprensione non diminuì.
-Vuoi un altro po’ di latte caldo, Clara?- chiese Gazel, corrucciato. -Stai bene? Tremi… Dovresti mettere indumenti più pesanti.
-Eh, Clara, che poi ti ammali- brontolò Burn in tono sarcastico. Gazel lo ignorò, mentre Clara parve non sentirlo affatto, e la mancanza di reazioni da parte di entrambi non fece che acuire la frustrazione del rosso, che si mise ad infilzare con furia le uova.
-La gelosia è una brutta bestia, Haruyan- sussurrò Maki. Burn le gettò un’occhiataccia.
-Taci, Dyson- replicò. Maki gli fece una linguaccia e tornò a mangiare.
-Non ti preoccupare, al monte Fuji fa ben più freddo di qua- stava dicendo intanto Clara, poi si mise a raccontare come il paesaggio si riempisse di neve durante quella stagione.
-Spero che Midorikawa si sia portato degli indumenti pesanti…- osservò Reina, materna. –Gli ho prestato una sciarpa, ma non so se basterà… Spero che non si ammali.
-Sarebbe solo l’ennesima disgrazia che quel ragazzo si tira addosso- ribatté una voce, intervenendo a sorpresa nella conversazione. I ragazzi si girarono e videro Hiroto, che si era avvicinato al tavolo senza attirare l’attenzione.
-Midorikawa starà bene. È più forte di quanto si creda- disse con voce ferma, poi si girò verso Clara. -Ti stavo cercando, Clara. Mi fai preoccupare se sparisci all’improvviso.
-Scusami, K-Kiyama-san… Gazel-san è passato a prendermi presto stamattina, mi ha dato degli interessantissimi libri gialli che non avevo mai letto…- mormorò Clara, arrossendo per l'imbarazzo.
-Lasciala stare, Hiroto, è colpa mia- intervenne Gazel. Gettò a Hiroto una lunga occhiata e il rosso decise di lasciar cadere l’argomento. Sospirò e si sedette fra Clara e Maki, in modo tale da trovarsi di fronte a Kazemaru.
-Dov’è Endou?- chiese.
-È uscito con Gouenji e Kidou, sono andati a fare due tiri a pallone- rispose Kazemaru abbassando lo sguardo. Non avrebbe saputo dire bene perché, ma parlare con Hiroto lo metteva a disagio, soprattutto perché da quando si era messo con Endou il rosso lo trattava con estrema gentilezza. Era una strana sensazione, soprattutto perché Kazemaru pensava di non piacergli affatto.
-Sai qualcosa di Midorikawa?- chiese all’improvviso il rosso, con un tono decisamente più curioso di prima. Kazemaru lo guardò, dubbioso, poi ripeté anche a lui che aveva parlato con Midorikawa quella mattina e che stava bene. Hiroto sembrava stranamente nervoso, e Kazemaru pensò che fosse ancora più strano che si preoccupasse, lui, di Midorikawa, visto che sembrava piacergli anche meno.
Ma forse c'era qualcosa che gli sfuggiva. Aveva avuto più volte l'impressione che tra Hiroto e Midorikawa fosse successo qualcosa, ma non c'era modo di saperlo con certezza, visto che nessuno dei due sembrava intenzionato a parlarne, men che mai con lui.
I suoi pensieri vennero bruscamente interrotti da Maki, che all'improvviso si alzò in piedi e gridò. -Eeeeeeh? Davvero? Ma allora sei un genio!
Tutti sobbalzarono per il volume della sua voce. Reina si coprì l’orecchio con una mano e le scoccò uno sguardo torvo. Per un momento Maki si coprì la bocca, imbarazzata, ma poi tornò subito all'attacco.
-Haruyan, Haruyan, senti questa! Clara sa predire il futuro!- esclamò allegra.
-Oooh, che culo- disse Burn alzando gli occhi al cielo. Il suo finto entusiasmo non scalfì l’inguaribile ottimismo dell’amica, che afferrò le mani di Clara e fece un largo sorriso.
-Dai, prova con me!- esclamò.
-A-aspetta, non è una cosa che si può fare così!- replicò la ragazzina, avvampando vistosamente. Stare al centro dell’attenzione non le piaceva nemmeno un po’, e la sua voce si abbassò di un’ottava, tremante. –E poi, non è proprio una predizione del futuro…
-Di che si tratta?- chiese Gazel interessato.
-Ecco… avete mai sentito parlare del kumalak? È un gioco che gli sciamani asiatici usano per leggere passato, presente e futuro delle persone- disse Clara piano. –È esattamente questo che posso fare io. Ho un “terzo occhio” molto sviluppato, diciamo…
-Be', facci vedere! Scommetto che sei eccezionale!- cinguettò Maki.
-Se p-proprio vuoi, ci proverò per te…- mormorò Clara. Aprì la borsa a tracolla celeste che portava sempre con sé e prese da dentro un sacchetto di velluto marrone, nel quale c’erano un panno verde ripiegato in quattro parti e una scatolina nera.
Gazel e Maki spostarono i vassoi in modo da crearle un po’ di spazio sul tavolo. Clara stese il panno con movimenti delicati, rivelando una specie di tabella di nove caselle, cucita con bordi dorati sul verde scuro; dallo scatolino uscì un gruppetto abbastanza numerosi di sassolini neri o marrone scuro, che Clara ammassò ai lati della tabella.
-Allora… Per prima cosa, Maki-chan, dovresti toccare i sassolini. Concentrati bene su cosa vuoi chiedere, mi raccomando.
Maki annuì e obbedì alle istruzioni. Quando ritrasse la mano, Clara divise i sassolini in due gruppi e ne dispose alcuni nella tabella; poi chiese a Maki di toccare il gruppetto di sassolini rimasti fuori e ripeté di nuovo la stessa operazione di prima.
Una volta finito il rito, Clara si mise ad osservare la tabella che aveva di fronte.
-Maki-chan… vorresti trovare l’amore della tua vita, vero?- chiese con un sorriso.
Maki avvampò. –Come fai a saperlo? Dove c’è scritto? Oh, oh santo cielo- farfugliò nervosa.
-Il presente ti descrive come una persona romantica e creativa. Vorresti trovare un amore come quello dei film, ma sei molto insicura sulla strada da intraprendere… Nel tuo passato c’è una cotta non ricambiata per un amico d’infanzia…- spiegò Clara, con gli occhi fissi sulla tabella.
-Eh? Davvero? Lo conosco, Dyson?- la interruppe Burn sorpreso.
Maki arrossì e fece un gesto infastidito. –Oh, taci- borbottò.
-Comunque, in futuro troverai una persona che ti capisce davvero… e potrebbe essere il tuo vero amore- continuò Clara, cercando di rassicurarla. Il volto di Maki, infatti, si illuminò.
-Davvero? Quando?- esclamò saltando su di scatto.
-Ehm… non lo so. Il kumalak non può dirmi con precisione quanto prossimo sia il futuro di cui stiamo parlando…- disse Clara.
-Oh. Okay, non fa niente-. Maki si rimise seduta, un po’ delusa, ma presto tornò a sorridere affettuosamente alla sua nuova amica. –Sei geniale, Clara!- commentò.
-Mmh- Hiroto fece un verso poco convinto, mentre appoggiava il viso su una mano, un po’ annoiato. Gli altri si voltarono a guardarlo.
-Che c’è, Hiroto?- chiese Maki accigliata.
-Ho l’impressione che sia un po’ scettico- osservò Reina.
-Ma no, penso solo che... Be', quelle cose avrebbe potuto indovinarle chiunque solo guardandoti, Maki- disse Hiroto.
-E con questo che vorresti dire, scusa?!- sbottò Maki, indignata.
Kazemaru intervenne subito per placare le acque.
-Se non ci credi, non ti farà male provarci anche tu, no?- propose.
Hiroto spostò lo sguardo da lui a Clara, pensieroso. Dopo un momento, acconsentì.
–Ma sì, perché no?
-Uuuh, sono curioso di vedere cosa dirà la signorina su Mister Perfettino. Finalmente le cose si fanno interessanti!- esclamò Burn, con un ghigno. Gazel alzò gli occhi al cielo.
Clara liberò il panno dai sassolini, lo ripiegò e poi lo distese sul tavolo, preparandosi a rifare il gioco daccapo.
–Tocca i sassolini e sta concentrato su ciò che vorresti chiedere.
Hiroto annuì e, dopo una breve riflessione, posò la mano destra sui sassolini; la tenne solo pochi secondi, poi Clara gli consentì di ritrarla. Questa volta la ragazza non dispose immediatamente i sassolini sul panno, ma si fermò a fissare la tabella dorata per qualche istante in più: lasciò scivolare piano i sassolini dalle dita nelle caselle e, mentre prima non aveva notato nulla, ora Hiroto intravide una leggera fluorescenza azzurra nel suo sguardo concentrato. Ripeterono l’operazione, e la seconda volta il rosso vide con chiarezza anche il filo di luce azzurra che avvolgeva le dita di Clara mentre lei lasciava cadere i sassolini: era il filo a decidere la loro posizione, il loro significato. Era il “terzo occhio” di Clara.
-Ho finito- sussurrò la ragazza.
Il suo sguardo era fisso sulla tabella. Per molto tempo nessuno disse nulla, e Maki addirittura tratteneva il fiato per la tensione. Hiroto credette quasi che Clara stesse per rinunciare a leggervi qualcosa, quando all’improvviso lei iniziò a parlare.
-Non è solo una la cosa che ti tormenta, vedo… Sei stato molto indeciso quando hai dovuto scegliere a cosa pensare, giusto?- mormorò Clara, totalmente presa dalla predizione.
-Sei molto confuso in questo momento, pieno di dubbi… Il tuo passato ti insegue... E anche il tuo futuro è offuscato. Nel presente c’è una persona che occupa costantemente i tuoi pensieri, e tu stesso non riesci a spiegartene il motivo… Forse… Forse ne sei inn…
In quel momento Hiroto si alzò di scatto e sbatté le mani sul tavolo. Clara sobbalzò e alzò lo sguardo, spaurita: il contatto con il terzo occhio cessò bruscamente.
-Devo proprio andare- disse Hiroto con decisione, e prima che qualcuno potesse fermarlo si voltò e uscì dalla mensa a gran passo.
Un silenzio sorpreso e sconcertato calò nel tavolo.
-L’ho fatto arrabbiare, vero?- pigolò Clara.
–No, non sei tu, è un po’ nervoso di suo- disse Gazel per rassicurarla.
-In ogni caso, è stato molto maleducato! Ma che gli prende?!- protestò Maki.
Gli altri tacquero, ognuno intento a rimuginare sull’accaduto per i fatti propri. Infine, Reina tirò un lungo sospiro e si passò una mano tra i capelli.
-Vado a liberare il vassoio- disse e si alzò. Kazemaru la seguì, e insieme raggiunsero il bancone. Mentre gettavano i tovagliolini usati nel cestino, Kazemaru si sporse per sussurrare al suo orecchio.
-Secondo te, cos’è è appena successo?- chiese, curioso di vedere se la ragazza la pensava come lui. Non ne fu deluso.
-Secondo me Hiroto ci nasconde qualcosa- rispose Reina seria.
Kazemaru annuì e fece un appunto mentale di dire tutto a Midorikawa non appena l’amico fosse tornato dal viaggio.

 



xxx
 

 

Hiroto camminava a passo spedito, forse con un po’ troppa fretta; quando se ne accorse, rallentò fino a quasi fermarsi.
Aveva perso il controllo per una bazzecola, davvero non era da lui… Doveva ricomporsi in fretta, che avrebbe fatto se qualcun altro lo avesse visto in quello stato?
Prese un bel respiro. Era troppo agitato. Era stato un errore scattare così davanti agli altri, avrebbe dovuto restare seduto e sorridere dicendo che non era vero niente… perché diavolo non c’era riuscito? Non avrebbe mai dovuto accettare di fare quello stupido gioco fin dal principio, ma si era lasciato prendere dalla curiosità. Un brutto errore. Il volto di quella persona gli tornò in mente, vivido: ancora ora se chiudeva gli occhi, riusciva a rievocare le lacrime che aveva versato per lui, le sue braccia tremanti che lo stringevano…
-No, no- mormorò. Era vero, non riusciva proprio a smettere di pensarci… Innamorato? Sono innamorato di lui...?
In quell'esatto momento qualcuno pronunciò il nome di Midorikawa a voce alta.
Hiroto si riscosse dai suoi pensieri e il suo sguardo corse alla porta socchiusa dell’ufficio di sua sorella. Scosse il capo, avvicinandosi per chiudere la porta: se voleva che le sue conversazioni restassero private, poteva almeno ricordarsi di chiuderla…
-Ho paura che Diam possa fare qualcosa di sconsiderato e che possa trascinarci dentro Midorikawa. Sicura che sia una buona idea? Non sai di cosa è capace Diam…
Hiroto s’immobilizzò sentendo quelle parole. Conosceva quella voce: era Saginuma Osamu, la Spy Eleven del posto dov'era andato Midorikawa.
-Non conosco Diam, ma so di che pasta è fatto Midorikawa. È la persona più adatta a stare accanto a Diam, in questo momento. Ti chiedo solo di avere fiducia in lui, Osamu.
-Mi fido di lui, e soprattutto di te-. Saginuma sospirò. -Ma la situazione è più grave di quanto pensi...
Hiroto non riuscì più a trattenersi: Saginuma aveva appena pronunciato l’ultima parola quando il ragazzo aprì bruscamente la porta, facendola sbattere contro il muro.
Sia Hitomiko che Saginuma (o meglio, il suo volto dentro lo schermo del computer) gli lanciarono un’occhiata accigliata.
-Hiroto? Che ci fai qui?- lo interrogò sua sorella, mettendosi una mano sul fianco.
Hiroto ignorò la domanda.
-Midorikawa sta bene? Cosa gli succederà? Chi è questo Diam? Che diavolo sta succedendo? Avanti, ditemelo!- esclamò.
Calò il silenzio. Passarono minuti interminabili, in cui Hiroto temette di aver esagerato. Si aspettava che sua sorella gli avrebbe fatto la ramanzina, invece lei gli rispose con pacatezza e serietà.
-Questo ragazzo, Diam, ha un conto in sospeso con Big D. Osamu crede che Diam voglia trovarlo e occuparsi di lui a modo suo- spiegò.
Hiroto la fissò senza parole e Saginuma prese la parola.
-Una decina di anni fa, quando ero ancora un agente, andai a indagare su un caso... Un incendio scoppiato in un'abitazione aveva raso al suolo la casa e ucciso l'intera famiglia. Dall'indagine uscì fuori che Big D. aveva ordinato quell'esecuzione. Ma la missione diede anche un altro risultato, alquanto inaspettato: trovai un superstite, un bambino di nome Miura Hiromu- disse.
-Lo presi con me e lo chiamai Diam. È uno dei miei agenti migliori. Tuttavia... Da quando ha scoperto chi è il vero responsabile dell'omicidio dei suoi, è diventato ossessionato dalla vendetta.
Hiroto aveva molte domande, ma ne scelse una sola e, non appena ritrovò la voce, la fece.
-Midorikawa... è in pericolo?- chiese.
Saginuma lanciò un'occhiata a Hitomiko, poi sospirò.
-Vorrei poter dire di no- disse, cupo. -Ma se non riuscirà a convincere Diam a lasciar perdere, il tuo amico potrebbe finire in guai molto seri.







 

 **Angolo dell'Autrice** 

Eccomi qua! 
Dal momento che Clara mi sembrava un personaggio un po' troppo insignificante (?) ho deciso di darle questo potere speciale. Per inciso, il kumalak esiste davvero e funziona più o meno come ho cercato di spiegarvi nella fic (a meno che io non abbia capito niente, ovviamente XD). Le nove caselle della tabella riguardano presente/passato/futuro, ma anche carattere e situazione mentale. Posso capire che molti siano scettici riguardo queste cose; io comunque l'ho provato quest'estate e, non so se sia stata una coincidenza o no, ci ha azzeccato abbastanza.
La prima cotta di Maki era Burn, come molti avranno immaginato (?), ma non credo che svilupperò molto la faccenda.
Età dei personaggi di questo arc ► Diam, Nepper, Heat (16); Clara, IQ, IC (14); Zell (18); Saginuma (22). 


Grazie a tutti per le recensioni, adoro sentire le vostre opinioni (✿◕‿◕)

Baci, 
     Roby

 

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Capitolo 20
*** Mission 20. ~Diam's Arc. ***


Boa tarde <3
Bene, si torna alla prima persona! E il narratore è, ovviamente, Midorikawa. Questo capitolo mi è venuto un po' più lungo del solito e si parlerà in modo più approfondito della storia di Diam, soprattutto attraverso l'empatia di Midorikawa. Ci vediamo nelle note sotto il capitolo, buona lettura!
Roby


 





Diam alzò lentamente lo sguardo su di me e inclinò un po’ il capo.
-Cosa c’è? Hai paura di me adesso, Reize?- chiese, sorrise con amarezza.
Solo in quel momento mi resi conto che avevo smesso di respirare, per lo shock o per il terrore, non sapevo con certezza cosa avrei dovuto provare. Le parole di Diam mi erano piombate addosso come una ventata di gelo: facevo fatica a credere che quell’inaspettata crudeltà facesse parte della personalità indubbiamente eccentrica, ma allegra e generosa, del mio partner. Dov’era andato a finire il suo sorriso rassicurante? Perché era stato spazzato via, tutto a un tratto, da quell’espressione vuota e tagliente?
-Stai tremando- mormorò Diam. –Ti disgusto così tanto?
-N-non è questo!- mi sforzai di contraddirlo. Strinsi i pugni e abbassai lo sguardo, mentre nella mia testa si svolgeva una lotta per decidere se potevo ancora fidarmi di Diam oppure no.
-Come puoi… anche se si tratta di persone del genere… come puoi dire con tanta leggerezza che uccideresti un uomo?! Nessuno può arbitrariamente decretare la vita o la morte di una persona, nemmeno se si tratta del peggiore dei criminali!- gridai.
Il ricordo di Jordaan con le mani sporche di sangue mi balenò in mente, e improvvisamente capii cosa mi dava tanto fastidio: non le parole, non l’espressione di Diam, ma il pensiero di vederlo con le mani sporche davanti ai miei occhi… era semplicemente disgustoso. Non avrei mai più potuto toccarlo. Sarebbe diventato il mio peggior incubo. Odiavo quell’immagine.
Sentii la frustrazione riempirmi quando notai che Diam era stato minimamente smosso dal mio rimprovero; mi lanciò uno sguardo di disappunto, quasi compassionevole, come se mi ritenesse troppo immaturo per capire.
-Ma è esattamente ciò che hanno fatto loro, Reize- disse, la voce atona più che pacata. -Non avevano alcun diritto di mettere fine a tre vite per capriccio, eppure l’hanno fatto.
Non abbassai la guardia, ma domandai cauto:- Cos'è successo?
Diam sospirò e voltò il capo, stringendosi le spalle con le mani. Non potevo fare a meno di pensare che lo facesse per trattenersi dal saltarmi al collo e uccidermi.
-A quel tempo vivevo con due persone, Sayaka Miura e il suo ragazzo… Sayaka era giovane, troppo giovane, aveva fatto credere a tutti di essere mia sorella. Aveva mentito anche a me. In realtà, loro erano i miei genitori... ed io sono l’unico sopravvissuto di quella minuscola famiglia.
-Per molto tempo ho ignorato il motivo per cui morirono. Solo dopo anni ho scoperto la verità frugando tra le carte di Desarm. Mio padre chiese in prestito dai soldi a Big D, ma quel sacco di merda fece fallire l'investimento, per poi chiedere gli interessi... Lo ha fatto lavorare gratis per ripagare il debito e, quando non ha potuto più sfruttarlo, ha voluto cancellare le prove. Ecco perché quell'incendio… così non ci sarebbero stati testimoni scomodi. Ma commise un errore: si dimenticò di me.
Diam socchiuse gli occhi e le sue dita corsero a spostare le ciocche di capelli castani dalle orecchie: il pendente viola scivolò in bella vista.
-Sayaka mi aveva chiuso nella vecchia cantina, dove rimasi nascosto per tutto il tempo, lì dove le fiamme non arrivarono mai… Quest’orecchino era suo- disse Diam. -Desarm mi trovò e mi prese con sé. Allora ero troppo piccolo per collegare i miei ricordi spezzati... Ma poi, qualche anno dopo, ricordai tutto. Lo vidi in un sogno... Per la prima volta, capii cosa davvero era successo quella notte.
-Non riuscivo più a mangiare o dormire. Non trovavo un senso alla mia vita. Finché non ho deciso... Ho giurato a me stesso di vendicare i miei genitori e uccidere Big D.
Il suo sguardo in quel momento non mi piaceva affatto.
-Smettila di parlare così...- dissi, mi tremava la voce. Diam mi scoccò un’occhiata cupa.
-Apprezzo la tua onestà, Reize, davvero. Mi piaci tanto, quindi non costringermi a toglierti di mezzo.
-Tu devi soltanto provarci- sibilai, fronteggiandolo a viso aperto. Non mi importava se poteva leggere la paura nei miei occhi, purché vedesse anche la mia determinazione.
Diam rimase a fissarmi, in silenzio. Sembrava tranquillo, ma i suoi occhi erano indecifrabili, vuoti. Ma non c'era bisogno di usare l'empatia per cogliere la sua rabbia e il suo dolore.
-Vado a farmi una doccia. Devo schiarirmi un po’ le idee- tagliai corto. Non era una bugia: avevo veramente bisogno di togliermi Diam dalla vista per un po’, o non mi sarei mai calmato. La situazione richiedeva lucidità e sangue freddo.
Mi voltai e mi chiusi in bagno, deciso a non uscire per un bel po'. Una volta dentro, mi spogliai in fretta, spargendo vestiti ovunque, e mi infilai subito sotto la doccia.
Mentre l’acqua mi scorreva addosso, chiusi gli occhi e ricordai le immagini che avevo visto durante la sessione di addestramento. Una donna, un orecchino… una lacrima. Ora tutto questo acquisiva significato. I sentimenti di Diam mi erano perfettamente chiari.
Il desiderio di vendetta era soltanto una conseguenza ovvia del suo trascorso… Io stesso sapevo come ci si sentiva. Non ne avevo parlato con nessuno, ma durante la settimana che seguì al funerale di Jordaan avevo più volte pensato di fuggire, di trovare da solo i suoi assassini e ucciderli... Non mi importava di cosa ne sarebbe stato di me dopo. Ma la gentilezza, l'affetto e la forza delle persone che mi stavano intorno avevano dissolto la mia rabbia. Non ero solo. La vendetta non avrebbe portato che ad altro odio, e volevo che anche Diam lo capisse.
Tirai un lungo sospiro e ripensai a lui. Cosa sapevo di Diam? Che era eccentrico, faceva sempre come voleva, amava prendere in giro gli altri. Sapeva essere veramente figo. Spesso la sua allegria era forzata, e nascondeva a tutti i suoi veri sentimenti. Non riuscivo a capirlo fino in fondo, ma ero convinto che non fosse una cattiva persona. Quella era stata la prima volta in cui era stato totalmente sincero con me, ed era già un buon punto di partenza.
Quando uscii dal bagno, Diam se n'era andato, ma poco importava. Avevo preso una decisione.

 

xxx
 

Parlare in modo naturale con Diam dopo quel giorno diventò difficilissimo, per non dire impossibile. Che il ragazzo fosse di cattivo umore si vedeva a miglia di distanza, e lo era specialmente se c’ero io, o se c’erano Heat e Nepper (colpevoli di essere stati mandati a caccia di Big D al suo posto).
Circa cinque giorni più tardi, quando mi svegliai, trovai il suo letto totalmente rifatto. La finestra era aperta, e capii che probabilmente non ci aveva proprio dormito. Mi alzai e chiusi l’infisso, con un sospiro. Faceva veramente freddo… osservai malinconicamente la neve per un po’, poi mi decisi a vestirmi e scesi per la colazione. Quando mi vide arrivare da solo, Zell mi guardò sorpreso.
-Dov’è Diam?- chiese servendomi le uova. Scossi il capo.
-Non lo so. Io e lui non parliamo tanto- risposi, cupo. –In realtà, non parliamo affatto.
Zell sembrò capire e mi diede una pacca sulla spalla, comprensivo. Anche IC mi si avvicinò e mi abbracciò. IQ, vedendomi afflitto, per una volta rinunciò a fare commenti troppo duri.
-Stai tranquillo, Reize. Andrà tutto bene. Cerca di sorridere, se sei così cupo anche Diam sarà sempre triste… Se invece sorridi, magari sorriderà anche lui!- esclamò IC e, con le dita, mi tirò su gli angoli della bocca.
-Diam è solo un po’ scosso dagli ultimi avvenimenti… tornerà normale, vedrai- aggiunse. Anche se tutto ciò che riuscivo a fare era uno stupido sorriso di scuse, mi sforzai di controllarmi e le accarezzai i capelli con affetto.
-Ti ringrazio. Mi dispiace farti preoccupare- le dissi. IC sorrise, sembrava volesse aggiungere qualcosa, ma in quel momento Nepper fece cadere la forchetta nel piatto con fracasso. Non era stato un caso. Ormai era chiaro che Nepper si esprimeva sempre in modo rumoroso, che fosse euforia o disappunto come in questo caso.
-La possiamo smettere di raccontarci cazzate? Non puoi mettere Diam e la parola “normale” nella stessa frase. Quello lì ha dei seri problemi- disse, palesemente irritato. IQ si voltò di scatto verso di lui, stizzito.
-Non parlare così a mia sorella- disse, guardandolo torvo.
Nepper schioccò la lingua contro il palato e incrociò le braccia al petto.
-Be' scusa, ma è la verità. Che è lunatico si sapeva da tempo, ma ora è impazzito per davvero- brontolò. –Mi fa venire i brividi.
-Non sono cose belle da dire- lo rimproverò IC. -Heat, digli qualcosa tu!
Heat era l’unico a cui Nepper desse ascolto, in qualunque situazione. Anche io mi voltai verso di lui, ma dalla sua espressione intuii che stavolta era d’accordo con il suo partner.
Heat posò la forchetta nel piatto e si tirò la felpa fin sopra il mento, un gesto che tradiva insicurezza.
-Mi dispiace, IC. Nepper esagera, ma io credo che non abbia tutti i torti- mormorò.
IC lo guardò incredula e Nepper schioccò di nuovo la lingua. Heat alzò lo sguardo su di me.
-Scusami, Reize, ma non so come tu faccia a convivere con uno che pensa solo alla vendetta...
-Invece amoreggiare da mattina a sera rende molto meglio, vero, Heat?
La battuta venne da una voce gelida e scura. Heat rabbrividì e girandosi i suoi occhi incrociarono quelli di Diam: il mio partner era appena entrato nella stanza, con la giacca e i capelli bagnati di neve e un’espressione molto più spaventosa in volto.
-Se hai qualcosa da ridire, vienimela a dire in faccia, cretino- brontolò.
-Non ho nessun problema a farlo, ma tieni fuori la mia vita sentimentale- replicò Heat tagliente. Si alzò da tavola per fronteggiare Diam, il quale aveva tirato i pugni fuori dalle tasche e si avvicinava minaccioso. Anche Nepper si alzò, pronto ad affiancare il suo partner.
-Ragazzi, non vorrete picchiarvi qua dentro…- pigolò IC. Si aggrappò alla felpa di Nepper, in un debole tentativo di fermarlo, ma IQ glielo impedì e la tirò invece dietro di sé, protettivo.
-Non possiamo fermarli, non immischiarti. Non voglio che ti facciano male- lo sentii sussurrare alla sorella. Lei si calmò sentendo quelle parole, ma non staccò lo sguardo dai suoi amici, tormentata. Quando IQ mi lanciò una rapida occhiata, intuii al volo la sua silenziosa richiesta d'aiuto e mi frapposi tra i gemelli e i tre litiganti. Zell, che fino a quel momento era stato in disparte, ora sembrava introvabile: era uscito senza che nessuno se ne accorgesse.
-Non azzardarti mai più a parlare così a Heat!- ringhiò Nepper, furioso. Se fosse stato possibile uccidere con lo sguardo, quello di Nepper avrebbe seccato Diam in un istante. All’inizio si era solo affiancato a Heat, ma lentamente si era mosso fino ad occupare completamente lo spazio che divideva Heat e Diam.
-Avanti, Nepper, fatti sotto. Tanto doveva succedere prima o poi- lo esortò Diam. Nepper scoprì i denti, come una belva rabbiosa.
-Sapessi quanto ho aspettato di poter rovinare il tuo bel faccino- sibilò.
Diam si ritrasse e scoppiò a ridere.
-Oddio, che paura- commentò, sardonico. Il suo sguardo si spostò dal viso al braccio che Nepper aveva steso davanti a Heat per impedirgli di intervenire, poi tornò al suo viso. Le sue labbra si piegarono in una smorfia. –Quanta determinazione nel proteggere qualcuno, per uno come te- sussurrò.
Aveva detto quella frase a voce bassissima, ma fu come gettare una bomba. Mi guardai intorno spaesato, ma a quanto pareva ero l’unico a non sapere cosa intendesse dire Diam.
Heat, IQ ed IC si erano pietrificati. Nepper iniziò a tremare per la rabbia.
-B-bastardo… Questa volta ti ammazzo sul serio, stronzo!
Nepper esplose letteralmente come una bomba. La stanza fu avvolta da fuoco e fiamme e l'aria diventò così calda da essere insopportabile. Nepper respirava fuoco e sputava fiamme dalla bocca come un drago, fiamme che ben presto si scagliarono dall’alto contro Diam. Mi resi conto che Nepper non aveva preso il suo inibitore.
-Sta tentando davvero di ucciderlo?!- sbottai, inorridito.
-Heat, fai qualcosa! Ferma Nepper!- gridò IQ. Heat deglutì, spostando lo sguardo da Diam e Nepper e viceversa mentre prendeva una decisione. Poi si tuffò in mezzo alle fiamme. Capii che stava cercando di controllare e allontanare il fuoco, arrivando persino a risucchiarlo dentro il proprio corpo. Heat era straordinario, ma non poteva farcelo da solo, non quando Nepper era in quello stato. Le fiamme, infatti, non accennavano a spegnersi.
L'unico che non sembrava spaventato da tutto questo era proprio Diam, che rimase immobile fino all’ultimo secondo. Le fiamme arrivarono a bruciacchiargli le punte dei capelli e i vestiti. Gridai forte il suo nome, facendo un passo avanti per poter vedere meglio la scena attraverso la coltre di aria bollente.
Vidi Diam mettersi le cuffie.
Tutti si coprirono le orecchie immediatamente, ma senza tappi o cuffie era difficile proteggersi davvero dalle onde di Diam. La testa cominciò a farci male subito. Nepper resistette alcuni minuti in più grazie alla fascia, che gli copriva in parte le orecchie, ma il suono era così intenso che ben presto ogni resistenza divenne inutile. Nepper cadde in ginocchio e, ora che non poteva più usare il suo dono, l’incendio che aveva causato cominciò a estinguersi da solo. Diam, tuttavia, non si fermò neppure dopo aver vinto. Non si trattava più di attaccare o difendersi, quelle onde costituivano soltanto uno sfogo: erano urla.
Premetti forte le mani sulle orecchie. Sentivo la testa scoppiarmi: all’intensità del suono, si aggiunse quella dei ricordi e dei pensieri di Diam, che una volta usato il suo potere aveva anche rilasciato il blocco di accesso alla sua mente.
 



-Sayaka? Cosa sta succedendo?- Il bambino non capisce, alza lo sguardo confuso. La mano che stringe la sua è sudata e trema. Lei non gli risponde, lo trascina fino alla cantina in giardino e gli fa scendere le scale finché non vengono immersi in un buio completo.
-Resta qui, resta qui e andrà tutto bene- gli sussurra. Il bambino vede le lacrime luccicarle sul volto e tende le manine per consolarla. -Mamma?- sussurra. Lei lo guarda sorpresa.
-Come potevo pensare di nasconderlo anche a te? Che stupida sono stata…- mormora.
Si porta una mano all’orecchio destro e lentamente si toglie l’orecchino; lo mette nelle mani del bambino e le stringe forte, fortissimo. –Tienilo tu per me… Ti amo tanto, Hiromu…- sussurra.
–Non ti muovere da qui e non fare rumore, d’accordo?
Lui annuisce, per lei si comporterà bene…
 

Il bambino si solleva piano dal pavimento e si guarda intorno. È buio, umido, fa freddo e c’è un silenzio tombale. Anche il rumore che c’era prima è cessato. Non capisce subito dove si trova, o quanto tempo sia passato. Sente qualcosa pungergli il palmo della mano, e si ricorda dell’orecchino di Sayaka. Quando tornerà a prenderlo?
Un cigolio lo fa sussultare.
Alza gli occhi e vede la luce del sole. Geme, è troppo forte, lo accecherà…
-Miura Hiromu?- Una voce pacata chiama il suo nome. Miura apre lentamente gli occhi e fissa il ragazzo dai lunghi capelli neri che gli tende la mano. Si osservano con mutuale sorpresa.
-Chi sei?- chiede il bambino, un po’ impaurito.
Il ragazzo è giovane, ma sembra già un adulto. Cerca di fare almeno un sorriso, anche se addolorato. –Io sono Desarm, e tu da questo momento sarai Diam- dichiarò.

 


La gola gli brucia, ma non può smettere di urlare o l’isteria lo soffocherà. Con quell’incubo ha svegliato anche tutti gli altri. Tutto è perfettamente chiaro adesso. La mano di Desarm gli si stringe attorno al braccio, lo trascina nel bagno, lo getta sotto il getto freddo della doccia. L’acqua gelida ha un effetto calmante e piano piano la sua mente si fa più lucida…  Ora sa, ora vede la verità, quello non è un incubo: è la realtà. Tutte quelle cose tremende sono accadute per davvero e non spariranno una volta aperti gli occhi.
–Sayaka, Sayaka, Sayaka- ripeté il suo nome, la voce gli esce soffocata.
Il dolore è accecante e, mentre chiama ancora quel nome, riesce a pensare ad una cosa soltanto: deve vendicare la morte insensata e ingiusta dei suoi genitori.
Desarm lo stringe a sé, mormora che va tutto bene anche se non ci crede nemmeno lui.




 
-Basta…- supplicai.
Non ce la facevo più. Diam non accennava a fermarsi.
Nepper si alzò a fatica, digrignando i denti, e alzò i pugni. -Devo... proteggere... Heat...! Se non ti fermi da solo, io...!- sbraitò e corse verso Diam con il pugno alzato per colpirlo.
La mia frustrazione salì alle stelle.
-Ho detto basta!- urlai. Inaspettatamente una sferzata di energia partì dal mio corpo e colpì sia Diam che Nepper, mandando entrambi gambe all’aria. Il contraccolpo fece barcollare e cadere a terra persino me.
Diam e Nepper, seduti a terra, mi lanciarono un’occhiata stupefatta.
-Ma che diavolo era?!- esclamò Nepper. Diam non disse nulla, si limitò a fissarmi intensamente.
-È tutta colpa vostra!- scattai, irritato. -Come vi salta in mente di combattere nella mensa?! Avreste potuto far male a qualcuno! E c'è mancato poco che quello stramaledetto suono non mi riducesse il cervello in poltiglia!
Mi fermai a riprendere fiato. Prima che uno dei due potesse rispondermi, Desarm entrò nella stanza accompagnato da Zell. Solo in quel momento realizzai perché il ragazzo era scomparso nel nulla: era andato ad avvertire Desarm non appena aveva intuito che la situazione si stava mettendo male. Vedendomi a terra, Zell corse da me, mi offrì la mano per rimettermi in piedi e sorrise in segno di approvazione.
-Ben detto, Reize- disse Desarm. I lineamenti del suo volto erano ancora più rigidi e severi del solito. Il suo sguardo dardeggiò da Diam a Nepper, minaccioso.
–Piantatela di fare i capricci come dei bambini. Abbiamo cose peggiori a cui pensare-. Fece una pausa e mi guardò. –Big D si è appena trasferito nella sua base, ai magazzini abbandonati giù al paese. Ci è stato ordinato di mandare una squadra.
Diam saltò immediatamente in piedi.
-Ti prego, Desarm! Manda me questa volta! Ci voglio andare io!- lo supplicò. –Ho intenzione di sconfiggere Big D una volta e per tutte!
Desarm si accigliò e si portò una mano alla fronte, esasperato. –Diam… ne abbiamo già parlato. Questa non è missione per te. Piantala di importunarmi- disse.
Diam sussultò, ma non indietreggiò. Il suo corpo tremava percettibilmente. Non serviva l’empatia per capire cosa provava e pensava in quel preciso momento.
-Desarm, ti prego anche da parte mia- intervenni. Tutti gli sguardi si puntarono su di me, ma io ricambiai solo quello di Desarm. Volevo che vedesse la mia determinazione. Restammo a fissarci per lunghi minuti, poi lui sospirò.
-D’accordo. Diam, Reize, partite stasera stessa. Attenetevi al piano e non combinate casini. Conto su di voi- dichiarò, poi si allontanò accompagnato da Zell.
Senza guardare le reazioni degli altri, afferrai Diam per un braccio e lo trascinai in camera nostra. Diam non oppose resistenza. Era stranamente mansueto e arrendevole.
-Reize… grazie- mormorò quando arrivammo davanti alla porta.
-So che non meritavo il tuo aiuto dopo il modo in cui ti ho trattato, ma nonostante ciò hai preso le mie parti, perciò ti ringrazio...
-Non l’ho fatto per te, ma per me stesso- ribattei, secco. Diam mi guardò sorpreso. Chiusi gli occhi per un istante per riorganizzare meglio le idee.
-Tu credi che io non capisca come ti senti, e forse è vero. Ma la vendetta lascia solo il vuoto dietro di sé- mormorai, poi aprii gli occhi e lo guardai serio.
-Ho chiesto a Desarm di affidarci l’incarico perché sapevo che ci saresti andato in ogni caso, anche da solo. Così invece potrò stare al tuo fianco e fermarti, se necessario. Prima che la vendetta ti consumi, io ti fermerò!
Diam mi afferrò la mano e la strinse. Il suo sguardo era, come al solito, indecifrabile. Mi scrutò per un lungo momento, poi le sue labbra si curvarono in un sorriso.
-Be', allora- disse -devi solo provarci.




**Angolo dell'Autrice**
Mmm, non nascondo che questo sia stato un capitolo difficile da descrivere, con tutti quei flashback e le emozioni di Midorikawa di mezzo... E poi qui Diam è veramente antipatico e, visto che ci sono affezionata, sto male io stessa a vederlo fare una parte così odiosa D:  
Però migliorerà, lo prometto, non posso certo lasciargli fare la parte dello stronzo insensibile tutto il tempo, eh, non lo farei mai! XD
Mentre Diam rappresenta la parte negativa della situazione, Midorikawa è la parte positiva. Il suo personaggio è cresciuto molto e ha imparato a prendere decisioni importanti da solo; al contrario del nucleo narrativo di Jordaan, in cui non aveva nessuna fiducia in se stesso, ora si può dire che abbia "cacciato le palle" -bonjour finesse- e questo è decisamente buono ;) 
Anche se mi piacerebbe inserire delle parti sugli altri ragazzi del Monte Fuji, Diam e Midorikawa continueranno ad essere protagonisti indiscussi del prossimo capitolo e lo saranno fino alla fine del Diam's Arc!
Spero che continuerete a seguirmi ♥
Alla prossima!
Roby

 

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Capitolo 21
*** Mission 21. ~Diam's Arc. ***


Salveeee.
Questo capitolo è stato un parto =u=
Ci ho messo circa sei giorni a scriverlo. Ci sono un sacco di parti d’azione, il che mi ha dato qualche problema diciamo ci sarebbe da chiedersi perché ho iniziato una fic tutta azione lol. Siamo al penultimo atto del Diam’s Arc!!


 
 

Sedevamo su una schiera di scatoloni, ammassata dietro uno dei magazzini più piccoli. Fra noi e la strada principale per cui eravamo venuti c’era solo una grata di ferro lunga circa sei metri e mezzo, e il vento faceva rumore passando per le aperture, come se stesse soffiando dentro uno strumento a fiato.
Diam tremava dalla testa ai piedi, non avrei saputo dire se per l’eccitazione o per l’ansia da prestazione. Come sempre la sua espressione era indecifrabile, ma la tensione era palpabile e sembrava averlo zittito del tutto: proprio lui che di solito era così pronto a scherzare, ora se ne stava seduto in disparte, taciturno, chiuso in se stesso e nei suoi pensieri. Aveva indossato le cuffie ancora prima di uscire ed era pronto a passare all'azione in ogni momento. Quando vidi le sue labbra arricciarsi in un leggero broncio, quasi infantile, sentii una gran tenerezza.
-Ehi… ti va di parlare un po’ per distrarti? Magari dopo starai meglio- proposi. Mi alzai e lo raggiunsi, prendendo posto al suo fianco, così vicini che le nostre ginocchia si sfioravano.
Diam mi guardò, dapprima sorpreso, poi turbato.
-No, grazie- sbuffò. –Se parlo con te magari mi tirerai fuori qualche altro bel discorsetto da ragazzino di buona famiglia, e io non voglio ascoltarlo.
Probabilmente quel commento avrebbe dovuto farmi indignare, invece mi sembrò talmente fuori luogo che scoppiai a ridere forte, beccandomi un'occhiataccia da parte sua. Ignorai la sua disapprovazione e continuai a ridere finché non mi vennero le lacrime agli occhi, e un certo dolore all’altezza dello sterno.
-Okay, okay, basta- dissi con un sospiro. -Un ragazzino di buona famiglia, eh? Suona bene!
-Non era inteso come complimento…- obiettò Diam, corrucciato e confuso perché non capiva cosa ci trovassi di divertente.
-Lo so, lo so… Non sono impazzito, tranquillo. Però sono felice di dare quest’impressione, visto che è completamente sbagliata- dissi, continuando a sorridere. -In realtà sono orfano, come tutti voi.
Diam sussultò, ma non si girò. Sembrava che si stesse sforzando di non apparire curioso, ma alla fine cedette.
-Davvero?- chiese, diffidente.
Mi voltai a fissare il marciapiede e mi rannicchiai, stringendomi le ginocchia al petto.
-Sì, è così... Non ho idea di che fine abbiano fatto i miei genitori. Non ho nessun ricordo di loro, quindi si può dire che io non ce li abbia. Forse è crudele dire così, ma non mi mancano affatto... Io sono diverso da te, non ho ricordi a cui aggrapparmi.
-Mi dispiace- sussurrò Diam.
Lo guardai, nel suo sguardo ora c’era della tenerezza. Non riusciva a comprendermi bene, ma in qualche modo quella confessione da parte mia sembrava averci avvicinati: in quel momento sentii che Diam era solo un ragazzo insicuro, che cercava disperatamente un motivo per andare avanti.
-Io… sono stato salvato dalle strade da Kazemaru, sono cresciuto con la sua famiglia. Ho conosciuto il calore di una madre, anche se non era la mia… Ecco perché non riesco proprio a capire, Diam. Dici di voler vendicare tua madre, ma io non credo che una madre possa mai volere questo da un figlio- mormorai, cupo. –Una madre non vorrebbe mai vedere… un figlio con le mani sporche di sangue.
Mi aspettavo che Diam sbuffasse, infastidito dal discorso, o che insultasse il mio candore. Mi aspettavo una qualsiasi reazione, ma ciò che seguì le mie parole fu solo silenzio da parte di entrambi. Strinsi le gambe al petto per schermarmi dal freddo, deciso a non voltarmi verso di lui anche se morivo dalla voglia di vedere quale fosse la sua espressione. Forse era stato un colpo basso dirgli quelle cose proprio nel momento in cui l’avevo visto assalito dai dubbi, ma non ebbi il tempo di sentirmi in colpa.
-Da questa parte, da questa parte!- gridò un uomo. Ci immobilizzammo. Rumore di passi affrettati: erano in molti. Diam si alzò con cautela e si affacciò all’angolo.
-Il corpo di guardia- sussurrò.
-Ci penso io- replicai, mi alzai anche io e mossi un passo avanti. Diam stese il braccio e mi bloccò, scosse il capo. –No- disse. –Aspetta…
Non c’era bisogno di chiedere cosa dovessimo aspettare.
Big D non era in mezzo a loro. Gli uomini vestiti di nero erano soli.
-Seguiamoli, ci condurranno da lui- suggerì Diam. Avrei voluto sapere cosa stava pensando, ma mi dava le spalle e la sua voce non tradiva alcune emozione.
-Va bene- acconsentii e lo seguii in silenzio mentre lui si arrampicava sul tetto del magazzino usando gli scatolini come appoggio. –Cammineremo sui tetti?- mi informai.
Lui annuì. Tutto ciò a cui riuscii a pensare fu qualcosa tipo Qualunque dio ci sia lassù, ti prego, fa’ che io non cada.
Diam prese la rincorsa e saltò sull’edificio immediatamente vicino al nostro, lo imitai e continuammo a muoverci così per un po’: seguivamo dall’alto gli spostamenti degli uomini in nero, approfittando dell’oscurità. Il ricordo della sera in cui io e Kazemaru avevamo spiato Big D dai tetti di Tokyo tornò a galla prepotentemente: oh sì, stavolta l’avrei catturato. Volevo catturarlo. Magari vivo, prima che Diam riuscisse a mettergli le mani addosso.
-Reize- Diam mi chiamò, all’improvviso. La sua mano scivolò nella mia e la strinse forte. Lo guardai sorpreso, ma lui continuò a darmi le spalle.
-Ci siamo- disse subito dopo.
Abbassai lo sguardo e colsi un lembo di tessuto viola voltare l’angolo.
Quella giacca viola.
Avevo già visto quell’indumento.
-Lui è qui- sussurrò Diam, freddo. –Quel grosso figlio di puttana è a soli pochi metri da me…
Alzai di scatto lo sguardo su di lui e lo vidi estrarre la pistola.
Sarebbe bastato un solo colpo, e il tormento di Diam si sarebbe spento per sempre, insieme alla sua coscienza e alla nostra amicizia.
-Diam, no!- esclamai, gli strinsi forte la mano e lo strattonai così forte da fargli perdere l’equilibrio; cademmo con un tonfo, attirando l’attenzione dei presenti, i quali ci individuarono non appena alzarono gli occhi.
Big D strinse i suoi occhietti neri, malefici, e ringhiò:- Sono di nuovo quelle maledette spie! Uccideteli!
Gli uomini in nero si riunirono subito intorno a lui, pronti a spararci addosso tutti i proiettili dei loro mitra. Diam fece un verso seccato e si liberò della mia mano, per poi rialzarsi.
-Non mi toccare- sbottò.
-Diam…- La mia voce fu coperta da una vibrazione lunga e stridula. Diam aveva aperto la bocca, e non per parlare: le sue onde si allargarono in un attimo nello spazio e gli uomini iniziarono a piegarsi sotto la loro forza distruttiva, proprio come avevo visto fare a Nepper poche ore prima. Il potere di Diam era devastante e faceva male da morire. Presto alcuni uomini iniziarono a piangere e supplicare pietà; sarebbero diventati sordi a breve, o avrebbero sanguinato dalle orecchie, ma Diam non accennava a fermarsi. Non potei fare a meno di rabbrividire davanti a tanta crudeltà, pensando che avrei fatto la loro stessa fine se Desarm non mi avesse dato preventivamente un paio di cuffie salva-vita.
Peccato che non fosse stato l’unico ad averci pensato.
Mentre decidevo se avere pietà di quei poverini (che in fondo facevano soltanto il loro lavoro) e dare un calcio a Diam per farlo smettere, con la coda dell’occhio intravidi Big D fuggire dietro una piramide di bidoni di ferro sigillati.
-Eh no, brutto stronzo- sibilai a bassa voce. –Stavolta non mi sfuggi.
Scesi giù dal tetto con un salto e mi buttai all’inseguimento di Big D. Voltai dietro i bidoni di corsa e mi fermai, guardandomi intorno circospetto: davanti a me si apriva un vasto spazio pavimentato con una grata, con ciuffi di erbaccia che spuntavano senza ordine, e una bassa torre di metallo che si ergeva in un angolo, forse un antenna.
Mi avvicinai con cautela, abbassandomi per entrare nello spazio al di sotto della torre, un labirinto di pali e spazi chiusi. Un fruscio mi fece voltare di scatto, ricevetti una botta forte sotto il mento che mi fece barcollare e venire le lacrime agli occhi; con la vista appannata inquadrai Big D, era a pochi centimetri da me, pronto a difendersi. Mi aveva colpito con il calcio della sua pistola. Approfittando della mia confusione, mi tirò un altro pugno in pieno viso, facendomi sanguinare un labbro. Il suo terzo colpo, per fortuna, mancò il bersaglio dal momento che fui abbastanza rapido da abbassarmi e schivarlo. La sua mano si schiantò nel ferro di uno dei pali e mentre guaiva per il dolore gli tirai anche un calcio all’altezza degli stinchi, facendolo rotolare per terra. Mi lanciai su di lui e riuscii a tirargli un altro paio di colpi prima che lui mi spingesse e mi buttasse per aria. Gocce di sangue caddero a terra, scivolando fra le dita grassocce che teneva premute sul volto. Sorrisi, senza nascondere la soddisfazione di avergli rotto il naso.
Si scagliò contro di me lanciando un grido di guerra. Indietreggiai d’istinto, ma lui si fermò prima di raggiungermi: Diam gli aveva bloccato le braccia dietro la schiena.
Diam e io ci scambiammo una sola, breve occhiata. Mi resi conto che stava fissando le ferite sul mio viso, con rabbia.
Big D, che continuava a dimenarsi, diede un violento strattone e riuscì a liberarsi dalla presa di Diam. Vedendolo correre verso le scale della torretta, Diam aprì di nuovo la bocca, disperdendo le sue onde, ma io sapevo che era inutile dal momento che l’uomo indossava ancora le cuffie protettive.
Lasciai di nuovo da parte il mio amico e corsi su per le scale. Big D era così lento e pesante da fare un sacco di rumore senza percorrere troppa distanza. Non c’erano altre scale, nessun piano superiore: la fuga finiva lì, a pochi metri da dove era cominciata.
-Fermo- intimai. –Fermo, o ti ritroverai con un buco in testa.
Lui si voltò, ghignando. –Non lo farai. Non ne hai il coraggio- rispose.
La mia espressione non si mosse di un millimetro mentre mantenevo salda la pistola fra le mani, la mia pistola che non aveva mai ucciso nessuno. Gli unici colpi che avevo sparato erano stati di avvertimento, o avevano come obiettivo degli oggetti.
Mi chiesi se quella purezza non mi si leggesse negli occhi.
Big D non smise di sorridere. –Abbassa l’arma, ragazzo. Non ho paura di te.
-Oh, di lui forse no… ma di me ne avrai- intervenne Diam, comparì all’improvviso al mio fianco. -Con te me la vedo io.
-No- protestai. Diam mi posò una mano sulla spalla.
-Reize… no, Ryuuji. Abbassa l’arma-. La sua voce era calda e tranquillizzante. Esitai, ma rilassai un po’ le spalle e abbassai leggermente la pistola.
-Ryuuji, calmati. Dammi la tua pistola. Andrà tutto bene…- Diam continuò a parlarmi, sotto voce, la sua mano afferrò una delle mie e la tirò giù. Lo lasciai fare, anche quando mi prese l’arma dalle mani. –Tengo veramente a te, Ryuuji. Mi piaci. Lasciami fare… Andrà tutto bene… Non vorrai sfregiare il tuo bel visino più di così…
Mi sorrise, mi accarezzò il viso e mi spostò una ciocca di capelli dalla ferita.
Poi le manette scattarono, chiudendosi.
Fissai incredulo la mia mano e il palo a cui ero stato incatenato. Dopo essersi assicurato che io non potessi più intromettermi, Diam si staccò da me e avanzò, pistola alla mano, verso Big D.
L’uomo in viola ci guardava con scherno.
-Ah, che gesto commovente. Ma tanto tu non sei fatto per i combattimenti corpo a corpo… Ti ho visto laggiù, so cosa sai fare… Ma sei deboluccio… Credi davvero di potermi uccidere? Ho vissuto in questo mondo più a lungo di voi ragazzini insolenti… Vi divertite a giocare alle spie? Durerà poco… Il mondo degli adulti è ben altro!- gridò.
Diam fece schioccare la lingua contro il palato, seccato.
-Ti sbagli. Non sono più un ragazzino, sono stato costretto a crescere di colpo. Io sono diventato grande per causa tua- mormorò, cupo, mentre lentamente alzava il braccio e puntava la pistola verso di lui.
Il primo proiettile partì senza un minimo cenno d‘avviso. Big D sobbalzò e arretrò di un passo, i suoi occhietti stupiti fissavano il bordo della sua giacca, strappato e fumante.
Diam sorrise. –Ora hai paura di me?- chiese, apparentemente tranquillo.
L’uomo boccheggiò, le braccia gli tremavano. Poi dalla sua bocca uscì un grido stridulo, una specie di urlo di battaglia, e si lanciò su Diam come un animale, con rabbia; il mio amico si spostò di lato e gli diede un colpo dietro la schiena, spingendolo a terra, poi lo afferrò per il colletto e lo trascinò dall’altra parte della piattaforma, lontano da me.
Big D intanto si liberò della presa con uno strattone, si mise in piedi e sparò puntando a Diam. O forse no. Forse mirava a me. Non lo capii chiaramente, anche perché in ogni caso il proiettile si perse nella spalla di Diam, che si trovava esattamente fra me e l’uomo. Schizzò del sangue.
-Diam!- gridai. Scattai in avanti, ma un clangore metallico e una fitta di dolore al polso mi ricordarono delle manette. Non potevo muovermi e sentii la frustrazione montare dentro di me.
Diam non si voltò a guardarmi quando lo chiamai, né diede segno di provare dolore. Nemmeno un gemito gli sfuggì dalle labbra; anzi, subito dopo lo sparo si gettò in avanti e tirò una spallata a Big D, facendogli perdere la presa sulla pistola, che cadde a terra. Diam si chinò rapidamente a prenderla, ma mentre faceva il movimento il suo sfidante caricò una testata: come un toro, colpì il mio partner in pieno petto, facendolo indietreggiare, poi raccolse da terra la pistola.
-Ah!- disse. –Ora ripartiamo da zero, ragazzino!
La sua bocca si storse in un disgustoso sorrisetto trionfante mentre puntava la pistola alla testa di Diam, piegato in due a terra per il dolore, col fiato mozzato per il colpo ricevuto.
-Diam!- urlai, la mia voce si strozzò in una nota insopportabilmente acuta. Stava per morire, davanti ai miei occhi, e io sarei stato impotente, inutile, esattamente come l’ultima volta.
–Diam, no!- gridai di nuovo.
Lo vidi muoversi leggermente, sedersi sulle mani. Un rivolo di sangue gli usciva dalle labbra, aveva il fiato corto e la canna della pistola contro la tempia, eppure non sembrava avere per nulla paura. Come diavolo riuscisse a mantenere il sangue freddo anche in una situazione del genere, non ne avevo idea.
Quando Big D si accorse che la sua minaccia era andata a vuoto, e che Diam non lo temeva affatto, il suo ghigno si trasformò in una smorfia frustrata.
-Vediamo come sorriderai con un buco nella testa, stronzo!- squittì.
Le sue parole furono seguite da due spari in rapida sequenza.
Sentii un urlo morirmi in gola.
Diam non crollò a terra, né il suo sorriso si spense. Big D spalancò gli occhi, fissando sconvolto la fronte perfettamente intatta del ragazzo. La mano grassoccia iniziò a tremare al punto da non riuscire più a tenere ferma l'arma; la lasciò cadere, mentre abbassava lentamente lo sguardo sul sangue che gli colava dalla gambe.
-Ripartiamo da zero, dici? Ti sbagli- disse Diam con voce affannata. –Tu sei arrivato al capolinea.
Big D crollò a terra urlando come un maiale scannato. Diam non si mosse di un centimetro, né per aiutarlo né per dargli il colpo di grazia. Restò immobile a fissare i due buchi che aveva aperto nelle ginocchia dell’uomo, finché lui non svenne per il dolore e tacque.
Solo allora, Diam sospirò e si sfilò le cuffie. Poi si chinò a raccogliere la pistola abbandonata dall’uomo e si alzò per andare a liberarmi.
-Cosa... cosa è appena successo?- chiesi con fil di voce.
Diam si passò una mano dietro la nuca, nervoso. –Non è morto, tranquillo. Mi sono solo accertato che non andasse da nessuna parte. Mai più, intendo-. Si voltò a guardarlo un attimo.
-Ora sì che sembra un pezzo di porchetta, con tutta quella carne bruciata…- mormorò. Ignorai quel commento macabro.
-Stava... stava per ucciderti!- gridai. Diam scrollò le spalle e si chinò per togliermi le manette.
-Scusa. Dovevo per forza avvicinarmi per aprirgli un buco nelle gambe. Da lontano mi era impossibile. Per il resto ho avuto fortuna, non si è accorto che avevo scambiato le pistole- disse.
-Le pistole?- ripetei a fatica.
-Già. Quella con cui ha cercato di spararmi era la tua, solo che ci avevo messo la sicura.
Restammo in silenzio mentre mi slegava, poi Diam si alzò.
-Scusa, non volevo trattarti così. Non avevo scelta- disse.
-Sei ferito...
-Non è niente di ché…- Non lo lasciai completare e mi gli lanciai le braccia al collo, affondando il viso nella sua spalla. Diam sussultò, esitante.
-Perché adesso stai piangendo?- domandò. Scossi il capo e non feci niente per fermare le lacrime mentre lo stringevo a me. -Reize, ti si sporcherà la divisa di sangue…- mi fece notare.
-Non m’importa- risposi, con voce strozzata.
Lo sentii sospirare, rassegnato, mentre poggiava le mani sulla mia schiena e mi dava dei leggeri colpetti per tranquillizzarmi, solo che su di me avevano l’effetto opposto.
-Reize, sto bene, davvero. Sono solo un po’ ammaccato… Non devi piangere per me. Non me lo merito, sono una persona orribile, ricordi?
-Perché... perché non l’hai ucciso? Avevi l'occasione e non l'hai fatto...
-Mmm... Non volevo sentire la tua ramanzina-. La sua voce era bassa e mite.
Mi fece singhiozzare più forte. –Sei davvero orribile- borbottai. Era l’esatto opposto di quello che pensavo in realtà.
-Okay, se lo dici tu- sussurrò lui.
Rimanemmo stretti in quel goffo abbraccio finché Diam non chiamò Desarm e ci fece venire a prendere.

 

xxx

 

Mi ritrassi di scatto al bruciore con un sibilo di dolore. Zell mi rivolse uno sguardo di rimprovero e mi afferrò per le spalle, costringendomi a rimettermi seduto. Chiusi gli occhi, strizzandoli forte quando il cotone imbevuto di alcol mi si posò sul mento, mi sembrava quasi che la mia pelle sfrigolasse. A quanto pareva, quello che io credevo essere un semplice livido era invece un graffio lungo tredici centimetri e profondo sei millimetri circa (Big D non c’era andato leggero, per niente) e fra le mansioni di Zell, oltre a quella di cucinare, c’era anche quella d’improvvisarsi infermiere. Avevo l'impressione che svolgesse altre mille incarichi, a seconda delle necessità.
-Sta un po’ fermo- mi rimbrottò quando mi ritrassi nuovamente.
-Scusa, lo faccio istintivamente- mormorai, nervoso.
-Be', controllati. Devo ancora disinfettarti vicino alle labbra- disse il ragazzo. Mi premette un grosso cerotto bianco sul mento, poi passò ad osservarmi il viso. Le sue dita mi sfiorarono delicatamente la guancia e lo vidi fare una smorfia.
–Doveva portare degli anelli, non c’è altra spiegazione. Ti ha praticamente sfregiato la guancia e aperto un labbro-. Sospirò e mi diede un pacco di ghiaccio.
–Premilo forte sulla guancia e vicino al labbro- ordinò, col tono di chi non ammette repliche. Annuii, docile, e abbassai lo sguardo. Zell sembrò intuire i miei pensieri.
-Ah, oggi Diam torna dall’ospedale, vero? Non preoccuparti, sono sicuro che la ferita non fosse troppo grave, e poi quel ragazzo ha un forte resistenza al dolore- mi assicurò.
Lo guardai intensamente, sperando che avesse ragione: al contrario di me, Diam era stato portato d’emergenza ad uno degli ospedali più vicini e per due giorni non si erano avute sue notizie delle sue condizioni… Non che qualcuno si fosse azzardato a chiedere qualcosa. Da quando gli altri avevano saputo che Diam era in ospedale, tutti stavano sulle proprie. IQ si era chiuso in una sorta di religioso silenzio, probabilmente per evitare che IC piangesse ancora di più di quanto già non facesse. Anche Heat e Nepper si erano astenuti da commenti di ogni genere, e mi chiedevo se avessero perdonato Diam o meno.
Chiusi gli occhi e rividi vividamente gli eventi di quella notte, di cui né io né Diam avevamo avuto tempo di fare un resoconto a chicchessia. Mi chiesi quanto di quello che era accaduto dovessi riportare nel rapporto per Desarm. Ero autorizzato ad omettere qualcosina, tipo il dettaglio di me ammanettato al palo... giusto? Giusto, mi risposi da solo.
La guancia e il labbro mi bruciavano in un modo tremendo. Ma il ghiaccio non avrebbe dovuto farmi sentire meglio, che so, darmi sollievo? Bestemmiai a mezza voce, avevo soltanto voglia di crollare con la testa sul tavolo e dormire pesantemente.
Fu in quel momento che le porte della mensa si aprirono ed entrò Desarm.
Tutti gli occhi si puntarono su di lui, esprimendo implicitamente la stessa domanda. La Spy Eleven osservò uno ad uno i nostri volti ansiosi, poi annuì e si spostò per lasciar entrare Diam: il ragazzo avanzò lentamente, a viso chino, con le mani nascoste dietro la schiena; indossava un maglione scuro, a collo alto, e una giacca di pelle marrone, forse nel tentativo di nascondere il più possibile la ferita fasciata, la cui presenza era rilevata solo da un leggero rigonfiamento sulla spalla destra.
IC fu la prima a reagire. Si alzò di scatto dal suo posto, rischiando di inciampare nella panchina, e gli corse incontro. Per un attimo pensai che volesse abbracciarlo, invece lei si fermò davanti a Diam, esitante, come se avesse paura di fargli male anche solo toccandolo.
Diam lo notò e sorrise leggermente.
–Cos’è quell’espressione? - le chiese, in tono insolitamente delicato. -Non torno mica dalla guerra. Non mi è successo nulla di speciale.
-E la ferita?- chiese IC a mezza voce.
-Mi hanno dato sette punti e non potrò forzare il braccio per un mese-. Subito dopo che Diam pronunciò quelle parole, IC si sciolse in lacrime, probabilmente per il sollievo. A quel punto, anche IQ si alzò e si avvicinò e, una manciata di secondi dopo, Heat fece lo stesso. L'ultmo a raggiungere Diam fu Nepper, con passo incerto e lo sguardo fisso sul pavimento.
Nepper spostò delicatamente IC con un braccio e prese il suo posto di fronte a Diam.
-Allora? Lo hai ucciso?- chiese a bassa voce e, finalmente, sollevò il viso verso Diam. Per un momento, i due ragazzi si squadrarono a vicenda, immobili e silenziosi. Poi Diam parlò.
-No- rispose, mite. –Gli ho sparato alle ginocchia, però.
Cinque secondi dopo, nessuno avrebbe saputo dire come e perché, Nepper lo stava abbracciando fortissimo. IC non esitò a gettarsi su di loro, unendosi all'abbraccio. IQ e Heat rimasero vicini, palesemente sollevati che tutto si fosse aggiustato.
-Nepper, IC, mi state facendo male- protestò fiaccamente Diam, ma non fece niente per separarsi da loro. Poi girò leggermente il viso e i suoi occhi incontrarono i miei. Con il ghiaccio premuto sulla guancia, gli rivolsi un sorriso sbilenco.
 
 
 
 


**Angolo dell’Autrice**
Ciao!
Più vado avanti in questa fic più inizio a credere di aver reso Midorikawa come un perfetto cretino ♥♥ Insomma, sempre a farsi sballottolare di qua e di là dagli eventi :’DD Ma col passare del tempo dovrebbe migliorare, anche perché ci sono personaggi decisamente più sfigati e patologici di lui *cough*tipo Hiroto*cough*.
Diam è una contraddizione vivente, ma alla fine è solo molto insicuro. Il motivo per cui ha deciso di non uccidere Big D è che Midorikawa ha fatto crollare alcune delle sue certezze, e ha un po’ perso il senso di tutta la cosa. Diciamo che se Saginuma gli avesse fatto una ramanzina a suo tempo, probabilmente Diam non se ne sarebbe mai venuto fuori con la storia della vendetta. Spero di non averlo reso, così facendo, un personaggio troppo banale o piatto. Se è così vi chiedo scusa dal profondo del cuore, ma davvero non ci tenevo a farlo diventare un assassino. Io credo che se non avesse incontrato Midorikawa e fosse riuscito a vendicarsi, poi si sarebbe ucciso per l’angoscia.
Oh, e per quanto Midorikawa sia stupido o infantile, io lo amo comunque ♥
Baci,
       Roby



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Capitolo 22
*** Mission 22. ~Diam's Arc. ***


Buonasera <3
Con questo capitolo si chiuse il Diam's Arc.
Ci vediamo giù :)

p.s. 11/04 Stamattina ho fatto l'editing del capitolo, spero di aver trovato e corretto tutti gli errori XD





Il rumore di piatti infranti mi fece sobbalzare. Tolsi le mani di scatto dall’acqua e della schiuma mi schizzò sul volto, mi affrettai a pulirla col dorso della mano mentre mi avvicinavo al mio compagno seduto a terra fra i cocci.
-Heat, stai bene?- lo interrogai preoccupato. Il ragazzo annuì, poi abbassò lo sguardo sul pavimento, sconsolato. -Zell mi ucciderà stavolta, me lo sento- borbottò. Sospirai.
Dal momento che Diam aveva un braccio praticamente inutilizzabile, i suoi turni di cucina o di pulizia erano stati annullati fino a nuovo ordine e, visto che non potevo fare tutto il lavoro da solo, Zell aveva deciso di assegnarmi a turno un compagno diverso che mi aiutasse: quella mattina, in cui ci aspettava la pulizia della cucina, il mio compagno era Heat. Solo che…
-Dannazione, sarà la terza volta che succede questo mese!- gridò Zell, entrato in quel momento in cucina.
-Mi dispiace!- ribatté Heat arrossendo. Zell lo guardò esasperato.
-Heat... Sei un bravo ragazzo e hai un sacco di buone qualità, ma nei lavori domestici sei un vero disastro- disse. –Pulisco io qui. Reize, fammi il favore di aiutarlo a medicarsi.
Solo quando pronunciò le ultime parole, abbassammo lo sguardo e notammo il sangue che colava dalle mani sfregiate di Heat. Il ragazzino ebbe un brivido e si alzò, scavalcando i piatti rotti. Gli posai una mano sulla spalla.
-Scusa Zell, torno tra poco- dissi in fretta, lui si limitò a sospirare mentre io trascinavo Heat nell’infermeria, che fortunatamente era stata imbastita a pochi metri dalla cucina per permettere a Zell di svolgere entrambe le mansioni. Feci sedere Heat su uno dei lettini e andai a recuperare la cassetta del pronto soccorso, posta in alto su un mobiletto.
Quando tornai, lo trovai ancora intento a fissarsi palmi insanguinati con aria sconfortata.
-Fa male?- chiesi. Lui scosse il capo.
-No… Be', non ancora- rispose, osservando preoccupato il batuffolo di cotone che stavo inzuppando con il disinfettante. Sorrisi e gli presi una mano fra le mie con gentilezza.
-Oh sì, questo farà un po’ male. Ma sarò buono, giuro- lo rassicurai.
Heat si rilassò e mi lasciò fare. Dopo un po’ ridacchiò e commentò:-Sicuramente sei più delicato di Zell… anche perché lui ci aggiunge una bella ramanzina!
-Ti capita spesso?
Heat annuì.
–Okay, lo ammetto. Mi riempio sempre di graffi e lividi.
-Come quello che hai sul viso?- dissi, mentre fissavo la sua mano, per accertarmi che non ci fossero rimaste dentro schegge. Passai all’altra mano e, mentre ci passavo sopra il cotone con il disinfettante, mi accorsi che Heat non mi aveva risposto. Alzai lo sguardo, interrogativo.
Sembrava perso nei suoi pensieri; incrociando i miei occhi sussultò, come se anche lui si fosse reso conto solo in quel momento di aver lasciato cadere la domanda.
-Ah- mormorò, nervoso. –No, quello... È stato Nepper a farmelo.
-Cosa?- Non ruscii trattenere il mio stupore. Provai ad immaginarmi la scena, Nepper che faceva del male a Heat. Mi sembrava impossibile. Frugai rapidamente nei ricordi che avevo di loro due: in un attimo mi balenò davanti l’immagine di Nepper che attaccava Diam, ma scacciai quel pensiero ricordandomi subito dopo che Nepper lo aveva fatto per difendere Heat. Mentalmente li rividi abbracciarsi nella sala di addestramento. No, non era possibile che Nepper avesse fatto del male a Heat.
-So a cosa stai pensando- disse Heat, sorridendo debolmente.
-Non l'ha fatto apposta, ma... Per Nepper non è stato facile imparare a controllare il suo dono.
-Come… come è successo?- chiesi a bassa voce.
Heat si morse il labbro e sbirciò nervosamente verso la porta, forse temendo che entrasse qualcuno. Restammo in silenzio finché Heat non decise che parlare fosse sicuro.
-Non dire a nessuno che te l'ho detto io- bisbigliò dopo un po'.
-I genitori di Nepper sono morti in un incidente. Desarm mi ha detto che Nepper ha perso il controllo e ha causato un'esplosione.
Mi tornò subito in mente lo scontro tra Nepper e Diam, in mensa.
-Quello che ha detto Diam, quel giorno...
-Diam non avrebbe dovuto- berciò Heat, infervorandosi.
-Scusami, scusami, non volevo infastidirti!- dissi subito. Heat parve sgonfiarsi come un palloncino. Mi guardò con aria apprensiva, poi sospirò e riprese a raccontare.
-Mmh... Sembra che la sua famiglia avesse tentato di tenerlo rinchiuso per... per via del suo dono. Forse Nepper era arrabbiato, o non so... Per perdere il controllo basta un attimo... È scappato di casa, e pochi secondi dopo questa è esplosa. L’impatto dell'esplosione lo fece svenire, Desarm ha detto di averlo trovato mezzo morto…- disse.
-Non ero qui da molto quando Nepper è arrivato, e Desarm ci ha subito resi partner. Nepper aveva perso la memoria per via dell'esplosione e all'inizio diffidava di tutti, ma pian piano abbiamo cominciato ad avvicinarci.
-Poi, un giorno, Nepper ha causato un incidente mentre si esercitava con i propri poteri, e lo shock gli ha fatto tornare la memoria... A quel punto voleva andarsene, ma io non volevo. Provai a parlargli, ma Nepper era molto instabile... E causò un altro incidente.
-Per farla breve, ho protetto Nepper con il mio corpo, e così mi procurai questo- disse Heat e, mentre parlava, si toccò la guancia, tracciando la cicatrice con il dito. Poi abbassò lo sguardo, incupendosi ancora di più.
-In realtà è stata colpa mia. Sono stato egoista. In quel momento non pensavo ai sentimenti di Nepper, ma solo ai miei... Volevo che restasse a tutti i costi, perché avevo paura di restare solo- aggiunse. -Ma Nepper è sempre stato convinto che fosse colpa sua. Non si è mai perdonato, né per la sua famiglia, né per me, anche se sono stati degli incidenti. Si è impegnato al massimo per diventare più forte e imparare a controllarsi.
Scrutai il viso di Heat senza dire nulla. Probabilmente non lo sapeva, ma nei suoi occhi inumiditi c'era una dolcezza infinita, come se solo pensare a Nepper lo facesse diventare più gentile. I suoi sentimenti per lui erano puri e trasparenti.
-Capisco cosa provi- mormorai. -Ma penso che nessuno dei due debba incolparsi. Ci troviamo spesso in situazioni più grandi di noi... E fare del nostro meglio è l'unica cosa che possiamo fare, no?
Heat mi guardò con sorpresa. Rimase un attimo in silenzio, poi abbozzò un piccolo sorrise.
-Grazie, Reize. Grazie per tutto. Forse non lo sai, ma... Quello che hai fatto qui è importantissimo, e noi te ne siamo tutti grati- disse.
Sbattei le palpebre, perplesso, e stavo per chiedere cosa avessi fatto quando la porta dell’infermeria si spalancò con uno schianto e Nepper irruppe nella stanza.
-Heat, come stai?! Zell mi ha detto che ti sei ferito!!- esclamò, accorrendo al capezzale del compagno. Heat sorrise nervosamente.
-Io sto bene, i piatti un po' meno- rispose. -Reize ha appena finito di disinfettarmi.
Nepper gli prese delicatamente le mani e ne esaminò i palmi.
-Sei… incredibile. Probabilmente hai un record di piatti rotti- osservò. Scosse il capo, sconsolato, poi si girò verso di me.
-Reize, grazie di esserti preso cura di lui- aggiunse.
-Figurati!- Gli sorrisi, poi decisi di cambiare argomento. -Piuttosto, hai visto Diam?
-Oh? Sicuro. Lui ed IC progettavano di vedersi un bel film dell’orrore. Ci scommetto che li trovi in camera dei gemelli.
-Grazie! Ci vediamo dopo!- esclamai. Prima di chiudere la porta, vidi Nepper stringere le mani di Heat e baciarle dolcemente. La chiusi in fretta per lasciarli alla loro intimità.


Una volta imboccato il corridoio principale, raggiungere la camera dei gemelli era facile. La voce di IC risuonava sempre fortissimo nel silenzio dell'edificio.
Bussai e una voce femminile iniziò a cantare Hopelessly devoted to you - nel periodo in cui avevo vissuto da Kazemaru avevo imparato a riconoscere quella canzone e molte altre sin dalle prime note, dal momento che i suoi genitori avevano come hobby la collezione di colonne sonore di film, giapponesi ma anche stranieri. A casa Kazemaru, nei momenti di relax, c'era sempre un cd di colonne sonore in sottofondo. Non avevo mai visto il film da cui veniva la canzone.
Senza aspettare la risposta da dentro, aprii la porta e guardai accigliato verso il televisore. Sembrava un commedia romantica.
-Non dovevate vedere un film dell’orrore?- chiesi.
-Ciao Reize! Oh sì, dovevamo, ma IQ non riesce a vederne uno senza vomitare… perciò ci abbiamo rinunciato ed IC ha pescato a sorte questo- rispose Diam, lanciando un’occhiatina divertita verso IQ. Il ragazzino si aggiustò gli occhiali e finse indifferenza, benché il rossore sulle guance tradisse il suo imbarazzo.
-Fatemi un po’ di spazio- dissi, mi tolsi le scarpe e mi schiacciai fra Diam ed IC, i quali si spostarono per lasciarmi sedere. Diam si stese a pancia in su, con le ginocchia piegate, e poggiò la testa sulle mie gambe. –Grazie, mi serviva un cuscino- ridacchiò.
Alzai gli occhi al cielo, ma sorrisi.
Intanto IC cantava a squarciagola, dondolandosi sul posto e usando una spazzola come microfono. –Oh, povera Sandy! Voi maschi siete così stupidi!- esclamò alla fine.
-Ehm, non ho idea di che parli- confessai.
-Oh, Reize, non lo hai mai visto? Io purtroppo sì, mille volte. IC lo ha trovato per caso in un appartamento abbandonato, durante un caso, e da allora lo abbiamo visto troppe volte- commentò Diam, fece una pausa. -Comincio a pensare che imbrogli quando tiriamo a sorte...
-Hai visto questo film troppe volte per non sapere che alla fine si risolverà tutto- tagliò corto IQ. Sua sorella lo guardò imbronciata e si tirò le gambe al petto.
-Beh, ma non è questo il punto!- protestò. –Ci sono alcune persone davvero insensibili ai sentimenti degli altri e molto spesso sono i maschi! Abbiamo migliaia di casi come prova!
-Uh... Secondo il tuo ragionamento, Reize dovrebbe essere una ragazza- scherzò Diam. Gli lanciai un’occhiataccia e gli infilai le dita fra i capelli per tirarglieli; si arrese quasi subito e iniziò a chiedermi perdono un po’ ridendo e un po’ piagnucolando.
-No, scusa, dicevo che tu sei un’eccezione! Sei un maschio, ma sei ipersensibile!- si giustificò quando riuscì finalmente ad afferrarmi i polsi e bloccare la mia tortura.
-Per forza! Sono empatico! Mica l’ho chiesto io di nascere con questo dono, anzi guarda, te lo regalo volentieri!- replicai, un po’ serio.
-No grazie, faccio a meno. Sembra un incredibile spreco di energie- fu la risposta di Diam. Come spesso mi capitava, non capii se stesse scherzano oppure no. La sua poker face iniziava a irritarmi. Sbuffai e tornai a fissare lo schermo della tv.
-Comunque io credo che la teoria di Ai sia sbagliata a prescindere, esistono anche donne gelide e senza cuore, mentre di ragazzi sensibili io ne conosco tanti- borbottai.
-Il tuo partner?- chiese Diam. Annuii, anche se in effetti pensavo più a Hiroto che a Kazemaru.
Tanto per cambiare.
Razionalmente, sapevo di dover smettere di pensare a lui in continuazione.
-Oddio, amo questa scena!- IC scoppiò a ridere. Guardai la tv giusto in tempo per vedere una delle protagoniste versare la propria bibita in testa ad un ragazzo. Persino IQ non poté trattenere un sorriso.

 

xxx

 


Spinsi i miei vestiti sul fondo della valigia e mi voltai a fissare l’armadio. Ormai era quasi vuoto, solo pochi scaffali continuavano a traboccare di roba che mi apparteneva.
Salii sul letto e mi sporsi per raggiungere la sciarpa che avevo appeso ad un gancio in alto, la afferrai con una mano, la piegai un po’ a caso e la lanciai in valigia. Il mio sguardo vagò sulla stanza: non mi sembrava vero che fossero passate poche settimane da quand’ero arrivato lì, mi ero abituato così tanto a quell’ambiente da non riuscire a staccare gli occhi dalle pareti. Fuori aveva smesso da poco di nevicare, ma l’aria nella camera era così calda da permettermi di stare a maniche corte in tutta libertà –il riscaldamento nella base era sempre altissimo per compensare il freddo esterno, e questo spiegava perché non era raro vedere Nepper e Diam girare in bermuda e ciabatte come fosse estate. Mi sarebbero mancati.
Un odore forte di limoni mi arrivò alle narici.
Mi sarebbe mancato.
Diam uscì dal bagno con addosso il pigiama, si stava asciugando i capelli scompigliandoli con l’asciugamano, tenendo gli occhi bassi. Un sorriso indecifrabile gli stirò le labbra.
-Vedo che non ti serve una mano per la valigia- commentò. –Magari lascia un po’ di spazio, così mi ci infilo io.
Risposi scherzando:- Non credo che alla dogana ti farebbero passare, sei troppo pericoloso.
Diam non rispose; si lasciò cadere sul letto, con l’asciugamano sulle spalle, i suoi occhi fissavano intensamente il bordo della mia valigia.
–Non dirmi che vuoi veramente entrare lì dentro- esclamai.
Diam mi fece un mezzo sorriso e scosse il capo. -Scherzavo ovviamente, ma forse ero un po’ serio- disse. Una goccia d’acqua gli scivolò dalla frangia lungo il viso e si fermò sul suo mento.
-Non mi giudicare su questo, non è che voglia essere petulante. Non riguarda solo te. È solo… il pensiero- aggiunse dopo una lunga pausa. Continuava a non guardarmi negli occhi.
-Ti è mai capitato di sentirti così solo da restare paralizzato?- domandò, incolore.
Strinsi le braccia al petto. –Quasi sempre- risposi. Diam si morse il labbro inferiore e annuì, o forse dondolò semplicemente il capo per far cadere le gocce d’acqua.
-Lo immaginavo- disse. –Tu hai l’espressione di una persona sola.
-Credevo di essere io quello empatico- buttai lì, scherzoso, per nascondere il mio disagio per quella conversazione. Diam mi guardò di sottecchi, senza girarsi completamente.
-Oh, sì, io non sono così bravo a leggere le persone. È solo un po’ di intuito, niente a che vedere col tuo dono-. Scrollò le spalle. –Tu hai un buon cuore, Reize, e credi che io sia misterioso, ma sembri nascondere molte più cose di me.
Lo fissai spaesato, senza sapere cosa dire o fare. Cosa diavolo stava cercando di dirmi? Voleva farmi capire qualcosa, o erano semplici riflessioni ad alta voce?
-Sai… gli esseri umani sono creature ben strane- proseguì lui, del tutto indifferente alla mia reazione. –Sono stolti e deboli, tuttavia possiedono una forza enorme, di cui neanche sono a conoscenza… Alcuni la chiamano “speranza”, altri preferiscono la parola “coraggio”… è la forza che viene dal calore umano-. Sorrise debolmente.
-Ah, non sono parole mie. Sono scritte nel diario di Sayaka… l’unica cosa che mi rimane di lei sono ricordi e parole scritte in un vecchio diario. Sai, lei… credeva molto in questa forza. Forse è per questo che si è sacrificata per me, perciò ho deciso di cominciare a crederci anche io. E, visto che è solo grazie a te se l’ho realizzato, vorrei che ci credessi anche tu.  
Tacque; sollevò l’asciugamano dalle proprie spalle e si massaggiò rapidamente i capelli per sgrondare l’acqua restante, poi buttò da parte il panno e si alzò per venirmi incontro. Le sue mani cercarono il contatto con la mia pelle, accarezzandomi il dorso delle mani e risalendo poi lungo il braccio. Quando le sue dita raggiunsero la zona appena sotto le orecchie, rabbrividii -le sue mani erano troppo fredde, o forse il mio collo troppo caldo.
-Quello che sto cercando di dirti è… semmai dovessi svelare i tuoi misteri, e avessi bisogno d’aiuto… pensa a me. Ovunque mi trovi, io ti presterò la mia forza. Te lo prometto- dichiarò.
Arrossii leggermente e rimasi immobile. Entrambi respiravamo pianissimo. Il silenzio era così fitto e intenso che quando Desarm bussò alla porta per avvisarmi che il taxi per l’aeroporto sarebbe venuto a prendermi fra meno di venti minuti, mi sembrò di essere stato strappato da un sogno.
-Mi mancherai, Diam- sussurrai, sentendo un nodo alla gola. Lui si avvicinò ancora di più, facendomi respirare forte il suo profumo di limoni. Poco prima di baciarmi, mi fece il sorriso più bello e vero che gli avessi mai visto fare.
 

xxx

 


I saluti prima di partire erano stati brevi e lacrimevoli, non solo IC aveva pianto così tanto che dopo avrei potuto strizzarmi, ma anche gli altri erano commossi. Desarm mi accompagnò fin dentro l’aereo e si congedò da me con un sorriso. Ora, dopo tre ore e mezza di volo ininterrotto, sentivo le orecchie sanguinarmi per il dolore e le palpebre farsi pesanti dal sonno; per la prima volta dopo molto tempo, vedere il volto di Hitomiko mi fece sentire sollevato.
-Spero che tu abbia fatto un buon viaggio- disse, poggiandomi una mano sulla spalla.
-È stato orribile- le risposi.
-Hai tempo una settimana per scrivere la relazione e il rapporto su quanto è accaduto, li consegnerai a me personalmente. Ti accompagno in camera, non sembri capace di reggerti in piedi- continuò lei come se non mi avesse sentito. Non le risposi, ma feci un cenno con la mano e la seguii barcollante nel corridoio. Tutto l’edificio era immerso in un buio completo ed inciampai due volte nei miei stessi piedi mentre mi trascinavo dietro la pesante valigia. La testa mi girava a tal punto che le pareti sembravano muoversi, e mi chiesi come diamine avessi fatto a non rimettere durante il volo (era stato davvero, davvero terribile).
-Eccoci arrivati- annunciò Hitomiko, infilando le chiavi nella toppa di una porta e aprendola lentamente, senza fare rumore. Abbassò la voce:- Non fare rumore, tutti dormono.
-Buonanotte- la liquidai, non desideravo altro che andare a dormire. Chiusi la porta e con un ultimo sforzo spinsi la valigia in un angolo. La tranquillità della stanza era interrotta solo da un leggero ronfare. Mi girai e vidi una sagoma infagottata, doveva essere Kazemaru.
Scavalcai il suo letto e trovai il mio. Esausto, mi ci appoggiai sopra e caddi addormentato.





**Angolo dell'Autrice**
Eccomi qui di nuovo <3
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, a me un po' dispiace salutare questi personaggi. Scrivere su Diam mi piaceva un sacco, ma per un certo periodo dovrò metterlo da parte per affrontare altre questioni -il prossimo arc sarà il più difficile da realizzare, temo. Mi dispiace anche di non aver trovato spazio per raccontare il passato di Heat, IQ e IC, avevo delle idee ma non credo che riuscirò ad inserirle *sigh.
Benché questa storia sia una HiroMido, non ho potuto resistere all'idea di metterci un po' di DiamReize, scusate <3 (ma tanto dal prossimo capitolo ricompare Hiroto :'D)
Ho inserito il pezzo su Grease perché amo quel musical e perché Hopelessly devoted to you mi fa pensare alla HiroMido :D

Alla prossima asdfgasdfasdfghb spero di cavarmela anche coi prossimi capitoli ;w;

Bacioni,
             Roby





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Capitolo 23
*** Mission 23. ~Hiroto's Arc. ***


Ciaooo.
Wow, non capita spesso che io aggiorni questa long così velocemente. Anzi, non credo che sia mai capitato :'D
Però ultimamente ho un sacco di idee e così ho scritto pezzi a random (?) di vari capitoli successivi, e prima che me accorgessi ho finito anche questo. Ho deciso di pubblicarlo anche se è passato poco tempo dall'ultimo aggiornamento perché non so quando riuscirò ad aggiornare di nuovo in seguito (?).
In questo capitolo c'è il ritorno vero e proprio di Midorikawa alla sua vita quotidiana, con Hiroto, Kazemaru e tutti gli altri. 
Ci vediamo sotto :) 
Roby





Quando aprii gli occhi, la stanza era immersa nel silenzio; la già debole luce che traspariva attraverso il vetro della finestra era offuscata dalla pioggia primaverile che stava cadendo. Mugugnai infastidito: ero stufo del cattivo tempo. Mi voltai, mettendomi a pancia in su, e fissai il soffitto mentre riflettevo se alzarmi o no: mi sentivo stanco e macero, con i muscoli indolenziti, come se fossi stato travolto da una tempesta.
Chiusi di nuovo gli occhi, e una mano mi sfiorò leggermente il viso. Sentii il profilo delle dita accarezzarmi il volto e poi tirare delicatamente la ciocca di capelli verdi che mi scendeva davanti all’orecchio destro. Aprii gli occhi e li spostai su Hiroto, che era seduto sul letto, vicino a me.
-Ehi, per quanto vuoi dormire ancora?- mi rimproverò scherzosamente.
-Hiroto…- mormorai, avevo la mente ancora confusa dal sonno. -Cosa…
-Non credi che dormire un'intera giornata sia abbastanza?-
Sbattei le palpebre più volte prima di capire. -Che giorno è oggi?- chiesi, ero piuttosto confuso.
-È il 2 marzo e sono le quattro di pomeriggio- rispose Hiroto gentilmente, aggiungendo anche l’ora benché non l’avessi chiesta. Cercai di scavare nella mia mente annebbiata e ricordai: ero rientrato in sede il primo di marzo, mi ero messo a dormire e… ero stato veramente nel letto tutto quel tempo?
-Oddio- esclamai, mi sollevai di scatto e mi sedetti sul bordo del letto. Non mi ero nemmeno cambiato da quando ero arrivato. Hiroto mi sorrise e si alzò.
-Dai, datti una pulita e vestiti. Io ti aspetto qui fuori alla porta. Andiamo a mangiare qualcosa, immagino che tu abbia fame- dichiarò tranquillo.
Lo guardai stranito: in realtà, finché non me lo aveva ricordato, non avevo affatto pensato a mangiare; inoltre parlava come se fossimo amici da sempre, come se fare quelle cose insieme fosse naturalissimo, invece fino a cinque mesi prima neanche ci parlavamo civilmente.
-Ah, Midorikawa…- Richiamò di nuovo la mia attenzione, voltandosi giusto un attimo prima di aprire la porta e uscire.
-Che c’è?-
-Bentornato- disse e mi fece un sorriso sincero. Sembrava contento di vedermi di nuovo. Annuii meccanicamente, sperando di non essere arrossito; andai in bagno per controllare, ma restai stupito di non trovare specchi appesi alla parete. Mi sciacquai il viso e le ascelle, mi misi il deodorante, poi rientrai nella stanza e finalmente mi resi conto di quanto fosse diversa. Per esempio, ricordavo perfettamente che ci fosse uno specchio alto e oblungo in uno degli angoli, vicino al letto di Kazemaru, ma in quella camera non ce n’era alcuno; mi soffermai sulle scrivanie –erano sempre state in quell’ordine?- e poi sugli adesivi sul calcio appesi in ogni centimetro della parete di fronte a me. Sebbene non riuscissi a riconoscere quella stanza, provavo un vago sentimento di deja-vu…
Senza smettere di pensare a quella stranezza, aprii la valigia e tirai fuori una maglia, una felpa e un paio di jeans; avevo appena finito di infilarmi i vestiti quando la porta si spalancò. Sobbalzai, per un momento avevo creduto che fosse di nuovo Hiroto, invece mi trovai faccia a faccia con il mio partner.
Io e Kazemaru ci fissammo negli occhi per qualche secondo, come paralizzati.
Poi lui coprì la distanza che ci separava in pochi passi affrettati e mi abbracciò. Affondai il viso nel suo collo e allacciai le braccia dietro la sua schiena, pensando a quanto mi era mancato quel contatto fisico. Iniziammo a dondolarci sul posto, nessuno dei due voleva lasciare la presa per primo.
Qualcuno bussò alla porta, probabilmente Hiroto. L’abbraccio finì, ma restammo vicini, con le mani intrecciate e le fronti schiacciate l’una contro l’altra.
-Mi sei mancato- bisbigliò Kazemaru, ed io ricambiai ripetendogli le sue stesse parole. Ci sorridemmo e ci staccammo per uscire dalla camera, Hiroto ci aspettava appoggiato al muro vicino alla porta. Mi voltai verso il corridoio ed ebbi un’altra sensazione di deja-vu: improvvisamente rividi il me stesso del passato attraversarlo, arrabbiato e trafelato mentre litigava con Kazemaru, per poi infilarsi di nascosto proprio in quella stanza.
Era la stanza di Hiroto ed Endou.
-Un momento- esclamai, perplesso. -Ma questa stanza… io… che ci facevo qui?-
Spostai lo sguardo da Hiroto a Kazemaru, che parvero innervosirsi.
-Beh, ecco… vedi, mentre non c’eri è successo un casino… Non ti sto a spiegare tutto, ma praticamente Maki e Burn hanno distrutto la nostra stanza. Ci hanno trasferito momentaneamente da Endou e Hiroto perché la loro camera è la più grande e anche in quattro ci si può stare abbastanza bene- spiegò il mio partner.
A bocca aperta per lo shock, guardai Hiroto, che confermò la versione di Kazemaru.
-Ci siamo offerti noi, a dire la verità. Immaginavamo che avresti avuto bisogno di una stanza appena tornato, infatti sembri veramente a pezzi- aggiunse; si passò le mani fra i capelli, poi le infilò in tasca e scrollò le spalle. -Beh… le cose stanno così. Fino a nuovo ordine, saremo compagni di stanza.-
-M-ma… e le mie cose?- balbettai.
-Non ti preoccupare, abbiamo portato qui le cose che si sono salvate dall’esplosione. Per fortuna la divisa e molti vestiti te li eri portati con te…- disse Kazemaru con l’aria di volermi rassicurare, ma si vedeva che neanche lui era molto tranquillo. Sospirai e mi scusai mentalmente con i ragazzi del monte Fuji per averli definiti “strani” in più di un’occasione –a quanto pare, i nostri colleghi non erano da meno. Mi venne in mente il giorno in cui Heat, Nepper e Diam avevano fatto saltare in aria una casa con una granata e sperai vivamente che Maki e Burn non avessero fatto lo stesso con la nostra camera.
-Venite o no?- ci chiamò Hiroto, che si era avviato verso la mensa. Lo inseguimmo per metterci al suo fianco e, osservandolo, notai con disappunto che la nostra differenza d’altezza era aumentata di qualche centimetro. Ma quanto poteva crescere in una o due settimane? Ero stato via appena un mese e non ero cresciuto affatto. Lo trovavo incredibilmente ingiusto.
Alle quattro e mezza di pomeriggio, prevedibilmente, la sala mensa era vuota.
Mr Hibiki, l’addetto alla cucina, e il suo assistente Tobitaka fecero un gran sorriso vedendomi arrivare con Kazemaru e Hiroto.
-Ehilà, giovanotto! Finalmente ti vediamo comparire da queste parti! Tobitaka, preparagli qualcosa, sarà affamato- esclamò Mr Hibiki. Tobitaka annuì e sparì nelle cucine.
-Allora, ho saputo che l’operazione ha avuto successo per merito tuo. Bravo ragazzo!- proseguì l’uomo ridendo e dandomi una pacca poderosa sulla spalla.
Accennai un sorriso e arrossii sentendo lo sguardo dei miei compagni su di me.
-Ehm… non proprio… in realtà è stato il mio partner ad avere un ruolo chiave nella vicenda... è stato lui a catturare Big D, dopotutto- risposi.
–Io ero nelle vicinanze, ho partecipato all’inseguimento.- Arrossii ancora di più. Io e Diam, di comune accordo, avevamo deciso di omettere il fatto che lui mi avesse ammanettato ad un palo sia nel rapporto scritto per i superiori sia nel resoconto orale chiesto dai nostri amici.
-Eccomi!- esclamò Tobitaka uscendo in quel momento dalla cucina. Mi illuminai alla vista dell’enorme ciotola di ramen che mi veniva messa davanti: quando il mio stomaco emise un debole gorgoglio e sentii l’acquolina formarsi in bocca, capii di avere veramente fame.
La afferrai con entrambe le mani e me la portai ad un tavolo. Mi sedetti, e annusai il profumo che usciva dalla ciotola. Era delizioso. Il ramen alle quattro di pomeriggio non era forse il pasto più adatto, ma mi fece felice. Ringraziai Mr Hibiki e Tobitaka e iniziai a mangiare con gusto.
-Ehi, ehi, mangia più piano o ti farà male- mi consigliò Kazemaru ridendo. Deglutii e annuii, poi ripresi a mangiare più lentamente, assaporando ogni boccone.
Kazemaru e Hiroto si sedettero al mio tavolo. Mentre mangiavo, mi soffermai ad osservarli parlare: sembravano andare abbastanza d’accordo, anche e soprattutto per merito di Hiroto. Ricordavo bene che non aveva mai apprezzato Kazemaru prima che lui ed Endou si mettessero insieme ufficialmente; in seguito doveva aver fatto uno sforzo per farselo piacere e ora si vedeva che non nutriva più risentimento nei suoi confronti. Che la simpatia per Kazemaru fosse nata dal fatto che non fossero più rivali in amore, era una mia debole speranza. Mi resi conto che era piuttosto meschino auspicarsi che Hiroto avesse completamente dimenticato Endou a mio favore, e mi gettai di nuovo sul cibo in preda al senso di colpa.
In quel momento qualcuno entrò nella stanza correndo e mi gettò le braccia al collo. Per la sorpresa, il boccone mi andò di traverso e mi fece tossire.
-Sei qui, sei tornato, come sono felice!- gridò Maki.
Mi voltai verso di lei, rintronato. –Maki, m-mi hai quasi ucciso!- mi lamentai, ma lei era troppo occupata ad abbracciarmi per ascoltare il mio rimprovero.
Alzando lo sguardo oltre la sua testa, vidi Reina avanzare verso di noi, con le braccia incrociate sul petto e un piccolo sorriso sul volto. Mimò un saluto con le labbra e io ricambiai con un cenno della mano.
-Le notizie volano- commentò Hiroto alzando gli occhi al cielo.
-Mi sei mancato, Midorin!- cinguettò Maki raggiante.
-Anche me sei mancata, ma… Come mi hai chiamato?-
-Lascia perdere, a Maki è venuta l’ossessione di dare soprannomi a tutti. Li cambia dopo qualche giorno e ne inventa altri. Fa così da due settimane.- mi avvisò Kazemaru.
-Capisco- dissi, anche se la cosa non aveva alcun senso.
Reina, ormai molto vicina al tavolo, afferrò Maki per le spalle e la staccò dolcemente da me, ricordandole che dovevo ancora finire di mangiare; anche le due ragazze si sedettero al nostro tavolo e si unirono allegramente alla conversazione fra Kazemaru e Hiroto, che stavano decidendo un giorno per fissare una partita di calcio. Endou ne organizzava continuamente.
-E se la mettessimo oggi?- propose Maki mentre giocherellava con i capelli di Kazemaru.
-Oh, insomma- sbuffò il mio partner, seccato. –Ho già detto di no a Mamoru. Vogliamo che giochi anche Midorikawa o no? Guardatelo, adesso è talmente stanco che a malapena si regge in piedi.-  Da quando Kazemaru chiamava per nome Endou, e a me no?
-Ehm, veramente non sono conciato così male…- feci notare.
Hiroto e Kazemaru mi guardarono male.
-Non fare l’idiota- mi rimbeccò Kazemaru. –Il calcio può aspettare che tu ti sia rimesso. Al momento l’unica ferita che vedo è quella brutta cicatrice sulla guancia, ma conoscendoti sono sicuro che troverò un sacco di lividi quando ti controllerò stasera.-
-Ha ragione lui, Midorikawa. Sei troppo impulsivo, devi imparare a startene tranquillo. Fidati, è meglio così per tutti.- concluse Hiroto.
Continuavo a spostare lo sguardo dall’uno all’altro mentre parlavano: non solo andavano d’accordo, ma si coalizzavano persino contro di me!
Finii di mangiare in silenzio, incredulo e quasi stizzito davanti a quell’assurda alleanza che si era venuta a creare.
-Mi trattate come un idiota- borbottai, allontanai il piatto da me e mi alzai.
-Oh, su, non offenderti- mi pregò Hiroto. –Lo diciamo per il tuo bene! È un secolo che non ci vediamo, non vogliamo ucciderti subito dopo averti riavuto fra noi.-
Mi prese la mano e mi guardò per farmi leggere la sincerità nei suoi occhi, ma gli avrei creduto in ogni caso, il semplice contatto fisico mi aveva mandato nel pallone.
Arrossii, ritraendomi. 
-Va bene- mormorai. Hiroto mi sorrise.
-Allora, che facciamo?- chiese Reina. Scrollai le spalle e non riuscii a trattenere uno sbadiglio, guadagnandomi quattro paia di occhi puntati addosso –tanto per cambiare.
-Se sei stanco è meglio che riposi. Magari possiamo metterci in camera a vedere un film, o semplicemente a parlare un po’.- propose Kazemaru. Maki si illuminò.
-Oh sì!- esclamò entusiasta. –Abbiamo un sacco di cose da raccontarci!-
-Allora andiamo in camera nostra- decise Hiroto, tutti furono d’accordo e si alzarono.
 
---
 
Steso sulla mia brandina, osservavo pensieroso le allegre chiacchiere del mio gruppo di amici: a loro quattro si era aggiunto anche Endou, tornato appena da chissà dove, e lo strano equilibrio che si era formato fra lui, Kazemaru e Hiroto mi incuriosiva. Probabilmente, i due fidanzati non sapevano dei sentimenti nascosti di Hiroto nei confronti di Endou, e dal momento che il rosso andava d’accordo con entrambi le cose sembravano proseguire per il meglio. Guardando Hiroto ora, non sentivo più quel forte dolore al petto che mi trasmetteva ogni volta che soffriva per Endou, ma non potevo fare a meno di preoccuparmi ugualmente.
Inoltre, dal momento che scherzavano e parlavano di fatti accaduti mentre non c’ero, non avevo modo di inserirmi nella conversazione.
Affondai la testa nel cuscino, voltato in modo da poter continuare ad osservarli.
-Midorin? Sei vivo?- mi chiese Maki stendendosi vicino a me sulla brandina. Rotolai di fianco per farle spazio e annuii.
–Bene, perché devi parlarmi di te! Cosa facevi là, mh?- esclamò.
Alzai lo sguardo verso il soffitto mentre riflettevo.
-Beh… ogni tanto guardavamo dei film o parlavamo fra di noi a mensa… Ma sai, non abbiamo avuto molto tempo libero. Erano ragazzi molto simpatici però, c’era anche una ragazza che ha pianto da morire quando me ne sono andato… un po’ mi mancano, onestamente…-
Maki ascoltò, pensierosa, poi domandò:- E… com’era il tuo partner?-
Mi presi alcuni minuti di tempo per rispondere. Non era facile definire Diam in poche parole.
-Esuberante, direi… un po’ troppo forse. Fa sempre quello che gli dice la testa e ignora ciò che gli altri pensano di lui! Ha causato non pochi problemi per questo, ma a modo suo è anche una persona gentile perciò… lo ammiro molto. È un mio grande amico.- dissi alla fine. Solo allora, appena pronunciate le ultime parole, mi resi conto del silenzio che regnava nella stanza. Mi girai e notai che tutti avevano smesso di parlare per ascoltarmi.
Terribilmente imbarazzante.
-Deve piacerti un sacco, stai sorridendo- commentò Maki. Annuii distrattamente, evitando lo sguardo di Hiroto: la sua espressione stoica mi impediva di capire cosa stesse pensando, ma sembrava avere una brutta impressione di Diam per motivi a me sconosciuti.
Ma forse, pensai, sono ingenuo. Hiroto è il fratello di Hitomiko, forse lei gli avrà riferito di Diam e di Big D…
Mi morsi il labbro, nervoso. Se era andata così, Hiroto aveva tutti i motivi del mondo per disprezzare Diam. Decisi di non dire nulla a riguardo.
-Uhm, e invece la ragazza che è venuta da voi com’era?- Cambiai argomento.
Maki fece un gran sorriso. –Fantastica! Io l’ho adorata dal primo giorno!- cinguettò.
-Era una ragazza molto beneducata, forse un po’ troppo timida. Comunque Gazel l’ha presa subito in simpatia- continuò Reina.
Hiroto scosse il capo, sembrava rassegnato. -Anche troppo, non faceva che rubarmela da sotto il naso. Ho passato un mese a cercare la mia partner per ogni dove- si lamentò.
-Con lei era dolcissimo, quasi irriconoscibile! E così facendo ha fatto ingelosire Burn, che ha dato di matto.- Maki ridacchiò.
Annuii, anche se proprio non riuscivo ad immaginare che Gazel potesse essere “dolcissimo”. Burn, invece... Lui sì che era uno che dava di matto spesso e volentieri.
La mia povera camera.
Sospirai, rassegnato.
Endou mi lanciò un’occhiata compassionevole. –Wow, amico, sembri davvero stanco. Sicuro di non voler andare a dormire?- osservò con gentilezza.
-La piantate di trattarmi come un sopravvissuto di guerra? Grazie- replicai sarcastico, ma all’ultimo mi venne di nuovo da sbadigliare, tradendo la mia stanchezza. Odiavo ammetterlo, ma era ora di cena e io avevo voglia soltanto di dormire. Era palese che fossi stanco.
-Capitooo!- esclamò Maki alzandosi. –Noi ora ce ne andiamo e tu resti qui a dormire, okay?-
Mi sollevai sui gomiti, accingendomi a protestare, ma lei mi spinse di nuovo giù con decisione.
-Domani ci divertiremo insieme, ora però dormi- disse, mi sorrise con dolcezza.
-Va bene- mugugnai, contrariato. Le palpebre già mi si chiudevano, intravidi le cinque figure varcare la porta e sentii qualcuno dire che gli ero mancato.
-Anche voi- risposi piano. Lasciai che i miei occhi si chiudessero. La porta si chiuse senza far rumore.
 
---
 

Tutto intorno a me era umido e buio; non c'erano luci elettriche, né la luce del sole. Ammesso che fosse giorno. Non sapevo se fosse giorno o notte, che ore fossero, che giorno fosse. Nell’infinità di quel corridoio, il tempo non aveva senso. Dov’era l’uscita? Non sapevo nemmeno quello. Ma la stavo cercando.
Mi concentrai sulle mie mani. Le vedevo a malapena nel buio, ma erano sempre state così piccole?
L’unico indizio era la voce che sentivo.
Mi chiamava.
Mi chiamava disperatamente.
La porta era soltanto a pochi metri da me, sarebbe bastato allungare una mano per aprirla e uscire…
Uscire? O forse entrare?

Tesi le dita in avanti, ma il contorno della porta iniziava già a sfumarsi.


La voce che mi chiamava era cambiata.
Aprii gli occhi di scatto e fissai la porta che avevo di fronte.
Non avevo la minima idea di dove mi trovassi. Mi guardai intorno, vidi un normale corridoio con pareti color panna, il corridoio del primo piano, e vicino a me c’era Hiroto: indossava un pigiama beige, aveva i capelli scompigliati e una luce preoccupata negli occhi. La sua mano destra era stretta intorno al mio polso.
-È solo un ripostiglio, non c’è nulla di interessante- mi informò, aprendo la porta e mostrandomi i secchi e le scope che conteneva. Quando la richiuse, mi fissò negli occhi.
-Che sei venuto a fare qua?- chiese.
Sbattei un paio di volte le palpebre, cercando di dare un senso a tutta quella situazione. Ancora mezzo addormentato, mi squadrai e mi accorsi che avevo di nuovo dormito con gli abiti addosso, e avevo i pantaloni tutti stropicciati. Il freddo del pavimento mi pizzicava sulla pianta dei piedi scalzi, che a mia insaputa avevano camminato fin lì.
Hiroto notò subito il mio smarrimento; sospirò e si rispose da solo:- Non ne hai la minima idea. Devi essere sonnambulo. Su, torniamo in camera…
Annuii e lo seguii. La sua mano era scivolata nella mia e la teneva stretta.
-Che ci fai qui?- domandai curioso.
-Ho il sonno leggero. Ti ho sentito mentre ti alzavi, credevo che dovessi solo andare in bagno, invece sei uscito dalla stanza. Mi sono preoccupato, perciò ti ho seguito.
-Non riesci a dormire?
-Non sono bravo quanto te, no… Tu dormi anche troppo ultimamente… quasi non siamo riusciti a parlare.- La sua voce si era fatta sorprendentemente bassa, quasi un bisbiglio, non avrei saputo dire se era per non svegliare gli altro o se  c’era dell’altro. Suonava molto serio.
-Quindi, parliamo adesso- proseguì. –Stavi sognando qualcosa?-
-Sì… anche se non mi è molto chiaro…-
-Ti va di raccontarmelo?- Alla sua richiesta esitai.
Dopo alcuni attimi di intensa riflessione, decisi di assecondarlo, ma prima mi assicurai che non lo avrebbe detto a nessuno.
-Hai la mia parola- concesse Hiroto sorridendo.
Entrammo nella stanza camminando in punta di piedi, mi staccai da lui per raggiungere la mia brandina e mi sorpresi quando lo intravidi spostare il suo letto verso di me.
-Che fai?- bisbigliai. Non potevo vedere bene il suo volto, ma il suo tono scherzoso mi fece intuire che stesse ancora sorridendo.
-Se stiamo lontani è difficile parlare senza svegliare Endou e Kazemaru… e poi ho pensato che se mi metto proprio fra te e la porta non potrai uscire senza che io me accorga. Voglio dire, dovresti passarmi sullo stomaco per uscire- disse. Ridacchiai al pensiero.
Hiroto s’infilò nel proprio letto e si sistemò, poi si voltò leggermente verso di me facendomi capire che era il momento di parlare.
-Allora…- Presi fiato e coraggio. –Ero in un corridoio, o... una galleria, non so. Era buio e umido, e davanti a me c'era una porta… Stavo per aprirla quando mi sono svegliato. O tu mi hai svegliato, ma in realtà ho la sensazione di essermi svegliato da solo un attimo prima che tu mi chiamassi… Che cosa strana.
-Mmm… forse era un luogo del tuo passato?- ipotizzò Hiroto.
-Non lo so- tagliai corto, nervoso. Ero sempre nervoso quando qualcuno faceva accenni al mio passato, Hiroto sembrò capirlo perché cambiò domanda.
-Fai spesso questo sogno? Ne hai mai parlato a qualcuno?
-Faccio spesso sogni strani e angoscianti, ma questa è la prima volta che vedo quel corridoio. È anche la prima volta che racconto ciò che sogno a qualcuno, sentiti onorato.
-Non lo hai detto nemmeno a Kazemaru?- Hiroto sembrò stupito. –Credevo che voi vi diceste tutto… Lui lo sa che sei sonnambulo?
-Gli ho detto dei sogni, ma non gli ho mai raccontato i dettagli. Inoltre, non avevo mai camminato nel sonno prima di stanotte, quindi non vedo come avrebbe potuto saperlo.- Mi fermai un attimo, pensieroso, poi aggiunsi: -E… ti sorprenderebbe sapere quante cose non gli dico.-
Hiroto fece una lieve risata. –Davvero? Mi sorprendi, davvero! Cose come sogni contorti su corridoi e porte misteriose?- disse, ironico.
-Cose come mi sono dichiarato e sono stato respinto, anche- ribattei. Avevo il respiro mozzato. Hiroto rimase in silenzio per qualche minuto, forse riflettendo, ed ero certo che le mie parole in qualche modo lo avessero turbato, che gli avessero tolto il sorriso. Sperai di non addormentarmi mentre aspettavo una risposta, quei minuti di attesa erano pesanti. Quando Hiroto parlò di nuovo, era serio.
-Ti ringrazio- mormorò. –Sai, io… ci ho pensato. Riguardo alla tua dichiarazione… in tutto questo tempo non ho smesso di pensarci, perciò… se i tuoi sentimenti sono rimasti gli stessi, ti chiedo di aspettare ancora un po’… Credo che presto ti darò la mia risposta.-
Non lo avevo mai sentito parlare in modo così impacciato, insicuro, e il pensiero che fossi io il motivo di questo cambiamento mi faceva sentire così leggero che avrei potuto levitare da un momento all’altro; mi trovai a litigare con me stesso per decidere se ringraziare o maledire il buio, che impediva a entrambi di vedere quanto fossimo arrossiti.
-N-non sono cambiati! Aspetterò!- mi affrettai a rispondere e mi girai di scatto, affondando il volto nel cuscino. Lo sentii sospirare -di sollievo? Il mio cuore mi batteva ad una velocità folle e mi sembrò di sentire il suo battere allo stesso modo, ma forse ero troppo sensibile e mi immaginavo le cose.
-Buonanotte- disse Hiroto. La conversazione era finita.





**Angolo dell'Autrice**
Yeee, Midorikawa è tornato!
L'Arc di Hiroto è il più lungo nella long tremendo gioco di parole? scusate e il più complesso proprio per questo!
Inoltre, dal prossimo capitolo iniziano ad apparire altri personaggi uwu
Il tema del "sogno" tornerà molto spesso, fino alla fine della fic, perché svolge un ruolo chiave per il personaggio di Midorikawa. 

Asdfgsdffgh oggi riguardando i vecchi capitoli mi sono resa conto che questa long va avanti da quasi due anni! L'ho iniziata ad agosto del 2011, il che vuol dire che ad agosto del 2013 farà due anni esatti. Oddio, è una cosa troppo scioccante/emozionante, non so perché mi rende felice. Ci tengo a ringraziare tutti quelli che hanno seguito questa fic dall'inizio, quelli che l'hanno incontrata per caso e che hanno avuto la pazienza di leggerla dal principio, e soprattutto le persone che mi recensiscono <3 Grazie a tutti voi!

Bacioni,
         Roby



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Capitolo 24
*** Mission 24. ~Hiroto's Arc. ***


Buonaseraaa!
Ultimamente pubblico sempre di sera, chissà perché .u.
Mentre scrivevo questo capitolo mi sono spesso data della masochista, perché non solo ho scelto di scrivere  una fic piena d'azione, ma ora li faccio anche giocare a calcio! Perdonatemi se la partita sarà descritta in modo un po' ripetitivo, ma non è facile  scrivere su queste cose per me ;w;
Ci vediamo giù!



Mi scostai leggermente per evitare i panni che Kazemaru lanciava nella mia direzione nel tentativo di centrare il bidone della lavanderia che stava dietro la mia brandina. La felpa entrò, appallottolata com’era, ma i pantaloni rimasero a penzolare accanto a me.
-Midorikawa, ti spiace metterli lì dentro?- mi gridò il mio partner mentre entrava a volo nel bagno appena liberato da Endou.
-Onestamente sì, sono occupato- replicai. Dovevo finire di scrivere la relazione per Hitomiko entro due giorni e non volevo ridurmi all’ultimo per consegnarla. Avevo ancora mezz’ora prima di dover andare a giocare, perciò dovevo finire di scrivere in fretta; l'avrei ricopiata al computer quella sera.
Dopo molte discussioni e rinvii, Endou era riuscito a piazzare la partita di calcio in un giorno che andasse bene a tutti.
Erano passate due settimane dal mio ritorno, e la situazione crimini sembrava a posto: Tokyo era stranamente tranquilla, nemmeno un borseggiatore si aggirava fra le strade, e nessun passo era stato fatto da Seijirou contro Garshield o viceversa. Entrambi sembravano aspettare che succedesse qualcosa.
-Dopo la scrivi a computer? Io sono una schiappa con i computer, consegno tutto a mano! Anche se Hitomiko si lamenta della mia scrittura. Dice che non si capisce niente- commentò Endou ridendo.
Alzai lo sguardo, accigliato.
-Non usi il computer?- chiesi, stranito.
Endou si voltò e s’immerse nel suo armadio in cerca di calzini; quando li trovò, li buttò sul letto e mi rispose mentre li infilava ai piedi.
-Nah. Hiroto però ha una Olivetti del 74, gliel’ha regalata Hitomiko qualche anno fa… Prima anche lui scriveva a mano- disse.
-Sai che non ho capito niente di ciò che hai detto, vero?
Endou mi guardò e ridacchiò. -È una macchina da scrivere. Hiroto odia i computer, perciò usa quella. Deve essere da qualche parte nel suo armadio, non la tira fuori per paura di romperla.
Rimasi per un attimo a riflettere sull’apparentemente insensato odio di Hiroto verso i computer. -E c’è qualcos’altro che odia? Per esempio le tende?- chiesi sarcastico, additando alla finestra nuda.
Endou scoppiò a ridere forte. -No, no, quelle le ho tirate giù io per sbaglio. A tal proposito, dovremmo farle rimettere!- esclamò.
-Però sì, ci sono altre cose che odia… tipo gli specchi.
Alzai un sopracciglio. Era stata la prima cosa che avevo notato, il giorno stesso in cui mi ero svegliato in quella camera.
–Hiroto odia gli specchi? Sul serio? Da come si veste credevo che passasse ore davanti allo specchio ad atteggiarsi!- dissi, incredulo.
-Ironico che tu dica così- replicò Endou, con la voce lievemente soffocata dalla maglietta che stava infilando dalla testa.
Quando si liberò, si chinò a prendere una borsa da sotto il letto e ci ficcò dentro borraccia, calzini di ricambio e il kit di primo soccorso.
-È davvero ironico…- ripeté sottovoce. Notai una nota più seria nella sua voce, quasi prudente, come se l’argomento fosse estremamente delicato.
Fissò a lungo la borsa, poi alzò di scatto lo sguardo su di me, facendomi sobbalzare.
–Midorikawa, voglio confidarti questa cosa, però è un segreto, okay? Non devi dirlo a nessuno, neanche ad Ichirouta- mi raccomandò.
Annuii, ora più curioso che mai di ascoltare cos’avesse da dire di tanto segreto su Hiroto.
-La verità è che… Hiroto è catop… capot… capt…- Inciampò ancora qualche volta nella parola, poi rinunciò a pronunciarla.
Scosse il capo e cambiò l’impostazione della frase: -…insomma, ha paura degli specchi… per questo li odia. Ti assicuro che non ne vedrai mai uno in questa stanza, né fra le sue mani. Li odia davvero…- Si bloccò sentendo un rumore di passi.
Pochi minuti dopo, Hiroto bussò alla porta.
-Ragazzi, ci siete o no? Guarda che stiamo aspettando voi!- gridò.
-Io ci sono!- rispose Kazemaru uscendo dal bagno, si era legato i capelli con la solita coda di cavallo, ma aveva aggiunto molte mollette alla pettinatura per tenere le ciocche della frangia. Mi squadrò da capo a piede, contrariato. –Ti devi ancora vestire! Muoviti! Su, su, su!- incalzò.
-Ho capito, ho capito! Ecco, ho finito!- dissi mentre finivo di battere l’ultima parola del rapporto. Chiusi il portatile e mi alzai in piedi, poi mi vestii rapidamente, Kazemaru mi aveva prestato una maglietta e un pantaloncino, mentre Endou mi diede dei calzettoni e un suo vecchio paio di scarpe da calcio visto che io non ne avevo.
Endou aprì la porta ed uscimmo, dirigendoci verso il campo da calcio insieme a Hiroto.
 

xxx

 
Il campo, che scoprii essere da calcetto e non propriamente da calcio, si trovava nel mezzo di un parco, a qualche isolato dal nostro quartier generale, di cui si poteva intravedere il tetto voltandosi a sinistra; era di terra battuta, leggermente smussato agli angoli e frastagliato sui bordi, ma se non era adatto a competizioni ufficiali era perfetto per quelle piccole amichevole che Endou organizzava per divertirsi. Ad aspettarci sul campo c’erano volti conosciuti: Kidou e Gouenji (che, come venni a sapere da Kazemaru, erano amici di Endou sin dalle scuole medie), Burn e Gazel, Reina e Maki.
-Ehi, Endou!- gridò Gouenji appena lo vide arrivare. –Abbiamo trovato un altro portiere!-
-Cosa? Oh, fantastico!- Endou rise e affrettò il passo per raggiungere i suoi amici.
Dietro Kidou fecero capolino tre ragazzi: due non li avevo mai visti, mentre il terzo mi sembrava di averlo intravisto qualche volta bazzicare nell’ufficio di Gazel.
Proprio quest’ultimo, un ragazzetto dai capelli castani e occhi blu, si avvicinò a Endou con aria timida e impacciata.
-P-piacere, mi chiamo Tachimukai Yuuki…- si presentò, accennando un sorriso.
-Lui è il nostro portiere- aggiunse Gouenji. Endou si rivolse a Tachimukai e gli strinse la mano con calore, entusiasta di aver trovato un altro portiere.
-M-me la cavo… non sono niente di ché…- mormorò Tachimukai abbassando lo sguardo.
Gli altri due ragazzi, dietro di lui, alzarono gli occhi al cielo; il più alto, i cui capelli rosa dalla forma irregolare avrebbero colpito anche senza fare un così evidente contrasto con la carnagione scura, avanzò e gli mise un braccio intorno alle spalle.
-Non ne avevamo già parlato, Yuuki?! Devi guarire da questa insicurezza cronica!- esclamò, a voce un po’ troppo alta.
Tachimukai sobbalzò e fece un sorriso di scuse.
-Yuuki è riservato e non ha fiducia in se stesso, ma è molto più che “niente di ché”- dichiarò tranquillamente l’altro ragazzo, che portava una bandana annodata in testa.
-Endou, loro sono Tsunami Jousuke e Toda Yuuichiro. Lavorano negli uffici, quindi non mi meraviglierei se nessuno di voi li avesse mai visti. Tachimukai ogni tanto da’ anche una mano a Burn a sistemare gli archivi, il che onestamente vorrei che succedesse più speso visto che Burn è un incapace.- spiegò Gazel, pragmatico e impassibile come sempre.
Burn gli scoccò un’occhiata molto offesa e borbottò qualche vendetta sottovoce.
-Yo, ragazzi! Io sono Tsunami!- esclamò allegramente il tipo con i capelli rosa, mentre Toda si limitò a fare un cenno con la mano sorridendo. Tachimukai sembrava molto imbarazzato.
Endou li guardò con soddisfazione, poi chiamò a sé Kidou per fare le squadre.
Alla fine fu deciso che una squadra fosse formata da Endou, Kidou, Hiroto, Gazel, Kazemaru e me, mentre dall’altra parte c’erano Tachimukai, Toda, Tsunami, Gouenji, Burn e Maki. Reina si tirò fuori all’ultimo dicendo che si sentiva troppo fiacca e che preferiva fare l’arbitro.
-Allora… Midorikawa, come te la cavi a calcio?- mi chiese Endou mentre entrava in porta.
-Non saprei, è da tempo che non tocco un pallone- replicai.
-Beh, nel caso tu abbia dei problemi ti aiuterò io- disse Hiroto, mi posò una mano sulla spalla e mi sorrise.
–Ora facciamo un po’ di riscaldamento e di stretching, poi cominciamo!-
Annuii e cercai di imitare i suoi movimenti, sentii i muscoli indolenziti sciogliersi un po’.
Davvero, da quanto tempo non giocavo semplicemente a pallone? Erano passati anni. Da quando ero entrato a far parte dell’agency, avevo tagliato fuori dalla mia vita un sacco di attività che invece mi piaceva fare, tutto perché ero ossessionato dall’obiettivo di portare la giustizia nel mondo; dopo il caso Jordaan, tutti quegli sforzi per essere perfetto mi sembravano così futili ed insensati...
-Sei pronto, Mido-chin?- mi gridò Maki dalla metà campo.
Basta pensieri negativi, mi dissi. Tirai un lungo e profondo respiro prima di annuire. Lei sorrise e fece un cenno a Gouenji.
Fin dall’inizio della partita, cominciai a capire il perché di quelle formazioni: fra Burn e Hiroto, e fra Burn e Gazel, correva una sottile ma esplosiva rivalità, che avrebbe impedito loro di collaborare in una stessa squadra, mentre Hiroto e Gazel erano perfettamente capaci di lavorare assieme. Kazemaru era di gran lunga il più veloce, sebbene Gouenji facesse del suo meglio per stargli dietro. Kidou sfruttava la sua intelligenza per strategie infallibili ed Endou erano un ottimo portiere.
Stavo quasi per pensare che la nostra squadra fosse avvantaggiata, finché non vidi giocare assieme, in una vera azione, Burn e Maki: erano una coppia perfetta, ognuno dei due sapeva sempre dove trovare l’altro, come se si leggessero la mente a vicenda, forse perché erano stati amici sin dall’infanzia. Ma non erano i soli a sapersela cavare: i tiri di Gouenji avevano una potenza spaventosa, Tsunami era atleticamente fenomenale, Tachimukai aveva un buon istinto e una buona agilità, Toda riusciva a leggere la direzione dei passaggi.
A causa di questo strano bilanciamento di forze, la partita si tirò avanti sullo 0 a 0 per molto, finché Hiroto 
non riuscì finalmente  a mettere a segno un goal su assist di Gazel.
-Fine primo tempo!- annunciò Reina, il nostro arbitro.
-Siamo sulla crestaaa!- gridò Endou vittorioso, uscì dalla porta per saltare addosso a Hiroto e abbracciarlo festosamente.
-Santo cielo, è solo il primo tempo, nel secondo vi stracciamo!- esclamò Burn incrociando le braccia al petto. Maki gli si avvicinò e gli disse nell’orecchio qualcosa che lo fece sorridere. Quei due avevano una così forte intesa che sembrava quasi impossibile non vederli come una coppia: erano stati insieme tutta la vita, ma non si erano innamorati. Che cosa strana.
Kazemaru mi toccò una spalla. –Come va?- chiese.
-I miei muscoli non si stanno disintegrando, se è questo che vuoi sapere- risposi, un po’ seccato dal fatto che tutti mi trattassero come se fossi fatto di porcellana.
-Però sono indubbiamente scarso- aggiunsi con un sospiro.
-Anche per me era così all’inizio, ma ci farai l’abitudine, vedrai- mi rassicurò Kazemaru, non sentii cosa disse dopo perché la sirena di un’ambulanza coprì le sue parole con un rumore assordante. Mi voltai e vidi un lampeggiamento blu e rosso oltre l’entrata del parco.
-Succede ogni tanto, c’è un ospedale qui di fronte- mi disse Kazemaru, togliendosi le mani dalle orecchie, gesto che aveva fatto istintivamente per proteggersi dal suono. Mi scoprii per nulla sensibile a quel frastuono: sì, era fastidioso, ma non era che un fischietto paragonato a quello che faceva Diam.
-Ragazzi, siete pronti per il secondo tempo?- gridò Reina agitando un braccio per farsi notare.
Frugai nella borsa, tirai fuori la bottiglia d’acqua e bevvi un sorso, poi la posai e corsi a mettermi al mio posto in campo. I ragazzi erano già al loro posto.
Reina avanzò nel campo e posizionò la palla a centrocampo, lasciandola a Gouenji e Maki.
-Sei pronto, Haruyan?- chiese la ragazza voltandosi indietro; il ragazzo fermo a centrocampo appena dietro i due attaccanti, sbuffò e roteò gli occhi.
-Sono nato pronto! E piantala con quel soprannome stupido, Dyson!-
-Non chiamarmi Dyson!-
-Ragazzi, non vorrete litigare sul calcio d’inizio!- li riprese Tsunami ridendo.
-D’accordo, continueremo questa conversazione dopo aver segnato- concesse Burn con un ghigno, Maki annuì e calciò la palla lateralmente a Gouenji.
Nel momento in cui l’attaccante si preparò a lanciarsi in avanti, Kidou e Hiroto gli erano già alle costole, ma Gouenji li dribblò semplicemente passando la palla avanti a Toda; gli corsi incontro, cercando di rubargli palla, ma lui lanciò la palla all’indietro a Maki e bloccò i miei movimenti frapponendosi fra me e lei.
-Fermatela!- ordinò Kidou.
Maki sorrise. –Non stavolta! Haruyan, tocca a te!- gridò e lanciò la palla in alto, così in alto che il riflesso del sole la nascose per alcuni attimi.
Poi Burn saltò e la rubò dal cielo in un battito di ciglia: rimasi sconvolto dalla sua capacità di elevazione, sembrava quasi che stesse fluttuando nell’aria… di certo doveva avere una potenza fisica non indifferente.
-Prova a parare questo!- disse Burn con sfida, calciò il pallone in rovesciata.
Il tiro attraversò la parte di campo restante roteando su se stesso con una velocità pazzesca, per poi deviare all’ultimo e andare ad insaccarsi nell’angolo in alto della porta, Endou riuscì appena a toccare la palla con la punta delle dita.
Burn ricadde a terra in equilibrio e si mise le mani sui fianchi con fare arrogante e orgoglioso, per poi voltarsi e accogliere fra le braccia Maki, che correva verso di lui festante.
-Ed è pareggio!- strillò, abbracciando d’impeto il suo migliore amico.
-Va bene, va bene, siamo pari, ma c’è ancora tempo- intervenne Hiroto.
-Sicuro, il sottoscritto ha ancora tanti goal da segnarvi!- esclamò Burn trionfante.
-Ti metti sempre in mostra- commentò Gazel freddamente, mentre si pettinava distrattamente i capelli con le dita. Burn gli lanciò uno sguardo perplesso; quando si accorse di star ancora abbracciando Maki, si scostò da lei di scatto, ma Gazel non disse più nulla: se era geloso, non lo dava a vedere.
-Palla a noi, allora- dichiarò Kidou pragmatico, prese il pallone dalle mani di Endou e lo poggiò a centrocampo, vicino a Hiroto e Gazel.
–Datevi da fare- raccomandò loro.
I due si lanciarono una breve occhiata prima di partire all’attacco.
Gazel non degnò nemmeno di uno sguardo Maki e Gouenji: puntò dritto verso Burn e lo dribblò con una finta, con una determinazione tale che non si poteva non pensare che l’avesse fatto apposta. Burn ringhiò e lo inseguì, ma Gazel si liberò della palla quasi subito dopo averlo superato, lanciandola verso Hiroto.
In realtà, anche quel passaggio era solo una finta per distrarre Toda e Tsunami: quando la palla passò oltre Hiroto e vidi un fulmine azzurro sorpassarmi, capii che era diretto a Kazemaru. Il mio partner prese possesso di palla e avanzò solo davanti alla porta.
-Non te lo lascerò fare!-
Burn sbucò quasi dal nulla. Nessuno si era accorto che avesse recuperato; andò in scivolata su Kazemaru un attimo troppo tardi: il tiro era già partito, ma essendo fuori equilibrio sbatté contro un palo mentre Kazemaru inciampava e cadeva a terra.
Burn fu il primo a soccorrerlo.
–Oddio, non ti ho mica azzoppato, vero?- si assicurò osservandogli le caviglie, preoccupato di aver combinato qualche guaio.
-Oh no, sto bene- disse Kazemaru. –Comunque hai esagerato.- Tentò di alzarsi e mi accorsi di un’improvvisa espressione di dolore sul suo viso.
Corsi accanto a lui mentre si tirava su aiutato da Tachimukai e Burn e vidi il rosso osservare inorridito il polso di Kazemaru, era livido e gonfio.
-Devo esserci atterrato su, non è niente di troppo grave…- disse il ragazzo mantenendolo delicatamente con l’altra mano, capii che cercava di sdrammatizzare per non far sentire Burn troppo in colpa, anche se probabilmente se lo sarebbe meritato.
-C’è un ospedale qui vicino, facciamo un salto a farti vedere- propose Endou, visibilmente in ansia per il suo fidanzato.
-Vengo con voi- mi offrii immediatamente.
Endou annuì, poi mise un braccio intorno alle spalle di Kazemaru e lo attirò dolcemente a sé, facendolo arrossire.
Sospirai, non mi andava di fare la candela fra quei due, ma dovevo fare quel sacrificio per accertarmi che Kazemaru stesse davvero bene.
-Non ci metterete molto, non sembra rotto- commentò Kidou. –Dopo tornate qui, okay?-
-Ricevuto, signor regista!- scherzò Endou e ci voltammo per andare all’ospedale.
 

xxx

 
Endou e Kazemaru erano dentro la stanza da quasi dieci minuti.
Io ero rimasto nella stanza d’attesa a ciondolare pigramente sulla sedia, non amavo stare vicino a medici di alcun genere e in generale non mi piacevano gli ospedali.
Tutto quel bianco avrebbe finito con il farmi impazzire, ma per Kazemaru questo e altro.
Decisi di uscire a prendere un po’ d’aria. Dietro l’ospedale c’era un bel cortile, ampio e verde, con appena due panchine di legno scalcinato; tirava un’aria primaverile, calda e carezzevole. Mi arrotolai le maniche il più possibile e mi sedetti al sole, godendomi il calore. Quanto mi era mancato, quando ero al monte Fuji! Lì probabilmente il sole non era mai così pieno, così intenso… non che se ne dessero gran pena, avendo i riscaldamenti accesi per metà anno.
Una bambina rideva, cristallina, e correva e si rotolava sul prato, in mezzo ai pochi fiori che spuntavano fra i trifogli.
-Luca, sbrigati! Sbrigati!- strillò e rise, ancora. Un sorriso mi spuntò naturalmente sul volto mentre la osservavo giocare così spensierata.
-Sì, sì, eccomi- rispose un ragazzetto con le lentiggini, la tirò su per le braccia e le scompigliò i capelli color grano, facendo cadere i fili d’erba che vi erano rimasti impigliati.
-Non sarà il caso di tornare dentro?- le disse, sorridente.
-Ma io voglio giocare ancora!- La bambina mise il broncio e strinse i pugnetti sulla vestaglia d’ospedale (mi si strinse un po’ il cuore a vedergliela indosso) ma si convinse ad andare quando il ragazzo accennò ad un certo zio che sarebbe venuto presto a trovarla.
Vidi il suo volto illuminarsi di gioia poco prima che salisse in spalla al ragazzo e sparisse con lui all’interno dell’edificio.
Guardai il display del mio cellulare, erano passati altri otto minuti da quando ero uscito e decisi che era ora anche per me di rientrare; mi stiracchiai prima di alzarmi, e fu allora che mi accorsi dei due uomini che mi scrutavano, in piedi dall’altra parte del cortile.
Li squadrai, scettico: indossavano delle divise scure, il che mi faceva pensare che facessero qualche lavoro d’ufficio che non riguardava affatto l’ospedale.
Dapprima li ignorai, ma quando mi resi conto che seguivano ogni mio movimento mi voltai a fissarli con sfida.
I due uomini si lanciarono uno sguardo eloquente, poi si avvicinarono con lentezza.
Non mi mossi e non abbassai lo sguardo mentre riflettevo rapidamente: non avevo la pistola con me ed era pieno giorno.
La situazione non giocava per niente a mio vantaggio.
-Possiamo chiederle chi è lei? Conosce la signorina?- mi domandò uno dei due uomini.
-No- risposi. Signorina?, ripetei mentalmente, non capendo a cosa si riferissero.
-In tal caso, le dobbiamo chiedere di allontanarsi.- disse l’uomo. Non mi mossi, e l’altro mi afferrò il braccio con forza. –Si allontani. Adesso.- intimò.
Strinsi a mia volta il suo braccio con la mano, preparandomi ad usare la tecnica di soppressione.
Prima che potessi agire, un rumore secco riecheggiò nell’aria e l’uomo mi lasciò andare; si piegò all’indietro e spalancò occhi e bocca, incredulo mentre dalla sua testa schizzavano fuori sangue e cervella. Il secondo sparo seguì il primo a distanza di pochi secondi, e poi arrivò il terzo in rapida successione. L’altro uomo ebbe appena l’impulso di mettere mano alla pistola nella tasca della giacca, poi i proiettili gli bucarono il petto. Ma, più che proiettili, sembravano bombe, squarciavano completamente i loro corpi.
Chiusi gli occhi e mi coprii istintivamente il volto con le mani, ma nessun proiettili mi aprì lo stomaco, la testa o altro.
L’unica cosa a colpirmi fu il sangue dei due uomini, di cui mi ritrovai quasi coperto, mi schizzò su gambe, braccia e torso.
Ebbi un brivido di disgusto e temetti di star per rimettere. Mi sfregai il viso, scosso, ma per fortuna era pulito.
-Togliti dai piedi, tu.- disse qualcuno.
Tremante ma ancora cosciente di me, in qualche modo trovai la forza di alzare lo sguardo.
Il killer aveva ancora la pistola puntata contro il suo bersaglio e il grilletto sotto il dito. Era un ragazzo alto quasi quanto me, con i capelli raccolti in unico ciuffo che dal centro del capo, rasato ai lati, gli ricadeva sulla fronte. Le sue pupille erano gelide quanto la sua voce. Il mio sguardo ricadde scioccato sul mantello color lavanda che portava sulle spalle, sulla spilla d’oro appuntata sul bordo del pantalone nero attillato: indossava la divisa delle Spy Eleven. 




xxx

**Angolo dell'Autrice**

Ciao! Con questo capitolo ho deciso di introdurre sei nuovi personaggi, di cui tre sono Tachimukai, Tsunami e Toda -beh... detto fra noi (?), non è molto difficile capire chi siano gli altri tre, anche se non ho detto il nome- . Ci sarà della TsunaTachi in questa fic, già (?). Se non conoscete Toda, vi dico che è il capitano della Yokato, la scuola originaria di Tachimukai -e se non vi basta, questa è la sua scheda sulla wiki .w. Sono sicura che lo riconoscerete subito dalla foto, se avete visto la seconda serie di IE con attenzione :'D
Midorikawa, la sfiga ti perseguita (?)
Mi sono divertita a descrivere il rapporto fra Maki e Burn in campo, in questa fic non hanno una relazione romantica ma stanno molto insieme, sono amici d'infanzia e si vogliono un gran bene. In realtà, Maki nutre dei sentimenti per lui, ma Burn non ha occhi che per Gazel... Ma sì, complichiamoci la vita (?)
E riguardo all'odio di Hiroto per gli specchi e i computer, mi sono ricollegata ad un mio headcanon che ho già accennato in una mia fic, "cataptrophobia", ma che comunque spiegherò meglio più tardi per chi non l'avesse letta o non volesse leggerla :'DDD 

Bacioni e alla prossima,
                              Roby



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Capitolo 25
*** Mission 25. ~Hiroto's Arc. ***


Buonasera C:
Asdfgasdfgh non avete idea della confusione che ho in testa, devo imparare almeno una quarantina di vocaboli portoghesi a memoria, per non parlare dei verbi--oddio, sono distrutta. Per questo motivo non credevo che ce l'avrei fatta ad aggiornare questa fic prima di entrare nel periodo degli esami, invece sorprendentemente stasera sono riuscita a completare il capitolo e ne sono sollevata... E' probabile che dopo questo non aggiornerò per un po'... I'm so sorry ;w;

 



Il ragazzo di fronte a me lesse il terrore e la sorpresa nei miei occhi, e feci in tempo ad intravedere un sorrisetto allargarglisi sul volto –come se intimorire gli altri gli facesse un gran piacere- prima che sparasse un altro colpo contro di me.
Istintivamente mi abbassai e sollevai il braccio, facendo staccare dal mio corpo una sferza di energia che a stento riuscì a spostare la traiettoria del proiettile, ma non ad annullarne il potere: lo sparo rimbombò nell’aria mentre faceva esplodere un vaso.
Il ragazzo osservò la ceramica spaccarsi e il terreno rotolare fuori, lasciando scivolare la pianta verso il cemento.
-Oooh, ma allora non sei uno di loro- commentò, emise un leggero fischio.
-E non te ne potevi accertare prima di spararmi contro?- replicai torvo. Sbuffò e lui fece roteare la pistola fra le dita, poi con una mossa esperta la rinfilò nella custodia appesa alla cinta. Il mio rimprovero non sembrava smuoverlo nemmeno un po’, perciò aggiunsi: -Sono un agente dell’Inazuma Agency di Tokyo.
Il ragazzo mi squadrò, visibilmente sorpreso, ed emise un fischio.
-Questo spiega perché sei sopravvissuto al mio attacco. Beh, resti una schiappa in ogni caso, se ti stavi facendo mettere i piedi in testa da quei tipi- commentò secco.
-Non mi stavo facendo mettere i piedi in testa! Avrei potuto atterrarli in un minuto e… e non c’era il bisogno di ucciderli!- replicai.
-Cosa ti importa? Erano inutili. Il mondo continuerà anche senza di loro.
Lo fissai, incapace di rispondere ad un’affermazione così fredda e crudele. I suoi occhi trasmettevano un forte disprezzo, quasi disgusto. Che valore aveva la vita umana per quel tipo? Come poteva un individuo del genere essere diventato una Spy Eleven? Eppure non c’erano dubbi, più guardavo la spilla più mi rendevo conto che era uguale a quella indossata da Seijirou, Edgar, Fideo.
-Piuttosto, sei un agente e non vai in giro armato? Che idiota- mi insultò, scrollando le spalle. Lo ignorai e mi fissai le mani sporche di sangue. Tremavo leggermente.
-Ma davvero non provi niente?- chiesi, cupo. –Il fatto di aver ucciso due persone a mente fredda non ti fa nessun effetto?
Nemmeno un muscolo del suo volto si mosse. La mia reazione non lo stupiva, doveva averla vista ripetersi parecchie volte. Indifferente, si voltò e mise le mani in tasca.
-Non ho mai dato ascolto nemmeno alla mia coscienza, figuriamoci se do retta ad un perdente come te.- Il tono della sua voce sembrava prendermi in giro, ma d’un tratto si fece basso e minaccioso, come un avvertimento. –Piuttosto, vedi di non intralciarmi… o farò fuori anche te.
Che fosse un semplice avvertimento o meno, di certo sembrava maledettamente serio. C'era poco da scherzare con quello lì.
Lo guardai allontanarsi, senza far nulla per richiamarlo. Non conoscevo il suo nome, ma avevo il presentimento che lo avrei rivisto presto. Prima che la visione del sangue mi facesse rimettere, ora che l'adrenalina era calata, chiusi gli occhi e presi qualche respiro profondo. Le Spy Eleven erano scelte in base alle loro doti speciali: una particolare attitudine alla leadership, un potere raro, un’intelligenza fuori dal comune o il coraggio mostrato in una specifica situazione. Per questo, mi trovai a chiedermi in base a cosa fosse stato scelto lui.
In quel momento la porta dietro di me si spalancò e ne uscì Kazemaru: a parte il polso fasciato, e l’aria trafelata e sconvolta, sembrava stare bene.
-Ah! Midorikawa!- gridò il mio partner vedendomi.
–Midorikawa, tutto bene? Hai sentito gli spari… Oddio!!- S’interruppe con un urlo di sorpresa. Sentendolo urlare, Endou arrivò subito dietro di lui. Abbassai lo sguardo sul mio completo zuppo di sangue. Lo sentivo attaccarsi alla pelle, una sensazione orribile, e valutai l’idea di cambiarmi. Sì, ma con cosa? Mentre riflettevo, notai lo sguardo di puro orrore con cui Kazemaru ed Endou mi guardavano. Intuii ciò che pensavano.
-Oh. Scusate. Non sono ferito- mi affrettai a rassicurarlo.
-E tutto quel sangue allora da dove… Ah!- Per la seconda volta, Kazemaru si interruppe da solo: aveva visto i due cadaveri a terra. L’immagine lo fece impallidire notevolmente, tanto che mi chiesi se non stesse per vomitare lui al mio posto.
-Kazemaru, calmati, ora ti racconto tutto…- dissi, evitando di toccarlo per non sporcargli i vestiti. In realtà, però, non riuscii nemmeno ad iniziare, perché fummo interrotti subito dall’arrivo degli altri, presumibilmente allarmati dagli spari. Pensai che l'eco dovesse essersi sentito per parecchi isolati.
-Endou! State tutti bene?- esclamò Hiroto avvicinandosi al suo partner, che annuì.
-Sì, ma guarda un po’ là…- borbottò Endou, con un cenno del capo indicò i cadaveri e la pozza di sangue.
-Oh... oh, santo cielo!- rantolò qualcuno, forse Tachimukai. Lui, Tsunami e Toda sembravano i più scossi, forse perché lavorando negli uffici non vedevano spesso cose del genere, o almeno non da vicino. Lo sguardo degli altri, invece, era ovviamente puntato su di me.
Sentii Reina borbottare qualcosa tipo:- Ma perché è sempre coperto di sangue?-, poi Hiroto mi si avvicinò e mi squadrò da capo a piedi.
Alla fine della sua ispezione, capì che ero effettivamente illeso e sospirò di sollievo.
-Vieni con me, dovrei avere qualcosa per farti cambiare… non credo che tu ti senta a tuo agio così, giusto? Onestamente fa un po’ senso anche a me- disse, la sua mano si strinse con decisione attorno al mio polso senza aspettare una mia risposta. Si voltò e consegnò a Endou il proprio cellulare. –Chiama mia sorella per riferirle l’accaduto, intanto io e Midorikawa andiamo un attimo in bagno- aggiunse.
Mi lasciai trascinare verso l’interno dell’ospedale senza discutere né voltarmi indietro ad osservare le espressioni dei miei compagni e permisi a Hiroto di dire e fare quello che voleva.
Chiese ad una spaventatissima infermiera dove fossero i bagni, ma non ottenne risposta –la ragazza era troppo occupata a fissare con orrore il sangue che stavo sgocciolando sulle mattonelle di linoleum bianco latte del corridoio- per cui cercò una stanza vuota ed mi fece entrare. Chiusa la porta a chiave, iniziò a rovistare nella borsa che portava appesa su una spalla.
-Allora, ho una felpa e un pantalone di tuta, forse il pantalone ti andrà un po’ lungo, ma puoi sempre arrotolarlo in vita…- 
-Sì, sì, ti ringrazio, mi va bene tutto- intervenni e gli strappai precipitosamente di mano gli indumenti. Avevo una tale fretta di cambiarmi che non provai la minima vergogna a spogliarmi di fronte a lui, per poi indossare i suoi vestiti. La felpa, di colore verde tenue, profumava di bucato, ma anche di colonia, ed era calda; forse Hiroto l’aveva indossata da poco e questa sensazione mi ricordava il nostro abbraccio. Arrossii impercettibilmente, sentendomi un pervertito per il solo fatto di star pensando quelle cose. Era un sollievo, però, poter indossare qualcosa di pulito.
-Bene, ora possiamo tornare indietro- dichiarai allegro, ma il mio sorriso svanì quando alzai lo sguardo e notai l’espressione quieta e indagatoria di Hiroto, che mi scrutava silenziosamente.
-Qualcosa non va?- domandai, squadrandomi anche io per cercare di capire.
Hiroto scosse il capo, gettò un’occhiata veloce ai panni sporchi di sangue fresco e poi tornò a guardare me. Mi fece cenno di avvicinarmi e non appena obbedii, docile, mi prese la mano.
-Mi sono ricordato di una cosa…- mormorò. –Anche quella notte tu… eri immerso nel sangue.
Per un lungo istante rimasi a guardarlo stranito, senza cogliere il riferimento.
Subito dopo, l’immagine di alcune gocce di sangue che scivolavano nel vuoto attraverso una grata di metallo, immersa nel buio, mi fece rabbrividire e tentai di ritrarre la mano; Hiroto l’aveva previsto e la strinse forte.
-Quella notte hai urlato tutto il tempo, io lo so perché ti ho portato in spalla fino all’infermeria, tanto che alla fine anche io ero sporco di sangue. Forse non ricordi molto, ma la mattina dopo sono venuto a trovarti e tu eri nel bel mezzo di una crisi di panico- continuò.
-Certo che lo ricordo… tu… sei stato tu a calmarmi- risposi, con voce strozzata. Hiroto annuì e si chinò dolcemente in avanti, appoggiando la fronte contro la mia spalla.
-Ho avuto paura, vedendoti oggi... Credevo che avresti avuto un’altra crisi… sono sollevato di vedere che stai bene, intendo non solo fisicamente- ammise. Le nostre mani erano ancora intrecciate, alzai l’altro braccio e gli cinsi la schiena. Respiravo piano contro il suo collo, alcune ciocche di capelli rossi gli cadevano sulle spalle. Fino a quel momento non l’avevo notato, ma i suoi capelli erano diventati più lunghi mentre ero via.
-Non erano persone che conoscevo. Tutto qui- sussurrai.
Hiroto si raddrizzò, scostandosi dal mio mezzo abbraccio, e annuì.
-Torniamo di là. Quei vestiti puoi anche buttarli- disse, serio e con voce decisamente più ferma di prima. Era diventato più emotivo, o era soltanto un’impressione che mi faceva comodo? L’unica cosa certa era che non ero stato l’unico a cambiare, di recente.
Hiroto mi lasciò la mano, aprì la porta ed uscì: per il resto del corridoio, camminò al mio fianco, ma non mi toccò più. Ne ero quasi sollevato. Il suo atteggiamento contraddittorio finiva per confondermi, perciò mantenere le distanze sembrava la soluzione migliore, soprattutto dal momento che lui “ci stava ancora pensando”.
Quando uscimmo, per prima cosa Hiroto si rivolse ad Endou.
-Hai chiamato mia sorella?- domandò.
-Scusami, in realtà non gliene ho lasciato il tempo- intervenne qualcuno al posto di Endou. Il suo giapponese era corretto, ma non perfetto; ovviamente lo parlava di rado. Ci voltammo e vedemmo Fideo Aldena: la Spy Eleven italiana era appoggiato contro un muro, indossava un berretto, una maglietta azzurra a maniche corte e un lungo jeans stretto che terminava in un paio di bassi stivaletti marroni.
-Ciao, Hiroto, Midorikawa- Ci rivolse un saluto in italiano, accompagnandolo con un allegro gesto della mano.
-Fideo… non ci vediamo da un po’- disse Hiroto mentre gli andava incontro per stringergli caldamente la mano. Sorrise. –Cosa ti porta da queste parti? Scusa, non sei capitato in un bel momento…-
-Beh, sul fatto che non sia un bel momento sono d’accordo con te, ma non ci sono capitato. Sono venuto qui per un preciso motivo, che riguarda solo in parte il lavoro- rispose l’italiano.
Hiroto lo guardò sorpreso.
Fideo si sfilò il cappello dal capo, si passò una mano fra i capelli castani e lanciò un’occhiata alla strada, dove una grossa monovolume blu scuro si era appena parcheggiata. Non avevo mai visto un’auto così grande. Fideo la raggiunse e ci si appoggiò contro.
–Dai, venite, vi do un passaggio alla vostra base- propose. Hiroto si mosse per primo, e noi ovviamente lo seguimmo senza fare storie. La macchina era ancora più grande se vista da vicino: aveva almeno dieci posti interni, manco fosse stata un camioncino.
-Credevo che un monovolume avesse solo sette posti- commentò Nagumo appena entrato.
-Normalmente sì- rispose la persona seduta davanti. –Ma questa è un’eccezione. L’abbiamo progettata noi, dopotutto.- Aveva un accento forte e allegro. Quando si girò e mostrò i propri capelli ricci e rossi, lo riconobbi all’istante e così lui fece con me.
-Oooh, ma tu sei il tipo del caso Jordaan! Midorikawa Ryuuji, giusto?- esclamò.
-Sì…- dissi, sorpreso. Io il suo nome non lo ricordavo affatto, e mi stupii che ricordasse il mio.
-L’avete davvero progettata voi?!- chiese Tsunami ammirato. –Siete grandi, fratelli!
Il ragazzo dai capelli ricci rossi ridacchiò mentre Fideo si sedeva al suo fianco davanti. Un acre odore di fumo rivelava la presenza di una terza persona alla guida, la quale stese il braccio fuori dal finestrino per far cadere la cenere della sigaretta. Sul suo volto chiaro, contorniato da capelli neri, spiccavano un paio di annoiati occhi azzurri.
-Non sembra, ma in realtà questo ragazzo è molto intelligente- commentò riferendosi al compagno dai capelli rossi.
-Come sarebbe non sembra? Gianlu, sei spietato- ribatté quest’ultimo, ma sembrava tutt’altro che offeso. Il ragazzo alla guida sbuffò e spense la sigaretta in un posacenere sul cruscotto; sembrava sul punto di ribattere, quando Fideo intervenne ridendo.
-Va bene, va bene, non litigate con me in mezzo! È tempo per le presentazioni, anche se Hiroto e Midorikawa vi conoscono già...-
Si rivolse ai ragazzi dietro e alzò la voce per farsi sentire bene.
-Loro sono i miei diretti sottoposti, Gianluca Zanardi…- Indicò il ragazzo alla guida. –…e Marco Maseratti.- Il rosso fece un cenno di saluto e si alzò gli occhiali da sole sui capelli.
-Gianluca ha solo vent’anni, ma ha già una laurea in fisica. Marco, invece, ha solo una spiccata memoria fotografica… riesce a ricordare tutto ciò che vede o sente anche a distanza di anni. Ecco perché non ha avuto difficoltà con il tuo nome, Midorikawa- continuò Fideo.
-Sono colpito- ammisi, di certo erano ragazzi con doti speciali.
-E nel tempo libero progettate auto?- domandò Nagumo ironico, leggermente di cattivo umore perché, benché la monovolume fosse enorme, i posti non erano abbastanza per il nostro gruppo e lui era stato costretto a prendere Maki in braccio.
-Nel tempo libero io progetto un po’ di tutto… solo che Gianlu boccia la maggior parte dei miei progetti- dichiarò Marco scrollando le spalle.
-Soltanto perché un tostapane ad eliche è la cosa più stupida ed insensata che qualcuno abbia mai pensato di creare- replicò Gianluca tagliente, e non mi sentii di dargli torto. Maki invece saltò su, curiosa, e chiese subito cosa fosse un tostapane ad eliche; vidi Gianluca alzare gli occhi al cielo e sbuffare sarcastico mentre Marco si lanciava nella spiegazione del suo progetto, felice dell’interesse di Maki.
-Qualcuno mi ricordi perché esco con questo cretino- borbottò sottovoce, ma evidentemente non abbastanza perché Marco s’interruppe e si girò verso di lui.
-Esci con me perché mi ami, Gianlu- dichiarò come se fosse la cosa più semplice del mondo, e ignorando le proteste imbarazzante e contrariate dell’altro si sporse per baciarlo sulle labbra. Fideo, che era seduto esattamente in mezzo a loro, li divise con le braccia.
-D’accordo, bene, questo è anche peggio che se litigate! Per favore- li pregò, sottolineò le ultime due parole pronunciandole in italiano. –Gianluca, metti in moto.
Il moro obbedì, ma non si trattenne dallo sbottare: -È colpa sua.
-Ovviamente- lo appoggiò Fideo con un sospiro rassegnato. Marco rise e tornò a rivolgersi a Maki, dopotutto aveva lasciato sospesa la spiegazione sul suo interessante progetto.
 

xxx

 
-Bene, ora che siamo lontani da orecchie indiscrete posso spiegarvi tutto- esordì Fideo.
Raggiunta la nostra base era diventato improvvisamente molto serio e nervoso.
Ma prima che potesse dire altro, un rumore di tacchi ci distrasse: Hitomiko stava venendo verso di noi, accompagnata da due ragazzi che non avevo mai visto.
Uno dei due era alto, robusto, con capelli castani dalla forma antigravitazionale; dell’altro colpivano soprattutto i lunghi capelli color ciano, lasciati sciolti sulle spalle, e la benda scura che gli copriva l’occhio destro. Entrambi indossavano una divisa formata da lunghi pantaloni di pelle nera e una camicia bianca con un taschino sul petto, nel quale portavano i loro distintivi. Non appena ci furono abbastanza vicini, li estrassero e ce li mostrarono.
-Ragazzi, vi presento Sakuma Jiroh e Genda Koujiro, i diretti sottoposti della Spy Eleven del distretto di Ehime. La loro squadra è qui per svolgere un’importante missione al fianco della squadra italiana- li presentò Hitomiko, impassibile come sempre. –Fideo, lascio a te i dettagli.
-Sì, signorina Hitomiko- rispose prontamente il ragazzo, facendole un piccolo inchino.
La donna ci lanciò un ultimo sguardo. –Tsunami, Tachimukai, Toda, tornate in ufficio. La ricreazione è finita- ordinò prima di andarsene, e i tre nominati la seguirono senza fiatare.
Quando tornò la calma, Marco incrociò le braccia al petto e sbuffò.
-Beh, “al fianco” non è esatto, considerato che il vostro capo fa quello che gli pare- fece notare.
Il ragazzo dai capelli color ciano, il cui cognome era Sakuma, scosse il capo.
-Siamo pronti a scusarci per il suo comportamento, ma non aspettatevi altro da noi. Non possiamo assicurare nulla sul conto di Fudou, lui non obbedisce a nessuno, e poi è il nostro capo- disse, torvo. Il suo compagno, Genda, intervenne.
-Nessuno può controllare Fudou, lui non dà ascolto nemmeno alla propria coscienza… ammesso che ce l’abbia. In ogni caso, è ovvio che dobbiamo collaborare.
Le sue parole fecero scattare qualcosa nella mia mente.
-Il vostro capo… è un ragazzo con i capelli rasati e un tatuaggio sul capo, giusto?- indovinai, cupo. I due ragazzi annuirono, e Genda mi sfiorò una spalla comprensivo.
-Intuisco dal tuo tono che l’hai incontrato. Hai avuto sfortuna- commentò.
Sakuma si rivolse a Fideo con voce seria e pacata: –Finché Fudou si aggira nei dintorni dell’ospedale, Kageyama non potrà avvicinarsi. Inoltre, l’unione delle nostre e delle vostre scorte garantirà protezione ai tuoi fratelli. Devi stare tranquillo e concentrarti sulla missione.
-Lo so perfettamente- ribatté Fideo, colpito su un tasto dolente.
-Fratelli? Di che sta parlando?- s’informò Hiroto accigliandosi.
Fideo sospirò, rassegnato. –Vi ho detto che vi avrei spiegato tutto, no? Siate pazienti- disse.
-Come vi ho accennato, non mi trovavo nell’ospedale per soli motivi di lavoro… Si dà il caso che mia sorella sia ricoverata lì: ha avuto un incidente quattro anni fa e da allora ha perso quasi del tutto la vista. Si trova qui perché ci è stato raccomandato un medico capace di guarirla. Dal momento che dovevo venire qui per il caso Jordaan, pensai di approfittarne… Sono qui in Giappone con mia sorella e mio fratello da circa tre mesi e mezzo. All’inizio andava tutto bene, ma poi… sono iniziati i guai.
-Sono pochi a sapere che l’incidente di mia sorella non è stato un vero incidente… In realtà si è trattato di un attentato in piena regola: un edificio è esploso e sono morte sei persone, di cui due dovevano testimoniare in un processo contro un criminale conosciuto come Mr K...
- Ma ora conosciamo il suo vero nome, Kageyama Reiji.- lo interruppe Sakuma. –È da circa tre anni che la nostra squadra gli da’ la caccia… finora non si erano prodotti risultati, sembrava sparito... finché non è riapparso proprio qui, nell’ospedale dov’è ricoverata Luce Aldena.
-Non so cosa pensare- continuò Fideo amareggiato. Sembrava totalmente spaesato.
-Ho sempre pensato che l’incidente di Luce fosse stata una casualità, ma il fatto che Kageyama stia seguendo i suoi spostamenti mi fa pensare che ci sia qualcosa di più. Ecco perché ho insistito che mio fratello Luca rimanesse con lei all’ospedale e che fosse data loro una squadra di scorta. Poco dopo, è arrivato Fudou dichiarando che Kageyama era il suo obiettivo e di non mettermi in mezzo.-
Sakuma e Genda si lanciarono un’occhiata molto eloquente, poi il ragazzo dai capelli color ciano fece un sospiro esasperato e scosse il capo un’altra volta. Seppure nutrivano del rispetto per il loro capo, era ovvio che non se me fidassero molto… non li biasimavo, quello lì sarebbe stato capace di sparare anche a loro se fosse stato necessario.
-Non sapevamo che avesse parlato con te, ma in effetti una frase del genere sarebbe degna della sua personalità contorta. È testardo e non accetta l’aiuto di nessuno, ci mette spesso in difficoltà agendo per conto proprio. Come ho detto, lui non ascolta nessuno. Una volta c’era qualcuno ancora in grado di avere un ascendente su di lui, ma è passato del tempo- dichiarò Genda grattandosi nervosamente la nuca.
-Comunque, ci è stato detto di collaborare e collaboreremo- aggiunse, rivolgendosi poi a Hiroto. –Visto che è il vostro distretto, ci aspettiamo un aiuto anche da parte vostra. Ne abbiamo già discusso con la signorina Kira e il signor Kira.
-Se ne avete già parlato con loro, è più che sufficiente, Daremo una mano- assicurò Hiroto stringendo la mano che l’altro gli tendeva, poi si voltò e diede una pacca amichevole sulla spalla di Fideo, che gli fece un debole sorriso di gratitudine.
-È una situazione delicata- osservò Reina.
Restammo in silenzio. Onestamente, l’idea di dover collaborare con Fudou mi dava i brividi. Il nostro primo incontro era bastato a traumatizzarmi.
 

xxx

 
Quando entrammo a mensa, quella sera, fui sorpreso di trovare Sakuma, Genda e un’altra ragazza seduti allo stesso tavolo con Kidou, Endou e Gouenji. Di Hiroto non c’era traccia –era stato chiamato nell’ufficio di sua sorella qualche ora prima, insieme agli italiani, e non aveva fatto ritorno- mentre Maki, Nagumo e Suzuno erano usciti a mangiare fuori. Reina, Kazemaru ed io ci avvicinammo al tavolo dove stava Endou, che notandoci ci salutò allegramente.
-Ehi, Ichirouta, senti questa- esclamò, si alzò e baciò il suo ragazzo sulle labbra, poi indicò Kidou e i tre membri della squadra di Ehime e affermò: -Questi ragazzi conoscono Kidou! Sembra che Kidou prima lavorasse al distretto di Ehime, io non lo sapevo.
-Kidou si è trasferito tre anni fa, è passato un bel po’ dall’ultima volta che ci siamo visti- aggiunse Genda con un sorriso, mentre Sakuma rivolgeva a Kidou uno sguardo ammirato, come se pendesse dalle sue labbra.
-Era un membro importante della nostra squadra, è dispiaciuto a tutti che se ne sia andato, ma forse è stato meglio così considerato che lui e Fudou non andavano d’accordo- proseguì Genda. Bevve un sorso d’acqua, poi con un cenno ci indicò la loro compagna.
-Lei è una nostra compagna, il terzo diretto sottoposto di Fudou Akio. Si chiama Shinobu Takanashi, non ama molto parlare…
Le stringemmo la mano e ci presentammo a nostra volta. Kidou era stranamente silenzioso, dalla sua espressione non sembrava che i ricordi legati ad Ehime fosse piacevoli.
-Sono così felice di poterti parlare di nuovo- dichiarò Sakuma allegro.
-Jiroh adora Kidou fino al rincretinimento- notò Shinobu, che, anche se non amava parlare, aveva una lingua piuttosto tagliente. Sakuma le scoccò un’occhiataccia, ma lei fece finta di non vederlo mentre si passava una mano fra i riccioli rosa.
Sakuma poi si lanciò in un ampio discorso sulle qualità di Kidou, lodandolo e ricordando l’ottimo lavoro che svolgeva ad Ehime; i suoi resoconti erano così dettagliati che per un attimo pensai che fosse stato il suo partner, ma subito dopo la cosa mi sfuggì di mente e dimenticai di chiederglielo. Soltanto Endou ascoltava con entusiasmo quei racconti, ma Sakuma non sembrò farci caso e proseguì spedito finché Kidou non si alzò all’improvviso.
-Che succede?- chiese Kazemaru accigliato.
Kidou non rispose: vidi i suoi pugni stringersi, aveva lo sguardo fisso sulla porta da cui pochi secondi dopo entrò Fudou con nonchalance; i loro occhi si incrociarono e sul volto della Spy Eleven comparve una smorfia, più simile ad un ghigno che non ad un sorriso.
-Kidou… da quanto tempo non ci vediamo. È sempre un piacere rivederti- disse.
-Dalla tua espressione non si direbbe. Nemmeno io sono contento di vedere te, comunque- replicò Kidou nel tempo di un respiro.
Fudou non mosse un muscolo, né mostrò sorpresa.
-Ti diverti ancora a leggere le persone, eh?- esclamò. Si mise le mani sui fianchi e ridacchiò, poi d’un tratto tornò serio e i suoi occhi divennero freddi come il ghiaccio, lampeggianti di minaccia. –Stavolta vedi di stare fuori dai piedi e tenere la bocca chiusa, o non mi tratterrò come la volta scorsa...- pronunciò queste parole come un avvertimento.
In mensa era calato un silenzio tombale. Nessuno osava alzare lo sguardo dal proprio piatto per paura di incrociare quello di Fudou, il tono basso e pericoloso della sua voce era sufficiente a terrorizzarli. Kidou, proprio come Fudou prima di lui, rimase impassibile.
-Non mi pare tu ti sia mai trattenuto in niente. E non ho paura di te, Fudou, esattamente come non ne avevo allora.-
-Questa volta è diverso. Ci sono troppo vicino. Se ne avrò l’occasione, ucciderò.
-Sei tu la Spy Eleven, decidi tu il piano. Ma non sei più il mio capo e non prendo ordini da te.
Fudou socchiuse gli occhi e sibilò: -Come se li avessi mai rispettati! Non ho dimenticato come mi hai disobbedito quella volta. Ti credi troppo superiore, vero, Kidou Yuuto?
-Ti sbagli, non è questione di credersi superiori o meno. È soltanto che non mi andava di sottostare a ordini insensati. Ti reputavo, e ti reputo ancora, troppo intelligente per dare un ordine del genere e aspettarti che fosse rispettato- ribatté Kidou.
Fudou sputò a terra, a pochi metri dalle scarpe dell’altro.
-Come ti pare- ringhiò. –Ma non avvicinarti a me. Ricordati che dobbiamo ancora saldare i conti, io e te. Se mi metterai ancora i bastoni fra le ruote, ti ucciderò senza rimorsi.
-Come ti pare- ripeté Kidou senza battere ciglio. –Sapevo che saremmo arrivati a questo non appena ci fossimo rincontrati, sono pronto ad affrontarti da circa tre anni. Se pensavi che la mia fosse una fuga, ti sei palesemente sbagliato. E sul “senza rimorsi” ho i miei dubbi.
Fudou emise un latrato, una specie di risata spenta e priva di vita.
-Oh, sì. Mi mancava questa… la teoria di Kidou secondo la quale ci sarebbe del buono, in fondo al mio cuoricino dannato!- esclamò, calcando con pesante ironia le parole. –Ti ripeto esattamente ciò che ti ho detto tre anni fa: ti sbagli. Il mio cuore è nero come la pece.
Si voltò e aprì di nuovo la porta.
-Vederti mi ha fatto passare la fame! Addio, perdenti!- urlò mentre usciva.
Il loro confronto era finito, e l’unica cosa a riempire il silenzio fu il rumore della porta che sbatteva violentemente.






**Angolo dell'Autrice**

disseminiamo scene HiroMido e MarcoGianluca a random, yeeees.

Questo capitolo forse vi sembrerà un po' confusionario, ma più che altro è perché molte cose sono solo accennate e poi lasciate in sospeso -saranno spiegate a tempo debito nei prossimi capitoli. I primi capitoli di questo arc hanno come protagonisti Fideo e Fudou da un lato, Kageyama dall'altro. In realtà, le motivazioni che spingono questi tre personaggi ad agire sono piuttosto simili, se non le stesse. Sì, Fudou è molto badboy, ma come dice Kidou nasconde un lato buono xD
Ah, approfitto di quest'angolo per dire che la coppia presente non sarà la FudoKido, mi duole per i sostenitori della coppia :'DDD
Parlando della squadra di Fudou, ho deciso di metterla nel distretto di Ehime perché mi sembra che sia il luogo dove appare la Shin Teikoku -ma potrei sbagliarmi perché non ricordo molto del secondo gioco-, e i suoi membri corrispondono in effetti ai giocatori della Shin Teikoku. Shinobu Takanashi è questa ragazza, per chi non la ricordasse C:
Spero che il capitolo vi sia piaciuto!

Baci,
      Roby




 

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Capitolo 26
*** Mission 26. ~Hiroto's Arc. ***


Ciao a tutti! Dopo molto tempo riesco ad aggiornare questa long. La sessione estiva di esami è quasi terminata! L'ultimo è questo sabato, ce la metterò tutta! Ho un mal di testa tremendo, però sono contenta di essere riuscita a finire questo capitolo. Diciamo che è un passaggio importante sotto molti punti di vista -per quanto riguarda la storia di Fudou, ovviamente, ma anche per quanto riguarda il rapporto fra Hiroto e Midorikawa :) 
Spero che vi piaccia!



-Midorikawa, Kazemaru.
Rispondemmo alla chiamata di Hitomiko con un cenno; la donna prese delle tessere foderate di pelle nera e ce le mise in mano.
-Farete i turni di guardia all’ospedale affiancando la Spy Eleven Fideo Aldena. Quelli che vi ho dato sono dei pass speciali che vi permetteranno di usare le armi da fuoco contro i sospettati, se sarà necessario- proseguì freddamente.
-È probabile inoltre che sul luogo delle indagini sia presente anche la Spy Eleven Fudou della squadra di Ehime, sul quale naturalmente non abbiamo potere d’intervento. Cercate di non farvi mettere i piedi in testa e non agite in modo dissennato. È un ospedale pubblico, non vogliamo scatenare il panico. È tutto. Uscite.
-Agli ordini!- esclamammo.
Lo dissi con tono determinato; non appena lasciato il suo ufficio, però, mi lasciai andare ad un sospiro esasperato.
-“Cercate di non farvi mettere i piedi in testa”… la fa facile lei! Scommetto che quel pazzo di Ehime non le ha mai puntato una pistola addosso- brontolai, insoddisfatto. Kazemaru fece un sorriso nervoso.
–Oh, su, tranquillo… probabilmente Fudou l’ha fatto per accertarsi che tu non fossi un nemico…
-No, credimi, quello voleva uccidermi sul serio.- Ero ancora furibondo per quella questione irrisolta. Kazemaru scrollò le spalle, neanche lui sembrava convinto della teoria che aveva appena proposto: bastava aver incrociato una sola volta lo sguardo gelido di Fudou Akio per sapere con certezza che aveva provato deliberatamente ad ammazzarmi.  
Stavamo per voltare l’angolo quando un uomo mi venne addosso; arretrai di scatto, più per la sorpresa che per la botta subita e subito mi profusi in una serie di scuse.
-Non importa- disse in fretta l’uomo. Alzai lo sguardo verso di lui, la sua voce profonda e incolore mi intimoriva. Era un uomo di stazza, alto e robusto, vestito di blu e beige, aveva basette viola prugna e un ciuffo di capelli che gli cadeva sugli occhi neri petrolio.
Quando i nostri sguardi s’incrociarono, le sue pupille parvero stringersi per un attimo, sospettose, e la sua bocca si aprì come per dire qualcosa; alla fine però scosse il capo e mi spostò per andare per la sua strada, bussò alla porta di Hitomiko e poi entrò dentro l’ufficio.
-Sarà un’altra Spy Eleven? Però non aveva il distintivo- osservò Kazemaru, anche lui era rimasto impressionato da quell’incontro.
-Ormai mi aspetto di tutto- borbottai alzando gli occhi al cielo. –Su, andiamo!

 xxx

Il personale dell’ospedale, come previsto da Hitomiko, non fu particolarmente contento del fatto che portassimo con noi delle armi da fuoco, ma il direttore dovette cedere di fronte ai pass ottenuti dal presidente del governo: era specificato che era in corso una missione speciale volta alla cattura di un pericoloso criminale, e che quindi gli agenti dovevano essere pronti ad ogni evenienza. Dopo aver ottenuto il permesso dal direttore, io e Kazemaru raggiungemmo Fideo al terzo piano.
Il veneziano era seduto vicino ad un distributore di bevande, solo in una lunga fila di seggiolini vuoti, e contemplava con aria assorta le proprie mani. C’era silenzio e quando iniziammo a percorrere il corridoio i nostri passi risuonarono così forte che ci sentì arrivare e alzò il capo verso di noi. –Oh, ciao! Siete stati assegnati voi ai turni di guardia, allora- esclamò.
Sorrideva, ma non aveva l’aria allegra di sempre, anzi un’ombra di stanchezza aleggiava nella sua espressione, che appariva quasi forzata.
-Sta tranquillo, faremo del nostro meglio- lo rassicurò Kazemaru posandogli una mano sulla spalla. Fideo annuì.
-Grazie. Genda e Sakuma sono nel cortile. Sapete, non sono così male, sono simpatici. Chissà perché mi ero fatto un’idea sbagliata… immagino che una personalità forte e terribile come quella di Fudou influenzi la reputazione di tutto il suo distretto- osservò pensieroso.
-“Terribile” è la parola giusta- dissi, strappandogli una risata.
Si alzò in piedi e lasciò scivolare delle monete nel distributore, che dopo pochi secondi sputò in cambio una bottiglietta di aranciata. Fideo la fece roteare nella mano, poi la mise nella tasca del giubbotto smanicato.
-Venite con me- disse. Iniziò a camminare in modo piuttosto veloce, quasi impaziente. Era ovvio che la situazione in cui si trovava sua sorella lo angosciava, e ancora di più si tormentava perché non ne capiva le ragioni. Mi venne un dubbio su dove ci stesse portando, e si rivelò fondato: cinque minuti dopo Fideo bussò alla camera d’ospedale che ospitava Luce.
Riconobbi la bambina bionda che avevo visto giocare nel cortile il giorno prima, ricordai come correva e rideva spensierata… pareva impossibile che i suoi occhi non vedessero la luce. Perché destino e natura avevano dovuto accanirsi contro una bambina così dolce, innocente? Mi morsi l’interno della guancia e lanciai un’occhiata di sottecchi a Fideo, che stava litigando allegramente con suo fratello Luca, un ragazzetto di circa tredici anni con una spruzzata di lentiggini sul naso e un sorriso impertinente.
-Ti ho detto che volevo la Lemon Soda!
-La Lemon Soda è fredda e ti fa aria nella pancia e non ho intenzione di accompagnarti al bagno perché tu non sai arrivarci. Accontentati dell’aranciata, non morirai per così poco.
-Bevila tu l’aranciata, citrullo! Io voglio la Lemon Soda!- Luca sbuffò e incrociò le braccia, ma Fideo lo agguantò e iniziò a fargli il solletico, cogliendolo del tutto alla sprovvista.
-Chi hai chiamato “citrullo”? Ripetilo se hai fegato!
-No… ti prego, basta… brutto citrull… Basta, mi arrendo!- gridava Luca fra le risa quasi isteriche, si dimenava in tutti i modi ma non riusciva a sfuggire alla presa di Fideo.
-Luca, chiedi scusa e fate pace!- suggerì Luce battendo le mani, anche lei era divertita.
-Sì, sì, chiedo scusa, perdono, pace, quello che vuoi tu, ma basta!- Luca si arrese e si abbatté sfinito e ansimante sul letto della sorella, per poi scivolare lentamente a terra. Osservandoli anche io mi misi involontariamente a sorridere. Kazemaru mi guardò, io ricambiai, eravamo d’accordo nel difendere Luce a costo della vita: si trattava di salvare una famiglia.
-Fideo, ascolta…- cominciò il mio partner. L’italiano si girò, sorpreso, e ci venne incontro; tuttavia non avemmo il tempo di iniziare una conversazione perché Luce all’improvviso saltò giù dal letto e corse fuori dalla stanza gridando.
La fissammo allibiti per un attimo, quasi necessariamente per renderci conto di cosa fosse successo, poi lasciammo anche noi la stanza di corsa. Nonostante le mancasse la vista Luce sembrava sapere perfettamente dove stava andando ed era veloce come un fulmine, ci fece stancare un bel po’ prima di fermarsi davanti alle scale che scendevano verso il secondo piano, proprio accanto ad una persona che parlava al cellulare.
-Luce! Si può sapere cosa ti è…- Fideo non continuò la frase: la sua bocca restò spalancata per la sorpresa quando vide la persona vicino a Luce, un uomo alto e slanciato, con un volto spigoloso, occhialini scuri sul naso e lunghi capelli biondi legati in una coda di cavallo.
-Sapevo che eri tu, zietto! Ho riconosciuto la tua voce!- esclamò Luce, raggiante, in adorazione per la persona che aveva di fronte.
L’uomo abbassò il cellulare che aveva accanto all’orecchio e si voltò verso di lei, sconvolto: solo allora riconobbi Kageyama Reiji, di cui avevo visto soltanto delle foto, a cui assomigliava poco perché aveva cambiato il colore dei capelli da grigio topo a biondo.
-Luce…- mormorò basito, come se si trovasse in difficoltà.
Nessuno di noi si mosse perché Luce era troppo vicina al nostro obiettivo per poter intervenire senza coinvolgerla; ma Fudou, naturalmente, non si pose assolutamente questo problema.
Il primo sparo risuonò nell’aria poco dopo che Kageyama ebbe pronunciato il nome della bambina, il proiettile trapassò il cellulare nero che teneva ancora sospeso lontano dall’orecchio e lo fece esplodere. Kageyama lo lasciò cadere a terra mentre prendeva fuoco e strinse la mano ferita mentre fronteggiava accigliato la Spy Eleven di Ehime, che stava in piedi sul pianerottolo fra la prima e la seconda rampa delle scale.
-Ti ho trovato, bastardo- sibilò Fudou. –Sei spacciato!
Sollevò la pistola ancora una volta. Luca gridò il nome di Luce e si gettò in avanti per prenderla in braccio e allontanarla dalla battaglia; vedendo i suoi fratelli in pericolo anche Fideo si riscosse dallo shock e intimò:- Non farlo! Fudou, fermati! Ci sono degli innocenti!
L’altro non diede segno di volerlo ascoltare.
Kazemaru decise di intervenire: scese alcuni gradini e poi saltò, lanciandosi le braccia intorno alla vita di Fudou e riuscendo a buttarlo a terra. Un colpo partì ugualmente dalla canna della pistola, sia io che Fideo ci muovemmo verso Luce e Luca per proteggerli, e in quel momento accadde qualcosa che non mi aspettavo.
Anche Kageyama si tese per difendere Luce.
Durò solo un attimo, un movimento quasi impercettibile, eppure c’era stato.
Per fortuna il colpo era schizzato verso il soffitto, dove si andò ad incastrare il proiettile. Fideo abbracciò i suoi fratelli tremanti di paura, mentre io rimasi in piedi a fissare l’uomo che aveva appena rischiato la vita per una bambina: ma non era il cattivo, lui?
Lui mi lanciò una rapida occhiata, forse domandandosi se fosse stato visto, poi si voltò e scappò.
-Dannazione! Lasciami, idiota!- ringhiò Fudou, diede un calcio diretto allo stomaco di Kazemaru, che lasciò la presa per il dolore. Partì all’inseguimento di Kageyama e, sorpassandoci, ci lanciò a malapena un’occhiata di disprezzo.
-Siete davvero inutili- sibilò, si girò e sparì correndo dietro un angolo. Era inutile discutere con lui adesso, la sua testa era interamente concentrata sulla sua preda. 
Scesi le scale e offrii una mano a Kazemaru. –Stai bene?- chiesi, preoccupato per la violenza con cui Fudou l’aveva colpito.
-Sì… credo di aver capito cosa dicevi stamattina però- borbottò. –Non si è trattenuto affatto nel picchiarmi. È un pazzo assassino, altro che Spy Eleven!
Annuii, amareggiato, e lo aiutai ad alzarsi, poi alzai il volto verso Fideo.
-State bene? Nessun ferito?- mi informai.
L’italiano si girò appena e ci rivolse un sorriso tirato. –Stiamo tutti bene… ora scusate… potreste tornare a fare rapporto? Non credo che Kageyama tornerà mentre siete via, e io devo occuparmi dei miei fratelli- disse; la sua voce conteneva una nota talmente supplichevole, disperata, che obbedimmo senza fare storie.

xxx

Hitomiko fece un lungo sospiro che ci fece intuire che anche lei era un po' esasperata dall'atteggiamento di Fudou; non espresse però nessuna opinione al riguardo, forse perché lui era comunque una Spy Eleven, e ci ordinò semplicemente di pranzare e poi ricominciare i turni di guardia all'ospedale. Come ordinato, Kazemaru ed io ci dirigemmo verso la mensa, dove c’erano già Hiroto, Endou e Gouenji, che ci accolsero al loro tavolo con piacere. Kazemaru sembrò sorpreso di vedere Gouenji insieme a loro.
-E così ci sono ancora problemi con i Fubuki?- chiese, curioso. S'interruppe per ringraziare Tobitaka, che ci aveva appena portato due tazze di noodles caldi, in brodo, poi aggiunse:- Ho sentito che ultimamente quei due compaiono spesso, è vero?
-Mmm, sì… più che altro compaiono ogni volta che Gouenji ha un turno di pattuglia. Una coincidenza davvero pazzesca- rispose Hiroto, col tono di chi non credeva affatto alla casualità. Gouenji non commentò, nonostante le allusioni di Hiroto fossero palesemente rivolte a lui.
-Ci danno un bel da fare! Ieri quello coi capelli rosa ha congelato il mio Pugno di Giustizia, incredibile- esclamò Endou scuotendo il capo, ma più che deluso sembrava eccitato e ammirato dalle capacità dei suoi nemici. Le sue parole mi colpirono anche per un altro motivo.
-Aspetta, anche voi due lavorate a quel caso? Non se ne occupava Kidou?- domandai, sorpreso. Mi allungai verso la ciotola di vimini a centro tavola, presi una fetta di pane integrale e cominciai a mordicchiarla per cancellare il sapore del brodo dal palato: i noodles cucinati da Tobitaka erano ottimi, ma un po' troppo piccanti per i miei gusti. 
-Oh, sì. Ma Kidou di recente ha altri problemi...- Endou fece un mezzo sorriso, Gouenji sbuffò. Nascondevano qualcosa, ma non mi andava di indagare. Anche io avevo le mie gatte da pelare, dopotutto.
-Midorikawa, hai un momento per parlare?- esclamò Hiroto all'improvviso, cambiando bruscamente argomento. 
Mi voltai sorpreso verso di lui. -Ah… sì, certo- risposi. Il rosso sorrise e mi posò una mano sulla spalla.
-Perfetto, allora vieni con me, devo parlarti di una cosa… riguardo il modo in cui dovremmo disporci nella stanza- disse.
-Okay…- acconsentii, sempre più sorpreso. Anche Kazemaru aveva un’espressione confusa, ma Endou spostò la sua attenzione su di sé semplicemente chiamandolo per nome, e quindi il mio partner non ci seguì.
Io e Hiroto camminammo in silenzio fino alla camera; appena entrati lui andò direttamente al punto:- Allora… c’è qualche problema?
In effetti, avevo avuto qualche sospetto che la storia della disposizione nella stanza fosse una scusa. Mi lasciai cadere sul letto e lo guardai, silenziosamente sorpreso del modo in cui, almeno di recente, riusciva ad indovinare i miei stati d’animo.
-Oggi hai incontrato Fudou. Visti i precedenti, ero preoccupato- spiegò scrollando le spalle. In effetti non aveva tutti i torti, ma evitai di farglielo notare.
-Beh, ci sono varie cose che mi turbano, non ultima la voglia di tirare un pugno a quell’idiota- cominciai. Hiroto ridacchiò e si sedette accanto a me.
-D’accordo, e poi?- m’incoraggiò. –Dai, parla: so che c’è dell’altro.
-Oggi… ho incontrato anche Kageyama. Era la prima volta che lo vedevo, dopo averne sentito tanto parlare…- Feci un bel respiro prima di proseguire con cautela.
-Ecco… secondo me Kageyama non è del tutto malvagio. So che ha commesso dei crimini imperdonabili, ma non riesco a togliermi di dosso la sensazione che ci sia qualcosa di più complicato dietro… Avevo la stessa sensazione con il maestro Jordaan-. Giocherellavo con i miei capelli per il nervosismo. Hiroto mi fissava interdetto, facendomi avvertire impellentemente il bisogno di giustificare i miei dubbi.
-So che sembra impossibile, ma… avresti dovuto vederlo!- esclamai, suonavo quasi disperato. -Oggi, quando Fudou gli ha puntato addosso l’arma, non ha cercato di scappare subito! Per un breve istante, ha cercato di frapporsi fra lui e Luce, per proteggerla… Nessuno se n’è accorto, ma io ho visto come la guardava, come se ci tenesse davvero a lei! Forse… forse stiamo sbagliando tutto, dovremmo cercare di fare un nuovo punto della situazione…
Più andavo avanti più perdevo il mio coraggio, per cui decisi di concludere lì e tacqui. Il silenzio nella stanza mi avviliva e mi innervosiva. Non credevo di aver detto qualcosa di sbagliato, in fondo avevo solo espresso la mia opinione come richiesto, ma avevo paura che Hiroto potesse darmi dell’idiota o prendersela con me: non sarebbe stato il primo a darmi dell’ingenuo.
Invece, contrariamente a tutte le mie aspettative, Hiroto mi poggiò una mano sulla spalla e mi parlò con dolcezza:- Va bene. Mi fido di te, perciò se dici che Kageyama non è cattivo, io ti credo.
Mi voltai verso di lui, sbattendo le palpebre in un attimo di perplessità.
-Tu… ti fidi di me?
-Sì, certo… Voglio dire, di solito hai un buon istinto per queste cose, no? Grazie alla tua empatia… no.- Hiroto si bloccò un attimo, cambiò la frase e continuò, serio:- Grazie al tuo modo di essere, riesci a scavare nel profondo delle persone. Nessuno era mai riuscito a capirmi così bene… le tue parole mi hanno toccato, per questo non ho potuto smettere di pensarci. È un po’ come se… mi sentissi legato a te, non so se mi spiego.- Si portò una mano alla nuca, nervoso, e per una volta il suo volto era rosso per l’imbarazzo proprio come il mio.
–Ehm… Midorikawa? Di’ qualcosa, o è imbarazzante per me…- Ridacchiò.
Strinsi i pugni sulle gambe mentre dondolavo inquieto sul posto, indeciso se rispondergli o no. Ma cosa potevo mai dire dopo un discorso del genere? Avevo solo un fortissimo desiderio di toccarlo. Baciarlo. E così lo feci.
Mi sporsi in avanti e il bacio fu così rapido che Hiroto ebbe a malapena il tempo di sbattere le palpebre; quando mi resi conto di quel che avevo fatto per impulsività, mi allontanai di scatto e mi portai le mani alle labbra. Non avrei saputo dire chi fra noi fosse arrossito di più, ma io mi sentivo morire a causa della mia idiozia.
-Oddio- annaspai. –Sarai scioccato, h-ho agito d’impulso…- Mentre mi scusavo, d’improvviso mi resi conto di un’altra cosa e mi avvilii. -È stato scorretto da parte mia, mi hai detto che ci stai ancora pensando… Scusami, davvero- sussurrai.
Non osai alzare il viso per guardarlo negli occhi.
Ci fu un sospiro.
-No… in realtà non mi dispiace affatto.- La sua risposta mi spiazzò, ma non solo; le sue mani strinsero le mie, spostandole dal mio viso, e ricevetti un secondo bacio, non uno sfiorarsi di labbra come prima, ma un vero bacio. Chiusi gli occhi d’istinto. Le sue mani guidarono le mie e le schiacciarono gentilmente contro il materasso del letto, mentre il suo corpo si spingeva contro il mio e le sue labbra si premevano più forte sulle mie. Hiroto si staccò per qualche istante, studiò la mia reazione e poi mi baciò di nuovo.
Come nel nostro primo bacio, sentii la sua lingua farsi spazio nella mia bocca e sfiorarmi il palato; impaziente, cercai di imitare i suoi gesti. Lo sentii sorridere nel bacio, era sicuro di sé, mentre io ero certo di aver perso una buona fetta della mia dignità di uomo nel momento che in cui mi resi conto che Hiroto mi dominava completamente.
Kazemaru ci interruppe bussando alla porta con non poca insistenza.
-Midorikawa, accidenti a te! Il nostro turno di guardia ricomincia fra mezz’ora scarsa! Che diavolo stai combinando?- mi rimproverò.
Mi staccai precipitosamente da Hiroto quando sentii la maniglia scattare.
-Ah, sei ancora con Hiroto… di che parlavate? Non potete rimandare a dopo?- proseguì il mio partner, si portò le mani sui fianchi e ci fissò torvo.
Hiroto non batté ciglio. -Oh, sicuro. No problem. Io e Midorikawa possiamo continuare il discorso un’altra volta, vero?- Si girò a guardarmi con un sorriso eloquente.
Annuii meccanicamente, senza sapere cosa rispondere ad avances così esplicite. Non era la prima volta che Hiroto si esprimeva in modo così seducente, certo; i ricordi della sera del ballo mi tempestavano ogni volta che pensavo a lui, ma c’era una bella differenza: stavolta sapevo che non era uno scherzo, che parlava sul serio. Ed era cento volte più imbarazzante.
-Endou e Gouenji ti aspettano vicino all’ufficio di Gazel- stava dicendo Kazemaru, che nel frattempo aveva continuato la sua conversazione con Hiroto. Il rosso scrollò le spalle, si stiracchiò e ci salutò con la mano destra mentre camminava.
-Beh, allora buon lavoro- esclamò.
-Sì, grazie, anche a te!- replicai, sperando che la voce non mi uscisse strana. Hiroto fece un cenno per farmi capire che aveva sentito e che ringraziava. Rimasi seduto sul letto a contemplare la porta, quasi sembrava impossibile che fino a pochi minuti prima io e lui stavamo…
-Mi-do-ri-ka-wa!- Kazemaru mi riprese, strappandomi ai miei pensieri. Sussultai ed incrociai il suo sguardo rassegnato.
-Sempre con la testa fra le nuvole! Su, mettiamoci al lavoro.

xxx

Aprii la finestra ed un fascio di luce arancione mi colpì in pieno viso, tanto che dovetti tenere gli occhi chiusi per qualche istante: erano da poco passate le sette e il sole iniziava a lasciare il cielo, che si stava tingendo di sfumature indefinibili. Kazemaru si era allontanato un attimo per prendere da bere; eravamo in ospedale da quasi quattro ore e non avevamo più visto Fideo, nonostante Luca fosse ancora con Luce nella sua camera: si era addormentato sul suo letto, abbracciato a lei, e i due ronfavano placidamente. Tutto era tranquillo e immerso nel silenzio, cosa rassicurante perché non cercavo altro che un po’ di tempo per riflettere, dopo una giornata così impegnativa. Mi sentivo come se avessi ricevuto non una, ma più botte in testa. Mentre m’interrogavo su come avrei dovuto prendere il comportamento inaspettato di Hiroto, sentii della voci che distrassero la mia attenzione. Mi voltai verso il corridoio. I miei muscoli si tesero immediatamente, la testa mi ordinò di stare in guardia.
Era Fudou.
Lo intravidi mentre se ne stava appoggiato ad un muro e guardava dentro una stanza. Stavo per chiamarlo e rimproverarlo aspramente per quello che era accaduto oggi, ma in quel momento una ragazza in sedia a rotelle venne spinta di fronte alla porta: era molto carina, con grandi occhi azzurri e capelli color lavanda, e sorrideva in modo sereno.

-Come stai?- chiese Fudou. La sua voce era così dolce e morbida che sembrava appartenere ad un’altra persona. Suonava quasi nervoso... quasi fragile (lui, fragile?Assurdo). 
-Mi sento un po’ stanca- mormorò la ragazza. Lo sguardo di Fudou subito s’incupì, ma non disse nulla. La ragazza fece un piccolo sorriso e si spostò un pochino, le sue piccole dita si tesero in avanti e sfiorarono la pelle della sua mano, facendolo sussultare. 
-Entra dentro. Devi riposare- sussurrò. Lei annuì e lasciò che lui spingesse la sedia all’interno della camera.
La porta si chiuse dietro di loro.

Mi stropicciai gli occhi, incredulo: non sapevo cosa pensare dopo quella scena, sembrava che quel giorno tutti facessero a gara per sorprendermi e far crollare le mie certezze.
-Lei si chiama Fuyuka Kudou, se ti interessa- disse una voce alle mie spalle.
Un’altra sorpresa? Non sapevo se potevo reggere. Quando mi voltai, Kidou si avvicinò a me e mi poggiò una mano sulla spalla. 
-È la figlia di un ricercatore che lavora per le Spy Eleven… una nostra vecchia conoscenza. Come vedi, non può camminare- proseguì. 
-Cosa le è successo?- chiesi, nervoso.

Kidou distolse lo sguardo. –Quattro anni fa, un proiettile l’ha colpita alla spina dorsale e le ha fatto perdere l’uso delle gambe. Sta facendo una riabilitazione che forse la porterà a camminare di nuovo, ma niente è certo- spiegò, i suoi occhialini nascondevano uno sguardo cupo, nuvoloso. Benché parlasse con voce calma, non era impassibile come al solito. 
-Hai detto che è una vostra vecchia conoscenza…- mormorai. –Questo vuol dire che anche tu la conosci?
Kidou annuì, serio.
-Sì. Quattro anni fa ero con lei, il giorno dell’incidente. C’eravamo entrambi, io e Fudou… A quei tempi, io e lui eravamo partner nel distretto di Ehime.


 

**Angolo dell'Autrice**
Aaaah, questo capitolo non è stato facile da scrivere, non lo è stato per niente , ma ce l'ho fatta *sospira di sollievo
Midorikawa imparerà a forza che non deve fissarsi troppo sui pregiudizi, perché tanto abbatterò le sue certezze una dopo l'altra, ahahahaha. Tutti i personaggi, cattivi o buoni che siano, hanno le loro ragioni, cosa che non andrebbe per niente sottovalutata.
Per quanto riguarda le coppie... Beh, era da tempo che volevo inserire un momento HiroMido! Hiroto ha decisamente cambiato opinione su Midorikawa, anche se quest'ultimo non sembra essersene reso conto XD Mi sono divertita a scrivere la loro scenetta romantica~
Inoltre, in questa long ci sarà la FudoFuyu! Fuyuka costituisce un tassello importante della storia di Fudou e nel prossimo capitolo userò un [NORMAL P.O.V.] (cioè la narrazione in terza persona) per raccontare per bene il passato di Kidou, Fudou e Fuyuka (in effetti, è Kidou a raccontarlo a Midorikawa).
Non so quando aggiornerò ancora, ma spero presto! 
Bacioni,
         Roby

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Capitolo 27
*** Mission 27. ~Hiroto's Arc. ***


Buonasera :)) Finalmente, dopo quasi un mese di fatica, sono riuscita a completare questo capitolo! E' stata dura, soprattutto perché continuavo a cambiare idea su alcune scene e dialoghi e perché niente di ciò che scrivevo mi soddisfaceva... Alla fine però sono abbastanza soddisfatta del risultato anche se è uscito lunghissimo, aiuto
Ringrazio infinitamente mio cugino, RaffyRen97, che mi ha betato il capitolo, senza di lui non ce l'avrei mai fatta a postare stasera ;u;
Buona lettura, ci vediamo nelle note sotto!



[Normal P.O.V.]
 
Quattro anni prima, Ehime.
 
Le lunghe catene appese ai passanti del jeans tintinnavano ad ogni suo passo, ma il rumore non gli dispiaceva. Serviva a tenerlo sveglio, visto che a causa dei turni notturni riposava poco e niente, e anche quando avrebbe potuto dormire un’insonnia cronica glielo impediva.
Fudou sbadigliò senza preoccuparsi di mettere la mano davanti alla bocca poiché gli seccava togliere le mani dalle tasche.
-Ti prego, piantala. È già il quinto sbadiglio che fai…- lo rimproverò il suo partner, camminava al suo fianco, con il lungo mantello rosso sulle spalle che fluttuava a causa del vento.
-Oh, scusa se ti ho disturbato, Kidou…- replicò, sarcastico. -Ma, sai, non posso nemmeno bermi un caffè perché sono stato catalogato come soggetto nervoso, quindi…-
-Credo che la definizione esatta fosse “un sociopatico i cui problemi a relazionarsi creano frustrazione, insonnia, nervi sensibili e istinti violenti verso gli altri e verso se stesso”.
Fudou sbuffò; per quanto irritante potesse essere Kidou Yuuto (e lo era, eccome se lo era), restava comunque l’unica persona in grado di fargli da partner: era intelligente, pratico là dove lui era impulsivo, e non aveva neppure bisogno di un dono per fare le cose come si doveva. E soprattutto era una delle pochissime persone a non avere affatto paura di lui. Non era sicuro che quest’ultimo particolare gli piacesse. Fudou aveva imparato fin da piccolo che “se non sei apprezzato, allora è meglio essere temuto”, sua madre glielo ripeteva sempre, mentre si rannicchiava contro il muro scolorito della cucina, in un angolo di pavimento sporco dove il marito l’aveva gettata dopo averla picchiata in un attacco d’ira.
Il problema era che Kidou non lo temeva, e Fudou non aveva la certezza di essere apprezzato. Litigavano spesso, a causa di pensieri non condivisi e azioni individuali che generavano la disapprovazione dell’uno o dell’altro a seconda dei casi, ma quando decidevano di collaborare non c’era nemico che avesse scampo.
Non a caso, dopotutto, metterli in coppia era stata una decisione di Kageyama.
Kageyama Reiji era, in teoria, il braccio destro della Spy Eleven di Ehime e, in pratica, il vero capo delle operazioni in quel distretto, da quando la Spy Eleven si era ammalata e aveva cominciato a soffrire di demenza cronica. Kageyama era un uomo alto, spigoloso, con capelli grigio topo legati in una coda di cavallo; dietro a due lenti scure, posate su un naso appuntito, si nascondevano occhi neri, vivi e penetranti, che sembravano sempre comandarti, e pure quando sfuggivi ad essi era la sua voce a sottometterti: aveva un ché di perentorio e, al tempo stesso, di persuasivo. Aveva modi ruvidi ed insensibili, una memoria selettiva che tendeva a tenere le cose brutte e a scordare quelle belle, la furbizia di una volpe: tutte caratteristiche che gli attiravano contro l’astio della maggior parte dei suoi subordinati.
Fudou e Kidou, però, avevano anche imparato a rispettarlo, perché erano troppo svegli da non notare che Kageyama Reiji fosse un genio.
Era stato lui a sceglierli come coppia di lavoro e sempre lui ad assegnarli a questo incarico.
-Siamo arrivati.- Kidou si fermò di colpo e indicò con il pollice un’alta palazzina, il cui color grigio smorto si stagliava come un’ombra nell’azzurro del cielo. Fudou restò con il mento sollevato ad osservare i riflessi bianchi della luce sulle finestre quadrate per tutto il tempo in cui Kidou parlò al cellulare con Kudou Michiya, un ricercatore di indubbie qualità che aveva accettato di collaborare per anni con le Inazuma Agency, allo scopo di individuare nuovi talenti e assoldarli come agenti speciali. Dal canto suo, Fudou non aveva mai avuto bisogno di essere “scoperto”: il suo talento era sbocciato naturalmente insieme alla rabbia durante un freddo giorno in cui il cielo era terso come lo era quel lunedì.
-Saliamo, ci stanno aspettando.- dichiarò Kidou, tirò un mazzo di chiavi tintinnanti dalla tasca e aprì il portone di metallo, che strisciò a terra con un lungo e stridente rumore.
 
Kidou si accomodò su una poltroncina blu scuro: i suoi occhi erano illeggibili dietro le lenti degli occhialini da aviatore (perché diavolo questa era considerata una cosa normale?), ma di certo anche lui stava osservando i dintorni, studiando ed analizzando la situazione e giungendo chissà a quali conclusioni. Fudou rimase per un po’ in piedi accanto alla porta, poi adocchiò un divano di tessuto color lavanda e vi si lasciò cadere, sgraziato, accavallò le gambe e tirò le braccia dietro la nuca. I suoi occhi vagarono nella stanza, soffermandosi sulle librerie colme di libri dai titoli difficili in latino, sui mobili spogli di cianfrusaglie, sui ricami delle tende e del tappeto: l’arredamento era molto più semplice di come ci si sarebbe aspettato da un ricercatore che presumibilmente guadagnava parecchi milioni di yen all’anno. Fudou ripensò ai pavimenti nudi e sporchi della sua vecchia casa, alle tende strappate e sudicie, e chiuse gli occhi per cullarsi nella sensazione di gelo e vuoto che questi ricordi gli procuravano.
Un rumore di ceramica infranta lo fece sussultare.
Si girò verso la seconda porta della stanza, che dava verso l’interno della casa, opposta a quella da dove erano entrati, e squadrò da capo a piedi la ragazza in vestaglia che ne era uscita. Fuyuka non incrociò i loro sguardi, era intenta a fissare la macchia di tè che si allargava sul tessuto rosso vicino alle sue ballerine; apparentemente, era inciampata nel tappeto e aveva fatto cadere una delle tazze che portava su un vassoio argentato. Fudou non riuscì bene a vedere il suo volto, coperto da una cascata di capelli violetti, ma sapeva perfettamente quale espressione dovesse avere in volto, un misto di vergogna e tristezza.
Kidou si alzò per aiutarla, le prese il vassoio dalle mani e lo posò sul basso tavolino di vetro sistemato fra la poltrona e il divano, poi si abbassò a raccogliere i cocci.
-No, ti prego, faccio io- esclamò la ragazza, aveva una voce bassa e tremula. –Ti graffierai le mani… No, davvero, lasci stare…- Tentò di fermarlo, ma Kidou era decisamente troppo gentiluomo per permettere che fosse lei a rischiare di tagliarsi con i cocci. Le ordinò di prendere un sacchetto di carta in cui versare la ceramica rotta e una scopa per poter raccogliere anche i frammenti più piccoli e Fuyuka obbedì silenziosamente.
Dopo aver buttato il cartoccio nella spazzatura nella stanza affianco, i due tornarono in salotto;
Fudou non si era mosso dal divano, né aveva dato cenno di volerli aiutare, tuttavia la ragazza non parve farci caso e si accomodò accanto a lui. Era palesemente imbarazzata, le sue guance si tinsero di rosa quando posò gli occhi su di lui. Fudou si accigliò e si squadrò: la maglia troppo corta scopriva la fascia di pelle attorno all’ombelico e la vita bassa dei pantaloni faceva intravedere l’elastico nero dei boxer. L’aspetto trasandato non era mai stato un problema per lui, ma su di lei aveva sempre l’effetto di una doccia gelata, cosa che non poteva che dargli una certa soddisfazione.
-Che hai da guardare, bambina?- chiese, usando di proposito un tono sensuale per prenderla in giro; Fuyuka, imbarazzata, balbettò qualcosa e si girò di scatto, e lui la osservò divertito.
Kidou scosse il capo e sospirò davanti a quella scena, ma si sedette senza fare commenti.
Poco dopo Kudou Michiya entrò in salotto con un giornale arrotolato sotto il braccio; indossava un camice bianco sporco lungo fino alle ginocchia su abiti casual, e l’occhio scuro che non era coperto dal ciuffo di capelli viola scuro li studiò gelido e si addolcì solo notando la presenza di lei. –Non sei ancora pronta per andare a scuola?- la rimproverò con una voce morbida, tutt’altro che arrabbiata. La ragazza arrossì ancora di più e chinò il capo, lasciando che i capelli le coprissero nuovamente il viso. –Avevo fatto il tè per colazione- disse.
Ad un’occhiata eloquente del padre, si alzò e attraversò nuovamente la porta da cui era venuta; quando tornò, si era cambiata e aveva indossato la divisa. Fudou la osservò in silenzio: se la vestaglia da nonna la rendeva la ragazza meno attraente della terra, il gilet troppo largo dava un po’ più di pienezza al suo fisico mingherlino, le calze scure ridavano colore alla pelle pallida. Fare da balia ad una cocca di papà non rientrava per niente nei suoi desideri, ma trattandosi di lavoro doveva farselo piacere.
Soprattutto perché, per almeno altri quattro mesi, doveva fingere di essere il suo fidanzato, strategia di cui Kidou era stato l’ideatore. Fudou aveva finito con l’accettarla, benché non ne fosse particolarmente entusiasta. Era difficile bocciare un’idea di Kidou: fondamentalmente, perché avevano sempre senso. Inoltre, se da lui partiva la critica, da lui doveva venire un’altra proposta, e Fudou non aveva idee migliori se non quella di invertire i loro ruoli.
 
-No, ci ho ragionato a lungo e credo che sia meglio così. Tu sei più bravo nel corpo a corpo di me, io me la cavo meglio con i colpi a distanza. E poi dall’esterno potrò tenervi d’occhio, tutti e due.- aveva risposto Kidou, con agghiacciante tranquillità.
-E quindi tu giocherai all’allegro detective mentre io vado a scuola?!-
-Sei in età scolastica, dopotutto. Cerca di non fare troppo il piantagrane, non picchiare le persone nei bagni e la tua media scolastica non deve essere né inferiore né superiore al 7,01.-
 
Fudou schioccò la lingua, seccato, e rigirò la penna fra le dita: gli fece fare due, tre, quattro giravolte su se stessa, avanti e indietro, con abilità, mentre fissava torvo il cortile scolastico attraverso la finestra. Non aveva potuto scegliere dove sedersi, ma a ben pensarci quello era un posto perfetto per osservare sia dentro che fuori. Fuyuka era a qualche metro da lui, intenta a cancellare minuziosamente la matita dal suo foglio, dopo aver ricopiato le risposte in penna blu, con la sua calligrafia nitida e tondeggiante.
Kidou doveva essere da qualche parte lì fuori a spiarli. Quel dannato cecchino.
Lasciò che la punta della penna si posasse sul foglio e scarabocchiò le risposte in meno di otto minuti: media del 7,01 un cavolo, col cervello che si ritrovava avrebbe dovuto ritrovarsi come minimo una pagella di tutti dieci e lode.
 
xxx
 
Il mare era di un colore blu scuro, quel giorno, e una scia di sole lo attraversava formando una linea dall’orizzonte fino alla riva su cui erano scesi; il professore di biologia aveva affibbiato loro un compito molto seccante, cioè di raccogliere delle pietre particolari da studiare, e Fuyuka aveva immediatamente pensato alla zona del porto, dove sotto i pontili di ferro, di tanto, si poteva scendere in piccoli ritagli di spiaggia, non sabbiosa ma composta di sassi rotondi e lisci, ammassati gli uni sugli altri.
Fuyuka aveva dei bellissimi capelli. Erano di un colore particolare e, osservando il modo in cui brillavano a causa dei giochi di riflessi fra sole e mare, Fudou si era riscoperto con disappunto a volerli accarezzare; era sicuro che a lei sarebbe stata bene una qualunque pettinatura, ma lei li preferiva sciolti, così quando era nervosa o imbarazzata poteva usarli per nascondere il proprio viso dal prossimo. Lo stava facendo anche in quel momento. Fudou aveva l’impressione che fosse stranamente distratta, irrequieta: del resto, Fuyuka era solita logorarsi nei propri drammi in silenzio, quasi per paura che i suoi sentimenti potessero disturbare gli altri. Irritante.
-Ehi, se hai qualcosa di dirmi, fallo e basta- sbottò, dopo aver catturato per caso un’occhiata timida nella propria direzione. La ragazza sussultò e si morse il labbro inferiore.
Si era accovacciata sulla riva del mare, le mani immerse nei sassi al punto di toccare la sabbia fangosa che c’era sotto. Le sue scarpe bianche si sarebbero certamente rovinate, ma non pareva importarle. Fudou le si accostò e si sedette sui talloni ad appena un metro da lei; i capelli le erano caduti di nuovo sul volto, e il ragazzo s’irritò al punto da allungare istintivamente una mano e spostarglieli sulla spalla opposta, in modo che il profilo da lui visibile fosse scoperto. Fuyuka non si lamentò, non lo faceva mai, nemmeno quando lui la toccava sui fianchi o sotto il seno, come era stato costretto a fare poco prima per aiutarla a scendere dal pontile. Fudou era quasi convinto che avrebbe potuto farle qualsiasi cosa e non si sarebbe opposta: quella ragazza aveva evidentemente confuso realtà e finzione e si era presa una gigantesca cotta per lui. Non si era mai innamorato, ma non era cieco.
Della musica iniziò a diffondersi nell’aria, creando un piacevole sottofondo. Non ne conosceva titolo o autore, ma il ritornello gli era familiare; alzò lo sguardo e scoprì che proveniva dalla loro macchina: l’autista aveva parcheggiato a pochi metri da loro e, col finestrino abbassato, si stava fumando una sigaretta con la radio accesa, in pieno relax.
Fudou fece schioccare la lingua contro il palato, seccato, e tentò di dissimulare l’imbarazzo causato dall’atmosfera inopportunamente romantica. L’espressione della ragazza era apparentemente concentrata sulla sua ricerca, e Fudou provò ad immaginare il momento in cui quegli occhi luminosi si sarebbero riempiti di lacrime, quando le loro strade si sarebbero separate e lui le avrebbe spezzato il cuore.
-Tra poco ci sarà il ballo di primavera.- L’improvvisa affermazione lo sorprese. –Sarà un ballo alla Sadie Howkins… È un ballo in cui le ragazze…-
-Sì, lo so cos’è.- Fudou la interruppe subito, cupo. –Ma toglitelo dalla testa. Non ti porterei mai in un luogo così confusionario, sarebbe come un invito ad ammazzarti o rapirti.-
Fuyuka non annuì né scosse il capo. Le labbra le tremarono leggermente.
-Lo so anch’io che non ci posso andare- sussurrò. –Volevo solo dirti che io… ti avrei invitato.-
Fudou alzò un sopracciglio, perplesso. –E cosa cambia, ora che me l’hai detto?-
-Nulla. È solo che mi piace essere sincera con me stessa e questa cosa mi frullava in testa da un po’, per cui credevo che dicendolo ad alta voce avrei smesso di pensarci.- La ragazza scrollò le spalle; continuava ad evitare il suo sguardo, fissava ostinatamente un sassolino rotondo che aveva trovato e che ora rigirava tra le dita come se fosse la cosa più bella del mondo.
Fudou sospirò e si passò una mano dietro la nuca.
Perfetto, ora doveva anche farlo sentire in colpa.
-Senti, mi dispiace, okay?- sbuffò -Ma non posso comportarmi diversamente. Ci tieni alla tua vita, no? Inoltre, anche se potessimo andarci, non sarei un accompagnatore decente.-
-A me piace la tua compagnia.-
-No, tu sei costretta a stare con me, è diverso.-
-Potremmo ballare qui- propose la ragazza, smise di scavare nelle pietre e fece per alzarsi, ma lui la spinse di nuovo giù. -Risparmiati la fatica. Non so ballare, e questa non è una stupida commedia d’amore- ribatté, brusco.
Fuyuka e lo fissò, le sue labbra screpolate ed arricciate in un broncio.
-Akio-san… Quando sarà finito il tuo lavoro, non ci vedremo mai più, vero?-
Fudou sbatté le palpebre e si concesse alcuni minuti di silenzio sorpreso. Non poteva negare di aver avuto anche lui pensieri del genere, ma certo non si aspettava che lei gliel’avrebbe sbattuto in faccia a quel modo. Era davvero troppo sincera e, forse, l’aveva sottovalutata.
-Per te sarà solo un bene- si decise a dire, infine. Per distrarsi, si concentrò sui suoi capelli, provò nuovamente a spostarle alcune ciocche di capelli dietro le orecchie, ma lei bloccò il gesto posando una mano sul suo avambraccio e abbassandoglielo.
-Non sta a te deciderlo- disse, ferma. Fudou era incredulo.
-Certo che sta a me! Sono una delle parti interessate- sbottò, si stava trattenendo a stento dall’urlare. -So cosa provi per me, ma io non…-
-Akio-san, perché ti odi così tanto?- lo interruppe la ragazza, con una caparbietà tanto inaspettata da costringerlo ad indietreggiare. Si alzò di scatto. -Lasciami in pace!-
-No!- Fuyuka lo imitò, inciampò, e Fudou l’afferrò prima che cadesse. Aveva in mente di rimproverarla, ma quando lei sollevò il capo e i loro occhi s’incrociarono, la sua testa si svuotò e si trovò a non sapere più cosa voleva dire un secondo prima. Provava la più strana delle sensazioni: improvvisamente non riconosceva più la persona che aveva davanti. Non era la bambina fragile e innocente che gli era stata affidata, bensì una ragazza forte, capace di dar voce ai propri dubbi, di affrontare problemi che lui avrebbe preferito ignorare.
Fudou si scansò bruscamente da quell’abbraccio involontario ed impacciato e ringhiò:– Prendi un fottutissimo sasso e torniamo a casa.-
Perso l’appoggio all’improvviso, Fuyuka barcollò ma riuscì a mantenersi salda sulle gambe, e Fudou pensò che fosse giusto così: lei doveva essere in grado di reggersi senza il suo aiuto.
–Muoviti- le ordinò, secco. Fuyuka si chinò velocemente, raccolse qualcosa e poi lo raggiunse, lui si era già arrampicato e l’aiutò a salire a sua volta, senza toccarla più del necessario.
Entrarono in auto; la canzone era finita e la radio stava trasmettendo il meteo.
-Metti in moto- comandò Fudou all’autista, si sedette a gambe incrociate e appoggiò la schiena al sedile; Fuyuka stringeva le labbra, indecisa se dire o meno ciò che pensava, e lui non vedeva l’ora di liberarsene. Perché avrebbe dovuto confidarsi con lei? Cosa pretendeva, per soli due mesi di finto fidanzamento? Quella ragazza si era illusa veramente troppo.
Si appoggiò al finestrino e notò che l’auto era ancora ferma.
-Vuole muovere il culo e guadagnarsi lo stipendio, o no?!- ruggì affacciandosi verso il sedile davanti. L’uomo non diede cenno di averlo sentito. Lo sguardo del ragazzo cadde allora sulle sue mani, non attaccate al volante, ma raccolte nel suo grembo, i polpastrelli bruciati dalla sigaretta ancora accesa; sul suo collo si notava a stento il segno di una siringa, doveva essere stata una morte quasi immediata, oltre che silenziosa.
–Merda- bestemmiò sotto voce. Fuyuka si accigliò e si sporse.
-Cosa succed...- s’interruppe inorridita e le sfuggì un urlo, che Fudou fu costretto a soffocare premendole una mano sulla bocca, con l’altra le strinse forte l’avambraccio.
-Scendi con circospezione e sta nascosta dietro l’auto. Non fare rumore.- le intimò. La ragazza lo fissò con occhi vacui, si aggrappò a lui spaventata e premette la fronte contro il suo braccio. –Cosa gli hanno fatto?- pigolò.
-Quello che faranno anche a noi se non mi obbedisci- le sibilò. –Nel caso non l’avessi ancora capito, ci hanno assunto proprio per difenderti da situazioni come questa, non per andare ai balli o raccogliere i sassi per biologia.- Le prese le mani per staccarle da sé, ma s’impietosì sentendola tremare. Sospirò e si chinò finché i loro volti non furono alla stessa altezza.
-Fuyuka- la chiamò, deciso, e continuò solo quando ebbe i suoi occhi, e la sua piena attenzione, puntati addosso. –Kidou è sicuramente qui intorno. Non è una delle mie persone preferite, ma è un ottimo cecchino. Non si potranno avvicinare senza rischi. Ho bisogno che tu non entri nel panico e che mi dia ascolto. Capito?- Fuyuka annuì in cenno di assenso.
 
Erano passati cinque minuti e, dall’istante in cui avevano spento la radio, nella zona era calato un silenzio di tomba.
Fudou si sistemò meglio, stringeva la pistola nella mano destra, mentre l’altra era stata tanto a lungo stretta fra quelle di Fuyuka che quasi non sentiva più il sangue fluire nelle dita; la ragazza stava appiattita contro la fiancata dell’auto, con le gambe traballanti come gelatina, era pallida come un lenzuolo e aveva il respiro corto. Aveva fatto un enorme sforzo per non svenire alla vista del sangue, dal momento che era emofobica, e Fudou aveva dei dubbi sul fatto che potesse davvero correre in caso di emergenza.
Tornò a guardare la strada, per quanto fosse possibile, senza scoprirsi eccessivamente.
Chiunque avesse ucciso l’autista era ancora nei dintorni, dopo averli appiedati ed intrappolati là stava aspettando la propria occasione, calmo, freddo, calcolatore. L’organizzatore non doveva essere uno stupido. Il suo cellulare vibrò due volte, era un segnale, e Fudou si infilò gli auricolari neri. –Dove siete?- La voce di Kageyama, bassa e ruvida, gli scoppiò nelle orecchie.
-Siamo al porto. Fuyuka sta bene. L’autista è morto- rispose l’agente, in tono piatto ed informale. Le dita della ragazza stritolarono la sua mano e le sue unghie si piantarono nel suo palmo quando pronunciò la parola “morto”.
-Kidou è con te?-
-No, ma è nei paraggi, pronto ad intervenire.-
Dopo alcuni attimi di silenzio, probabilmente impiegati per riflettere, Kageyama gli ordinò di non muoversi e di non chiamare Kidou, poi riattaccò. Fudou rimase per un po’ a fissare il ricevitore, poi si sfilò le cuffie e le arrotolò alla bell’e meglio per ficcarle nella tasca dei jeans. Il tono di Kageyama era smorto e gelido come al solito, neanche gli attacchi a sorpresa sembravano urtare i suoi nervi d’acciaio. Doveva averlo informato Kidou, forse il loro capo aveva un piano; nel frattempo, Fudou sapeva di doversela cavare per conto proprio.
Si girò verso Fuyuka. –Stai bene?- chiese, aspettandosi di trovarla tremante come una foglia, invece era, almeno in apparenza, totalmente assorbita nell’osservazione del sasso verdazzurro che aveva raccolto. –E quello? Mi sembra che ce ne fossero di molto più carini…- osservò. 
Fuyuka accennò il più piccolo dei sorrisi, che, considerata la situazione, era già un miracolo.
-Mi piace il suo colore. È lo stesso dei tuoi occhi, sai?- mormorò.
Fudou sbuffò. –Come fai a dire una cosa così senza vergognarti? M’imbarazzo io per te… e pensare che arrossisci ogni volta che ti tocco- disse, quasi esasperato.
-Te l’ho detto, mi piace essere sincera con me stessa- rispose lei, la sua voce si abbassò fino a diventare un soffio. –Sarebbe terribile andarsene senza essere riuscita a dire nulla… questi sentimenti sparirebbero in silenzio, e sarebbe come se fossi morta due volte…- Singhiozzò e si premette le mani contro il volto mentre le lacrime iniziavano a striarlo.
-Ehi, ehi, no- sibilò il ragazzo scuotendo il capo, allungò la mano e le accarezzò i capelli per rassicurarla. –So che è spaventoso, ma io ti proteggerò, non ti succederà nulla, non morirai. Te lo prometto. Abbi un po’ di fiducia in me, e che cazzo- disse, non riuscì proprio a risparmiarsi un piccolo improperio finale (era da troppo tempo che si sforzava di non dire brutte parole in sua presenza). Non era mai stato bravo a consolare le persone, ma stranamente Fuyuka gli credette. -Mi fido di te, sono io il peso morto tra noi due- pigolò, con voce spezzata dai singhiozzi. Fudou sospirò, poggiò la mano sulla sua nuca e l’attirò a sé per baciarle delicatamente la fronte.
-Smettila. Te l’ho detto, non devi andare nel panico. Non moriremo...- borbottò distrattamente. La sua attenzione era stata attirata da un rombo di motore. Si sporse di nuovo per osservare i dintorni e riconobbe immediatamente la piccola fiat cinquecento di Kageyama, che scoppiettava e avanzava verso di loro. Si accostò all’altra auto, uno dei finestrini davanti scese lentamente e l’uomo tese un braccio, facendo loro cenno di entrare.
Fudou strinse forte la mano di Fuyuka ed obbedì all’ordine del suo capo. Kidou non era con Kageyama. Ma dove si era cacciato?!
 
Dall’interno dell’auto non era possibile vedere la strada, perché i vetri dei finestrini erano tutti oscurati da veli neri; solo un piccolo angolo del parabrezza, di fronte al posto del guidatore, era lasciato scoperto per ragioni pratiche, ma era un ritaglio troppo ridotto affinché Fudou potesse intravedere qualcosa. Non sapeva dove Kageyama li stesse portando. Aveva provato a chiedere e ad incazzarsi quando non aveva ricevuto una risposta, ma il suo capo era solito restare impassibile anche ai peggiori improperi, anzi spesso il suo silenzio era accompagnato da un sorrisetto di scherno.
Fuyuka teneva ancora stretta la sua mano, da quando erano saliti non si era staccata un secondo dal suo corpo, aveva appoggiato la testa contro la sua spalla, l’altra mano sul suo petto, in un mezzo abbraccio che Fudou non si era sentito di sciogliere. Ormai aveva capito che non poteva evitarle di preoccuparsi, perché l’ansia che la divorava non riguardava solo se stessa, ma entrambi. Che stupida; come se lui avesse in programma di crepare senza lottare. Aveva tolto troppe vite in passato, il minimo che potesse fare era vivere anche per loro: al posto di sua madre, che suo padre aveva sgozzato, al posto di suo padre, che lui aveva fatto saltare in aria in un eccesso di potere, ed il risveglio del lunedì mattina si era tinto di sangue.
L’auto si fermò, facendoli sobbalzare.
-Scendiamo qui- dichiarò Kageyama, roco.
-Dove siamo?- domandò immediatamente Fudou. Ancora una volta non ebbe una risposta. Ora, capo o non capo, era sul punto di urlare e di mettergli le mani addosso; scese dalla macchina con l’intento preciso di prenderlo per il colletto e costringerlo a parlare, ma non ne ebbe il tempo.
Appena sceso, qualcuno gli tolse la pistola e tirò un pugno nello stomaco, lo fece piegare in due dal dolore e dalla sorpresa.
Fuyuka gridò il suo nome, il ragazzo la vide cercare di aiutarlo, invece un altro uomo la strappò via da lui e mantenendola per le braccia iniziò a trascinarla via.
-Lasciatela andare!- Fudou ringhiò, sentiva la vista annebbiarsi e afferrò il polso dell’aggressore per allontanarlo da sé, e così notò la lama che gli era stata infilzata nel fianco dello stomaco: non un pugno, ma una coltellata. Cambiava la dimensione del dolore, ma non il fatto che doveva salvare Fuyuka. Senza esitare, diede un pugno all’uomo che aveva davanti e si liberò del pugnale, sibilando per il dolore dello strappo. Si girò per cercare Fuyuka, ma lei e Kageyama sembravano spariti nel nulla, inghiottiti dalla folla di persone: vestite di abiti scuri, erano sbucate dai vicoli, d’un tratto, tutte insieme come topi di fogna.
Uno sparo rimbombò, improvviso, insieme ad urlo soffocato. Fudou si girò di scatto, giusto in tempo per vedere l’uomo che lo stava per aggredire alle spalle cadere a terra. Aveva una brutta ferita nella gamba, all’altezza del ginocchio, che lo stava facendo contorcere dal dolore.
Solo una persona poteva aver mirato e centrato un posto così preciso.
-Era ora di farsi vivo, brutto bastardo di merda!- gridò Fudou, incazzato, anche se in realtà era lievemente rincuorato dalla presenza di Kidou. Il ragazzo gli fece appena un cenno, era inginocchiato sul tetto di un fabbricato alto più o meno due piani, e da dietro una ringhiera aveva sparato per salvargli la vita; invece di rispondere all’insulto, fece schioccare il fucile e atterrò altri due uomini con il medesimo trucco, un colpo netto alle gambe.
-Riesci a vedere Fuyuka?!- gli urlò Fudou dal basso.
-Sì- replicò Kidou, che da lassù aveva una visuale decisamente migliore. –È a pochi metri da te, sbrigati!- aggiunse, le ultime sillabe furono coperte dallo scoppio dello sparo.
Fudou assestò un calcio all’uomo a fianco del caduto, lo disarmò e s’impossessò della sua pistola, con la quale gli aprì uno squarcio nello stomaco. –Occhio per occhio, dente per dente, pezzi di merda. Vi farò pagare sulla pelle tutto ciò che le farete- disse, sprezzante.
La sua stessa ferita pulsava dolorosamente, così come le sue tempie, ma ora che era più vicino sentiva la voce di Fuyuka, e ciò non poteva che renderlo più lucido, più combattivo. Non aveva smesso di gridare il suo nome, nemmeno per un attimo, soffocata dalle lacrime. Che stupida.
-Levatevi dal cazzo!- Fudou ruggì mentre si faceva largo tra gli aggressori con violenza, aiutato da Kidou, che aveva cessato il fuoco solo per poter ricaricare il fucile, ma che ora aveva ricominciato ad atterrare gli uomini, uno dopo l’altro, senza mancare mai il bersaglio.
Non era rimasto quasi nessuno.
Il rapitore di Fuyuka era rimasto completamente scoperto. Quando si trovò faccia a faccia con Fudou, lo fissò incredulo, come chiedendosi come avessero fatto quel ragazzo da solo ad arrivare fin lì. Evidentemente, non si era accorto di Kidou; meglio così. Fudou fulminò con lo sguardo le mani guantate che stringevano le braccia della ragazza.
-Lasciala- minacciò –o ti stacco le mani dal corpo.-
L’uomo continuò ad osservarlo, immobile. La sua espressione accigliata lasciava intendere che non sapeva se credere o no alla minaccia. Fudou non aveva intenzione di aspettare oltre, in ogni caso; fece un passo in avanti e l’altro deglutì: bene, almeno aveva paura. Se non sei apprezzato, è meglio essere temuto, le parole di sua madre gli tornarono in mente in quell’esatto momento e, senza pensarci un secondo in più, coprì la distanza che li separava e afferrò i polsi dell’uomo. Il potere distruttivo gli fluiva dentro insieme alla rabbia; esplose di colpo dalle sue dita, vibrò nei polpastrelli, e non si fermò neppure quando le grida dell’altro gli trapanarono le orecchie. Davvero la voce di un maschio poteva essere così acuta? Incredibile quale effetto il dolore e la paura potessero avere sull’essere umano…
-Akio-san, basta!-
Fudou si riscosse quando Fuyuka si lanciò fra le sue braccia e lo tirò via; davanti ai suoi occhi l’uomo cadde sulle ginocchia, continuando ad urlare e a frignare fissava le ustioni laceranti che gli segnavano i polsi. Il sangue colava a fiotti.
-Stai bene?- bisbigliò, giusto per distrarsi, e la ragazza annuì mentre piangeva nel suo petto.
-Sei ferito, sei ferito, oddio, mi dispiace così tanto- singhiozzava, sconvolta. Fudou decise di non replicare. Avrebbe voluto toccarle i capelli, darle anche soltanto delle gentili pacche sulla schiena, ma non si fidava delle proprie dita in quel momento, non dopo aver quasi staccato le mani ad una persona.
-Fudou!- La voce allarmata di Kidou lo fece sussultare, si voltò lentamente e i suoi occhi verdazzurri si posarono sulla canna della pistola puntata contro di lui. il suo partner era rimasto senza munizioni, e quel tipo era riuscito in qualche modo a strisciare fino a lui. Fudou non aveva in programma di morire così, ma allo stesso tempo non aveva più forza per lottare. Aveva perso molto, troppo sangue, e le dita intirizzite non riuscivano a reggere un’arma. Alzò la gamba, deciso a tirargli un calcio in faccia, o almeno al braccio, per disarmarlo, ma il colpo partì prima di quanto credesse e Fuyuka si mosse prima di lui.
-No!-
Il grido suo e di Kidou, simultaneo, non bloccò l’azione.
Il proiettile ferì la ragazza dietro la schiena, all’altezza del bacino; solo un gemito le sfuggì dalle labbra e pronunciò il suo nome per un’ultima volta, con un filo di voce, prima di battere la testa contro il suolo e perdere i sensi. Fudou calciò con forza l’aggressore, l’arma volò via, e lui lo picchiò fino a farlo svenire a sua volta. Kidou era saltato giù dalla propria postazione per soccorrere Fuyuka e controllare l’entità del danno; Fudou si girò per aiutarlo, invece si bloccò con lo sguardo rivolto alla banchina del porto; le sue labbra si piegarono in una smorfia, e vide l’uomo che li aveva traditi aprire lo sportello della sua fiat con calma quasi serafica. La rabbia gli montò dentro ed urlò:- Kageyama!-
-Non mi sbagliavo, siete stati davvero i miei migliori agenti, il mio risultato più riuscito. Ci rivedremo.- rispose l’altro, sorrise con scherno prima di salire in auto e mettere in moto.
-Bastardo! Torna qui!- ringhiò Fudou, si mosse velocemente per inseguirlo, voleva ucciderlo con tutto se stesso. Kidou lo fermò afferrandogli un braccio e lui rivolse un’occhiata a dir poco astiosa. -Cosa cazzo fai? Lasciami, o se la svignerà!- gridò.
Kidou scosse il capo. –Sono arrabbiato quanto te, ma al momento chiamare un’ambulanza è la priorità assoluta.- replicò. Naturalmente era logico e razionale e aveva ragione, Fudou lo sapeva, tuttavia non poté fare a meno di odiarlo e di ribellarsi.
-Chiamala per lei, subito- gli intimò, frettoloso. –Io posso anche morire, ma lasciami!- Tentò di liberarsi, ma la presa di Kidou si strinse. Tra le sue mani comparve una siringa di tranquillante, una misura estrema che si usava da quelle parti contro i criminali. Non appena intuì cosa il suo partner voleva fare, Fudou decise di tirargli un pugno, ma era troppo tardi: l'iniezione era già stata fatta, era già in circolo e rese il suo corpo pesante e fiacco in pochi secondi. Il ragazzo restò col pugno sollevato finché ne ebbe la forza, poi il braccio gli ricadde sfinito lungo il fianco, e lui stesso precipitò a terra, gli occhi vitrei fissi verso il cielo. Dopo averlo reso innocuo, Kidou usò il proprio mantello per fasciargli la ferita e fermare in qualche modo l’emorragia.
Il rombo della macchina era già un rumore lontano. Fudou sentì la voce ovattata del suo partner che chiamava l’ambulanza, e poco prima che sonno e stanchezza lo prendessero gli sibilò:- Ti odio.
 
xxx
 
-Kageyama Reiji ci ha traditi… lavorava per Garshield fin dall’inizio.-
Kudou Michiya era seduto a braccia e gambe incrociate nel corridoio dell’ospedale; i suoi capelli viola scuro e la giacca nera che indossava risaltavano in modo spettrale nel bianco assoluto di quel posto. Fudou strinse i pugni e socchiuse le palpebre. La luce che si rifletteva contro quelle pareti era come un pugno nell’occhio per lui. Ma da quando si era svegliato, in effetti, non c’era nulla che non gli desse fastidio con la sua semplice esistenza.
-Ha avvelenato la Spy Eleven di Ehime, causandone la malattia ed infine la morte, e poi ha assunto il controllo della base. Aveva programmato tutto alle nostre spalle.- proseguì Kudou.
–Una settimana fa, al porto, avrebbe dovuto rapire e uccidere mia figlia… Sarebbe morta, se non fosse stato per voi.- Fino a quel momento aveva parlato come un presentatore giornalistico, esponendo i fatti con calcolata freddezza, come se la vicenda non lo riguardasse, ma arrivato a questa parte del discorso il suo tono si fece cupo e sommesso.
Fudou non poteva sopportare oltre. Si alzò di scatto e si voltò verso le ascensori.
Senza di loro, Fuyuka sarebbe morta, era vero; senza di loro, però, forse non avrebbe ricevuto un proiettile alla schiena e non avrebbe perso l’uso delle gambe, forse per sempre. Era stato lui stesso, quel giorno, ad informare Kageyama sulla loro posizione. Loro avevano scelto di fidarsi, loro avevano fallito nel proteggerla. Fudou era sollevato del fatto che Kudou non facesse finta che non fosse colpa sua, come invece molti loro colleghi, alla base, avevano detto. Pensavano di rassicurarlo? Ma non lo facevano sentire meglio, anzi il disgusto verso gli altri e verso se stesso era aumentato. Era stata colpa loro e Kudou lo sapeva: lo pensava anche mentre aveva pronunciato quel “se non fosse stato per voi”.
-Verrà trasferita in un ospedale di Tokyo fra qualche settimana- dichiarò. –Andrai a dirle addio?-
-No.- Fudou scrollò le spalle ed entrò nell’ascensore e, quando le porte si richiusero, poggiò la fronte contro il vetro dello specchio. Osservò le proprie occhiaie, gonfie e livide, e i capelli sporchi che gli ricadevano sul volto –per prima cosa, aveva voluto tagliarli tutti, lasciando solo un ciuffo, folto, al centro del capo- e sollevò la propria maglia per guardare la ferita che gli attraversava una parte dello stomaco. L’aveva ricucita per bene, ma restava una cicatrice bianca sulla pelle, come prova della sua debolezza e dell’umiliazione subita.
Le porte si aprirono all’ottavo piano e si trovò faccia a faccia con Kidou, proprio l’ultima persona che aveva voglia di vedere. Il modo in cui lo studiò da capo a piedi, con calma, lo irritò immediatamente. -Spostati- sibilò, l’altro si fece da parte senza mutare espressione.
-Ho sentito che sei stato scelto come nuova Spy Eleven di Ehime. Congratulazioni- disse, neutro, mentre gli passava a fianco per infilarsi nell’ascensore. Fudou sbuffò: aveva sentito dire che quella carica era stata offerta a Kidou, nell’immediato, e che lui l’aveva rifiutata. Aveva davvero una faccia tosta notevole.
Prima che si chiudessero le porte automatiche, Fudou si girò e le bloccò con una gamba. Scrutò le lenti scure degli occhialini. –D’ora in poi non ci sarà più pietà- lo avvertì, velenoso.
-Se osi di nuovo metterti fra me e il mio obiettivo... ammazzerò anche te.
Kidou non rispose né i suoi muscoli del viso si mossero in alcun modo. Fudou si ritrasse e lasciò che le porte si chiudessero, poi proseguì per la sua strada; la stanza era in fondo al corridoio, quasi in angolo, ed era aperta, lui però si fermò solo sulla soglia.
Anche se sapeva già cos’avrebbe trovato, la visione di Fuyuka su una sedia a rotelle lo lasciò comunque senza fiato. Gli occhi della ragazza s’illuminarono come se avesse visto il suo salvatore, senza realizzare che aveva invece di fronte il suo carnefice, e Fudou sentì una dolorosa stretta al cuore mentre lei gli veniva incontro, sfruttando il motore della sedia.
Quando furono molto vicini e Fuyuka poté finalmente studiare bene il suo volto, la sua espressione mutò: le sue sopracciglia si piegarono, la fronte si corrugò, le labbra si arricciarono in un broncio. –Papà l’aveva detto che saresti passato per dirmi addio- mormorò.
Fudou non replicò; invece, indicò la radio poggiata sul comodino e chiese:- Che canzone è?
La ragazza seguì con lo sguardo la direzione del suo dito, anche se non era necessario.
-Non la conosco, ma l’infermiera ha detto che è di Elvis Presley- rispose. Fudou riportò il proprio braccio vicino al fianco. Era la stessa di quel giorno, al porto, ma non osò dirlo ad alta voce per evitare ricordi spiacevoli.
-A cosa pensi?- chiese lei, curiosa.
-Che vorrei baciarti- mentì il ragazzo, si mise sulle ginocchia e le prese le mani come se stesse per chiederle di sposarla, e poi poggiò dolcemente le labbra sulle sue.

 
**Angolo dell'Autrice**
Ehilà- scommetto che siete sfiniti- anche se efp un po' lo ha accorciato (come al solito) è comunque un capitolo lunghetto, eh? 

La canzone a cui si fa riferimento nel testo è "Can't help falling in love with you" di Elvis Presley, nel caso vogliate ascoltarla :)) 
Dunque, Fuyuka era già innamorata di Fudou da un po' prima del fatidico incidente...e in realtà -forse un po' s'intuisce, forse no- anche Fudou provava qualcosa per lei, ma ha fatto davvero fatica ad accettarlo e ammetterlo; siccome si trattava di lavoro e sapeva di essere un tipo complicato, sperava che lei ci rinunciasse. All'inizio, credo che Fudou abbia scelto di non dirle addio e di restare con lei non solo perché si è reso conto di amarla, ma anche perché si sente in colpa. Ho voluto sottolineare questo passaggio: Fudou e Kidou sono coscienti che l'incidente di Fuyuka è colpa loro e non cercano giustificazioni. Kudou probabilmente non potrà mai perdonarli del tutto (d'altronde Fudou non sa che farsene, del suo perdono, e nemmeno Kidou lo cerca insistentemente). 
 Eeee poi, nulla, solo tanto angst (?) - alla fine Fudou, tra i personaggi del capitolo, è quello coi nervi meno saldi di tutti, risulta più debole persino di Fuyuka in un certo senso :'DD Beh, c'è un motivo se va dallo psicologo (?).
Alla prossima <3
Baci,
     Roby

 

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Capitolo 28
*** Mission 28. ~Hiroto's Arc. ***


Finalmente, ecco a voi il ventottesimo capitolo :) Si ritorna al [Midorikawa P.O.V]!
Buona lettura.


Il mio turno in ospedale sarebbe cominciato più tardi, quel giorno. A ben pensarci, non avevo una gran voglia di metterci piede, visto che avevo alte probabilità di imbattermi in Fudou… No, non mi andava affatto; benché il racconto di Kidou mi avesse schiarito le idee su quel sinistro personaggio, e nonostante avessi compreso (almeno in parte) le sue ragioni, ciò non mi aiutava a farmelo andare a genio: sicuramente aveva sofferto molto, ma era e restava il ragazzo che mi aveva puntato una pistola alla tempia.
–Qualcuno ha la testa tra le nuvole, oggi.-
Quella voce, mite e sconosciuta, e l’odore del caffè che mi arrivava alle narici mi riscossero.
Sbattei un paio di volte le palpebre e focalizzai il liquido nerastro che s’intravedeva dietro la plastica azzurra della tazza, poi alzai il volto e vidi con sorpresa Genda che sventolava una mano davanti a me, forse controllando che io fossi effettivamente sveglio.
Mi venne da ridere e anche lui si sciolse in un sorriso. Stringeva fra le mani un bicchiere di tè, che si portò alle labbra mentre il suo sguardo si spostava altrove, vagando pensieroso sulle pareti della sala degli archivi. Da qualche parte lì dentro, oltre a noi due, c’erano Tachimukai e Burn, che erano stati incaricati da Gazel di trovare un fascicolo che accennasse all’incidente di Luce Aldena; Fideo voleva assolutamente condurre delle ricerche in quella direzione, convinto ormai che la sorella avesse una preoccupante connessione con Kageyama, e aveva insistito con una tale ostinazione che alla fine Seijurou aveva deciso di assecondarlo.
Era strano vedere Genda senza Sakuma. Erano partner di lavoro e da quando erano arrivati là non li avevo mai visti separarsi. Stavolta, invece, Hitomiko aveva chiesto a me e Genda di restare indietro per aiutare Gazel, mentre aveva spedito Sakuma, Shinobu e Kazemaru direttamente all’ospedale per i turni di guardia. Di Hiroto ed Endou non c’era traccia. Quando mi ero svegliato, quella mattina, nella camera divisa a quattro c’ero già solo io: tutti erano usciti prima di me.
Genda stava scrutando gli scaffali delle librerie per l’ennesima volta, probabilmente cercando i Tachimukai e Burn. Quei due erano scomparsi già da un po’. Iniziavano a preoccupare anche me. Burn non aveva accettato un lavoro che appariva così faticoso di buon grado, tuttavia il pensiero di poter comandare a proprio piacimento qualcun altro non gli dispiaceva affatto, e temevo che s’impegnasse di più nel bullizzare Tachimukai che non nel portare a termine l’incarico.
Mi guardai intorno: quelli che ci circondavano erano sicuramente più di duemila fascicoli. Non c’era da meravigliarsi che là dentro regnasse il caos; d’altronde, come ben dimostravano le condizioni disastrose in cui versava la sua scrivania praticamente tutto l’anno, Gazel non aveva affatto una spiccata inclinazione verso l’ordine né la cosa pareva disturbarlo. Io, invece, non potevo sopportarlo. Dopo aver finito il caffè, incapace di star fermo, decisi di mettere a posto ciò che potevo, iniziando da un mucchio di scartoffie che pendevano più pericolosamente della torre di Pisa, e che parevano solo aspettare che qualcuno si degnasse di sistemarle.
Anche Genda, intanto, si era rassegnato ad attendere. Sebbene il suo volto tradisse una certa impazienza, aveva un pieno controllo sulle proprie pulsioni e ansie. Con un ultimo sorso finì il tè, poi schiacciò il bicchiere di plastica nel palmo della mano e lo tirò con forza in avanti, facendo un centro perfetto nel cestino dall’altra parte della stanza.
-Bel lancio- commentai ammirato. Lui mi rivolse un sorriso luminoso e i tatuaggi arancioni che aveva sul volto danzarono sulle sue guance.
-Vuoi una mano?- propose. Annuii e gli feci cenno di allargare le braccia, così da potergli passare una catasta di fogli marchiati di rosso nell’angolo in alto.
–Mettili in quel cassetto lassù- dissi, indicando il terzo cassetto di un mobile di metallo. Lui mi passò affianco, mentre lavorava gli lanciai un’occhiata di sbieco. Genda era molto alto, più di Hiroto ed Endou, per cui decisi di lasciare a lui le carte che andavano in posti  a me inarrivabili. Avevamo appena finito con la cassettiera quando udimmo un tonfo, seguito in rapida successione da una bestemmia. Il ciuffo a forma di fiamma di Burn emerse poco dopo dietro una pila di libri.
-Tutto bene?- gridò Genda, facendomi sussultare con una voce molto più potente di quanto mi aspettassi. Seguì uno sbuffo e la voce irritata di Burn: -L’avevamo trovato, ma poi lui l’ha fatto cadere dallo scaffale e si è sparso un po’ tutto.-
-Mi dispiace- disse Tachimukai uscendo da dietro la libreria; aveva le mani ricolme di fogli, quelli che aveva fatto cadere e poi raccolto alla rinfusa. Sospirai e andai a dargli una mano prima che facesse altri danni, o che Burn infierisse ancora su di lui.
-Dalli a me- suggerii. –Tu raccogli quelli che mancano.- Tachimukai me li lasciò volentieri, annuì energicamente e mi lasciò quel lavoro per chinarsi a raggruppare il resto del fascicolo. Iniziai a sfogliare le carte, cercando di ristabilirne la sequenza numerica giusta; quando Tachimukai mi consegnò i fogli restanti, Genda raccolse la cartellina di plastica gialla e cominciò a sistemarvi dentro le pagine man mano che gliele passavo. Grazie alla collaborazione di tutti e tre, riuscimmo a rimettere insieme tutto il materiale dopo solo qualche minuto.
-Abbiamo fatto un lavoro perfetto! Ora dobbiamo portarla a Gazel- esclamò Burn.
-Perché usi la prima persona plurale? Tu non hai fatto niente.- Lo fissai scettico, ma lui ignorò volutamente il mio commento. Non era mai stato molto aperto alle opinioni altrui, a meno che non coincidessero con le proprie. Prima che potessi aggiungere altro, lui afferrò il fascicolo e corse fuori alla velocità della luce. Era felice di non dover trascorrere un minuto di più là dentro e non era il solo, a giudicare dall’espressione sollevata di Tachimukai e Genda.
-Meno male- esalò il più giovane, sorridendo per la prima volta quella mattina, come se si fosse liberato di un peso. Quanto a Genda, era sicuramente più sereno, dal momento che ora poteva lasciare l’agenzia e raggiungere Sakuma nell’ospedale. Scrollò le spalle, fece scrocchiare collo e spalle e andò verso la porta; arrivato allo stipite si girò verso di me. –Tu non vieni?- chiese.
-Gentile da parte tua chiedermelo. Credo di non avere altri impegni, in effetti- scherzai, mi infilai la felpa viola che mi ero legato in vita mentre lo seguivo fuori dalla porta.
 
Trovammo Sakuma e Shinobu seduti sulla gradinata principale dell’ospedale. La ragazza dai capelli rosa shocking, che stava quasi completamente distesa fra due gradini, con le gambe accavallate l’una sull’altra e una Coca-Cola stretta in mano, fu la prima a notarci; si girò verso Sakuma a dire una parola e il suo compagno si girò e s’illuminò alla vista di Genda.
-Ehilà, ce l’hai fatta ad arrivare!- esclamò.
-È stata una ricerca faticosa- replicò Genda, tranquillo. –Non hai idea di quel che c’era in quell’archivio… Non mi sarei stupito se avessimo trovato un passaggio segreto per Narnia.-
-Beh, se non altro non c’erano armadi- dissi, scherzoso e con un vago rimpianto, perché in effetti la presenza di un mobile così spazioso sarebbe stata molto utile a mantenere ordine. Genda scrollò le spalle e raggiunse Shinobu e Sakuma sulle scale, accettando di buon grado la lattina di Coca che gli veniva offerta; quando la scosse, però, si accorse che era praticamente vuota.
-Quanta gentilezza- commentò, sarcastico. Shinobu ghignò e fece spallucce.
-Davvero credevi che te l’avrei regalata? L’ho pagata coi miei soldi, quella- ribatté, tagliente. -Se invece miravi ad un mio bacio indiretto, basta chiedere…- Notò subito l’espressione scioccata di Genda e Sakuma e scoppiò a ridere. Sembra che le piacesse particolarmente stuzzicare i suoi compagni di squadra e doveva farlo anche molto spesso, tant’è vero che i due ragazzi impiegarono solo un attimo a capire di essere stati presi in giro: alzarono gli occhi al cielo e  sospirarono, causando una maggiore ilarità della ragazza.
-Ehi, Midorikawa!- Genda attirò la mia attenzione prima di lanciarmi la lattina. –Mi fai il favore di buttarla, visto che sei ancora in piedi?- chiese, con un sorriso troppo gentile a cui dire di no.
Mi voltai in cerca di un cestino, ne individuai uno grande dietro la ringhiera destra della scalinata e lo raggiunsi rapidamente; dopo aver gettato il rifiuto tornai sui miei passi e notai subito che l’atmosfera fra i tre era cambiata, se non altro perché Shinobu aveva smesso di interessarsi ai due maschi per preoccuparsi del proprio aspetto. Genda e Sakuma si erano ritirati in modo leggermente più appartato e conversavano molto fittamente, con quel genere di confidenza reciproca che solo i migliori amici possiedono… Quel pensiero mi ricordò di Kazemaru.
Mi schiarii un po’ la voce e mi rivolsi a Shinobu il più educatamente possibile:- Ahem, scusa… non è che per caso sai dov’è il mio partner? È quel ragazzo con i capelli azzurri…-
-Non è venuto qui- rispose lei, gentile ma in un certo senso distaccata. Non mi guardò in faccia mentre parlava, sembrava troppo concentrata nel cercare imperfezioni nelle proprie unghie colorate di rosa scintillante.
-Capisco. Grazie…- dissi. Restai seduto accanto a Shinobu senza dire una parola. Lei mi lanciò appena uno sguardo, ma in un primo momento decise di ignorarmi e dedicarsi invece a ripassare il burro di cacao sulle labbra screpolate. La mia attenzione fu attirata dalla loro divisa: erano composte da giacca, camicia e pantaloni (o gonna e calze, per Shinobu), ma, differentemente dalle nostre, erano verdi scuro con linee di velluto in oro e rosso, non portavano mantelli e avevano un taglio molto più militare che non scolastico. Di solito eravamo tenuti ad indossarle con un certo rigore, ma non avendo superiori tra i piedi Shinobu si era concessa dei piccoli strappi alla regola, come la cravatta slacciata e la giacca sbottonata con le maniche arrotolate; d’altra parte, ora che ci facevo caso, non avevo mai visto Fudou in divisa: non sembrava affatto il tipo da seguire le regole.
-Cos’hai da fissare, bamboccio?-
La fissai sbattendo le palpebre, chiedendomi se si riferisse a me.
Lei sbuffò. –Odio i guardoni- disse. Arricciò le labbra, disgustata, e si passò le dita nel ciuffo di capelli che le attraversava il viso, coprendo uno dei suoi occhi color zaffiro. Quando intuii cosa intendeva, il mio volto si colorò rapidamente di rosso per l’imbarazzo.
-Oh no, scusa, ero solo… perso nei miei pensieri. Guardavo la divisa, cioè, mi piace la vostra divisa- mi giustificai, frettoloso. Non volevo infastidirla, anche se probabilmente era troppo tardi. Shinobu alzò un sopracciglio, scettica, e tornò a fissarsi le unghie. Abbassai lo sguardo desiderando di essere inghiottito dalla terra.
Mi schiarii la voce con un colpo di tosse. – Ti do fastidio?- m’informai, teso.
Shinobu parve rifletterci un istante. –No. Non particolarmente- rispose.
-Non ti preoccupare, Midorikawa, non morde!- gridò Genda, qualche metro più in là. Evidentemente lui e Sakuma non erano così estraniati dal mondo da non sentire la nostra conversazione, anzi, chissà da quanto stavano origliando, pronti ad intervenire con quella battuta. Gli angoli delle mie labbra si sollevarono istintivamente vedendoli ridere e cercai di reprimere il sorriso perché mi sembrava scortese nei confronti della ragazza, che, tuttavia, non si mostrò affatto turbata dal commento dell’amico.
–A te, no di certo. Non mi piace la carne di seconda mano- miagolò, graffiante. Sakuma arrossì e le scoccò un’occhiata torva e Genda rischiò di strozzarsi con la saliva. Le loro reazioni mi lasciarono intendere sottintesi che altrimenti non avrei colto: Shinobu conosceva bene i loro punti deboli e sapeva come sfruttarli. Bella, senza dubbio, peccato solo per il carattere tagliente.
-Dicevo solo che sei un po’ freddina con le persone- proseguì Genda, più cauto di prima. La ragazza scrollò le spalle e fece un vago cenno di assenso.
-È perché non mi piacciono, le persone- disse –anche se è piacevole avere a che fare con idioti come voi…- Non ebbe il tempo di aggiungere altro perché Genda si alzò e la raggiunse, sollevandola da terra: se la buttò su una spalla come un sacco e iniziò a girare su se stesso, mentre Shinobu strillava di metterla giù. Dopo poco, però, si sciolse e si mise a ridere di cuore: benché si mostrasse fredda e distaccata, era chiaramente legata ai membri della propria squadra. Forse, persino chiamarli ‘idioti’ era per lei un gesto d’affetto. Soprattutto nelle agency come le nostre, dove moltissimi arrivavano orfani e dopo un percorso difficile, non era raro che i propri colleghi diventassero la cosa più simile ad una famiglia: anch’io lo sapevo bene.
Solo quando la ragazza smise di urlare, esausta e senza voce, Genda le permise di toccare di nuovo terra e si offrì addirittura di comprarle un’altra bibita fresca per farla riprendere.
-È il minimo, dopo questa bravata! Hai diciassette o due anni?- replicò Shinobu, sforzandosi di mostrarsi imperiosa come sempre, ma continuava a venirle da ridere. Genda attraversò la porte a vetri dell’edificio. I distributori erano vicini al bancone dell’ingresso, da fuori potevamo vederne gli spigoli di metallo. Shinobu si portò una mano alla fronte e brontolò:- Mi gira la testa…-
Sembrava pronta a sciorinare una lunga serie di lamentele a riguardo, tuttavia non iniziò nemmeno, distratta all’improvviso da tutt’altro. Anche Sakuma scattò all’erta. Si affacciò velocemente alle porte e diede un grido a Genda perché venisse subito.
Una lunga auto era comparsa sulla strada, la carrozzeria era di un bianco così intenso che sarebbe stato impossibile non notarla persino in mezzo al traffico e quel giorno nel quartiere non c’era un’anima che girasse, a piedi e non. I vetri dei finestrini erano oscurati, coperti da tende così nere che, a vederle da lontano, non si sarebbe detto che fossero formate solo da veli.
Shinobu si alzò in piedi, senza preoccuparsi di sistemare la gonna, e la sua mano, come quelle dei suoi due colleghi, era già nella tasca interna della giacca: forse le dita già accarezzavano la fondina. Provavo un forte senso di disagio; l’atmosfera pulita e allegra che fino a poco fa si respirava aveva lasciato posto solo alla tensione. Come non farlo? L’apparizione dell’auto simboleggiava “guai in arrivo”: se un drago sputafuoco fosse apparso accanto al lampione, avremmo probabilmente avuto la stessa reazione.
Naturalmente, a tutto ciò ho pensato dopo; in quel momento impugnai la pistola prima di poter concepire un qualunque ragionamento sensato. Non ero per niente adatto alle situazioni in cui occorreva sangue freddo. Invidiai a pelle il modo in cui Shinobu si rivolse all’uomo alla guida, perché la sua voce aveva un timbro calcolato, freddo, e allo stesso tempo perentorio, un tono al quale difficilmente si resta impassibili. I tre agenti di Ehime avevano circondato la macchina con circospezione e lentezza, io ero un po’ più lontano per poter tener d’occhio anche la struttura ospedaliera, e puntavamo tutti le pistole verso la carrozzeria lucente. Era stata lavata da poco e, per quanto fosse un’osservazione stupida, davvero non riuscii a non chiedermi perché alcuni cattivi dovessero sempre arrivare in pompa magna.
-Non può attraversare questa strada in auto. Il perimetro è stato pedonalizzato- disse Genda, adottando lo stesso tono di voce della sua collega. Sul suo volto non c’era traccia dei suoi sorrisi gioviali e caldi. L’autista della macchina, del quale intravedevamo solo il profilo attraverso i veli, disse qualcosa, ma la sua voce fu coperta da un rombo di esplosione.
D’un tratto il paesaggio ai miei occhi divenne confuso e sfocato, come un disegno su cui è stata gettata dell’acqua, e solo quando la mia schiena sbatté a terra mi resi conto che ero stato letteralmente sbalzato in aria. Alle mie orecchie risuonò  uno strano eco di vetri infranti. Una fitta di dolore mi procurò un brivido lungo la spina dorsale quando mi spinsi sui gomiti per rimettermi in piedi; le mie mani affondarono nei cocci e una scheggia mi s’infilò tra l’indice e il medio della sinistra, strappandomi un gemito, ma almeno vedere il mio sangue mi fece recuperare un po’ di lucidità. Mi misi in piedi e fissai il mare di vetro in cui ero immerso: le porte dell’edificio si erano sbriciolate sotto la stessa pressione che mi aveva scaraventato in aria, o forse le avevo rotte io cadendoci dentro. Mi guardai intorno e notai all’istante il panico che regnava nella sala d’ingresso: benché i suoni mi arrivassero tutti ovattati, mi parve che ci fossero persone che urlavano per ogni dove. Gli impiegati dell’ospedale davano ordini e direttive, correndo a destra a manca e soccorrendo chi potevano; poi, c’erano quelli che avevano avuto la sfortuna di trovarsi più vicini alle porte e che ora si ritrovavano ferite più o meno gravi; altri, infine, erano solo terrorizzati. Ero ancora troppo confuso per capire da cosa. Sapevo, però, che la risposta non l’avrei trovata lì.
Mi girai verso l’esterno e fu in quell’istante che l’immagine del drago sputafuoco spuntò nella mia testa. La macchina bianca non c’era più, o meglio era avvolta in un involucro di fuoco. Il mio primo impulso, ovviamente contrario all’istinto di sopravvivenza, fu di correre fuori, ma il mio corpo risentiva ancora degli effetti del volo e avevo una tale confusione in testa che coordinarmi era diventato difficilissimo. Seguii con lo sguardo la striscia di fiamme che dardeggiava lungo il marciapiede, prolungandosi sino all’angolo della strada, e trovai nella mia memoria un’immagine simile, risalente a chissà quanto tempo prima: non ebbi il tempo di rifletterci, sparì subito.
Qualcuno mi sorpassò di corsa e si lanciò fuori prima di me.
Fideo corse in strada con la velocità di un fulmine, tese le mani in avanti e creò una barriera di tremolante energia bianca che si espanse su tutto il perimetro della zona: al suo interno, provate dell’aria, le fiamme morirono presto. Marco Maseratti e Gianluca Zanardi raggiunsero presto il loro comandante e, come da suo ordine, si chinarono rapidamente a terra. Incuriosito, feci un paio di passi, uscii sulle scale e allungai il collo per sbirciare la scena. Gianluca reggeva una persona, la cui parte sinistra del volto –quella destra era raggrinzita e color marrone scuro- era piegata in urla di dolore. Tra le braccia di Fideo c’era qualcun altro, a cui mancava un braccio intero, completamente carbonizzato. La sofferenza di entrambi doveva essere acutissima. Poi mi girai e vidi un corpo minuscolo, accartocciato su se stesso in posizione fetale: Marco, inginocchiato al suo fianco, scosse il capo e i suoi occhi si velarono di lacrime.
 
xxx
 
Quella notte sognai il mare. Sospetto che i discorsi sul porto di Ehime mi avessero influenzato, in qualche modo. Il mare del mio incubo era una distesa di cemento fluido e ombroso, in cui i volti dei miei morti galleggiavano a bocca aperta; avrei voluto urlare, ma avevo il terrore che l’acqua mi riempisse i polmoni. Verso la fine, le mani bianco latte di una donna mi afferrarono il braccio all’altezza del gomito, i suoi capelli fluttuanti si trasformarono in un fuoco rosso, che avvolse il mio corpo come una camicia di forza; così affondavo, in una vampata d’inferno.
 
L’esplosione della macchina bianca ebbe come bilancio tre morti e undici feriti. Nella ricostruzione dei fatti, si disse che Garshield aveva teso una trappola: l’auto avrebbe dovuto prendere Kageyama ed esplodere pochi minuti dopo, tuttavia non era stato evidentemente calcolato che alcuni agenti l’avrebbero fatta sostare e quindi ritardare all’appuntamento.
Fatto stava che Kageyama Reiji, l’obiettivo del piano originale, era ancora vivo e non rintracciabile. Che Shinobu, l’autista della macchina e uno sfortunato infermiere che si trovava vicino alla porta erano deceduti sul colpo. Che Sakuma aveva perso un braccio, probabilmente per sempre, e che Genda sarebbe rimasto sfigurato a vita. Che i medici stavano ancora cercando di sfilare tutti i pezzi di vetro dai corpi dei feriti.
A me era andata relativamente bene. La confusione nella testa non era sparita, ma non avevo ricevuto danni fisici gravi, a parte dei tagli da vetro sulle braccia, non abbastanza profondi da lasciare cicatrici. Mi avevano curato nell’infermeria della nostra Agency e poi mi avevano trascinato in camera, avevo saltato il pranzo e dormito poco e male a causa degli incubi.
Quando uscii dalla mia stanza, con circospezione perché temevo che qualcuno mi vedesse e mi ci rispedisse a calci, mi sorpresi di trovare i corridoi vuoti e desolati. Le ipotesi sul vero motivo dell’esplosione avevano messo in subbuglio i piani alti: si erano accorti di aver sbagliato dei calcoli? Perché Garshield voleva morto Kageyama? Non erano forse dalla stessa parte? Sembravano tutti talmente scossi da questa svolta nell’indagine che mi convinsi che nessuno avrebbe fatto caso a me. Lasciai la mia stanza e mi inoltrai nei corridoi deserti. O forse non poi così tanto deserti. Anche se evitai decisamente di passare da quella parte, sentii distintamente le voci di Fudou e Hitomiko discutere; la Spy Eleven stava dicendo qualcosa riguardo ai funerali di Shinobu, che lui voleva fossero celebrati a Ehime. Non aveva il solito atteggiamento freddo e distante, anzi, era profondamente arrabbiato. Dopotutto, forse, Fuyuka non era l'unica persona a far emergere il suo cuore dall'oscurità che l'avvolgeva... Ma non volevo pensarci, in quel momento.
Qualcuno, al piano di sotto, stava suonando il vecchio pianoforte, uno strumento che era stato requisito molti anni prima per un caso lasciato irrisolto e che da allora era rimasto nascosto negli uffici ad impolverarsi. Mi feci guidare dalla musica che non conoscevo.
 
Era Kudou Michiya a suonare il piano. Non aveva spartiti, il che mi fece pensare che fosse una di quelle persone a cui basta un buon orecchio per memorizzare le melodie.
-Buongiorno- mi salutò, pur senza distogliere lo sguardo dallo strumento. Le sue dita erano lunghe e affusolate e callose e scorrevano sulla tastiera con la strana familiarità dei vecchi amici, come se non avessero mai toccato nient’altro nella loro vita.
-Buongiorno- risposi, con la voce un po’ roca. Avrei voluto chiedere cosa ci faceva lì, perché suonava il piano invece di essere immerso nel panico più totale insieme a tutti gli altri. Invece, tirai fuori il mio mp3 dalla tasca dei pantaloni e chiesi:- Mi suona una canzone?-
Kudou annuì, forse era sorpreso dalla richiesta, ma non lo diede a vedere. Sempre senza volarsi, mi fece cenno di consegnargli la musica e io velocemente gli misi in mano l’mp3, per poi allontanarmi di scatto e ritrarmi contro la porta.
Come pensavo, suonava a orecchio: ascoltò la canzone una volta, poi la riprodusse.
Non appena le dolci, dolci note di Brielle riempirono la stanza, i miei nervi si rilassarono. Arrivò la chiarezza, la serenità, e poi anche la tristezza. Le lacrime mi spuntarono agli occhi senza che avessi davvero il tempo di realizzarlo.
-È stata una giornata faticosa per molti- disse Kudou, continuando a suonare. Aveva gli occhi socchiusi, come concentrandosi anche lui sulla musica. –Quando siamo a lutto, le persone ci dicono che i momenti bui passeranno, che in seguito andrà meglio, e che il dolore ci servirà sicuramente a qualcosa, in futuro...
Sospirai. -Sono d'accordo che il dolore aiuti a crescere- dissi, sottovoce -ma onestamente ne avrei fatto volentieri a meno.
Kudou, per la prima volta da quando avevamo iniziato a parlare, mi guardò negli occhi. Erano neri come i miei, ma decisamente più cupi. Tutto in lui lasciava trasparire la stanchezza di pesi accumulati e trascinati di anno in anno, senza però che questo lo facesse apparire debole o curvo.
-Tu credi che Dio esista?- domandò; la sua voce era mite e priva di qualunque inflessione e non mi dava indizi su cosa si aspettasse da me.
Decisi pertanto di rispondere sinceramente:- Credo che esista qualcosa, al di sopra di noi. Non so se sia Dio, però, quindi direi che sono più incline verso un no.
-Beh, così sono fatti gli umani- replicò Kudou, quasi rassegnato. -È molto più facile, per noi, credere che Dio non ci sia, piuttosto che accettare il fatto che esista, insieme a tutto questo dolore… Io non so se ci sia davvero un Dio, lassù, ma quello che è certo è che non fa nulla per noi. Non ci infligge sofferenza, ma nemmeno ci protegge da essa…
-Essere consapevoli che il dolore è inevitabile non ci aiuta a comprenderlo. Per andare avanti e crescere, bisogna fare un passo in più, avere la capacità di accettare e rielaborare il lutto. C’è anche un tipo di dolore sterile, che non dà nulla per crescere, ma che anzi ci rende ciechi al mondo esterno al lutto: la vita continua, ma noi non la vediamo passare…
-Lei non mi sembra il tipo che scappa davanti al dolore- lo interruppi, strinsi le mani sul dorso degli avambracci. Senza quasi rendermene conto, avevo iniziato a tremare.
Kudou sospirò così leggermente che il suo petto si sollevò a stento. Sollevò una mano e si sfilò il basco, lasciando che il ciuffo di capelli viola tornasse a coprirgli l’occhio destro prima di rimettere il cappello sul capo. Per un attimo scorsi un brillio nella sua pupilla, ma quando parlò né la sua espressione né la sua voce tradivano alcuna emozione.
-Ti sbagli- disse laconicamente, poi si voltò per stendere il drappo di velluto verde smeraldo sui tasti. Lo fissai chiudere il coperchio del pianoforte, un po’ deluso perché speravo di sentirlo ancora suonare. Lui si alzò, venne verso di me e mi posò il mio mp3 nella mano. -Arrivederci- disse, poi camminò oltre la porta, infilandosi nel corridoio.
Chiusi il palmo. La canzone era finita.

xxx
 
Kazemaru ed Endou mi raggiunsero in mensa soltanto più tardi, verso ora di cena. Nella stanzetta c’ero solo io che tentavo di sfogare la frustrazione infilzando le uova strapazzate con la forchetta. Come poteva una giornata tanto normale finire in maniera così schifosa? Il ricordo degli ultimi momenti di vita di Shinobu mi annodavano la gola e non riuscivo a mandar giù nessun tipo di cibo senza che mi venisse da vomitare.
–Kageyama non lavora più per Garshield… lo ha tradito, l’esplosione era per lui- disse Endou, mesto, appena entrato; Kazemaru, invece, mi gettò le braccia al collo e mi strinse forte a sé.
–Midorikawa, Midorikawa, scusami! Ommioddio, Hitomiko mi aveva detto di andare là, all’ospedale, ma io ho preferito andare in missione con Endou e Hiroto… Non avrei dovuto lasciarti solo, ommioddio, scusami…- Continuava a balbettare e singhiozzare insieme, rendendo un po’ difficile comprendere tutte le parole, ma il significato era piuttosto chiaro. Volevo dirgli che non c’era bisogno che si scusasse, che in fondo la sua presenza non avrebbe cambiato molto, che stavo bene, ma non riuscii a farlo. Dissi solo che ero stanco. Kazemaru mi accompagnò in camera senza smettere di piangere e durante la notte scivolò a fianco a me con i suoi piedi gelati e mi abbracciò. Il giorno dopo, quando mi svegliai, era uscito con Endou per prendermi la colazione, perché probabilmente non voleva farmi muovere troppo. Annoiato, mi girai verso la branda di Hiroto e osservai il suo volto addormentato, lui che era rientrato molto dopo di noi. Aveva un’aria davvero esausta e i suoi sogni non dovevano essere più tranquilli dei miei, a giudicare dalla sua espressione crucciata. Non riuscii a sopportare di vederlo così… sofferente.
-Hiroto, Hiroto, svegliati- dissi. Lui non si smosse e il desiderio che aprisse gli occhi e dimostrasse di essere vivo diventò così urgente da spaventarmi; iniziai a scuotergli le spalle con poca delicatezza, finché lui non mi afferrò per un braccio e mi tirò giù.
-Stai calmo, Midorikawa, sono qui.- borbottò. –Va tutto bene.- Che bugia grande! Ma scelsi di crederci.
Mi sollevai sui gomiti e lo baciai sulle labbra, felice di trovarle calde e accoglienti.

 
**Angolo dell'AutriceH**
Buonasera. 
Il prossimo sarà l'ultimo capitolo per quanto riguarda la parte di storia su Ehime. Rispetto allo scorso capitolo, ho impiegato tempi molto più brevi per scrivere questo, anche se descrivere il momento dell'esplosione non è stato facile...  Come sempre, avevo inizio e fine del capitolo ben chiari in mente, ma mi mancava tutto il pezzo centrale! Nel progetto originale della fic, anche Sakuma e Genda morivano, ma nella ristestura ho deciso di salvarli. L'esplosione segna una svolta importante nel caso "Kageyama" -se siete confusi come Midorikawa, a riguardo, non preoccupatevi perché nel prossimo capitolo verrà chiarito tutto!- ma avrà anche degli effetti sul personaggio di Midorikawa... poi vedrete come u.u
Spero di non avervi fatti soffrire troppo (?) potete darmi della str**** in qualunque momento per il male che faccio a questi poveri personaggi, ah ah.
Alla prossima!
Baci,
    
Roby

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Capitolo 29
*** Mission 29. ~Hiroto's Arc. ***


Ci ho messo tre giorni perché continuavo a bloccarmi e a modificare alcuni punti, ma pare che io ce l'abbia fatta-- Il capitolo non è betato perché sono davvero esausta, quindi se notate qualche errore non esitate a dirmelo. Buona lettura!

-Stai bene?-
La domanda mi cadde addosso dal nulla. Ero seduto sul bordo del letto, con lo sguardo perso nel vuoto e le mani nei capelli, intenti a legarli nella solita coda di cavallo, ma ero tanto distratto da essere impegnato in quella operazione da circa tre minuti. L’elastico mi strizzava le dita e la coda proprio non voleva uscirmi diritta, il che non faceva che irritarmi ancora di più. Alzarmi, vestirmi e muovermi mi sembrava incredibilmente stancante: era sempre così nei miei periodi neri. L’ultimo non era stato troppo recente, ora c’ero di nuovo dentro e la sensazione che sarebbe stata una cosa piuttosto frequente non mi aiutava certo a superarlo. E il mio cattivo umore pareva peggiorare ogni volta che qualcuno mi chiedeva se stavo bene. Non c’è nulla di più imbarazzante di chiedere una cosa simile a chi palesemente non sta bene, per cui di solito non rispondevo e mi limitavo a scrollare le spalle -era soprattutto Kazemaru, naturalmente, a domandarmelo, ma stavolta si trattava di Hiroto, perciò mi sforzai di buttar fuori qualche parola.
-Non proprio- biascicai. Non ricambiai la domanda perché era palese che Hiroto non stesse bene: le sue occhiaie sembravano essersi approfondite e i suoi occhi erano pesti da far paura.
Allacciò le braccia intorno alle mie spalle e appoggiò il mento sulla mia testa, impendendomi di fatto di continuare ciò che stavo facendo. Con un sospiro lasciai cadere le mani sul mio grembo, l’elastico appeso come un bracciale al mio polso.
-Ci sono novità?- m’informai, tenendomi sul vago. Quale che fosse l’indagine su cui stava lavorando, Hiroto sembrava sempre piuttosto riluttante a divulgare i propri risultati; in realtà, da quando aveva rinunciato ad Endou, era diventato una persona completamente diversa: non si metteva più in mostra volutamente, non si faceva bello agli occhi delle ragazze, trattava tutti in modo amichevole, ma non si sbilanciava mai. Probabilmente non ne aveva più motivo, visto che non aveva più né la speranza né l’intento di ingelosire Endou. In quei giorni aveva l’aria sempre esausta e spesso cercava conforto nel contatto fisico, abbracciandomi come in quel momento.
-Kageyama era effettivamente coinvolto nel caso di Luce- disse, la sua voce era più roca rispetto al normale. Negli ultimi giorni, di colpo, il meteo era peggiorato, le temperature erano scese e Hiroto si era beccato il mal di gola; come soggetto allergico, era piuttosto sensibile agli sbalzi climatici. Mi voltai leggermente e strofinai la fronte contro la sua: non aveva la febbre.
-Dovrei uscire tra poco- dichiarò, malvolentieri. I suoi occhi si chiusero per qualche istante, poi si riaprirono all’improvviso e scrutarono i miei. –Continui a non dormire la notte?- chiese. Con le dita giocherellava distrattamente coi miei capelli sciolti. Abbozzai un sorriso.
–Hai paura che ti soffi il primato degli occhi pesti? Non preoccuparti, non credo di essere lontanamente ai tuoi livelli, anche se in effetti non dormo granché…
-Incubi?
-Più o meno.
-Credo che dovresti seriamente farti vedere da qualcuno.
-Mi stai suggerendo di vedere uno psicologo?
-Più o meno.- Hiroto imitò la mia risposta, serio, anche se gli angoli della sua bocca erano piegati leggermente all’insù; mi diede un bacio a fior di labbra, troppo rapido perché potessi ricambiarlo, poi sciolse l’abbraccio e si allontanò da me, visibilmente nervoso. C’erano già molte cose a preoccuparlo e non volevo che pensasse di starmi dando fastidio, ma quando mi lasciò andare mi sentii effettivamente meglio, quasi più leggero, come se mi fossi tolto un peso. Lo guardai, confuso, ma Hiroto distolse lo sguardo prima che i nostri occhi potessero incrociarsi.
-Dove vai?- gli chiesi, nel tentativo di trattenerlo ancora un po’.
-In archivio. Spero di trovare qualche altra notizia utile, mi manca qualche tassello- rispose, l’ultima parola si sfumò in uno sbadiglio. –Siamo giunti alla conclusione che Kageyama è uno dei responsabili dell’esplosione che ha causato l’incidente che, qualche anno fa, ha tolto la vista a Luce Ardena… Tuttavia, abbiamo anche scoperto che Kageyama ha spostato molti soldi dal proprio conto a quello dell’ospedale. Non sappiamo perché, ma sembra che voglia aiutare Luce.
-Scommetto che a Fudou tutto ciò non fa tanto piacere- commentai, pensieroso.
–Immagino che per lui, più di tutti, sia difficile accettare che Kageyama non sia cattivo. È più semplice odiare una persona cattiva, giusto?
-Ma perché proprio Luce? Voglio dire, non sarà certo la prima vittima che ha fatto… Se è soltanto compassione, perché Luce e non Fuyuka?
-Non lo so. È quello che vorrei scoprire. Sarà meglio che vada- concluse, fece scrocchiare le dita delle mani e afferrò la sciarpa marrone appesa accanto alla porta. –Ci vediamo più tardi- mi salutò con un flebile sorriso, appena prima di uscire, poi chiuse la porta alle sue spalle lasciandomi solo. Restai a fissare l’elastico al mio polso per qualche secondo, poi finalmente mi decisi a legarmi i capelli, questa volta la coda mi venne bene al primo tentativo.
Mi alzai e andai verso la scrivania, la mia pistola era in un cassetto insieme al mio distintivo; li presi entrambi, perché dalla volta in cui Fudou mi aveva colto alla sprovvista non giravo mai senza. Il ragazzo di Ehime era uno psicotico, un folle, ma non uno stupido, e aveva ragione: un agente non dovrebbe mai essere impreparato. Probabilmente, lui stesso lo aveva appreso tramite esperienza personali (piuttosto traumatiche).
Mi alzai la maglietta e osservai i grandi cerotti bianchi sulla pancia. Siccome le mie ferite erano quasi del tutto guarite, sembrava impossibile che l’esplosione fosse avvenuta solo tre giorni prima… Ma io rivedevo quelle scene ogni volta che chiudevo gli occhi, facevano ormai compagnia a vecchi fantasmi, e, di fatto, era difficile non notare l’assenza di Sakuma, Genda e Shinobu sul lavoro. Dei quattro agenti di Ehime venuti da noi, ora era rimasto solo Fudou, che era fin troppo occupato (ossessionato) nel fare la guardia all’ospedale per farsi vedere nella nostra sede.
Pensai che probabilmente Reina e Maki erano state mandate a dare il cambio a Kazemaru ed Endou all’ospedale, mentre sapevo con certezza che Nagumo, Suzuno e Hiroto erano negli uffici a scavare negli archivi. Decisi di raggiungerli, perché ero preoccupato per Hiroto e perché non avevo niente da fare; a causa dei recenti avvenimenti, Hitomiko mi aveva detto di restare a riposo per un po’ (sospettavo che dubitasse della mia lucidità, o meglio del mio stato mentale post-shock). Non fare niente, però, mi innervosiva.
Scesi le scale e andai al piano terra, dritto verso l’ufficio di Gazel, dov’erano conservati fascicoli di vecchissima data –lui non buttava mai niente, era fermamente convinto che ogni cosa potesse risvegliare il suo interesse in qualunque momento. Come facesse, poi, a ritrovare le cose in tutto quel caos, restava un mistero… Mi si strinse lo stomaco: questo pensiero mi aveva fatto ricordare l’ultima volta che ero stato nella libreria. Genda era con me, mi aveva aiutato a fare un po’ d’ordine e mi aveva tirato su di morale, sorrideva ignaro che poche ore dopo…
Scossi il capo per scacciare i brutti ricordi.
Potevo sentire la voce di Burn attraverso la porta; era rumoroso come sempre.
-Vuoi piantarla di starnazzare?- gli sibilò Gazel, in tono di rimprovero. –Ti ricordo che questo posto brulica di impiegati, che non sono autorizzati a conoscere certe informazioni. E se qualcuno passa di qui, cosa? Gli si taglia la testa perché per caso ha sentito un idiota parlare a volume troppo alto?
Dal rumore che seguì, immaginai che lo avesse colpito con un fascicolo.
-Vaffanculo- ribatté l’altro, ostile, ma abbassò la voce.
-Credi che Fudou sarà d’impiccio?- Gazel lo ignorò e parve rivolgersi a Hiroto, che sospirò.
-Kageyama tornerà all’ospedale per Fuyuka. Non sappiamo perché, ma tutto lascia intendere…- S’interruppe, fece una pausa, poi riprese:- Fudou è un ottimo agente, ma ho paura che non sia particolarmente affidabile in questo momento. È troppo coinvolto. E ora che sa di Kageyama, diventerà anche peggio… Non so perché mia sorella abbia deciso di dirglielo, forse non può non informarlo dei dettagli perché è una Spy Eleven.
-Ardena e i suoi sono sul posto, magari eviteranno che faccia una strage per arrivare a Kageyama…
-Non lo so. Anche Fideo è troppo coinvolto. Ah, non so più che pensare. Sono distrutto…
A questo punto, mi voltai e tornai sui miei passi. Le parole di Hiroto avevano risvegliato in me un brutto presentimento e c’era solo un posto dove potevo andare per accertarmene.
 
xxx
 
Le porte dell’ascensore si aprirono ed io scivolai tra due infermieri per uscire. Il silenzio era pregnante, quasi inquietante –era normale per un ospedale essere così quieto? Solo il rumore dei miei passi sul pavimento risuonava alle mie orecchie mentre mi guardavo intorno, stupito che non mi fossi imbattuto ancora in nessun conoscente. Quel posto non avrebbe dovuto brulicare di agenti? Si nascondevano, era chiaro. La situazione si era fatta improvvisamente molto delicata, ognuno sapeva che un passo falso sarebbe stato fatale, per Fuyuka o per Luce. O per entrambe, soprattutto visto che il vero intento di Kageyama non era per nulla stato chiarito.
Non appena spinsi in avanti la porta del reparto, una voce mi fece girare di scatto.
-Ma guarda chi si rivede. Sbaglio o tu non dovresti essere qui?
Alla mia destra, appoggiato all’altra porta, Fudou Akio mi osservava: non sembrava irritato né annoiato, ma solo curioso. E c’era un ché di scherno nella sua espressione, il che mi fece intendere che la sua domanda non necessitava una risposta.
-Non sono mai stato bravo ad obbedire agli ordini- dissi ugualmente, fissandolo.
-Sì, lo immaginavo. Sei un ficcanaso coi fiocchi, mmh?- Annuì con l’aria di chi la sapeva lunga, infilò una mano in tasca e ne tirò fuori un pacco di Marlboro rosse, che sembrò voler aprire; all’ultimo, forse ricordandosi di essere in un ospedale, ci ripensò e si limitò a stringerlo nel palmo. commentò.
-Mi hanno detto che sei un empatico- buttò lì, vago, apparentemente senza logica.
-E quindi?
-Be’, nulla di ché. Solo che deve essere una gran bella seccatura. Non mi stupisce che tu sia diventato un piantagrane. Insomma, scommetto che hai già abbastanza problemi mentali- (si picchiettò il dito sulla fronte in un segno fin troppo chiaro) –senza aggiungere quelli altrui, e preoccuparsi sempre degli altri è stancante… Devi essere un masochista.
-Non tutti sono stronzi come te.- La mia risposta acida lo fece sghignazzare.
Scosse il capo, lanciò in aria il pacchetto e lo riprese al volo.
-No- convenne. –Però devi ammettere che al mondo c’è molta più gente come me che non come te. Direi che una proporzione di dieci a uno dovrebbe dare l’idea… di una battaglia persa in partenza.
-È così divertente fare la parte del cattivo?
-Oh, senti, vaffanculo. Non si può sempre scegliere che parte fare.
-E invece sì!- lo interruppi, determinato a chiudergli la bocca. Mi stava irritando come mai prima, forse proprio perché sapevo che non aveva del tutto torto.
-Ah, ma allora sei un idealista! Quindi devi essere per forza masochista. Fantastico.- Alzò gli occhi al cielo, sarcastico. –Comunque, ci sono già le tue colleghe a mettermi il bastone tra le ruote, quindi torna a casa.- Si era spazientito ed era evidente che non aveva più voglia di parlare. Con la mano mi fece cenno di andarmene; vedendomi restare immobile, si staccò dalla porta e si piantò davanti a me. Nonostante fossimo più o meno alla stessa altezza, riusciva ad apparire piuttosto intimidatorio e pensai che mi avrebbe buttato fuori a forza, invece mi mise soltanto una mano sul petto, come se volesse spingermi.
–Vattene- m’intimò, serio. –Non ho tempo da perdere con te…
-Fudou? C’è qualcuno?
La Spy Eleven fece schioccare la lingua contro il palato, seccato. –Ecco, arriva un’altra rompiscatole…- brontolò, mi lasciò andare e si voltò verso Reina, che era appena uscita dalla stanza di Fuyuka e avanzava verso di noi. I suoi occhi blu si posarono sprezzanti su Fudou, poi si volsero a me e si riempirono di stupore e disapprovazione.
-Tu non dovresti essere qui- constatò.
-Brava- si complimentò Fudou, sarcastico. Reina gli scoccò un’occhiata torva, ma decise che, per il momento, parlare con me era più importante.
-Hitomiko ti aveva detto di stare a casa. Ma tu ascolti mai quello che ti dicono?- mi rimproverò. Non sapendo cosa dire, tacqui e mi misi a fissare ostinatamente il pavimento; Reina mi osservò a lungo, infine sospirò rassegnata e mi posò una mano sulla spalla.
-Va bene, resta- acconsentì. –Tanto lo faresti in ogni caso… Puoi venire con me e Maki a far compagnia a Fuyuka, se ti va- aggiunse, ignorando volutamente l’espressione indignata di Fudou, al qual sicuramente non faceva piacere avere altra gente tra i piedi.
-Ho detto che se ne deve andare- intervenne, infatti, in tono perentorio.
-Perché? Non da’ nessun fastidio.- Reina non si lasciò intimorire. Fudou digrignò i denti.
-Non ho bisogno di motivazioni per cacciarlo. Il mio grado è superiore al vostro, per cui dovete obbedirmi… anche se non sono la Spy Eleven del vostro distretto- dichiarò, bloccando con l’ultima frase qualunque protesta alla quale potessimo ricorrere. Reina non distolse lo sguardo, ma più che sfida sul suo volto si leggeva un’accettazione sofferta. Si girò verso di me, ma prima che potesse dirmi qualcosa, un improvviso rumore di vetri infranti ruppe il silenzio.
I nostri sguardi s’incrociarono per un secondo, poi si diressero verso la stanza di Fuyuka, da dove era appena uscita una persona completamente avvolta in un mantello beige, che gli copriva anche spalle e viso come un burka: tra le sue braccia la ragazza si dimenava e gridava aiuto, ma il braccio premuto sotto la gola le soffocava la voce e con l’altra mano lo sconosciuto le premette un panno su bocca e naso. Doveva trattarsi di qualche narcotico… Lei si mosse ancora per qualche istante, lottando invano, e infine s’addormentò.
-Bastardo- sibilò Fudou, scattò in avanti prima che potessimo fermarlo come se volesse aggredire il rapitore, che però arretrò velocemente di qualche passo. La Spy Eleven di Ehime si fermò a pochi metri da lui, ringhiando, ma senza poter fare nulla: se avesse sparato, avrebbe colpito Fuyuka, e non voleva ferirla. Non un’altra volta. I suoi dubbi, i suoi conflitti, si leggevano facilmente sul suo viso solitamente impassibile.
Lo sconosciuto indietreggiò fino alla finestra in fondo al corridoio e… saltò.
Fudou corse immediatamente al davanzale. –Dannazione!- gridò, si girò subito e andò alle scale d’emergenza prima che potessimo raggiungerlo. Reina mi fece un cenno molto rapido di controllare la stanza, poi si lanciò all’inseguimento; obbedendole, tornai alla stanza e trovai Maki stesa a terra: era stata presa alla sprovvista, colpita sulla nuca, e addormentata. Bestemmiai; non doveva essere gente qualsiasi, doveva per forza esserci lo zampino di Garshield in tutto ciò.
-Maki… Maki!- La chiamai, la presi tra le braccia e la scossi, e piano piano lei riaprì gli occhi.
-Midorin… m-mi dispiace, io…- mormorò, con gli occhi velati di lacrime: aveva già compreso cosa fosse successo senza che dovessi dirlo. Le accarezzai il capo con dolcezza e cercai delle parole per rassicurarla, ma per la seconda volta nel giro di un quarto d’ora l’aria si riempì del fracasso di vetri infranti, un rumore stavolta proveniente dal piano inferiore.
Aiutai Maki a tirarsi su gettandomi un suo braccio intorno alle spalle, ma lei mi assicurò che riusciva a camminare da sola. –Non voglio essere un peso- disse, seria. -Non so cosa troveremo lì sotto, ma devi avere le mani libere. Dovrai essere in grado di sparare.
 
Al contrario di ciò che temevo, al piano di sotto non regnava l’inferno di quel giorno.
Non c’era nessun morto, o ferito, a vista e l’unica prova che quel rumore c’era stato davvero erano le schegge di vetro che avevano inondato il pavimento come un’onda: tre finestre erano state sfondate e le impiegate si erano nascoste sotto i banconi. Maki si avvicinò si abbassò per spiare i loro volti spaventati. –State bene?- chiese sottovoce.  Annuirono, erano nel panico, ma incolumi. –Restate qui, non muovetevi- disse Maki, si rialzò e si girò come me verso l’interno della stanza. Le porte del reparto erano aperte e davanti a me c’era un lungo corridoio vuoto ed immerso nel silenzio, un silenzio greve ed innaturale. Dov’erano le persone che urlavano, il panico generale? Gli attentatori sembravano essersi dissolti nel nulla, e di Kageyama non c’era traccia…
-Che piano è questo?
Maki guardò il cartellone appeso di fianco ai banconi. -Il terzo, perché?- rispose, stupita della mia domanda improvvisa e a suo parere insensata. Non poteva sapere che pensare a Kageyama mi aveva riportato in mente Luce, e che la sua camera era proprio al terzo piano.
Senza rendermene conto, accelerai e mi lanciai senza nessuna prudenza verso la stanza della bambina, la cui porta era rimasta chiusa: la aprii e ciò che trovai non mi piacque affatto.
Anche questa finestra era stata distrutta, il vetro copriva il letto sfatto e la moquette e il vento scuoteva le tende trasparenti, e Luce non c’era. Apparentemente, non c’era nessuno, ma del sangue fresco gocciolava dal davanzale. Corsi alla finestra e guardai giù. Il salto non era molto alto, ma era pur sempre un terzo piano, mentre quello di prima era sceso dal quarto con un balzo… Chi avrebbe mai potuto…?  
Qualcuno, alle mie spalle, trattenne il fiato.
Maki era entrata dopo di me, la vidi inginocchiata a terra mentre con una mano alzava le lenzuola. –Midorikawa- sussurrò, preoccupata. –Qui c’è un ragazzo…- Luca era sotto il letto, rannicchiato su se stesso, con le mani premute sulle orecchie. Tremava. Mi affiancai a Maki e allungai una mano e gli sfiorai il braccio; lui sussultò e si ritrasse.
-Ehi, ehi, stai tranquillo. Non ti farò niente, sto dalla tua parte…- Sentendo queste parole, il ragazzino si convinse ad alzare timidamente gli occhi. Parve riconoscermi.
-T-tu… sei venuto all’ospedale… con F-Fideo…- balbettò.
-Sì, esatto- confermai, poi domandai:- Cos’è successo, Luca? Questa stanza è…- M’interruppe singhiozzando rumorosamente. La voce gli tremava ed era difficile distinguere bene le parole, ma afferrai il senso generale. –Sono venuti a prendere Luce?- dissi, attesi che me lo confermasse, proseguii:- Luca, ho bisogno che tu mi aiuti, che tu mi dica dov’è Fideo.
Scosse il capo violentemente e continuò a piangere. –Non lo so- singhiozzò. –Mi ha detto di nascondermi. Hanno combattuto, poi… n-n-non lo so!
-E non sono usciti dalla porta, immagino- brontolai, ormai del tutto convinto che il salto dalla finestra lo avessero fatto eccome, sia Fideo che il rapitore. Uno dei due doveva essere anche ferito, a giudicare dal sangue, e speravo che non fosse l’italiano.
-Luca, seguimi- dissi. Non potevo certo lasciarlo lì e, dopo qualche momento di riflessione, avevo risolto che la cosa migliore fosse portarlo con me e proteggerlo; visto che non si muoveva, gli afferrai le braccia e lo trascinai di peso fuori dal nascondiglio.
-Luca- lo chiamai con decisione, facendo in modo di concentrare tutta la sua attenzione su di me.
-So che hai paura, è un’orrenda situazione, ma devi farti forza.
-C-credi che F-Fideo e L-Luce siano ancora v-vivi?- Mi fissò, sull’orlo di nuove lacrime isteriche.
-Lo scopriremo solo uscendo di qui- conclusi e lo tirai via senza dargli una risposta definitiva: non ne sapevo più di lui, non volevo giungere a conclusioni affrettate. Guardai Maki, che colse al volo il cenno e prese la mano di Luca, prendendolo sotto la propria custodia. Tornammo nel corridoio e continuammo a percorrerlo fino alla fine, tenendoci il più possibile sotto i muri: avevo notato che una delle camere in fondo era aperta.
Mi fermai poco prima dello stipite, facendo segno a Maki e Luca di non fare rumore. Probabilmente avevano sentito i nostri passi, perciò dovevamo stare attenti…
Inspirai profondamente prima di scattare di lato e puntare la pistola verso chiunque ci fosse dentro: l’altra persona si girò di scatto e ci trovammo fronte a fronte, arma contro arma. Rilasciai il respiro che stavo trattenendo quando Luca s’illuminò ed esclamò:- Marco!-
L’altro cambiò subito espressione e abbassò la pistola, sollevato e nervoso al tempo stesso. Sembrava avesse passato momenti difficili a sua volta (aveva gli occhi arrossati di chi ha pianto, o è stato sul punto di) e, quando si passò una mano sul volto sudato, si lasciò per sbaglio una strisciata di rosso sporco sulla guancia. Seguii il movimento della sua mano verso il basso e il mio sguardo cadde sulle lenzuola pregne di sangue.
–Cosa…?- domandai, sconvolto, Maki sussultò e Luca si coprì la bocca con le mani. Marco si morse il labbro inferiore. Cercava di mantenere la calma, ma la voce lo tradì con un tremito.
-È Gianluca. Gli hanno sparato a una spalla e ha perso i sensi- m’informò, indicandomi il compagno seduto a terra, dietro il letto, con la schiena appoggiata al muro. Era coperto di sangue, era bianco in viso come un morto, ma il respiro che gli faceva alzare e abbassare il petto era regolare: Marco gli aveva legato un lembo del lenzuolo intorno alla ferita e la stretta aveva in qualche modo evitato ulteriori dissanguamenti. Maki lasciò la mano di Luca e si sedette al fianco del ferito: osservò per un po’ la fasciatura improvvisata. –Hai fatto un buon lavoro a bloccare l’emorragia.- Slegò il lenzuolo per guardare meglio la ferita. -Hai tolto anche il proiettile?
-Ho dovuto farlo- ammise l’italiano. Scrutai il suo viso pallido e teso: aveva ancora le mani sporche del sangue di Gianluca, estrargli un proiettile dalla carne sicuramente non era stata un’esperienza piacevole per nessuno dei due. Maki però non fece alcun commento al riguardo; si limitò ad offrirgli il più piccolo dei sorrisi, insieme alle parole:- Perfetto. Ora ci penso io.
Gianluca emise un gemito di dolore quando lei gli sfiorò la ferita, Marco scattò per intervenire in suo aiuto: temeva che gli stesse facendo del male, ma si fermò da solo intuendo la verità.
Io per primo non avevo mai visto Maki usare i suoi poteri, e tutti e tre restammo a fissarla basiti.
All’apparenza stava soltanto toccando lo strappo, ma non era così; ad un’occhiata più attenta si potevano intravedere dei piccoli fili fuoriuscire dai polpastrelli, fili di una trasparenza luminosa che s’insinuavano nei lembi di pelle e li tiravano con delicatezza l’uno verso l’altro: lo stava ricucendo. Maki non era solo brava a cucire vestiti, lei poteva riaggiustare tutto.
Quando il suo lavoro terminò, la spalla di Gianluca era liscia come se nessun proiettile l’avesse mai graffiata, anche se i vestiti zeppi di sangue rivelavano il contrario.
-Starà bene?- s’informò Marco, ancora titubante.
-Una meraviglia. Be’, forse non proprio, considerato che ha perso un bel po’ di sangue… Diciamo che forse sarà un po’ confuso e non si terrà in piedi, ma poi gli passerà tutto. La ferita è guarita.
La guardai estasiato. –Maki… sei fantastica. 
-Ho fatto ciò che potevo. Comunque, la maggior parte del merito va a lui- Indicò Marco. –Se non avesse tolto il proiettile, non avrei potuto far molto nemmeno io.
-Grazie infinite.- Marco le era davvero riconoscente. Il suo volto sbiancò quando il suo sguardo si posò su Luca. –A proposito… Dov’è Fideo?- domandò subito.
-Non lo sappiamo, e Luce è stata rapita.- Odiavo portare brutte notizie, ma qualcuno doveva pur farlo. Marco sussultò, preso alla sprovvista; spostò lo sguardo da me a Gianluca, la sua espressione rispecchiava il conflitto interiore che stava vivendo: era preoccupato per Fideo, voleva andare a salvare Luce, ma al tempo stesso non avrebbe mai lasciato da solo il suo partner.
-Ci pensiamo noi, tu resta qui- dissi in fretta. –Posso lasciare Luca qui con te?
Il rosso mi studiò per qualche secondo, poi annuì. -Buona fortuna.
-Anche a voi- risposi, serio. Mi sporsi di poco dalla porta e controllai che non fosse comparso nessun ospite indesiderato, quindi feci un cenno a Maki.
Dal piano terra venivano voci e rumori ben poco rassicuranti.
 
Già a metà delle scale intravidi delle persone.
-Reina- sussurrò Maki, felice di aver ritrovato la propria partner sana e salva. In effetti, la ragazza dai capelli blu sembrava star bene fisicamente, ma non era ancora fuori pericolo; anzi, seguendo Fudou, si era trovata bloccata in una situazione difficile da cui uscire.
Feci un altro passo in avanti per spiare meglio la stanza, il tonfo di un corpo che cadeva a terra mi fece sussultare: il rapitore di Fuyuka era caduto in avanti, il mantello restò sollevato per un istante per lo spostamento d’aria prima di coprire il corpo squarciato all’altezza dello stomaco. Avevo visto solo una persona produrre certi danni, pensai rabbrividendo. Fudou non sapeva proprio come controllarsi. Rapidamente, ma con prudenza, scendemmo fino in fondo la scalinata e arrivammo alle spalle di Fudou e Reina; la ragazza ci rivolse uno sguardo ansioso, l’altro ci ignorò.
E per un buon motivo.
I suoi occhi erano infiammati di rabbia mentre, davanti a sé, Kageyama raccoglieva il corpo di Fuyuka lasciato dal rapitore e lo sollevava tra le braccia.
-Bastardo… spunti sempre fuori nei momenti meno adatti. Meglio così, ti ucciderò ora! Lascia subito Fuyuka!- abbaiò la Spy Eleven, con la pistola ben in vista. –Ti aprirò un buco in pancia, come ho fatto con questo sfigato.
Kageyama non parve impressionato. La sua bocca si piegò in una piccola smorfia, né divertita né spaventata, solo sprezzante. –Dovrò deluderti di nuovo. La ragazza viene con me- affermò.
L’altro emise un suono molto simile al ringhio di un lupo, e non avevo dubbi che fosse pronto a saltargli alla gola e ad azzannarlo. –Lasciala. Andare. Ora- ordinò, gelido.
L’uomo dai capelli biondi iniziò ad arretrare, era molto accorto e non avrebbe mai dato le spalle al proprio nemico. O ai propri nemici. Appariva molto più interessato ai dintorni che non alla canna di pistola puntata su di lui. –Ho la ragazza. Dovete rispettare lo scambio- disse, alzando appena il tono della voce. Ci guardammo intorno (tutti tranne Fudou, che non lo perdeva d’occhio nemmeno un secondo) in cerca della persona a cui si stava rivolgendo.
Poi lo vedemmo.
Sul bancone più lontano da noi c’era un ragazzo, in tutto e per tutto identico a quello morto sul pavimento, con lo stesso mantello beige che copriva anche il volto; manteneva in braccio una bambina con i capelli biondi e gli occhi chiusi, avvolta in un lenzuolo. Kageyama sussultò visibilmente a quella vista e non fu l’unico.
La bambina era Luce.
-Dammi la figlia di Kudou e in cambio ti darò lei- disse il rapitore –anche se ancora non ci è chiaro perché tieni tanto ad una creatura così insignificante…- Suonava riluttante.
-Ma certo…- mormorò Reina, amara. –Ora è tutto chiaro… Garshield vuole che Kudou lavori per lui, e sa che lui accetterà solo se sotto ricatto… Kageyama gli consegnerà Fuyuka in cambio di Luce!-
Quasi non aveva finito di parlare che Fudou gridò:- Be’, io non lo permetterò!- Sollevò nuovamente il braccio armato e sparò sul ragazzo in beige.
Ma il proiettile, contro ogni aspettativa, deviò improvvisamente verso il soffitto, dove esplose. Un largo pezzo d’intonaco venne tirato giù e si schiantò a terra in mille pezzi, le schegge volarono ovunque; Kageyama lo evitò scartando di lato, ma dovette lasciar andare Fuyuka, che cadde e rotolò sul pavimento. Quando la nube di polvere bianca si diradò, Fudou schioccò la lingua, arrabbiato. –Non rompere il cazzo, Ardena- sibilò all’agente che era comparso di fronte a lui.
-Non prendo ordini da te, mi pare- rispose l’italiano: era arrivato così rapidamente che nessuno di noi l’aveva visto, e il suo pugno era ancora ben stretto sul polso dell’altro, che aveva spostato giusto in tempo per virare il colpo verso l’alto.
-Stavi per colpire mia sorella!- gridò; anche lui abbastanza fuori di sé, tirò un pugno alla Spy Eleven di Ehime, il cui volto scattò di lato. Per lo shock lasciò cadere l’arma, che scivolò lungo il pavimento, fino a fermarsi per caso proprio vicino al corpo di Fuyuka, ancora svenuta.
Fudou sputò a terra il sangue del labbro spaccato.
–Vaffanculo, Ardena. Io ti ammazzo!- ruggì, restituendo senza esitazione il colpo subito.
Reina s’intromise e cercò di dividerli. –Non è proprio il caso di discuterne adesso!- li rimproverò, fregandosene di star gridando contro due suoi superiori. Aveva ragione, le priorità erano altre.
Il misterioso rapitore, indifferente davanti alla scena, aveva infatti raggiunto Kageyama: gli gettò la bambina senza delicatezza alcuna e stese il braccio verso di loro.
-Ci hai provato, Kageyama- affermò, freddo come il ghiaccio. -Ora mi prenderò Kudou, e tu morirai insieme alla tua amata protetta.- Si sfilò il guanto nero dalla mano, mentre il suo palmo si illuminava di una sinistra luce violetta. -Non avresti dovuto tradire Garshield. È la fine.
Non c’era tempo per pensarci due volte.
Diressi la mia pistola contro di lui e sparai: il mio proiettile gli scalfì il dorso della mano, che ritrasse d’istinto per il bruciore. Si osservò il rivolo di sangue che scendeva nell’incavo tra pollice e indice (probabilmente avevo tagliato qualche vena superficiale), poi si girò e i suoi occhi si strinsero ostili posandosi su di me. –Non interferire- disse in tono di comando, fece un cenno con la mano e una frustata di energia mi colpì i polsi, facendomi volare via la pistola. Sibilai di dolore, ma nel frattempo il mio gesto aveva fatto prendere tempo a Fideo e Fudou, che misero da parte le divergenze per fronteggiare il nemico.
-Non toccare mia sorella!- Fideo si rivolse allo sconosciuto con un tono a dir poco incazzato, e aggiunse una serie di insulti in italiano che non capii (ma il significato era chiaro). In un attimo –il suo potere gli permetteva di spostarsi in modo netto e rapido, al punto tale che era difficilissimo vederlo muoversi- raggiunse il ragazzo e gli tirò un pugno ad altezza viso. L’altro si spostò e rispose con un calcio, che Fideo gli bloccò con un braccio; tentò di nuovo di colpirlo con l’altra mano, ma quello balzò all’indietro facendo leva sulle mani e si riportò in posizione eretta, con un’elasticità degna di un acrobata circense. Stava per preparare un’altra mossa, tuttavia dovette interrompersi per schivare un pugno di lato che gli arrivava da Fudou. 
-Kageyama è il mio nemico, ma tu mi stai davvero sul cazzo- dichiarò la Spy Eleven di Ehime -perciò eliminerò prima te!
Ora erano in due contro uno, ma il ragazzo, chiunque egli fosse, era dannatamente forte, riusciva ad evitare gli attacchi prima dell’uno e poi dell’altro, rispondendo di tanto in tanto: usava solo tre arti per contrastarli dato che teneva nascosta la mano ferita all’interno del mantello. Quando la estrasse di nuovo, le dita ossute e sanguinanti stringevano il manico di un pugnale nero, che roteò in aria con un movimento quasi inesistente. Fideo, che già l’aveva visto in azione, riuscì a schivarlo appena e si tagliò solo superficialmente la guancia, mentre Fudou non se l’aspettava e il metallo gli affondò nel polpaccio, facendolo piegare in due per il dolore acuto: lottò con tutto se stesso per restare in piedi, tuttavia la gamba sana, non riuscendo più a reggere il peso del corpo, lo tradì e lo trascinò a terra. Con le mani premeva sulla ferita nel tentativo di arrestare il flusso del sangue che schizzava fuori a fiotti e, intanto, perdeva rapidamente colore in viso, ma non per questo si dava per vinto; più d’una volta tentò di rialzarsi, di combattere, mentre lanciava versi di frustrazione e puro odio verso il suo carnefice, il quale assisteva impassibile. Fideo gridò il suo nome e, come tutti noi, avrebbe voluto fiondarsi in suo soccorso, ma il ragazzo dal mantello beige aveva tracciato una linea d’energia tra noi e loro, come un avvertimento: chiunque l’avesse sorpassata, sarebbe morto. Iniziò ad avvicinarsi a Fudou, lentamente, passo dopo passo…
-Ah… che visione patetica- constatò in tono piatto. -Giocate a fare gli eroi, le spie… E questo mondo, indifferente a tutti i vostri bei valori, vi prende a calci. Disgustoso. Ora sai cosa farò? Ti taglierò la gamba. Poi l’altra. Ti farò a pezzi, un arto dopo l’altro, poi passerò agli organi interni… Sembra divertente, vero? Vedi di non farmi annoiare…
-Non toccare Akio-san!
Il ragazzo si fermò e si girò lentamente nella direzione da cui proveniva la voce.
-Fuyuka- mormorò Fudou. Tutti eravamo scioccati, ma lui più di tutti; la sua ragazza si era svegliata ed era in piedi: era instabile, tutto il corpo le tremava per lo sforzo, e di certo senza il muro a cui appoggiarsi sarebbe caduta, ma anche se a stento si reggeva sulle proprie gambe. Ricordai ciò che mi aveva raccontato Kidou e mi resi conto che era praticamente un miracolo. Poi però notai che aveva raccolto la pistola persa da Fudou e la teneva stretta tra le mani.
-La principessa che salva il principe? Non me l’aspettavo- la schernì il nemico, perdendo improvvisamente interesse per Fudou e cambiando obiettivo. -Purtroppo non posso ucciderti, ma sarà affascinante vederti piangere mentre ti tortureremo… Hai una pelle così bella… Sarà un piacere farci qualche taglietto…- Con le dita accarezzò il bordo del pugnale. 
-No! Fuyuka, stai indietro!- gridò il ragazzo, costretto a strisciare per terra con la gamba sanguinolenta. –Lasciala stare!- Si rivolse all’aggressore, arrabbiato, disperato.
Fuyuka non arretrò di un passo (non avrebbe potuto neanche volendo, il suo equilibrio era così fragile!) e non smise di puntare la pistola contro il ragazzo che avanzava verso di lei, pur vacillando pericolosamente. –Se farai del male ad Akio-san- sussurrò –non ti perdonerò!
Non osavamo muovere un muscolo, l’aria era così piena di tensione da diventare soffocante.
Poi ci fu un fischio, il nemico si irrigidì di colpo e cadde in avanti con un tonfo sordo.
Restammo tutti immobili ancora per qualche secondo, scioccati, e ci rilassammo solo una volta intuito che non si sarebbe mosso più, che tutto era finito. Reina corse al fianco di Fuyuka: con delicatezza le tolse l’arma e la sorresse, impendendole di cadere a terra per l’improvviso calo d’adrenalina. I suoi occhi azzurri erano spalancati per lo shock e la confusione.
–Io… I-Io non…- balbettò.
-Lo sappiamo. Non sei stata tu- la confortò Reina, con decisione. Fuyuka annuì, sollevata.
-Akio-san… portami da Akio-san- mormorò e si fece timidamente aiutare a raggiungere l’amato, su cui intanto Maki stava usando i suoi poteri: non appena le vide avvicinarsi, subito si riscosse e tese le braccia per attrarre Fuyuka a sé. Le prese il volto tra le mani e la osservò per accertarsi che stesse bene, poi parve ricordarsi di qualcosa. –Fuyuka… tu… le tue…- disse, ancora scosso.
La ragazza si lasciò cadere vicino a lui, si coprì il volto e scoppiò a piangere tra le mani.
-Akio-san, mi dispiace tanto! In realtà… la riabilitazione sta andando bene, davvero bene, e ho provato… h-ho provato molte volte a dirtelo, ma n-non ce l’ho fatta, perché avevo paura!
-Paura…?- Fudou la guardò, confuso.
-Ero così… spaventata… C-Credevo… Ho tanta paura che una volta guarita tu non ti preoccuperai più di me… e ora tu mi odierai…!- Provò ad andare oltre, ma la voce le si spezzò e il pianto si trasformò in una serie di singhiozzi sconnessi e isterici. Dopo un attimo d’esitazione, Fudou le scostò le mani dal viso e la costrinse a guardarlo.
–Ehi- sussurrò. –Ehi, guardami. Non ti odio.- Lei scosse violentemente il capo e l’agente sospirò, esasperato. -Che scema che sei… Volevo proteggerti perché mi piaci… e per lo stesso motivo non me ne sarei mai andato.- La baciò a fior di labbra. –Abbi un po’ di fiducia in me, e che cazzo.
Fuyuka sorrise debolmente e lo abbracciò forte. –Akio-san, ti amo. Ti amo, ti amo- lo ripeté sottovoce, con dolcezza, ignara che il volto dell’altro stesse diventando sempre più rosso-violaceo a causa del profondo imbarazzo. Nascose il volto nel collo della sua ragazza, e d’un tratto la sua immagine di pericoloso sanguinario mi parve incredibilmente lontana.
 
Quando uscimmo, il cortile si era riempito di auto della polizia. Hitomiko ci venne incontro e notò subito la mia presenza: mi squadrò da capo a piedi e incrociò le braccia al petto, severa.
-Perché non sono sorpresa di vederti qui, agente Midorikawa?- La domanda retorica mi fece arrossire di vergogna, non osai levare lo sguardo verso di lei e rimasi a fissare il terreno come se fosse la cosa più interessante del mondo.
Kudou ci passò a fianco e prese Fuyuka per la vita, sollevandola da terra in un affettuoso e prepotente abbraccio di padre, mentre alcuni agenti prendevano sotto custodia Kageyama: l’uomo, stranamente, non aveva tentato la fuga e si era lasciato ammanettare da Fideo in modo rassegnato, quasi docile. Era difficile dirlo con certezza, visto che indossava degli occhialini da sole, ma il suo sguardo era spesso rivolto verso Luce, che si era svegliata e ora stava sulle spalle di Luca, seguita e controllata da Marco e Gianluca. Quando la bambina venne a sapere che Kageyama era lì, insistette per incontrarlo e Fideo la portò alla macchina in cui l’uomo sarebbe stato trasportato.
–Zietto, ero sicura che ci saremmo rincontrati- esclamò allegra Luce. Tese la mano in avanti e, come se fosse un gesto completamente naturale, Kageyama la chiuse tra le sue.
–Sono fredde come al solito! Sei proprio una persona calda, zietto- Rise, cristallina.
-Ma te ne stai andando? Posso venire a trovarti, vero?- aggiunse, improvvisamente angosciata dal pensiero di perdere ciò che aveva appena ritrovato.
-Luce…- Fideo la richiamò, cupo. Dubitava sinceramente che le avrebbero permesso di rivedere quello che era un criminale a tutti gli effetti, ma l’uomo lo anticipò prima che potesse dire altro.
-Quando riprenderai la vista- le disse (e il suo tono di voce era caldo e dolce in un modo che credevo immaginabile per una persona del genere) –sarò con te, in qualche modo.
Luce annuì, gli gettò le braccia al collo e sussurrò:- È una promessa, zietto.- Solo dopo averlo stretto forte si lasciò convincere a lasciarlo andare, Luca la portò via tenendola per mano e Fideo chiuse la portiera della macchina.
-Kageyama Reiji è da oggi ufficialmente sotto la custodia della squadra italiana come testimone chiave- annunciò Fideo, si voltò verso Fudou:- Obiezioni?
-Fai quel che cazzo ti pare, ma levamelo davanti o non assicuro niente- fu la risposta, ben poco cortese, dell’altra Spy Eleven. Fideo sorrise e gli offrì una mano.
-Mi dispiace di averti colpito, prima, non ero in me e…
-Ardena, chiudi il becco. Lo sappiamo entrambi che non ti dispiace e, sai cosa, a me non dispiace affatto di aver ricambiato. Anzi, un altro pugno te lo darei ora, non mi piace stare in parità.
-Che brutto carattere, sant’Iddio.- Fideo alzò gli occhi al cielo, rinunciò alla stretta di mano e tornò indietro, mentre Fudou gli mostrava il dito medio (decisamente non incline al perdono). Al di là della contentezza per la condizione di Fuyuka, aveva l’aria stanca, sbattuta; si era forse rannuvolato al pensiero di dover organizzare dei funerali. La missione si era conclusa, ma non senza strascichi o effetti collaterali: era sempre così.
Lanciò un’ultima occhiata alla sua ragazza, poi iniziò ad avviarsi verso l’uscita del cortile. Davanti al cancello c’era Kidou ad aspettarlo; Fudou parve intenzionato a far finta di non averlo visto a parlargli e solo quando lo ebbe superato di parecchi metri si fermò.
-Complimenti. Vedo che non ti sei rammollito, Signor-cecchino-migliore-del-mondo- commentò.
–Un colpo degno della tua maestria. Non aspettarti ringraziamenti.
-L’idea non mi aveva neanche mai sfiorato- ribatté Kidou, senza muoversi.
Impossibile capire se stessero sorridendo.
 
xxx
 
Una volta a casa, Hiroto ci raccontò quello che aveva scoperto su Kageyama: apparentemente, dopo la fuga da Ehime, aveva trascorso molto tempo in un ospedale italiano, dove aveva fatto amicizia con una bambina, Luce Ardena, la figlia del capo-reparto. Una volta ottenute le informazioni che gli servivano, però, Garshield gli aveva ordinato di distruggere il posto e Kageyama era stato erroneamente responsabile dell’incidente che aveva tolto la vista a Luce, e da allora, afflitto dai sensi di colpa, aveva fatto tutto il possibile per proteggerla.
-Non parlavamo mai di nostro padre… Insomma, è successo tutto all’improvviso… lasciò casa e disse che avrebbe lavorato all’estero, ma non ci mandava mai lettere né niente, riempiva solo di soldi il conto… Ma era Kageyama. È sempre stato lui, ora lo so. Mio padre dev’essere morto lo stesso giorno in cui Luce ha perso la vista… Kageyama ha pagato tutti i controlli, le operazioni. Non so davvero come sentirmi.- La voce di Fideo si spezzò, deglutì per proseguire, ma non ci riuscì. Anche lui era sopraffatto dalla stanchezza e dalle emozioni. C’erano troppe cose da accettare, alcune particolarmente difficili –la morte del padre, il fatto che Kageyama fosse allo stesso tempo un benefattore e un criminale e che loro non si fossero mai resi conto di quanto forte fosse il suo legame con Luce. La bambina gli voleva bene davvero e, quel che era più inverosimile, il suo affetto era ricambiato. Kageyama, pur pagandone duramente il prezzo, aveva raggiunto il suo obiettivo: l’aveva salvata.
 
xxx
 
[Normal P.O.V]
 
Atsuya fece scrocchiare  spalle e collo stiracchiandosi.
-Mi sento tutto indolenzito- si lamentò. –Sono contento che almeno stasera non si vedano brutte facce in giro. Quegli agenti della Inazuma Agency sono il mio incubo costante, ugh.-
-Oh, su. A me non dispiacciono… Il mio detective preferito mi mancherà, stanotte. Sono sempre così impegnati ultimamente… Dici che mi sta tradendo?
-Perché diavolo suoni così deluso? Tsk, dovresti proprio togliertelo dalla testa…
-Mmm, a te non piace proprio vero? Be’, meglio per me.
Atsuya gettò un’occhiata al volto soddisfatto del fratello e sbuffò, estremamente contrariato dalla nuova ossessione del fratello: Shirou era una persona mite e ragionevole, in genere, ma quando si fissava su qualcosa non c’era modo di distoglierlo, non avrebbe smesso di desiderarlo finché non lo avesse ottenuto e, anche in questo caso, forse sarebbe finito solo col volerlo di più. Dire che Atsuya non approvava questa nuova fissa, invero, era un eufemismo –il fatto che quel detective piacesse a suo fratello glielo faceva odiare ancora di più.
Nel frattempo Shirou aveva cominciato a lavorare sulla serratura del negozio; più faceva uscire la brina dai polpastrelli, più la maniglia si copriva di uno strato spesso di ghiaccio, e ben presto fu abbastanza fragile da permettere loro di distruggerla e aprire la porta con un calcio.
-Tutta tua- disse Shirou, spostandosi di lato per dargli spazio, e Atsuya si preparò ad alzare la gamba. Era pronto a sferrare il colpo decisivo, quando un rumore di passi alle loro spalle lo fece sussultare. –Ugh, ho parlato troppo presto? State sempre a rompere il cazzo, voi…- S’interruppe, basito: quello che aveva di fronte non era un agente della polizia, e decisamente nessuno che loro conoscessero. Aveva lunghi capelli bianchi che gli scendevano sulle orecchie, un neo rosso sulla fronte e una sciarpa bordeaux che gli copriva collo, spalle e parte del viso, fino al naso; proprio per questo, i gemelli non avrebbero saputo indovinare la sua espressione.
Tuttavia, erano ugualmente in grado di percepire le sue intenzioni poco amichevoli.
-Cosa cazzo vuoi tu? Non disturbarci- Atsuya ringhiò e scattò in posizione d’attacco. Non perdonava chi minacciava suo fratello ed era già determinato a combattere.
Lo sconosciuto si mosse appena, Shirou vide lo scintillio della luna riflettersi sulla lama, poi suo fratello cadde davanti ai suoi occhi in una fontana di sangue.

 
**Angolo dell'AutriceH**
Buonasera! :))
Questo capitolo è stato piuttosto difficile da scrivere perché ci sono parecchi colpi di scena e al tempo stesso fatti da chiarire; ho cercato di immaginare in che modo i vari personaggi si sarebbero comportati per dare maggiore coerenza al testo, per cui spero davvero di non essere stata noiosa e di non aver deluso nessuno! 
Qui si conclude la vicenda che coinvolge Kageyama/Luce/Fuyuka/Fudou, anche se questi personaggi riappariranno sicuramente più tardi nella storia; il capitolo mi è uscito molto lungo, ma volevo assolutamente chiuderla qui perché dal prossimo capitolo, il 30 (che bella, una cifra tonda!), inizia una nuova parte della storia.
 Questo era solo un "prologo", diciamo! Il vero nucleo dell'Hiroto's Arc ha come personaggio principale Hiroto uau, capitan-ovvio, ma mi concentrerò di più anche su Midorikawa, Kazemaru e Gazel. Inoltre, molte persone mi hanno detto che sentivano la mancanza dei Fubuki Twins, per cui è con piacere che vi dico che anche loro ricopriranno una parte più importante da questo capitolo in poi! Spero di avervi incuriositi XD
Un bacione,
         Roby     

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Capitolo 30
*** Mission 30. ~Hiroto's Arc. ***


Buonasera ♥. Chiedo scusa per l'orario indecente a cui posto questo capitolo, ma siccome ne avevo già scritto più di metà (e non so mai quando riesco ad aggiornare la prossima volta) ci tenevo a postarlo prima di partire per Pasqua. Questo è un capitolo importante perché introduce vari "temi" che saranno sviluppati nell'Hiroto's Arc. Buona lettura! :))


 

Ai miei lati non c’erano che libri, di ogni forma, peso e colore. Non mi interessavano; la maggior parte avevano nomi difficili, e comunque erano troppo in alto. Gli scaffali mi mettevano a disagio, davano l’impressione di potersi chiudere sul corridoio e schiacciarmi in un attimo. Per fortuna la mia destinazione non era lontana, lo sapevo; avevo memorizzato il percorso andando avanti e indietro nelle ore buie, cercando la strada a tentoni durante le prime volte, accarezzando gli spigoli dei tomi. La porta era proprio di fronte a me, dovevo solo aprirla. 
 



Aprii gli occhi di scatto, sorpreso, quando le mie dita strinsero qualcosa di morbido e caldo, nient’affatto simile alla maniglia di una porta. Occhi castani mi squadravano sorpresi e preoccupati.
–Midorikawa? Qualcosa non va?- mi interrogò il mio partner, abbassai lo sguardo: gli avevo afferrato inconsciamente il polso.
-Scusa- borbottai, con la voce impastata dal sonno. –Pensavo fosse… Lascia stare.
Mi sentivo tutto indolenzito ed avevo l’impressione che dormire non facesse altro che peggiorare la situazione: al contrario di quando ero totalmente esausto, il mio sonno non era pesante e privo di sogni e non riuscivo a distendere né muscoli né nervi.
Kazemaru continuava a fissarmi in attesa di una risposta. -Hai avuto brutti sogni?- incalzò. –Ancora un po’ e dovrai mettere il fondotinta per nascondere le occhiaie.- Fece un vago sorriso per farmi capire che scherzava.
-Sto bene- risposi, girandomi su un fianco perché potessimo parlare meglio. –Sono solo i soliti sogni… Sono diventati più chiari, concreti- sussurrai, poi notando il suo sguardo ansioso aggiunsi in fretta:- Nulla di comprensibile, comunque.
-Non fare così, sono preoccupato per te, sai. Non credi che possano riguardare il tuo passato? Forse dovresti cercare d’indagare più a fondo, potrebbe essere importante... Magari i tuoi ricordi stanno finalmente tornando a galla- insistette Kazemaru, testardo, non pareva disposto a cedere.
-Anche se fosse…- Feci una pausa, chiedendomi se fosse arrivato il momento di svelargli i miei segreti, ne avevo accumulati parecchi ormai. Mi resi conto con sorpresa che era la prima volta in mesi che eravamo soli, che potevamo parlare senza interruzioni, e che in un certo senso mi mancava quella confidenza con lui.
-Kazemaru, ascolta…- iniziai, inspirai profondamente per prepararmi a buttare fuori tutto, ma il rumore della porta che si apriva troncò il discorso sul nascere. Il mio partner si voltò di scatto e il suo sguardo s’illuminò in un modo che sapevo essere riservato ad una persona sola; certo di aver perso la sua attenzione, aprii lentamente le dita perché potesse scivolare fuori dalla mia presa e mi sollevai sui gomiti per guardare la scena. Kazemaru si alzò e si avvicinò a Endou, che gli mise un braccio intorno alle spalle e gli posò un bacio leggero sulla fronte.
-Midorikawa, tu dormi troppo- si rivolse poi a me, ridendo.
-Magari- replicai, sarcastico, e passai subito a ciò che più m’interessava:– Hiroto non è con te?
-Nah, credo che sia da Gazel.- Da Gazel? Cosa? Perché? Stavo per chiedere ulteriori spiegazioni, ma quel momento di riflessione era stato sufficiente a perdere anche l’attenzione di Endou, ora immerso in chissà quale vitale conversazione con Kazemaru, quindi fui costretto a lasciar cadere l’argomento e decisi di alzarmi definitivamente. Il primo passo era uscire dal letto, il secondo afferrare dei vestiti a caso dall’armadio, il terzo infilarmi in bagno e rimanerci finché quei due non avessero smesso di flirtare stupidamente.
Entrai nella doccia, girai le manopole per regolare la temperatura e abbassai l’erogatore perché non mi colpisse i capelli. Non avrei avuto il tempo di asciugarli. Il frastuono dell’acqua corrente era spiacevole, mi venne in mente che non pioveva da molto. Cercai di afferrare nuovamente i lembi del mio sogno, di collegarli in qualche modo alle sensazioni che la pioggia mi provocava; mi sembrava tuttavia che più mi sforzassi di fare chiarezza, più il senso mi sfuggiva, le immagini erano torbide e confuse, e presto mi innervosii a tal punto da non sopportare di restare ancora sotto l’acqua. Chiusi tutto bruscamente, mi passai distrattamente l’accappatoio di spugna sul corpo e iniziai a rivestirmi, incurante del fatto che nonostante tutto le punte dei capelli si erano bagnate e stavano gocciolando sul pavimento e macchiavano le spalle della camicia.
Avevo una gamba infilata nel jeans e l’altra no quando Kazemaru cominciò a bussare alla porta.
-Cosa c’è?- gli urlai. Non riuscii a sentire la sua risposta, perciò tentai di sbrigarmi senza però cadere a faccia a terra, e quando mi mancavano solo le scarpe mi decisi ad aprire.
-Cosa c’è?- ripetei, più mite.
-Non le senti?- replicò Kazemaru accigliato. Lo guardai confuso.
-Le urla, non senti le urla?- specificò Endou, mi fece cenno di tendere l’orecchio. Nel silenzio che era calato tra noi tre, riuscii finalmente a capire di cosa stessero parlando: dal piano di sotto provenivano grida non facilmente identificabili.
-Andiamo a vedere?- propose il mio partner.
 


Una volta scesi al piano di sotto, la prima cosa che notammo fu il nugolo di persone vestite di blu scuro che si era piazzata nel corridoio d’ingresso, tre delle quali stava parlando con le persone uscite dagli uffici. Riconobbi una ragazza con la pelle scura e i capelli rosa che di tanto in tanto avevo visto lavorare per Hitomiko come segretaria. Era anche amica di Reina, mi pareva che si chiamasse Fumiko. Nonostante non facesse molto freddo nel corridoio (e in generale in tutto l'edificio)  indossava almeno tre strati di vestiti, più la giacca.
Mi avvicinai per chiederle cosa stesse succedendo. Lei mi squadrò capo a piedi prima di rispondermi; non ero certo che si ricordasse di me, ma dopo un po' sembrò finalmente riconoscermi. 
-Ah, tu sei uno degli agenti... E anche tu- disse, spostò lo sguardo da me a Kazemaru. -Allora credo di potervelo dire...
-Il punto è che la polizia ha un caso scottante per le mani e vogliono che il signor Kira se ne occupi- disse, scrollando le spalle. A giudicare, alla sua espressione esasperata intuii che la cosa era in corso già da un po’. 
-Ma il signor Kira non c’è oggi!- intervenne Endou. Fumiko fece un cenno di assenso col capo.
-Il signor Kira è impegnato in una riunione. Ho già informato la signorina Hitomiko e ho detto loro che a momenti sarà qui per risolvere la situazione, ma questi tipi sono alquanto impazienti e maleducati-. Fumiko si imbronciò, chiaramente scontenta. -Ma forse è inevitabile. Da quando ha ripreso conoscenza, quel drifter non è stato fermo e zitto un solo momento, non si riesce a controllarlo…
-Un drifter? Hanno catturato un drifter?!- esclamai, incredulo.
Ogni tanto capitava che la polizia di quartiere avesse bisogno del nostro aiuto per prendere individui con poteri che vagabondavano facendo guai. Proprio perché si trattava di casi speciali, era raro che riuscissero da soli ad effettuare la cattura, tuttavia non mollavano l'osso per orgoglio o testardaggine. Era come se fossero in competizione con noi, ma a senso unico, perché a noi in realtà importava poco. Avevano provato a braccare i Fubuki per un anno intero prima di ammettere la sconfitta e lasciarci il caso, non senza una certa riluttanza.
Sorprendentemente, era proprio dei Fubuki che si trattava. O almeno, di uno di loro. Non appena riuscii ad avvicinarmi maggiormente, infatti, vidi da lontano Fubuki Shirou: era inginocchiato a terra, con pesanti manette di ferro ai polsi, e stava gridando qualcosa ai due uomini in uniforme che lo tenevano fermo per le spalle. Lo osservai cercando di associare ciò che vedevo a ciò che ricordavo di lui, ma non c'era traccia di pacatezza o scherzosità; al contrario, appariva livido di rabbia. Inoltre, il suo viso era stato deturpato da un graffio, lungo dalla tempia fino alla guancia sinistra, e il sangue si era rappreso sulla pelle in modo alquanto raccapricciante.
-Perché è solo? Dov’è suo fratello?- domandò Kazemaru, basito, e credo che tutti in quel momento ce lo stessimo chiedendo.
Era stranissimo non vedere i Fubuki assieme: davano l’impressione di un elemento unico, un’entità sola che non poteva essere separata. Invece, adesso uno era in catene e dell'altro nessuna notizia.
-Non conosco i dettagli. Ho provato a chiedere, ma gli agenti non vogliono parlarne se non ad un superiore- disse Fumiko, incrociando le braccia al petto. –A questo punto mi chiedo dove siano Kidou e Gouenji. Non si occupano loro del caso? Dovrebbero essere avvisati.
-Stamattina non li ho visti a mensa, ora che ci penso- rispose Endou pensieroso. La sua espressione cambiò quando vide il proprio fidanzato muoversi. –Ichirouta?- lo chiamò, sorpreso.
-Sembra soffrire molto, vado a parlargli- gli urlò Kazemaru in risposta.
-Ma cosa fai?! Aspetta, non puoi senza autorizzazione!!- Fumiko lo seguì, gridandogli dietro, mentre Endou ed io restammo indietro a tener d’occhio la situazione.
Il mio partner si fece largo tra la folla finché non si trovò faccia a faccia con Fubuki, il quale smise per un attimo di dibattersi per guardarlo con sorpresa, forse riconoscendolo.
-Tu...! Dov’è mio fratello?- gli domandò subito, fece uno scatto verso di lui, ma i due poliziotti lo mantennero fermo sul posto. Fumiko sussultò ugualmente e si bloccò, poco dietro Kazemaru.
-Torniamo indietro- disse. -Qui è pericoloso...
-No, voglio parlare con lui. Credo sia spaventato- ribatté Kazemaru. Guardò Fubuki negli occhi, senza paura.
-Stai tranquillo, non voglio farti del male. Come mai tuo fratello non è con te? Cosa ti è successo?- Kazemaru sporse una mano, come se volesse toccargli il viso. –E tu... sei ferito- constatò.
Fubuki lo fissò negli occhi a sua volta.
-Non toccarmi- disse debolmente, come se avesse paura che Kazemaru potesse fargli chissà cosa. Kazemaru lasciò cadere subito la mano. Fubuki continuò a guardarlo, in guardia, ma apparentemente non minaccioso. Probabilmente stava studiando Kazemaru, cercando di capire se c'erano doppi fini, ma io sapevo che Kazemaru voleva soltanto aiutarlo.
-Devi aspettare solo un altro po'. Presto tutto si risolverà e potrai rivedere tuo fratello- affermò Kazemaru. Fubuki aprì la bocca, poi la richiuse. Infine, si decise a parlare.
-Atsuya ha bisogno di me- mormorò.
Kazemaru stava per rispondergli, ma in quel momento un terzo poliziotto lo afferrò per un braccio e lo spintonò all'indietro bruscamente, allontanandolo da Fubuki.
-Cosa credi di fare?! Non hai l'autorizzazione per parlare con lui!- lo rimproverò. Si girò verso Fumiko. -Non dovevano arrivare i vostri superiori? Dove sono? Ci state sottovalutando?!
-C-ci dispiace molto! La signorina Hitomiko arriverà a momenti, per favore, abbiate pazienza...- balbettò Fumiko. Il poliziotto la ignorò totalmente, sbuffò e le parlò sopra.
-Non so cosa stessi tentando di fare- disse a Kazemaru -ma non dargli corda! Lui e suo fratello sono dei criminali, stanno avendo solo quello che meritano. Se non fossero stati in giro a vagabondare di notte e a crearci guai, a quest'ora non si troverebbero qui...
Kazemaru lo guardò interdetto. -Con tutto il rispetto, signore... Mi sembra eccessivo dire una cosa del genere- disse. Il poliziotto gli lanciò un'occhiata di sufficienza e si distrasse a sistemarsi il cappello. A giudicare dall'uniforme, doveva avere un grado più alto rispetto agli altri poliziotti presenti.
-E credi che mi interessi? Dico quello che voglio- replicò. -Anzi, mi pare che i vostri capi siano troppo morbidi con questi elementi. O forse è perché fanno loro comodo, uh?- Squadrò Kazemaru e Fumiko da capo a piede. Non mi piaceva per niente né quello sguardo, né l'insinuazione.
Intanto, Fumiko avvampò ed esclamò:- Questo è troppo! Sarete anche il comandante, ma vi prego di fare molta attenzione alle parole che usate!- La sua voce, per quanto carica di emozione, era sorprendentemente ferma. Per la seconda volta, però, il comandante si comportò come se lei non avesse nemmeno parlato.
-Per quanto mi riguarda, dovremmo eliminarli tutti prima che ci facciano fuori loro. Be', siamo già a meno uno, immagino...- disse, scoccando un'occhiata di sottecchi a Fubuki.
Kazemaru e Fumiko ricominciarono subito a protestare. Fubuki invece teneva lo sguardo basso, con gli occhi nascosti dalla frangia dei capelli. Le sue spalle tremavano leggermente.
–Lasciatemi andare- sibilò e, di nuovo, tentò di liberarsi dalla presa delle guardie con uno strattone. Quando non ci riuscì, dalla sua gola salì un roco verso di frustrazione.
-Lasciatemi andare! E ridatemi subito Atsuya!
Al suo urlo, il suo corpo rilasciò uno sprazzo di energia azzurra, che gli circondò le spalle come una scossa elettrica; a contatto con quella strana luce, le manette si congelarono e caddero in pezzi. Le due guardie mollarono la presa, terrorizzati dall'eventualità che le loro mani potessero fare la stessa fine.
Fubuki stese entrambe le braccia in avanti, con le dita gocciolanti d'acqua e una macchia di brina cominciò ad espandersi rapidamente, arrampicandosi sui muri e sul pavimento e arrivando fin sotto i piedi di Kazemaru, Fumiko e dei tre poliziotti, compreso il comandante. Adesso non riusciva più a fare lo spaccone.
Mi ero già avvicinato notevolmente mentre loro parlavano, così mi lanciai subito in aiuto del mio partner. Questa volta, però, Endou mi precedette. Intravidi un lampo dorato brillargli negli occhi, poi il Pugno di Giustizia si materializzò in aria e in un solo, fluido movimento catturò Fubuki e lo sollevò da terra. Il ladro, colto di sorpresa, cessò di usare i propri poteri: la brina si sciolse di colpo e il corridoio s’inondò d’acqua gelida. Endou, mantenendo la presa salda, si girò verso Kazemaru per assicurarsi che stesse bene, quindi tornò a concentrarsi sul suo prigioniero, che aveva ripreso ad urlare di lasciarlo andare e di dirgli dove si trovava suo fratello Atsuya. Scalciava e si dimenava, per quanto possibile, tra le enormi dita, e più si muoveva, più il suo corpo si circondava di sprazzi di luce azzurra: con i propri poteri avrebbe potuto facilmente liberarsi del pugno come aveva fatto con le manette, eppure per qualche strano motivo, nonostante il volto teso dallo sforzo, non riusciva ad evocare nulla più di qualche scintilla confusa ed incontrollata.
Per fortuna, Hitomiko arrivò in quel momento, accompagnata dal rumore di scarpe che scalciavano l’acqua. Fumiko le andò incontro immediatamente e spiegò rapidamente la situazione. Mentre ascoltava, Hitomiko si mise a osservare attentamente Fubuki, che stava ancora sospeso in aria. 
-I suoi poteri sono instabili... Deve avere delle lesioni interne- disse infine. -Bisognerà procurargli subito delle cure mediche. Fumiko, chiama l’ospedale e di' loro di mandarci un medico al più presto.
Fumiko annuì e corse via all'istante per eseguire gli ordini. Hitomiko si voltò verso Endou.
-Da quello che vedo, il ragazzino non pare disposto a collaborare, per cui ricorreremo a metodi estremi. Riesci a tenerlo su ancora per un po'?- chiese. Endou annuì.
-Bene- disse Hitomiko. -Dov’è Hiroto? Qualcuno vada a chiamarlo, per favore…
-Non ce n’è bisogno. Sono qui.
Mi girai di scatto. Hiroto, appena uscito dall’ufficio di Gazel, alzò la mano per farsi notare dalla sorella, ma la sua chioma rossa sarebbe spiccata in ogni caso.
-Ah, meno male. Lo lascio a te, allora- gli disse Hitomiko, accigliata.
Hiroto non replicò, indecifrabile, e si fece largo tra i poliziotti per arrivare fino al suo partner.
-Portalo giù- mormorò, riluttante. Endou lo guardò per un lungo istante prima di portare la gigantesca mano a portata di uomo, in modo che i piedi di Fubuki toccassero terra e che a Hiroto bastasse allungare una mano per toccarlo. E fu esattamente ciò che fece.
Le sue dita cercarono con esitazione la fronte di Fubuki, che istintivamente voltò il viso per sottrarsi a quel contatto fastidioso.
-Piantala! Non toccarmi!- gridò, ma Hiroto non ci badò, perché era più concentrato sulle persone intorno a sé: benché di solito non gli desse alcun fastidio, in quel momento avere tanti occhi puntati addosso pareva turbarlo, percepivo la sua tensione a pelle.
-Ehi, non devi farlo per forza, se non vuoi- sentii Endou sussurrare, anche lui aveva notato il disagio del rosso. -Possiamo sempre dargli una botta in testa e…- Il suo suggerimento rimase inascoltato: Hiroto premette con decisione il palmo della mano destra sulla fronte di Fubuki, il cui corpo fu scosso da un sussulto, poi da un tremito.
Forse perché era una persona di spicco, o forse semplicemente perché mi piaceva immaginarlo così, avevo sempre pensato al dono di Hiroto come qualcosa di forte, di clamoroso, qualcosa di simile a quelli di Gouenji o di Endou; in verità, ora che finalmente lo vedevo in atto, tutto stava avvenendo in modo tranquillo e silenzioso, e l’unico segnale che qualche energia stesse fluendo era il colore dei suoi occhi. Diventò più acceso e al contempo più tenue, una tinta acquerello, come se fosse offuscato da un velo di lacrime, ma tornò normale non appena si staccò da Fubuki. Il ragazzo si piegò in avanti come una marionetta a cui erano stati tagliati i fili e, quando con il pugno scomparve il suo unico sostegno, scivolò senza resistenze fra le braccia di Endou. Hiroto sospirò, sollevato che fosse finita.
Hitomiko cominciò subito a dare nuovi ordini.
-Tornate tutti al lavoro, non c'è nulla da vedere qui!- esclamò. Poi chiese agli inservienti di turno di asciugare il fiume d'acqua rimasto a terra e di ripulire il corridoio, infine si rivolse ai poliziotti e in particolare al comandante.
-Ascolterò la vostra versione dei fatti adesso- affermò. -Ma sappiate che non ho intenzione di lasciar correre quanto accaduto qui oggi e che riferirò a mio padre ogni cosa riferitami dalla mia collaboratrice.
Il comandante si indispettì. -Suvvia, non crederete di intimorirmi. La ragazza ha sicuramente esagerato- provò a giustificarsi così, scaricando la colpa su Fumiko. Che verme. Kazemaru fece un passo in avanti, pronto a difendere Fumiko, ma Hitomiko sollevò una mano e gli fece cenno di fermarsi. Si rivolse poi al poliziotto.
-Lei non si fida dei suoi sottoposti e colleghi, comandante? Sembra una vita lavorativa piuttosto triste- disse, la voce tagliente come vetro. -In ogni caso, lei è intervenuto con commenti del tutto inopportuni su qualcosa che non le compete. Intende negarlo? Davanti a tutti questi testimoni?
Il comandante digrignò i denti e dilatò le narici, chiaramente arrabbiato, ma dovette ingoiare l'umiliazione e ammettere che era vero. Hitomiko lo guardò come si guarda una gomma rimasta appiccicata sotto la scarpa.
-La vostra uniforme non vi legittima ad esporre ogni vostro pensiero, anzi, vi pregherei di tenere i vostri giudizi personali fuori dagli affari professionali. Se avete obiezioni sul modo di operare della nostra Agency, vi prego di farlo presente attraverso vie ufficiali e non facendo solo chiacchiere- lo ammonì, severa. L'uomo fece un debole cenno di assenso e Hitomiko sospirò.
-Se sono stata chiara, procediamo con il rapporto. Potreste raccontarmi tutto dall'inizio, in modo obiettivo? Ah, ma prima...- Si bloccò e si girò verso Endou e Hiroto. -Voi due, portate Fubuki Shirou in infermeria. Su, muoversi!
Il suo tono era perentorio. Endou si caricò il ragazzo svenuto sulle spalle senza perdere altro tempo. Hiroto mi lanciò un'occhiata veloce e un sorriso fugace, poi si allontanò assieme a Endou. Quando furono un po' più distanti, vidi Endou chiedergli qualcosa e Hiroto fare un breve cenno d'assenso. Distolsi lo sguardo.
Quando mi girai verso Kazemaru per dirgli di andare, notai i due poliziotti stavano fissando Hiroto con un certo nervosismo. Sembrava quasi... paura? Possibile? Non appena si accorsero che li stavo guardando, però, abbassarono le visiere dei cappelli sugli occhi e fecero finta di niente. Confuso, decisi di ignorare quello strano atteggiamento e tirai Kazemaru per una manica.
Poco dopo, mentre tornavamo in camera, gli chiesi se stava bene. Ricordavo vividamente la notte in cui Fubuki Atsuya gli aveva congelato un braccio.
-Oh, sì, Mamoru è intervenuto prima che ci trasformasse in sorbetti, per fortuna- disse Kazemaru, arrossendo un po'. -Più che altro sono preoccupato per Fubuki... So che è un poco di buono, ma sembrava davvero fuori di sé. Chissà dov'è suo fratello. E quel poliziotto è stato davvero uno stronzo, vero?
-Ah, sì, quanto avrei voluto tirargli un pugno. Hai visto come ha trattato Fumiko?
-Per fortuna non sono tutti come lui, in polizia.
Restammo un po' in silenzio, poi Kazemaru aggiunse, pensieroso:- Io non avevo mai visto Hiroto usare il suo potere. Tu? 
-Nemmeno io- ammisi.
Ripensandoci, avevo visto Hiroto combattere solo in un paio di occasioni: anche la sera del ballo, mesi prima, si era comportato come se il corpo a corpo fosse l’unica opzione plausibile e non aveva mai accennato ad usare un’abilità speciale, forse perché riteneva che non gli sarebbe stata utile.
–Sembrava quasi… quasi una sorta di ipnosi- osservai.
-Uh, faresti meglio a non dirlo troppo in giro. Se si diffondono di nuovo dei pettegolezzi, è la volta buona che Kiyama perde la calma.
Una voce improvvisa alle nostre spalle ci fece sobbalzare: Burn ci superò con la massima nonchalance per osservare meglio gli enormi asciugamani di spugna che gli inservienti stavano usando per rimediare al disastro del ghiaccio sciolto.
-Dannazione, mi perdo sempre tutto il divertimento! È tutta colpa di Gazel, che mi spedisce qua e là, neanche fossi il ragazzo delle commissioni… potrebbe mandarci Tachi-coso, là…- (si fermò per ricordarne il nome, ci rinunciò subito in quanto non gli interessava davvero) –Ah, dicevo, gliel’avrei fatta vedere io, a quello lì! Una bella vampata e via! Fuoco batte ghiaccio!
-Wow, Burn, che pensiero profondo. L’hai imparato dai Pokémon, scommetto- obiettai sarcastico, alzando gli occhi al cielo. Kazemaru si fece scappare una risatina, il rosso sbuffò e stava per girare i tacchi, ma lo fermai posandogli una mano sulla spalla. –Aspetta, cosa intendevi con pettegolezzi prima? E… di nuovo?- domandai, facendo del mio meglio per non suonare troppo invadente.
Burn scrollò le spalle per liberarsi della mia stretta e schioccò la lingua seccato.
-Mah, stupidaggini, robaccia che la gente inventa giusto per dare fiato alla bocca, una cosa che mi ha sempre fatto girare le scatole come non mai- brontolò. Aveva spesso reso chiara la sua antipatia per Hiroto, perciò mi sorprese notare che il suo disprezzo non era indirizzato verso di lui, anzi, pareva quasi che lo stesse difendendo.
-Senti, Kiyama è sempre stato sotto i riflettori, un po’ per questo, un po’ per quello… Beh, immagino che, quando sei il figlio del capo, ti metti in mostra pure se non fai niente, giusto perché esisti, e sei quello che sei. La gente si sente autorizzata a fare ipotesi su di te come lo farebbe per un attore o un cantante famoso- proseguì.
–Bah, idioti. Comunque a Kiyama il proprio potere non piace... Non che lo biasimi. È ovvio che ti metti ad odiare una cosa del genere se vieni a sapere certe cose… A volte penso sia da stronzi chiamarli “doni”, questi cavolo di poteri, cioè ma chi l'ha deciso?- A questo punto Burn, che normalmente parlava ad alta voce di argomenti delicati ed urlava segreti ai quattro venti, abbassò la voce.
-Nel posto dove mi sono allenato io, il potere di Kiyama lo chiamavano il tocco mortale. Detto così, non sembra che la natura ti abbia fatto un bel regalo, no?


 

xxx



La mattina e il pomeriggio trascorsero senza altri avvenimenti eclatanti e, dopo pranzo, Kazemaru mi lasciò per andare a cercare Endou.
Infatti, né Endou né Hiroto erano comparsi in mensa; più probabilmente, avevano dovuto accontentarsi di mangiare qualcosa dal distributore, vicino all’infermeria. a Hiroto toccavano sempre i casi più scoccianti, o quelli più delicati, f
orse perché era “il figlio del capo”. Un tempo ne ero stato invidiosa, ma adesso pensavo fosse più un fardello che altro, soprattutto per una persona come Hiroto...
Decisi di aspettarlo in stanza, se non per parlare –da quel che aveva detto Burn, intuivo che non avrebbe gradito l’argomento- almeno per dargli il mio sostegno.
Così, quando lui rientrò in stanza, nel tardo pomeriggio, così stanco che percepivo il suo cattivo umore come un macigno sulle mie spalle, ero steso sul letto e fingevo di leggere una rivista; appena lo vidi, scattai per mettermi seduto.
-Ciao- dissi con nonchalance, come se non lo stessi aspettando da ore.

-Ciao- rispose piano.
Mi fece cenno di spostarmi un po’ e si stese, appoggiando la testa sulle mie gambe. Arrossii, ma non opposi resistenza, nemmeno quando sollevò le mani e mi strappò con delicatezza il codino dai capelli, facendoli ricadere sciolti sulle mie spalle – ci affondò le dita, sembrava che lo rilassasse concentrarsi su di me, come per distrarsi da altri pensieri. Ed io volevo 
distrarlo, volevo tutta la sua attenzione, almeno la sua. Mi chinai su di lui e gli sfiorai la fronte con le labbra, poi il naso, le guance. Lo sentii sospirare, però non si mosse, e lo presi come un permesso a continuare. Mi chinai maggiormente in avanti, fino a solleticargli il volto con i capelli, discesi lungo le sue guance con baci leggeri, l’ultimo dei quali proprio all’angolo della sua bocca, e mi fermai di nuovo.
-Non vai avanti?- mi incoraggiò, con un piccolo sorriso.
Le sue mani scorrevano ancora fra i miei capelli, trovarono la mia nuca e mi attirarono a sé, le nostre bocche si scontrarono. Quando mi staccai, eravamo così vicini che io respiravo sul suo viso e lui sul mio e quel pensiero era sufficiente a farmi girare la testa. Si sporse nuovamente per baciarmi, tuttavia, per la seconda volta quel giorno, la porta si aprì ed Endou entrò nella stanza.
Avevo una sensazione di deja-vu a riguardo, continuava ad interrompermi qualunque cosa facessi.

Il moro, che pareva sul punto di dire qualcosa, si bloccò di colpo vedendoci in quella posizione. I suoi occhi si riempirono di stupore, la bocca si spalancò in una O di meraviglia, e l’attimo dopo stava già gridando:- Oddio, ma allora voi due state insieme… Cioè, insieme in quel senso!
Non avrebbe potuto dire niente di più scontato.
Con mio grande disappunto, Hiroto si spostò e si mise seduto in modo più o meno composto, mettendomi da parte per rivolgersi al compagno.
-Endou, potresti abbassare un po’ la voce, per favore?- disse, più rassegnato che altro. –Ho un mal di testa fortissimo, inoltre non vogliamo far sapere questa cosa a tutto il mondo…
-E infatti, io non ne sapevo niente!- lo interruppe Endou, ancora più ovvio di prima. –Tu lo sapevi, Ichirouta?- Si girò verso la porta e solo allora intravidi la chioma azzurra del mio partner, il quale sussultò e smise di nascondersi dietro lo stipite per venire avanti.
-No, nulla- ammise Kazemaru, sorpreso, ma senza reazioni esagerate come quella di Endou. -Perché l’avete tenuto segreto?- domandò poi, rivolto ad entrambi, ma (ci avrei scommesso) soprattutto a me.
Scrollai le spalle come se non fosse importante ed indicai Endou, che stava ancora blaterando cose a caso su quanto la cosa lo sconvolgesse e rendesse felice al tempo stesso.

-Non volevo reazioni come la sua, immagino- dissi, sincero, o almeno in parte. Quell’eccessivo entusiasmo mi innervosiva davvero, solo che non avrei saputo dire quanto il fatto che si trattasse di Endou influenzasse questo mio fastidio: non sapevo spiegarmelo, dal momento che mi era sempre stato simpatico, ma di recente qualunque cosa facesse mi irritava.
D’un tratto mi venne in mente che anche Hiroto potesse essere infastidito e gettai un’occhiata lateralmente per controllare come stesse; con mio immenso sollievo, non pareva aver dato molto peso alla reazione di Endou, segno che aveva superato del tutto la cotta per aveva per lui.
-Midorikawa, riguardo a stamattina… non volevi dirmi qualcosa su quei sogni?
Stavolta fu Kazemaru a richiamare l’attenzione su di sé. Mi girai a guardarlo, stordito, un po’ perché in quel momento la mia mente era impegnata su Hiroto, un po’ perché effettivamente quell’affare mi era passato di mente.
–Ah… sì… non importa, davvero- esclamai, accennando un sorriso rassicurante che non avrebbe convinto nessuno.

-Cosa? Sei ancora disturbato da quei sogni?- s’intromise Hiroto, accigliato.
-Come? Lo sai anche tu?- Kazemaru lo guardò, sorpreso.
-Sono l’unico a non sapere di che si parla?- intervenne Endou, confuso.
Tutti e tre si voltarono a guardarmi, in attesa di risposte concrete. Mi portai una mano alla nuca e forzai una risatina nervosa: ecco, adesso che avevo tutta l’attenzione che volevo, non la volevo.
-Mi mettete a disagio se mi fissate così… Davvero, sto bene. Quei sogni non significano niente! Magari domani mi comparirà un unicorno e tutto si sistemerà- dissi, in tono leggero e scherzoso, ma Hiroto non si lasciò ingannare.
-Midorikawa, quando ti ho suggerito di vedere uno psicologo scherzavo, ma forse dovremmo pensarci sul serio. Non dovresti sottovalutare i tuoi sogni, sono sicuro che significhino qualcosa. Non si dice forse che l’inconscio ci può rivelare tutto di noi stessi?- mi rimproverò, poi il suo tono si addolcì e aggiunse:- Non voglio forzarti a fare nulla che non vuoi, Midorikawa, è solo che... sono preoccupato per te. 
Annuii con un sorriso imbarazzato. Onestamente, pensavo che dovesse preoccuparsi più di se stesso, ma non lo dissi ad alta voce; Hiroto era già abbastanza di cattivo umore senza che gli accennassi ciò che Burn ci aveva rivelato.

Intanto, Kazemaru s'intromise nella nostra conversazione.
-Ne sono convinto anche io! Midorikawa, devi assolutamente indagare su questi sogni- esclamò, nel tono perentorio che avrebbe usato sua madre. Osservandolo, notai che avevano lo stesso modo di arrabbiarsi, con gli occhi socchiusi, le guance leggermente gonfie, le labbra arricciate in un broncio, e ricordai le volte in cui lei aveva sgridato entrambi, da bambini. Non la vedevo da moltissimo tempo, la mia mamma adottiva.

-Midorikawa, tu non mi stai ascoltando- mi accusò Kazemaru.
-No, non direi- confessai, facendo una smorfia colpevole. –Senti, non voglio più parlarne. Dico a tutti e due- scoccai un'occhiata a Hiroto, -quindi piantatela di ossessionarmi. La cosa si risolverà da sola, prima o poi.
Hiroto mi guardò pieno di sconcerto.

-È quel 'prima o poi' che mi preoccupa. Magari sarebbe il caso di risolverla prima che tu perda altre notti di sonno, diventi isterico, o svenga…
Lo interruppi dandogli un buffetto sulla guancia e dichiarai con un sorriso:- Mi riempie di gioia sentirti così ottimista!

Rassegnato alla mia ostinazione, Hiroto si portò una mano alla fronte e si stese nuovamente sul letto. Mentre affondava col capo nel cuscino, mormorò qualcosa su un forte mal di testa che minacciava di aprirgli la testa.
-Perché non riposi un po’? Manca un’ora e mezza alla cena- suggerii. Hiroto mugolò una risposta affermativa, poi la sua mano scivolò nella mia con naturalezza, come se quello fosse sempre stato il suo posto. Mi faceva tenerezza, e avrei volentieri ripreso a baciarlo se solo il pensiero che Endou e Kazemaru fossero ancora lì ad osservarci non mi avesse disturbato tanto.

Stranamente, fu Endou a sbrogliare la situazione.
–Ti capisco, Hiroto, qui non fa in tempo a finire una cosa che ne inizia un’altra… Hai avuto una brutta giornata- esclamò, poi mi strizzò l’occhio. -Midorikawa, te lo affido… Mi raccomando, prenditi cura di lui!- aggiunse.

Assentii, confuso da tutta quella allegria. Ero sollevato dal fatto che, una volta tanto, avesse mostrato un po’ di tatto, tuttavia il suo bizzarro entusiasmo per la nostra relazione mi metteva a disagio tanto quanto la mancanza di reazioni di Kazemaru.
-Ci vediamo a cena allora, eh!- proseguì Endou. Uscì in fretta, con passo balzandoso. Kazemaru, invece, rimase per un attimo a fissarmi, titubante, quasi volesse dirmi qualcosa, ma alla fine sospirò e seguì Endou fuori dalla stanza.
Dopo che la porta si chiuse, attesi ancora un altro paio di minuti per accertarmi che non rientrassero, poi mi sistemai meglio sul letto e cominciai ad accarezzare piano i capelli di Hiroto, così lunghi da cadergli sulle guance.

-Non sarà il caso di tagliarli un po’?- osservai, mentre prendevo due ciocche e le lisciavo delicatamente con le dita. Poi gliele spostai dietro un orecchio, scoprendo le sue labbra semichiuse.
-Ci avevo pensato, ma il mio tempo libero è agli sgoccioli da un paio di mesi… Potrei chiederlo a Maki, ma onestamente mi terrorizza. Ha un debole per i miei capelli, mi propone sempre un sacco di acconciature… No, non mi va proprio di sottopormi alle sue “sperimentazioni”- rispose Hiroto, il suo respiro tremò in una leggera risata.
Sentii la sua mano lasciare la mia, ma non ebbi nemmeno il tempo di restarci male perché poco dopo lui rotolò su un fianco e allargò le braccia, facendomi chiaramente capire che voleva abbracciarmi. Accolsi la sua richiesta con gioia.
Non appena fui accanto a lui, le sue labbra trovarono le mie. Le guance mi andavano a fuoco, lui le sfiorò con i polpastrelli – come potevano dita così delicate e gentili essere chiamate mortali? - e rise accorgendosi di quanto fossero calde. Al di là di quell’umore leggero e rilassato, percepivo ancora un velo d’inquietudine, ma sapevo che Hiroto non me ne avrebbe parlato.
-Dormi- sussurrai, le labbra premute contro il suo orecchio. Lui mugugnò un verso di assenso, poi nascose il volto nel mio collo; pochi secondi dopo nella camera si sentivano solo i nostri respiri, quieti, regolari.

 


Verso ora di cena ci ritrovammo nuovamente con Endou e Kazemaru e non potei fare a meno di constatare che si comportassero in modo strano. L’entusiasmo del moro pareva essersi smorzato, ma continuava a dispensare sorrisi radiosi – Hiroto, al contrario di me, pareva non farci caso - mentre Kazemaru era teso come una corda di violino, sempre sul punto di dire qualcosa che poi però teneva per sé. Il suo atteggiamento iniziava ad innervosire anche me.
Non ebbi il tempo di indagare, tuttavia, perché poco dopo che Tobitaka aveva servito il primo, una zuppa di miso speziata, nella sala mensa entrò Kidou: era la prima volta che lo vedevamo, quel giorno, ed Endou lo chiamò a sedersi con noi. Il ragazzo rispose con un cenno della mano, ma prima di raggiungerci si fermò a sussurrare qualcosa a Tobitaka; quando finalmente poté mettersi comodo sulla panca, con una bella scodella davanti, il suo volto parve rilassarsi e si concesse un sospiro di sollievo. Endou gli diede una pacca sulla spalla, comprensivo.
-Di recente siamo tutti distrutti, eh? Chi per una cosa, chi per un’altra… Dov’è Gouenji?- esclamò, sinceramente in ansia per l’altro amico, di cui in effetti non c’era traccia.
Kidou tacque, forse chiedendosi se fosse il caso di rispondere. Affondò il cucchiaio nella zuppa, la assaggiò e subito la versò di nuovo nella tazza con una smorfia, non amava i cibi piccanti. Emise un altro sospiro.
-Non ne ho idea- ammise, secco. Dava l’impressione di voler chiudere in fretta l’argomento e mi venne da pensare che stesse mentendo, anche se non ne capivo il motivo. Endou e Hiroto si lanciarono uno sguardo d’intesa, ma nessuno commentò l’affermazione di Kidou.
Iniziammo finalmente a mangiare, timorosi che Tobitaka ci avrebbe preso a calci se le avessimo lasciate nei piatti dopo averle toccate appena (l’aiuto-cuoco era famoso soprattutto per due cose: l’odio per gli sprechi di cibo e la passione per la kick-boxing, così adatta al suo temperamento veemente). Per un po’ l’unico rumore fu costituito dal tintinnio dei cucchiai che mescolavano e pescavano gli ingredienti nella zuppa piccante, almeno finché Kazemaru non ruppe il silenzio.
-Quindi… cos’è successo a quei due? - domandò, riferendosi ai Fubuki.
-Non è stato ricostruito con certezza, la squadra che li ha trovati ha detto che erano in un bagno di sangue. Di quello coi capelli rosa non si sa molto, se non che gli hanno quasi tagliato un braccio di netto, ragion per cui pare debba essere operato… Per quanto riguarda quello che abbiamo noi in custodia, il medico che abbiamo fatto chiamare e che l’ha visitato dice che ha qualche costola fratturata, lesioni abbastanza forti da impedirgli di usare i suoi poteri, ma comunque non gravi come quelle del fratello. Non c’è da stupirsi che fosse così disperato- illustrò Hiroto, lugubre.
-In ogni caso, loro sono gli unici che possono dirci cos’è accaduto davvero. Mia sorella vuole aspettare che si sveglino entrambi per interrogarli, è molto sospettosa…
-E si capisce il perché...- intervenne Kidou, serio -I Fubuki sono pur sempre dei drifters, per questo ci hanno affidato il loro caso e hanno dato problemi anche a noi che abbiamo poteri come i loro… La loro aggressione apre una nuova prospettiva, che giudicherei abbastanza inquietante-. La sua affermazione aleggiò per qualche attimo nell’aria mentre ognuno ci rifletteva per conto proprio.
-Vuoi dire- cominciai, lentamente –che là fuori, non sappiamo dove, ci sono delle persone come noi che usano i propri poteri per aggredire gli altri…?
Kidou lasciò che il silenzio fosse più eloquente delle parole.
-Inquietante, sì- mormorò Kazemaru, spinse via la tazza tanto bruscamente da urtare col gomito il proprio cucchiaio, che sbatté sul bordo del tavolo prima di precipitare a terra. Si chinò sotto il tavolo per raccogliere la posata e mi stupii a sentirlo brontolare una mezza bestemmia. Non serviva essere empatici per capire che qualcosa non andava. Kazemaru non diceva praticamente mai parolacce: il solo fatto che gliene fosse sfuggita una significava che aveva i nervi a fior di pelle. Mi trovai a chiedermi se fosse solo in ansia per i recenti avvenimenti o ci fosse dell’altro. Da quel momento non riuscii a smettere di guardarlo, alla ricerca di indizi che mi consentissero di capire cosa stesse succedendo. Un tempo non era complicato cogliere al volo i suoi pensieri, perché mai lo era diventato? Ero così concentrato che quasi non mi accorsi che Hiroto si stava alzando: la panchina si scostò di colpo, facendomi sobbalzare.
-Dove vai?- chiesi.
-Mi è venuto un dubbio, voglio solo accertarmi di una cosa… Voi tornate pure in camera senza di me… Vi raggiungo presto- disse Hiroto. Lasciò la stanza senza aggiungere altro; lo fissai basito mentre se ne andava.
-Non ti preoccupare, Midorikawa, torna presto- disse Endou. Sembrava quasi che volesse rassicurarmi e la sua apprensione mi appariva, per quanto apprezzabile, del tutto fuori luogo: quel tono di voce sarebbe andato bene, forse, per una sposa in attesa dell’uomo andato in guerra. Mi girai verso Kazemaru, ma ancora una volta lui non fece commenti, apparentemente perso nei propri pensieri.
-Ma come, Kiyama se n’è andato? C’è ancora il secondo!- In quel momento Tobitaka apparve di nuovo al nostro tavolo con un carrello di piatti di carne e verdure fritte alla piastra e riuscì con successo ad attirare la nostra attenzione.
 

 

xxx

 

Dopo cena, a dispetto di quanto avesse detto Hiroto, non tornai subito in camera. Endou mi lanciò uno sguardo molto eloquente quando gli dissi che preferivo fare una passeggiata per sgranchirmi un po’ le gambe e digerire meglio, e accettò volentieri di precedermi in stanza con Kazemaru. Sicuramente pensava che la mia fosse una scusa per cercare Hiroto, cosa che in parte era vera; d’altro canto, non avevo per niente sonno: benché non avessi la minima intenzione di ammetterlo, i miei sogni mi preoccupavano un po’, non tanto per i contenuti quanto per la prospettiva di diventare un'altra volta sonnambulo e risvegliarmi in mezzo alla strada… Messa così, non era molto allentante.
Camminai per un po’ avanti e indietro per il corridoio che separava la mensa e l’infermeria, inquieto, sperando di veder apparire Hiroto da un momento all’altro.
Ma non accadde; invece, mentre passavo davanti alla porta dell’infermeria, la striscia di luce che filtrava dall’uscio m’incuriosì e mi spinse ad entrare, la porta era chiusa, ma non a chiave.
Quando la richiusi alle mie spalle e alzai il volto, intravidi il contorno di una figura sussultare dietro la tenda bianca che avvolgeva uno dei primi letti. Mossi un paio di passi e una mano abbronzata strappò via il velo: Gouenji mi fissò, contrariato dalla mia presenza, ma allo stesso tempo sollevato che non fossi qualcun altro.
-Che ci fai qui?- mi interrogò, cauto. Il mio sguardo cadde sulla ciotola poggiata sul comodino, sul fondo della quale erano rimaste solo poche gocce di zuppa giallina, poi sull’orologio rotondo appeso alla parete opposta. Erano le nove e mezza, un po’ tardi per una visita. Ricordai l’atteggiamento di Kidou in mensa, il suo parlare sottovoce con Tobitaka… non ci misi molto a fare due più due e, d’un tratto, compresi che Gouenji non avrebbe dovuto trovarsi lì: Hitomiko non aveva dato a nessuno il permesso di avvicinarsi a Fubuki.
Mi avvicinai tenendo le mani sollevate in aria in segno di resa e lo rassicurai:- Niente di particolare. Non preoccuparti, non dirò niente a nessuno… Stavo solo facendo un giro e ho visto la luce accesa.
Avvertii la tensione sciogliersi poco a poco mentre snocciolavo le parole, pur restando sulla difensiva Gouenji si rilassò.
Tornò a sedersi sulla sedia di legno accostata al letto e guardò il ragazzo che dormiva con espressione contrita, preoccupato forse che potesse svegliarsi, o che stesse soffrendo.
-La vita è proprio ingiusta, eh?- mormorò. –Passo quasi l'intero anno ad inseguire i Fubuki, e l’unica notte in cui non gli do la caccia succede questo... Non posso crederci-. Con un verso di frustrazione, si passò le mani sul volto e si massaggiò le tempie. L’argomento sembrava agitarlo molto, perciò decise di parlare d’altro.
-Allora… insonnia? Qui ci sono parecchie persone che hanno problemi a dormire. Forse siamo tutti un po' nevrotici- disse, guardandomi con fare investigativo. Mi concessi un piccolo sorriso.
-In realtà, cercavo Hiroto- dissi, mentre mi attorcigliavo nervosamente una ciocca di capelli su un dito. Un lampo di consapevolezza attraversò i suoi occhi scuri.
-Voi due state insieme?- chiese. Annuii, tranquillo: visto che ormai Endou e Kazemaru l’avevano scoperto, era inutile nascondere la nostra relazione. Ma non potevo certo aspettarmi la reazione di Gouenji.
-Ah, ora capisco perché Endou era così radioso, stasera- buttò lì. Gli rivolsi uno sguardo confuso e allarmato.
-Non dirmi che è venuto qui ad urlarlo ai quattro venti, ti prego!
-Oh, no, tranquillo. Non ha fatto il tuo nome- mi rassicurò Gouenji. –Il fatto è che è passato qui per vedere come stavo, ma in realtà non ha fatto altro che ripetere quanto fosse contento che Hiroto avesse trovato un “vero amico”. Dice che Hiroto è un po’… be', diciamo riservato. Si è sempre preoccupato per Hiroto, sai. Deve essere stato un sollievo scoprire che ora sta con te.
Le sue parole mi diedero da pensare. In effetti, Endou mi era parso un po' troppo entusiasta della mia storia con Hiroto. Da quando l'aveva saputo, aveva anche iniziato a trattarmi con più riguardo del solito. Se Gouenji aveva ragione, allora tutto si spiegava...
-E poi così diventa tutto più facile- aggiunse Gouenji, cogliendomi di nuovo alla sprovvista.
-Cosa?- chiesi, confuso. Lui fece spallucce.
Be', se tu e Hiroto state insieme, non avrete problemi a diventare partner, no? E lui potrà avere Kazemaru tutto per sé. Endou ragiona come un bambino, per certi versi…
-Aspetta un attimo- lo interruppi. –Di cosa stai parlando? Endou vuole che ci scambiamo i partner?
Non avevo neanche finito la domanda che vidi il rapido cambio di espressione sul volto di Gouenji. Per un momento rimase in silenzio, riflettendo attentamente su cosa dire, ma doveva già aver realizzato di aver parlato troppo. Stavo per prenderlo per le spalle e scuoterlo, quando Gouenji finalmente aprì bocca.
-Penso che lo abbia chiesto a Kazemaru. Se non te l’ha ancora detto, magari è perché sta ancora aspettando la sua risposta- disse, titubante. Non credevo che stesse mentendo.
In quel momento Fubuki mugugnò qualcosa, e il suo bel visino si contorse in una smorfia sofferente. Gouenji si girò di scatto verso di lui. Quando si rese conto che, per fortuna, non si era svegliato, tirò un sospiro di sollievo e si alzò dalla sedia con la massima discrezione.
-Credo che sia il caso di andare- sussurrò. Spense la luce e chiuse la porta con le chiavi che non avrebbe dovuto avere. Lo seguii in silenzio e lo aiutai a controllare il corridoio, per essere sicuri che nessuno ci avesse visti uscire da lì.
-Vado a dormire- annunciò infine Gouenji. Poi, guardandomi bene in viso, aggiunse:- Forse dovresti anche tu.
Decisi di seguire il suo consiglio e tornai in camera senza aspettare Hiroto.
Altri pensieri, altre preoccupazioni turbavano la mia mente, e vedere Kazemaru ed Endou dormire vicini e abbracciati fu come gettare del sale su una ferita aperta. Mi misi il pigiama e mi infilai sotto le coperte, distrattamente, come se fossi in trance, e una volta steso rimasi a fissare il soffitto buio senza riuscire a chiudere occhio.
L’entusiasmo di Endou, il nervosismo di Kazemaru: tutto acquisiva un senso alla luce delle parole di Gouenji. A quanto pareva, non ero l’unico con dei segreti. Tra me e Kazemaru si era creata una distanza, non potevamo più negarlo. Me n’ero accorto da tempo, ma fu comunque come una porta sbattuta in faccia. Strizzai gli occhi, non uscirono lacrime, eppure il dolore nel petto e la sensazione di soffocamento non svanivano.  
Ormai Endou poteva proteggere e comprendere Kazemaru molto meglio di me. Kazemaru poteva scegliere Endou. Il pensiero non avrebbe dovuto spiazzarmi tanto, invece era come se una freccia si fosse conficcata nel mio petto. Fino a pochi mesi prima, Kazemaru ed io eravamo stati inseparabili.
Ma ora Kazemaru, il mio partner, non aveva più bisogno di me.
 




 


**Angolo dell'Autrice**
Eccomi di nuovo. Non so quanti di voi si aspettavano una svolta del genere, in ogni caso io spero sempre di non annoiarvi mai ^^"
Mentre scrivevo il capitolo precedente a questo, mi è venuto in mente che sono molti i personaggi che ancora non hanno rivelato i loro poteri! Le Inazuma Agency sono diverse dalle squadra di polizia normali e gli agenti speciali (in particolare quelli operativi sul campo) al 99% possiedono un dono. Fun fact: nella loro squadra, Kidou è l'unico a non averne uno (ma lui compensa in altri modi)!
Il dono di Hiroto è essenziale per lo sviluppo del suo personaggio, quindi mi è parso giusto inserirlo subito. In effetti, è una specie di ipnosi, ma la cosa verrà spiegata meglio in seguito... Intanto, spero che le parole di Burn vi abbiano incuriositi almeno un po' a riguardo!
Ho introdotto anche il concetto di "drifters" perché mi sembrava importante per la piega che la storia ha preso: in pratica, i drifters sono persone che hanno ricevuto ugualmente un dono dalla natura, ma al contrario degli agenti speciali lo usano per se stessi e non per gli altri. La parola viene dall'inglese e vuol dire "girovago" o "vagabondo". In realtà, siccome sono i ricercatori come Kudou a trovare e arruolare talenti, tutti gli agenti speciali sono stati potenzialmente dei drifters (nel senso che se nessuno li avesse scoperti, probabilmente sarebbero finiti così). Sono soddisfatta di aver potuto inserire una svolta nel rapporto tra Kazemaru e Midorikawa, il cui legame finora era sempre stato dato per scontato, e una parentesi sulla GouFubu, questa pair ci sarà un po' di più d'ora in poi :'D
Ora vado a dormire perché sono esausta~ Spero che abbiate gradito il capitolo e che magari mi lasciate un commentino, le vostre opinioni mi fanno sempre piacere~ 
Bacioni,
          Roby

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Capitolo 31
*** Mission 31. ~Hiroto's Arc. ***


Hello :) Finalmente ho completato questo capitolo! In realtà ho una scaletta abbastanza precisa per quanto riguarda il contenuto dei prossimi capitoli, ma nonostante sia arrivata l'estate non ho molto tempo per scrivere... Quest'anno ho diviso gli esami tra luglio e settembre, il che vuol dire che dovrò studiare durante l'estate... Cercherò comunque di aggiornare quando posso, capita a volte che mi venga una particolare ispirazione e scriva, ma non posso assicurarvi niente sui tempi, chiedo scusa (?). Detto ciò, spero che il capitolo vi piaccia!


Il suono di una sirena spezzò il silenzio.
Scalciai le coperte e mi sollevai di scatto sul letto, madido di sudore, e una luce del colore di un’arancia sanguigna mi accecò. Quando finalmente riuscii a distinguere i dintorni con chiarezza, vidi che Endou e Kazemaru sedevano sui loro letti, storditi quanto me, e che la sveglia segnava appena le quattro e trentatré minuti.
I fasci di luce rossa continuarono ad illuminare ad intermittenza il muro di fronte a me per alcuni minuti, si spensero completamente solo quando la sirena cessò di ululare.  
Kazemaru, Endou ed io ci scambiammo un’occhiata confusa.
-Cosa è appena successo?- Endou diede per primo voce ai nostri pensieri.
-Non ne ho idea, ma aveva tutta l’aria di un allarme…- rispose Kazemaru, giocando con i propri capelli sciolti. Lo faceva sempre quando era nervoso –come me- e smise solo quando Endou gli afferrò la mano e gli bisbigliò qualcosa nell’orecchio, probabilmente una parola di conforto. Erano così vicini che tra i loro corpi non sarebbe passato uno spillo. Guardarli mi fece venire un senso di nausea, anche se la mia capacità di reazione era decisamente affievolita dal sonno.
Mi girai e fissai il letto di Hiroto, ovviamente vuoto. Quando c’era un’emergenza, era sempre uno dei primi a scattare sull’attenti. Scossi il capo e, convinto che tanto non sarei più riuscito a prender sonno, mi slanciai sul bordo del letto e mi allungai verso le scarpe da ginnastica; siccome il giorno prima le avevo tolte senza disfare i lacci e ora era troppo buio per impegnarcisi, cercai solo di farvi scivolare dentro i piedi, cosa che mi riuscì al secondo tentativo, non senza qualche difficoltà.
Kazemaru ed Endou stavano ancora parlando fitto fitto e non mi badarono affatto mentre attraversavo la stanza e uscivo, quasi fossi invisibile (chissà se camminando sui loro stomaci avrebbero finalmente riconosciuto la mia presenza?); così, quando stavo circa a metà del corridoio e Kazemaru mi chiamò chiedendomi dove andavo, finsi di non aver sentito e non risposi.
 
xxx

Gli uffici che mi ero aspettato di trovare nel caos, come succedeva regolarmente quando accadeva qualcosa di singolare, erano invece immersi in un silenzio irreale. L’atmosfera era di calma piatta, una finta calma restauratasi dopo una tempesta. Gettai un’occhiata nelle varie stanze e vidi solo persone attaccate ai propri computer, serie, irascibili e concentrate come se dal tasto Enter dipendessero le sorti del mondo. Una sola porta era chiusa a chiave: quella di Gazel, naturalmente.
Mi appoggiai ad un muro e sospirai.
Avevo la spiacevole sensazione di essermi perso un passaggio chiave. Quello che era scattato sembrava, per quanto mi desse fastidio dare ragione a Kazemaru in quel momento, un vero e proprio sistema d’allarme –io neanche sapevo che esistesse. Ero certo al cento per cento che l’edificio fosse sempre sorvegliato e difeso da numerose guardie, ma dovevo ammettere di non sapere fino a che punto fossimo davvero protetti.
Un’altra cosa che mi preoccupava era che l’edificio era completamente immerso nell’oscurità, se si faceva eccezione per gli schermi a cristalli liquidi dei pc e la fioca luce del mattino che penetrava dalle finestre. Costava tanto accendere un lampadario?
Dei passi veloci, accompagnati dal cadenzato rumore di ruote, mi sorpresero.
-Ehi! Chi sei? Cosa fai qui in giro?
Mi voltai lentamente e vidi Tobitaka avanzare verso di me. Stava spingendo un carrello coperto da una tovaglia bianca, con gli angoli piegati ordinatamente verso l’interno (in modo che non scendessero a terra e non s’impigliassero nelle ruote) e leggermente rigonfiata al centro, come se sotto vi fossero dei vassoi. Un odore di brioches dar far inumidire la bocca mi permise di indovinare subito cosa stesse trasportando e se il mio stomaco non si fosse chiuso a causa dell’ansia, sicuramente avrebbe brontolato. Mentre pensavo a ciò, mi ero dimenticato di rispondere alla domanda di Tobitaka: il risultato fu che, alcuni secondi dopo, mi ritrovai una torcia elettrica puntata in faccia. Chiusi gli occhi di scatto e lo sentii sospirare.
-Ah, sei tu. Scusa, sono un po’ nervoso. Non sei riuscito a tornare a dormire, eh?- esclamò, suonava sollevato.
-No- dissi, poi tentennai e aggiunsi, educato ma deciso:- Tobitaka, la torcia… per favore.
Il ragazzo si rese finalmente conto di starmi accecando e con mia grande gratitudine abbassò la pila, indirizzandola invece verso il fondo del corridoio: la pallina di luce sfiorò i muri e si fermò sui primi gradini delle scale. –Tsk, dovrò dire addio all’ascensore- mormorò, e finalmente capii il perché di quel buio così innaturale.
-C’è stato un black-out?- Non riuscii a trattenermi e Tobitaka sbuffò per l’ovvietà della domanda.
-Già, anche se sarebbe più corretto dire che qualcuno ha fatto saltare le luci- replicò, marcando pesantemente quel ‘qualcuno’, come se ci tenesse a sottolineare la differenza di sfumatura.
-Beh, scusa, ora devo andare su. Spingere questa bellezza su senza ascensore non sarà certo una passeggiata…- Scoccò un’occhiata alla mia espressione e, forse mosso a pietà, mi diede una pacca sulla spalla e aggiunse, comprensivo:- Senti, perché non fai un salto in mensa? Ho preparato della camomilla… Non sei l’unico sonnambulo.
Non riuscii a chiedergli di più, perché lui spinse avanti il carrello e mi sorpassò in fretta; lo osservai attraversare il corridoio finché il buio non lo inghiottì, poi decisi di seguire il suo consiglio e mi incamminai verso la mensa. Ero curioso di scoprire di chi stesse parlando, ma una volta arrivato mi trovai davanti a una persona che non mi sarei mai aspettato di incontrare.
Istintivamente scattai sulla difensiva, ma Fubuki Shirou non si lasciò impressionare. Un lume accanto a lui rischiarava i suoi occhi grigi, che si posarono su di me appena misi piede nella stanza. 
-Stai tranquillo, detective- disse con inaspettata pacatezza. -Non sono in vena di combattere… Anche se lo fossi, non potrei. Secondo il medico sono innocuo come un agnellino, al momento-. Percepii una nota d’amarezza nelle sue parole.
Era appoggiato con la parte di sopra del corpo al bancone e con un cucchiaino tra le dita sottili stava mescolando la camomilla in un bicchiere di cartone.
-Cosa ci fai tu qui?- chiesi, senza tentare di nascondere la mia diffidenza.
-Quello che fai anche tu, credo. Non riuscivo a dormire e sono uscito a fare quattro passi. Mentre gironzolavo per i corridoi, il tipo della mensa mi ha beccato, ma invece di dirlo a qualcuno mi ha portato qui- spiegò Fubuki con un'alzata di spalle.
-Ti lasciano gironzolare?- sbottai e scossi il capo, incredulo.
–Be', perché no? Non posso fare alcun male e non posso fuggire.- Alzò la mano destra e mi mostrò il bracciale nero al suo polso. Era come se fosse agli arresti domiciliari, ma per qualche motivo non sembrava dargli fastidio.
-Quel tipo mi ha fatto una camomilla… è stato davvero gentile- disse, fissando quasi incredulo il liquido dorato che continuava a girare con insistenza. Mi additò la teiera ancora fumante. -Ne vuoi un po’ anche tu?
Annuii e lui si sporse a prendere un bicchiere dalla pila sistemata sul bancone, senza far caso alla maglietta che nel movimento gli salì fino a torace, scoprendogli la schiena: feci in tempo a intravedere una serie di piccole cicatrici prima che si rimettesse in equilibrio e si voltasse, col bicchiere in una mano e la teiera nell’altra.
-Ecco qui-. Fubuki mi sorrise debolmente tendendomi la camomilla. Ringraziai in un sussurro. Mi preparai a prendere con cautela il bicchiere e per poco non lo feci cadere per la sorpresa quando le mie dita toccarono una superficie tutt’altro che bollente. Sembrava che il bicchiere fosse appena uscito dal frigo. Alzai lo sguardo verso Fubuki e qualcosa nella mia espressione lo fece ridere.
-Ho pensato che non ti sarebbe piaciuto scottarti le mani- disse semplicemente. Aggrottai la fronte. L'avevo guardato per tutto il tempo e non l’avevo visto fare neanche un movimento sospetto.
-Sicuro di essere innocuo?- chiesi. Fubuki sorrise.
-Sì... Direi proprio di sì- rispose. -Normalmente riuscirei a congelare l’intero liquido, ma adesso al massimo mi riescono questi trucchetti… I miei organi interni erano già un po' sottosopra quando sono arrivato qui, e agitandomi ho peggiorato la situazione. Che idiota... Se sono qui, è solo perché Atsuya...
Trasalì e s'interruppe di colpo. Il suo sorriso si piegò in una smorfia. Provai pena per lui e per distrarlo gli chiesi di passarmi un cucchiaino e lo zucchero, usando un tono molto più delicato di prima. Fubuki mi assecondò e restammo per un po’ in silenzio a mescolare la camomilla.
Il primo a parlare fu lui, questa volta.
-Mi ricordo di te. Una volta sei venuto con Gouenji a cercare di catturarci, giusto?- disse. Mi stupii della familiarità con cui aveva pronunciato quel nome. Finora lo avevo sempre e solo sentito chiamarlo ‘detective’, come faceva con tutti noi. Ero così sorpreso che non pensai a quello che dicevo.
-Ho fatto volare tuo fratello per metà sala.
Realizzai l'errore un attimo dopo aver finito la frase e avrei voluto prendermi a calci. Non era affatto la cosa più appropriata da dire. Per un istante, pensai che Fubuki si sarebbe offeso, invece si mise a ridere.
-Giusto. E Atsuya ha quasi trasformato il tuo partner in un cubetto di ghiaccio- rispose. -A proposito, come mai sei solo soletto? Credevo che voi detective giraste sempre in coppia…
-Non sempre. Siamo persone distinte e separate- lo interruppi. In questo momento più che mai, aggiunsi mentalmente.
Fubuki non rispose subito. Si portò il bicchiere alla bocca e bevve un sorso. Subito dopo si passò la lingua sulle labbra, come un gatto che si lecca i baffi, e sospirò.
-Atsuya ed io siamo sempre stati insieme- mormorò. La sua espressione era pacata, ma i suoi sentimenti erano tanto forti che sembrava avvolto da un alone di tristezza. -Non mi sarebbe importato di morire, se avessi potuto salvare Atsuya. Sai, come ci si sente a voler proteggere qualcuno a costo della vita?
Sì, pensai, lo so bene, ma un nodo alla gola mi impedì di rispondere. Fubuki non ci fece caso: forse la sua era una domanda retorica. Bevve un altro paio di sorsi, poi rimase a fissare il fondo giallognolo del bicchiere.
-Gouenji mi fatto capire che sbagliavo, però- disse. 
-Mi ha rimproverato, mi ha dato dell’idiota. Secondo lui non ha senso voler morire per qualcuno. E nemmeno io voglio davvero morire. 
La sua voce era davvero seria. Intuii che doveva esserci qualcos altro a tormentarlo, ma non ero certo nella posizione di chiedere. Però c'era una cosa che potevo fare. Bevvi la camomilla tiepida tutta d'un fiato, poi mi avvicinai a lui e gli poggiai una mano sulla spalla. Lo sentii irrigidirsi per la sorpresa. Volevo soltanto consolarlo, ma non avevo previsto che i suoi sentimenti potessero essere tanto forti da farmi vedere frammenti dei suoi ricordi: Atsuya immerso nel sangue, la polizia che scopriva i loro corpi, il volto di Gouenji teso per la preoccupazione. Tutte queste scene scomparvero non appena Fubuki si sottrasse al contatto fisico.
-Grazie, ma sto bene. Devo stare bene, o non sarò di alcun aiuto- disse con fermezza. Non sembrava essersi accorto di quello che era appena successo.
In quel momento la luce a neon tornò a rischiarare la stanza. Il black-out era finito.
-Wow, guarda, sono le cinque- buttò lì Fubuki, i suoi occhi fissi sull’orologio meccanico a forma di gallina che Tobitaka aveva appeso al muro. –Credo che tenterò di dormire un altro po’. Ho dei dolorini al fianco che mi uccidono…- Lasciò il bicchiere vuoto sul bancone e si stiracchiò come un gatto, poi scrollò le spalle e si avviò verso la porta.
–Dovresti tornare a letto anche tu, detective. Hai gli occhi da panda, lo sai?- aggiunse. Arrossii, e lui rise di me prima di uscire. Prima di perderlo di vista, lo richiamai.
-Fubuki!
Lui si fermò e mi guardò con aria interrogativa e un po' guardinga.
-Io sono Midorikawa, comunque- dissi, impacciato. Fubuki annuì.
–Me lo ricorderò. Sembra che io debba restare qui ancora per un bel po', quindi... Ci vediamo in giro? Immagino di sì.
 
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Quando mi svegliai, alle otto del mattino, e per la seconda volta scesi al piano inferiore, il brusio e la confusione erano tornati regolarmente a dar vita agli uffici. La porta dello studio di Gazel era aperta e dentro, seduto davanti al pc, c’era Burn.
Gazel, appoggiato al bordo della scrivania, leggeva dei complessi codici numerici stampati su una lista apparentemente interminabile, fermandosi solo di tanto in tanto per bere un sorso di cedrata dalla lattina che stringeva nell’altra mano.
Anche Hiroto era con loro, ma non li stava aiutando con il computer; pareva invece impegnato nella ricerca di chissà quali fascicoli stipati in uno degli archivi che Genda ed io, precedentemente, avevamo messo in ordine. Aveva le mani piene di cartelline di plastica, tanto che nell’aprire un cassetto fece cadere un sacco di roba.
Si chinò a riprendere una cartella verde mela e, mentre si rialzava, i nostri sguardi si incontrarono.
-Buongiorno- disse con un sorriso. Ricambiai, stavo per aggiungere un saluto per gli altri due ragazzi quando Gazel smise di leggere e lanciò a Burn il bicchiere vuoto del caffè.
-Che cazzo ti prende?- brontolò il rosso, guardandolo torvo.
-Sei troppo lento a digitare, mi innervosisci- replicò Gazel, gelido. Aveva l’aria stanza, nervosa, e sembrava che qualunque cosa in quel momento potesse fargli saltare i nervi. Si voltò verso Hiroto. –Puoi venire tu ad aiutarmi?- domandò, anche se dall’inflessione sembrava più un ordine che altro.
Hiroto non si scompose minimamente.
–Mi spiace, ma non so usare i computer- rispose, mite. Non si lasciò intimidire nemmeno dall’occhiata glaciale che l’altro gli lanciò e, dopo alcuni minuti di confronto puramente visivo, Gazel cedette. Era probabilmente la prima volta che lo vedevo avere la peggio con qualcuno, eppure mi parve più rassegnato che arrabbiato. Si girò verso di me, ma prima che potesse interpellarmi Hiroto parlò di nuovo.
-Non può- disse, prima che io potessi reagire. –Deve andare da Hitomiko.- Mi fece un cenno. –Mia sorella ti stava cercando, credo che voglia parlarti di qualcosa d’importante.
Annuii, sorpreso. Gazel sbuffò e diede una pacca sulla spalla di Burn. –Va bene, va bene, ho capito. Burn, facciamo cambio di posto: tu detti ed io scrivo- disse. L’altro, che normalmente non si sarebbe fatto dare ordini, stranamente si alzò e prese la lista senza fare commenti di alcun genere; che Gazel fosse distrutto si vedeva ad occhio, e forse Burn non voleva innervosirlo ulteriormente.
-Midorikawa, vai. Ci vediamo più tardi- mi disse Hiroto, ancora sorridendo.
Ricambiai, incerto, e mi avviai verso il piano di sopra. Prima di uscire, però, mi girai un’ultima volta. –Hiroto, sai per caso dov’è Kazemaru?- mi azzardai a chiedere, anche se ormai la risposta a quella domanda era del tutto scontata. Hiroto, infatti, fece un’espressione pensierosa e mi disse esattamente ciò che mi aspettavo:– Credo che sia uscito con Endou, perché?
Sospirai. Lui si accorse che ero di cattivo umore.
–C’è qualcosa che vuoi dirmi?- domandò. Io lo guardai, studiandolo attentamente. In verità avrei voluto parlargli di ciò che avevo saputo da Gouenji la sera prima, riguardo ad un eventuale scambio di partner, sentivo il bisogno di liberarmi di quel peso; in parte, però, temevo anche che Hiroto avrebbe appoggiato la richiesta di Endou senza problemi. Se avessi scoperto che ero solo io, ad essere contrario, mi sarei sicuramente sentito molto peggio, perciò evitai di chiedere.
–No, non è nulla. Non importa- mormorai, uscii senza lasciargli tempo di dire altro.
 
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Bussai alla porta dello studio di Hitomiko con una certa esitazione e nessuno mi rispose; la donna apparve alle mie spalle pochi istanti dopo, facendomi sobbalzare.
-Ah, eccoti qua. Dai, vieni con me- disse, seria, si girò e iniziò a camminare nella direzione opposta al suo ufficio. La seguii senza opporre alcuna resistenza, cercando di nascondere al meglio il mio spaesamento: non capitava quasi mai che Hitomiko mi cercasse, non quando non avevo fatto niente per meritarmi un rimprovero, e quello non mi pareva essere il caso… a meno che non avessi fatto qualcosa di male senza sapere che la stavo facendo. Magari non era permesso parlare con Fubuki, che era in una specie di libertà vigilata, magari lei l’aveva scoperto da Tobitaka e ora voleva conoscere tutti i dettagli della conversazione.
Mentre mi lambiccavo il cervello, tentando di ricordare se ci fossimo detti qualcosa di particolare importanza (il fatto che il tutto fosse avvenuto tra le quattro e le cinque di mattina, quando ero ancora insonnolito, non aiutava certo a mettere chiarezza nei miei pensieri), Hitomiko interruppe il mio viaggio mentale -con destinazione panico- dicendo che eravamo arrivati.
Mi guardai intorno, chiedendomi perché fossimo andati nel parcheggio.
-Mi è stato riferito che soffri d’insonnia e che sei afflitto da incubi sinistri… Avresti dovuto dirmelo prima- disse Hitomiko, sbuffò contrariata spostandosi i capelli neri dalle spalle. –In momenti difficili come questi, non posso permettermi agenti con handicap. Dovete essere tutti in forma e pronti ad ogni evenienza… Non possiamo continuare a rimandare il tuo problema, perciò ho preso provvedimenti personalmente.
-Ma… ma io…- riuscii appena a boccheggiare tre parole. Non avevo fatto altro che fissarla a bocca aperta per tutto il tempo, sbalordito. Da chi aveva sentito quelle cose? Di certo non da me; non mi sarebbe mai venuto in mente di raccontare certe confidenze a lei, già solo dirlo a Hiroto e Kazemaru mi era costato un immenso sforzo…
Doveva essere stato Hiroto. Solo lui aveva quella confidenza con lei. Quando mi aveva detto che avevo bisogno di uno psicologo, pensavo che scherzasse, ma evidentemente era serio. Quando gliel’aveva detto? Quella mattina stessa?
Ripensai ai pochi minuti in cui l’avevo visto, mentre mi diceva che Hitomiko mi cercava per dirmi qualcosa d’importante…
-Ti ho prenotato una serie di sedute da una psicologa. Me l’hanno raccomandata personalmente, pare che altri nostri agenti la frequentino regolarmente e nessuno si è mai lamentato…- …il che non voleva dire che servisse davvero.
-Ti ho già chiamato un’auto, la seduta è dalle dieci alle undici e mezza- proseguì Hitomiko.
L’ultima cosa che volevo era andare da una psicologa, ma sapevo per esperienza che a Hitomiko la mia opinione importava poco o nulla. Non smisi di fissarla basito finché l’auto non arrivò e fui costretto a salire.
 
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Dovevo ammettere che quell’edificio non era brutto ed inospitale come mi aspettavo; insomma, la mia cultura cinematografica mi aveva messo in guardia contro le cliniche, spesso rappresentate come centri grigi, che ispiravano più terrore che fiducia.
Invece, questa clinica era piena di colori pastello; le persone all’interno erano tutte sorprendentemente normali, benché le segretarie non si risparmiassero occasionali occhiate torve, come se qualcuno potesse rovinare il loro lavoro solo respirando; e nessun pazzo assassino armato di accetta fece a pezzi la porta della stanza, nemmeno dopo i primi cinque minuti di seduta.
Ci eravamo soltanto presentati, o meglio lei aveva cercato di farci presentare, dandoci dei fogli su cui scrivere i nostri nomi. Eravamo in tutto dieci ragazzi, tutti stipati in uno studio dalla forma vagamente rettangolare: le nostre sedie, provviste di banchi, erano ammassati sul fondo, dal lato della porta, mentre la scrivania della dottoressa era situata dalla parte delle finestre (una posizione forse strategica, per impedire ai pazienti di sperimentare eventuali voli di sotto).
Lei, la psicologa, era una donna sulla sessantina, con capelli spumosi e biondi, una tinta tradita dalla ricrescita grigia delle radici all’attaccatura della fronte e dietro le orecchie. Era vestita di tutto punto con un tailleur color ocra, scarpe con tacco e calze scure, e al collo indossava una collana di perle sottili e un paio di occhiali con montatura spessa, che quasi subito inforcò per poter leggere le nostre presentazioni.
-Benissimo, ora per favore ripiegate i fogli e sistemateli sul vostro banco, cosicché ognuno potrà riconoscere l’altro- disse, sorridendo come si fa ai bambini dell’asilo. In effetti, quella cosa dei nomi mi ricordava un gioco che avevo fatto alle elementari: la maestra mi aveva precedentemente presentato alla mia nuova classe come il fratello di Kazemaru, ragion per cui quel giorno tutti i bambini si chiesero perché il mio cognome fosse differente. Ricordavo di aver pianto, decisamente imbarazzato (i bambini sanno essere crudeli, a volte involontariamente).
La dottoressa aspettò con pazienza che tutti sistemassimo i nomi sul banco, operazione che durò cinque minuti pieni perché un ragazzo non riusciva a piegare il foglio in modo che la scritta fosse visibile, sbirciando al di sotto della massa di capelli biondo fine, così scompigliati da far somigliare la sua testa ad una scopa, si poteva intravedere con facilità un’espressione molto, molto assonnata. Quando finalmente anche lui, vinto il sonno per qualche istante, riuscì a mettere a posto il foglio, la dottoressa fece un giro dei banchi per controllare quelli degli altri e passandomi vicino mi gettò un’occhiata che forse avrebbe voluto essere rassicurante, ma che invece mi fece solo innervosire ulteriormente. Guardai l’orologio appeso alla parete alle nostre spalle e feci un verso di sofferenza accorgendomi che era passato pochissimo tempo ed io già avevo perso la poca pazienza che avevo. Avrei voluto andarmene appena avevo messo piede in quella stupida stanza; anzi, per essere precisi, avrei voluto fare dietrofront appena l’auto mi aveva scaricato davanti alla clinica.
Una volta terminato il suo giro, la dottoressa tornò alla propria scrivania e si sedette dietro di essa; appoggiò i gomiti e intrecciò le dita in modo professionale, ci scrutò per alcuni istanti e un sorriso le distese la bocca larga e carnosa
-Oggi cominceremo con un esercizio per scaldarci, che ne dite?- esclamò, allegra. La sua solarità era del tutto fuori luogo. Mi guardai intorno e notai che, a parte lei, nessuno sembrava particolarmente entusiasta di prendere parte alla seduta: la maggior parte dei ragazzi fissavano il vuoto, una ragazza seduta in ultima fila si guardava le punte dei capelli biondi con grande concentrazione, e il tipo con i capelli a scopa era infine crollato con la testa sul proprio banchetto, vinto dal sonno, e aveva anche schiacciato con il braccio il cartello col nome, appiattendolo sotto il proprio peso. Fantastico. Ancora una volta fissai l’orologio e la sua cornice giallo limone, quindi tornai a guardare avanti con un sospiro.
La psicologa (che come molti suoi colleghi era tanto più allegra quanto più la situazione era disperata) non si lasciò scoraggiare dalla scarsa emotività del suo pubblico e non smise di sorridere con condiscendenza.
-È un esercizio molto semplice. Dovete soltanto chiudere gli occhi e rilassarvi… Tra cinque minuti, quando vi dirò di smettere, vi distribuirò dei fogli e voi scriverete ciò che avete visto- ci spiegò, mimando parola per parola le istruzione come se parlasse a dei sordomuti.
Qualcuno sbuffò nelle ultime file, tuttavia, nonostante quest’atteggiamento di palese disapprovazione, al cenno della psicologa tutti (eccetto il bell’addormentato, che non aveva l’aria di voler lasciare così presto le braccia di Morfeo) le obbedirono e chiusero gli occhi.
Lo feci anche io, sebbene mi sentissi profondamente a disagio.
Inspiravo ed espiravo meccanicamente, cercando di concentrarmi. Il buio che mi circondava, anziché rilassarmi, mi provocava ancora più ansia; improvvisamente il poco spazio tra la sedia e il banco diventò claustrofobico, soffocante, e quasi istintivamente i miei polmoni si allargarono per prendersi più aria possibile.
-Mancano tre minuti- disse la voce della psicologa, da qualche parte della stanza, e da qualche altra parte qualcuno iniziò a cantare: dapprima era solo un eco distante, una melodia sussurrata tra le labbra, senza parole precise, poi il suono mi parve diventare sempre più forte, il senso dell’udito affinato dall’accecamento della vista. Prima che me ne rendessi conto, la canzone era ovunque; mi sembrava di conoscerla, ma al tempo stesso le parole del testo non riuscivano a riaffiorare alla mia memoria.
-Basta, basta, basta!- Mi premetti le mani sulle orecchie, aprii gli occhi e tutto si fermò.
Intorno a me c’era solo un silenzio piatto e sorpreso, tutti gli sguardi erano puntati su di me, compreso quello della dottoressa, che mi guardava accigliata da dietro le lenti spesse degli occhiali.
-Qualcosa non va, Midorikawa-kun? Manca ancora un minuto e mezzo- osservò, indicando con un cenno del mento verso l’orologio giallo limone che ticchettava sul muro.
Avevo il respiro affannoso; deglutì e abbassai le mani, imbarazzato.
-No, io… mi dava fastidio che qualcuno cantasse- risposi, sforzandomi di essere il più educato possibile. Gli altri ragazzi continuavano a fissarmi con occhi spenti e bocche aperte, tranne la bionda, che sembrava sorpresa, e l’addormentato, che era stato ridestato dal mio grido e ora aveva l’aria di non capire nemmeno chi fosse lui stesso.
-Nessuno stava cantando- obiettò la dottoressa, parlando quasi con cautela. Si inumidì le dita con le labbra, staccò un foglio dal blocco e me lo tese lentamente. –Magari vuoi parlarmene? Scrivere ciò che hai visto?- mi propose, gentile, ma colsi la curiosità morbosa nei suoi occhietti verdi.
Io non avevo la minima intenzione di raccontarle alcunché, per cui feci ciò che più mi sembrava giusto in quel momento: spinsi via il banco, mi alzai e scappai fuori dalla stanza.
 
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Per fortuna, per quanto curiosa, la dottoressa decise di non seguirmi; era convinta, probabilmente, che mi serviva del tempo per stare da solo, e che in ogni caso sarei tornato per una successiva seduta, durante la quale mi avrebbe cavato ogni informazione. Ma io non ci tenevo affatto ad essere spremuto da lei, né avevo voglia di rivederla una seconda volta. Non sarei mai più tornato in quella stanza.
Rimasi a ciondolare nell’edificio, ignorando le occhiate torve delle segretarie, finché il mio cercapersone iniziò a squillare nella tasca dei miei pantaloni. Guardai rapidamente l’orologio. Ormai la lezione doveva essere terminata da due o tre minuti. Risposi, già sapendo che si trattava di Hitomiko. Avevo rimuginato a lungo su un piano per far finta di prendere parte alle sedute, solo per farla contenta, ma non appena aprii la chiamata e lei mi chiese com’era andata, seppi che non potevo mentirle. Con Hitomiko, che era sempre seria e sincera, il minimo che si potesse fare era parlarle con la stessa franchezza; una bugia scoperta più tardi sarebbe stata molto peggio.
-Non è andata, ho lasciato a neanche metà seduta- confessai.
Seguirono circa dieci secondi di silenzio.
-Come mai? È stato talmente traumatico?- domandò Hitomiko, quasi la sentivo accigliarsi.
-No! Cioè, non esattamente… in realtà…- Non sapevo come dirle che non avevo retto la pressione senza risultare ridicolo o, peggio, vigliacco. Sbuffai pensando che se non fosse stato per Hiroto, non mi sarei mai trovato in quella situazione assurda. Che l’avesse fatto per il mio bene o no, non avrebbe dovuto impicciarsi… Eppure non riuscivo ad essere veramente arrabbiato con lui, e il fatto che gli avrei perdonato tutto mi irritava ancora di più.
-Pensavo fosse stata una tua idea proporti per queste sedute, ma a quanto pare non ne sei entusiasta. Cosa ti aspettavi? Qualcosa di più divertente?- Il tono duro e leggermente sarcastico di Hitomiko mi riportò alla realtà.
-Una… mia idea?- ripetei, basito. Non avevo idea di cosa stesse dicendo. Hitomiko, che non era una stupida, dovette accorgersene e rimase in silenzio per un altro po’, immersa nei suoi pensieri. Ma io volevo sapere esattamente qual era la situazione, e perché io mi ci fossi trovato in mezzo.
-Posso… chiederle cosa le ha detto Hiroto di me?- osai chiedere.
Ancora silenzio. Non capitava raramente che Hitomiko rimanesse senza parole.
-Non è stato Hiroto a dirmi della tua situazione- disse infine. –È stato Kazemaru. Ha detto anche che sarebbe venuto a prenderti lui alla clinica-. Tacque di nuovo, poi aggiunse:- Non ne sapevi nulla?
No, per niente.
Sentii nausea e un irrefrenabile desiderio di gridare, ma non so come riuscii a mantenere la calma e chiudere la chiamata con Hitomiko in modo educato. Guardai l’orologio digitale sullo schermo del cercapersone: ormai doveva essere arrivato.

 
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Kazemaru mi aspettava da solo all’uscita, in piedi accanto al parchimetro delle auto. Andai dritto da lui e non gli lasciai il tempo di aprire bocca.
-Perché diavolo l’hai fatto?!- gridai, e nel mentre gli diedi anche spintone.
Kazemaru barcollò all’indietro e mi rivolse un’occhiata sbalordita.
-Midorikawa?! Non capisco cosa stai…
Lo interruppi con rabbia, afferrandogli le spalle.
-Ti ho detto quelle cose in confidenza! Come hai potuto spifferarle a Hitomiko?! Ora tutti pensano che sono… be’, pazzo!
Kazemaru smise di fissarmi in stato di shock e posò le mani sulle mie, nel tentativo di calmarmi, o quanto meno di liberarsi dalla presa.
-Questo non è vero!- esclamò.
–Ascolta, so che sei confuso e spaventato, ma queste visite possono aiutarti! Quei sogni hanno sicuramente un significato che…
-Non me ne importa niente, lo vuoi capire o no?!- sbottai. –Non m’importa dei sogni, non m’importa del mio passato, non voglio saperne niente…
-A me sembra che t’importi eccome, invece!
Lo fissai malissimo.
–Ah, ora vuoi psicanalizzarmi anche tu? Ma vi ci mettete tutti insieme? Tu, Hitomiko, Hiroto... Potreste anche farvi gli affari vostri ogni tanto!
Kazemaru s’irrigidì. Sentii le unghie conficcarsi nella mia pelle.
-Cosa c’entra Hiroto?- domandò. D’un tratto sembrava molto teso, quasi contrariato dal fatto che nel discorso, chissà come, fosse saltato fuori quel nome. 
-Ah certo, lui c’entra sempre, vero?- disse, con amarezza.
-Non mi avevi detto nemmeno che uscivate insieme… Io proprio non capisco! Prima lo odiavi, poi per un mese non vi vedete e al ritorno siete inseparabili! State insieme così spesso che quasi non hai tempo per altro.
Il tono ostile, quasi di accusa, mi irritava. Non potevo credere che avesse la faccia tosta di mostrarsi offeso. Sentii una grande rabbia montarmi dentro e il rancore che mi ero portato dentro per mesi esplose in tutta la sua forza.
-Hai un bel coraggio a rinfacciarmi una cosa del genere. Potrei scommettere su quanti minuti al giorno passi con Endou- risposi acido. -E non è colpa mia se hai deciso di ignorarmi! Che avrei dovuto fare? Aspettarti come un cagnolino senza stringere rapporti con nessun altro?
Kazemaru sembrò cadere dalle nuvole.
-Ignorarti? Ma di che parli?
-Oh, sono certo che se ti sforzi capirai!- sbottai. -Ho cercato di parlarti un sacco di volte, ma tu sembri non avere mai tempo per me, perché per te c’è sempre e solo Endou!
La mia voce tradiva ciò che provavo. Non avevo mai sentito tanto astio verso di lui: era una sensazione nuova. Razionalmente sapevo di dovermi fermare, ma non avevo più il controllo sulle mie emozioni. Kazemaru, intanto, sembrava non essersi reso affatto conto del mio conflitto interiore. Continuava a fissarmi con un'aria ferita.
-Quindi stai dicendo che io ti avrei ignorato? Ma fammi il piacere!- gridò.
–E ora perché ti metti a urlare?! Qual è il tuo problema?!
-No, Midorikawa, io vorrei sapere qual è il tuo problema!- disse, furente. 
-Da quando sei tornato, o a quanto pare anche da prima, ti sei completamente chiuso in te stesso! Ti arrabbi perché mi preoccupo per te, non mi parli dei tuoi problemi... E poi scopro che invece a Hiroto dici tutto! Vuoi sapere qual è il mio problema, Midorikawa? È che tu mi hai completamente sbattuto fuori dalla tua vita, e ora ti comporti come se fosse anche colpa mia!
Sapevo che aveva ragione, ma un’altra parte di me, ben più forte, non voleva ammetterlo. Tirai quindi fuori il mio ultimo, maligno asso nella manica.
-Allora meglio scappare, vero? Meglio accettare di cambiare partner e far finta di niente, vero? So che Endou te l’ha chiesto, non negarlo!- sbottai. Sapevo che era un colpo basso, eppure non riuscii proprio a trattenermi. Volevo ferirlo.
Kazemaru arrossì vistosamente, il che era già una risposta più che eloquente.
-Me l’ha chiesto, ma io gli ho detto solo che ci avrei pensato. Niente di più- si giustificò. Sbuffai, irritato.
-Ma proprio non ci arrivi? Avresti dovuto parlarne con me, prima di tutto! Anzi, non avresti dovuto neanche pensarci, avresti dovuto dirgli subito di no!- Mi morsi il labbro inferiore e aggiunsi:- Ma non lo hai fatto, perché si tratta di Endou. La verità è che il tuo cervello va in pappa quando si tratta di lui! Endou è sempre al primo posto nelle tue priorità…
-Okay, ti rendi almeno conto di quello che stai dicendo? Ti stai davvero mettendo sullo stesso piano di Endou?- Kazemaru mi guardò, esasperato. –Cos’è il tuo, un attacco di gelosia? Dimmi, Midorikawa, siamo tornati ad avere dodici anni e non me ne sono accorto?
-Be', non sarebbe la prima cosa di cui non ti accorgi- dissi, piccato –visto che a quanto pare la tua vita è andata avanti perfettamente senza notare che mi avevi lasciato indietro.
Kazemaru scattò così rapidamente che l’impatto del suo palmo contro il mio viso arrivò inaspettato. Ma mi lasciò un dolore bruciante. Alzai lo sguardo su di lui.
-Mi hai dato uno schiaffo- mormorai, irritato dal fatto che la sua espressione fosse più incredula della mia. Kazemaru annuì e, mentre lui si fissava la mano tremante, mi avvicinai e gli tirai un pugno nello stomaco. 


 

**Angolo dell'AutriceH**
....ed eccoci qua XD Siccome per finire questo capitolo ho usato il tempo che avevo tra l'orario di cena e quello di dormita, seguendo ciò che mi diceva l'ispirazione del momento. Il risultato è stato che oggi mi sono ritrovata con tanti pezzi da allacciare insieme... Oltre alla revisione ho dovuto fare un lavoro di collage... Be', alla fine il capitolo mi piace abbastanza così com'è. 
Shirou, come si può intuire, apparirà come personaggio stabile nell'Hiroto Arc. Ha un suo perché, che non si limita affatto al rendere concreta la GouFubu... Anche Atsuya ricomparirà (non l'ho ucciso, non temete. Lo amo troppo per farlo morire anche in Spy Eleven), e si aggiungeranno molti personaggi nuovi. In effetti, l'Hiroto Arc è la parte della storia che contiene più personaggi in assoluto, spero di riuscire ad introdurli e metterli in gioco per bene :'D
Per quanto riguarda Kazemaru e Midorikawa... C'era da aspettarsi che la rottura sarebbe avvenuta presto, no? Nella mia testa Kazemaru non è un tipo violento, per questo è sorpreso di essere stato il primo a colpire.
Ora credo che andrò un po' a svagarmi su tumblr, ho avuto una giornata piuttosto faticosa XD
Bacioni,
   Roby

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Capitolo 32
*** Mission 32. ~Hiroto's Arc. ***


Ci tengo a ringraziare tutti quelli che continuano a seguire questa fic: non sarei mai arrivata così avanti senza tutti voi, sapere che così tanta gente la legge mi incoraggia ogni giorno a proseguirla. Amo anche leggere le vostre recensioni, quindi anche se non riesco sempre a rispondere sappiate che vi sono profondamente grata. E mando un grande abbraccio a Ursy, che mi ha betato il capitolo! 

Guardai l’orologio appeso al muro, poi mi affacciai dalla finestra: la macchina era ancora lì. Quanta fatica sprecata. Ormai la lezione avrebbe dovuto essere terminata. Fedele alla mia decisione di non rimettere più piede nella clinica, mi ero rifiutato di prepararmi e scendere. Le mie scarpe avevano ancora i lacci sfatti, la mia camicia era sbottonata e la mia voglia di muovermi era stata pari a zero fin da quando mi ero alzato. Tornai a sedermi sul letto e fissai il pavimento, chiedendomi per quanto Hitomiko mi avrebbe permesso di fare i comodi miei prima di minacciarmi di togliermi il distintivo. A quel punto, non sapevo cos’avrei fatto.

 
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Hiroto mi aveva dato appuntamento al piano degli uffici per le quattro, ma era già in ritardo di un quarto d’ora; il giorno prima mi aveva informato di dover uscire presto per una ‘piccola commissione’ (così l’aveva chiamata, ma chissà cosa doveva fare realmente) così al mio risveglio nella stanza c’ero solo io.  Anche gli altri due coinquilini se l’erano filata. Probabilmente Kazemaru non volesse vedere la mia faccia, e il sentimento era reciproco.
Il corridoio era gremito di impiegati e c’era puzza di chiuso e di sudore; sentendomi soffocare, mi aprii la giacca fino al quarto bottone e mi voltai ad aprire la finestra.
Il riflesso che il vetro mi rimandò era quello di un viso stanco, emaciato, con un livido violaceo sullo zigomo sinistro. Me lo sfiorai con un dito, titubante, e una fitta di dolore mi attraversò immediatamente la mascella. Abbassai la mano e senza esitare oltre aprii il battente per togliermi dalla vista quell’orribile immagine di me stesso.
L’aria mi investì in tutta la sua confortante freddezza. Per tutta la mattina aveva piovuto a scatti e ora si respirava odore di humus e terra bagnata.
Una mano mi si poggiò sulla spalla, facendomi sussultare.
-Hiroto, sei in ritardo- brontolai, ma quando mi girai mi trovai di fronte al rosso sbagliato.
-Mi spiace, non sono il tuo principe azzurro- disse Burn, smaliziato. Capii che ormai tutti sapevano della mia relazione con Hiroto: dopo essere stati scoperti da Endou e Kazemaru, Hiroto aveva abbassato notevolmente la guardia e non si faceva problemi ad abbracciarmi da dietro, o anche solo sfiorarmi il viso, il collo, le spalle, come fosse naturale. Beh, dal momento in cui Maki ci aveva visti, non avrebbe più potuto essere un segreto nemmeno se avessimo voluto.
-Uh, che brutta faccia… allora è vero che hai avuto un, mmm, diverbio col tuo amico- continuò Burn. Con un gesto brusco mi prese il mento tra le dita e mi studiò il volto con attenzione.
-Piantala- lo rimbeccai, sfuggendo alla presa.
Anche la mia lite con Kazemaru, a quanto pareva, era un fatto noto ai più; probabilmente una buona parte della mia vita privata era correntemente sulla bocca di tutti quelli che lavoravano nell’edificio. Magari era un loro argomento preferito. Fantastico.
-A giudicare dal tuo umore e da quel livido, direi che hai avuto la peggio- ghignò Burn.
Come se fosse una cosa divertente.
Kazemaru ed io non c’eravamo più parlati da quando, la settimana prima, avevamo perso il controllo ed eravamo letteralmente passati alle mani. Pugni, schiaffi, sberle, c’eravamo picchiati per bene, come mai avevamo fatto, neanche da bambini. Da piccoli c’era la mamma di Kazemaru a separarci, a ricordarci quanto fossimo importanti l’uno per l’altro, a convincerci a darci la mano… ma ora che eravamo soli, io e lui, senza alcuna mediazione, una sciocca canzoncina in rima non sarebbe bastata a farci far pace.
Le mie mani tremarono nelle tasche della giacca al pensiero di quanta forza avevo messo nelle dita mentre chiudevo il pugno e colpivo allo stomaco il mio migliore amico.
Forse, se Burn avesse potuto vedere i lividi che Kazemaru aveva sul corpo, non lo avrebbe giudicato vincitore con tanta leggerezza.
-Comunque, la prossima volta che fate a botte chiamami, eh- Burn mi mise un braccio intorno alla spalla in modo confidenziale e mi ammiccò. –Io e Gazel amiamo fare scommesse…
-Io scommetto che se non lo lasci stare subito, ti ritroverai dritto dritto nel parcheggio- intervenne Hiroto, asciutto, adocchiando la finestra aperta con aria minacciosa.
Vederlo mi procurò un istantaneo senso di sollievo. Gazel, che camminava poco più dietro di lui, sbuffò. Per un attimo mi parve che mi stesse osservando, ma non appena i nostri sguardi furono ad un soffio dall’incrociarsi, lui mi evitò e si concentrò invece su Burn.
-Credevo di averti lasciato del lavoro da fare- osservò, piatto, alzando un sopracciglio.
-Già, come al solito- lo rimbrottò Burn, acido. Fare da segretario a Gazel era una delle cose che più odiava, eppure ci sembrava costretto ogni giorno.
-Sono venuto a prendermi un caffè, è forse vietato?-  aggiunse, torvo.
-A me sembrava piuttosto che stessi importunando Midorikawa- disse Hiroto, proprio nel momento in cui Gazel soffiava, sarcastico:- Beh, la macchinetta è un po’ più in là, genio.
Burn spostò lo sguardo dall’uno all’altro, irritato dal fatto che si fossero alleati contro di lui.
–Uff, come siete noiosi. Ho capito, torno di là- esclamò, più sdegnato che rassegnato, e fece una piccola deviazione verso la macchina delle bevande prima di rientrare in ufficio. Gazel mi lanciò una brevissima occhiata, poi seguì il compagno. Quando la porta del suo ufficio si richiuse alle sue spalle e finalmente ci trovammo da soli (beh, senza contare gli impiegati che ancora brulicavano nel corridoio), Hiroto sembrò rilassarsi e tirò un sospiro.
-Ciao- mi salutò, sorrise.
-Ciao, come va?- ricambiai.
-Bene, direi.- Non mentiva; i suoi lineamenti erano più luminosi e riposati dei giorni scorsi, segno che stava riuscendo a dormire di più, forse aiutato dai pisolini che faceva nel tempo libero, appoggiato sulle mie ginocchia mentre gli accarezzavo i capelli. Aveva persino preso un po’ di colore, per quanto il suo incarnato restasse così chiaro da diventare quasi trasparente in corrispondenza dei polsi, dove le vene azzurre spiccavano in modo quasi inquietante.
Lentamente, mi sfiorò la guancia col dorso di una mano. Il suo tocco, sebbene delicato, mi fece sussultare di dolore laddove c’era il livido, e mi allontanai di scatto.
-Perdonami- disse, cauto. Cercai di sorridere.
-No, non è nulla… Andiamo in mensa?- proposi. Ad eccezione dei momenti dedicati ai pasti, la mensa era normalmente deserta, un luogo perfetto per riflessioni solitarie, per cui non credevo che avremmo avuto compagnia. Mi sbagliavo.
Reina e Maki erano ferme nel corridoio pochi metri prima della porta della mensa ed entrarono  subito dopo di noi, quasi come se ci stessero aspettando. Quando si sedettero al nostro stesso tavolo, il dubbio che quell’incontro non fosse una coincidenza diventò certezza, ma nessuno fece commenti: anzi, per un po’ restammo tutti in silenzio, ognuno per conto proprio.
Seduta di fronte a me c'era Maki, impegnata a stendere vari strati di smalto sulle unghie un po’ mangiucchiate, ed io mi soffermai per un po' ad osservare il procedimento puntiglioso che stava svolgendo con grande concentrazione; in perfetta armonia col suo stile esuberante, aveva scelto un colore diverso per ogni dito. Hiroto aveva lo sguardo incollato allo schermo del proprio cellulare, mentre Reina era apparentemente immersa nella lettura di un romanzo. Apparentemente, parola chiave. Infatti, dopo appena qualche minuto, si stufò di aspettare che io iniziassi una conversazione e decise di rompere lei stessa il ghiaccio.
-Stai bene?- chiese, diretta. Chiuse il libro, lo mise da parte ed appoggiò le mani lievemente intrecciate sul tavolo. Notai che portava dei guanti di stoffa blu, che le fasciavano delicatamente le dita affusolate; sembravano cuciti a mano, con dei ricami bianchi e gialli all'altezza dei polpastrelli. Non l’avevo mai vista portarli.
Reina si accorse che mi ero distratto e simulò un colpo di tosse per richiamare la mia attenzione sulla sua domanda. Alzai gli occhi al cielo.
-Potenzialmente- sbottai, vago. Reina mi guardò accigliata.
-Che intendi quando dici "potenzialmente"?
-Che potrei stare meglio, se tutti la smettessero di chiedermi come sto. E se riuscissi a dormire di più.
-Oh, già. Kazemaru ci ha detto che sei inseguito da incubi- disse Maki, ignorando la prima parte della frase. Era intenta ad ammirare le proprie unghie e, dopo aver dipinto di blu l'indice destro, chiuse la boccetta e ne prese una fucsia per il pollice.
Sentire il nome del mio partner (non per molto) bastò a farmi saltare i nervi già tesi. -A quanto pare, Kazemaru ha deciso che la mia vita non deve avere più segreti per nessuno…- Sbuffai, con la testa poggiata sul tavolo. Il mio commento avrebbe voluto essere solo ironico, ma mi uscì più amaro del previsto: ce l’avevo ancora con lui e sapere che l‘aveva detto anche a loro peggiorò il mio umore.
Le due ragazze parvero notarlo. Hiroto sospirò, rassegnato.
-Tu e lui siete ancora in rotta, vero?- chiese Maki, costernata.
-Non è mica facile, sai- sbottai.
-No, perché voi due insistete a farla complicata- disse Reina, con tono di rimprovero. Normalmente apprezzavo la sua franchezza, ma in quel momento qualsiasi cosa pareva irritarmi a non finire: la guardai torvo e feci per alzarmi.
-Midorikawa- Hiroto non disse altro che il mio nome, ma la sua voce aveva un ben chiara nota d’avvertimento: Non perdere la calma. Non alzò gli occhi dal cellulare, né mi toccò, ma io seguii lo stesso il suo consiglio: feci un respiro profondo, strinsi i pugni sulla panca e rimasi fermo.
-È complicata! Magari non lo sarebbe se la smettesse di agire alle mie spalle-. Faticavo a reprimere il risentimento, e la risposta di Reina mi bruciò come se avesse gettato sale su una ferita aperta.
-Sono sicura che Kazemaru abbia le sue colpe, ma credo anche che la tua reazione sia stata esagerata... È un po’ che sei strano. E rifiutare una richiesta di Hitomiko-san non è una buona idea. Dovresti andare a quelle sedute- disse.
-Non ho bisogno che tu me lo dica- risposi freddamente, ed era vero. Ero cosciente di star sbagliando in più e più modi; ma il fatto di saperlo non mi impediva di perseverare nei miei errori. Mi sembrava di essere sulla strada per un burrone, senza possibilità di risalita.
Reina proseguì, senza darmi tregua, ma il suo tono si addolcì. -Non stare così sulla difensiva... Voglio solo dire che sarebbe meglio fare pace il prima possibile- disse.
Sapevo che era solo preoccupata per me, ma ero troppo irritato per ascoltarla.
-Quello che faccio non sono affari tuoi! Non sono affari di nessuno di voi!- Scattai in piedi e sbattei le mani sul tavolo. Una pessima mossa: le boccette di smalto saltarono sul posto, una rotolò verso il bordo e prima che Maki riuscisse ad afferrarla cadde e si spaccò. Un rosso porporino iniziò a spandersi a macchia d’olio vicino alle sue scarpe.
Fu in quel momento che la sirena iniziò a squillare.
Inghiottii le altre proteste che ero pronto a sputare, chiusi la bocca e il mio sguardo, come quello di tutti gli altri, si posò sui fasci di luci rosse che s’incrociavano sul soffitto.
-Ancora questo suono orribile!- si lamentò Maki, la sua voce appena udibile sotto quel fracasso.
Hiroto si alzò talmente di fretta che rischiò di inciampare nella panca e barcollò in avanti. D'istinto mi gettai verso di lui per aiutarlo, ma lui recuperò subito l’equilibrio e mi rivolse un’occhiata preoccupata.
-Ho l’impressione che tu sappia di cosa si tratti- dissi. –E non è nulla di buono, vero?
-No, non lo è affatto-. Si morse il labbro. –Non avrei dovuto tenere Gazel lontano dall’ufficio stamattina, non avrei dovuto fargli perdere tempo… Spero che vada tutto bene.
-Gazel? Cosa c’entra lui con questo? Hiroto, cosa succede? Possiamo fare qualcosa per aiutarlo?- chiesi, allarmato. Lui scosse il capo.
-Non possiamo fare nulla, solo aspettare che finisca- rispose.
-Ma Gazel è in pericolo?- insistetti, nervoso. Reina e Maki seguivano con grande concentrazione la nostra conversazione, attente a non perdere neanche una parola nonostante il fracasso. Hiroto ci guardò uno a uno, poi le sue labbra si piegarono in una smorfia.
-Lo siamo tutti, Midorikawa- rispose. –Siamo tutti in pericolo.
-Cosa... cosa significa?- chiese Maki in un soffio.
La sirena cessò di suonare, con grande sollievo dei nostri timpani, e invece i nostri cerca-persone emisero una lunga serie di bip. Hiroto tirò il suo fuori dalla tasca e mormorò:- Andiamo a scoprirlo.
 


Non avevo mai visto lo studio di Seijirou così pieno, tanto che solo in quel momento mi resi conto veramente di quanto fosse ampio: l’ultima volta che c’ero entrato risaliva a più di due mesi prima e in quell’occasione ero talmente nervoso per via del caso Jordaan che non avevo caso ai dintorni.
Ora, entrando, notai subito il colore azzurrino delle pareti, il pavimento di legno e le finestre in stile giapponese, i divani di pelle nera contro cui erano appoggiati Kidou, Gouenji, Endou e Kazemaru –i nostri sguardi si incrociarono per caso, e subito scattarono in direzioni opposte. Dall’altro capo della stanza, Burn era appoggiato contro un muro, con gli occhi fissi davanti a sé. Hitomiko era dietro la scrivania di suo padre, a fianco alla poltrona girevole su cui sedeva Seijirou.
Sembra proprio che Hiroto, Maki, Reina ed io fossimo stati gli ultimi ad arrivare.
-Ora ci siamo tutti- disse Hitomiko. Non era del tutto esatto, notai: Gazel non c’era. Mi girai verso Burn, quasi in cerca di spiegazioni, di una qualsiasi assicurazione che stesse bene, ma lui si limitò a scrollare le spalle.
-Di certo vi chiederete perché siete riuniti tutti qui. Vi diremo tutto ciò che sappiamo- affermò Seijirou. –Non ha senso nascondere queste informazioni. Anzi, temo proprio che avremo bisogno di tutto l’aiuto di cui possiamo disporre.
Fece una pausa. Senza nemmeno guardarmi attorno, sapevo che la premessa aveva innervosito ancora di più i presenti: le loro paure ed incertezze erano così fitte che non potevo evitare di percepirle e mi sentivo gelare dal carico di tensione che mi pesava addosso.
-Garshield sta radunando le sue forze, ha iniziato a piccole dosi e ora è in possesso di armi che non possiamo immaginare. Ha cercato di accedere due volte al nostro archivio informatico; non sappiamo come, ma è riuscito a sfondare la sicurezza. Per fortuna, il nostro sistema è dotato di un allarme ben funzionante e Gazel è riuscito ad intervenire in tempo e li ha respinti.
-Oggi è stato più difficile dell’altro giorno- intervenne Hitomiko. –L’archivio era stato danneggiato dal primo accesso e Gazel stava ancora riordinando i dati. In un modo o nell’altro, è riuscito ugualmente ad innalzare nuove barriere e ha buttato fuori gli intrusi, ma adesso è esausto.
-È per questo che non è qui con noi?- chiese Endou, preoccupato. Hitomiko annuì.
-Siccome è già al corrente della situazione, ho pensato di lasciarlo riposare- spiegò.
-Gazel è molto intelligente, può difenderci dall’interno- mormorò Hiroto. –Ma per le aggressioni esterne? È ovvio che nessuno è più al sicuro, dopo quanto è successo ai Fubuki-. A queste parole Gouenji serrò la mascella e strinse i pugni, dei movimenti istintivi e quasi impercettibili.
-È quindi accertato che sia opera di Garshield?- sibilò.
-Temo proprio di sì- Hitomiko confermò le parole del fratello, e aggiunse:- Abbiamo motivo di credere che le persone che hanno aggredito Fubuki Atsuya e Fubuki Shirou siano le stesse che Garshield aveva inviato per togliere di mezzo Kageyama Reiji. La testimonianza di Fubuki Shirou è stata preziosa per questa identificazione, perciò in cambio lui e suo fratello avranno la nostra protezione. Gouenji, Kidou, da questo momento fino a nuovo ordine Fubuki Shirou sarà nelle vostre mani. Per quanto riguarda il fratello, decideremo non appena uscirà dall’ospedale. È chiaro?
-Sissignora- esclamarono Kidou e Gouenji all’unisono. Non appena lei si voltò, Gouenji si lasciò fuggire un debole sospiro di sollievo, forse rincuorato dal fatto di poter tenere Shirou sotto il proprio controllo. Sapevo che si sentiva responsabile nei suoi confronti, non avrebbe permesso che venisse nuovamente ferito in sua assenza.
-Queste persone… di chi si tratta?- domandò Reina, richiamando la mia attenzione su di lei.
-Reina, so che tu, Midorikawa e Maki li avete già incontrati all’ospedale, quindi vi siete già fatti un’idea su di loro. Sono guerrieri e probabilmente drifters. Sono assassini che non si fanno scrupoli ad uccidere, anche quando non è necessario- dichiarò Seijirou, in tono grave.
Maki impallidì. Reina le strinse una mano per tranquillizzarla, ma si vedeva che era nervosa anche lei. A me venne in mente la scena di Fudou che trascinava la gamba sanguinolenta. Avevo la nausea.
-Garshield deve averli addestrati bene, in segreto… Ancora non ne sappiamo abbastanza, ma una cosa è certa: non possiamo permettere loro di organizzarsi, di preparare un altro attacco. Dobbiamo cominciare a creare una contro-offensiva efficace- disse Hitomiko. –Non devono più coglierci di sorpresa, o finiremo per servirgli la vittoria su un piatto d’argento.
-Ma noi cosa possiamo fare, in concreto?- esclamò Reina, frustrata.
-Tenere gli occhi aperti. Addestrarvi. Non tralasciate nulla, lavorate sui vostri punti deboli. Dobbiamo essere forti ed uniti. Se lasciamo un solo spazio al nemico, lui ne approfitterà- ribatté Seijirou. –Ricordate: non è un nemico qualsiasi. Garshield è crudele, spietato. Se gli darete l’occasione di colpirvi… lui vi farà a pezzi.
Ci ucciderà, rabbrividii. Come i genitori di Diam, o il maestro Jordaan, o Shinobu.
Garshield vuole distruggerci tutti.

 
xxx
 

La maggior parte di noi saltò la cena; nessuno, dopo aver sentito le ultime notizie su Garshield, aveva voglia di mangiare, anzi era probabile che la sola idea di mettere qualcosa nello stomaco desse a tutti la nausea. Gouenji però ci andò ugualmente, forse perché sperava di trovarvi Fubuki; Kidou, Endou e Kazemaru lo seguirono.
Hiroto rimase con suo padre e sua sorella, mentre Reina tornò dritta in camera senza degnare nessuno di uno sguardo, così mi trovai da solo con Maki e Burn, il quale però camminava a qualche metro da noi, immerso nelle proprie paturnie. 
-Haruyan è proprio un testardo. È preoccupato per Gazel… Gli vuole più bene di quanto gli faccia piacere ammettere- commentò Maki. Gettai un’occhiata di soppiatto verso il ragazzo. In effetti, benché il loro rapporto fosse costituito perlopiù da litigi e tolleranza reciproca, Burn mi pareva chiaramente in pensiero per il compagno. Più che preoccupato, avrei detto quasi arrabbiato. Con Garshield, con se stesso: forse si rimproverava il fatto di non essere stato utile.
-Io credo che andrò un po’ ad allenarmi al poligono di tiro- disse Maki. –Vieni con me, Midorin?
-No, sono troppo stanco e non mi concentrerei affatto. Scusami.
-Di nulla… chiederò a Haruyan. Magari prendere a botte un bersaglio lo farà sentire meglio.
Le misi una mano sulla spalla e la fermai.
-Scusa per lo smalto- dissi. Mi guardò sorpresa, poi capì che mi riferivo alla boccetta che avevo rotto per sbaglio e fece un cenno di noncuranza con la mano.
–Oh. Non importa. Quel colore non mi piaceva tanto- disse. Stette in silenzio per un attimo, alcuni secondi di riflessione, quindi aggiunse:- Però mi hai fatto un po' paura. Di solito sei così gentile, Midorin, ma oggi non lo sei stato per niente.
Ripensai a quando l’avevo fatta piangere a causa di Jordaan e mi sentii male per lei.
-Mi dispiace- sussurrai. -Non sono affatto gentile.
-Lo sei, o non ti saresti scusato. E comunque, sapevo che avresti potuto reagire così, ma ho deciso di intromettermi lo stesso... Perché, se è per un amico, certe cose bisogna dirle a voce alta-. Mi sorrise, con una punta di tristezza che non sapevo spiegarmi.
Prima che potessi replicare, si girò verso Burn, gli si avvicinò e lo prese per un braccio. Gli mormorò qualcosa all’orecchio e l’altro annuì.
-Allora ci vediamo domani, Midorin!- Maki mi salutò con la mano libera, ricambiai con un cenno. Li seguii con lo sguardo mentre si allontanavano insieme, finché non voltarono l’angolo e sparirono alla mia vista. Non avevo idea di cosa fare, ma ero piuttosto incline all’idea di salire in camera e mettermi a dormire senza ingoiare neanche un boccone: niente da fare, avevo lo stomaco chiuso.
Andai verso le scale. Avevo appena messo il piede sul primo gradino quando sentii qualcuno chiamarmi: una voce piana, sfiancata. Mi girai e Gazel mi rivolse una lunga occhiata, studiando la mia espressione.
-Midorikawa- disse infine -hai un minuto?
 

Nonostante Hitomiko gli avesse lasciato libera la fine della giornata, Gazel non appariva per nulla intenzionato a riposare. La sua scrivania era così piena di fascicoli che era impossibile vederne anche solo un angolo, i fogli arrivavano ad ammassarsi sulla sedia girevole su cui di solito stava seduto lui. Quella di Burn era libera, e lui me la indicò con il mento.
-Siediti- disse. Invece di obbedire, restai in piedi a fissarlo stupito.
-Che succede?- esclamai, anche se la vera domanda era: cosa voleva da me? Osservai il suo volto pallido, le borse sotto agli occhi e le labbra screpolate.
-Dovresti riposare- dissi, fissandolo come potesse svenire da un momento all’altro.
-Sciocchezze- brontolò lui, alzò gli occhi al cielo.
–Siediti. Mi è… giunta voce che tu abbia interrotto le visite- affermò, impassibile.
Feci una smorfia, irritato dal fatto che la mia vita privata non fosse più privata.
–E con ciò? A te che importa?- esclamai, stizzito, ma Gazel mi ignorò totalmente.
-Sai, Midorikawa, io voglio laurearmi in psicologia- dichiarò, impassibile.
Lo guardai e un pensiero lampo mi attraversò la mente. –Vuoi esercitarti su di me?!- La mia esclamazione scioccata gli strappò un piccolissimo sorriso.
-Oh, sì, sei un soggetto interessante. Non l’unico da queste parti, certo. Invero, direi che abbiamo a disposizione una bella compilation di casi patologici… Ma tu sei abbastanza interessante.
-Percepisco dell'ironia nella tua voce...- brontolai. -Mi prendi in giro?
-Ovviamente. Pensi che prenderei così sotto gamba la psicologia da improvvisarmi uno psicologo così, dal niente? No, non voglio laurearmi in psicologia. Voglio solo parlare, scemo.
Beh, almeno era onesto. Restava però il fatto che non volevo nessuno nella mia testa, e Gazel mi faceva abbastanza paura. Avevo l’impressione che sarebbe arrivato ad aprirmi la scatola cranica pur di soddisfare i propri bisogni scientifici.
-Perché credi che dovrei dirti tutto quello che vuoi sentire?- domandai lentamente, studiando con la coda dell’occhio la distanza tra me e la porta, come un topo in trappola. –Perché dovrei parlare con te, di tutte le persone?
Gazel scrollò le spalle.
-Perché hai detto che non vuoi essere aiutato e, infatti, non è mia intenzione aiutarti. Ho chiesto il permesso a Hitomiko di lasciarti a me unicamente per i miei scopi personali- disse. Lo guardai sorpreso, cercai nella sua espressione un indizio che mi aiutasse a capire se mi stava ancora prendendo in giro. A quanto pareva, però, stavolta era serio.
-Wow, evviva l'onestà- replicai, piatto. Non avevo alcuna voglia di continuare a discutere, per cui sospirai e mi lasciai cadere sulla sedia girevole, accavallando le gambe per stare più comodo. -D’accordo. Cosa vuoi che ti dica?
Percepii un immediato sollievo da parte di Gazel, che solo allora abbandonò la porta. Si sedette sulla scrivania, frugò nelle carte e ne tirò fuori un block-notes e una matita.
-Partiamo dall’inizio... Perché hai abbandonato l’ultima seduta a metà?- domandò.
Cercai di nascondere la mia irritazione. Pensavo che saremmo partiti dal generico, ma quella era una domanda ben precisa, Gazel non aveva preso la questione alla larga. Siccome non riuscivo a rispondere e sostenere il suo sguardo contemporaneamente, decisi di concentrarmi sul pavimento mentre rispondevo senza entusiasmo.
-Dall’inizio, eh…- ripetei. -Eravamo in una stanza, io, la dottoressa e altri ragazzi. Dovevamo fare un esercizio, chiudere gli occhi e rilassarci. Credevo che mi sarebbero apparse delle immagini, invece ho sentito una canzone. Ho riaperto gli occhi…- Mi fermai, poi sputai la fine del racconto, tutta d’un fiato:- Nessuno stava cantando. Tutti mi fissavano. Mi sentivo braccato, non so, avevo la nausea e una sensazione di oppressione… Sono andato nel panico.
Inspirai profondamente prima di alzare lo sguardo. Nonostante l'espressione neutra e indifferente sul volto di Gazel, io potevo percepire la sua curiosità in modo palpabile.
-Di cosa hai paura?- mi chiese Gazel, serio.
Un’altra domanda specifica. Come poteva essere ancora così lucido, così acuto, dopo una giornata del genere? Gazel mi spaventava davvero.
Osservai i suoi occhi, affilati come pezzi di vetro, con cui trafiggeva impietoso chiunque avesse il coraggio di incrociarli, ma anche profondi e attenti a ciò che lo circondava. Lui era davvero bravo a capire le persone, senza "barare" come facevo io grazie all'empatia. Rendermene conto non fece che aumentare la mia voglia di filarmela.
Gazel non era paziente come ci si sarebbe aspettato da uno psicanalista, né era dell’umore giusto per lasciar correre la mia indecisione. Si stancò presto di aspettare una mia risposta; fece roteare la matita fra le dita un paio di volte, se la infilò dietro l’orecchio e, dopo aver gettato un’occhiata inquisitoria alla porta, come per controllare che nessuno (Burn, nello specifico) stesse origliando, iniziò a parlarmi lentamente, come si fa con i bambini.
-Rendiamo le cose più semplici- mi disse. -Ipotizziamo che esistano soltanto due tipi di paura: quella del dolore e quella dell’ignoto. Tutte le altre nascono da queste due. Capisci?- Aspettò di vedermi annuire.
-Quindi… quale ti fa paura?- La sua voce era tranquilla, neutra, ma i suoi occhi erano intensi e penetranti, chiedevano silenziosamente accesso ai miei segreti.
Mi morsi l’interno della guancia ed anche stavolta non dissi nulla. La risposta non era affatto complicata, né scontata.
-Okay, per oggi chiudiamo qui- affermò Gazel, tirandosi dietro, apparentemente soddisfatto. Anche se non avevo detto nulla, lui aveva già tutte le risposte che gli servivano, per il momento.
-Sono un po’ incasinato, come vedi, ma ho tempo domani nel pomeriggio. Facciamo verso le cinque? Ti avverto che se non vieni con le tue gambe, ti ci trascinerò io- disse.
Sbuffai e mi alzai, lanciai un’ultima occhiata alle pile di carte che traballavano, miracolosamente ancora in equilibrio, sulla sedia di Gazel.
-Perché lo fai?- domandai, capriccioso. –Hai fin troppi problemi senza che ti addossi i miei…
-Non ha niente a che vedere con questo, è solo che mi servi.- Gazel chiuse il blocchetto e lo posò con cura sulla scrivania, sopra sette cartelline di cartone giallastro. Quando alzò lo sguardo, la luce che avevo intravisto prima era ancora lì.
-Io posso capirti meglio degli altri. Infatti, anche io non ricordo affatto il mio passato- confessò, non senza sforzo. Subito dopo, infatti, cambiò discorso.
-Inoltre, qualcuno mi ha chiesto un favore. Questa persona mi ha aiutato parecchio tempo fa ed io odio essere in debito. Con questo, sono a posto- disse, quindi si voltò e iniziò a rovistare tra i fogli. Pensai che probabilmente avrebbe lavorato tutta la notte per mettere al sicuro dati e informazioni che, per fortuna, non erano soltanto online, ma anche cartacee. Gli attacchi di Garshield alla sua postazione informatica non gli erano andati a genio, perché se c’era una cosa che Gazel odiava più che essere in debito con qualcuno, quella era perdere.
 
Quando finalmente raggiunsi la mia camera, gli altri coinquilini non erano rientrati ancora, perciò riuscii a farmi una doccia ed infilarmi a letto senza che nessuno mi disturbasse o mi mettesse fretta. Lasciai cadere la testa sul cuscino e chiusi gli occhi sperando di fare un sonno lungo, tranquillo e soprattutto sgombro da strani sogni.
Ma continuavano a tormentarmi le parole di Gazel: Quale ti fa paura? E poi, mentre scivolavo nell’oblio, una voce dentro di me si rianimò cogliendomi di sorpresa e tirò fuori la risposta a cui non avevo avuto il coraggio di dar voce: Entrambi.
Dolore e ignoto; avevo paura di entrambi.

 
**Angolino dell'autrice**
Buonasera :)) 
In questo capitolo diventa chiaro che Gazel avrà un ruolo piuttosto importante in quest'arc: su di lui non ho detto quasi niente finora e molto verrà a galla verso la fine della storia... Inoltre, mi dispiace dirlo, ma non riuscirò ad inserire nella fic un vero e proprio approfondimento sul rapporto tra lui e Burn. Avrei voluto raccontare com'è avvenuto il loro primo incontro e come sono finiti all'Inazuma Agency, ma proprio non avrò occasione di inserire questi episodi nella trama principale (siccome io per prima ci tenevo tanto, avevo pensato di fare uno spin-off a parte; ma si vedrà, non posso promettere nulla).
Gazel legherà molto con Midorikawa, appunto perché vengono da esperienze simili. Una delle mie cose preferite, in Spy Eleven, riguarda proprio Midorikawa e il suo rapporto con gli altri personaggi! Midorikawa e Kazemaru ancora non si sono riappacificati (ci metteranno un po' di tempo) e intanto anche il rapporto tra Midorikawa e Hiroto continua ad evolversi... Anche Reina e Maki sono, a modo loro, importanti per Midorikawa: Reina si comporta un po' da mamma con lui, mentre Maki è come una sorella minore. E tra poco cominceranno ad arrivare nuovi e vecchi personaggi, non sto più nella pelle ~
Spero che il capitolo vi sia piaciuto! Bacioni,
Roby


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Capitolo 33
*** Mission 33. ~Hiroto's Arc. ***


Grazie alla mia ohana di avermi betato il capitolo ♥






-Midorikawa, siediti.
Per quanto si sforzasse di essere gentile ed ospitale, gli inviti di Gazel non erano mai molto incoraggianti, probabilmente perché non riuscivo a tralasciare il dettaglio che fossero sedute costrittive: se osavo non presentarmi, infatti, Gazel mi costringeva letteralmente, a costo di trascinarmi di peso. Non era proprio il tipo da compromessi o mezzi termini, era più che altro dell’idea che le cose si dovessero fare a modo suo, senza se e senza ma. Non si sedeva mai su una sedia, preferiva accomodarsi sulla propria scrivania, come un gatto, e manteneva sempre una certa distanza da me, come se il contatto fisico lo disgustasse. Il tono che usava per le domande era calmo e distaccato: sebbene ogni tanto si lasciasse andare a sbuffi d’impazienza, stava sempre ben attento a tradire pochissime emozioni.
-Riprendiamo dai tuoi sogni. Non mi hai ancora raccontato nulla di specifico. Cosa ti succede, in quest’incubo? Raccontami i dettagli- disse. Anche questa volta, non aveva preso la questione alla larga; non lo faceva mai. –Ehi, ci sei?- Richiamò la mia attenzione con uno schiocco di dita.
Annuii, tentando di ignorare il fatto che la sola vista del suo blocchetto mi mettesse ansia, e gli descrissi brevemente il mio sogno. Non ero molto propenso a scendere nei particolari e quasi mi aspettavo che Gazel mi rimproverasse, invece lui ascoltò tutto in silenzio, con attenzione, senza interrompermi nemmeno una volta.
Alla fine, quando mi fermai, aspettò qualche secondo per accertarsi che avessi effettivamente terminato, poi intervenne con una domanda:- Cosa c’è dietro la porta?
Sospirai e mi buttai indietro sulla sedia, alzando lo sguardo al soffitto.
-Non lo so... Mi sveglio sempre nell’istante in cui sto per aprirla, perciò non so cosa ci sia dietro.
Quando tornai a fronteggiare il mio interlocutore, mi accorsi che aveva iniziato a scarabocchiare note sul taccuino, freneticamente, come se la sua mano fosse posseduta da una forza misteriosa. Mi soffermai ad osservarlo. Gazel era mancino e amava arrotolarsi le maniche della maglia fino all’altezza delle spalle, vestiva sempre come se ci fossero stati una trentina di gradi, nonostante il condizionatore della stanza segnasse solo nove gradi sopra lo zero; le sue braccia, nude e lisce, del colore del caffelatte, sussultavano leggermente seguendo i gesti rapidi della scrittura.
Una volta terminato di appuntare qualunque cosa lo avesse colpito della mia descrizione, rimase a fissare la pagina, immobile se non per qualche movimento impercettibile delle labbra, poi, all’improvviso allontanò il blocchetto dal proprio viso.
-È una “stanza 101”disse. Nel suo sguardo si era accesa una luce. Sapevo cosa voleva dire, quella luce. Era una consapevolezza, un’idea: naturalmente aveva elaborato una qualche ipotesi che sfuggiva alla mia comprensione.
-Scusa, non ti seguo- fui costretto ad ammettere. 
Lui sbuffò, quasi risentito della mia ignoranza. -Dicevo che la porta potrebbe essere come la “stanza 101” di Orwell. È una metafora, un luogo dov’è contenuto tutto il male del mondo- spiegò, sbrigativo, senza soffermarsi a spiegare in dettaglio cosa c’entrasse Orwell.
-Da quanto mi hai detto, la porta del sogno potrebbe essere la tua “stanza 101”, cioè contiene ciò che più ti terrorizza al mondo. Il motivo per cui ti svegli sempre prima di aprirla è che tu non vuoi vedere ciò che c’è dietro. È il tuo sistema nervoso che ti ordina di svegliarti. Mi segui?
Annuii, constatando quasi incredulo che tutto ciò aveva un senso.
–Non hai niente da dire? Nessun commento da fare? Sicuro di aver capito sul serio quello che ti ho detto?- Gazel mi interrogò, scettico.
-Ho capito!- Avvampai di vergogna. -Stavo soltanto pensando che… che sei davvero intelligente. Io non avrei mai capito tutto questo da solo…- notai. –Mi chiedo come mai tu non abbia fatto progressi riguardo i tuoi stessi ricordi…
Lo osservai mentre girava il taccuino e tamburellava la penna su una nuova pagina bianca, facendo scattare il meccanismo di chiusura-apertura della penna (clic, clic, clic).
–Anche io potrei aver paura- ammise, riluttante, a bassa voce. –A volte siamo così bravi a fingere che vada tutto bene, che la nostra mente ci convince davvero che sia così... Selezioniamo sempre e solo le realtà che ci piacciono di più.- (Clic, clic.) -Forse è anche per questo che fatichiamo così tanto a capire cosa passa per la testa degli altri.
–Sai che l’idea che tu possa diventare davvero uno psicologo mi terrorizza, vero?- Feci una mezza risata, ma non scherzavo. Gazel scrollò le spalle come se la ritenesse un’osservazione banale, evitò il mio sguardo e si sporse verso il telecomando del condizionatore.
-Non fa un po’ caldo qui dentro?- disse
-Forse per gli orsi polari sì, fa un po’ caldo- obiettai, sarcastico.
Lui mi ignorò e abbassò la temperatura di qualche grado. Quando tornò a sedersi normalmente, si passò una mano tra i capelli e aprì la bocca per dire qualcosa, ma fu subito interrotto da un improvviso vociare proveniente da fuori. Gazel sbuffò, irritato, e si alzò: probabilmente aveva intenzione di dire a chiunque stesse facendo quella confusione di andare altrove, tuttavia non appena aperta la porta parve calmarsi di colpo.
-Oh- mormorò. Incuriositomi, lo raggiunsi e feci capolino dalla porta, trovandomi di fronte una ragazza con un caschetto blu e grandi occhi dello stesso colore.
Dietro di lei, quattro persone che ben conoscevo.
-Reize!- IC urlò e mi lanciò le braccia al collo, alzandosi sulle punte per potermi abbracciare con più comodità. -Che fortuna incontrarti subito! Pensavamo di doverti far chiamare!
Non li avevo mai visti vestiti così di tutto punto: erano in divisa, una che comprendeva pantaloni al ginocchio, cravatte e giacche aperte, il tutto blu notte, e camice bianche, dai cui taschini spuntavano i distintivi.
-Ragazzi… che ci fate qui?- chiesi, un po’ stordito. Nepper scrollò le spalle e IQ si sistemò gli occhiali sul naso, serio.
-Non hai sentito? Dopo le ultime novità su Garshield, è stata indetta una riunione d’emergenza in cui sono state coinvolte le undici Spy Eleven e le loro squadre. Seijirou Kira ha offerto la propria base come luogo di raccolta- spiegò.
-Il che vuol dire che questo posto si riempirà in breve tempo. Dannazione, non si può proprio stare in pace qui…- brontolò Gazel, che forse pensava di poter stare tranquillo una volta liberatosi di Burn. -Avrei dovuto immaginarlo che si sarebbe sollevato un polverone- aggiunse sottovoce.
Si voltò verso la ragazza che non conoscevo.
-Kurakake, come stai? Mi sembri in salute- disse, con una gentilezza che mi colpì molto. Raramente Gazel era così affabile. Guardai la ragazza con aria interrogativa e IC se ne accorse.
-Reize, lei è Clara. È l'unica del nostro team che non conosci, vero?- disse.
-Per forza. Clara è andata a Tokyo quando Reize è venuto da noi, ricordi?- osservò Heat.
La ragazza si accorse di essere al centro dell'attenzione e le sue guance si tinsero di rosso. Fece un piccolo inchino per dissimulare l'imbarazzo. Gazel stava per dire qualcosa, ma in quel momento IQ si frappose di colpo tra lui e Clara, facendola sobbalzare.
-Ho sentito dire che molte delle intercettazioni sono state merito vostro. Vi faccio le mie più sentite congratulazioni- esclamò. Per la prima volta da quando lo conoscevo sembrava in soggezione, ma i suoi occhi brillavano di ammirazione. Il suo volto si illuminò, possibilmente, ancora di più quando Gazel acconsentì a stringergli la mano.
-Intercettazioni? Quali intercettazioni?- intervenni, sorpreso.
IQ si sistemò gli occhiali sul naso e mi guardò con sufficienza.
-Come puoi non saperne niente, tu che lavori qui?!- mi rimbeccò. –Non solo la vostra postazione è riuscita per ben due volte a respingere gli attacchi del nemico, ma ha saputo sfruttare l’infiltrazione di dati esterni per rilevare la posizione dei pirati informatici ed intercettare dati utili al fine di smascherare i loro piani. È stato un lavoro di tutto rispetto!
Si voltò verso Gazel con sguardo profondamente ammirato, come per cercare conferma, ma l’altro si limitò a scrollare le spalle ed infilarsi le mani in tasca con la consueta inespressività.
-Facciamo del nostro meglio- disse, vago.
Avevo la sensazione che sminuisse i suoi meriti per non avere scocciature, ma al contempo il lieve sorriso che gli era comparso sul volto tradiva un certo compiacimento. Sospettavo anche che, oltre ad un valido contributo alla missione, il suo impegno nelle intercettazioni fosse stata la sua personale rivincita contro l’attacco di Garshield ai suoi archivi informatici.
Sì, Gazel odiava decisamente perdere.
Mentre IQ continuava a inondare Gazel di complimenti e chiacchiere su roba elettronica di cui non capivo assolutamente niente, IC si staccò da me e mi rivolse un gran sorriso.
-Sai, Diam non vedeva l’ora di vederti e appena arrivato è corso subito dentro! Ah, se sapesse che ti abbiamo visto prima noi…- Si portò una mano alle labbra e ridacchiò.
Quindi c’era anche Diam. Ovviamente c’era anche Diam.
Al solo sentire il suo nome, sentii lo stomaco annodarsi per il nervosismo. Che diavolo gli era saltato in mente? Ora chissà dove avrei dovuto cercarlo… Ero impaziente di vederlo, e mi chiesi se fosse davvero possibile perdersi nella nostra sede.
-Dai, non preoccuparti. Prima o poi salterà fuori- ghignò Nepper. –In fondo è solo colpa sua e della sua testa calda… E poi Zell l’ha seguito per accertarsi che non facesse guai.
-Almeno sapete che direzione ha preso?- lo interruppi, non potendo evitare un tono speranzoso, quasi urgente. I ragazzi assunsero un’espressione pensosa, poi Heat indicò con sicurezza la fine del corridoio, e più precisamente le scale: doveva essere salito di sopra. Mi voltai verso Gazel e lui mi fece un cenno d’assenso, il che voleva dire che per il momento mi lasciava andare.
Salii le scale due gradini alla volta, di corsa, senza curarmi del rumore che facevo, e con un ultimo slancio saltai sul pianerottolo del primo piano.
Naturalmente, mi era capitato di pensare a Diam nei mesi in cui non l’avevo visto. Non avevamo promesso di sentirci in alcun modo ed entrambi avevamo avuto altro da fare; io ero stato molto preso dalla faccenda di Fudou, poi da Hiroto e da Kazemaru.
Ma erano le piccole cose a ricordarmi di lui, occasionalmente: un odore particolare, o i colori, o anche il modo di allacciarsi le scarpe, dettagli che durante la convivenza non mi ero accorto di aver assimilato. Avevo pensato spesso a lui, ma fu solo quando lo vidi, in carne ed ossa, davanti a me, che mi resi conto di quanto mi fosse mancato.
Sebbene indossasse un'anonima divisa blu, Diam aveva trovato ugualmente il modo di distinguersi. Si era legato in vita la giacca e aveva arrotolato le maniche della camicia fino agli avanbracci. Al polso destro portava un polsino verde. Guardai i suoi piedi: i lacci delle scarpe erano di due colori diversi, annodati due volte, con le punte infilate dentro. Mi venne spontaneo sorridere. 
Diam stava parlando animatamente con Maki. Quando mi avvicinai, lei si girò e mi salutò con la mano alzata.
-Ah, Midorin! Qui c’è un ragazzo che ti cerca, un tipo spassosissimo!- esclamò.
Diam si voltò nella mia direzione e nello stesso momento mi gettai ad abbracciarlo. Ci stringemmo a vicenda.
-Ehi, Reize! Dov’eri finito?
Scossi il capo e affondai il viso nella sua spalla, respirando il familiare profumo di limoni.
-Io ero fermo al piano di sotto, scemo. Sei tu che sei andato girando- lo accusai, scherzoso, e lui scoppiò in una fragorosa risata.
-Ops. Scusa. Ah, sei diventato più alto, o sbaglio? Però non hai cambiato pettinatura.- Si scostò per osservarmi meglio. –Uh, non sei stato lontano dai guai, direi… Sai, secondo me hai un bel viso, è un vero peccato continuare a sfregiarti così. Dovresti starci più attento- aggiunse, imbronciato, quando riuscì a vedermi bene in faccia. Il livido fattomi da Kazemaru aveva cambiato colore, passando da violaceo a rosso.
Diam sospirò, quasi rassegnato, e mi attirò di nuovo tra le sue braccia. Al contrario di me, non era cresciuto in altezza ed ora era più basso di me di almeno cinque centimetri.
-Mi sei mancato- mormorai, sincero. Lui si scostò e mi scoccò un bacio appiccicoso sulla guancia
-Anche tu, Reize, anche tu- rispose. Il suo volto era ridente e luminoso, i capelli castano scuro erano legati in una specie di coda di cavallo e l’orecchino di sua madre pendeva dal lobo sinistro, ben visibile a tutti. I suoi occhi s’immersero nei miei, ipnotici come sempre, e mi mozzarono il fiato per qualche istante: sapevo cosa stava per succedere.
-Midorikawa?- Qualcuno chiamò il mio nome alle mie spalle.
Schiaffai le mani sulla bocca di Diam e lo spinsi via con decisione, poi mi voltai di scatto sperando di non essere arrossito in modo troppo evidente.
-Ouch, Reize, ma che ti è…- Diam, per una volta, si zittì da solo: lui aveva visto Hiroto, che stava a pochi metri da noi.
-Mm? Che succede, che succede?- Maki ruppe il silenzio, sporgendosi curiosa verso di noi per capire come mai ci fossimo improvvisamente bloccati tutti. A quel punto, Hiroto sospirò, si passò una mano dietro la nuca e sorrise in modo incerto.
-Midorikawa- ripeté il mio nome lentamente, quasi accarezzandolo, poi aggiunse:– Uh… buongiorno… Interrompo qualcosa?- Lanciò un’occhiata verso Diam e il sorriso si affievolì.
-N-no, nulla! Buongiorno!- risposi, con una voce lievemente stridula. Non aveva visto Diam che tentava di baciarmi, vero?! Oddio, ma quando era arrivato? Avrei voluto scomparire!
-Ehilà- salutò Diam, facendo capolino alle mie spalle. Lui e Hiroto si stavano ancora studiando, tranquilli: non sembrava esserci nessuna ostilità tra loro, solo una certa tensione e della naturale curiosità.
-Uhm… Hiroto, lui è Diam. Diam è stato il mio…
-…partner in Hokkaido- finì Hiroto. -Lo so. Ho sentito dire… molte cose su di lui.
-Non molto lusinghiere, mi sa- osservò Diam serenamente.
-No, infatti- ammise Hiroto. Io e Maki spostavamo lo sguardo dall’uno all’altro, curiosi di sapere come si sarebbe risolto quello strano scontro psicologico, mentre Reina pareva del tutto disinteressata. In verità, era molto immersa in una conversazione con Zell: non l’avevo notato prima, ma, come aveva detto Nepper, doveva aver seguito Diam e ora si trovava anche lui lì, un po’ per caso. La cosa più strana era che lui e Reina parevano conoscersi. Avrei indagato più tardi.
-Ma questo non importa- aggiunse Hiroto dopo un po’. –So che sei importante per Midorikawa… tutto il resto non conta.
La tensione nell’aria diminuì di colpo. Hiroto scrollò le spalle e tese la mano in avanti. Diam la guardò sorpreso, poi la sua bocca si allargò in un gran sorriso: afferrò al volo l’occasione con gioia.
-Giusto, giusto! Allora, io sono Diam, come hai sentito- esclamò –mentre tu sei…?
-Kiyama. Kiyama Hiroto. E sono…- Mi lanciò uno sguardo e arrossì impercettibilmente. -…venuto a cercare Midorikawa per dirgli una cosa-. Tossicchiò e mi fece cenno di avvicinarmi.
 Annuii, confuso dal suo comportamento, e lui mi afferrò per un braccio e mi trascinò in un angolo. –Allora, Zell, fatto colpo?- Sentii Diam ridere amabilmente alle nostre spalle, e poi Zell balbettare qualcosa di incomprensibile. Ero del tutto certo che fosse arrossito.
Mi volsi verso Hiroto e lo sorpresi a fissare Diam di soppiatto.
-Qualcosa non va? Cosa volevi dirmi?- chiesi, dandogli una spintarella. Lui sussultò e mi guardò, smarrito, come se non avesse capito la domanda. Capitava sempre, quand’era immerso nelle proprie riflessioni. Sospirai, impaziente. 
-Non dovevi dirmi qualcosa?
-Oh. Sì- disse, scosse il capo per liberarsi da altri pensieri.
-La tua camera è stata sistemata… Tu e Kazemaru potete tornarci quando volete.
-Ah, okay… fantastico- replicai senza entusiasmo. Hiroto mi offrì un debole sorriso.
-Immagino che al momento non ti vada di dividere la stanza con Kazemaru… Magari potresti continuare a stare da me, mentre Endou andrà di là. Solo finché le acque non si calmano… cosa che noi tutti speriamo accada presto- propose.
-Va bene- acconsentii, imbronciato.
-Non fare quella smorfia. Sai cosa voglio dire- mi rimproverò –e hai sentito quel che ha detto mio padre. È un momento difficile, e noi dobbiamo restare uniti… Anche tu vorrai far pace, no? Non dirmi che sei ancora arrabbiato?
-No- brontolai –ma questo non basta a sistemare le cose.
Hiroto mi pizzicò una guancia con affetto.
-Comunque, non volevo dirti solo questo. Uhm, sono venuto a prenderti-. Guardò verso il quartetto a qualche metro da noi. Diam fu il primo ad accorgersi del suo sguardo; in realtà, avevo l’impressione che non avesse mai smesso di osservarci.
-Ragazzi, di qui a poco arriveranno altri ospiti… importanti- disse Hiroto. Gettò un’occhiata all’orologio che aveva al polso. –Dovremo tornare di sotto. Mia sorella ci aspetta nella sala riunioni, e sapete che a lei non piace aspettare.
-Importanti? Quanto importanti?- esclamò Zell. –Tipo il primo ministro?
Hiroto sorrise. –Be', non proprio, ma ci sei vicino- disse.
-Wow. Avevo capito che si trattava di qualcosa di grosso… è la prima volta, da quando sono in servizio, che vengono chiamate tutte le Spy Eleven- proseguì il ragazzo dai capelli bianchi. Diam gli diede un colpetto tra le scapole, facendolo sobbalzare.
-Oh oh, sì, non cambiare discorso. Devi ancora dirmi come mai conosci queste due belle ragazze, simpaticone- scherzò. Scoppiò a ridere quando vide l’altro arrossire furiosamente, ma Maki lo precedette.
-Veniamo dallo stesso centro di addestramento, o meglio Zell c’è stato solo per qualche mese. Eravamo molto amici e mi sono sempre stupita che non abbia mai chiesto a Reina di uscire, visto che è palesemente…- Non finì la frase perché Zell le tappò la bocca con una mano e la fulminò con lo sguardo. Purtroppo per lui, questo servì solo a scatenare l’ilarità generale. Diam e Maki erano sulla stessa lunghezza d’onda, e più Zell cercava di giustificarsi, più loro parevano trovarlo divertente. Ebbi un po’ pietà di lui e decisi di sviare il discorso.
-Sai che non sapevo nemmeno avessimo una sala riunioni? Di solito ci vediamo tutti nell’ufficio di tuo padre- osservai.
-Beh, non la usiamo spesso. Voglio dire, è enorme e, che io sappia, è passato moltissimo tempo dall’ultima volta che tutte le Spy Eleven si sono riunite. Spy Eleven con squadre annesse, peraltro. Sembra che la sala riunioni sarà riaperta apposta per l’evento.
-Sì, ma… dov’è?- Avevo girato e rigirato quell’edificio da capo a fondo; era impossibile che una sala del genere mi fosse sfuggita.
-Vedrai.- La voce di Hiroto era piena di promesse, il suo sorriso misterioso. Notai che i suoi occhi brillavano come quelli di un ragazzino.
-Sembri divertirti- commentai.
-Beh, non è che non ci sia mai stato- ammise –ma è passato tanto tempo. Da bambino era uno dei miei posti preferiti… Sai, con tutta quella roba da sala riunioni… è esattamente come nei film, file di sedie e le scalinate e lo schermo gigante…! Ah, adoravamo giocare lì dentro.- La sua voce era carica di entusiasmo e nostalgia.
-Adoravamo? Tu e Hitomiko?
Hiroto non mi rispose. Mi girai a studiare la sua espressione e notai che la scintilla che avevo intravisto nei suoi occhi era scomparsa: d’un tratto era nervoso, in qualche modo tormentato, e si mordicchiava il labbro inferiore mentre guardava fisso avanti.
Entrammo nel corridoio del piano inferiore e Hiroto affrettò un po’ il passo quando ci trovammo a superare la fila di uffici, compreso quello di Gazel. Si fermò davanti all’ultima porta, bussò e ci venne ad aprire Fumiko: indossava la sua divisa in modo impeccabile, con i fitti boccoli rosa che le contornavano deliziosamente il viso scuro, facendo risaltare il colore dei suoi occhi. Era così curata, così elegante, che sembrava quasi voler far colpo su qualcuno. Rivolse un sorriso fugace a Reina e Maki e bisbigliò qualcosa a Hiroto, che annuì e richiuse la porta alle nostre spalle.
A quel punto, la ragazza tornò verso l’interno della stanza, fece il giro di una delle scrivanie e si fermò davanti a quello che sembrava un archivio di ferro, tozzo e rettangolare. Ma non lo era. Era una porta massiccia che, quando Hiroto poggiò una mano su quello che mi era parso un cassetto, si illuminò di una fluorescenza verdognola, tremò e si aprì.
Hiroto e Fumiko entrarono per primi e si misero ai lati della scalinata che scendeva vertiginosamente verso il basso. La sala riunioni era esattamente come Hiroto l’aveva descritta, ma vederla di persona mi gonfiò il petto d’emozione; i miei occhi non riuscivano a saziarsi della bellezza delle colonne di marmo, del pavimento perlaceo, dei tappeti rossi, delle sedie rivestite di velluto brillante e certamente soffice, delle scrivanie di legno dorato addossate ai muri. Lanciai un’occhiata al mio fianco e vidi che Diam, Zell, Maki e Reina osservavano la stanza con la stessa eccitazione. Tornai a guardare avanti e, solo allora, notai le figure che si stagliavano davanti allo schermo al plasma.
Hiroto scese le scale e si affiancò a Hitomiko, Saginuma e Seijirou. Fumiko uscì dalla camera e rientrò, pochi minuti dopo, accompagnando Gazel, Burn, Endou, Kazemaru (Kidou e Gouenji, probabilmente occupati con i Fubuki, erano gli unici dei nostri agenti operativi a mancare all’appello), e poi naturalmente la squadra di Saginuma.
-Questa sala si riempirà molto presto- commentò Seijirou con un lieve sorriso.
-Ma, prima che questo accada, ci sono alcune persone che vorrei presentarvi.
Si fecero avanti quattro persone, un uomo alto e stempiato con un paio di occhialini scuri e tre ragazze che non potevano avere più di vent’anni.
-Prima di tutto, mi sembra d’obbligo che conosciate il signor Raimon. Lavorava nella zona di Tokyo, ma in seguito è stato trasferito in Europa; attualmente è la Spy Eleven di stazionamento in Francia. Sua figlia Natsumi lo accompagna nel suo lavoro e si occuperà del vostro programma di addestramento in questo momento di difficili, ma necessarie, preparazioni. Vi chiedo di affidarvi completamente a lei; sa quel che fa, nonostante la giovane età.
Natsumi Raimon fece un leggero inchino e, quando si raddrizzò, notai i suoi occhi fieri, dello stesso colore nocciola dei capelli lunghi e ondulati. Si girò e indicò le altre due ragazze che erano con lei.
-Aki Kino e Haruna Otonashi fanno parte della mia squadra- disse. Aveva una voce chiara e limpida e il suo giapponese era perfetto, si capiva che era nata e cresciuta qui.
Kino, che indossava una lunga gonna verde pino, lo stesso colore dei suoi capelli e occhi, ci fece un sorriso e ci salutò con la mano, mentre Otonashi si alzò gli occhiali rossi sulla frangia ed esclamò, allegra:- Piacere di conoscervi! Spero che lavoreremo bene insieme!
Hitomiko batté le mani per richiamare l’attenzione su di lei.
-Bene, è ora di andare avanti. Ieri abbiamo ricevuto una chiamata dal primo ministro, che, in via del tutto eccezionale, ci ha chiesto il favore di partecipare alle indagini… con un tramite- disse.
Oltre a quelle della squadra di Raimon, c’erano altre due ragazze in sala. Una delle due, vestita in giacca e cravatta, interamente di nero, si avvicinò con passo sicuro e determinato.
-Il mio nome è Touko Zaizen. Prenderò personalmente parte alla missione contro Garshield, per questo motivo io e la mia guardia del corpo staremo qui per un po’- disse, accennando alla tipa dai capelli azzurri che stava comodamente seduta a gambe incrociate su una scrivania. -Spero di poter lavorare bene con tutti voi!- aggiunse e fece un veloce inchino.
Zaizen… il cognome non mi era nuovo, poi ebbi un flash.
Era la figlia del primo ministro. Non avevo idea che fosse così giovane, né che s’interessasse a queste faccende, ma il suo volto da ragazzina aveva già la fierezza di una guerriera: dava la sensazione, a pelle, di una persona pronta a gettarsi in un baratro al tuo posto, pur di salvarti. Già sapevo che le avrei affidato la vita senza pensarci due volte.
-Hiroto, speravo che tu potessi portare la signorina Zaizen, la signorina Urabe, la signorina Raimon, la signorina Kino e la signorina Otonashi a fare un giro dell’edificio- disse Seijirou, serio.
-Mi piacerebbe vedere dove vi allenate- osservò Natsumi. Hiroto annuì.
-Potete contare su di me- rispose, con un rapido inchino.
Fremevo d’eccitazione: ora che gli ingranaggi erano in moto, non volevo perdermi nulla. Mi girai verso Diam e dalla sua espressione capii che anche lui non vedeva l’ora di cominciare a darsi da fare. –Possiamo venire anche noi?- domandò, infatti, anticipandomi di poco.
Né Hiroto né altri ebbero nulla in contrario.

 
xxx
 
Delle cinque ragazze che camminavano con noi, solo Natsumi era difficile da approcciare: era sempre immersa nel suo taccuino e non dava a nessuno l’occasione di parlarle, o se lo faceva le sue risposte erano brevi e fredde. Sembrava che ci tenesse molto a creare un’immagine di sé calma, composta e rispettabile.
-È timida. Non conosce nessuno qui- mi disse Kino, indovinando i miei pensieri. –Certo, sarebbe diverso se ci fosse almeno qualcuno della squadra americana… o i ragazzi dell’Africa centrale.
-Oh, sì, soprattutto quelli dell’Africa Centrale-. Otonashi ridacchiò e scambiò un’occhiata eloquente con Kino, che sapeva bene di cosa stesse parlando. Al contrario, io e Diam ci guardammo confusi.
Hiroto camminava in testa alla fila, fianco a fianco con Natsumi, Touko e la sua guardia del corpo, Rika Urabe; a chiudere, invece, c’erano Endou e Kazemaru che, non so quando né per quale motivo, avevano deciso di unirsi al gruppo. Come al solito, confabulavano ed erano in un mondo tutto loro. Mi facevano una gran rabbia solo a guardarli…
-Ehi, Reize, il tuo partner è il ragazzo coi capelli azzurri, vero?- esclamò Diam all’improvviso. Parlava a voce alta, abbastanza alta perché l’interessato lo sentisse, ma non pareva importargli; lui non dava mai molto peso alle opinioni altrui.
-Sì.- Speravo che la mia reticenza gli facesse capire che non ero in vena di affrontare l’argomento.
Ma, naturalmente, Diam non capì il messaggio, o meglio lo capì e lo ignorò.
-Uh, non c’è una bella aria- osservò, spostando lo sguardo da me a lui. Poi, improvvisamente, mi buttò un braccio intorno alle spalle e mi strinse forte.
-Forse ti conviene davvero riprendermi come partner. Io e te ci divertiamo insieme, vero?
Ripensai alla nostra ultima missione insieme: essere legato ad un palo con delle manette non era esattamente ciò che avrei definito divertente.
-Credo di doverti regalare un vocabolario per cercare il verbo ‘divertirsi’.
-Ah, ah, sicuro. Mi accerterò di cercare anche ‘noioso’: ti sarà utile, musone.
Gli tirai un pugno nella spalla e lui ricambiò schioccandomi un altro bacio umido sulla guancia, poi cominciammo a ridere come degli idioti finché Natsumi e Hiroto non si voltarono a guardarci e, allora, ci ammutolimmo per l’imbarazzo, continuando però a ghignare sotto i baffi. Cercai di ricordare l’ultima volta che avevo scherzato così con qualcuno, spensierati come bambini. Probabilmente era stato con Kazemaru; era sempre stato lui, il mio compagno di giochi. La considerazione fu come un pugno nello stomaco e la mia allegria si affievolì un po’.
Nel frattempo, però, eravamo arrivati: al di là delle scale, c’erano le porte scorrevoli, a vetri, che ci separavano dal cortile chiuso in cui ci allenavamo nei tempi morti, vale a dire quando non avevamo missioni né lavori d’ufficio da svolgere.
Era grande, con una forma vagamente trapezoidale, e diviso in due parti: subito appena entrati si poggiavano i piedi su una morbida distesa d’erba, sulle quali in genere si tenevano allenamenti di scontri corpo a corpo o le arti marziali; in fondo a tutto, invece, si estendeva il poligono di tiro, un addestramento nel quale potevamo usare sia le armi da fuoco che i nostri doni. Io preferivo spesso le pistole, per non umiliarmi mostrando al mondo quanto il mio potere fosse debole e grezzo.
-Wow, carino. È più grande della nostra stanza, direi- commentò Diam. I suoi occhi brillavano di determinazione, di voglia di mettersi alla prova.
-Sì, non è male- concesse Natsumi, fece un paio di passi verso l’interno e si guardò intorno. Un sorriso soddisfatto le comparve sul viso, rendendola ancora più graziosa. –Tutto questo spazio è perfetto per quello che ho in mente…
-E cos’hai in mente, se posso chiederlo?- le chiese Touko, educata. Non si dava alcun’aria di superiorità, mi piaceva proprio tanto.
Natsumi le rispose con altrettanta cortesia. –Allenamenti a coppia. Ho studiato a lungo i doni delle persone, e credo che ognuno di noi potrebbe aiutare l’altro a tirare fuori il meglio di sé… Lavorando insieme ce la faremo senza dubbio- spiegò. –Piazzeremo i bersagli qui- avanzò in avanti saltellando e indicò lo spiazzo centrale d’erba –e le coppie dovranno abbatterli collaborando.
-Sembra divertente! Non vedo l’ora!- esclamò Diam. Natsumi lo guardò sorridendo.
-Magari potremo provare a fare un primo esperimento- suggerì, cercò lo sguardo di Hiroto e Touko per cercare una conferma e i due annuirono rapidamente. Natsumi si voltò nuovamente verso Diam.
-Perfetto. Allora, vieni tu, visto che sei così entusiasta?
-Ci puoi scommettere!- Diam saltò in avanti e mi tese la mano. –Ehi, Reize! Facciamo un giro sulla giostra insieme?- propose. Stavo per rispondere quando qualcuno mi anticipò cogliendoci tutti di sorpresa.
-No, posso provarci io?
Era Kazemaru.
Lo fissai sorpreso mentre si faceva largo tra Kino e Otonashi e si piazzava di fianco a Diam. Natsumi non parve notare la strana agitazione nell’aria e continuò a dare istruzioni a tutti i presenti, troppo immersa nel suo lavoro per far caso ad inutili dettagli.
-Aki, Haruna, prenderete nota di tempi, punti deboli, punti forti, eventuali problemi da segnalare. Kiyama.. e voi- fece segno ad Endou e a me -potreste aiutarmi a spostare quei bersagli qui nel centro? Grazie.
Tutti scattammo ad obbedire ai suoi ordini senza darci troppo pensiero e, dopo aver spostato i burattini nel campo di battaglia, raggiungemmo le ragazze ai bordi, dietro lo steccato del poligono, dove saremmo stati al riparo e, al contempo, capaci d’intervenire subito in caso d’emergenza. Mentre osservavo Diam e Kazemaru –i miei due partner- sentii un nodo in gola. Prima che me ne accorgessi, Hiroto ed Endou erano al mio fianco; il castano guardava fisso il campo con la mascella e i pugni contratti, teso come una corda di violino.
-Siete pronti? Potete attaccare i tre bersagli come volete. Cominciate!- gridò Natsumi. La sua voce alta e squillante, proprio vicino al mio orecchio, mi fece sussultare.
Kazemaru fu il primo a cominciare.
Fece un respiro profondo, allargò le braccia e nelle sue mani iniziò a raccogliersi il vento. Era incredibile e, anche se ero arrabbiato con lui, non potevo non provare ammirazione: l’aria si avvolgeva nelle sue mani come una matassa di fili argentei che si attorcigliavano su se stessi, sempre più numerosi e sempre più spessi, fino  a formare dei veri e propri piccoli tornado. Kazemaru li scagliò sul burattino più vicino con un movimento incrociato delle braccia, colpendo con efficacia il torace e facendolo crollare all’indietro.
Diam fischiò ammirato. –Bello! Ora mi do da fare anche io, però- disse. Si scrocchiò le dita e il collo, poi lasciò ciondolare le braccia. –Fossi in te, mi coprirei le orecchie!- aggiunse, in tono d’avvertimento. Kazemaru alzò un sopracciglio e lo guardò confuso. L’altro scrollò le spalle.
-Uomo avvisato, mezzo salvato- mormorò, prima di aprire la bocca e prendere quanta più aria possibile: onde ad alta frequenza invasero lo spiazzo erboso, inghiottendo con la loro intensità qualunque cosa ci fosse a meno di cinque metri da lui. Sapevo che non stava usando il massimo della propria forza (quella di cui io avevo avuto, mio malgrado, un bell’assaggio), ma vedere l’espressione di Kazemaru trasformarsi in pura sofferenza mi fece rabbrividire ugualmente.
Il ragazzo dai capelli azzurri si portò subito le mani alla testa e le premette sulle orecchie, gridando a Diam di smetterla. Endou, accanto a me, si mosse di scatto per correre da lui, ma Hiroto lo trattenne; cercai di leggere la sua espressione, ma era indecifrabile. Prima ancora di rendermene conto, mi sporsi sullo steccato; stavo per balzare in campo per mettere fine all’esercitazione, quando improvvisamente Kazemaru lanciò un grido.
-Smettila! Smettila subito!- Lo vidi allargare le braccia e il movimento generò una specie di bolla d’aria, un muro contro cui le onde sonore di Diam sbatterono con violenza prima di cambiare bruscamente direzione, sbalzate via: virarono a destra e mandarono in tilt i due burattini restanti.
Calò il silenzio totale e Diam e Kazemaru rimasero a fissarsi, increduli.
Natsumi iniziò a battere le mani con fervore.
-Perfetto! È stato… fantastico! Proprio quello che speravo!- si complimentò con i due ragazzi. Diam le scoccò un’occhiata basita, mentre Kazemaru la ignorò: guardava le proprie mani come se non le avesse mai viste prima.
-Ma insomma, che vi prende? Non vi rendete conto di ciò che è successo?- sbuffò Natsumi, spazientita dalla loro mancanza di entusiasmo. L’unico a risponderle, però, fu Hiroto.
Aveva un’aria pensosa e d’un tratto il suo viso si illuminò.
-Capisco… Kazemaru ha creato un vuoto d’aria! Il potere di Diam consiste nel creare onde sonore, ma queste non si diffondono nel vuoto, perciò… in un certo senso, Kazemaru ha costretto il suono a cambiare direzione di propagazione- parlò lentamente, poi si girò verso Natsumi. –Giusto?
Lei annuì con fierezza. -Allenamenti a coppia- ripeté, orgogliosa della propria idea. Era stata davvero in grado di tirare fuori il potenziale di Diam e Kazemaru allo stesso tempo, e in quel momento la mia ammirazione per lei sarebbe stata sconfinata se non fossi stato troppo offuscato dalla preoccupazione e dalla rabbia per il fatto che avesse messo in pericolo i miei amici.
Spinto da questi sentimenti, feci un paio di passi in avanti, verso Kazemaru, e tesi la mano verso la sua spalla: mi sarebbero bastati pochi centimetri per toccarlo, eravamo così vicini…
Ma, mentre ero distratto, Endou mi era passato avanti.
Abbracciò Kazemaru in modo goffo ed irruento, a rischio di soffocarlo.
-Ichirouta, stai bene?!- domandò, con una voce decisamente più alta del necessario.
-Sì… è tutto okay. Niente di rotto- rispose Kazemaru. Guardò oltre la spalla del suo ragazzo e, per caso, i nostri occhi s’incrociarono.
Avere la sua totale attenzione mi innervosì. Il rancore si sciolse lasciando posto solo alla tenerezza. Kazemaru era stordito e sembrava sul punto di dire qualcosa: sapevo che sarebbe bastata una parola, una sola parola, perché lo perdonassi (perché io l’avrei perdonato, naturalmente), e per un attimo credetti che tutto sarebbe tornato a posto.
Ma un secondo dopo Endou si chinò a dirgli qualcosa all’orecchio, Kazemaru abbassò lo sguardo e quel momento scivolò via come polvere. Mentre lasciavo che la speranza che avevo provato mi morisse dentro, mi resi conto che avevo ancora la mano sollevata e, d’un tratto, mi sentii molto stupido. Mi girai e rientrai nell’edificio a passo spedito, poi correndo.
 
xxx
 
Nella nostra nuova stanza c’era ancora un forte odore di calce misto a colla, quella che avevano usato per attaccare la carta da parati; la cosa buffa era che era stata ricostruita esattamente identica a quella precedente, e tuttavia non riuscivo a sentirla come mia. Le pareti con quella deliziosa carta a righe bianche e azzurre, i letti fatti, le scrivanie in ordine, non c’era nulla che mi desse un senso di familiarità e calore, qualcosa che dicesse: sei a casa.
Ero entrato senza chiedere il permesso a nessuno e mi ero buttato su una delle sedie girevoli, scivolando pian piano fino a raggomitolarmi a terra. Il bruciore che avevo nel petto potevo essere un vecchio amico, oppure no: ormai non ero più tanto sicuro dei miei sentimenti.
Quando la porta si aprì, piano ma con un insopportabile rumore di lavagna graffiata, non alzai il volto dalle ginocchia per vedere chi entrava: speravo soltanto che non fosse Kazemaru.
La voce spumeggiante di Diam mi diede un certo sollievo.
-Stiamo avendo una piccola crisi di identità?- mi chiese, schietto. Lo sentii chiudere la porta e sedersi sulla sedia che avevo abbandonato. Le sue dita ossute afferrarono la mia coda di cavallo e la tirarono senza forza.
-Sai che non gli avrei fatto del male- continuò. –Be', certo, ammetto che a volte le cose mi sfuggono un po’ di mano…
-A volte?- mormorai, scettico. Diam non sembrò per niente colpito.
-Ah, allora non hai deciso di fare il gioco del silenzio. Mi tieni il broncio?
Sospirai, allentai la presa sulle ginocchia e mi lasciai leggermente andare. Alzai il volto e sbattei la nuca contro il muro dietro di me.
-Sono così stanco di essere arrabbiato con gli altri, Diam- risposi, guardandolo serio. Lui chinò la testa di lato e mi osservò con la curiosità genuina di un bambino.
-Mmh, ho notato che tu e il tuo partner non andate d'accordo come credevo. Ero piuttosto geloso di lui, sai?- disse. -Quello che non capisco è perché fingi che non t'importi di lui.
-Perché sono arrabbiato con lui- sbottai, nervoso, poi però scossi il capo. –O forse no. Non lo so. Non so più cosa sta succedendo, ad essere sincero. Ha tradito la mia fiducia, ma sarei pronto a fidarmi di nuovo. Anche io non sono stato molto onesto, con lui. Gli ho nascosto tante cose.
-Tutti hanno bisogno di mantenere dei segreti. Se sapessimo tutto di tutti, passeremmo molto più tempo ad ammazzarci l’un l’altro- osservò Diam con grande serenità, come se non avesse appena detto una cosa di atroce.
Lo guardai e d’un tratto mi sentii davvero, davvero esausto.
-Ma io sono stanco di avere segreti, Diam- dissi.
–C’è un blocco nella mia testa e sono stanco di provare ad abbatterlo. Una parte di me sa che devo farlo, se voglio diventare più forte. Sono stanco di ferire gli altri, di vederli morire. Ma, dall’altra parte, c’è qualcosa che mi impedisce di andare avanti, e diventa sempre peggio ogni volta che gli altri cercano di aiutarmi. Non so perché sia così. Mi sento tanto solo... Non so nemmeno perché ce l’ho con Kazemaru. È la mia famiglia e il mio migliore amico, e so che mi vuole bene, ma…
Sentii le lacrime affiorarmi agli occhi e affondai la testa tra le ginocchia.
-Ma perché questo non mi basta...?- aggiunsi in un bisbiglio.
Diam rimuginò un po’ prima di rispondermi, poi mi diede una leggera pacca sulla spalla.
-Sei solo geloso. Dai, non è così grave, mi sembra normale. Prima non dovevi condividerlo con nessuno, giusto? Una volta compreso questo, non resta che capire se è nato prima l’uovo o la gallina- disse. Alzai lo sguardo, accigliato.
-Cosa vuoi dire?
-Be', ti sei arrabbiato con lui perché ti sentivi solo, o piuttosto ti senti solo perché avete litigato? Se capirai questo, allora saprai anche perché ce l’hai con lui- rispose Diam. Mi tese le mani per rialzarmi: le accettai senza esitare e lasciai che mi tirasse su.
-Caspita, con tutti questi problemi che ti fai credevo che voi due foste come minimo fidanzati!- esclamò dopo. -Invece poi vengo a scoprire che te la fai con Kiyama. Oh, non fare quella faccia sorpresa, me l’ha detto la tua amica carina… Mmh, Sumeragi, penso?
Dovevo avere un’espressione davvero stranita, o forse contrariata, perché lui iniziò a ridere dopo averci dato una sola occhiata. Non riuscii ad esserne offeso; la sua risata mi riempì di forza e calore e capii che non avrei voluto nessun altro al mio fianco in quel momento, nemmeno Hiroto. Era Diam quello che mi serviva, con la sua schiettezza, il suo essere fuori dagli schemi. Persino la sua mancanza di tatto mi sollevava il morale, perché non mi trattava come un oggetto fragile. Diam sapeva che ero più forte di così e, siccome lui ci credeva, iniziai a crederci anch’io.
Gli afferrai un braccio e lo strinsi.
-Sono contento che tu sia qui- dissi, sincero.
Il suo sorriso si allargò ancora di più.
-Be', guarda che coincidenza- rispose. –Anche io sono contento di essere qui.



 
**Angolo dell'AutriceH**
Buonasera~
Sono contenta di essere arrivata a scrivere questo capitolo. Mi sono divertita a rimettere in scena Diam e il resto della squadra di Hokkaido, mi erano mancati molto! Il rapporto che Midorikawa ha con Diam è molto diverso da quello che ha con Kazemaru, ma ne ha ugualmente bisogno, soprattutto in questo momento, mentre è in rotta con Kazemaru. Ad un certo punto, mentre scrivevo, mi sono resa conto che Midorikawa e Kazemaru sembravano sul punto di fare pace, ma la cosa mi appriva innaturale, come se stesse succedendo troppo presto, per cui alla fine l'ho spezzata a metà. Finché Midorikawa non farà chiarezza nella sua testa, non potrà riappacificarsi con Kazemaru. 
Introdurre nuovi personaggi è sempre difficile, ma spero che non sia risultata troppo noiosa (?). Da questo capitolo in poi, ne appariranno molti altri! Insomma, undici Spy Eleven (più altrettante squadre) è un sacco di gente. XD
Bacioni,
      Roby

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Capitolo 34
*** Mission 34. ~Hiroto's Arc. ***


Buongiorno! :) L'ultima parte di questo capitolo l'avevo in programma da un bel po' -in effetti l'avevo scritta un mesetto fa, poi l'ho modificata per collegarla alla parte scritta ieri, in modo che non ci fossero incoerenze. In questo periodo, visto che sono finalmente libera dagli esami, cercherò di aggiornare tutto ciò che posso, quindi credo che possiate aspettarvi anche il prossimo capitolo di Fairytale, magari tra qualche giorno. Intanto, buona lettura! ♥


Qualche mattina dopo, quando uscii dalla doccia, trovai un post-it attaccato alle mie scarpe: Diam aveva scarabocchiato un messaggio con la sua scrittura incomprensibile, da cui riuscii a capire solo che dovevo scendere in mensa il prima possibile.
A dispetto di tutti e senza chiedere il permesso a nessuno, Diam si era impossessato di metà della stanza che doveva essere mia e di Kazemaru. Non avevo più provato a parlare con Kazemaru dopo quello che era successo nella sala addestramenti e Diam non aveva più riaperto l’argomento. Era difficile dire con certezza cosa ne pensasse; lui e Kazemaru s’incrociavano di rado e in quelle occasioni sembravano ignorarsi a vicenda, pacificamente.
Accartocciai il messaggio di Diam nella tasca dei pantaloni e mi infilai le scarpe. Prima di uscire lasciai il mantello sulla sedia della scrivania, ma misi la pistola nella fondina.
Erano circa le dieci di mattina e la mensa era apparentemente vuota, ma potevo sentire la voce di Tobitaka provenire da dietro il bancone. Suonava esasperato e lievemente isterico.
-No… no! Avete fatto un disastro… non si mette la marmellata in frigorifero, dannazione!
Marmellata?
-Come? E dove si conserva allora?- chiese Maki ingenuamente.
-Intendevo… argh. Mi state facendo ammattire. Prima di tutto, l’avete fatta bollire troppo. Secondo, bisogna lasciarla raffreddare fuori, non potete metterla nel frigo mentre è ancora bollente. Non ha alcun senso! Guardate cosa è successo, guardate!
Feci il giro del bancone, curioso di dare un’occhiata anch’io.
Maki era seduta su uno dei ripiani, proprio vicino al largo frigorifero. Indossava un vestito a righe rosse e, accanto a lei, Diam stava su uno sgabello, con una gamba a ridosso dell’altra e pantaloni di un rosso brillante, quasi si fossero messi d’accordo per vestirsi uguali. Diam e Maki, un’accoppiata a dir poco scoppiettante: non mi sorprendeva che i nervi di Tobitaka avessero ceduto. Al di là dell’apparenza scorbutica ed introversa, Tobitaka era una persona paziente e comprensivo, a modo suo, ma non sopportava chi gettava caos nel suo regno, la cucina.
-E dai, sciogliti un po’! Il sapore è buono, non è questo che conta?- disse Diam con un largo sorriso.
-Cosa succede?- domandai, frapponendomi tra loro prima che Tobitaka lo prendesse a schiaffi.
Maki scese dal ripiano con un salto e mi abbracciò.
-Buongiorno!- esclamò. –Diam ed io ci stavamo annoiando, così abbiamo fatto qualche ricerca su internet e, pensa un po’, abbiamo trovato un sito di ricette fantastiche per fare la marmellata. Sei-chan ci ha prestato la cucina per fare degli esperimenti!
-Siete piombati qui all’improvviso e non avete seguito nessunissima ricetta- fece notare Tobitaka.
–Questo tipo insisteva che le ricette sono solo linee guida e ha fatto tutto di testa sua- aggiunse accusatorio, indicando Diam.
-Beh, non è così? Dai, Sei-chan, non dirmi che tu le usi davvero!- ribatté lui allegro.
-No, perché io so cosa sto facendo. E piantatela di chiamarmi con questo stupido soprannome.
-Ho un brutto presentimento riguardo al perché sono stato chiamato qui- intervenni.
Diam e Maki mi sorrisero.
-Vuoi assaggiarla? È deliziosa- disse la ragazza.
-Appunto, il brutto presentimento si è avverato…
Diam si alzò, mi mise un braccio intorno alle spalle e iniziò a trascinarmi verso il ripiano su cui era poggiato un inquietante barattolino di vetro.
-Ta-daa!- canticchiò il ragazzo. –Marmellata di prugne!
Maki mi ficcò un cucchiaino tra le mani, aprì il barattolo ed io guardai all’interno. La marmellata si era del colore dell’ambra, si era cristallizzata sui bordi in una spessa massa di zucchero, mentre sul fondo appariva rilucente e fluida. Mi girai verso Tobitaka, ma lui scrollò le spalle ed incrociò le braccia al petto con un’espressione rassegnata.
-Dai, Midorin, non la guardare così. Devi essere tu a mangiare lei, non lei a mangiare te- esclamò Maki.
-Lo spero- risposi. Sospirai, non potevo dire di no ai loro sguardi speranzosi. Infilai il cucchiaino nel barattolo e cercai di raschiarne un po’ il fondo, operazione che richiese non poco sforzo perché la marmellata era più collosa del previsto ed opponeva una strenua resistenza, alla fine riuscii nell’eroica impresa, estrassi il cucchiaino e me lo misi in bocca. Diam aveva ragione. Nonostante il pessimo aspetto, era davvero buona. Mi si sciolse in bocca e sentii subito il bisogno di prenderne ancora, ma non potevo rimettere il cucchiaino dentro dopo averlo leccato, per cui lasciai perdere.
-Allora?- mi esortò Diam. –Buona, vero?
-Un po’… appiccicosa, ma buona- ammisi, tranquillo. Maki si mise a saltare sul posto e a battere le mani, mentre Diam si girò trionfante verso Tobitaka.
-Io non ho mai detto che fosse cattiva- precisò l’aiuto-cuoco alzando un sopracciglio. –Le testuali parole sono state che “ha la consistenza del calcestruzzo fluido”.
-Il che non toglie che il sapore sia ottimo- ribatté Diam.
-No- convenne Tobitaka. –Ora, fuori di qui.- Indicò la porta con un gesto deciso.
Diam allargò le braccia in segno di resa e s’incamminò ridendo
-Okay, okay, ma dopo torniamo a trovarla!- esclamò.
-Non tornate mai più- gli disse Tobitaka. –Soprattutto lasciate in pace quella cosa.
-Ehi, non chiamarla così! E se poi ti sente?- lo rimbeccò Maki imbronciandosi, ma l’altro ne avuto abbastanza. Aspettò che Diam ed io fossimo usciti, poi la sollevò di peso passandole le braccia sotto le ascelle e la portò fuori. Maki si dimenò invano finché lui non la rimise a terra, al di là del bancone, rientrò in cucina e sbatté la porta.
Ci guardammo tra di noi. Diam scoppiò a ridere.
-Okay. Tempo di trovarsi qualcos’altro da fare- commentò, passandosi una mano tra i capelli. Notai che portava un polsino a scacchi e le sue unghie erano colorate di viola scuro. Maki si mise a lisciarsi le pieghe del vestito, che si era spiegazzato a causa del trasporto precipitoso. Qualcosa catturò la mia attenzione; senza pensarci troppo presi una delle sue mani e la studiai: anche sulle sue dita spiccavano le unghie smaltate dello stesso colore di Diam.
-Da quando siete così amici?- chiesi abbozzando un sorriso.
-Reina è occupata con Natsumi e le altre. Le sta aiutando a perfezionare alcune strategie, o non so esattamente… Con lei ci sono anche Zell e il capo di Diam. Mi hanno lasciata sola soletta… Poi stamattina Diam ha bussato e mi ha chiesto se mi andava di fare qualcosa. Il resto è storia- Maki sospirò e fece un gesto casuale con la mano.
-Sembrate andare molto d’accordo- osservai. Diam mi sorrise.
-Sei geloso, eh? Ma scommetto che Maki ha un po’ di smalto anche per te.
-No, grazie, passo.
Scoppiammo a ridere, poi Diam tornò serio ed incrociò le braccia al petto.
-Qui dentro sono tutti così noiosi. Si preoccupano solo del lavoro. Maki è l’unica che a darmi un po’ di soddisfazione…
-Siamo in un periodo critico. È ovvio che il lavoro venga prima di tutto- gli feci notare.
Diam fece un lungo sospiro.
-Sì, ma se ci togliamo tutto il divertimento prima ancora che lo faccia il nemico, che senso ha? Farsi una risata ogni tanto non vuol dire non fare il proprio lavoro. Vuol dire solo non volersi rovinare ogni minuto della giornata. Finché sono vivo, voglio vivere- disse. La sua voce era calma e seria. Riflettei sulle sue parole ed assentii.
-Credo che tu abbia ragione- osservai. Mi venne un’idea. –Vi va di fare due tiri a pallone?- suggerii, e il modo in cui i loro sguardi si illuminarono mi fece sorridere. Sembravano due bambini.
-Grandioso, ora abbiamo anche Midorin dalla nostra parte- esclamò Maki allegramente. –Che ne dite se arruoliamo anche Haruyan? Così possiamo fare un due contro due.
-Per me va bene. Haruyan è il tuo amico con il buffo fiore sulla testa?- chiese Diam curioso.
-Proprio lui- Maki ridacchiò –ma non chiamarlo così in sua presenza sennò succede il finimondo.
-È permaloso?
-Non ne hai idea. Cercherebbe di darti fuoco.
-Sembra simpatico- Diam fece uno strano sorriso guardando oltre le mie spalle. –Ehi, Reize, c’è il tuo ragazzo che avanza a ore dodici- mi avvisò.
Mi accigliai, sorpreso, e mi voltai per vedere Hiroto alla fine del corridoio. Il mio primo istinto fu di chiamarlo, ma stava parlando animatamente con la figlia del presidente Zaizen. Accanto a loro c’erano Hitomiko, Burn e Gazel.
-Che brutte facce- disse Maki, esprimendo a voce alta ciò che pensavo anche io.
-La rossa ha l’aria di una a cui è appena morto il gatto. Cosa sarà successo?- chiese Diam accigliandosi. Lo guardi torvo, perché talvolta la sua schiettezza risultava abbastanza sgradevole, e lui mi fece un fiacco sorriso di scuse. Non le doveva nemmeno a me, le sue scuse.
Tornai ad osservare Hiroto e lo trovai eccezionalmente pallido. Avevo i miei dubbi che stesse veramente bene, così come rispondeva a chiunque glielo chiedesse; dormiva e mangiava abbastanza, ma aveva sempre un’aria stanca, nervosa. Probabilmente era l’ansia a produrre quest’effetto. Hiroto era una persona molto ansiosa, anche se controbilanciava la cosa con una straordinaria abilità nel nascondere le sue vere emozioni. Anche in quel momento, qualunque cosa lo turbasse, nulla traspariva dalla sua espressione ferma e dal tono di voce calmo e modulato. Le sue mani erano appoggiate sulle spalle di Zaizen, senza farle pressione.
Lei sembrava effettivamente molto agitata, era impulsiva e non aveva paura di mostrarsi così com’era. La sua guardia del corpo, la ragazza coi capelli azzurri e la pelle caramellata di cui avevo scordato il nome, stava dietro di lei, distante appena qualche passo, e non le staccava gli occhi di dosso. Gazel fu il primo ad accorgersi della nostra presenza e si avvicinò.
-Midorikawa- disse, piano –ti stavo giusto cercando.
Sospirai, sapevo cosa voleva dire. Non avrei avuto il tempo di giocare a calcio.
-Cosa succede?- domandai.
-Pare che Garshield abbia mandato una sorta di ultimatum al presidente.
-Un ultimatum? E nessun media ne ha parlato? Com’è possibile?
-Il presidente ha ricevuto una lettera scritta con tanto di sigillo. Consegnata a mano da un misterioso ragazzo con un mantello. Si è introdotto nelle stanze del presidente, apparentemente disarmato, ma di fatto è morta una guardia e non sappiamo come. E non sappiamo ancora cosa ci sia scritto nella lettera, perché il presidente vuole che Seijurou sia presente quando l’aprirà.
-E nel frattempo ha fatto attenzione perché tutto ciò resti segreto- aggiunsi. Gazel annuì.
-Quindi è per questo che la Zaizen è così turbata- osservò Maki. –Poveretta, deve essere in pensiero per suo padre… Vorrà andare da lui subito, no?
-Immagino di sì- disse Gazel. –Non lo so, non capisco davvero ciò che prova. Non ho né un padre né un madre a cui fare riferimento.
Diam non commentò. Io e lui eravamo uguali a Gazel in questo. Maki lo capì e sospirò.
-Beh, sarebbe lo stesso con qualunque persona vi stia a cuore- mormorò.
-Comunque il punto è- continuò Gazel –che la Zaizen vuole andare da suo padre e Hitomiko non vuole lasciarla andare da sola. Visto che Seijurou deve andare là in ogni caso, Hitomiko pensa che sia meglio per lei aspettare che venga con noi non appena saremo pronti.
-Beh, cosa aspettiamo?- intervenne Diam.
-La polizia. Servono agenti per fare numero- rispose Gazel, poi assunse un’espressione pensierosa.
–Purtroppo le altre squadre che aspettavamo non sono ancora arrivate. L’arrivo era previsto per oggi, presto o tardi, ma dubito fortemente che faranno in tempo a raggiungerci sul posto.
-E chi andrà dei nostri?- non potei trattenermi dal chiedere.
Gazel mi guardò, forse ponderando se dirmelo subito o aspettare che ci arrivassi da solo, alla fine però decise che non aveva senso nascondermelo.
-Hiroto e Burn sicuramente, sono tra i più forti che abbiamo. Endou e Kazemaru, probabilmente, in fondo sono già fuori per il giro di ronda. Mi piacerebbe poter dire anche Kidou e Gouenji, ma loro sono già impegnati con i due Fubuki, quindi sono fuori per il momento. E Reina è occupata con Desarm e Raimon, quindi non c’è neanche lei- disse.
Sospirai: come avevo sospettato, non ero incluso nell’elenco. Non lo era nemmeno Maki, né la squadra di Hokkaido, il che escludeva Diam, ma loro due non parevano dar peso alla cosa. E Gazel naturalmente sarebbe rimasto alla base, se non altro perché aveva in programma una seduta di psicoanalisi con me.
-Ho l’impressione che il mondo stia andando a rotoli- brontolai.
Gazel mi lanciò un’occhiata penetrante.
-Non dire sciocchezze- disse. –Non è un’impressione.
 
xxx
 
Il corridoio degli uffici era immerso in un’atmosfera vivace e rumorosa, come accadeva sempre quando c’era qualcosa di cui (s)parlare. Le voci giravano più in fretta di una giostra in quel posto.
Durante la mattina Seijurou, Hitomiko e le altre persone nominate da Gazel avevano lasciato l’edificio, cosicché nella mensa, a pranzo, c’eravamo solo io e Gazel, Maki e Diam, Heat e Nepper, Clara, IC e IQ. Occupavamo a stento due tavoli, ma grazie a Nepper, Maki e Diam la stanza fu ugualmente animata di risate e battutine.
Nepper amava provocare Diam e Diam spesso cedeva alla tentazione di rispondere: se non li avessi visti veramente arrabbiati avrei detto che stessero litigando, invece era solo il loro modo di scherzare. IC, Heat ed io li seguivamo allegramente, sostenendo ora l’uno, ora l’altro. Al tavolo a fianco, Gazel ascoltava silenziosamente i lunghi discorsi di IQ sull’informatica, dando ogni tanto cenni di assenso, o interrompendolo per parlare con Clara.
Finimmo persino per mangiare la marmellata di prugne fatta da Maki e Diam, perché Tobitaka l’aveva messa nei piccoli muffin allo yogurt che ci portò alla fine del pasto.
-La mia piccolina è tornata- disse Maki portandosi un muffin vicino alla guancia e coccolandolo come un cucciolo. Diam rise e staccò un morso dal suo. Gazel ne assaggiò uno, curioso, e commentò impietosamente che aveva la consistenza del collante per mobili.
-Grazie, Sei-chan- disse Maki. Tobitaka alzò gli occhi al cielo, era chiaro che non li avrebbe mai più fatti entrare in cucina, armati o meno di ricetta. Spingendo il carrello colmo di piatti vuoti e tovaglioli usati, fece il giro del bancone, attraversò la porta della cucina e non tornò indietro. Gazel si alzò in piedi, scavalcò la panchina e mi afferrò un braccio.
-Andiamo- disse. Assentii e lo seguii.
-Reize, Reize, possiamo venire anche noi?!- esclamò Diam alzandosi dal suo posto.
-No- tagliò corto Gazel prima che potessi rispondere. –Anzi, state ben lontani dal mio ufficio.
Diam mise il broncio per un attimo, poi però fu distratto nuovamente da Nepper. Sperai che si fosse rassegnato; se si fosse presentato ugualmente in ufficio, Gazel non l’avrebbe presa bene. Magari gli avrebbe spillato la maglia ad una sedia, come aveva fatto una volta con Burn.
Mentre uscivamo, incrociammo Tachimukai, Toda e Tsunami. Stavano chiacchierando vivacemente tra loro vicino alla macchinetta; Toda aveva preso un caffè, mentre gli altri sorseggiavano quello che sembrava succo di frutta.
-Non so proprio come riuscite ad andare avanti con quello- rise Toda.
-Ehi, amico, qui dentro ci stanno un botto di vitamine- rispose Tsunami nel suo fortissimo accento di Okinawa. –Non so come tu faccia a bere quella roba. Ha un sapore orrendo di ferro, vero, Yuuki?
Tachimukai gli diede ragione. Stava appoggiato contro il muro in mezzo ai due amici e sorrideva, apparentemente a proprio agio: era di natura timida, ma Toda e Tsunami erano le persone a lui più vicine e quando era con loro sembrava sentirsi al sicuro, in qualche modo protetto.
Gazel gli si avvicinò ed interruppe i loro discorsi.
-Quelle fotocopie che ti avevo chiesto sono pronte?- domandò al castano, che si mise in fretta sull’attenti.
-S-sì, signore!- esclamò, serissimo.
-Bene. Portamele in stanza tra…- Gazel guardò rapidamente l’ora segnata sul display della macchinetta e poi tornò a rivolgersi a Tachimukai. –Tra mezz’ora nel mio ufficio, okay?
Tachimukai annuì con energia. Gazel si voltò e s’incamminò verso la propria stanza, io feci cenno di saluto ai tre ragazzi e lo seguii.
 
Gli impiegati dovevano aver finito da poco la pausa, perché rientrarono nei propri uffici ed il volume del loro vociare si abbassò poco a poco fino a trasformarsi in un bisbiglio e attraverso i muri si sentiva a malapena il ticchettio delle tastiere dei pc.
Gazel era seduto sulla scrivania a gambe incrociate, incurante dei fascicoli che lo circondavano. Teneva penne e matite ammassate in modo confuso in una tazza bianca sul davanzale della finestra e, come sempre, la stanza dava un’idea di disordine generale. Alcune sedie di legno pesante erano state messe in fila lungo la parete a lato della porta e nell’angolo vicino alla scrivania c’era un’alta abat-jour, tutte cose che non c’erano l’ultima volta che ero venuto.
Fissavo il retro del suo taccuino mentre parlavo: era un buon modo per non farmi intimidire dallo sguardo indagatorio di Gazel.
Mi aveva chiesto se facevo altri sogni oltre quelli che riguardavano il mio blocco.
-Non sogno ogni notte, ma quando succede, so che è quello- risposi. –Di recente l’ho fatto solo un paio di volte, però è diventato… incredibilmente concreto.
-Cosa vuoi dire?- mi domandò Gazel curioso.
-Ci sono più dettagli. Prima non era così, era tutto più… sfumato- tentennai. –I contorni degli oggetti erano più tenui, la porta più offuscata, insomma era una dimensione da sogno. Ora sembra reale, è una visione molto più vivida ed intensa.
Gazel si era messo a prendere appunti, assentendo o facendo ogni tanto un verso per indicare che stava ascoltando; come al solito, era velocissimo a scrivere ed impugnava la penna in modo strano, quasi all’estremità della punta, con la mano sinistra. Non mi sorprendeva che dopo un po’ dovesse fermarsi a sgranchirsi le dita.
Morivo dalla voglia di leggere cosa scriveva tutto il tempo nel blocchetto, ma Gazel si rifiutava fermamente di mostrarmelo, e anche se avesse accettato c’era anche una buona probabilità che sarei stato capace di decifrare la sua calligrafia.
-Cosa ne pensi?- chiesi, stufo di aspettare.
-Mmh, l'unica cosa che mi viene in mente è che il tuo blocco si stia indebolendo. Per caso hai notato se i tuoi poteri si sono rafforzati?
-Non mi pare... Be', non ci ho fatto caso. Non ho abbattuto nessuno ultimamente- dissi. -Posso dirti che non mi sento... diverso.
-Devi farci caso. Se il tuo blocco si indebolisce, ti avvicini alla verità- replicò Gazel, severo. -I sogni diventano più vividi perché smettono di essere sogni e diventano veri e propri ricordi. Inoltre, i tuoi poteri… S’interruppe e alzò lo sguardo verso la porta.
-I miei poteri cosa?- lo esortai, ma lui mi fece cenno di restare in silenzio. Dal corridoio provenivano rumori confusi, voci, o forse qualcuno che bussava con violenza alla porta. Gazel disintrecciò le gambe e scese dalla scrivania, lasciò il blocchetto e andò verso la porta. Lo seguii, lui aprì la porta lentamente e gettò un’occhiata nel corridoio. C’era qualcosa che non andava. Gli uffici erano tutti chiusi e da dentro si sentivano grida.
-Cosa succede?- esclamò Gazel, seccato. Qualcuno rispose che le porte erano bloccate e non potevano uscire. Gazel si accigliò e le studiò con attenzione; gli bastò un’occhiata alle serrature, i suoi occhi si spalancarono di sorpresa e subito tornò indietro, mi spinse dentro la sua stanza e serrò la porta dall’interno.
-Che stai facendo? Che succede?- lo interrogai, ansioso. –Non andiamo ad aiutarli?
-Sarebbe inutile. Qualcuno ha sciolto le serrature e ha bloccato le porte dall’esterno, così che nessuno potesse uscire. Forse non voleva intralci e, chiunque sia, è sicuramente meglio che quelli là restino chiusi dentro, dove sono più al sicuro di noi- affermò Gazel, passandosi nervosamente le dita tra i capelli che gli cadevano sulla fronte.
-Vorresti dire- sussurrai –che qualcuno di esterno si è introdotto nella base…?
La mia domanda restò senza risposta. Non ce ne fu il tempo: improvvisamente la porta davanti a noi fu squarciata da un’esplosione, che distrusse i muri a fianco e la scardinarono, lanciandocela addosso. Per fortuna Gazel ebbe la prontezza di afferrarmi per le spalle e buttarmi a terra, di modo che la porta volò sopra le nostre teste e oltre la scrivania, finì sugli archivi e abbatté alcuni mobiletti di ferro, che si schiantarono con un clangore, a cui si aggiunse il fragore delle sedie di legno che si rovesciavano a terra. Il rumore si ripeté come un eco per alcuni secondi e, solo quando l’intensità di quella vibrazione diminuì, riuscimmo a percepire i passi di una persona che avanzava.
Stordito, alzai il capo a fatica e guardai oltre le spalle di Gazel. Davanti a noi c’era un misterioso ragazzo che indossava una mantella; un cappuccio gli copriva il volto, rendendo impossibile leggerne l’espressione, ma sicuramente non era amichevole considerata la lunga spada che impugnava nella mano sinistra. La destra era ancora sollevata, fumante. Era un drifter.
-Merda- soffiò Gazel.
-Mi sa che ce l’ha con noi- dissi, rotolai sul fianco trascinando Gazel con me, così da evitare per un soffio la lama che si era mossa verso di noi. Riuscii anche a tirargli un calcio, che andò a vuoto ma lo costrinse ad indietreggiare per scansarsi.
Gazel approfittò del momento per alzarsi e trascinarmi con sé sotto la scrivania, nella fretta fece anche cadere il blocchetto, alcuni fogli e il tagliacarte che li teneva fermi.
Un secondo dopo, l’incappucciato girò su se stesso e affettò l’abat-jour, la cui parte di sopra piombò a terra, la lampadina andò in frantumi esalando un’ultima scintilla di vita. Gazel si coprì le orecchie d’istinto a causa dello schianto, io distinsi a stento il grugnito seccato dell’aggressore, che probabilmente non era molto contento di averci mancato. Fece un paio di passi verso di noi, vedevo le sue scarpe muoversi sotto il mantello marrone.
-Ehi, tu! Che diavolo stai facendo qui?!
Gazel sussultò e si sporse verso fuori. -Cazzo, non ora- sibilò. –Me n’ero dimenticato…
Mi chinai a mia volta e intravidi Tsunami, Toda e Tachimukai sulla porta; il più piccolo, tremante come una foglia e con le mani piene delle fotocopie che Gazel gli aveva ordinato di portare, strillò fissando un punto del pavimento. Chi da un lato e chi dall’altro seguimmo il suo sguardo e notammo delle macchie rosso scuro vicino alla lampada spezzata. Gazel bestemmiò, accorgendosi solo in quel momento del graffio sul proprio braccio: si era tagliato per sbaglio col tagliacarte quando era stato costretto a nascondersi precipitosamente sotto la scrivania.
Ma ovviamente i ragazzi non potevano saperlo.
-Cos’hai fatto a Gazel?!- gridò Toda, parandosi fra l’intruso e Tachimukai, mentre Tsunami, più propenso all’azione che al pensiero, afferrava una delle pesanti sedie di legno e la scagliava nella stanza. L’altro, tuttavia, la scansò facilmente, lasciando che si schiantasse rovesciata sul pavimento con ulteriore fracasso, e prese ad avanzare verso di loro. Toda si girò, pronto ad imitare l’esempio dell’amico, ma prima che potesse afferrare una sedia da poter usare come arma l’incappucciato lo colpì: la lama della spada squarciò i vestiti e affondò nella cassa toracica, tagliandola come fosse stata burro e non carne ed ossa, poi venne sfilata con eleganza.
Il tempo sembrò fermarsi per un attimo mentre tutti fissavamo a bocca aperta la ferita, così netta e pulita che pareva irreale. Toda stesso parve incredulo per alcuni secondi, poi il sangue iniziò a fiottare irruento come il getto di una fontana a lungo tappata; si piegò su se stesso, come se gli fossero stati recisi i legamenti, e scivolò fra le braccia di Tachimukai, le cui ginocchia cedettero per il peso. Le fotocopie si sparsero sul pavimento. Tsunami corse verso di loro ed iniziò a premere con entrambi le mani sulla ferita di Toda cercando di fermare l’emorragia.
-È inutile. È troppo tardi- soffiò Gazel cupo.
Una sola occhiata bastava a capire che aveva ragione.
Il colore rosso vivo e la vasta quantità di sangue che con pochi secondi di ritardo aveva iniziato a scorrere suggerivano che l’aorta fosse stata recisa di netto. Forse anche Tsunami se ne rese conto, ma non si arrese finché il petto di Toda non ebbe un ultimo fremito: la pulsione cessò e il ragazzo rimase fissare il soffitto con gli occhi sbarrati. Solo a quel punto, Tsunami crollò a terra, con il busto e le braccia coperte di sangue fino ai gomiti, e il viso rigato di lacrime. Qualche secondo dopo Tachimukai scoppiò in un pianto isterico.
Accorgendosi che stavo tremando, Gazel si voltò subito verso di me.
-Non azzardarti a perdere la testa anche tu- sibilò stringendomi all’altezza delle spalle.
-Ha già perso interesse per loro, perciò farò io da esca. Tu devi correre verso l’uscita più veloce che puoi… Ci sei fin qua? Smettila di fissare il sangue- mi ammonì, dandomi uno schiaffetto sulla guancia per farmi girare. Il suo avvertimento mi strappò dai miei pensieri macabri e mi riportò alla realtà.
Dovevo concentrarmi sulle istruzioni di Gazel, non mi era permesso di fallire.
-Nell’ufficio di Hitomiko c’è una bacheca di vetro, appesa al muro. Rompila e abbassa la leva che troverai dentro. Dal momento che l’allarme intrusi non è scattato in automatico, dovrai attivare manualmente l’allarme esterno…- Non ebbe il tempo di spiegarmi meglio di cosa si trattasse; il fiato gli si mozzò in gola quando la punta della lama sbucò proprio sopra le nostre teste: l’intruso aveva deciso di liberarsi della scrivania, nella convinzione che ogni ostacolo andasse fatto in pezzi.
-Vai!- gridò Gazel, mi diede una spinta ed io scattai in piedi e come da piano corsi verso la porta. Lo sconosciuto mi vide partire, ma non poté fermarmi; per fortuna, infatti, la sua spada s’era incastrata per bene nel legno rigido della scrivania e, prima che potesse provare a liberarla, Gazel era già rotolato fuori dal nascondiglio: lo atterrò con una manovra di soppressione, togliendogli di fatto la possibilità di recuperare l’arma. Sentii rumori di colluttazione, ma non mi voltai indietro. Non avevo il tempo materiale di preoccuparmi.
Il più veloce possibile, mi lanciai sulle scale e risalii verso il secondo piano, che era piombato nel caos: gli uffici non erano le sole stanze sotto attacco.
-No!!
Appena arrivato sul piano, delle urla mi fecero sobbalzare.
Erano IC e Clara. In fondo al corridoio, infatti, c’era un altro tizio con una spada e IQ, che lo stava fronteggiando, era stato ferito ad una spalla. Per fortuna sembrava che la lama avesse appena toccato alcune vene superficiali. Avrei voluto restare ad aiutarli, ma non avevo tempo. Mi costrinsi a voltare loro le spalle e continuare a correre: svolgere la missione affidatami da Gazel aveva la priorità su tutto.
 
L’ufficio di Hitomiko era chiuso, sperai non a chiave.
Non appena mi ci avvicinai, un terzo nemico sbucò da un angolo e cercò di colpirmi, ma riuscii ad evitarlo grazie al mio istinto: mi abbassai rapido e la lama affondò nella porta. L’altro grugnì infastidito e, approfittando del suo inconveniente, gli tirai una ginocchiata nello stomaco, facendolo volare contro il muro di fronte. Sbatté con la schiena e il cappuccio gli scivolò dal capo, rivelando due occhi taglienti e un punto rosso sulla fronte. Si rialzò, nonostante la sua spada fosse ancora conficcata nel legno non sembrava scoraggiato: aveva altre armi, me ne resi conto solo quando avvertii una sensazione di gelo penetrarmi nelle ossa. Caddi in ginocchio, in balia del suo sguardo penetrante, mentre il mio corpo si atrofizzava e la mia coscienza cominciava a scivolare via.
Poi di colpo quella sensazione cessò e lasciò il posto ad una vibrazione familiare. Alzai gli occhi e vidi che lo sconosciuto aveva smesso di fare qualsiasi cosa mi stesse facendo, e ora si premeva le mani sulle orecchie nel tentativo di sfuggire al frastuono. Gettai un’occhiata veloce all’altro capo del corridoio, dove stavano Maki e Diam. Lui aveva la bocca spalancata e lei, che indossava una specie di paraorecchie col pelo, mi fece cenno di affrettarmi. Erano venuti ad aiutarmi.
Aprii la porta di Hitomiko, lieto che non fosse bloccata, e mi fiondai nella stanza prima che le onde sonore di Diam potessero stordire anche me; per fortuna la stanza pareva essere insonorizzata, il che significava che io ero al riparo dal rumore, mentre il nemico no. Ignorando la crudele felicità che quel pensiero mi procurava, mi guardai intorno ed individuai subito la bacheca descrittami da Gazel. Non ci pensai su due volte a romperla usando uno dei fermacarte di pietra posati sulla scrivania: mentre i pezzi di vetro mi cadevano sulle scarpe, tesi la mano libera, le mie dita si chiusero sulla leva, la abbassai con rabbia, una specie di sfogo.
Il mio orologio iniziò ad emettere un verso simile ad una sirena, una luce laterale lampeggiava: di certo tutti gli orologi degli agenti, anche fuori da lì, stavano facendo lo stesso. Ecco cosa intendeva Gazel per allarme esterno. Avevo lanciato un SOS senza saperlo.
Quando mi voltai per uscire, la prima cosa che notai era che la lama era stata rimossa dalla porta.
Trovai Diam e Maki che combattevano corpo a corpo con lo spadaccino, che aveva indossato una sciarpa rossa per coprire le orecchie e schermarsi così dagli attacchi speciali del mio ex-partner.
Vidi Diam abbassarsi per scansare la spada, girare su se stesso e sferrare un calcio mirato al torace, l’altro lo evitò spostandosi all’indietro e il movimento repentino fece fluttuare il suo mantello. La spada sferzò l’aria, ma a muoversi verso di lui fu l’altra mano: l’aveva tenuta nascosta sotto il mantello per caricare un attacco senza che ce ne accorgessimo.
Sapevo che Diam non sarebbe riuscito ad evitarlo e avevo solo pochi secondi, centesimi di secondi, per reagire, perciò corsi e senza pensare mi frapposi fra di loro, con le braccia alzate per difendermi il volto.
Qualcosa mi sfiorò il gomito, un gelo tanto inteso da bruciare, poi accadde l’incredibile.
Il mio potere si risvegliò.
Senza che l’avessi programmato né previsto in alcun modo, circondò il mio corpo e inghiottì il colpo dell’avversario come un sorso d’acqua. Di colpo sentii una forza sconosciuta crescere all’interno del mio corpo e istintivamente feci quello che mi aveva insegnato Kidou: premetti le mani contro il torace del nemico e rilasciai tutta quell’energia distruttiva. Per un istante intravidi gli occhi neri del ragazzo riempirsi di confusione e al tempo stesso consapevolezza, ma ormai era tardi per scansarsi. La mia furia esplose contro di lui e, proprio come era successo ad Atsuya Fubuki qualche tempo prima, lo sollevò da terra e lo fece volare e atterrare a qualche metro di distanza.
Svuotato, sentii le ginocchia cedermi e l’immagine di qualcosa mi offuscò la vista per un istante... Una maniglia, un lembo di vestito, e...
Tutto scomparve, e d'un tratto mi trovai di nuovo nel corridoio con i miei amici. Il nemico, agile e leggero come un ninja, si era già rimesso in piedi e ci stava osservando, come valutando le persone che aveva davanti. Quando Diam gli corse incontro per attaccarlo, il ragazzo si esibì in alcune capriole su se stesso e finì per gettarsi dalla finestra. Maki si affacciò, urlando insulti. Diam si fiondò preoccupato su di me.
-Stai bene?- chiese. –Cos’è appena successo? Hai annullato il suo potere, e poi il tuo ha fatto… wham! Tutta quell’energia… sei stato fantastico! Non sapevo che potessi fare una cosa del genere!
Mi sorrise mentre mi rimetteva in piedi, incredulo ed ammirato.
-Non… non lo sapevo nemmeno io, credimi- mormorai, rilassandomi nel suo abbraccio. Avevo la sensazione che fosse successo qualcosa d’importante, ma quello non era il momento giusto per ricamarci sopra. –Raggiungiamo gli altri- proposi, e Diam annuì. Maki tornò verso di noi ed insieme scendemmo al piano di sotto.
Clara e IC stavano fasciando la ferita di IQ. Il ragazzo alzò il volto stanco verso di noi. Notai che la lente sinistra dei suoi occhiali era attraversata da una crepa.
-Sono scappati tutti, come se avessero ricevuto un segnale di ritirata- brontolò. Fece per sistemarsi gli occhiali che, spezzati, gli erano scivolati sul naso, ma si bloccò in un sussulto di dolore: Clara aveva accidentalmente fatto troppa pressione sulla ferita, così accecata dalle proprie lacrime da non vedere ciò che stava facendo.
-M-mi dispiace! Stai b-bene?- balbettò, spaurita. Lui tentò di fare un sorriso impacciato.
-È un taglio da nulla- disse.
-Può bastare, Clara- intervenne dolcemente Maki, posò una mano su quella dell’amica e gliela strinse. –Il sangue si è fermato, ora ci penso io. IQ, non muoverti- affermò. Il ragazzo annuì e rimase immobile ad osservare estasiato il modo in cui Maki ricuciva la sua spalla: assistere al suo potere per la prima volta faceva quell’effetto. Quando la ragazza ebbe terminato il suo lavoro, Diam gettò un’occhiata alla lunga linea rosa che corrispondeva al taglio chiuso e soffiò:- Wow. Maki, sei meravigliosa.
Maki gli rispose con un sorriso imbarazzato. –Ordinaria amministrazione- mormorò, le sue guance si erano tinte appena di rosa. IQ la ringraziò e Clara le diede un abbraccio.
–Ma come hanno fatto ad entrare? Credevo che ci fosse della sicurezza al piano terra!- esclamò intanto IC, non l’avevo mai sentita così furiosa.
Purtroppo avevamo tutti lo stesso, bruttissimo presentimento riguardo alla risposta, e nessuno osò esprimerlo ad alta voce, anche perché fummo distratti dall’arrivo di Nepper e Heat: sbucarono all’improvviso dalla fine del corridoio, affannati e coperti di sangue.
-Merda- commentò Diam. –Quel sangue…
-Non è nostro, abbiamo solo…- Nepper non completò la frase. Heat fu scosso da un forte tremito, si portò le mani alla bocca: si piegò, di colpo, in avanti, e il vomito gli proruppe dalle labbra. Nepper e Diam fecero istintivamente un passo indietro per non essere sporcati. Heat si alzò un secondo, borbottò una scusa e barcollò nuovamente in avanti tra conati e colpi di tosse; soltanto Clara gli si avvicinò, gli diede delle pacche sulla schiena e gli tirò dolcemente i capelli all’indietro.
La vista del sangue sui vestiti di Nepper mi ricordò di Gazel.
-Devo andare di sotto- sbottai. Mi parve di vedere gli occhi di Nepper lampeggiare allarmati.
-Reize, aspetta, al piano di sotto…- Non rimasi a sentire quel che aveva da dire e corsi verso le scale da cui erano appena saliti, seguito soltanto da Diam.
 
Le porte degli uffici erano ancora barricate dall’esterno e gli impiegati continuavano a sbattere pugni e ad urlare di lasciarli uscire. Mi dispiaceva per loro, ma non avevo né il tempo né la testa per aiutarli. L’unica camera aperta era quella che più mi interessava, quella di Gazel, e proprio in quel momento Tsunami ne uscì in gran fretta.
Aveva un’aria sconvolta, il corpo coperto di sangue non suo ed il respiro corto: tra gli affanni, riuscì a stento a balbettare qualcosa riguardante degli asciugamani. Fortunatamente non ebbe bisogno di ripetersi perché Diam sembrò capire al volo, gli fece un cenno ed insieme corsero verso i bagni. S’infilarono dentro, senza curarsi di chiuderli. Li guardai sparire dietro l’angolo, quindi entrai nell’ufficio guardandomi intorno con circospezione.
Il pavimento al centro della stanza era coperto da strisciate di sangue appiccicoso, là dove… dove avrebbe dovuto esserci il corpo di Toda. Mi vennero in mente le parole di Nepper.
“Non è nostro, abbiamo solo…”
-…spostato un corpo- completai in un sussurro orripilato. Deglutii; non c’era da meravigliarsi che Heat avesse dato di stomaco.
Mossi un altro passo e calpestai qualcosa: al rumore di vetri infranti abbassai di scatto lo sguardo e vidi il pc di Gazel, il cui schermo a cristalli liquidi era completamente in pezzi. Ma non era l’unica cosa ad essere stata distrutta.
Le sedie di legno erano rovesciate, molti archivi erano stati buttati a terra, i fogli erano volati per ogni dove, anche a causa della finestra spalancata, e le tende erano a brandelli, come se avessero avuto una lite con un tigre. La scrivania era ridotta ad un ammasso di schegge e Tachimukai era chino su quella montagna di legno: le sue mani, le sue braccia e le sue gambe erano tutte graffiate e alcuni tagli sanguinavano di fresco. Mi gettai verso di lui e gli afferrai un polso.
–Ehi, dobbiamo medicarti subito…- cominciai, ma mi bloccai quando i suoi occhi blu, colmi di paura e lacrime, si piantarono nei miei. Mi spinsero a guardare a terra.
Diam e Tsunami entrarono in quel momento con una pila di asciugamani di spugna imbevuti d’acqua fredda. Anche le mani di Tsunami erano coperte di graffi, probabilmente a causa delle schegge che era stato costretto a spostare.
Sotto il macello di legno e carta, immerso in una pozza di sangue, giaceva Gazel: guardava il soffitto con occhi vacui, velati di lacrime, e le sue labbra erano socchiuse come se fosse sul punto di dire qualcosa, ma non ne aveva la forza.
-Maki… ci serve Maki!- disse in fretta Diam, così agitato che parve ricordarsi solo in quel momento di lei e del suo potere. Nonostante stesse gridando, la sua voce mi giungeva ovattata. Sentivo il sangue rombarmi nelle orecchie ed un solo pensiero mi attraversava la testa: lo avevo lasciato da solo a combattere contro un mostro che già avevo visto uccidere.
Colto da una gelida rabbia contro me stesso, cominciai a scavare tra le schegge, le afferravo a piene mani e le gettavo dietro di me, senza curarmi del sangue che sgorgava rapidamente dalle ferite che mi procuravo. Nessuno provò a fermarmi. Diam corse fuori dalla stanza.
Soltanto quando non trovai più nulla da togliere, mi lasciai cadere all’indietro e osservai il risultato del mio lavoro: ora che non c’era più legno ad opprimerlo, i tagli sul corpo di Gazel erano ben visibili, particolarmente profondi e sanguinolenti su braccia e gambe. Sospettavo che perdesse sangue anche dalla testa, considerato quanto rapidamente s’arrossava l’asciugamano che gli avevano messo sotto la nuca. A quel punto Diam rientrò con Maki e lui e Tsunami mi spostarono di peso per lasciarle spazio: la ragazza si inginocchiò a terra ed iniziò a tessere la pelle di Gazel, ricucendo i suoi tagli ad uno ad uno. Anche se tremava, le sue mani e i suoi occhi erano fermi, concentrati. Io rimasi in disparte, sollevai le mani davanti al mio viso e attraverso le dita rosse e gonfie osservai il modo in cui il petto di Gazel si muoveva, lento ma regolare. Pensare che respirava ancora era l’unica cosa che potesse rassicurarmi e la fissavo come ipnotizzato.
Non è morto per colpa tua, gridavo dentro di me, non è morto.
Un luccichio catturato con la coda dell’occhio mi spinse ad abbassare le mani.
La luce che penetrava dalla finestra non scaldava per niente l’ambiente, freddo ed inospitale come sempre, ma faceva risplendere in modo particolare i muri. Mi soffermai sui leggeri riflessi d’arcobaleno che scivolavano lungo il pavimento allungandosi fino a me e finalmente me ne accorsi: le pareti della stanza erano rivestite da un fine, ma solido, strato di ghiaccio. 



 
**Angolo dell'Autrice**
Ieri mi sono divertita a scrivere la prima parte del capitolo, in cui Midorikawa, Diam e Maki ridono spensierati. La storia della marmellata è tratta da una mia esperienza personale (lol). Adoro Diam e Maki e sentivo il bisogno di una nota di allegria, di colore, in un capitolo che sapevo sarebbe diventato cupo e triste verso la fine. I nemici "incappucciati" hanno un ruolo chive in quest'ultima parte di storia: i protagonisti non hanno mai incontrato criminali del genere, così forti da eguagliare i loro poteri se non superarli, e l'idea della morte si fa molto più concreta. Stiamo entrando nella fase cruciale della lotta con Garshield. Questo è un capitolo decisivo anche per il personaggio di Gazel, come forse avrete intuito... A tal proposito, ho finalmente deciso di cominciare uno spin-off (dovrebbero essere circa sette-otto capitoli) incentrato su di lui; purtroppo per alcune ragioni dovrò aspettare un po' per postarlo, ma spero che vi piacerà. Anche Burn, Hiroto e altri saranno presenti nello spin-off. 
Bacioni e alla prossima,
                                Roby

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Capitolo 35
*** Mission 35. ~Hiroto's Arc. ***


Buongiorno :) Avevo molti dubbi su questo capitolo, perché temevo potesse risultare pesante (soprattutto la parte centrale, che è molto densa), e ci tengo a ringraziare Ursy che ancora una volta ha fatto il beta-reading per me cvc
Vi auguro una buona lettura!



La mia testa era un campo di battaglia: un momento prima urla e scoppi rendevano tutto confuso, subito dopo calò un silenzio spettrale. Avvertivo un fastidioso ronzio nelle orecchie e il sangue pulsava nelle vene ingrossate. Non sentivo quasi i miei stessi pensieri, mi sembrava di non averne. 
Ero seduto su uno dei letti dell’infermeria, ma non ricordavo come e quando ci fossi arrivato; solo un attimo prima ero seduto nell’ufficio (o meglio ciò che ne restava) di Gazel. Dovevo avere qualche scheggia infilata nelle mani, perché i palmi mi bruciavano da impazzire. Avevano smesso di sanguinare da poco. Mi lasciai andare all’indietro e sbattei la nuca contro lo schienale del letto.
Non appena chiusi gli occhi, dietro le palpebre comparvero Toda ed il suo petto squarciato, l’assassino dai capelli argentei, il corpo di Gazel steso e inerme come fosse morto: nemmeno nel sonno avrei dimenticato quelle immagini, sarebbero tornate sempre insieme agli altri incubi, con il maestro Jordaan e Shinobu e Genda e Sakuma.
Aspettai le lacrime, ma non arrivarono: il pianto che non riusciva ad uscire si trasformò in un peso asfissiante. 
Aprii di nuovo gli occhi senza sapere quanto tempo fosse passato.
Sentivo delle voci provenire dal corridoio, passi affrettati, persone che si urlavano contro; sembrava proprio che l’edificio si fosse nuovamente popolato, ma io non avevo voglia di vedere nessuno. Chiusi di nuovo gli occhi, sperando in un oblio che cancellasse la sofferenza.
 
xxx
 
Erano stati Diam e Maki a trascinarmi di peso verso l’infermeria: la ragazza si era accorta delle ferite sulle mie mani e aveva insistito per portarmi via. Dovevo essere del tutto fuori di me, perché non ricordavo assolutamente che fosse successo e quando Diam me lo disse nella mia testa non scattò nulla. Nulla. Come se io non fossi stato veramente lì in quel momento. Forse non volevo esserlo.
Diam non mi chiese se stavo bene, cosa molto apprezzata perché la risposta era più che evidente.
-Hanno portato il tuo amico in ospedale. Ha perso davvero un sacco di sangue, ma grazie a Maki non è in pericolo di vita- mi disse. Non c’era bisogno di chiedere per sapere che parlava di Gazel, e il mio primo, istintivo sollievo fu quasi subito soffocato dalla rabbia e dall’odio verso la crudeltà del nemico e verso la mia impotenza.
-Vorrei che morissero- sibilai. –Vorrei ucciderli con le mie stesse mani.
Diam mi lanciò uno sguardo cupo e vagamente ironico.
-Vorrei che non l’avessi detto- rispose. –Non dopo quello che hai detto a me quella volta.
Il discorso che gli avevo fatto su quanto fosse inutile e dannosa la vendetta tornò a ronzarmi nelle orecchie. Mi suonava estraneo, come se non fossero state parole mie.
-Mi dispiace- sussurrai. –Devo sembrarti piuttosto ipocrita.
Diam mi guardò di nuovo, stavolta completamente indecifrabile, poi distolse il volto e sospirò.
-Non credo che tu abbia capito quello che volevo dire. Non ti stavo rimproverando- disse.
–È solo che… non è passato così tanto tempo, no? Il fatto che in un mese, a stento, siano successe talmente tante cose da spingerti a dire una cosa così brutta… è un pensiero orribile, Reize.
Il muro al quale eravamo appoggiati era attraversato da una lunga crepa, e Diam diede un calcio ad una parte dell’intonaco di gesso che si era staccato e frantumato cadendo a terra.
-Il pensiero che abbiano spinto una persona così dolce a dire una cosa del genere mi fa vomitare- aggiunse in un sussurro. Rimasi in silenzio e lo osservai mentre si accaniva contro i pezzi dell’intonaco, riducendoli in briciole sotto le scarpe sporche di polvere bianca, finché parve non bastargli più. Diam sollevò il braccio e stava per dare un pugno al muro quando una mano si strinse attorno al suo polso e lo bloccò; sia io che lui fissammo sorpresi Hitomiko, che ricambiò con uno sguardo grave e severo.
-Prendersela con i vostri dintorni non aiuterà nessuno, ma potreste venire con me e raccontarci cosa è successo. Siete gli unici dei presenti a non esservi presentati nel mio ufficio- disse. Non riuscivo a credere che riuscisse a mantenere un tono così freddo anche in un momento come quello.
-Gli unici… a parte Gazel, immagino- non riuscii a fermarmi ed io stesso mi stupii del veleno nella mia voce. L’espressione di Hitomiko si modificò leggermente.
-Sì, naturalmente- rispose, mettendo da parte il tono di rimprovero, più comprensiva. Continuai a guardarla torvo e lei cedette un altro po’: fece un sospiro, lasciò il polso di Diam e si passò una mano sul volto pallido.
-Midorikawa- mormorò, la sua voce più dolce. –Mi dispiace. Le Inazuma Agency sono luoghi protetti e non sarebbe dovuto succedere nulla di tutto questo. Ma è successo.- Si tolse la mano dal viso e guardò dritto negli occhi. –È successo, e ci serve il vostro aiuto per capire esattamente come. Per poter rimediare almeno a quello a cui è possibile rimediare. D’accordo?
Diam annuì, tese la mano verso la mia e la strinse appena, per poi lasciarla subito. Mi girai verso di lui e lo fissai per un po’, poi tornai a guardare Hitomiko e le feci un debole cenno di assenso. Hitomiko sospirò di nuovo, ci diede le spalle e si avviò verso il proprio ufficio. Noi ci limitavamo a seguirla senza dire una parola. Passando davanti alla mensa riuscii a cogliere delle voci familiari e rallentai per ascoltare.
-Ho chiesto a Maki cosa è successo, ma lei non ha voluto dirmi niente- stava dicendo Reina. Suonava esasperata, frustrata ed insicura, non l’avevo mai sentita usare quel tono.
-Lasciala stare per un po’. Se è come ci ha detto Tsunami, deve essere esausta… si è occupata delle ferite di metà dei presenti- disse qualcun altro, forse Kidou.
-Ha salvato tutti quelli che poteva- mormorò Reina, cupa. –Ma vorrei che mi parlasse. Vorrei che si lasciasse consolare. Odio questa situazione, non so cosa fare quando è triste.
La persona che le rispose aveva un tono stanco e rassegnato. Avrei riconosciuto quella voce ovunque, non avevo bisogno di guardare dentro per vedere chi fosse. Hiroto.
-Magari non vogliono essere confortati. Cose come “è colpa tua” o “non è colpa tua”… a volte non vuoi sentirtelo dire. Le parole di conforto possono anche avere l’effetto opposto- disse, poi tacque.
Era proprio così; non volevo il conforto di nessuno. Hiroto sembrava capirmi benissimo, al punto che controllai a stento l’impulso di entrare nella stanza e abbracciarlo. In un angolo remoto della mia mente mi chiesi se non parlasse per esperienza, ma non potevo rifletterci adesso.
Reina si morse il labbro: non aveva niente da replicare. Immaginai che la conversazione fosse finita e andai avanti facendo finta di non sapere che parlavano di me.
 
Le domande che Seijurou ci fece erano tutte di circostanza –chi erano, come erano entrati, cosa avevano fatto. Dal momento che quando eravamo stati attaccati eravamo sparpagliati su più piani, ognuno di noi raccontò il suo pezzettino di storia da un punto di vista diverso e solo allora mi resi conto pienamente che tutti avevano sperimentato un proprio inferno. Eravamo tutti scossi e più volte Hitomiko fu costretta quasi a tirarci le parole di bocca. Heat rischiò di vomitare di nuovo sul tappeto dell’ufficio. Clara parlava in un tono quasi inaudibile, tremando come una foglia. Io stesso persi più volte il filo del discorso e dovetti ricominciare daccapo: avevo ancora una gran confusione in testa, forse dovuta allo shock, ed ero continuamente distratto dalle immagini di sangue e morte che mi comparivano davanti agli occhi.
-Basta- disse Maki ad un certo punto, scuotendo il capo. Era pallida e debole, la sua voce timida e flebile; bastava un’occhiata a capire che era stremata. L’attacco aveva messo a dura prova le sue capacità fisiche e mentali, spingendola ad usare i suoi poteri in un caso di estrema emergenza.
–Non ce la faccio più. Non capisco più niente. Vi prego, fatemi andare via, vi prego, voglio soltanto dormire- proseguì, implorante, spostando lo sguardo da Seijurou a Hitomiko.
L’uomo chiuse per un attimo gli occhi, sospirò, poi assentì.
-Hai ragione. Perdonami, agente Sumeragi. Perdonatemi tutti- dichiarò, fece una pausa. -Avete tutto il diritto di riposare, siete esausti e noi vi stiamo tormentando.
-Vi state facendo prendere dal panico, immagino- aggiunse Nepper sottovoce. Se Seijurou l’aveva sentito, non ne diede cenno. Fece girare tra le sue mani grassocce e rugose una tazza di ceramica lucida, da cui usciva un leggero aroma di tè verde, e si rivolse a sua figlia.
-Hitomiko, mandali nelle loro stanze. Per oggi li abbiamo trattenuti abbastanza- ordinò.
La donna si alzò, raggiunse la porta e l’aprì senza dire nulla. Piano piano, uno alla volta, ci tirammo su dalle sedie di legno e la seguimmo su per le scale. Diam mi passò oltre e mi precedette in camera, ma stranamente ne uscì pochi secondi dopo, lasciando aperta la porta; quando mi avvicinai, lui mi mise una mano sulla spalla e mi lanciò uno sguardo significativo che non capii subito.
Poi Diam mi superò, entrò nella stanza di Maki insieme a lei ed io mi girai verso la mia stanza.
Rimasi pietrificato.
Kazemaru era seduto sul mio letto, con i capelli legati in una disordinata coda di cavallo, e le braccia incrociate al petto come se avesse freddo. Quando mi vide scattò in piedi, nervoso, e mi squadrò da capo a piedi mordendosi il labbro, indeciso se avvicinarsi o meno. Sembrava che ora volesse parlarmi. Non ero sicuro di avere la forza di ascoltarlo, ma chiusi ugualmente la porta alle mie spalle e tornai a guardarlo. Kazemaru, forse incoraggiato dal mio movimento, fece un passo avanti e, sotto la luce al neon del lampadario, notai che i suoi occhi erano cerchiati di rosso. Probabilmente aveva pianto. Fece un altro passo, pareva sul punto di chiedere qualcosa: vidi quasi le parole ‘come stai’ formarsi sulle sue labbra, ma poi ci rinunciò e richiuse la bocca prima di rovinare tutto con una domanda tanto scontata e stupida.
Continuai a guardarlo senza accennare movimenti. Non sapevo esattamente cosa fare, né come comportarmi. Cosa pensava Kazemaru di me? Nonostante mi mostrassi sempre spavaldo, non ero in grado di salvare nessuno, nemmeno me stesso, e se non avevo la forza per proteggere il mio partner tanto valeva cederlo a qualcun altro…
Il mio stesso pensiero mi colpì come uno schiaffo.
Gli occhi di Kazemaru mi scrutavano e la sua attenzione, che pure avevo desiderato tanto, mi era insostenibile. Ho paura, pensai, voglio che se ne vada.
Quando Kazemaru fece per muovere un altro passo in avanti, arretrai di scatto e sbattei la schiena contro la porta, sentendomi in trappola. A quel punto non mi restava che gridare.
-Non avvicinarti- esclamai. –Ti prego, vai via. Non voglio parlare ora.
Lo sguardo di Kazemaru, sorpreso e compassionevole in un primo momento, si fece di colpo risoluto.
-No- ribatté con fermezza.
-Vai via!- Scossi il capo con tanta violenza da farmi girare la testa e dovetti appoggiarmi alla porta per non cadere in avanti. Kazemaru ignorò le mie parole e si avvicinò fino a potermi avvolgere le braccia attorno alla schiena e a poggiare il mento sulla mia spalla.
-Non vado da nessuna parte- disse. -Se non resto adesso, non valgo nulla come partner, come amico, o quello che vuoi...!
Mi strinse di più a sé ed io annaspai come se mi stesse soffocando. Cercai d’istinto di allontanarlo, infilando le dita nella sua felpa, artigliandomi ai suoi vestiti per strapparlo via da me.
-Lasciami! Lasciami, io… io sto bene- dissi, disperato. –Sto bene, devo solo dormire, starò bene. Lasciami, Kazemaru, per favore, lasciami.
Kazemaru resistette per un po’, poi si lasciò spingere e mi prese il volto tra le mani.
-Midorikawa, guardami- disse, con un tono così sofferente che obbedii subito. I miei occhi incontrarono i suoi. Il suo viso era paonazzo e striato di lacrime.
-Questo è proprio ciò che odio di te, lo sai?- la sua voce si spezzò sulla parola ‘odio’.
-Se sono preoccupato per te, è proprio perché non stai bene! E un po’ di sonno non migliorerà nulla, lo sai meglio di me. Ti stai solo sforzando di essere forte come al solito. Tu non mi lasci mai vedere il tuo dolore, Midorikawa. Io non ho la tua empatia, non riesco a capire cosa provi se non me lo dici-. Si fermò e prese un respiro profondo, come preparandosi psicologicamente a ciò che doveva venire. A quello che stava per dirmi.
-Avevi ragione, Midorikawa, sono stato un pessimo amico. Ti ho lasciato da solo, non mi sono accorto che soffrivi… Non ci sono stato per te e, quando ho capito quanto ci fossimo allontanati, sono entrato nel panico… Midorikawa, io ero terrorizzato dai tuoi sogni, più di quanto probabilmente lo fossi tu- confessò, aggrottando la fronte, corrucciato.
Lo guardai confuso.
-Cosa…- la domanda mi morì in gola prima di riuscire a formularla tutta.
Kazemaru si morse l’interno della guancia.
-Per me sei sempre stato un amico e un fratello, prima che un partner- disse.
-Ma poi sono arrivati quei sogni e d’un tratto ho visto un lato di te che non conoscevo... Ho capito che stavi cambiando, ma era già troppo tardi, io e te ci eravamo allontanati! Tu non mi parlavi più come prima, e non sapevo cosa fare... E poi ho scoperto che ti confidavi con Hiroto e che stavate insieme, e che tu mi avevi mentito, e… E mi sono spaventato.
I suoi occhi si riempirono di lacrime.
-Ho avvertito Hitomiko perché speravo di poterti tenere sotto il mio controllo. L’ho fatto per egoismo e, quando tu ti sei rivoltato contro di me, capire quanto davvero ci fossimo allontanati mi ha spaventato. Sono stato egoista, ti ho urlato delle cose orribili…
-Ma avevi ragione, no?- sbottai. –Sono stato io a mentirti, a mettere distanza tra noi…
Kazemaru scosse il capo. -Solo perché una cosa è vera, non significa che sia giusto dirla. E in quel momento volevo solo difendermi dalle tue accuse, volevo ferirti come tu stavi ferendo me, ma me ne sono pentito subito- disse, la voce piena di amarezza. -Avrei voluto riappacificarmi subito con te, ma ogni minuto che passava, la riconciliazione sembrava sempre più lontana. Continuavo ad esitare perché avevo paura dell’odio che mi avevi gettato addosso. Sono stato io a scatenare in te quella reazione. Mi dispiace davvero tanto, Midorikawa. E, ti giuro, ho detto di no a Endou. Non ho intenzione di cambiare partner, se tu non sei d’accordo. Io… Io non sono per niente disposto a perderti…!
Un suono roco, simile ad un rantolo, mi proruppe dalle labbra, percepii la sensazione di bagnato sulle guance e sotto il naso e la gola iniziò a bruciarmi. Le lacrime erano arrivate senza nessun preavviso e il pianto a lungo represso esplose con una violenza tale da minacciare di soffocarmi. Dalla mia gola cominciarono a uscire lamenti strozzati, che mi impedivano di parlare. Kazemaru mi guardò sorpreso, poi allarmato. Iniziò ad asciugarmi le lacrime con le maniche della sua felpa, mentre farfugliava parole di conforto che faticavo a comprendere.
Quando ritrovai la voce, singhiozzai:- Mi dispiace.. Io… mi dispiace…
-Sssh, sssh, è tutto okay, è tutto okay- mi ripeteva Kazemaru. –Respira, Midorikawa, respira.
-No, no, tu devi ascoltarmi- insistetti. –Non sapevo che pensassi questo… Non avevo capito nulla...
I sentimenti che per tanto tempo avevo ignorato premevano per uscire, come se una molla fosse saltata.
–Pensavo… credevo che tu non avessi più bisogno di me… Credevo che mi avresti abbandonato perché non sono abbastanza forte…
Kazemaru mi guardò confuso. –Ma di che parli?
Esalai un respiro tremulo e un singhiozzo più forte degli altri mi fece balzare il cuore in petto.
-I-io… non ero nessuno, non avevo niente, e voi mi avete amato lo stesso, ma io ero convinto di non meritarmelo… Credevo di dovermi guadagnare quell’affetto... Dovevo proteggerti per ricambiare, in qualche modo… Ma se non hai più bisogno di me, non mi resterà nulla... Io non ho nient’altro da darti…
Erano cose che avevo pensato fin da quando ero bambino. Ero stato amato, ma avevo sempre percepito una sorta di lontananza dalla “mia” famiglia, perché sapevo che non era davvero mia. Ora capivo anche il perché della mia solitudine. Perché a volte mi sentivo tanto solo da soffocare. Quei pensieri c’erano sempre stati, nascosti nelle zone d’ombra della mia mente.
Ah, pensai, adesso capisco. Perché soffrissi tanto, perché non riuscissi a parlare con Kazemaru… ora mi era tutto chiaro: non riuscivo a perdonare me stesso.
-Hai sempre pensato queste cose?- bisbigliò Kazemaru. Nel suo volto c’era la mia stessa, sofferta consapevolezza. Dalla sua espressione intuii che finalmente aveva capito anche lui. -Dall’inizio? L’hai sempre pensato?
Mi lasciai scivolare contro la porta, privo di energie.
Kazemaru si inginocchiò davanti a me e mi abbracciò di nuovo.
-Sei proprio uno stupido- singhiozzò. –Non hai mai avuto bisogno di dimostrarmi niente! Ti ho sempre amato per quello che sei, Midorikawa... E continuerò ad amarti, indipendentemente da chi sceglierai di diventare…
Affondai il viso nella sua spalla e strinsi le dita nella sua maglia.
-Sono stanco di vedere la gente morire- mormorai. -Sono così stanco, e così arrabbiato, e ho paura... Devo diventare più forte...
-Sì... Sì, ti capisco- disse Kazemaru. -Ma non devi più combattere da solo, Midorikawa. Quando sei stanco, ci sono qui io a proteggerti... Non è questo che vuol dire essere partner?
Mi accarezzò i capelli dolcemente, stringendomi a sé come una cosa preziosa.
–Non soffrire da solo... Io combatterò sempre al tuo fianco- continuò, con la voce carica d'emozione. -
Dopo questo, mi abbandonai totalmente contro di lui e piansi ancora, sempre più forte, finché la stanchezza non ebbe la meglio, e mi addormentai tra le sue braccia come un bambino.
 
xxx
 
La mattina dopo, mi svegliai nel letto insieme a Kazemaru. Probabilmente mi aveva sollevato e messo lì, poi era rimasto al mio fianco tutta la notte. Aprire gli occhi e trovarlo lì davanti a me, con le dita tanto strette alle mie che quasi non le sentivo più, mi strappò un sorriso genuino. Nonostante gli eventi del giorno prima mi turbassero ancora, sapere di poter contare di nuovo su Kazemaru mi procurava un senso di pace che non provavo da tempo.
Mentre lo osservavo, lui aprì gli occhi lentamente, mi mise a fuoco e fece un sorriso fiacco.
-Ehi- sussurrò. Non dissi nulla, chiusi le palpebre e le riaprii e lo guardai. Lui diede una stretta alle mie dita prima di lasciarla, si tirò su e cercò a tentoni il proprio telefono.
-Ah, sono le nove e mezza- bofonchiò. Passarono un paio di secondi, poi parve metabolizzare ciò che aveva appena detto e i suoi occhi si spalancarono di stupore.
-Le nove e mezza?! Cavolo, ci hanno fatto dormire tantissimo. Non succedeva da… da… boh? Non ricordo che ci abbiano mai fatti alzare tanto tardi- esclamò. –Be', tu sei un caso a parte. Una volta hai dormito per quasi due giorni interi.
Scoppiai in una debole risata, la mia voce era ancora roca e raschiata e il suono che mi uscì sembrò più un colpo di tosse.
-Andiamo?- proposi.
Lui si liberò delle coperte e mi guardò mentre si legava i capelli in una specie di chignon.
-Hai fame?- chiese. Mi posai una mano sullo stomaco e realizzai improvvisamente che non mangiavo da circa otto ore; il senso di nausea permanente, tuttavia, si opponeva allo stimolo della fame.
-Onestamente no, ma non credo che il digiuno faccia bene…
-Giusto. Mangerai, anche se dovessi costringerti- convenne lui infilandosi le scarpe. Poi si alzò in piedi e mi tirò fuori dall’armadio degli indumenti puliti, compresa una delle sue grandi felpe che adoravo ed ero solito rubarmi dai suoi cassetti. Mi cambiai con un certo sollievo, gettai da parte i vestiti laceri e sporchi di polvere di gesso (mi ripromisi di buttarli via: non credevo che li avrei mai più usati) e restai seduto sul bordo del letto finché Kazemaru non mi tese nuovamente la mano.
-Andiamo- disse, con decisione, ed io non esitai a seguirlo.
Scendemmo in mensa così, tenendoci mano per mano come due bambini.
-Devo presumere che vi siate riappacificati?- esclamò Diam appena entrammo nella stanza.
Osservai i lunghi tavoli di metallo e lo individuai immediatamente: era vestito di verde prato, in netto contrasto con l’abituccio viola brillante di Maki, che gli era seduta a fianco.
Più in là c’erano anche Endou, Kidou, Gouenji e, con mia grande sorpresa, Shirou Fubuki.
-Aw, che carini. Questa volta vi siete mossi in coppia, vedo- commentò quest'ultimo. Si girò verso di me e mi sorrise, piegandosi in avanti sul tavolo per poggiarsi sui gomiti. –Sarai contento, ora che non hai più quell’aria da bimbo sperduto- aggiunse.
Arrossii, ma invece di negare dissi soltanto:- Sei ancora qui.
Fubuki alzò gli occhi al cielo. –E dove vuoi che vada? Se metto il naso fuori di qui, rischio di morire ammazzato e la prospettiva non mi attira per nulla...
-Fubuki ci aiuta con le indagini. Lui e suo fratello sono sotto la nostra custodia- affermò Gouenji, visibilmente tranquillo. Fubuki scrollò le spalle.
-Ora che so che Atsuya sta bene, devo concentrarmi solo su come prendere a calci quei tizi- disse con voce tagliente.
-Mettiti in fila- ribatté Diam. –C’è molta gente che vuole prenderli a calci in questa stanza.
Fubuki fece schioccare la lingua contro il palato, seccato, e non replicò.
Endou si alzò dal tavolo e ci venne incontro. I suoi occhi si soffermarono prima su Kazemaru, poi su di me, infine la sua espressione tesa si sciolse in un grande sorriso.
-Sono davvero, davvero felice che abbiate fatto pace- dichiarò. –E, Midorikawa… mi dispiace per la storia dei partner. Avrei dovuto chiederti prima se eri d’accordo, mi spiace, ero così preso dalla cosa che non ci ho proprio pensato.
-Non importa, è acqua passata- risposi, sincero. Ora che mi ero chiarito con Kazemaru, anche la sensazione di fastidio che provavo nei confronti di Endou era svanita. Non avevo più alcun motivo di essere geloso o arrabbiato con lui.
Endou si portò una mano alla nuca e fece una risatina imbarazzata.
-Ah, sono stato un vero stupido. Non c’è da meravigliarsi che Hiroto mi abbia fatto una bella lavata di capo…
Quando menzionò Hiroto, ricordai che non lo vedevo da parecchie ore. Credevo che mi sarebbe venuto a cercare, invece sembrava sparito, il che era un po’ deludente visto che, in quel momento più che mai, avevo bisogno del suo conforto.
Stranamente Endou parve intuire i miei pensieri.
-Voleva lasciarti un po' di tempo con Ichirouta- si affrettò a spiegare. -Poi oggi voleva correre subito da te, ma Seijurou e Hitomiko gli hanno chiesto fermamente di restare con loro… ad occuparsi di alcune cose.
-Cosa?- chiesi immediatamente, curioso.
-Le Spy Eleven sono qui- intervenne Kidou, che era in piedi dall’altra parte della stanza, poco distante da Fubuki e Gouenji. –Sono finalmente arrivate tutte e ora sono al completo. Erano già tutte presenti dal ministro, ieri mattina, ma ora stanno venendo qui. Il ministro era furibondo quando ha sentito dell’attacco alla nostra sede… chiaramente era tutto architettato.
-La lettera, la minaccia al ministro… Garshield ha organizzato tutto per poter entrare qui dentro. Ha distratto le Spy Eleven con uno specchietto per allodole e intanto le sue spie sono venute a cercare ciò che volevano- continuò Gouenji, serio. –E devono averlo trovato, perché a detta di Burn mancano parecchi fascicoli dall’archivio di Gazel.
Improvvisamente qualcosa scattò nella mia mente, permettendomi di fare il collegamento che ancora mi mancava.
-Era Gazel… era lui l’obiettivo, dal principio. Sapevano che c’era una persona da noi capace di conservare tutti i nostri dati e impedire a loro l’accesso. Quando Gazel li ha intercettati, lo hanno preso di mira…- mormorai. Ripercorsi con la mente i ricordi del giorno precedente: come avevamo potuto non pensarci? Avevano fatto in modo che nessuno potesse intervenire, in un modo o nell’altro, e avevano mirato dritti all’archivio.
-Lo sapevo- bofonchiai, amaro. –È colpa mia. Non avrei dovuto lasciare Gazel da solo. Avrei dovuto restare dov’ero, e magari saremmo riusciti a fare qualcosa…
-O forse saresti morto anche tu- Kazemaru mi interruppe e strinse la presa sulla mia mano per attirare la mia attenzione su di lui. –Hai fatto solo ciò che Gazel ti aveva chiesto. Non è colpa tua, chiunque avrebbe fatto lo stesso… Comunque ora è inutile pensare a come sarebbe potuta andare, giusto? Forse Gazel non sta proprio benissimo, ma ce la farà, e vedrai che quando tornerà sarà ancora più agguerrito di prima.
-Già, non è decisamente il tipo che si fa sconfiggere così. È troppo testardo per cadere senza lottare, in questo è uguale a Haruyan- commentò Maki. Era la prima volta che interveniva nella conversazione. Aveva ancora un aspetto malaticcio, la sua voce normalmente squillante era ridotta ad un sussurro e notai che aveva il viso gonfio e le nocche livide: anche lei doveva aver pianto molto. La guardai dritta negli occhi ed annuii lentamente.
-Hai ragione- dissi. Maki mi fece il più piccolo dei sorrisi.
In quel momento le porte della mensa si aprirono ed entrarono Reina, Zell, Hiroto, Burn e qualcuno che non riconobbi subito: solo quando si girò e posò i grandi occhi rossi su di me, infatti, capii che si trattava di una delle persone che avevo visto alla mia unica seduta psichiatrica, specificamente della ragazza che aveva passato tutto il tempo a fissarsi le punte dei capelli o le unghie delle mani. Quella mattina i lunghi capelli biondi erano legati in una treccia che gli scendeva sulla schiena e indossava alti stivaletti, una gilet di pelle su una camicia bianca e jeans neri stretti, così stretti che finalmente realizzai una cosa importante: non era una ragazza.
Una considerazione piuttosto imbarazzante, che per fortuna avevo notato prima di fare brutte figure.
Il ragazzo biondo stava parlando, o forse litigando, animatamente con Burn e i due sembravano molto in confidenza, come se si conoscessero da tempo; Hiroto, che pure li trattava in modo molto familiare, cercava di mettere pace tra loro, ma li abbandonò a loro stessi non appena si accorse della mia presenza. I nostri sguardi si incrociarono attraverso la stanza e lui lasciò letteralmente tutto per corrermi in contro e abbracciarmi, sollevandomi quasi da terra per l’impeto. Kazemaru mi lasciò velocemente la mano e fece un passo indietro mentre Hiroto mi stringeva forte a sé.
-Come stai?- mi chiese, sussurrando al mio orecchio. Si capiva che stava sulle spine, ma non osava essere troppo invadente. Mi appoggiai contro di lui e decisi di essere sincero.
-Male, ma mi riprenderò- risposi. Lui sospirò, non proprio rilassato, ma leggermente più sollevato, poi si staccò quel tanto che bastava per darmi un bacio sulla guancia e uno sulla fronte. Non provò a fare di più, perché la stanza era piena di gente ed era imbarazzato, ma continuò a tenermi stretto a sé ancora per qualche minuto prima che il biondo parlasse e interrompesse il nostro momento.
-Uhm, c’è qualcosa che dovrei sapere?- esclamò. –Da quando Hiroto ha un ragazzo, per esempio?
-Ma che ti frega? Tanto evidentemente non ci ritieni abbastanza importanti- lo rimbeccò Burn.
Il biondo lo fulminò con lo sguardo.
-Non fare l'idiota- disse, secco. –Ti ripeto, per l’ennesima volta, che non ho avuto altra scelta. Chang Soo mi ha ordinato di non informare nessuno della mia presenza in città, e così ho fatto. Non potevo certo pretendere che facesse un’eccezione per il tuo brutto muso.- Sbuffò ed incrociò le braccia al petto mentre Burn arrossiva violentemente.
-Be', almeno avresti dovuto farla per Gazel- brontolò. Pronunciò quel nome con amarezza. Realizzai in quel momento che Burn doveva essere uno dei più colpiti dall’incidente di Gazel e, in effetti, non aveva un aspetto sereno. Sotto i suoi occhi risaltavano occhiaie livide e profonde e teneva i pugni stretti, rigidi, lungo i fianchi. Era probabile che anche lui si sentisse in colpa per l’accaduto.
Le sue parole di risentimento parvero avere effetto sul biondo, la cui espressione si addolcì un poco.
-Avrei voluto, davvero. Mi siete mancati, che tu ci creda o no- disse. –E poi quando finalmente riesco ad arrivare qui, scopro che Gazel è in ospedale! Non vedevo l’ora di abbracciarlo.
-Non so se te l’avrebbe permesso- osservò Endou.
Il biondo scrollò le spalle. –A me lo avrebbe permesso- ribatté. –Ma comunque lui non c’è ora, e dovrò aspettare che ritorni…- Tacque e per alcuni minuti calò il silenzio. Tutti pensavamo al perché Gazel non ci fosse, naturalmente. Il biondo decise di non dilungarsi troppo in quell’atmosfera cupa.
-Ma tornando a Hiroto- esclamò infatti, cambiando efficacemente argomento –posso almeno sapere chi è il fortunato?- Attraversò la stanza con passo sicuro, elegante, si fermò davanti a me e mi tese la mano.
-Piacere di conoscerti, io sono Afuro Terumi. In genere le persone mi chiamano Aphrodi- si presentò. Aveva un sorriso luminoso ed incoraggiante. Mi staccai da Hiroto e strinsi la sua mano.
-Io sono Midorikawa- dissi. –Midorikawa Ryuuji.
-E in genere solo io e un altro paio di amici lo chiamiamo Reize- aggiunse Diam allegro. Alzai gli occhi al cielo e scossi il capo. Nel frattempo, Afuro studiò il mio volto abbastanza a lungo da riconoscermi a sua volta e si illuminò.
-Ehi, tu eri dalla psicologa! O meglio, sei scappato- esclamò, poi rise. –Hai fatto benissimo, tra parentesi. Avrei dovuto farlo anche io. Dieci sedute, una più cretina dell’altra.
-Wow, finalmente si sono accorti che sei folle?- commentò Burn, con un piccolo ghigno sarcastico.
Afuro si mise le mani sui fianchi e lo guardò con aria di sufficienza.
-Oh, Nagumo, a volte invidio i tuoi semplici percorsi mentali- cinguettò. –No, sono semplicemente preoccupati del fatto che il mio potere generi in me una sorta di narcisismo cronico, il che è ridicolo, perché non sono convinto di essere perfetto. Che io lo sia è un dato di fatto.
Burn sbuffò, mentre Endou e Hiroto scoppiarono a ridere alle sue parole. Afuro si girò verso di me e mi sorrise di nuovo e decisi che mi piaceva (e se era anche amico di Hiroto e Gazel, quello non poteva che essere un punto a suo favore).
-Io sono nell’Agency coreana, comunque. Gazel, Nagumo, Hiroto e Endou ed io veniamo dallo stesso centro di addestramento- mi spiegò.
-Capisco- risposi. Quello era un argomento che destava la mia curiosità: il nostro gruppo si era formato sotto l’ala di Seijurou unendo persone provenienti da varie periferie di Tokyo e mi sarebbe piaciuto molto sapere qualcosa sulle esperienza degli altri. Kazemaru ed io venivamo da Tokorozawa e, a quanto sapevo, anche Reina e Maki si erano addestrate nei dintorni di Sapporo. Non conoscevo dettagli su Gouenji, mentre Kidou era stato trasferito da Ehime dopo l’incidente con Kageyama. Infine, c’era il gruppo di Hiroto, Gazel, Nagumo e Endou, proprio nei dintorni di Tokyo. Era quello ad interessarmi maggiormente, e mi riservai di chiedere qualche dettaglio ad Afuro in seguito.
-Chang Soo è di là con gli altri grandi capi- affermò Afuro, parlando con Endou.
Il castano rise. –Scommetto che non è cambiato nemmeno un po’- esclamò.
-No. Stesso cervello, stessi capelli e stesse battutine argute- replicò Afuro, e annuì con convinzione. Spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio destro e si rivolse a Hiroto.
-A tal proposito… odio dover interrompere i piccioncini, ma dovremmo tornare di là. Tua sorella ci ha dato solo cinque minuti, ne sono passati otto e lei diventa piuttosto antipatica quando è impaziente- disse, guardandoci fisso. Arrossii per come ci aveva chiamati.
Hiroto gettò una rapida occhiata al proprio orologio da polso.
-Mi sa che hai ragione- bofonchiò. Esitò un momento, poi mi prese il viso tra le mani e mi diede un veloce bacio all’angolo della bocca. –Devo andare...
-Non posso venire con te?- lo interruppi immediatamente, aggrappandomi alla sua maglia per impedirgli di allontanarsi, con l’espressione più dolce che riuscii a fare per convincerlo. Non che ce ne fosse un gran bisogno. Hiroto non aspettava altro che glielo chiedessi. Il suo viso si illuminò di un largo sorriso e strinse una mano intorno al mio braccio.
-Nessuno ha specificato che non potevo portare persone- osservò.
-In effetti no- convenne Afuro.
-Ehi! Voglio venire anch’io!- intervenne Diam, saltando su dal suo posto. –Sono curioso, devo ammetterlo. Voglio vedere un po’ come sono questi “grandi capi”-- Mimò le virgolette con le dita.
-Posso venire anche io, allora?- si aggiunse Kazemaru. Hiroto annuì ad entrambi.
-Ma sì, mia sorella si lamenterà, ma chi se ne importa. Ci sono problemi ben maggiori. Dai, andiamo- disse, tranquillo.
 

La sala conferenze era piena di persone delle più disparate nazionalità e, se vuota appariva enorme, adesso al contrario sembrava infinitamente piccola e insufficiente.
Intravidi Natsumi Raimon e suo padre in un gruppo di ragazzi dalla pelle color terra, mentre le sue amiche, Aki Kino e Haruna Otonashi, erano vicine agli americani, quasi tutti biondi e con indosso i colori della propria bandiera. Più in là, seduti con Hitomiko, riconobbi Desarm e Fideo Ardena con i suoi più stretti subordinati, Zanardi e Maseratti; Edgar Valtinas era subito a fianco, e stava parlando con un ragazzo alto e magro con i rasta, scuro di pelle, ed un omaccione dai capelli lunghi, ricci e nerissimi con indosso una camicia a righe azzurre e bianche. Fudou era l’unico a starsene in disparte, prevedibilmente, ed il mio cuore affondò un po’ quando notai che non c’erano altri membri della sua squadra.
-Ah, ecco, Chang Soo è laggiù- bisbigliò Afuro. Seguii il suo sguardo e vidi un uomo alto, di corporatura agile e spigolosa; indossava una tuta di un rosso vibrante e aveva tratti fortemente orientali che contrastavano in modo stridente con la pettinatura afro. A fianco a lui, un ragazzo dai capelli violacei si stava appoggiando sulla spalla di un biondino, che lo respingeva seccamente, mentre il terzo, che aveva un corpo largo come quello di un lottatore di sumo e i capelli legati in una treccia alta, li osservava sconfortato. Dovevano essere compagni di Afuro, perché il biondo li raggiunse non appena li vide, facendosi largo nella folla.
In quel momento, Hitomiko alzò lo sguardo dal tavolo e ci notò. Aggrottò la fronte, forse contrariata dal fatto che Hiroto avesse portato anche noi lì, ma non fece nessun commento; si alzò in piedi e si voltò verso Seijurou, il quale (solo ora lo notavo) era seduto su una poltrona con una specie di microfono in mano.
-Bene- esclamò il padre di Hiroto. La sua voce rimbombò nel microfono, si diffuse al di sopra del vociare e tutti tacquero per ascoltare cos’aveva da dire.
-Signori, vi ringrazio di aver risposto alla chiamata e di essere giunti fin qua. Il viaggio per molti di voi deve essere stato lungo e faticoso e apprezzo molto le vostre intenzioni. Avrei voluto accogliervi in circostanze più… gradevoli, ma gli avvenimenti di ieri ci premono ad affrontare la questione, per quanto spinosa possa essere, senza ulteriori preamboli. Vi pregherei quindi di prendere posto e cominciamo la riunione- continuò Seijurou, serio.
Nessuno ebbe nulla da ridire e le persone cominciarono a spostarsi e prendere posto, in silenzio; Hitomiko si alzò e andò a sedersi in prima fila, mentre le Spy Eleven si allinearono dietro al lungo tavolo da conferenze, occupando le poltrone disposte ai due lati di Seijurou. Afuro ci fece un cenno e Hiroto e Nagumo andarono a sedersi vicino a lui, mentre io, Diam e Kazemaru preferimmo restare in piedi vicino alla porta, in disparte.
Dopo un paio di minuti, necessari per l’assestamento, nella stanza c’era il silenzio più totale.
Desarm si alzò e dichiarò il proprio nome e distretto. -Saginuma Osamu, Hokkaido- disse, a voce alta, e seguendo il suo esempio gli altri procedettero a presentarsi uno alla volta.
-Fideo Ardena, Italia.
-Edgar Valtinas, Regno Unito.
-Mark Kruger, Stati Uniti d’America.
-Mac Roniejo, Brasile.
-Teres Tolue, Argentina.
-Choi Chang Soo, Corea.
-Rococo Urupa, Africa centrale.
-Raimon Souichirou, Europa centro-orientale.
-Fudou Akiou, Ehime.
-Kira Seijurou, Tokyo- concluse la nostra Spy Eleven. Tossì per schiarirsi la voce, si portò nuovamente il microfono alle labbra e fece il suo annuncio:
– Che la prima riunione per organizzare il piano contro Garshield Bayhan cominci.



 
**Angolo dell'Autrice**
È una bella e rara sensazione riuscire ad aggiornare due volte in poco tempo~
Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Anche se i toni della storia si fanno sempre più cupi, una cosa buona c'è: finalmente Kazemaru e Midorikawa si sono riavvicinati. Mi sono impegnata molto nella parte centrale del capitolo perché volevo che, oltre ai sentimenti di Midorikawa, passassero anche quelli di Kazemaru. Kazemaru e Midorikawa in questa fic sono più che amici, sono praticamente una famiglia, e Midorikawa sente un bisogno ossessivo di proteggerlo. Quello di voler dimostrare a tutti i costi il proprio valore è un tratto caratteristico di Midorikawa, in questa storia, ed è probabilmente una conseguenza della sua amnesia: sente il bisogno di definire la persona che è, per rimediare al fatto di non sapere chi è stato in passato. 
Sono stata molto felice di poter finalmente introdurre Afuro, che sarà un personaggio importante anche nello spin-off su Gazel. Penso che comincerò a postarlo in contemporanea al prossimo capitolo di Spy Eleven.
Bacioni,
       Roby

P.s. Consigli musicali! Battle Scars dei Paradise Fears per la parte di Kazemaru e Midorikawa ;)

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Capitolo 36
*** Mission 36. ~Hiroto's Arc. ***


Ancora mille grazie a mio cugino Ren per avermi betato il capitolo, dopo averlo finito ero stanchissima e senza il suo aiuto avrei dovuto rimandare la pubblicazione per un bel po' :'D 





-Il nocciolo della questione è: quanto possiamo aspettarci dal nemico? A questo punto mi sembra ovvio che l’abbiamo sottovalutato, e non possiamo più permetterci di ripetere l’errore. Abbiamo subito molte perdite- disse Hitomiko.
Aveva parlato in giapponese, cosa che mi diede un enorme sollievo. Fino a quel momento, infatti, la discussione si era svolta in inglese ed ero riuscito a cogliere pochissimo dei loro interventi; sebbene la lingua fosse unica, ogni partecipante infondeva il proprio accento, la propria nazionalità, il proprio ritmo alle parole, trasformandole in qualcosa di molto variabile.
Non capire nulla mi deprimeva. Ero riuscito a catturare qualche parola stando concentrato, ma dopo poco più di mezzora la mia attenzione era scivolata via e mi ero messo a pensare ad altro (per esempio, su come Hiroto sembrasse seguire tutta la discussione senza problemi, o su come Afuro e Burn, seduti vicini, si giravano spesso l’uno verso l’altro e bisbigliavano).
Quando Hitomiko si alzò e iniziò a parlare in giapponese, il mio interesse si riaccese di colpo.
Mi raddrizzai e spostai lo sguardo sulla donna che, con la sua giacca gialla canarino, spiccava di gran lunga tra i presenti. Mentre parlava si era mossa dal suo posto, aveva fatto il giro del tavolo e ora si stava allungando verso il telecomando del proiettore.
Ad un suo gesto, sull’enorme schermo della sala si aprirono svariate finestre d’immagini: molti scatti erano sfocati o mossi, ma riconobbi ugualmente i ragazzi con le cappe marroni che lavoravano per Garshield. La rabbia mi riscaldò subito il viso e mi irrigidii stringendo i pugni per controllarmi. Al mio fianco, Diam e Kazemaru mi scoccarono un’occhiata apprensiva.
Hitomiko si schiarì la voce e riprese a parlare:- Queste immagini vengono da telecamere di sicurezza di vari luoghi. Purtroppo le telecamere sono andate tutte distrutte, per cui abbiamo potuto ricavare solo pochi estratti e non abbiamo volti che possano essere collegati a dei nomi…
Natsumi Raimon, che era seduta in prima fila insieme al padre e alle sue compagne, alzò prontamente la mano. –Mi scusi, non sarebbe possibile provare a migliorare la qualità delle immagini?- suggerì. Hitomiko le fece un cenno.
-Ovviamente l’abbiamo pensato anche noi. Gazel ci stava lavorando- rispose, pacata.
-Potremmo affidare l’incarico a qualcun altro, mentre Gazel si riprende- intervenne Fideo, sentirlo parlare giapponese era sempre una sorpresa. Si voltò verso i suoi subordinati. –Marco, credi di riuscire a farci qualcosa?- chiese. Tutti rimasero in attesa mentre il rosso studiava lo schermo.
Alla fine, abbassò il capo in cenno di assenso.
-Sono molto rovinate, ma ci possiamo lavorare, vero, Gianluca?- esclamò. Il collega annuì. Natsumi alzò di nuovo la mano e si disse disponibile a dare una mano.
-Natsumi, ci stai già aiutando moltissimo con gli addestramenti- fece notare Hitomiko.
-Allora posso farlo io- intervenne Haruna Otonashi. –Me la cavo abbastanza con i computer e sarei ben felice di offrirvi il mio aiuto.
Hitomiko parve soppesare la situazione.
–Bene, allora formeremo un team di esperti per sistemare questa questione. Grazie a tutti per il supporto- dichiarò. Marco, Gianluca e Haruna fecero un piccolo inchino e tornarono a sedersi. Hitomiko stava per aggiungere altro, ma in quel momento Fudou staccò il microfono dal suo supporto e l’oggetto produsse un sibilo assordante.
-Bene, bene, tutto fantastico- esordì, alzandosi in piedi –ma passiamo alla roba seria. Non me ne frega un cazzo di sapere chi siano, il punto è cosa fanno. E questi stronzi mi hanno accoltellato una gamba.- Le sue parole dure e rabbiose mi riportarono subito indietro a quel giorno, all’ospedale, in cui Fuyuka aveva rischiato di morire. Naturalmente Fudou era ancora furibondo: perdonare e passare oltre non era nella sua natura. E, ora come ora, non potevo biasimarlo.
-Hanno anche cercato di uccidere mia sorella- disse Fideo. –Quindi non credere di essere l’unico ad avere un conto in sospeso con loro, Fudou.- Gli lanciò un’occhiata di traverso e Fudou sbuffò.
-Mi dispiace interrompervi- intervenne Seijurou in tono rassegnato.
–Per quanto non condivida il modo di esprimersi dell’agente Fudou, sono d’accordo con lui. Garshield si è sicuramente creato un esercito molto forte, si è circondato di soldati tanto fedeli a lui quanto letali per noi. Sono ovunque, attaccano ovunque. Non conoscono la pietà.- Fece una pausa grave.
–Qualunque piano d’attacco dovrà tenere conto di questo fattore, o arrivare a Garshield sarà impossibile.
Un ragazzo americano in prima fila si alzò e smozzicò una frase in inglese che mi parve del tutto sconclusionata. La Spy Eleven americana sospirò e abbassò il capo, premendosi le mani sul volto nel tentativo di nascondere un sorriso, e un altro degli americani intervenne a tirare giù quello che aveva parlato. Mentre si sedeva, riuscii a guardarlo meglio e restai sorpreso di riconoscerlo. Come Aphrodi, anche lui era dalla psicologa: il ragazzo che non sapeva piegare il cartellino col proprio nome. I capelli biondi sembravano una massa di fieno ed erano tenuti fermi dall’elastico degli occhialoni che portava sul naso (simili a quelli di Kidou ma di dimensioni più grandi). Fece una specie di saluto verso il proprio comandante, che non ricambiò, ma avvicinò il microfono verso di sé e tossì appena per richiamare l’attenzione.
-Ehm, sì- cominciò, con uno sforzo represse il sorriso involontario che l’altro gli aveva strappato. Si alzò in piedi e la bandiera americana che portava sulle spalle gli scivolò da dosso, restando sulla sedia. Il ragazzo, che non mostrava più di diciassette anni, non ci fece caso; sembrava molto concentrato su ciò che doveva dire, come se frugare nella propria mente per le parole giuste in un’altra lingua fosse piuttosto complicato. Probabilmente, visto che l’inglese era parlato dappertutto, non sentiva spesso il bisogno di cambiare lingua.
-Quello che Dylan… cioè, il mio agente… voleva suggerire, è di formare un altro gruppo di esperti, con il compito di raccogliere informazioni nella città- disse, esitando un attimo sulla parola “esperti”.
-Fin da quando Garshield ha iniziato ad allargare il suo impero commerciale nel mondo, ci è apparso chiaro che ha un po’… le mani in pasta… ovunque. Abbiamo raccolto prove inequivocabili della sua presenza in Brasile e in Africa- alla sua sinistra, le due Spy Eleven dei luoghi citati gli lanciarono un’occhiata seria, come in attesa di sentire cos’avesse da aggiungere a riguardo, ma l’americano non sembrava volersi dilungare sull’argomento. –Spesso sotto altri nomi ha inglobato piccole e grandi società, e le ha usate come copertura. Garshield Bayhan è furbo e non ama sporcarsi le mani, non se può usare gli altri per raggiungere i suoi scopi… Tutti sappiamo che Big D è a lungo stato il suo presta-volto in alcuni dei crimini più efferati e crudeli di cui si sia sentito parlare, ma soprattutto di quelli di cui non si è sentito parlare. Anche se ancora rifiuta di dare testimonianza, la sua cattura è stata certamente un successo nella lotta contro Garshield. Siamo tutti grati alla squadra di Desarm.
L’americano si fermò per sorridere a Saginuma, che fece un cenno col capo. Qualcuno applaudì. Io lanciai un’occhiata sfuggevole verso Diam, che stava fissando le proprie scarpe come se fossero la cosa più interessante in sala; le sua labbra erano strette in una linea sottile e contratta e i capelli che gli coprivano il viso rendevano illeggibile la sua espressione.
-Okay, okay, taglia corto, Kruger- intervenne di nuovo Fudou, ma stavolta le sue parole mancavano di mordente. Era piegato in avanti sul tavolo e i suoi occhi erano puntati sul biondo, le sopracciglia inarcate in un’espressione di sincera curiosità. –Cosa avete in mente, tu e i tuoi amici unicorni?- domandò, con l’impazienza di chi si aspetta quasi di veder accadere un gioco di prestigio.
L’americano sbuffò. –Guarda che ci sto arrivando...- brontolò. Chiuse per un attimo gli occhi e raccolse nuovamente le idee prima di tornare a parlare in giapponese:- Abbiamo raccolto sufficienti prove nel mondo per incriminarlo, eppure non siamo mai riusciti ad incastrarlo davvero. Forse perché sono indizi troppo generici, superficiali. Sono cose di facciata. Ma se noi avessimo la possibilità di guardare dietro le quinte… di cercare nei lati più segreti e oscuri di Tokyo… cosa pensate che troveremmo?
-Puntare in basso e colpire in alto- commentò Fudou, quasi allegro.
La Spy Eleven della Corea, Chang Soo, si alzò in quel momento per intervenire.
-Credo che il signor Fudou non avrebbe potuto dirlo meglio. Propongo di dare una possibilità alla proposta del signor Kruger- disse, poi si girò verso Seijurou. –Signor Kira, Tokyo è la tua zona. Cosa suggerisci di fare?- chiese, diplomatico.
Seijurou rimase in silenzio per alcuni minuti, che parvero lunghissimi. Tutti erano fermi in attesa del suo verdetto. Infine, intrecciò le mani in grembo e le sue labbra si schiusero in un sorriso enigmatico. –Molto bene. La proposta dell’agente Kruger mi sembra sensata, e so già da dove far partire le indagini. Sarò io stesso a scegliere i membri della squadra che parteciperà a questa missione- annunciò. Nessuno trovò nulla da obiettare alle sue parole.
Edgar Valtinas si portò il microfono alle labbra.
-Quindi si rimanda l’organizzazione del piano fino a nuovo ordine?- domandò, mite. –Dopotutto, tutto ciò che sappiamo potrebbe cambiare da un momento all’altro.
-Cerchiamo ancora di far pressione su Big D per ottenere qualcosa e aspettiamo altre notizie utili- propose Kruger.
-Ci concentreremo su ciò che abbiamo. L’addestramento sarà fondamentale- esclamò Hitomiko.
-L’addestramento è la mia parte preferita- commentò Chang Soo con un sorrisetto, ed avrei potuto giurare di aver sentito Burn borbottare un “Lo sappiamo, purtroppo”, che nessuno commentò.
 
xxx
 
L’ospedale non era decisamente uno dei miei luoghi preferiti, specialmente visto che mi capitava di andarci solo in situazioni spiacevoli. Non che la notizia che Gazel avesse ripreso conoscenza e fosse fuori pericolo fosse qualcosa di brutto, anzi.
Eravamo venuti solo in due, io e Aphrodi; gli altri erano tutti impegnati nell’addestramento e persino Burn, che al solo sentire il nome di Gazel si agitava, aveva deciso di non muoversi. Insieme a IQ e Kidou, si era unito alla squadra di ricerca dati sui drifters controllati da Garshield: era l’unica persona ad aver accesso all’archivio informatico della nostra base (oltre a Gazel, ovviamente) e sospettavo che per lui la faccenda fosse diventata un conto personale. Voleva trovare quei bastardi, avrebbe sacrificato ogni goccia di energia per farlo e non poteva vedere Gazel finché non l’avesse fatto: probabilmente il suo orgoglio, misto al senso di colpa, non glielo permetteva.
Girando nervosamente i pollici, con gli occhi fissi sulle mie mani, ripensavo all’esito della riunione di quella mattina. Il piano era, per il momento, un argomento sospeso. Sciolsi l’intreccio delle dita e mi misi a tamburellare sulle ginocchia, scoccando occhiate sfuggevoli alla porta.
Aphrodi era entrato per primo, su espressa richiesta di Gazel, ed io ero rimasto seduto sulle panchine di plastica azzurra fuori alla stanza. Non ero mai stato al terzo piano, quello dedicato ai “pazienti con lesioni gravi non permanenti dovute ad aggressioni con armi a mano/da fuoco”, come recitava il cartello di marmo inchiodato al muro di fianco agli ascensori. Non era molto più popolato di altri reparti, per fortuna; a parte me, il corridoio era praticamente deserto.
Quando la porta si aprì con uno schiocco, sobbalzai e scattai in piedi.
Aphrodi fece capolino sull’uscio. -Te lo affido per un po’. Io… mmm, vado a prendere qualcosa ai distributori, okay? Torno tra poco- mi disse. Annuii, lui mi sorrise lievemente e mi diede una pacca sulla spalla prima di uscire ed incamminarsi nel corridoio. Lo guardai voltare l’angolo e sparire.
Prima di entrare, inspirai a fondo e mi preparai psicologicamente, ma quando vidi Gazel seduto nel letto mi resi conto che nessuna preparazione avrebbe mai potuto evitare l’impatto emotivo. Anche sforzandosi di tenere basso lo sguardo, era difficile non far caso alle bende che avvolgevano quasi completamente le sue braccia. Gazel stava giocherellando con un pacchetto di sigarette Marlboro che sembrava non essere mai stato aperto, nonostante l'aspetto vissuto. Il rumore della porta che si apriva e chiudeva attirò la sua attenzione; quando si voltò verso di me, le chiazze violacee, livide, sotto i suoi occhi mi sorpresero talmente tanto che qualsiasi parola di saluto potessi offrire mi si strozzò in gola.
-Non mi guardare come se fossi morto. Ci sono solo andato molto vicino- mi rimbeccò Gazel roteando gli occhi. Non risposi.
-Molto vicino- ripeté lui, a bassa voce, poi aggrottò le sopracciglia e si riscosse con un brivido. Per un momento le sue dita si strinsero sul pacco di Marlboro, quasi schiacciandolo, poi si aprirono lasciando cadere sul materasso.
-Aphrodi ci ha lasciati soli apposta, vero?- dissi, trovando finalmente la forza di parlare.
-Oh. Sì, già.- Gazel fece un gesto di noncuranza. –Non c’era bisogno. Non mi importava che ascoltasse. Sa praticamente già tutto di me- sussurrò l’ultima frase con un tono quasi sorpreso, come se quella costatazione lo sconcertasse.
-I lati brutti, i lati che non voglio mostrare a nessuno… lui li conosce. Fin dall’inizio sapeva meglio di me quanto fossi debole, anche se io mi ostinavo ad apparire forte a tutti i costi- Gazel sospirò.
-Non è la prima volta che vengo ferito, ma credevo... di poterlo sopportare. Pensavo di poter sopportare tutto, invece davanti all’idea di morire ero terrorizzato. Non ho avuto il tempo di pensare a niente e a nessuno. Pensavo solo: non voglio morire.- Tacque e le braccia gli ricaddero, inermi, lungo i fianchi.
Mi morsi il labbro, titubante: non l’avevo mai visto così fragile e spiare quella sua debolezza mi sembrava sbagliato, fuori luogo, quasi una violazione della privacy.
Il silenzio nella stanza era greve e pesante e si prolungò per lunghissimi istanti.
-Midorikawa, io l’ho visto.- Quando parlò di nuovo, la voce di Gazel era carica di emozioni. Aggrottai la fronte, confuso, ed aspettai che continuasse. Lui non mi guardava, teneva gli occhi bassi e fissi sulle proprie dita, che piegava e distendeva lentamente.
-Quello che c’era oltre il blocco… io l’ho visto- disse. –Intorno a me c’era un buio asfissiante, lo stesso dei miei sogni. Ho quasi creduto di essere morto, ma poi ho sentito una donna gridare. Chiunque fosse, io l’ho vista morire, qualcuno l'ha uccisa davanti ai miei occhi.- Si fermò, deglutì piano. Iniziò a strappare febbrilmente le foglie della pianta poggiata sul comodino di fianco al letto, a sbriciolarle tra le dita. La voce gli tremava.
–Ho tante di quelle domande in testa… Chi era quella persona, come ho fatto io a sopravvivere… Erano i miei ricordi, ma continuo a non sapere nulla. Ho passato tutta la mia vita a cercare di abbattere quello stupido  blocco e ora che finalmente l’ho fatto… penso che sarebbe stato meglio lasciarlo dov’era.
-Stai dicendo che dovrei lasciar stare anch’io?- lo interruppi, schietto.
Gazel scrollò le spalle, continuando a non guardarmi. I suoi occhi vagarono vacui sulle briciole di foglie che coprivano il letto all’altezza delle sue ginocchia; sbatté le palpebre per un paio di volte, poi si accigliò, quasi sorpreso di aver perso la calma.
-No, ti sto semplicemente avvisando. La mente umana non crea blocchi a caso. Anche il tuo ha sicuramente un ottimo motivo per stare dov’è- rispose infine, con un timbro sorprendentemente fermo. –Comunque, non è davvero una scelta. Potrebbe succederti o no, ricordare subito o più in là, oppure mai. Nel mio caso credo che lo shock fisico sia stato la causa scatenante.
Parlava lentamente, come se le parole fossero un carico pesante. Forse per lui lo erano. Per un attimo parve esitare.
-Gazel? C’è qualcos’altro che vuoi dirmi?- lo incoraggiai.
-Voglio continuare ad aiutarti, se me lo permetterai- bisbigliò, gentile. –Non posso assicurarti che scavare nei tuoi sogni ti aiuti davvero ed è probabile che io abbia sbagliato tutto, ma su una cosa avevo ragione… I tuoi poteri, i tuoi ricordi… è tutto collegato.- Si fermò e mi guardò, serio.
-Questa decisione spetta soltanto a te, Midorikawa. Non è una cosa da poco… devi rifletterci bene. Ma ti posso assicurare che, se riuscirai a ricordare, diventerai più forte... Ne sono certo.
Prima che potessi chiedergli cosa intendesse, Gazel sollevò il braccio sinistro e lo allungò verso il vaso: probabilmente aveva pensato che fosse più semplice mostrarmi la risposta ed infatti ciò che vidi mi convinse a credergli, oltre a lasciarmi ammutolito per la sorpresa.
Partendo dal punto in cui Gazel l’aveva toccato, delicatamente, con i polpastrelli, sul vaso si era creata una leggerissima patina di ghiaccio, che in pochi secondi iniziò a diramarsi lungo tutta la superficie del comodino e poi anche sulla pianta stessa, finché l’intero busto e tutte le foglie non furono coperte da un velo di nevischio lucente.
Osservando quella scena meravigliosa, capii che Gazel non si sentiva affatto felice, né completo, eppure aveva fatto più di un semplice passo avanti: oltre ai suoi ricordi, aveva ritrovato il suo potere, il più puro e il più vero.
-Se riesco a ricordare, diventerò più forte... Vuoi dire che risveglierò il mio vero potere? Il mio dono può fare più di così?- chiesi. 
–Esattamente... Ma non esultare troppo presto. Te l’ho detto, i tuoi ricordi potrebbero non piacerti. E potrebbe non piacerti il tuo potere- mormorò Gazel. Trasalì e schioccò la lingua contro il palato, irritato contro i brutti pensieri che erano venuti ad infastidirlo. -Più che “doni”, come li chiamano, a volte sembrano delle maledizioni- aggiunse, cupo. Le sue parole mi colsero di sorpresa.
Anche Burn aveva detto qualcosa di simile ed era già abbastanza strano che Burn e Gazel concordassero su qualcosa senza aggiungerci il fatto che avessero usato quasi gli stessi termini.
-Stai parlando di Hiroto, vero?- La domanda lasciò la mia bocca prima che di arrivare al cervello, non riuscii a trattenermi. Gazel si girò e studiò la mia espressione allarmata con serietà.
-Beh, non solo… ma vale anche per Hiroto, certo- mi rispose, cauto.
Lo sapevo, pensai. Mi morsi l’interno della guancia.
-Gazel, tu sai di cosa si tratta, vero?
Il silenzio che seguì la domanda fu più eloquente di qualsiasi risposta; sospettavo che tutti quelli che venivano dallo stesso centro di addestramento di Hiroto conoscessero bene la sua situazione. Non avevo il coraggio di chiedere direttamente a Hiroto, e non sapevo quando Aphrodi sarebbe rientrato, quindi presi in fretta una decisione e mi chinai verso Gazel.
-Gazel, ti prego... Burn ha detto che lo chiamavano... tocco mortale- dissi in un soffio, bisbigliando. -Ma perché? Cosa significa?
Ero impaziente di conoscere la verità. Il mio compagno si passò una mano sugli occhi e poi sui capelli e fece un pesante sospiro. Sollevò un dito e me lo poggiò sulla tempia. Rimasi sorpreso, però non mi mossi.
-D’accordo… se lo desideri tanto, ti dirò ciò che so, che comunque non è molto- disse. –È una cosa che parte da qui, dal sistema nervoso e poi si diffonde al resto del corpo… Il potere di Hiroto agisce sul sistema neuronale. Può decidere di bloccarti un arto, se vuole, o tutti gli arti. È come un’anestesia. Può inibire le sensazioni fisiche, o farti addormentare, e so che si allena anche per imparare ad inibire i poteri altrui.
-È…- Terribile, ma affascinante. Lo pensai intensamente, ma non riuscii a dirlo. Gazel sembrò capire ugualmente e annuì col capo, staccò il dito dal mio viso e fece scivolare la mano sulla mia spalla.
-Capisci, adesso?- sussurrò. –Il suo potere può metterti fuori uso il braccio…- le sue dita scesero verso il mio gomito, facendomi lievemente il solletico, poi si spostarono sul lato sinistro del mio petto -…oppure il cuore. Dal punto di vista pratico, non fa differenza. Un’anestesia totale… e la morte. Dopotutto il passo è breve, no?- Gazel allontanò la mano e mi guardò, aggrottando la fronte.
-Hai paura?- chiese. Il mio primo impulso fu di negare.
Sapevo però che la mia espressione parlava al posto mio e che anche Gazel, così bravo ad osservare gli altri, conosceva già la verità. Avevo paura di Hiroto e del suo potere, ma avrei voluto con tutto me stesso che non fosse così. Quello che volevo davvero era proteggerlo, anche se ero spaventato, perciò decisi di percorrere l’unica strada possibile: avrei combattuto per lui.
–Non mi allontanerò da lui. Io… sono sicuro che Hiroto ha paura quanto noi, no, anche più di noi. Se ha bisogno di me, io non lo lascerò solo, mai- dichiarai, tremante ma determinato.
Gazel mi fissò ancora per alcuni secondi, poi abbozzò un sorriso.
-Se dipendesse da lui, non lo userebbe mai… Ma suo padre vuole che lui si alleni e Hiroto non vuole deluderlo... O forse ha altre ragioni, ma, in ogni caso, sono certo che per lui quel potere sia solo un peso. Non farebbe mai del male a qualcuno volontariamente- disse. Mi sentii sollevato e rincuorato dal fatto che anche Gazel avesse molta fiducia in Hiroto.
Poi il ragazzo strinse le braccia al petto come se avesse improvvisamente freddo e si stese sul letto, poggiando la testa sul cuscino; pensai che fosse stanco e mi girai per uscire.
-Grazie di tutto- dissi, prima di aprire la porta. –E mi dispiace... davvero.
Gazel scosse il capo e chiuse gli occhi con un sospiro.
–Io… un tempo pensavo che avere un potere rendesse speciali, ma è possibile essere speciali per qualcuno anche senza averne. Sono felice che qualcuno me l’abbia insegnato- mormorò. Ebbi la sensazione che parlasse più a se stesso che non a me.
Non appena uscii dalla stanza, mi trovai Aphrodi davanti: aveva le mani piene di vasetti di yogurt e merendine al cioccolato. Mi sorrise e lanciò uno sguardo verso la stanza.
-Si può?- chiese, a bassa voce. Annuii, chiedendomi da quanto fosse fermo lì ad aspettare, ma prima di potergli dire qualcosa lui si era già infilato nella stanza. Probabilmente sarebbe rimasto lì ancora a lungo. La porta si chiuse alle sue spalle lasciandomi solo nel corridoio.
 
xxx
 
Dopo la conversazione, avevo una voglia insopprimibile di vedere Hiroto, ma quando rientrai in sede non fui capace di trovarlo da nessuna parte.
Mentre attraversavo il corridoio al piano terra, notai che la porta dell’ufficio di Gazel era chiusa e da dentro venivano delle voci. Burn e gli altri stavano lavorando. Anche io volevo rendermi utile alla causa, solo che non avevo idea di cosa potessi fare; probabilmente l’unica cosa su cui potevo veramente lavorare era il mio potere. L’addestramento sarà fondamentale, aveva detto Hitomiko. Questo era ciò che dovevo fare: allenarmi, diventare più forte.
Così che nessuno rimarrà più ferito a causa mia.
Strinsi i pugni lungo i fianchi, ma la tensione che mi aggrovigliava lo stomaco si sciolse subito quando sollevai il viso verso le scale e vidi Kazemaru, seduto su uno dei primi gradini. Si stava torturando nervosamente i bottoni della giacca. Mi avvicinai e lui si illuminò notandomi; si alzò in piedi e mi rivolse un sorriso abbozzato.
-Che mi sono perso?- chiesi, sperando che non fosse nulla di importante. Kazemaru mi posò una mano sulla spalla e mi guardò con apprensione.
-Non ti sei perso nulla- disse, piano –ma Hitomiko ci vuole vedere nel suo ufficio per una missione.
-Oh.- Per quanto stupido, non mi uscì nessun altro commento. Mi sembrava che fosse passata un’eternità di tempo dall’ultima volta che avevamo avuto una missione tra le mani. Frugai nella mia testa e mi stupì rendermi conto che l’ultima volta era stata in Hokkaido, con Diam, e si trattava proprio della missione che aveva condotto alla cattura di Big D. Poi, tornato a casa, c’era stato il caso di Kageyama e Fudou, ma lì avevo agito perlopiù di testa mia; avevo litigato con Kazemaru; infine, con gli ultimi avvenimenti, c’era stata più confusione nell’agency che non nel resto della città.
–Andiamo, dai- esclamò Kazemaru, dandomi un’energica spintarella che mi fece barcollare. Gli rivolsi un broncio, ma ero felice che mi avesse distolto dai miei pensieri.
Fuori aveva appena cominciato a piovigginare.
 
Non eravamo i soli ad essere stati convocati.
Appena entrati, vidi Gouenji e Endou seduti su un divanetto scuro in un angolo e Kazemaru li raggiunse subito. Giusto un metro più in là, appoggiato al muro con le gambe incrociate e le braccia dietro la schiena, c’era Fubuki Shirou, ma il mio sguardo si posò incredulo sull’altro ragazzo incredibilmente simile a lui: Fubuki Atsuya si era ripreso dalla convalescenza e sembrava più in forma che mai mentre bisbigliava sottovoce con il fratello, gettando di tanto in tanto occhiate seccate verso Gouenji, che lo ignorava educatamente.
-Agenti Midorikawa e Kazemaru- Hitomiko ci rivolse un cenno. Era seduta dietro alla propria scrivania e non potei fare a meno di fissare il pannello di vetro infranto alle sue spalle, là dove la leva dell’allarme che avevo innescato pochi giorni prima non era stata ancora rimessa a posto.
-So che avete avuto modo di ascoltare la nostra riunione di stamattina- esordì. La guardai nervosamente, ma se era arrabbiata o infastidita da quel particolare, non lo diede a vedere e continuò a parlare tranquillamente:- Ci è stato chiesto di formare una squadra che cerchi informazioni segrete su Garshield Bayhan. Mio padre si è personalmente preso l’incarico di scegliere i membri della squadra ed è su suo ordine che vi ho riuniti tutti qui, ad eccezione di Afuro Terumi, che si unirà a voi più tardi. Voi siete i membri scelti per questa missione.
Spostò lo sguardo verso i due Fubuki e intrecciò le mani in grembo.
-Questi due ragazzi ci saranno molto utili. Conoscono bene la città, anche le zone più basse, e sanno dove cercare informatori- disse. –In cambio del loro aiuto, ci impegniamo ad offrire loro protezione e cure mediche e, chissà, magari ridurremo anche i vostri anni di pena, in seguito.
-Ah, che dolce, grazie- commentò Fubuki Shirou, sarcastico. Anche se all’apparenza appariva tranquillo come sempre, nei suoi occhi brillava una scintilla agitata, di irrequietezza. Al suo fianco, il fratello alzò gli occhi al cielo e sbuffò; probabilmente quell’affare non gli piaceva, ma al contempo era consapevole della sua situazione: aveva avuto salva la vita solo grazie all’intervento tempestivo della polizia. Mi resi improvvisamente conto che, per quanto il pensiero di essere sotto il nostro controllo li infastidisse, i due gemelli nutrivano molto più odio e rancore verso le persone che li avevano quasi uccisi: al momento, era quella la loro priorità. Avevamo nemici in comune e la protezione dell’Agency faceva loro comodo.
-Cominciate stasera stessa. Spero che siate pronti, perché non avete altra scelta- concluse Hitomiko. E aveva ragione: non ne avevamo affatto.
 



**Angolo dell'Autrice**
Buonasera! Con questo capitolo ho avuto modo di introdurre vari personaggi, vecchi e nuovi.
Non temete, delle nostre Spy Eleven si parlerà ancora più avanti, perché ci sarnno altre riunioni... Spero di riuscire a far parlare di più tutti quanti (mi ha fatto piacere dare la parola a Mark in questo capitolo e vorrei farlo interagire di più con Dylan se possibile XD). Tutte le Spy Eleven sono di età superiore ai 19 anni, comunque, perché è quella l'età minima perché un agente possa diventare Spy Eleven, anche se poi tutto dipende da una questione di merito/talento personale. Corrisponde, diciamo, al limite di "maggiore età": in Giappone si diventa maggiorenni a 21 anni, ma in Europa e in America generalmente a 18, per cui ho scelto una via di mezzo :')

È stato bello far riapparire Gazel... Mancava da solo un capitolo, ma sentivo fortemente la sua assenza ;u; In questa fic è un personaggio che è diventato "saggio" attraverso un percorso di lunga sofferenza; di fatto, ha già scelto la propria strada. I dettagli riguardanti il suo rapporto con Afuro, Burn e Hiroto sono approfonditi nello spin-off, grazie al quale si spiegano varie cose che in Spy Eleven sono appena accennate. Lo trovate qui!
Beh che altro dire? L'avevo detto che i Fubuki sarebbero tornati utili. Ora li vedremo un po' in azione, e per una volta sono dalla parte dei buoni ♥
Alla prossima e baci,
                          Roby

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Capitolo 37
*** Mission 37. ~Hiroto's Arc. ***


Grazie mille a mio cugino Raffaele (su efp RaffyRen97), che mi ha gentilmente betato il capitolo ♥


Le strade di Kabukicho erano avvolte da mille luci colorate, che provenivano dalle insegne e dai faretti dei locali che sbucavano da ogni angolo; dalla via principale si aprivano numerosi vicoli e vicoletti, così stretti e così bui che veniva spontaneo chiedersi cosa si celasse lì dentro, nascosto tra le mura scrostate di giorno, ma pronto a balzarti addosso una volta scesa la sera… Non era difficile immaginare perché quel quartiere avesse la brutta reputazione di essere pericoloso durante la notte.
Un’immensa folla brulicava dentro e fuori dai locali e il gran vociare di sottofondo, nel quale si mescolavano le voci profonde degli uomini che ti invitano (costringevano) ad entrare nei loro locali, e quelle stridule di donne vestite (svestite) in tal modo che sembrava non aspettassero altro di essere sedotte e portate via.
Il locale Dansā kasai si trovava in un vicolo, alla fine di una scalinata che scendeva per almeno un paio metri. La porta era di vetro, con elaborate spirali di ferro ad incorniciarla, e dall’alto pendeva un’insegna nera, lucida, su cui spiccavano i kanji rosso fuoco del nome del locale. I due Fubuki si scambiarono un’occhiata d’intesa, poi Shirou si avvicinò al buttafuori che stava in piedi davanti alla porta; gli bisbigliò qualcosa all’orecchio e per un attimo –ne ero certo- le sue mani vagarono in direzione della giacca dell’altro. Quando si ritrasse, capii che gli aveva passato dei soldi.
Il buttafuori ci squadrò attentamente, fece un cenno col capo e si spostò per lasciarci passare.
All’interno, il Dansā kasai era più appariscente di quanto non lo fosse fuori.
Davanti a noi si presentò subito un lungo, tortuoso bancone di madreperla rosea, dietro il quale un solo barman armeggiava con bottiglie di liquori, superalcolici, pacchetti di sigari e sigarette, bicchieri di vetro e calici di legno. Di fronte al bar, ad appena sei metri dal bancone, c’era un palco rialzato, che si prendeva metà dello spazio complessivo. Il soffitto era tappezzato di faretti, e la luce bianca, quasi diamantina, che emettevano faceva brillare i pavimenti di madreperla nera. Le pareti erano rivestite di un doppio strato di pelle e velluto rosso scuro, così come le molteplici poltroncine disposte lungo i muri; un angolo in fondo alla sala principale era stato allestito come una specie di salottino, con due divanetti e un tavolino basso, sopra il quale una pianta dalle foglie lunghe e seghettate sbucava da un vaso. Dietro il salottino, s’intravedeva una rampa di scale, che doveva portare a stanze private. Ovunque ci voltassimo, c’era un fortissimo odore di fumo, erbe e profumi.
Una musica tutt’altro che tranquilla rimbombava sulle mura di pelle; era un rumoroso miscuglio di strumenti e remix che mi faceva venir voglia di amputarmi le orecchie, ma agli altri clienti del locale non pareva dar fastidio. Qualcuno batteva le dita a ritmo contro i braccioli delle poltrone, mentre con l’altro braccio stringevano a sé delle belle signorine, qualcun altro era talmente preso dal proprio drink da non essere più capace di intendere e di volere.
Nessuno si girò a guardarci. Mi misi a giocherellare nervosamente col mio gilet di pelliccia scura, per il quale speravo non fossero stati inutilmente sacrificati dei procioni. Al mio fianco, sentii Kazemaru tirare un sospiro di sollievo; il solito ciuffo gli pendeva disordinatamente sul volto e i capelli sciolti gli cadevano sulle spalle e sul gilet dorato. Su suggerimento esplicito dei Fubuki, Maki si era divertita a confezionare i nostri abiti con tessuti luminosi, quasi laminati, pellicce, strass e pallette: siccome nei locali della zona era comune vestirsi in modo eccentrico, era fondamentale che lo fossimo anche noi per mescolarci alla gente. Questo non mi consolava dal pensiero di somigliare ad un lampadario.
Shirou si girò verso Atsuya e gli disse qualcosa all’orecchio, il fratello annuì e a sua volta si rivolse ad Afuro. Non riuscii a sentire cosa si erano detti, ma pochi secondi dopo Afuro annuì e si diresse insieme ad Atsuya verso l’angolo-salotto. Shirou, invece, si sedette su uno degli alti sgabelli neri davanti al bancone e ci fece cenno di avvicinarci e imitarlo. Gouenji si mise alla sua sinistra, in modo da poter tenere d’occhio anche la porta d’ingresso, mentre io mi sistemai a destra insieme a Kazemaru e Endou.
Il barman ci lanciò un’occhiata burbera, senza mostrare intenzione di venire a chiedere ordini. Shirou non parve impressionato dal suo atteggiamento. Puntellò i gomiti sulla superficie rosea del banco, dondolò i piedi attorno alle lunghe gambe metalliche dello sgabello e si mise a fissare lo specchio davanti a sé con aria quasi pensierosa.
-Ora cosa facciamo?- chiesi a bassa voce, gettando un’occhiata nervosa intorno. Il barman ci dava le spalle, apparentemente deciso a ignorare la nostra presenza.
-Aspettiamo- rispose Shirou con semplicità.
-Tutto qui?- disse Endou, perplesso.
-Già, tutto qui. Non possiamo certo metterci a far domande qui- rispose Shirou. –Quindi aspettiamo, ci guardiamo intorno, prendiamo da bere… Ci rilassiamo. E vediamo cosa succede.
-Sei sicuro che succederà qualcosa?- insistette Endou.
-Qualcosa succederà, vedrai- affermò l’altro, tranquillo.
-C’è qualcuno che conosci?- provò a indovinare Gouenji, impassibile. Shirou non si mosse dalla sua posizione, eccetto per il sorriso misterioso che gli incurvò le labbra. Continuava a fissare davanti a sé e non aveva fatto alcun cenno al barman, eppure pochi secondi dopo un bicchiere di vetro scivolò verso di lui.
-Ah, oggi è un midori- canticchiò Shirou tra sé e sé, fissando con compiacimento il liquido verde e frizzante nel bicchiere. Si sporse oltre il bancone e rubò una cannuccia di plastica rigida. Il barman non commentò e tornò ad ignorarci, preferendo servire un tipo che, all’altro capo del bancone, si reggeva a stento in piedi.
-Uhm, non credo che dovremmo prendere dei drink- bisbigliò Kazemaru. –Non possiamo bere alcol, siamo ancora minorenni!
Shirou gli lanciò di sottecchi uno sguardo di compassione, come se stesse parlando ad un bambino.
-Ti sei guardato intorno? Qui nessuno controllerà se sei minorenne o meno- disse. -E poi voi non usate forse delle pistole, anche se siete minorenni? Per quello non vi fate problemi, no?
-Sì, sì, hai ragione, però...- Kazemaru non sapeva come rispondere, percò Gouenji decise di intervenire. Sospirando, si sporse verso Fubuki Shirou; con una mano bloccò la sua, poi con l’altra allontanò il bicchiere da lui.
-In ogni caso, non dovremmo bere durante una missione- affermò, risoluto.
Per un attimo le labbra di Shirou si arricciarono in un broncio insoddisfatto.
–Ricevuto, detective- mormorò, abbassando lo sguardo verso il bancone e rimirando con interesse la mano che stringeva la sua. Non pareva avere la minima intenzione di provare a liberarsi, non più di quanto Gouenji volesse sciogliere la stretta.
Di colpo, Shirou sollevò lo sguardo e fece un sorriso stiracchiato.
-Forse dovresti preoccuparti del tuo collega- disse –visto che è quella è già la terza persona che prova a offrirgli da bere…- Seguimmo il suo sguardo verso l’angolo del locale allestito a salottino e vedemmo Afuro seduto su un divano, immerso in una conversazione con uno sconosciuto: l’uomo doveva avere almeno cinque o sei anni più di lui, ma Afuro non sembrava turbato, anzi aveva un’espressione di completa indifferenza. 
Era incredibile; benché tutti fossimo vestiti in modo appariscente, Afuro riusciva comunque a risaltare in modo particolare. Indossava una maglia viola con scollo a v, e sopra un gilet nero con tante pallette che luccicava sotto i faretti circolari appesi al soffitto. I pantaloni, dello stesso colore dei suoi occhi, erano così aderenti che, quando accavallava le gambe, il tessuto si stringeva ancora di più attorno alle sue gambe, fasciandole in modo decisamente seducente. I capelli erano sciolti sulle spalle, come una cascata di fili dorati e, una volta che s’incrociavano i suoi occhi, era impossibile distogliere lo sguardo.
Non mi meravigliava che avesse stuoli di ammiratori, sarebbe stato più scioccante il contrario.
-No, mi spiace- lo sentii dire, con un sorriso falsamente timido. –Sono già impegnato con quel tipo là, quindi…- Si sporse verso l’altro lato del divanetto e cinse con nonchalance la vita di Atsuya.
Mi chiesi come avessi fatto a non notarlo prima. Il ragazzo era seduto a pochi centimetri da Afuro e sotto la luce dei faretti il rosa dei suoi capelli risultava ancora più brillante. Sembrava molto meno disinvolto di Afuro, ma dopo un paio di secondi di esitazione avvolse il braccio destro intorno alle spalle del biondo e lo attirò vicino a sé. Gettò al contempo un’occhiata torva allo sconosciuto, che recepì il messaggio e si allontanò con un’espressione delusa.
-Non ricordavo che uscissimo insieme, potevi anche avvisarmi- disse Atsuya, ritraendo il braccio. Il suo viso era leggermente arrossato.
-Beh, ho già spedito due tizi al bagno, sarà super affollato- replicò Afuro, mentre lasciava a sua volta la presa. –E poi sei l’unico single nel nostro gruppo, o sbaglio? Sinceramente tuo fratello è molto più il mio tipo, ma pare che sia già impegnato con Gouenji…
-Mio fratello non è impegnato con nessuno- ringhiò Atsuya tra i denti, stringendo i pugni sulle gambe e lanciando occhiate di fuoco in direzione di Gouenji e Shirou.
Gouenji sospirò e lasciò la mano di Shirou, che scoppiò in una risata allegra.
Con la coda dell’occhio, vidi il barman uscire dal bancone e infilarsi su per le scale dietro l’angolo-salotto. Nello stesso momento, i faretti nella sala cominciarono ad emanare una luce più soffusa, di color rosso chiaro, la musica scese di volume fino a dissolversi e dal palco si sollevò una nuvola di fumo, che si tinse di magenta a causa delle luci.
Atsuya si alzò dal divano. Shirou riprese a guardare nello specchio, apparentemente impassibile, mentre mescolava il midori nel suo bicchiere.
La musica ripartì, stavolta con una melodia lievemente africaneggiante, che mi faceva pensare a deserti, miraggi e obelischi. Dal fumo emerse una figura, e ruotai lo sgabello e strinsi gli occhi per focalizzarla meglio. Dapprima vidi un braccio avvolto in bracciali dorati, poi un busto sinuoso; la donna fece un passo di danza in avanti, seguito da una giravolta, un vortice di veli e pelle abbronzata e capelli mossi di una sfumatura verdognola. Il vestito fatto di veli opachi le copriva il seno e la parte inferiore al bacino, mostrando le sue forme e al contempo celandole, lasciandole all’immaginazione. Un’altra giravolta, poi una danza sinuosa, ancheggiante, seducente.
-Affascinante, vero?- commentò Shirou, che stava osservando lo spettacolo attraverso lo specchio. Distolsi lo sguardo dalla danzatrice, imbarazzato, e gettai un’occhiata all’atro capo della sala. Anche Afuro aveva lo sguardo fisso sul palco, mentre Atsuya spostava continuamente gli occhi da quello all’imbocco delle scale, come se aspettasse qualcosa.
O qualcuno.
Il tempo di distogliere lo sguardo e poi tornare a guardare, ed una ragazza vestita da cameriera comparve in quel punto esatto. Si guardò indietro per un attimo, poi cominciò a camminare verso il bancone con aria disinvolta. Il rumore dei suoi tacchi sul pavimento era appena percettibile a causa della musica, ma si faceva più intenso man mano che si avvicinava.
La ragazza entrò dietro al bancone, prendendo il posto del barman scomparso, riempì un bicchiere di birra dorata e lo passò all’uomo che, da che si reggeva in piedi a stento, era passato direttamente ad aggrapparsi al bancone per evitare di ruzzolare giù dallo sgabello. Lei gli schioccò le dita davanti al volto un paio di volte, poi, siccome l’altro era troppo brillo per capire cosa succedesse intorno a lui, ci rinunciò e venne verso di noi.
Si fermò davanti a Shirou e fissò il suo drink.
-Oh, ha l’aria di essersi fatto caldo, vero?- osservò, alzando lo sguardo verso di lui. –Le va se le metto un paio di cubetti di ghiaccio?- Fece un sorriso amabile e tese la mano, in un’implicita offerta a passarle il bicchiere.
Pochi metri più in là, il tipo fece un rutto, scivolò dallo sgabello e cadde lungo disteso a terra. Il tonfo si sentì a malapena, e nessuno parve farci caso. Né Shirou né la ragazza ruppero il contatto visivo per un lungo minuto, poi il ragazzo lasciò la cannuccia e ticchettò con le dita sul bordo del bicchiere.
-Oh, no, la ringrazio- disse, senza abbassare lo sguardo, come se non si fosse accorto che dalla punta delle sue dita si irradiava un gelo tale da trasformare il drink in un ghiacciolo. Shirou si sciolse in un sorriso e inclinò leggermente il capo. –Mi piacerebbe sapere cosa ha messo nella birra di quell’uomo… Ha fatto effetto subito, hm?- aggiunse in tono falsamente innocente.
Tutti, eccetto lui e la ragazza, ci girammo istintivamente a guardare il pover’uomo steso a terra.
-Non è successo nulla di ché- replicò la ragazza. -Si riprenderà tra mezzora. O forse un’ora.
-O forse due- suggerì Shirou. Il suo bicchiere tremava, minacciando di spaccarsi per la pressione. La ragazza gli afferrò la mano con la propria e il drink tornò in un istante alla sua forma liquida.
-Forse dovremmo spostare questa chiacchierata in privato- offrì lei, con un luccichio negli occhi color zaffiro. Indossava un grembiule di raso, e i suoi capelli apparivano rossi alla luce della stanza.
Shirou si alzò in piedi, portò la mano di lei alla bocca e ne baciò delicatamente il dorso con un gesto lento e misurato; i suoi occhi erano fissi sul volto della ragazza, attento ad ogni minima reazione, e si accesero soddisfatti quando notarono il rossore che si era diffuso sulle sue guance.
-Saresti davvero disposta a stare alla mia mercé l’intera serata? Sono una persona gelosa, sai- le sussurrò, sporgendosi oltre il bancone per sfiorarle il lobo dell’orecchio con le labbra. La ragazza avvampò ancora di più e tentò istintivamente di ritrarre la mano, forse perché si era accorta di essere in svantaggio.
-Oh, cosa vedo qua?- Una voce di donna interruppe il loro scambio, all’improvviso una mano si piantò sulla spalla di Shirou per attirare la sua attenzione. Mi girai e vidi che si trattava della danzatrice che fino a poco prima era sul palco.
-Stai tentando di sedurre mia sorella, Fubuki Shirou?- domandò, con una scintilla di avvertimento negli occhi che strideva con il tono amabile della sua voce.
-Non mi sognerei mai, Bonitona- rispose Shirou allegro. Si voltò verso di lei con un largo sorriso, come se nulla fosse accaduto. –Come hai potuto pensarlo?
Bonitona incrociò le braccia sotto il prosperoso seno e sollevò un sopracciglio.
-La tua fama ti precede… non sarebbe la prima volta che usi il tuo fascino per ottenere informazioni, o sbaglio?
-Ah, mi trovi affascinante? Ti ringrazio- ribatté Shirou, tranquillo. Bonitona lo osservò ancora un po’, poi sospirò e si rivolse alla ragazza dietro al bancone.
-Questo non è il posto più adatto per parlare… Rean, prepara una delle stanze al piano di sopra.
Rean annuì frettolosamente e scattò verso le scale da cui era venuta; incredibile come riuscisse a correre nonostante i tacchi… Mi girai verso Kazemaru e dal suo sguardo capii che stava pensando alla stessa cosa: la nostra unica esperienza con quel tipo di calzature era stata dir poco dolorosa.
Quando notai che Bonitona ci stava fissando, mi sforzai di restare impassibile.
–Questi sono tuoi amici? Non li ho mai visti prima- disse la donna guardandoci di sottecchi.
-Amici, eh… direi piuttosto che è un rapporto necessario- mormorò Shirou. Non potei fare a meno di notare come il suo sguardo tendesse a vagare verso Gouenji, che tuttavia lo ignorò: sebbene fosse abbastanza bravo a nascondere i suoi veri sentimenti, aveva l’aria di essere lievemente irritato.
Shirou si voltò di nuovo verso Bonitona.
-Ma ne parliamo su, giusto?- cinguettò, soave.
La donna non rispose. Invece si girò, si chinò verso l’uomo svenuto a terra e, dopo avergli sfilato un mazzetto di banconote dalla giacca, lo scavalcò con grazia, incamminandosi verso le scale. Lanciai uno sguardo a Shirou, che annuì: dovevamo seguirla.
Quando arrivammo all’imbocco delle scale, Atsuya e Afuro ci raggiunsero.
Bonitona guardò l’altro Fubuki e fece un sorrisetto.
-Mi chiedevo quando saresti comparso. Voi gemelli non vi separate proprio mai, eh?- commentò.
A quelle parole, Shirou distolse lo sguardo per nascondere un’espressione cupa; non era difficile capire a cosa stesse pensando. Atsuya si portò immediatamente al suo fianco e gli prese la mano.
-Mai- confermò, più rivolto al fratello che non a Bonitona.
Shirou diede una stretta alle sue dita.
 

Nella stanza troneggiava un letto a due piazze così voluminoso da lasciar ben poca immaginazione riguardo al modo in cui veniva usato. Io evitai di fissare troppo i cuscini col pizzo; Endou e Kazemaru si guardarono d’istinto, e subito dopo distolsero lo sguardo col viso in fiamme. Tutti gli altri non parvero impressionati.
La stanza era illuminata da molteplici candele profumate, con una luce chiara e senza sfumature di colori, che finalmente ci permetteva di vedere le due ragazze per come erano.
Bonitona si sedette, sollevò un angolo delle lenzuola di raso, frugò sotto il letto e trovò una borsetta di velluto rosso. Frugandovi dentro vi trovò un paio di occhiali, che calzò con nonchalance prima di girarsi verso di noi. I suoi occhi violetti, contornati da un filo di matita e mascara argenteo, luccicarono interessati dietro le lenti.
-Allora… come mai siete qui?- domandò ai due Fubuki. -Siete scomparsi per un bel po’… Ho sentito varie cose, non ero sicura a che cosa credere.
-Beh… illuminaci- borbottò Atsuya, alzando gli occhi al soffitto. Bonitona guardò Rean.
-Uno: beccati dalla polizia. Due: uccisi da un gruppo rivale in un vicolo. Tre: finiti in una relazione incestuosa e fuggiti in un altro paese con un altro nome. Quattro: cambiata vita e trovato un sano, onesto lavoro. Cinque: rapiti dagli alieni…- elencò Rean. La ragazza (i cui capelli erano arancioni, non rossi) si era tolta il grembiule e ora indossava un semplice body nero e una gonna con sbuffo a palloncino; stava in piedi vicino all’altro lato del letto e stava piegando un fazzoletto di carta rossa, facendogli acquistare la forma di un origami, forse un modo di placare il suo nervosismo.
-La terza è la mia preferita- osservò Bonitona, sorridendo con le sue labbra rosso ciliegia e  attorcigliandosi una ciocca di capelli turchesi tra le dita.
-Noto con piacere che c’è gente con parecchio tempo libero- disse Atsuya.
-E poca fantasia- aggiunse Shirou, con un sorriso ironico.
–Oh, dai. Dagli un po’ di credito, con le prime due non ci sono andati lontano…
-La seconda è piuttosto di cattivo gusto, secondo me… Scommetto che un po’ ci speravano.
-La quarta è pura fantascienza. Anche peggio della quinta…
Il loro scambio di battute era talmente rapido che non facevamo in tempo a spostare lo sguardo dall’altro. Bonitona e Rean spalancarono gli occhi per la sorpresa non appena Atsuya finì di parlare.
-Beccati dalla polizia? E… mi sembrate abbastanza vivi- esclamò Bonitona, perplessa.
Atsuya fece un sorriso amaro.
-Per un pelo, direi- mormorò, con la mano si toccò istintivamente lo stomaco. Shirou sospirò e si appoggiò ad uno dei muri, con le braccia incrociate sul petto.
-Siamo stati attaccati da un gruppo di drifters sconosciuti… Sia io che Atsuya ne siamo usciti feriti in modo… grave- ammise, fece una pausa, poi aggiunse:- E la polizia ci ha arrestati. Al momento siamo in… libertà vigilata, direi.
-Non mi dire- commentò Bonitona, posò gli occhi su me e Gouenji e in un istante aveva capito tutto. –Quindi, state collaborando con gli sbirri per trovare i farabutti che vi hanno attaccato, dico bene? Volete pareggiare i conti?
Shirou e Atsuya annuirono allo stesso momento.
Bonitona accavallò le gambe, tirò fuori un pacco di Marlboro dalla borsetta e se l’accese su una delle candele. Se la portò alla bocca e fece un paio di tiri prima di parlare di nuovo.
-Perché siete venuti da me?- chiese, scrutandoli attraverso gli occhiali.
Nessuno di noi parlò per un lungo minuto. Gouenji si girò verso Shirou, che sospirò e si staccò dal muro con una spinta.
-Hai girato molte zone della città. Non conosco nessuno più informato di te… Inoltre, come ti ho detto, le persone che ci hanno aggredito sono drifters come noi. Devi pur saperne qualcosa- disse.
-Mah, non saprei. Ti aspetti così tanto da me… In fondo sono solo una danzatrice…
Shirou sbatté lentamente le palpebre, poi senza una parola sollevò una mano e la direzionò verso di lei: una scia di luce azzurra percorse la stanza, si aggrappò alla ringhiera del letto e coprì l’intera superficie ricoprendola di ghiaccio, fermandosi a pochi centimetri da Rean, la quale sobbalzò per la sorpresa. Bonitona non mosse un muscolo; continuò a guardare Shirou, indecifrabile.
-Non una qualunque- affermò il ragazzo, tranquillo. Abbassò il braccio e si mise la mano sul fianco, chinando la testa di lato. –Sei una danzatrice del fuoco. Dansā kasai, giusto?
Le labbra di Bonitona s’incurvarono in un sorriso.
-Non devo più nasconderlo, quindi- sussurrò, si portò una mano alle labbra e vi soffiò delicatamente: il fiato che trapassava attraverso le dita si trasformò in fiamme dorate. La temperatura nella camera si alzò istantaneamente e il ghiaccio creato da Shirou si sciolse. La ringhiera cominciò a sgocciolare acqua sul pavimento, inzuppando la moquette, che si colorò di un rosso più scuro.
-Nessuno se n’era accorto, prima di te. Immagino che sia diverso tra gente della stessa specie… Io, per esempio, riesco a sentire che molte persone presenti in questa stanza hanno un dono- disse.
La guardai sorpreso: era davvero possibile una cosa del genere? Mi girai ad osservare le persone nella stanza; se non l’avessi saputo già, istintivamente non avrei detto che possedevano qualche potere. Dal nervosismo di Rean, intuii che anche lei nascondeva qualcosa, ma non potevo dire con certezza che si trattasse di un dono. Forse quella di Bonitona era una capacità innata?
Mi voltai verso Kazemaru ed Endou e capii dalle loro espressioni che erano sorpresi quanto me. Gouenji, Atsuya, Afuro e Shirou, invece, erano impassibili.
Gli occhi di Bonitona vagarono nella stanza, si soffermarono su ognuno di noi e si fermarono su Atsuya. Per un secondo mi parve di intravedere uno scintillio sorpreso nel suo sguardo, poi all’improvviso si voltò verso Gouenji.
-Riesco anche a percepire che tu hai un potere simile al mio- osservò, squadrandolo con interesse quasi preoccupante, come se volesse mangiarlo vivo. Si alzò in piedi, si avvicinò a lui con un’andatura elegante e gli chiuse il mento tra le dita affusolate. –Per gente come noi, che ha il fuoco dentro, è difficile non brillare, vero?- miagolò, seducente.
-In effetti, non si può dire che sia semplice mantenere il controllo- le rispose Gouenji, senza battere ciglio le afferrò il polso e allontanò da sé la sua mano. I suoi occhi guizzarono verso Shirou, Bonitona colse il suo movimento e scoppiò a ridere.
-Oh… Oh!- esclamò. –Scusami, non avevo capito che fossi occupato. Se l’avessi saputo… se non altro sarei stata più educata. Non ci avrei provato qui davanti a tutti.
-In privato, allora?- Gouenji alzò un sopracciglio, divertito. Quasi ammiravo la sua capacità di parlarle mantenendo un certo distacco; io sarei morto di vergogna.
-Certamente, sarebbe un piacere- disse Bonitona, lasciando scivolare la propria mano fuori dalla presa. Le sue dita indugiarono sul colletto del ragazzo, poi si staccò da lui e indietreggiò di qualche passo. Si girò verso Shirou e Atsuya.
-Ho sentito voci che potrebbero interessarvi- ammise. -Un mese fa, circa… un uomo è stato trovato morto nello Shinsekai, a Osaka, e due settimane fa una ragazza a Sapporo. Entrambi drifters.
-Li conoscevi?- chiese Atsuya.
-Lei no. Lui però era venuto qualche volta al mio locale. Un vero idiota… un paio di bicchieri di vodka, ed era andato completamente. Straparlava. Non mi stupirebbe se avesse sbandierato ai quattro venti il suo dono… in ogni caso era una facile vittima. Chiunque l’abbia aggredito non avrà fatto tutta questa gran fatica. Certo, furono… casi insoliti. Sanguinosi. Un brutto affare. Mi sono spostata subito in entrambi i casi.
-Cosa intendi con “sanguinosi”?- intervenne Gouenji.
Bonitona fece una pausa. Si girò verso Rean, come per accertarsi che lei stesse bene; la sorella minore annuì, anche se le sue spalle tremavano lievemente.
-Sia lui che lei sono stati fatti a pezzi- rivelò Bonitona, in tono sommesso –con una specie di katana.
Alle sue parole tutti ci irrigidimmo. L’atmosfera nella camera si fece gelida.
-Ho toccato un nervo scoperto?- chiese Bonitona, con cupa ironia.
Atsuya fece un passo avanti e, senza dire nulla, si sfilò la giacca e sbottonò la camicia. Shirou sussultò e distolse lo sguardo dal petto del fratello, che era attraversato da una cicatrice lunga, bianchissima, che andava dalla spalla destra al fianco sinistro. Rean trattenne il respiro e si portò le mani alla bocca, scioccata. Anche Bonitona sembrava colpita: con un taglio del genere, nessuna persona normale sarebbe sopravvissuta. Ma i drifters erano un po’ più resistenti, lo sapevo, i nostri poteri spesso ci tenevano in vita anche durante stati d’incoscienza.
-Le ferite riportate da Shirou erano più lievi- borbottò Atsuya.
-Più che altro, erano meno visibili. L’emorragia era interna- obiettò Gouenji. -Credimi, ci sono stato io con lui nel periodo di guarigione.
Atsuya sbuffò e strinse i pugni. Pareva in profondo conflitto con se stesso.
-Lo so- ringhiò sottovoce. –Per quanto io sia arrabbiato, e per quanto non lo sopporti…- sbirciò in direzione di Gouenji e tornò rapidamente a fissare il pavimento. -Ti sono grato… per aver salvato me e mio fratello…
Gouenji assentì. –Non c’è di ché- disse, e Atsuya ringhiò di nuovo.
-Ehi, questo non vuol dire che ti cederò mio fratello. Per quanto riguarda questo, te ne puoi anche andare a fanculo senza tanti complimenti!- esclamò, petulante. Shirou sorrise. Gouenji non commentò, si limitò a scuotere il capo, abbozzando a sua volta una sorta di sorriso.
-Quindi… una katana- affermò, tornando all’argomento principale. Bonitona fece cenno di sì col capo.
-C’era un lago di sangue… Gli assassini dovevano essere dei veri sadici- disse, rabbrividendo.
-Uhm…- Rean si fece improvvisamente avanti, esitante. –Io… avrei qualcosa da dire…
Bonitona la guardò sorpresa, lasciò passare la sorella e le si mise a fianco, come per proteggerla.
-Beh… parla pure- la incoraggiò Shirou, gentile.
Rean arrossì lievemente e distolse lo sguardo.
-Ecco… anche io riesco a percepire se una persona ha un dono. Uhm, non so per quanto riguarda quel signore, ma… mi ricordo del dono di quella ragazza. Cioè, mi ricordo di lei…- confessò.
-Davvero? È venuta al locale?- la interruppe Bonitona, sorpresa.
-No… ma a Sapporo avevamo casa vicino ad una scuola di danza, ricordi? Lei era un’allieva di quella scuola, perciò la vedevo spesso tornare da lì. A volte la vedevo allenarsi attraverso le finestre del piano terra… era molto brava. E una volta la vidi far sbocciare dei fiori nel cemento.
-Una drifter della categoria Foresta- osservò Afuro. Appariva rilassato, con le mani sui fianchi e le spalle morbide, tuttavia l’espressione illeggibile dava a intendere che avesse molti pensieri per la testa.
-Sì, esatto…- confermò Rean. -Il punto è che… qualche giorno dopo la sua morte, io continuavo a percepirlo… Cioè, la sensazione del suo dono non era andata via… Doveva esserci qualcun altro con lo stesso, identico dono.
-Rean- la interruppe Bonitona, preoccupata. –Questo non è…
-Lo so, lo so, è impossibile, vero? Ma io l’ho sentito chiaramente!- esclamò Rean disperata.
–È davvero così strano? Il tipo Foresta è abbastanza comune, no?- intervenne Kazemaru, confuso.
-Beh, sì... È più comune del tipo Fuoco, per esempio- confermò Afuro. –Però Rean e Bonitona hanno ragione… è raro, rarissimo, che esistano due persone con lo stesso dono. Che si somiglino, sì, questo è possibile. Ma ogni dono è diverso dall’altro, pur con minime variazione. Che ce ne siano due identici… è a dir poco impossibile.- Si girò verso Rean. –Tu ne sei sicura? Sicurissima?
-Non posso sbagliarmi… perché l’ho sentito di nuovo pochissimo tempo fa- sussurrò la ragazza.
-Cosa? Cosa vuoi dire?- scattò Atsuya, impaziente.
-Qui… a Tokyo?- mormorò Bonitona sorpresa. Rean assentì.
-Qualche sera fa… l’ho percepito distintamente. Era lo stesso dono. Ne sono sicura- disse.
Calò un silenzio grave, e si prolungò per alcuni minuti. Come Kazemaru, neanche io avevo mai sentito tante distinzioni sui tipi di drifters; durante l’addestramento avevamo decisamente fatto più pratica che teoria. Ma tutti gli altri componenti del nostro gruppo sembravano capire, chi più chi meno, la gravità di quanto affermato da Rean.
Shirou e Atsuya si scambiarono un’occhiata eloquente, carica di segreti che custodivano gelosamente e che non ci avrebbero svelato tanto facilmente.
-Capisco… capisco- disse Shirou, infine, rompendo il silenzio. –Rean, Bonitona… vi ringrazio. Sono in debito con voi, se avete bisogno di un favore…- La sua espressione accigliata si distese in un sorriso amichevole e dolce quando si rivolse alle ragazze.
-Mi farò venire in mente qualcosa- replicò Bonitona, ricambiando il sorriso. –Ora, su, smammate! Per tutto il tempo che perdo con voi, perdo il piacere di servire i miei affezionati clienti- aggiunse, calcando sarcasticamente la parola “piacere”. S’incamminò verso la porta con il solito passo sinuoso, lanciò un’occhiata felina a Gouenji e ci aprì la porta.
Mentre uscivamo, guardò il mio gilet e commentò, allegra:- Bel pellicciotto. Preso ad una svendita di animali?
 
xxx
 
La sveglia di Kazemaru suonò impietosa alle quattro del pomeriggio.
-Midorikawa, alzati, c’è l’addestramento- mugugnò Kazemaru. Rotolò fuori dalle coperte e s’infilò rapidamente nel bagno, prima ancora che io prendessi coscienza di chi ero.
Mi girai, strofinando la guancia sul cuscino, e fissai vacuo il cielo grigio fuori dalla finestra. Qualche goccia d’acqua schizzò sui vetri. Il tempo doveva essere orribile.
Mi trascinai fuori dal letto e nel bagno come uno zombie; la missione con i Fubuki ci aveva tenuti svegli durante tutta la notte, tanto che nel momento in cui eravamo rientrati, verso le cinque del mattino, mi ero buttato direttamente sul letto senza cambiarmi, solo togliendo le scarpe. Nessuno ci aveva disturbati fino a quel momento. Ora però ci toccava l’addestramento e Hitomiko ci teneva particolarmente: non ci avrebbe mai permesso di saltarlo.
Frugai nel mio armadio alla ricerca di una normale tuta. Ne trovai una grigia, un po’ stinta, in fondo ad un cassetto (da quanto non la usavo?), la tirai fuori e la misi sul letto mentre mi spogliavo.
Nel frattempo Kazemaru rientrò in stanza; indossava una tuta blu e gialla e si era legato i capelli nella solita coda di cavallo, ora che non era obbligato a tenerli sciolti aveva un’aria più sollevata. Il fatto di essere considerato troppo “femminile” era uno dei motivi per cui non amava portare i capelli sciolti, che però non aveva mai voluto tagliare: li faceva spuntare solo ogni tanto e solo da sua madre, che era parrucchiera di mestiere.
Diedi il cambio a Kazemaru in bagno. Appena entrato il mio sguardo assonnato cadde sullo specchio sopra il lavandino e notai con orrore che avevo ancora addosso l’orribile pellicciotto. Dopo essermi affrettato a gettarlo via con disgusto, finii di spogliarmi, mi sciacquai velocemente il corpo e il viso e mi infilai i pantaloni della tuta. Misi sopra una t-shirt bianca semplice e chiusi la zip della felpa grigia fino a metà petto, lasciando alzato il colletto.
Quando rientrai in stanza, intento a legarmi i capelli, vidi che Kazemaru aveva aperto la porta ed Endou era in piedi sull’uscio. Il ragazzo mi offrì un largo sorriso.
-Ehi, Hiroto è ancora in stanza. Ho paura che si sia riaddormentato, puoi andare tu a chiamarlo?- esclamò. Gettai un’occhiata rapida alla sveglia. Mancavano almeno dieci minuti all’orario d’inizio dell’addestramento.
-Va bene- dissi, grato del fatto che ci lasciassero un po’ di privacy. Avevo avuto pochissimo tempo per vedere Hiroto in quei giorni, ancor meno per parlare.
Raccattai le scarpe che avevo lanciato a caso la sera prima, annodai i lacci frettolosamente, alla bell’e meglio, e poi uscii a passo svelto dalla camera, dirigendomi verso quella di Hiroto.
Endou aveva lasciato la porta aperta e, come da lui previsto, Hiroto era ancora steso a letto: era vestito interamente, ma aveva gli occhi chiusi e un braccio abbandonato sulla fronte. Le sue labbra erano socchiuse, rosee, e sembravano aspettare solo di essere baciate.
Il solo pensiero mi fece arrossire; invece di cedere al desiderio, mi sedetti accanto a lui sul letto e gli scossi una spalla con delicatezza.
Hiroto scostò il braccio dal volto e le sue palpebre si sollevarono leggermente, appena quanto bastava perché intravedessi le sue iridi verdi. Notai, non senza un po’ di allarme, che aveva un notevole paio di occhiaie. Lavorava sempre più degli altri in periodi critici come quello che stavamo vivendo, Seijurou aveva grandi aspettative su di lui e Hiroto si sforzava ogni giorno per soddisfarle; tuttavia, in questo caso non era solo questo: percepivo, insieme alla forte stanchezza, una sensazione di malinconia. C’era qualcosa che lo preoccupava.
-Mmm, ciao- mormorò Hiroto. Sbatté un paio di volte le palpebre, più sveglio, e le sue dita si chiusero intorno al polso della mano che avevo poggiato vicino a lui. –Buon lavoro… com’è andata ieri notte? Successo qualcosa d’importante?- s’informò, aggrottando la fronte. Aveva intuito il mio nervosismo, ma non che dipendesse da lui.
-No, è tutto a posto. Non è esattamente una missione in cui mi trovo a mio agio, ma… ordini, giusto?- Mi sfuggì una smorfia, e cambiai subito argomento:- E tu invece? Tutto bene?
Hiroto esitò, poi annuì e distolse lo sguardo.
Avrei dovuto aspettarmelo: ormai lo conoscevo abbastanza bene da sapere che non si sarebbe confidato spontaneamente. Hiroto era bravo a nascondere le sue debolezze.
-C’è qualcosa che non va, vero?- Il mio approccio diretto ebbe l’effetto sperato.
Hiroto s’irrigidì, i suoi occhi si spalancarono per la sorpresa. L’avevo colto alla sprovvista, e impiegò alcuni secondi per ricomporsi, ma ormai si era tradito.
-Perché me lo chiedi?- esclamò, poi si morse il labbro inferiore. –Oh, già… empatico- mormorò.
-Anche se non fossi empatico, hai un aspetto talmente orrendo che chiunque capirebbe che stai male, sai- replicai, arricciando le labbra in un broncio.
Hiroto lasciò scivolare la mano sulla mia e osservò con vago interesse il modo in cui le sua dita s’incastravano blandamente negli spazi vuoti tra le mie, come pezzi di un puzzle. Mentre attendevo in silenzio che lui parlasse, rivolsi lo sguardo verso il punto della stanza che per lungo tempo era stato occupato dalla mia brandina. Benché fossi felice di aver riavuto una camera, e quindi un maggiore spazio personale, avevo un piacevole ricordo dei momenti in cui avevo dormito così vicino a Hiroto da poter ascoltare distintamente i suoi battiti, i suoi respiri.
Hiroto sospirò e ruppe il silenzio.
-Mio padre… Seijurou è molto nervoso. Insiste sull’importanza del mio addestramento… credo che ritenga che il mio potere possa essere particolarmente utile…- fece una pausa, io attesi.
-Io… voglio rendermi utile, naturalmente, e so che posso fare di più. Però… non so perché, non riesco a scrollarmi di dosso certi dubbi. Ho una brutta sensazione…
-Sei sotto pressione- dissi, indovinando il suo stato d’animo. Avevo immaginato una cosa del genere. Hiroto assentì distrattamente e il suo petto salì e scese in un altro sospiro.
Mi accorsi che stava esitando.
-C’è qualcos’altro che vuoi dirmi?- chiesi, con tatto, attento a non suonare troppo invadente.
Hiroto si tirò su, lasciò la mia mano e si chinò a frugare sotto il letto. Sussultai interiormente quando lo vidi tirare fuori un vecchio e consunto pallone da calcio che, a sua insaputa, io avevo già visto quando, mesi prima, ero entrato di nascosto nella sua camera. Pensandoci ora, Kazemaru aveva ragione al cento per cento: era stata un’idea veramente idiota.
Mi sforzai di restare impassibile, ma per fortuna Hiroto era troppo immerso nelle sue riflessioni per accorgersi della mia espressione mortificata.
-Io… non sono il vero figlio di Seijurou Kira. Non è un gran segreto… Probabilmente l’avrai sentito dire in giro, girano tante voci su di me… E, del resto, il mio cognome è diverso- disse.
-No, non lo sapevo- risposi in un soffio. –Il cognome… beh, non ci ho mai pensato sul serio, ma avrebbe potuto essere quello di tua madre, no?
-È vero, in effetti è un’idea plausibile. In realtà potrebbe essere così. Non so da quale dei miei genitori venga il mio cognome- ammise Hiroto. -Io… non li ho mai conosciuti. Sono morti in un incidente quando ero piccolo e sono finito in un orfanatrofio dove, a quei tempi, la famiglia Kira faceva beneficenza. È così che li ho conosciuti… e Seijurou Kira aveva già un figlio.- Guardò al pallone con affetto mentre lo rigirava tra le dita. –Noi due eravamo amici, giocavamo spesso a calcio insieme… Questo vecchio pallone era suo. Lo conservo con cura da anni, è così pieno di ricordi…- Sorrise, ma la sua espressione serena strideva a tal punto con la tristezza del suo sguardo che mi venne una fitta al cuore. C’era un preciso particolare di quella storia che non mi era sfuggito.
-Ne parli al passato… questo vuol dire…?
-Sì. Lui non c’è più. È morto in un incidente e i Kira mi hanno adottato un po’ di tempo dopo. Il fatto è che… Seijurou è molto serio riguardo Garshield… direi quasi ad un livello personale. L’incidente che coinvolse il figlio fu un po’ strano, quindi...
-Tuo padre crede che Garshield sia implicato in quell’incidente, giusto?- completai al suo posto.
Hiroto rimase a fissare ancora un po’ il pallone, poi lo fece rotolare nuovamente sotto il letto.
-Sono solo supposizioni. Non ho prove che mio padre pensi questo, e non so se lui stesso abbia prove che facciano pensare ad una cosa del genere- disse, passandosi una mano sul viso e stropicciandosi gli occhi, esausto. –Beh, starò a vedere… Io voglio solo rendermi utile.
Gli cinsi dolcemente il collo con le braccia e lo attirai a me, facendogli appoggiare il viso contro la mia spalla.
-Capisco, ma non affaticarti troppo, okay? Se ti senti troppo stanco, fermati un attimo. Puoi chiamarmi quando vuoi e io correrò a salvarti- bisbigliai.
-Che eroe- mormorò lui, lo sentii sorridere contro la mia spalla. D’un tratto, si staccò e piegò la testa di lato, socchiudendo gli occhi; capii subito cosa voleva e, nonostante l’imbarazzo, lo accontentati con un bacio sulle labbra. Affondai le dita nei suoi capelli e lo tirai leggermente verso di me. Le mani di Hiroto indugiarono sui miei fianchi, poi si sistemarono sulla mia schiena, e i polpastrelli premuti alla base della colonna vertebrale mi fecero venire voglia di sfilarmi la felpa e la maglietta per poter percepire quel contatto direttamente sulla pelle. Hiroto mi morse morbidamente il labbro inferiore, invitandomi ad aprire la bocca; quando la sua lingua scivolò contro il mio palato, cercai di imitare i suoi movimenti, l’imbarazzo soppiantato dal desiderio bruciante di toccarlo.
Ci baciammo per un po’, seduti sul bordo del letto, finché Hiroto non si staccò.
-Sono davvero così orrendo?- chiese Hiroto con una mezza risata. Le nostre labbra erano a pochi centimetri di distanza. Il suo respiro caldo si mischiava al mio e mi solleticava le guance.
-No- sbuffai, senza fiato, con il cuore che martellava nel petto. –Se vuoi saperlo, saresti bello anche con addosso un sacco della spazzatura. Davvero, sei imbarazzante. Dovresti darti una controllata, cioè, con tutta quella gente che ti muore dietro…
-Oh, sul serio? Non me n’ero accorto.- Hiroto rise di nuovo, poi mi spinse via con delicatezza e si alzò in piedi. Mentre sollevava le braccia verso l’alto e si stiracchiava, aggiunse:- Comunque, non devi preoccuparti. Non mi interessa sguazzare nelle attenzioni che mi riservano.
Lo fissai di sottecchi, interdetto.
-Ma scusa, fino a poco tempo fa non ti trattenevi spesso agli uffici a parlare con le impiegate?- non potei trattenermi. Hiroto non rispose subito, ma quando lo fece il suono era tranquillo.
-Quello… lo facevo per Endou- ammise.
-Per ingelosirlo?
-Ah, no, non è così. O forse sì… In parte, forse è come dici tu. Ma per la maggior parte, credo che fosse un modo per fargli capire che mi ero arreso… insomma, che ero andato avanti e non provavo più nulla di particolare per lui.- Parlava lentamente, in modo incerto. Quello era un argomento delicato per lui. Scrutai il suo volto in cerca di tristezza; a parte l’imbarazzo, però, sembrava sereno. Sospirai: ero sollevato dal fatto che avesse lasciato andare del tutto la questione di Endou.
-In ogni caso, è una cosa di cui non ho più bisogno, no? Mi sono reso conto che era anche una cosa crudele, sai, illudere delle persone per cui non avevo interesse, né avevo intenzione di averne in futuro… Per questo non farò più una cosa del genere- continuò Hiroto, sorrise con una punta di malizia. –Anche se devo ammettere che vederti geloso dà una bella sensazione. Credevo di essere l’unico, sono felice di essermi sbagliato.
Spalancai gli occhi per lo stupore.
-Tu… eri geloso di me?!- esclamai. –Cosa… quando?! Perché?!
Hiroto si grattò la nuca con una mano, spostando le lunghe ciocche di capelli rossi, che gli ricaddero sul viso. Le sue guance si erano tinte leggermente di rosa.
-Beh… ammetterai che Diam si comporta in modo decisamente affettuoso con te. Non ero presente in Hokkaido, qualunque cosa sia successo, ma…- mormorò, senza osare guardarmi in faccia.
Io ero rimasto completamente spiazzato da quella rivelazione, perché il pensiero non mi aveva mai nemmeno sfiorato: nella mia testa, il solo fatto che Hiroto potesse essere geloso di me era surreale.
-Non… non devi preoccuparti. Voglio dire, io… a me piaci tu- balbettai, avvampando.
Hiroto sorrise di nuovo. –Lo so- rispose, si chinò e mi rubò un bacio dalle labbra prima che potessi anche solo sbattere le labbra. Nel ritrarsi, i suoi occhi caddero sul proprio orologio da polso.
-Ops, faremmo meglio ad andare. Hitomiko potrebbe arrabbiarsi se non arriviamo in orario- osservò, si infilò le scarpe da ginnastica e andò ad aprire la porta.
 
Alla fine arrivammo comunque con cinque minuti di ritardo, ma per fortuna Hitomiko non era presente e non ci rimproverò. Individuai subito Natsumi che, con un tuta completamente rosa e i capelli ricci sciolti sulle spalle, stava dando ordini ad alcuni membri della squadra americana. Hiroto mi fece un cenno e andò verso la ragazza, forse per discutere riguardo il suo addestramento speciale. Mentre lo guardavo andare via, Kazemaru si avvicinò e mi diede una spintarella.
-Una lunga chiacchierata, mm?- commentò. La mia espressione imbarazzata lo fece scoppiare in una risata allegra e ricambiai la spinta con un leggero pugno su una spalla.
Poco dopo, anche Afuro e Endou si unirono a noi.
-Ma come, vi siete cambiati? Gli strass vi donavano- esclamò Afuro, squadrandoci da capo a piedi con occhio falsamente critico. Pareva che la cosa lo divertisse molto. Endou si mise a ridere e replicò, allegro:- È vero! Sembravamo i membri di un gruppo di idol!
-Un gruppo di idol di dubbi gusti- osservai.
-Per fortuna Maki ha evitato di truccarci. Voleva mettermi un ombretto con brillantini…- borbottò Kazemaru, con un brivido. In realtà, considerato che quella era solo la prima parte della missione, non era improbabile che Maki ci avrebbe provato di nuovo, magari stavolta con successo.
-Parlando di vestiti… non avrai problemi ad allenarti così?- mi rivolsi ad Afuro, perplesso. Al contrario di tutti noi, il ragazzo coreano non indossava una tuta, ma un pantalone di jeans, stivaletti e un maglioncino beige, slabbrato e a maniche corte, che su chiunque altro sarebbe sembrato un sacco di iuta (ma su di lui no; Afuro era un’altra di quelle imbarazzanti persone a cui stava bene tutto).
-Puoi muoverti bene così?- aggiunsi.
-Beh, perlopiù starò in piedi nel poligono di tiro, quindi non dovrei avere problemi- rispose lui, scrollando le spalle. –Al massimo mi chiederanno di aiutare Hiroto, ma per quello oggi c’è anche Kruger, quindi non saprei…
-Kruger ha qualcosa tipo… lettura della mente?- Endou esitò mentre fissava pensieroso il punto in cui Hiroto e la Spy Eleven americana stavano parlando.
-Non proprio, ma c’entra con la manipolazione della mente. Può trasmetterti in mente delle immagini vere o false, insomma, quello che vuole lui- precisò Afuro.
-E tu? Anche il tuo c’entra con… la “manipolazione della mente”?- intervenni, ansioso.
Afuro mi sorrise con benevolenza. –Non preoccuparti, nessuno farebbe mai del male a Hiroto. È solo allenamento- mi confortò. Si mise le mani in tasca e abbassò lo sguardo sul pavimento. 
–Ma tornando alla domanda…- cominciò, poi si fermò , succhiandosi le guance. –Beh, sì, potremmo dire che anche il mio dono è una sorta di “manipolazione”. L’hanno chiamato spesso “incantesimo”, “persuasione”, o altri nomi del genere. Ma non importa come si chiami. L’unica verità è che se io ordino a qualcuno di fare qualcosa, non ha praticamente scelta se non farla. La persona in questione entra in una specie di trance e… beh, in pratica è alla mia totale mercé, puoi solo immaginare cosa potrei ordinarle di fare… Terrificante, no?
Non risposi. Probabilmente la mia espressione era molto chiara di qualunque parola.
Afuro continuava a fissare il pavimento.
-Mi chiamano Aphrodi, come la dea greca Afrodite, perché lei aveva dei modi molto… persuasivi. Era una seduttrice, sapeva convincere gli altri ad assecondarli. E poteva essere molto crudele- disse, scosse il capo con un sorriso. –Comunque, il massimo che faccio è spedire qualcuno al bagno, come ho fatto ieri con quei tizi che mi importunavano al locale, e Hiroto non ha nulla da temere da me. Grazie alla sua capacità, ha sempre avuto una buona resistenza al mio potere, fin da quando eravamo al centro di addestramento… anzi, direi che, anche se non ne è completamente immune, è l’unico che sa opporre una certa resistenza al mio potere persuasivo.
-Quindi Hiroto si sta davvero allenando per imparare ad annullare i poteri altrui…- mormorai, ripensando a quanto mi aveva detto Gazel.
Afuro annuì. –Oh, è già capace di farlo. Ma meglio tenersi in forma, no? Soprattutto in periodi così critici, è meglio avere più armi possibili- affermò, deciso.
-Hai perfettamente ragione- intervenne Kazemaru. Mi girai a guardarlo e notai che aveva un’espressione seria e determinata.
-Dobbiamo impegnarci tutti al massimo!- aggiunse, stringendo i pugni, girò i tacchi e si diresse a passo svelto verso il poligono di tiro. Lo seguii con lo sguardo e lo vidi avvicinarsi a Diam che, circondato dagli altri ragazzi della sua squadra, stava gareggiando con Nepper per vedere chi riusciva a colpire più volte un manichino a circa venti metri da loro. Kazemaru si fece largo tra le persone, interruppe e la competizione e si rivolse direttamente a Diam: i due parlarono un po’, poi il castano annuì con un sorriso eccitato. Kazemaru parve sollevato.
-Cosa sta facendo?- domandai a Endou, nella speranza che lui potesse chiarire i miei dubbi.
-Ah, ti ricordi quello che è successo l’ultima volta…? Ichirouta ha deciso di sfruttare meglio la sua capacità di creare “vuoti” d’aria, e credo che allenarsi con Diam lo stimoli- rispose lui.
–Capisco- commentai, non potendo reprimere un sorriso divertito. –Vanno più d’accordo di quanto mi aspettassi…- E ne ero felice, visto che avevo paura del contrario.
-Certo, una volta che Ichirouta ha capito che era stupido esserne geloso- esclamò Endou con una risata. Scossi il capo ed incrociai le braccia. Diam aveva portato parecchio scompiglio, a quanto pareva… Da quando ero così popolare, accidenti? Il solo pensiero mi faceva ridere.
-Endou, vuoi darci una mano qui?- gridò Hiroto dall’altra parte della stanza.
-Certo, arrivo!- gli rispose Endou, salutò rapidamente me e Afuro e corse dal suo partner. Intorno a Hiroto si era raccolto un bel gruppetto di gente: non c’erano solo gli americani (tra cui riconobbi Mark Kruger e il biondo con gli occhialoni), ma anche Natsumi e un paio di ragazzi dalla pelle scura, quasi color cioccolato, che immaginai far parte della squadra africana. Uno dei due indossava una bandana azzurra, e i capelli che gli ricadevano su parte del viso mi ricordavano quelli di Kazemaru; l’altro era più alto, con capelli blu scuro e occhi di un nero brillante, e osservandolo più attentamente mi resi conto che si trattava proprio della Spy Eleven africana, di cui però mi sfuggiva il nome.
Lui e Natsumi stavano discutendo animatamente, o meglio lei lo stava rimproverando su qualcosa; il rossore che le si era diffuso sul viso, però, tradiva i suoi veri sentimenti verso l’altro. spostai lo sguardo su Hiroto, che stava parlando con Kruger e con Endou.
-Ah, guardate, c’è Reize! Reize, vieni ad allenarti con noi?
Un grido femminile mi strappò all’improvviso alla mia attenta osservazione e mi riportò alla realtà.
Tornai a fissare la zona del poligono e vidi Ai che si sbracciava e saltava sul posto per farsi notare. Accanto a lei, Shuuji aveva ancora il tutore alla spalla, ma per il resto lui e il resto della squadra sembravano essere in forma.
-Andiamo?- propose Afuro, sorridendomi. Annuii e raggiunsi il poligono senza esitare: anch’io dovevo darmi da fare.

 
xxx

 
La meta che i Fubuki avevano scelto per la nottata successiva era il parco di Ueno, che di notte doveva essere molto meno piacevole che di giorno. La loro conoscenza di tutti i posti più pericolosi della città sarebbe stata sconcertante, se non fosse stata anche assolutamente prevedibile.
Anche stavolta Maki si era sbizzarrita con i vestiti, solo che invece di strass e brillantini ci aveva coperti di indumenti strappati, sbrindellati, graffiati. Diam mi aveva confidato che si erano divertiti tantissimo ad accanirsi sui jeans con le forbici. Ah, la moda.
Per arrivare al posto designato avremmo dovuto prendere un treno, quindi ci incamminammo verso la stazione. Erano le dieci e mezza e il cielo era scurissimo, coperto da nuvoloni che ingoiavano stelle e luna, e l’oscurità delle strade, a malapena schiarita dalla luce circolare dei lampioni, appariva tanto fitta da essere asfissiante.
D’un tratto, Gouenji smise di camminare e sollevò lo sguardo verso l’alto. Aveva un’aria tesa. Endou gli si avvicinò e gli mise una mano sulla spalla.
-Qualcosa non va…?- chiese. Gouenji non rispose e continuò a scrutare il cielo buio: i suoi occhi si strinsero come se stesse cercando di individuare qualcosa.
Tutto il gruppo si fermò; i due Fubuki, che camminavano in testa, si girarono a guardarci perplessi.
-Ehi, che succede?- esclamò Atsuya. –Vedete di darvi una mossa!
-Aspetta un momento! Gouenji ha visto qualcosa!- gli gridò Endou in risposta. In quel preciso momento, Gouenji aprì le mani e le sporse davanti a sé e un delicato origami di carta rossa, raffigurante un uccello dalle lunghe ali, si posò sui suoi palmi.
-Una fenice…- sussurrò, e la fenice di carta cominciò a bruciare a partire dalle ali: in una manciata di secondi venne avvolta interamente dalle fiamme e si frantumò in coriandoli di cenere. Gouenji chiuse il palmo, si voltò di scatto e cominciò a correre nella direzione opposta a quella in cui stavamo andando.
-Ehi, porcospino, che diavolo ti salta in mente?! La stazione è da quella parte!- sbraitò Atsuya, stupito e contrariato.
-Dobbiamo tornare a Kabukicho!- lo contraddisse Gouenji, senza smettere di correre, e noi, senza esitare, lo seguimmo.





Note:
Kabukicho = quartiere di Tokyo famoso soprattutto per la sua vita notturna e i locali a luci rosse
Dansā Kasai = “Danzatrice di fuoco”
midori = liquore al sapore di melone, chiamato così per via del colore verde chiaro





**Angolo dell'Autrice**
Buonasera :)
Questo capitolo è stato scritto con forte ispirazione, e devo dire che mi piace molto!
Prima di tutto, è stato bello poter approfondire un po' Shirou e Atsuya. Visto che nell'anime Shirou è continuamente circondato di ragazze, mi piaceva l'idea che usasse il proprio fascino per ottenere informazioni, senza nemmeno farsi troppi scrupoli (lui e Atsuya non sono proprio dei bravi ragazzi in questa fic, lol). E Atsuya preferisce che Shirou flirti con le ragazze piuttosto con Gouenji, questo è poco ma sicuro XD
Le due ragazze che compaiono nella prima parte, con il ruolo di "informatrici", sono personaggi realmente esistenti nell'universo inazumiano: si tratta di Nitou Honoka/Bonitona e Hasuike An/Rean, entrambe giocatrici della Prominence (e, visto che questa è la squadra di Burn, potrete ben capire perché ho scelto di dare loro dei poteri legati al fuoco!). Anche i "tipi" in cui sono catalogati i drifters vengono direttamente dal gioco di Inazuma e sono Fuoco, Montagna, Foresta e Vento (grazie ancora a Raffaele, che non solo mi ha fatto da beta, ma mi ha anche illuminato su questo particolare!). I drifters (e in generale tutti i pg dotati di un potere) presenti nella storia ricadono in queste quattro categorie comuni, a parte alcune rare eccezioni. 
Un altro motivo per cui sono felice di aver scritto questo capitolo è per la scena Hiromido - mi dispiace moltissimo non poter inserire più parti romantiche nella fic, credetemi, ma gli avvenimenti si susseguono in modo talmente veloce che Hiroto e Midorikawa a stento riescono a vedersi, figurarsi avere momenti romantici! :'D Inoltre, anche se Hiroto comincia ad aprirsi, ci sono ancora delle cose che tiene nascoste a Midorikawa. La loro relazione, insomma, è ben lungi dall'essersi sistemata e il loro amore deve ancora crescere! 
Infine, ho potuto finalmente svelare il potere di Afuro - ci pensavo da moltissimo tempo e presto sarà introdotto anche nello spin-off, ma ci tenevo a parlarne anche qui. ♥
Grazie a tutte le persone che continuano a seguire la fic, e grazie a quelle che commentano: leggere i vostri pareri mi fa sempre piacere, anche se spesso non ho il tempo di rispondervi ;u;
Bacioni e alla prossima~
                    Roby

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Capitolo 38
*** Mission 38. ~Hiroto's Arc. ***


Con questo capitolo stiamo entrando nell'ultima parte dell'Arc! (*´∀`)/
Questa fic va avanti da così tanto tempo che mi viene da piangere... Non smetterò mai di essere grata a tutte le persone che continuano a supportarmi. 


La porta del Dansā kasai era sfondata e l’ingresso del locale era un tappeto di vetri, tuttavia all’interno il locale sembrava immacolato, vuoto come un teatro dove non ci sono spettacoli.
Gouenji entrò per primo, tenendo la pistola con entrambe le mani davanti a sé e sbirciando ogni angolo del posto con circospezione; io e Kazemaru gli coprivamo le spalle, seguendolo passo dopo passo, con le nostre armi ben in vista, mentre mentre Afuro ed Endou erano rimasti fuori a controllare i Fubuki. Il silenzio era pesante e allarmante, e Kazemaru sobbalzò quando con il piede urtò per sbaglio uno degli sgabelli, facendolo strisciare a terra con un basso stridio. Gouenji gli lanciò un’occhiataccia di sbieco e Kazemaru arrossì farfugliando delle scuse, poi si voltò per sistemare lo sgabello e la sua mano si fermò sul bancone.
-Ehi, venite a vedere- disse, a voce bassa e controllata. Lo raggiunsi in un attimo e mi sporsi oltre la sua spalla per guardare. Gouenji camminò all’indietro fino al bancone, prudente, e con lo sguardo fisso sul palco deserto domandò:- Cosa c’è?
-Qui… nel bancone c’è una tacca- rispose Kazemaru, facendo scorrere le dita sul punto indicato.
-Come se ci fosse stato conficcato un coltello, o…
-O una spada- completai in un soffio. Alzai lo sguardo allo stesso momento di Kazemaru e, quando i nostri occhi s’incrociarono, capii che aveva avuto la mia stessa idea. Gouenji annuì lentamente e non fece commenti, come se l’avesse già intuito dall’inizio.
Un rumore improvviso ci fece trasalire, questa volta non era stato nessuno di noi. Gouenji sollevò lo sguardo di scatto nella direzione da cui proveniva il suono: doveva esserci qualcuno di sopra. Gouenji si avvicinò all’imbocco delle scale e fece cenno a Kazemaru di seguirlo; si posizionarono ognuno su un lato e attesero, pronti a minacciare chiunque si presentasse. Benché in apparenza non ci fossero movimenti, nel silenzio si riusciva appena a distinguere un ovattato rumore di passi. Doveva essere una persona molto leggera e agile. Vidi Gouenji accigliarsi, tuttavia il ragazzo restò in posizione senza abbassare l’arma. Ancora qualche passo, poi una silhouette comparve sulle scale e Gouenji fece un basso sospiro, probabilmente sollevato.
-Rean- mormorò, facendo un passo avanti per venire allo scoperto. –Il tuo nome è Rean, giusto?
Ci fu un attimo di pausa, una fiammella si accese nel buio: dapprima il chiarore avvolse solo il palmo della sua mano, poi s’intensificò e rivelò un volto grigio di paura, occhi blu lucidi e cerchiati da occhiaie e capelli rosa scompigliati. Il suo vestito di tulle rosa era stropicciato, come se ci avesse affondato le mani dentro e tirato il tessuto per conforto.
Rean ci guardò con incredulità e, dal momento che non aveva risposto alla domanda, Gouenji le si avvicinò e le posò una mano sul braccio, facendola sussultare.
-Rean, è successo qualcosa, vero?- Tentò di nuovo; cercava di mostrarsi gentile e disponibile, ma la sua voce tradiva impazienza. Rean gli rivolse uno sguardo assente, sembrava sotto shock.
-Rean- insistette Gouenji, parlando piano –ci sei solo tu qui? Perché mi hai mandato quel messaggio? Dov’è tua sorella?
Io e Kazemaru ci scambiammo un’occhiata confusa, ma prima che potessimo chiedere a Gouenji di quale messaggio stesse parlando, Rean scoppiò a piangere: la fiamma nelle sue mani scomparve di colpo, come se si fosse spenta sotto la cascata di lacrime, ed il suo corpo iniziò a tremare, scosso da violenti singhiozzi. Gouenji ripose la pistola e lentamente poggiò le mani sulle spalle della ragazza.
-Rean, voglio aiutarti, ma tu devi aiutare me a capire cosa sta succedendo- le disse, deciso, ma Rean scosse il capo, mordendosi il labbro. Gouenji sospirò, si tolse la giacca e la mise intorno sulle spalle della ragazza.
–In ogni caso non possiamo lasciarla qui… Dovremmo rinunciare alla missione e portarla all’agency… Al momento, con tutte le Spy Eleven nei paraggi, non c’è posto più sicuro- affermò, serio.
Accompagnammo Rean fino all’entrata, poi Gouenji la spinse tra le braccia di Shirou, che ci scoccò un’occhiata interrogativa prima di mettersi a scrutare preoccupato il volto della ragazza.
–Che succede?- chiese Atsuya, comparendo immediatamente al fianco del fratello.
-È sotto shock- rispose seccamente Gouenji.
-Vuoi condividere i tuoi pensieri con noi, o…?- intervenne Afuro, con le mani sui fianchi ed un’espressione accigliata. Anche Endou sembrava perplesso. Gouenji spostò lo sguardo da loro a Rean e viceversa.
-Beh, abbiamo trovato il segno di una spada- disse infine. –Quante persone conoscete che vanno in giro a colpire le persone armate di spada?- Alle sue parole, i due gemelli impallidirono visibilmente.
Atsuya strinse i pugni lungo i fianchi e digrignò i denti, livido di rabbia.
-Se quei bastardi sono da queste parti, che si facciano vedere! Io li…- sibilò, ma Shirou lo interruppe chiamando il suo nome a voce alta in tono di rimprovero. I due si scambiarono una lunga occhiata, poi Atsuya sbuffò e distolse lo sguardo. Shirou tornò a rivolgersi a noi.
-Allora, cosa facciamo? Ce la filiamo e annulliamo tutto?- domandò, in tono del tutto indifferente.
Ancora una volta, ebbi l’impressione che lui e Atsuya ci stessero nascondendo qualcosa. Ero certo che anche gli altri l’avessero notato, tuttavia nessuno fece commenti, forse perché eravamo più preoccupati dall’eventuale vicinanza degli scagnozzi di Garshield. Rean si rifiutava di parlare e Bonitona era scomparsa: non erano granché, come premesse.
-Tornare indietro è la cosa migliore- affermò Gouenji, poi aggiunse, rivolto a Shirou:– Prova a parlarle, chiedile dov’è sua sorella. A me non vuole dire nulla.
-E te ne stupisci? Non parliamo con gli sbirri- borbottò Atsuya, sarcastico. Gouenji alzò gli occhi al cielo, ma a parte questo parve ignorarlo del tutto.
Shirou rimase apparentemente indifferente al loro battibecco e si concentrò invece su Rean, fece scivolare dolcemente le mani sulle sue spalle e chinò il capo per poterla guardare in viso.
–Ehi, ehi… guardami, va tutto bene, ora ci siamo noi con te… Ti proteggeremo noi, capito?- bisbigliò in tono protettivo. -Vogliamo proteggerti e vogliamo proteggere anche Bonitona, ma dobbiamo sapere cosa è successo… Solo tu puoi aiutarci, Rean... ti prego, parlami.
Rean sollevò gli occhi verso di lui e le sue labbra ebbero un fremito.
-Io non… non lo so. Questa n-notte abbiamo sentito dei rumori… poi lei è uscita e mi ha detto di restare nascosta…- singhiozzò, coprendosi il viso tra le mani tremanti. –Oggi n-non era ancora tornata, e h-ho provato a mandarle un messaggio di fuoco, ma…
-Ma è arrivato a me- completò Gouenji in un soffio. –Deve essere stato attirato dalla mia aura, immagino, visto che anch’io ho un dono di tipo Fuoco. Ma questo significa…- La sua voce si spense in un sussurro e un lampo di consapevolezza gli rabbuiò il viso. Non avevo idea di cosa stesse pensando, ma sicuramente non era una bella cosa. Nessuno di noi lo disse ad alta voce, ma il pensiero che Bonitona potesse essere già morta era praticamente scritto sui nostri volti. Rean scoppiò in lacrime e non riuscì quasi più a parlare.
-Torniamo indietro- Atsuya interruppe il pesante silenzio, si voltò e s’incamminò verso la strada. Shirou aveva l’aria di voler criticare il suo atteggiamento scontroso, ma Afuro lo anticipò. 
-Ci parlo io, tu devi occuparti di Rean- disse, e senza lasciargli il tempo di rispondere affrettò il passo e raggiunse Atsuya, fermandosi al suo fianco e dicendogli qualcosa. Atsuya sbuffò e brontolò in risposta. Shirou osservò il loro scambio con attenzione, poi tornò a rivolgersi a Rean.
-Puoi camminare?- chiese gentilmente. La testa della ragazza scattò verso il basso in una sorta di cenno d’assenso, mentre col dorso del braccio cercava di asciugarsi il viso gonfio e arrossato.
Ci incamminammo per la strada dalla quale eravamo venuti, silenziosi e irrequieti. Non potevo fare a meno di percepire una sensazione di pericolo imminente ee sicuramente non ero l’unico, a giudicare dal fatto che Gouenji, Endou e Kazemaru avevano in mano le pistole, pronte all’uso. Shirou alternava parole gentili per Rean ad occhiate preoccupate verso il fratello. Atsuya, che procedeva in testa al gruppo, affiancato da Afuro, stava chiaramente lottando con se stesso per mantenere il sangue freddo e appariva in costante tensione.
Poi, d’un tratto, Rean si bloccò. Letteralmente. Smise di camminare e rimase immobile, pietrificata, in mezzo alla strada, con gli occhi spalancati e la bocca spalancata e le braccia immobilizzate a mezz’aria, come l’immagine di un video in pausa.
-Honoka- un'unica parola lasciò le sue labbra.
-Honoka? Chi è?- esclamò Endou, confuso, ma Rean non gli rispose.
-Riesco a sentirla, Honoka è qui, io la sento…- continuò a parlare a bassa voce, rivolta a se stessa.
-Honoka… è per caso il vero nome di tua sorella?- realizzai, sorpreso.
Gouenji assunse un’espressione combattuta.
-La sento anch’io- mormorò, non del tutto convinto. –Voglio dire, c’è una persona con un dono del tipo Fuoco nei paraggi. Potrebbe essere lei. Forse non è… come pensavamo.- “Morta” era chiaramente la parola che cercava, ma evitò delicatamente di usarla in presenza di Rean.
-Cosa vuoi dire? È qui oppure no?- sbottò Atsuya spazientito.
-Non saprei spiegarlo- replicò Gouenji, accigliato, e la sua risposta parve irritare ancora di più l’altro.
-Ah, fantastico! Sei del tutto inutile, quindi.
-Non mi sembra che tu stia facendo qualcosa per aiutare.
Atsuya diventò paonazzo e scattò in avanti con le mani alzate, come se volesse mettergliele alla gola, invece le sue dita si infilarono nella maglia sbrindellata di Gouenji e strinsero il pugno di tessuto con rabbia. Gouenji lo squadrò per un momento, poi chiuse la mano intorno al polso di Atsuya, premette le dita nella parte interna e fece un rapido movimento di rotazione. La reazione del corpo di Atsuya fu immediata, si piegò in avanti, mentre l’intero braccio fu scosso da una convulsione. Il ragazzo si lasciò sfuggire un mugolio di dolore e sorpresa.
-Non ho alcun problema a risolvere la questione con la forza, se proprio devo- affermò Gouenji, serissimo. –Ma non qui e non ora. Hai capito?- Allentò la presa, permettendo ad Atsuya di liberarsi. Il ragazzo si massaggiò il polso e rispose alla domanda con uno sguardo di sfida e arroganza.
-Dai, ragazzi, non litighiamo. Siamo tutti dalla stessa parte, in fondo- intervenne Afuro. Si avvicinò ad Atsuya e gli mise una mano sulla spalla in modo amichevole, ma l’altro si ritrasse bruscamente.
-Non mi toccare! Noi non siamo in confidenza!- disse con astio. –Vi aiuto solo perché mi fa comodo, questo non significa che devo andare d’accordo con voi!
-Ti comporti come un bambino capriccioso- lo rimbeccò Afuro, sollevando un sopracciglio.
-E quindi? Mi ordinerai di buttarmi da un grattacielo come ripicca?
Per un attimo, Afuro parve sinceramente colpito (o persino ferito) da quelle parole, ma preferì fare finta di non darci peso. –Grazie del suggerimento- ribatté, gelido, e schiaffeggiò il braccio già dolente di Atsuya con forza. Atsuya sussultò e lo guardò male, ma Afuro evitò il suo sguardo e gli diede le spalle.
Atsuya sbuffò, forse rendendosi conto di star facendo una scenata.
-Sentite, voglio solo andarmene di qui, okay?- esclamò, sforzandosi di restare calmo. Avrei potuto percepire la sua tensione a chilometri di distanza. Probabilmente sapere che quei tizi potessero essere nelle vicinanze gli dava la pelle d’oca, e non potevo biasimarlo.
Gouenji lo ignorò e si rivolse a Rean:- Ehi, la senti ancora?
Rean annuì lentamente e si abbracciò le spalle, tirandosi la giacca ricevuta sulle braccia come se sentisse freddo. -La sento- bisbigliò. –E c’è anche qualcun altro… Si avvicinano…
Mentre parlava, un soffio di vento gelido mi solleticò la nuca scoperta e mi fece rabbrividire. Al mio fianco, Kazemaru ed Endou ebbero un simile sussulto e Afuro si accigliò.
Non era una semplice folata di vento: sembrava più che si stesse per alzare la bora, come succedeva in Hokkaido. Rean provò ad accendere una fiamma nel palmo delle proprie mani, ma era debole e spossata e il vento spegneva il fuoco ogni volta che riusciva a scoccare qualche scintilla. Non era una situazione normale.
-Ehi, voi due- Gouenji si rivolse ai gemelli con aria di rimprovero –cosa state combinando?
-Noi non stiamo facendo niente!- Shirou gli scoccò un’occhiata offesa. -Tanto perché tu lo sappia, non siamo certo gli unici a saper creare una bufera di neve! Un sacco di gente della categoria Vento sa manipolare gli agenti atmosferici...
Gouenji considerò l'idea per un momento, poi spostò lo sguardo su Atsuya. -Se non è opera vostra, non potete almeno fare qualcosa per fermarla?
-Ci sto provando- borbottò Atsuya, con un’espressione contrita. Strizzò gli occhi e irrigidì i pugni fino a farsi sanguinare i palmi con le unghie conficcate nella pelle, ma pur con uno sforzo enorme, non sembrava in grado di controllare il fenomeno, né tantomeno di fermarlo. Aveva un’aria talmente penosa che persino Afuro, benché fosse ancora arrabbiato con lui, smise di tenergli il broncio e si girò a fissarlo con preoccupazione.
-Atsuya- Shirou chiamò il fratello con preoccupazione e ricevette in cambio un’occhiata afflitta.
-Non ci riesco, Shirou, non…- la voce di Atsuya si spezzò in un verso di frustrazione. 
-Cosa succede?- domandò Gouenji.
Shirou gli lanciò uno sguardo d’avvertimento, come per minacciarlo di non venirgli vicino, e Gouenji ricambiò con un’occhiata perplessa; poi, d’un tratto, la sua espressione divenne un misto di incredulità e compassione.
-Non riesci ad usare i tuoi poteri, vero?- disse, cupo.
Atsuya scosse con forza il capo, ostinato: non sembrava che volesse ammetterlo, neanche ora che Gouenji l’aveva detto e la verità appariva chiara a tutti.
-Come è possibile?- esclamò Kazemaru, confuso. -Non sapevo che fosse possibile perdere il proprio dono!
-Io non ho perso niente!- ringhiò Atsuya con rabbia. Si era morso il labbro inferiore fino a spaccarlo. Kazemaru era sul punto di ribattere, ma s’interruppe con uno starnuto: mentre discutevamo, il vento era diventato ancora più freddo e insistente, tanto che intravidi a stento il familiare riflesso del metallo che rifrangeva la luce del sole.
Ancora prima di vedere bene il profilo della lama, lanciai un urlo e Atsuya si girò giusto in tempo per vedere la spada piombargli addosso. Shirou reagì più velocemente di lui e lo spostò con uno spintone, gridando di dolore quando la lama aprì un taglio nel suo braccio; uno schizzo di sangue sporcò i suoi vestiti e quelli del fratello, ma il nemico non si fermò e roteò nuovamente la spada, puntando di nuovo su Atsuya.
-Non farlo!- Afuro gridò e, nell’esatto istante in cui l’ordine lasciò le sue labbra, la spada si bloccò a mezz’aria, restando a pochi centimetri dal viso di Atsuya. Shirou era piegato a terra e si reggeva il braccio sanguinante, con una smorfia contrita in volto.
Tutto sembrava immobile.
Atsuya iniziò ad arretrare lentamente, quasi senza osare respirare, per mettersi fuori dalla portata della spada e al contempo abbassarsi verso Shirou. Afuro aggirò i due gemelli e si avvicinò con cautela alla figura incappucciata.
-Non muoverti- disse, con la voce carica di energia. –Ora abbassa l’arma.
Dopo un attimo di esitazione, la spada cominciò a scendere con lentezza; le braccia dello sconosciuto tremavano, probabilmente nello sforzo di rompere l’incantesimo di Afuro. Il biondo si fermò, restando ad appena due metri da lui, e disse ancora:- Abbassa l’arma. Adesso.
La sua voce esercitava una pressione fortissima. Benché odiasse doverlo fare, lo sconosciuto abbassò del tutto la propria spada come da comando. Afuro si lasciò sfuggire un sorriso compiaciuto: pareva avere tutto sotto controllo.
-Bene, così- esclamò. –Mettila a posto. Non ti servirà. Non farai del male a nessuno…
Lo sconosciuto rimase fermo per qualche secondo; poi, piano piano, cominciò ad obbedire all’ordine e rinfoderò la lama, attaccandola alla cinta sotto il mantello. Aveva ancora il cappuccio calato in testa e Afuro si sporse audacemente e glielo tolse, rivelando un volto giovane e apparentemente innocuo. Aveva capelli bianchi sciolti fino alle spalle, un occhio coperto dalla frangia e uno chiuso, in un apparente rifiuto di guardare Afuro negli occhi.
Poi, inaspettatamente, la sua bocca si piegò in un sorriso sbilenco.
Un brivido mi corse lungo la schiena, non sapevo se per il freddo o per la paura. Mi venne voglia di urlare ad Afuro di allontanarsi, finché poteva, ma la voce mi restò bloccata in gola quando lo vidi cadere all’indietro, colpito da qualcosa. Atsuya si mosse in fretta per sorreggerlo e Afuro gli cadde tra le braccia, trascinando entrambi a terra.
Non capivo cosa fosse successo, né riuscii ad appurarlo: di colpo il vento si fece più forte, si stava trasformando in un vero e proprio turbine di neve che ci ostruiva la visuale. Gouenji afferrò Rean e la portò subito vicino a sé per proteggerla, e Kazemaru si strinse tra Endou e me. Anche aguzzando la vista, non riuscivamo più a vedere gli altri; il nostro gruppo si era separato e questo non mi piaceva: avevo l’impressione che fosse stato programmato.
E ora, nel bianco, una sola figura stava avanzando implacabile verso di noi.  
La tempesta si placò gradualmente e il ragazzo dai capelli bianchi diventò del tutto visibile: si muoveva con apparente tranquillità, come se stesse soltanto facendo una passeggiata, e non aveva neanche estratto la spada. Quando fu abbastanza vicino, si fermò e ci osservò sorridendo.
Si portò una mano alla bocca e un bagliore dorato gli incendiò le dita: un turbine di fiamme usciva dalle sue labbra, come dalla bocca di un drago. Rean emise un singulto. Sapevo cosa provava: avevo visto solo una persona fare una cosa simile fino a quel momento.
-State giù!- gridò Gouenji, e si abbassò velocemente trascinando Rean con sé. Endou, Kazemaru ed io ci buttammo a pancia a terra, così che il soffio di fuoco oltrepassasse alle nostre teste. Il calore era così intenso da bruciarmi le punte dei capelli. Poi, senza darmi alcun preavviso, Kazemaru si alzò di scatto e, quando il ragazzo ci sputò addosso una nuova scarica di fuoco e fiamme, respinse l'attacco creando un vuoto d'aria davanti a noi. Niente ossigeno, niente fiamme.
-Buona idea- borbottò Gouenji.
Intravidi un sorriso sul volto di Kazemaru: l'allenamento con Diam stava dando i suoi frutti.
-Grande!- esclamò Endou, apparentemente sollevato e fiero del suo ragazzo. Avrei voluto imitare il suo esempio, ma mi resi conto che non era il momento di stare allegri: ora che non c’era più la neve a confondere i miei sensi, mi ero ricordato di Afuro e dei Fubuki. Mi girai a cercarli con lo sguardo e vidi che non si erano mossi da dove li avevamo lasciati, ma tra noi e loro c’erano almeno una decina di metri: evidentemente, eravamo stati noi a spostarci inconsapevolmente, spaesati dagli agenti atmosferici impazziti. Non era soltanto una mia impressione, ci avevano davvero spinti a separarci.
-Kazemaru!- gridai. Lui si voltò ed intuì i miei pensieri.
-Vai- replicò. -Questo qui lo tengo occupato io!
Annuii e cominciai subito a strisciare verso i Fubuki. 
La prima cosa che notai fu che Afuro, svenuto tra le braccia di Atsuya, aveva la parte destra del viso e la frangia dei capelli incrostate di sangue. Atsuya aveva l’aria molto scossa e non mi degnò di uno sguardo mentre spostavo i capelli di Afuro con mani tremanti, ansioso di accertarmi che stesse bene. Tirai un sospiro di sollievo quando vidi che gli avevano solo dato una botta in testa, forse con l’elsa della spada, e che era uscito così tanto sangue solo perché gli avevano spaccato accidentalmente un sopracciglio. Nel frattempo, Shirou si era strappato da solo una manica della maglia e l’aveva annodata intorno al braccio ferito, ottenendo una fasciatura goffa ed improvvisata, che tuttavia era riuscita almeno a bloccare l’uscita di sangue.
Anche se appariva a sua volta molto spossato, era comunque l'unico in grado di parlare, perciò mi rivolsi a lui.
-Cos'è successo?- chiesi, e subito dopo:- Perché Atsuya non riesce più ad usare i suoi poteri?
-Non lo sappiamo- rispose Shirou, esausto.  -È così da quando...- S'interruppe di colpo e spalancò gli occhi, fissando spaventato qualcosa alle mie spalle. Mi girai di scatto e vidi una seconda figura incappucciata in piedi, quasi per ergersi sopra di noi.
Aveva lunghi capelli argentei legati in una coda, un chakra sulla fronte, e al suo collo era appesa una targhetta sbiadita su cui si leggeva il nome "Coyote". Si mosse più rapidamente di quanto mi aspettassi e affondò un fendente diretto al mio fianco, che riuscii a scansare a malapena; la lama mi lacerò la maglia e sfregò contro la pelle lasciandomi un graffio di qualche centimetro.
Mi piegai per il dolore, ed istintivamente afferrai il manico della spada con la mano destra nell'intento di allontanarla da me - in quell'istante una miriade di immagini spezzettate mi travolse, mani che si tendevano, fiumi di sangue, bocche spalancate ed occhi spenti. Coyote mi strappò l’elsa di mano e mi spinse via, gettandomi per terra, ma io avevo visto.
Avevo visto le persone a cui la sua spada aveva tolto la vita.
Coyote balzò all’indietro e rimase immobile a fissarci da una distanza di un paio di metri, mi studiava con curiosità e non sembrava avere intenzione di attaccare. Senza staccare gli occhi dai suoi, cercai di raccogliere il mio potere come mi aveva insegnato Kidou, ma le immagini che avevo assorbito mi impedivano di concentrarmi: continuavano a riaffiorarmi in testa, a pezzetti, accalcandosi l’una sull’altra con prepotenza. C’era così tanto sangue che mi veniva da vomitare. Coyote non si muoveva ed io rimasi a fissarlo senza osare abbassare la guardia, anche se concentrarmi su un unico punto diventava sempre più difficile.
Alla fine, il ragazzo dai capelli argentei fu il primo a ritrarsi dal confronto visivo e mi diede le spalle, incamminandosi verso la battaglia ancora in corso tra il suo compagno e Kazemaru. Vedendolo arrivare, Endou scattò in piedi e balzò alle spalle di Kazemaru, in modo da coprirlo in caso di attacco.
Per un attimo temetti che Coyote volesse attaccare Endou e Kazemaru, invece accadde qualcosa d'inaspettato: dopo essersi scambiati appena un’occhiata, i due ragazzi si dileguarono saltando e correndo sui tetti come ninja. Endou e Kazemaru restarono ad osservare la loro fuga, sorpresi e allo stesso tempo inquieti, come se non lo credessero possibile.
Solo quando, passati un paio di minuti, fu chiaro che i due non sarebbero tornati, Endou si rilassò e Kazemaru corse verso di me, tendendo le mani in avanti per sostenere la mia caduta.
-Stai bene?!- mi chiese, allarmato.
-Scusami… è come se avessi le gambe di gelatina- borbottai facendo una smorfia.
Poco dopo si avvicinarono anche Endou e Gouenji, e quest'ultimo stava ancora trascinando Rean con sé : non appena la lasciò andare, la ragazza si lasciò scivolare sul bordo sporco della strada, si strinse nella giacca che le era stata data e si mise a fissare il marciapiede con aria vacua. Gouenji le gettò un'occhiata esasperata, poi decise di lasciarla stare e s’inginocchiò invece accanto a Shirou.
-Ehi, detective, non fare quella faccia. Va tutto bene… questa volta è solo un taglio superficiale, una cosetta da nulla- mormorò Shirou, abbozzando un sorriso. Gouenji scosse il capo mentre osservava crucciato la fasciatura improvvisata sul braccio dell’altro.
-Midorikawa, come ti senti?- domandò Kazemaru.
-Sto già meglio, non preoccuparti- risposi scrollando le spalle. Sentivo veramente la forza tornarmi nelle gambe e nelle braccia e la mia vista stava tornando normale. Feci un profondo respiro e mi staccai da Kazemaru. -Dobbiamo tornare alla base. Direi che abbiamo parecchie cose di cui parlare... Ma non qui- aggiunsi, serio.
Gouenji, Endou e Kazemaru lanciarono in contemporanea una breve occhiata verso Rean, e poi verso Afuro.
-Parlare qui sarebbe pericoloso- convenne Gouenji. -Inoltre, Rean, Afuro e Shirou hanno bisogno di cure.
-Sarà complicato trasportare tutti e tre… probabilmente dovremmo metterci in contatto con l’agency e chiedere di mandare qualcuno a prenderci- suggerì Endou.
-Giusto- mormorò Kazemaru, lanciando uno sguardo preoccupato ad Atsuya, il quale non sembrava per niente collaborativo al momento. Sospirai e tirai fuori il mio telefono.
-Bene, so già chi chiamare- dissi.


Dovemmo aspettare circa un’ora e mezza prima di vedere la monovolume di Marco Maseratti comparire alla fine della strada. L’italiano parcheggiò alla bell’e meglio in mezzo alla strada e abbassò il finestrino scuro, rivelando la presenza di molti altri passeggeri.
-Hanno insistito per venire quando hanno capito che si trattava di te- esclamò Marco ridendo. -Hai molti amici, eh?
Sorrisi. –Per fortuna- risposi, e Diam si affacciò sulla spalla di Marco.
-Reize, stai bene?- gridò. Marco fece una smorfia.
-Stai a due metri, che urli a fare?- esclamò in italiano.
-Amico, non capisco nulla quando parli in quella lingua strana.
-Voi usate tre alfabeti di simboli diversi, e quello con la lingua strana sarei io?
Diam scrollò le spalle, aprì il suo sportello e scese dal posto davanti per venirmi incontro. Aprii le braccia, già preparato ad uno dei suoi abbracci spaccaossa.
Dai sedili di dietro scese anche Maki, il che era stata decisamente un’ottima idea: la ragazza osservò per un istante la situazione e si avvicinò subito a Gouenji e Shirou.
-Puoi mostrarmi il braccio, per favore?- chiese con un sorriso.
Shirou esitò e alzò il viso verso Gouenji con aria interrogativa.
-Maki ha un dono curativo- disse Gouenji, rispondendo ad un’implicita domanda, e aggiunse con un sorriso rassicurante:- È anche più veloce di un medico per ferite come queste, e non ti farà alcun male.
Nonostante sembrasse ancora dubbioso, Shirou Fubuki tese il braccio davanti a sé per permettere a Maki di esaminare le sue condizioni.
-Ti tolgo la… fasciatura- disse Maki, guardandolo negli occhi per accertarsi di avere il suo permesso. Shirou sussultò lievemente quando le dita della ragazza toccarono il suo braccio, ma non oppose resistenza e si lasciò togliere il pezzo di tessuto inzuppato di sangue senza protestare.
-Wow, che brutta- commentò Diam con un fischio.
Maki studiò la ferita con cura e sospirò di sollievo, poi sollevò il viso per incrociare gli occhi di Shirou.
-Dammi cinque minuti e starai bene, te lo prometto- affermò.
-Starai una favola- disse Marco, in italiano, poi tornò rapidamente al giapponese:- Te lo assicuro, questa ragazza è un portento, l’ho vista all’opera personalmente!
-Ed è anche uno spettacolo vederla usare il suo dono. Giuro, non riesco a distogliere lo sguardo- aggiunse Diam. Maki sorrise con imbarazzo, compiaciuta dei complimenti.
Anche senza dirlo esplicitamente, io ero assolutamente d’accordo con loro: vedere il potere di Maki all’opera era sempre bello, creava un’atmosfera a dir poco magica. Il dono di Maki, del tipo Foresta, ci ricordava che tutto si può aggiustare.
Anche Shirou parve colpito dalle sue capacità e osservò con grande attenzione tutta la procedura; quando Maki terminò, la pelle era come nuova, liscia e intatta. La ragazza esortò Shirou a piegare il braccio e lui obbedì; dopo un paio di movimenti, sorrise.
-È perfetto- disse, grato. Maki annuì con vigore, si mise in piedi e si diresse verso Afuro, la cui ferita era molto più piccola. Maki impiegò poco meno di un minuto a rimetterla a posto. Quando si rialzò, le mostrai il graffio che avevo sul fianco e lei guarì rapidamente anche me.
-Ho finito! Sono felice che non ci fossero ferite più gravi- esclamò alla fine.
-Bene, allora torniamo alla base- esclamò Marco. –Tutti dentro, forza!
Mentre Endou, Kazemaru e Diam sollevavano Afuro ed insieme lo caricavano all’interno dell’auto, Gouenji si rivolse a Shirou.
-Riesci a camminare?- chiese, scettico.
-Certo- ribatté Shirou, ma le gambe gli tremavano e il modo in cui barcollò quando cercò di alzarsi in piedi lo tradì praticamente subito. Sospirando, Gouenji gli si avvicinò, si piegò e lo prese tra le sue braccia, non senza sforzo.
Shirou gli scoccò un’occhiata incredula e le sue guance si colorarono di rosso. Gouenji gli sorrise.
-Allora, che effetto fa- disse a bassa voce, -stare tra le mie braccia?
Shirou preferì nascondere il viso nella sua maglia per dissimulare il proprio imbarazzo piuttosto che ribattere. Era strano non sentirlo rispondere per le rime ad una provocazione, ma ancora più insolito era non sentire Atsuya protestare davanti a una scena del genere.
Dopo che gli avevamo tolto Afuro dalle braccia, Atsuya si era alzato in piedi a fatica, rifiutando però qualunque aiuto: il suo solito atteggiamento sfrontato e arrogante pareva essere svanito insieme al suo dono, lasciando solo frustrazione e smarrimento.
Lo seguii con lo sguardo mentre mi passava davanti ed entrava in auto. Solo allora, girandomi indietro, mi resi conto Rean non si era mossa dalla sua posizione fetale, rannicchiata a terra con le mani premute sulle orecchie. Stavo per tornare a prenderla, ma qualcuno mi precedette. Si trattava di IC. Preso com’ero da Maki, Marco e Diam, non avevo per niente notato la sua presenza. Mi stupiva vederla lì, senza la protezione del fratello, poi ricordai che IQ stava lavorando all'agency. Probabilmente non si era nemmeno accorto che IC era uscita, anche se in situazioni normali non le avrebbe mai permesso di andare da sola.
IC andò decisa verso Rean. Diam si accorse che la fissavo preoccupato e mi diede una pacca sulla spalla per attirare la mia attenzione.
-Lasciala fare, sa il fatto suo- disse.
Annuii e tornai ad osservare la scena. Intanto, IC era avvicinata a Rean. Le si inginocchiò accanto e le prese le mani con delicatezza, spostandogliele dalle orecchie. Iniziò a parlarle con voce calda e rassicurante.
-Mio fratello mi tiene sempre la mano quando ho paura- le disse. -Se vuoi, puoi tenermi la mano. Non piangere qui da sola.
Rean alzò il viso rigato di lacrime, sorpresa che qualcuno le stesse rivolgendo la parola, e IC le offrì un sorriso molto dolce, uno di quelli che faceva sciogliere tutti. Poi tirò fuori un fazzoletto e le asciugò il viso dalle lacrime. Stranamente, Rean non oppose resistenza; sembrava che la presenza di IC, in qualche modo, la rendesse docile. Alla fine IC la aiutò ad alzarsi e, senza mai lasciarle la mano, la guidò verso di noi.
Una volta entrati tutti, la macchina era più che piena.
-Mmm, dovrò modificarla ulteriormente- osservò Marco. -Già pensavo di metterci una purorape quando torno a Venezia… sapete, per andare nei canali…
-Una puro-che?- domandò Endou sollevando un sopracciglio.
Marco guardò rapidamente il proprio tablet. -Scusate, “elica”. Volevo dire “elica”. Ew, la vostra lingua è un casino, non si può sbagliare una sillaba…
Mentre il motore si metteva in moto con un ruggito, sentii le ragazze parlare nella fila di dietro e Maki offrire a Rean di confezionarle un vestito nuovo una volta tornati all’agency. Diam sorrise e mi sussurrò:- Visto? Lascia fare a loro, tra ragazze si capiscono molto meglio. Per me sarebbe più semplice trattare con gli alieni.
Non potei fare a meno di ridere alla sua battuta e lui fece un’espressione soddisfatta.
-Ah, ti ho fatto ridere- esclamò. –È da prima che hai un’aria afflitta… Se fai quella faccia, ti verranno le rughe sulla fronte! Allora, vuoi dirmi cosa ti preoccupa?- Cercava di buttarla sullo scherzo, ma la sua voce tradiva una nota di apprensione. Scrollai le spalle e scivolai contro lo schienale del sedile, mettendomi a giocherellare con il tessuto sfilacciato dei miei jeans strappati.
-Ho visto delle cose che non mi sono piaciute, tutto qui- risposi, parlando a bassa voce, così che potessero sentirmi solo lui e Kazemaru, che era seduto al mio fianco, dal lato opposto di Diam.
-Prima… durante il combattimento, ho istintivamente afferrato l’elsa della spada per allontanarla da me e… Ho visto delle immagini, tutte le persone che quella spada aveva ucciso, e c’era così tanto sangue… Loro… loro li fanno letteralmente a pezzi- mormorai, e rabbrividii al solo ricordo.
-Mi fa venire la nausea anche solo il pensiero, è una cosa orribile- sussurrò Kazemaru, il cui colorito olivastro suggeriva effettivamente che stesse per vomitare. Gettò un’occhiata dietro di sé e lasciò vagare lo sguardo su Rean e IC per qualche istante prima di tornare a guardarmi con serietà.
-Bonitona… Honoka, la sorella di Rean… è morta, vero?
Inspirai profondamente e risposi in un soffio:- Sì. Io l’ho vista.
 
xxx
 
Quando tornammo all’agency, il corridoio del piano terra era deserto: gli impiegati erano tutti chiusi negli uffici a lavorare, mentre gli agenti in servizio e le Spy Eleven erano probabilmente occupati con l’addestramento.
Lasciammo IC e Maki a occuparsi Rean, mentre Marco ed Endou portavano Afuro all’infermeria perché potesse riposarsi; dopo qualche minuto di discussione Gouenji riuscì a convincere anche Shirou ad andarci. Atsuya seguì il fratello senza dire una parola, né a lui né ad altri, e non si arrabbiò neanche una volta con Gouenji: aveva fatto tutto il tragitto in silenzio, con lo sguardo basso e un’espressione sconfitta. Sembrava… vuoto, come se qualcuno gli avesse strappato una parte di sé.
-Ehi Diam, ti va di aiutarmi un po’ con gli allenamenti?- Kazemaru si rivolse a Diam con entusiasmo: probabilmente era compiaciuto di essere riuscito a sfruttare in un vero combattimento la tecnica su cui si stava esercitando e voleva migliorarsi ancora. Raccontò a Diam quanto era accaduto e l’altro ragazzo si illuminò come un albero di Natale.
-Wow, cioè, è una cosa fantastica! Certo che ti aiuto!- esclamò ridendo. -Reize, vieni con noi?
Ero felice per loro e sollevato che non volessero escludermi, però scossi il capo e rifiutai con gentilezza. -Scusate, sono ancora un po’… stordito.
Kazemaru studiò il mio viso per qualche secondo, poi mi diede un veloce abbraccio.
-Va bene, raggiungici quando vuoi- disse staccandosi.
Anche Diam approfittò del momento per abbracciarmi, giusto perché poteva, poi i miei due partner si allontanarono insieme lasciandomi da solo.
Mi lasciai sfuggire un lungo sospiro di stanchezza.
Non riuscivo a fare a meno di pensare ad Atsuya Fubuki e chiedermi cosa gli fosse successo; avrei voluto che le mie brutte sensazioni e gli indizi che avevo si unissero magicamente, regalandomi una soluzione concreta. Il suo dono, il team di Garshield, le persone scomparse… tutto doveva essere collegato in qualche modo, e il fatto che quel collegamento continuasse a sfuggirmi era terribilmente frustrante. Sapevo di doverne parlare con qualcuno. In condizioni normali, Gazel sarebbe stata la mia prima scelta, ma era ancora in ospedale e non sarebbe rientrato per almeno un’altra settimana. Hiroto non mi avrebbe certo detto di no, anzi mi avrebbe ascoltato volentieri e con gentilezza, ma lui aveva già moltissime preoccupazioni ed io non volevo aggiungerci le mie.
Alla fine, decisi di cercare Hitomiko e rivelarle i miei dubbi: lei di certo avrebbe saputo cosa fare.
Mi affacciai rapidamente all’ufficio dove sapevo che lavorava Fumiko e le chiesi se Hitomiko era in ufficio: mi rispose di averla vista entrare in sala conferenze qualche ora prima e che da lì non era più uscita. Mi fermai davanti al grande archivio che stava davanti alla porta della sala riunioni e d’un tratto mi resi conto che probabilmente anche Seijirou e qualche altra Spy Eleven avrebbero potuto trovarsi lì, cosa che mi metteva abbastanza in soggezione. Magari avrei dovuto aspettare di parlare con Hitomiko quando era da sola, nel suo ufficio: in una situazione del genere, sarei anche riuscito ad essere più calmo.
Cambiai idea sul bussare e tornai indietro, uscendo dall’ufficio sotto lo sguardo accigliato di Fumiko. Aveva sempre pensato che fossi un po’ pazzo; in effetti, non facevo altro che darle motivi per crederlo. Appena chiusi la porta dietro di me, qualcuno la riaprì di slancio dall'interno e mi venne addosso. Intravidi un guizzo di rosso prima di cadere a terra. Quando alzai lo sguardo, stordito, riconobbi subito la persona che mi stava davanti. Ovviamente.
-Hiroto?!
Capii subito che qualcosa non andava. Un’ondata di sentimenti orribili mi travolse: ansia, paura e forse il dolore più intenso che avessi mai percepito. Il suo viso sembrava ancora più pallido sotto le luci al neon. Non riuscivo a vedere i suoi occhi, nascosti sotto la lunga frangia.
Mi tirai in piedi di scatto e gli afferrai le spalle.
-Hiroto! Hiroto, cos’hai?!- esclamai, allarmato dalle sue condizioni.
Non mi rispose, sembrava non avermi nemmeno riconosciuto; d’un tratto, un tremito gli attraversò tutto il corpo e lo fece sussultare. Istintivamente sollevò una mano, afferrò il mio polso per spostarmi e, in quell’esatto momento, una sensazione di gelo bruciante mi pervase il braccio destro, dal gomito fino alla punta delle dita. Mi sfuggì un gemito di sorpresa e sofferenza. Prima che mi rendessi conto di cosa fosse successo, Hiroto mi allontanò da sé con uno spintone talmente forte che per poco non mi buttò di nuovo a terra.
-No… non devi… Non toccarmi!!- gridò, la sua voce rimbombò nell’intero corridoio. Mentre alcune persone si voltavano a guardarci, Hiroto mi aggirò e corse via verso le scale.
Stordito, ignorai gli sguardi curiosi e perplessi puntati su di me e piegai lievemente il braccio destro: non mi faceva male, ma si era completamente intorpidito, come se fosse stato a lungo immerso in una vasca di cubetti di ghiaccio. La circolazione del sangue si era bloccata e ci volle qualche istante perché i miei  polpastrelli riprendessero un po’ di colore.
Il tocco mortale, mi tornò di colpo in mente.
Un’anestesia totale… e la morte.
Mi portai la mano sinistra sul cuore, che batteva nel mio petto come un martello impazzito.
Rabbrividii e mi paralizzai, mentre il pensiero che Hiroto avesse usato il suo potere su di me mi riempiva di terrore. Avevo avuto l’impressione che qualcuno mi avesse strappato il braccio, e se quello era solo un assaggio di ciò che Hiroto poteva fare, allora avrebbe potuto…
Scossi il capo con forza, come per scacciare fisicamente i cattivi pensieri. Mi imposi di restare calmo mentre con respiri profondi reprimevo l’ansia.
Hiroto non mi avrebbe mai fatto del male volontariamente.

Di certo non era in sé; sembrava che qualcosa lo avesse sconvolto, o peggio... 
La paura era quasi del tutto scomparsa, tuttavia non riuscivo a scrollarmi di dosso un senso di  allarme; chiusi gli occhi e ripercorsi mentalmente gli ultimi istanti, concentrandomi sui dettagli che avevo notato e sui sentimenti che avevo percepito. E capii perché mi sentivo così male.
Hiroto aveva il volto bagnato e le labbra tremanti. Hiroto, che non mostrava mai il proprio dolore a nessuno, stava piangendo.



 


**Angolo dell'Autrice**
Buongiorno a tutti!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, nonostante l'angst... Personalmente, sono stata felice di poter infilare dei pezzi più "fluff" e divertenti con la presenza di Diam e Marco, o gli accenni GouFubu (a tal proposito, qualcuno ha riconosciuto la battuta di Gouenji? Ho usato praticamente la stessa frase nel primo capitolo in cui appaiono i Fubuki, perché mi sembrava un'idea carina, ahah), o anche gli accenni DiaMaki.
Altre note non davvero necessarie per la comprensione del capitolo, ma che vi metto lo stesso per curiosità: 1) quando Atsuya se la prende con Gouenji, lui usa la pressione sul polso per capovolgere la situazione; questa è una delle mosse che riguarda i "punti di pressione" insegnante nelle arti marziali; 2) l'errore di Marco è spiegabile perché inverte erroneamente dei kanji nella pronuncia: nel caso specifico, un modo comune di dire "elica" è "puropera" (cioè la trascrizione dell'inglese "propeller"), e Marco sbaglia mettendo il terzo kanji "pe" alla fine, ottenendo una parola che non ha senso. Ho sentito una ragazza alla mia università fare lo stesso errore e mi sembrava divertente, lol.
Passando a cose più serie... la parte finale del capitolo preannuncia il contenuto fondamentale dei prossimi capitoli: la storia di Hiroto, il passato di Seijirou e suo figlio, l'importanza del dono di Hiroto. E, naturalmente, la spiegazione dietro all'esistenza del team Garshield e alla situazione di Atsuya. 
Spero di avervi incuriositi... Di recente alcune persone mi hanno detto di essersi fatte delle idee e di avere delle teorie sulla trama di Spy Eleven... questa cosa mi rende felicissima! Mi piace l'idea che chi legge possa farsi una propria opinione.
Grazie ancora del vostro sostegno ♥
Alla prossima,
               Roby

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Capitolo 39
*** Mission 39. ~Hiroto's Arc. ***


Ci tenevo ad aggiornare prima di partire, perciò tra ieri e oggi mi sono impegnata a finire questo capitolo. L'ho riletto molte volte per evitare errori, spero che non ce ne siano... In ogni caso, vi auguro una buona lettura 

-Hiroto! Hiroto, so che sei dentro… per favore, aprimi!
Non mi rispose.  
Stavo davanti alla sua camera da almeno dieci minuti, sbattendo le mani contro la porta chiusa a chiave e gridando il suo nome. Ero certo che Hiroto fosse là, perché era corso al piano di sopra e perché, anche se non voleva parlarmi, riuscivo a percepire ugualmente la sua presenza.
Ma lui continuava a non rispondermi, avevo persino dubbi sul fatto che mi stesse ascoltando.
-Hiroto… ti prego! Se non mi dici cosa c’è che non va, non posso aiutarti! Apri la porta, ti prego!- mi sforzai di urlare, un singhiozzo mi interruppe sull’ultima sillaba. Mi passai velocemente il dorso del braccio sul viso per fermare le lacrime che già stavano sgorgando, ma ero stanco e frustrato ed il pianto premeva per uscire; un altro singhiozzo lasciò le mie labbra, poi un altro, e non riuscii più a fermarmi. Ma nemmeno le mie lacrime riuscivano a smuovere Hiroto, e sapevo che era egoista anche solo sperare in una cosa del genere.
Mi morsi il labbro, incerto sul da farsi: non volevo arrendermi subito, ma c’era davvero altra scelta? Come potevo convincere una persona che probabilmente non mi stava neanche ascoltando? La situazione appariva irrisolvibile, oltre che incredibilmente scoraggiante.
-Midorikawa?
Mi voltai di scatto e vidi Endou alla fine del corridoio. Indossava ancora gli stessi vestiti della missione, forse tornava proprio in quel momento dall’infermeria.
-Afuro sta ancora riposando… ha avuto una bella botta, eh? Se penso a cosa ci siamo scansati… Cavolo, mi sento tutto a pezzi- esclamò Endou, si afferrò la spalla destra e ruotò il braccio, lasciandosi sfuggire una piccola smorfia sofferente.
–Però volevo raggiungere Ichirouta giù in sala addestramento, giusto il tempo i cambiarmi in stanza e… ma tu cosa ci fai qui?
Mentre parlava, Endou si era avvicinato: gli bastò guardarmi bene in faccia per notare quanto fossero arrossati i miei occhi. La sua espressione diventò subito allarmata.
-Oddio, qualcosa non va? Sei ferito anche tu? Devo chiamare Ichirouta?
Io scossi il capo e accennai alla porta della stanza.
-Io sto bene, ma Hiroto… lui… non vuole aprirmi- riuscii a dire, mentre mi asciugavo nuovamente le lacrime.
Endou mi fissò per un lungo minuto e annuì appena alle mie parole, poi si frugò nella tasca dei pantaloni e tirò fuori una chiave argentata. La infilò nella serratura, girò e, trovandola bloccata, sbuffò esasperato; provò ancora un paio di volte, forse nel tentativo di spingere fuori la chiave che Hiroto aveva lasciato dall’altra parte, ma poi ci rinunciò e sbatté le mani contro la porta, esattamente come avevo fatto io fino a pochi minuti prima.
-Fammi entrare, Hiroto!- gridò. -Non puoi… non puoi rimetterti a fare così, di punto in bianco! Sai che non posso aiutarti così! Vieni fuori e dimmi tutto!
-L’ha già fatto prima?- chiesi, sorpreso. Endou mi scoccò un’occhiata apprensiva.
-Sì, lo faceva spesso da bambino. Ogni volta che aveva paura, si nascondeva in camera sua e dovevo andare a prenderlo...- spiegò, si fermò un attimo.
-Pensavo che avessimo superato quella fase…- borbottò subito dopo, con una mezza smorfia.
Mi girai per un attimo verso la porta, poi tornai a guardare Endou, dubbioso.
-Credi… Credi che abbia paura…?- Non sapevo precisamente di cosa, ma avevo la sensazione che fosse così.
-Io… be', non lo so. Prima sì, ma adesso…- Endou si rabbuiò, preoccupato. -Tu non hai nessuna idea del perché si comporti così?
-Io… No, non saprei. Stavo cercando Hitomiko, quando Hiroto è uscito di corsa dalla sala conferenze e mi ha praticamente buttato all’aria… Sembrava molto scosso…
Endou considerò le mie parole e, dopo quella che parve un’intensa riflessione, si girò e corse verso le scale.
-Dove vai?- lo richiamai. Lui si fermò per rispondermi.
-A parlare con Hitomiko! Restare là davanti adesso non serve… Magari Hitomiko potrà darci una vaga idea su cosa succede!-.
Gettai un’occhiata sconcertata alla porta, esitando. Non volevo che Hiroto fosse completamente solo, senza nessuno intorno, però Endou aveva ragione: restare ad aspettare non avrebbe aiutato nessuno. Inoltre, le cose che avevo visto in missione pesavano ancora sulla mia mente e sentivo di dovermi accertare al più presto dei miei sospetti riferendoli a qualcuno che potesse aiutarmi.
-Vengo con te!- dissi, e seguii Endou verso la sala conferenze.
 
xxx
 
Vedendomi tornare dopo nemmeno mezz’ora, Fumiko mi scoccò un’occhiata interrogativa. Come pensavo, doveva essersi convinta che fossi pazzo e di certo lo stato dei miei vestiti non aiutava a farmi sembrare sano.
-Dobbiamo parlare con Hitomiko. È dentro?- domandò Endou, senza preoccuparsi affatto di tenere la voce bassa. Né lo sguardo sospettoso di Fumiko, né quelli curiosi degli impiegati seduti ai computer della stanza sembravano innervosirlo; era concentrato, determinato, e quando aveva in testa una cosa nulla poteva distrarlo dal compito che si era affidato da solo. In quel momento, la preoccupazione per la salute di Hiroto era la sua questione prioritaria: lo ammiravo, per questo, e non mi ero mai sentito tanto vicino a lui nel modo di pensare.
-Hitomiko-san è qui, naturalmente- rispose Fumiko, indispettita. -Ma non credo che voi due abbiate il permesso di entrare, è in corso un incontro molto importante tra Kira-san e Kudou-san e voi non…
-Allora chiedile di uscire un attimo. È una cosa davvero importante- la interruppe Endou. La ragazza lo guardò indignata.
-Non so cosa possa essere più importante di studiare i piani del nemico, in un momento del genere! Voi ragazzi… siete tutti uguali! Avere dei poteri speciali non significa poter fare tutto quello che vi pare!- esclamò, infervorandosi. Si alzò in piedi e agitò in aria la lavagnetta che teneva in mano con tanta foga che Endou si dovette spostare per non riceverla in faccia.
-Come ho cercato di spiegare a Kiyama prima, ci sono questioni in cui sarebbe più prudente non mettere il naso, ma lui naturalmente nooo, non ha voluto ascoltarmi!- aggiunse Fumiko; di colpo la sua rabbia si affievolì, sembrava turbata. -E poi è uscito così sconvolto, poverino, devono averlo cacciato, o suo padre deve averlo sgridato… Non avrebbe dovuto entrare…
Endou ed io ci scambiammo un’occhiata preoccupata.
Era davvero andata così? Hiroto era semplicemente scosso perché Kira non gli aveva permesso di partecipare ad una riunione? Sembrava un motivo così banale, non avrebbe spiegato a sufficienza quello che era accaduto tra me e lui; Hiroto non era solo sconvolto, era come se qualcosa lo avesse distrutto. Ma era stato davvero qualcosa che gli aveva detto Kira? Non conoscevo molte altre persone che potessero avere tanta influenza su di lui…
Endou aprì la bocca per rispondere a Fumiko, ma prima che potesse dire anche solo una parola la porta della sala riunione si aprì e un uomo molto alto apparve sull’uscio. L’occhio che non era nascosto sotto i ciuffi dei capelli violacei si spostò subito su di me, inchiodandomi sul posto con l’intensità del suo sguardo, poi si chiuse. Kudou si passò una mano sul volto e lasciò andare un sospiro prima di prendere la parola.
-Midorikawa- pronunciò il mio nome lentamente, a bassa voce.
-Tempismo perfetto, che fortuna- aggiunse, e il suo tono stanco ed amareggiato strideva con le parole appena dette: non sembrava ritenersi affatto fortunato. L’uomo spostò lo sguardo su Fumiko e le fece un cenno. Lei si sedette di nuovo, imbarazzata.
-Lascia entrare questi ragazzi. Seijirou ha espressamente richiesto la… loro presenza- affermò. Dal modo in cui aveva esitato, guardandomi, mi parve chiaro che si riferiva soprattutto a me.
Seijurou aveva chiesto di me e riusciva a venirmi in mente una sola ragione per cui l’avesse fatto.
-Bene- replicai, afferrai il braccio di Endou e lo trascinai con me mentre seguivo Kudou all’interno della stanza buia.
Quando le passammo accanto, Fumiko strinse le labbra in una linea sottile e distolse gli occhi di scatto: probabilmente si aspettava di vederci uscire a breve, in lacrime, e di doverci dire ‘io ve l’avevo detto’. Non era una possibilità da escludere.
La sala riunioni era immersa in un’atmosfera soffusa, poiché l’unica luce era quella emanata dallo schermo plastico che stava trasmettendo varie immagini. Non mi ci soffermai subito, perché avevo individuato Hitomiko seduta su una delle poltrone della prima fila; non appena mi avvicinai a lei, mi accorsi subito che c’era qualcosa di strano: la donna aveva il capo chino, di modo che i capelli lunghi le coprissero il viso, e si abbracciava il petto con braccia tremanti. Quando le toccai una spalla, lei sussultò e mi guardò e mi parve di intravedere dei residui di lacrime luccicare agli angoli dei suoi occhi.
–Mi scusi- dissi in fretta. -Io… io volevo solo…
Vedendomi in difficoltà, Hitomiko si schiarì la gola.
-Midorikawa…- Si fermò, asciugandosi il viso con la manica della maglia, e abbassò nuovamente il capo. -Sei qui… Mio padre ti stava cercando...- disse con voce spenta. Notai che le sue mani, poggiate sulle sue ginocchia, erano chiuse in pugni così stretti che le nocche diventavano bianche.
Mi guardai intorno, ma non mi sembrava di vedere Seijirou nella stanza.
-Senta, dove…- cominciai, ma Kudou mi interruppe.
-Midorikawa, da questa parte.
Mi girai verso lo schermo che lui stava indicando e finalmente prestai attenzione alle immagini. Per lo stupore ingoiai della saliva e rischiai di soffocarmi, piegai di colpo il capo in una fitta di tosse. Le persone in foto non mi erano estranee: erano le vittime della squadra di Garshield. Le avevo viste morire una ad una solo poche ore prima, attraverso la visione che avevo avuto.
Sentii Endou irrigidirsi e lasciarsi sfuggire un verso strozzato quando sullo schermo apparve anche Bonitona, la sorella di Rean; sullo schermo c’erano entrambi i loro nomi, quelli veri, e accanto a quello della maggiore c’era una croce. Deceduta. Le due non avevano nemmeno lo stesso cognome, secondo le informazioni che stavano comparendo sulla pagina non erano vere sorelle, ma Bonitona aveva preso Rean sotto la sua ala protettiva. Percepii una stretta al petto pensando che l’aveva protetta, a modo proprio, fino alla fine.
-Rean… lei lo sa?- riuscii a mormorare e mi sentii immediatamente triste quando con la coda dell’occhio vidi Kudou annuire.
Dovetti scacciare il pensiero di Rean chiusa in una stanza a piangere per riuscire a concentrarmi di nuovo.
-Queste persone… perché…?- domandai, tremante di rabbia.
Kudou si schiarì la gola; invece di rispondere, sollevò una mano e col telecomando del proiettore cambiò pagina, mostrandoci immagini dei loro corpi lacerati, brutalmente fatti a pezzi. Bonitona aveva la gola lacerata e le dita ancora strette in pugni irrigiditi, con le unghie spezzate. Una nausea fortissima mi fece girare la testa e dovetti mantenermi forte ad una poltrona per restare saldo sui piedi. Endou aveva un colorito olivastro, mi chiesi se non stesse per vomitare.
-Queste persone sono state uccise- disse Kudou lentamente, -per il loro sangue.  
Mi sforzai di distogliere lo sguardo dalle immagini e mi girai a guardarlo.
-Cosa sta dicendo?- chiesi. -Cosa significa?
Kudou sollevò il telecomando e le immagini cambiarono di nuovo, stavolta mettendoci davanti a figure che sembravano copiate da un libro di scienze; alcune rappresentavano il cervello e le sue parti, analizzate nel dettaglio e da varie angolazioni, mentre altre indagavano il sistema dei vasi sanguigni presenti nel corpo umano. C’erano moltissime frecce e grafici di cui non capivo il significato, alcuni dati scritti talmente in piccolo che faticavo a distinguere i numeri.
-I vostri poteri sono doni della natura, questo è sempre stato chiaro ai ricercatori. Ma cosa, esattamente, la natura ha modificato per rendervi differenti dagli umani? Quali processi sono stati attivati e a che livelli? Scoprire questo è il mio lavoro- disse Kudou, serio.
-Alcuni sono convinti che la presenza o meno di abilità speciali dipenda dal sangue, altri dal cervello. Ci sono voluti anni di ricerche per stabilire che dipende da entrambi. I vostri poteri sono dentro di voi, in alcuni casi sono voi: vi plasmano, vi influenzano, talvolta vi controllano. Si sviluppano secondo le vostre inclinazioni e i vostri desideri.
Kudou mi afferrò un braccio all’improvviso; lo guardava come se fosse un oggetto qualunque e non una parte del mio corpo. Non mi piaceva essere considerato un semplice oggetto di studio, ma mi morsi l’interno della guancia e trattenni ogni protesta, perché ero troppo curioso di sentire il resto.
-Se ora estraessi un po' di sangue dal tuo corpo, Midorikawa, non basterebbe certo a toglierti il tuo dono. Ma una grande quantità di sangue?
Un brivido freddo mi attraversò la schiena.
Kudou lasciò cadere il mio braccio. -Ho ragione di credere che Garshield stia prelevando enormi campioni di sangue da drifter di varie categorie. Finora sono stati attaccati due drifter della categoria Fuoco, una della categoria Foresta e due della categoria Vento, più molti altri di cui non sappiamo ancora nulla. Non credo che siano stati uccisi per caso, ma piuttosto che siano stati scelti per un esperimento… Garshield sta cercando di ricreare in laboratorio i doni di queste persone usando il loro sangue.
-Usando il loro… ma è orribile- esclamò Endou, sconvolto. Poi la sua espressione cambiò in repulsione mentre si girava verso Kudou.
-Un momento… i due della categoria Vento sono i gemelli Fubuki, giusto? Quindi è per questo che Atsuya… Lei crede che abbiano rubato il potere di Atsuya? Allora perché non hanno preso anche quello di Shirou? E ora che quei tizi sanno che sono ancora vivi, non pensa che cercheranno di ucciderli di nuovo? Sapendo questo, li avete mandati fuori in missione?- lo accusò, torvo.
-Fubuki Atsuya è stato colpito molto più duramente di suo fratello. Le sue ferite erano molto più gravi, aveva perso molto più sangue, per cui è decisamente plausibile pensare che abbiano rubato il suo potere. Come ti ho detto, inoltre, le persone non sono state prese a caso. È probabile che Garshield avesse più interesse nel dono di uno solo dei due gemelli- spiegò Kudou scuotendo il capo. -Per quanto riguarda il resto, la scelta degli agenti da mandare in missione non spetta a me. Queste sono decisioni delle Spy Eleven. Io sono semplicemente qui per studiare il caso, perché mi è stata richiesta una consulenza. Personalmente, comunque, credo che il team di Garshield non attaccherà più i due Fubuki, non ora che sanno che sono sotto la nostra custodia. Ormai hanno fatto da testimoni, non avrebbe senso continuare a dar loro la caccia… anche se, ovviamente, non esiterebbero ad ucciderli in caso se li trovassero davanti, come è accaduto stamattina.
Endou continuava a guardare l’uomo con aria poco convinta. Anche io avevo i miei dubbi: le parole di Kudou erano tanto logiche e sensate quanto fredde. Mi dava ancora l’impressione che ci vedesse come oggetti di ricerca, e non come esseri umani… che fosse indifferente ai nostri sentimenti. Decisi di cambiare argomento, c’era qualcos’altro che mi premeva molto più di sapere.
-Ha detto che Garshield sta ricreando i poteri dei drifter uccisi… ma è davvero una cosa possibile? Non riesco ad immaginare come potrebbe riuscirci, ma pare che funzioni- chiesi.
Per la prima volta mi parve di vedere Kudou esitare.
-La prego, ce lo dica. A questo punto nulla potrebbe sconvolgerci- aggiunsi serio. Lui sospirò.
-Credimi, non sai quanto ti sbagli… ma a questo punto non ho motivo di nascondervi il resto- replicò.
-Come stavo spiegando prima, non basterebbe estrarre del sangue per rubare un dono… Più che di “rubare”, da qui in poi sarebbe meglio usare il termine “copiare”. Noi crediamo che Garshield stia usando un drifter con il potere della “copia” per appropriarsi dei poteri di altri drifters.
-Quindi c’è un drifter che sta collaborando con lui? Uno della sua squadra?
-Magari fosse così semplice- borbottò Kudou. Alzò il viso verso lo schermo illuminato e mi sorpresi di trovare della tristezza nella sua espressione; forse non era poi così indifferente.
-Non è un membro della sua squadra. Il fatto è che noi sappiamo chi ha il potere della copia che Garshield sta usando… Lo sospettiamo da anni, ma lo sappiamo con certezza solo da un anno.
-Non… non capisco. Se lo sapete, perché non fate nulla per fermarlo?- mormorai, ignorando il senso di vertigine che mi attanagliava lo stomaco.
Mi tornarono in mente le parole di Fumiko e mi venne subito un dubbio. Hiroto era sconvolto per qualcosa che Kira gli aveva detto, o piuttosto per qualcosa che aveva visto?
La risposta era dietro l’angolo, e mi resi conto di quanto avrei voluto evitarla solo quando mi si presentò davanti. Le immagini sullo schermo cambiarono e la verità apparve come una disgrazia.
-Kira Hiroto, il figlio della Spy Eleven di Tokyo, Kira Seijurou, deceduto a dieci anni in circostanze misteriose, è l’unico drifter con il potere della copia che sia mai stato identificato. Era in gita scolastica quando un incidente rovesciò l’autobus su cui viaggiava, nove feriti e un solo morto, il cui corpo non fu mai ritrovato- spiegò Kudou a bassa voce.
Hitomiko si rannicchiò ancora di più su se stessa, tremante, scossa da singhiozzi che a malapena riusciva a soffocare premendosi una mano sulla bocca; la sua voce, stridula e strozzata, mi fece venire voglia di scappare via per non dover più ascoltare. Ma ormai avevo sentito quello che c’era da sentire.
-Avete fatto vedere questo a Hiroto?- esclamò Endou con espressione disgustata. Kudou e Hitomiko rimasero in silenzio, ma un’altra voce, più profonda, si levò dal fondo della sala.
-Esatto- disse Seijirou Kira scendendo a fatica le scale; si fermò circa a metà, con una mano poggiata sul fianco di una poltrona per reggersi e il volto indecifrabile illuminato solo in parte.
-Hiroto non avrebbe dovuto scoprirlo così, ma ormai quel che è fatto è fatto. Si è trovato nel luogo sbagliato al momento sbagliato...
-E lo liquida così? Dopo tutto quello che Hiroto ha fatto per lei?- gridò Endou, paonazzo. Non l’avevo mai visto tanto arrabbiato, era letteralmente fuori di sé. E per un buon motivo.
-Lei sapeva che questa cosa avrebbe potuto ferirlo, e ha preferito che lo scoprisse per caso invece di dirglielo onestamente? “Si è trovato nel luogo sbagliato al momento sbagliato”, ma si rende conto di cosa dice?!
-Se questo è bastato a sconvolgerlo, allora non è abbastanza forte- rispose Seijirou senza muoversi, né modificare la propria espressione.
Gli occhi di Endou erano ardenti, al punto che pareva potessero sprizzare scintille. Per un momento pensai che potesse aggredire Seijurou, ed io non lo avrei certo fermato. Ero arrabbiato, deluso ed incredulo: era davvero quello l’uomo che Hiroto considerava suo padre? L’uomo che noi consideravamo il nostro capo?
-Ah, quindi vuole che diventi più forte?- dissi, disgustato. -Così lei potrà usarlo meglio?- Mi voltai verso Hitomiko con una smorfia. –È per questo che l’hai spinto ad allenarsi di più?
-No! No, non è così, io non…!- gridò Hitomiko, inorridita. Scattò in piedi e provò ad afferrare la spalla di Endou, ma il ragazzo si ribellò scrollando il braccio e si voltò a guardarla torvo.
-Perché gli fate questo? Non ha forse già sofferto abbastanza?- berciò, furioso. Hitomiko scosse il capo con veemenza.
-No! Io... io volevo solo che Hiroto fosse al sicuro- rispose, disperata. -Ero convinta che spingendo Hiroto a controllare il proprio potere, sarebbe stato più protetto… che tutti saremmo stati più al sicuro. Non sapevo che… non immaginavo che mio padre…- La voce le venne a mancare, s’interruppe con un verso soffocato e non riuscì più a parlare.
Endou continuò a fissarla per un po’, poi la sua espressione crucciata si distese.
-È tutto a posto. Io ti credo- le disse, le poggiò una mano sulla spalla. Hitomiko sussultò e si abbracciò stretta, come se avesse freddo. Kudou non si muoveva, pareva che avesse intenzione di non intervenire.
Io tornai a guardare Seijirou Kira; con mille domande in testa, riuscii a stento a farne una.
-Cosa vuole da me?- Sollevai il volto e lo guardai senza paura, anzi speravo che potesse leggere nella mia espressione tutta la rabbia e la delusione che provavo nei suoi confronti.
Seijirou non batté ciglio e iniziò a frugare nell’obi del kimono che indossava, Kudou si decise a muoversi e lo raggiunse: i due parlarono per qualche minuto, poi il ricercatore tornò verso di noi.
Si fermò davanti a me e mi tese un sacchetto di tela scura, che presi con diffidenza; sentivo qualcosa di duro e appuntito sotto le dita, come un pietra.
-Cos’è?- chiesi. Kudou non rispose, chiaramente voleva che io lo scoprissi da solo, perciò tirai con delicatezza le cordicelle che chiudevano il sacchetto, lo rovesciai e a cadermi in mano fu effettivamente una pietra. Era di colore scuro, quasi nero, con riflessi violacei, e la sua superficie era fredda e piena di crepe, come se fosse stata una pietra vulcanica.
Mi morsi il labbro, pienamente consapevole di ciò che Seijirou voleva che facessi; l’avevo immaginato fin dal primo momento in cui mi avevano informato che chiedeva di me. In fondo non era quello che chiedeva anche a Hiroto, di usare il suo potere per aiutarlo?
-Siamo buoni solo a questo, giusto?- mormorai, guardai Seijirou con sfida. -Perché dovrei farlo? Perché dovrei assecondarla?
-Perché sei ancora ai miei ordini, agente Midorikawa- rispose Seijirou, con una calma così fuori luogo da essere fastidiosa. -E perché sono sicuro che anche tu vuoi la verità.
Non dissi nient’altro, mi rigirai la pietra tra le dita un paio di volte e poi, ignorando tutti gli sguardi fissi su di me, la strinsi forte nel palmo della mano.
La visione iniziò praticamente subito, delle immagini opache emersero dal buio per parlarmi, come voci pronte a raccontare una storia, accavallandosi, mescolandosi. C’era un ragazzino con lunghi capelli argentei, poi un ragazzo identico, ma di età maggiore; lo riconobbi subito come uno del team di Garshield, Coyote, con il chakra rosso sulla fronte: la pietra ciondolava dal suo collo, legata ad una catinella. Vidi Bonitona scagliargli addosso un fiume di fiamme, che gli lacerò il mantello e sciolse gli anelli della catena, facendo cadere la pietra a terra. Vidi Bonitona prendere lei stessa la pietra (senza sapere cosa fosse, ma forse immaginando che fosse importante), l’aveva ancora stretta tra le dita quando era morta dissanguata, con il viso rigato di lacrime invece che ornato di veli preziosi. Gli altri due ragazzi morti, invece, non avevano lottato, ma avevano tentato di fuggire (lui era stato colpito di netto alle gambe, lei alla schiena). Atsuya si era messo davanti a suo fratello per proteggerlo, in una notte silenziosa come un sepolcro.
Vidi Coyote stringere una fiala contenente un liquido scuro e chiuderla in uno sportello metallico; una macchina collegata a mille tubicini di plastica portò il sangue rubato ad una vasca trasparente, in cui c’era qualcosa di spesso, grigio, circolare. Non c’era nessun corpo. Kira Hiroto era morto…
Qualcuno nel mondo esterno mi stava chiamando, ma la visione mi risucchiava con molta più forza, al punto che non ero capace di fermare il mio dono.
Garshield era davanti a me – a me che guardavo attraverso gli occhi del ragazzo dai capelli argentei – e lo vidi ghignare mentre mi metteva al collo la pietra. Iniziò immediatamente a mancarmi l’aria, percepivo la catena che si stringeva attorno al mio collo, il metallo dei suoi anelli che bruciava contro la mia gola.
Urlai di dolore e lasciai cadere a terra la pietra.
Benché fossi sicuro che le mie gambe avessero ceduto, non sbattei contro il pavimento.
Qualcuno mi aiutò reggendomi tra le proprie braccia. Qualcuno mi chiamava, ma io non riuscivo a rispondere perché stavo affogando nel buio; faticavo a tenere gli occhi aperti, la mano destra mi bruciava tanto che sembrava avesse preso fuoco e la stanza cominciò a vorticare spaventosamente. Era come se le pareti si stessero ripiegando su se stesse, mi si stavano chiudendo addosso. Chissà se Hiroto si era sentito così… I suoi occhi pieni di lacrime furono l’ultima cosa a cui riuscii a pensare prima di perdere i sensi.
 
xxx
 
Da una finestra vicina entrava un vento tiepido, che mi sfiorava appena il viso come una carezza. C’era un forte odore di polveri medicinali. Non appena presi coscienza di dove mi trovavo, cercai di aprire gli occhi, ma le mie palpebre erano pesanti come cemento e i miei muscoli bruciavano per la stanchezza. Odiavo stare fermo in infermeria, anche se non avevo altra scelta; pian piano i ricordi quanto era accaduto tornarono alla mia mente e mi resi conto di essere svenuto nella sala riunioni. Non sapevo chi mi aveva portato lì. Dopo un po’ qualcosa di fresco e bagnato venne appoggiato sulla mia fronte e sui miei occhi; era una bella sensazione e mi sfuggì un sospiro dalle labbra. Una voce profonda mi sorprese.
-Sei sveglio?- chiese. Riconobbi subito Kudou, perché l’avevo sentito parlare fino a poco prima. Forse. Non avevo idea di quanto tempo fosse passato.
-È stata dura, continua a riposare. Ti farà bene dormire, ti darà tempo per guarire- continuò Kudou, senza aspettare una mia risposta. Sentivo la bocca arida e la gola secca, mi sforzai di parlare, ma l’unico suono che uscì fu una serie di vocali strozzate.
-Vuoi un po’ d’acqua?- Era un miracolo che Kudou avesse capito ugualmente. Annuii con vigore, per quanto potessi, ed alzai una mano alla cieca, aspettando di poter stringere il bicchiere tra le dita; Kudou, tuttavia, prese con delicatezza la mia mano con la propria e mi spinse a riabbassarla.
-Non credo che tu voglia usare subito la mano destra. Sei pieno di tagli… Anzi, credo che sia meglio farti un bendaggio- affermò. Il suo tono era tranquillo e in qualche modo rassicurante, così differente da quello che aveva usato prima.
-Tagli?- ripetei, confuso. Provai a chiudere la mano e il movimento mi procurò subito un dolore acuto e fastidioso, tipo la sensazione di aver infilato degli spilli sotto la pelle.
-Cosa…?- mormorai, cercando di non piangere.
-Hai stretto quella pietra in mano con un po’ troppa forza- spiegò semplicemente Kudou, poi rimase in silenzio mentre si alzava a prendere il necessario per fasciarmi. Udii i suoi passi pesanti allontanarsi e tornare vicino nell’arco di pochi minuti.
Afferrò il mio braccio e lo sollevò con molta più delicatezza di quanta ne avesse usata in precedenza, e subito dopo avvertii al tatto l’ovatta bagnata che mi stava premendo nel palmo, accompagnata da un leggero pizzicore che diventava più forte ad ogni passata. Il bruciore si espanse in tutta la mano, dal polso fino alla punta delle dita e d’un tratto fui grato di non poter vedere lo stato in cui era ridotta la mia mano.
-È solo disinfettante, il bruciore passerà subito. Stringi i denti- mi disse Kudou, confermando i miei sospetti, ed io annuii e serrai la mascella.
Kudou cominciò a fasciarmi delicatamente la mano con quella che doveva essere garza; quando terminò l’operazione e mi consentì di posare nuovamente il braccio sul letto, mi lasciai andare ad un sospiro di sollievo.
Ma non c’era davvero niente di cui essere sollevati.
Deglutii le lacrime e mi feci forza.
-Kudou-san… il corpo di quel ragazzo… non esiste più, vero?- balbettai.
Alla mia domanda seguì un silenzio lungo e soffocante.
-Sì- ammise infine Kudou, in un bisbiglio grave. –È stato conservato solo il suo cervello, perché possa sfruttare il sangue degli altri drifter e copiarne i poteri. Non è nulla più di uno strumento, oramai.
Serrai ancora di più la mascella mentre un pianto isterico mi raschiava la gola. Le lacrime iniziarono a scendermi lungo il volto, assorbite solo in parte dal panno appoggiato sui miei occhi, e strinsi inavvertitamente la mano sinistra nelle lenzuola del letto, l’altra mano rigida e limitata dalla fasciatura. Cercai di parlare un paio di volte, ma ogni volta che aprivo la bocca sentivo il sapore delle lacrime e mi veniva da tossire. Se per me era una cosa terribile, cosa ne pensava Hiroto? Cosa pensava ora, chiuso nella sua camera, solo con se stesso? Eravamo troppo distanti perché potessi usare la mia empatia, ma potevo comunque immaginare la sua sofferenza, mi sembrava di avvertirla fisicamente. Il pensiero che Hiroto fosse solo in un momento del genere era insostenibile.
Volevo abbracciarlo. Volevo proteggerlo.
-Hiroto… lui…
-Ha subito uno shock piuttosto grande, temo. Non è sbagliato dire che sia arrivato nel momento peggiore- m’interruppe Kudou. Le sue parole mi fecero venire in mente quelle di Seijirou. Mi veniva da urlare al solo pensiero, ma prima che potessi esplodere Kudou riprese a parlare.
-A volte è meglio non scavare nel passato. Come ricercatore non dovrei dirlo, ma quando la verità fa più male che bene, è davvero giusto scoprirla? Mi porto dietro questo dubbio da anni- disse Kudou. All’improvviso, mi venne in mente che anche lui aveva una figlia che amava più di ogni cosa al mondo; anche lui conosceva la paura di perdere qualcuno… La mia mente mi riportò a Seijirou, ma ancora mi rifiutavo testardamente di perdonarlo, o giustificarlo.
-Midorikawa… smetti di indagare sui tuoi sogni- affermò Kudou. Sussultai, stupito più dalle parole in sé, dal tono di ordine, che non dal fatto che fosse a conoscenza di quel dettaglio.
-Perché mi dice questo? Lei come fa a...?- mormorai. Lui sospirò.
-Te l’ho detto. A volte bisogna lasciar perdere il passato. Hai già abbastanza problemi… Lascia andare il passato, Midorikawa. Preoccupati solo del presente, adesso- disse, serio. Per un attimo, ebbi la strana sensazione che sapesse esattamente di cosa stesse parlando, come se fosse stato in possesso di un segreto che io invece non immaginavo neppure.
Scrollai le spalle e mi misi a riflettere.
Non sapevo come facesse a saperlo, ma Kudou aveva ragione. Al momento avevo altri problemi di cui occuparmi. Hiroto era molto più importante di qualsiasi ricordo. Fermare Garshield era fondamentale. Non potevo continuare a cercare nel mio passato, dovevo solo guardare avanti, perciò sì, avrei lasciato andare. Almeno per il momento.
-Grazie- sussurrai.
Kudou non mi rispose, forse aveva già lasciato la stanza.







 

**Angolo dell'Autrice**
Buongiorno!
Questo capitolo è abbastanza pesante in termini di angst, ma è importantissimo dal punto di vista della trama, perché dice cose sul background di Hiroto, sulla famiglia Kira e sul misterioso piano di Garshield. Siete curiosi??
Ho riflettuto a lungo sul ruolo da dare a Hiroto Kira in questa fic, sia perché l'idea originale prevedeva una situazione completamente diversa, sia perché il rapporto Hiroto (Kiyama)/Hiroto (Kira) è sempre stato per me una delle cose più interessanti di IE, lo considero un elemento imprescindibile per il character development di Hiroto Kiyama (che confusione, con questi nomi!).
I protagonisti di questo capitolo, per me, sono Endou e Midorikawa, le due persone più vicine a Hiroto. In Spy Eleven, Endou non ha mai provato sentimenti romantici per Hiroto, ma si conoscono bene a vicenda; Midorikawa sta ancora imparando a conoscere Hiroto, ma lo ama incondizionatamente. Quindi seppure gli vogliano bene in misura diversa, Endou e Midorikawa sono le persone che più tengono a Hiroto.
Su Seijurou non mi esprimo ancora, perché il suo pg non si è ancora completamente sviluppato, ma voi lettori potete pensarne ciò che volete. Invece Hitomiko mi fa un po' pena, perché in fondo, come nella trama originale di IE, le sue buone intenzioni sono state "sprecate" da suo padre.
Nei prossimi capitoli ci sarà molta HiroMido, posso assicurarvelo~
Alla prossima! :)
   Roby

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Capitolo 40
*** Mission 40. ~Hiroto's Arc. ***


Quest'anno per me sarà particolarmente ostico, sono stata molto presa dall'università e al momento sono impegnatissima con la mia tesi triennale. Non ho intenzione di abbandonare questa long, alla quale (come ho detto molte volte) sono legatissima, perciò vi chiedo semplicemente di avere pazienza con me. Credetemi, mi dispiace tantissimo per la lentezza con cui aggiorno... :(
Grazie comunque a tutti quelli che seguono la fic; leggere le vostre recensioni mi sprona ad impegnarmi e, quando posso, cerco di rispondere a tutti ;u; 
Un ringraziamento particolare al mio beta (
RaffyRen97 su efp), che sopporta la mia fissa con le virgole XD

 
 
“Ryuuji…!”
Mi chiamava, ma io non capivo da dove provenisse la voce. 
Un attimo prima stavo camminando in un corridoio, mi muovevo a scatti nel buio e con le mani cercavo a tentoni la via da seguire; l’attimo successivo era scomparso tutto e l’unica cosa che avevo tra le mani era un pugno di terra molle, viscida e fangosa.

“Ryuuji… Ryuuji!”
Fuori stava piovendo. Il rumore era distante e si confondeva con quella voce.
 
La pioggia scendeva dritta e fitta contro il davanzale della finestra.
Aveva cominciato a cadere da un cielo plumbeo durante la mattinata e non si era più fermata, impedendo la possibilità di esercitazioni all’aperto. Natsumi non ne era stata contenta.
-Mi scusi per l’attesa. Ora se vuole può entrare.
La voce ferma dell’infermiera mi fece sussultare, strappandomi ai miei pensieri.
Staccai gli occhi dalla finestra e mi voltai, dando le spalle alle gocce di pioggia che scivolavano lentamente sul vetro. Aveva piovuto tutta la mattina e ancora non aveva smesso.
-La ringrazio- risposi sommessamente, cercando di ignorare il ronzio nelle mie orecchie.
La donna annuì e rimase ferma. Capii che stava aspettando che io entrassi, perciò mi affrettai a raggiungerla; lei mi rivolse un sorriso di cortesia, poi si girò e svoltò l’angolo. Lasciai andare un sospiro di sollievo al pensiero che Gazel ed io saremmo rimasti soli.
Chiusi la porta alle mie spalle facendola scorrere dolcemente verso il muro e alzai lo sguardo verso il ragazzo seduto sul letto d’ospedale. Stava leggendo un libro e, almeno apparentemente, non aveva fatto caso alla porta che s’apriva e chiudeva.
Anche se non aveva più bisogno della flebo, Gazel sembrava ancora debole: era dimagrito e la vestaglia verde dell’ospedale gli cadeva addosso come un sacco. Il colletto era così largo da scivolare su una spalla, lasciando che s’intravedesse parte della fasciatura che gli cingeva il petto.
-Ciao- lo salutai per primo e attesi, titubante, la sua reazione.
Gazel chiuse il libro rapidamente e lo ripose sul davanzale della finestra.
-Finalmente qualcuno viene a farmi visita- disse, seccato. –Come sta Afuro? Mi ha fatto recapitare un messaggio dicendo che è scoppiato un casino con il caso e che quindi non poteva venire a trovarmi. Lui dice di star bene, ma io non ci credo, quindi ora lo chiedo a te, secondo te come sta?
Sbattei le palpebre, colto alla sprovvista.
-Uhm… mi pare che stia bene, almeno fisicamente. Non ha ricevuto danni gravi, ma credo sia piuttosto stanco- risposi. Dopo la disastrosa missione con i Fubuki, avevo intravisto Afuro solo per un momento, nell’infermeria, e mi era parso esausto. Mi aveva rivolto un sorriso triste e aveva accennato un saluto con la mano, poi era uscito senza voltarsi verso il fondo dell’infermeria, dove c’erano i letti di Atsuya e Shirou Fubuki.
Gazel mi scrutò per un lungo minuto, valutando la sincerità della mia risposta, poi annuì.
-Si sta probabilmente dando un gran da fare, anche se è esausto- borbottò. –E Haruya… voglio dire, Burn, Burn come sta? Non viene mai a trovarmi.- Abbassò lo sguardo e si mise a torturare nervosamente le lenzuola con le dita. Sembrava molto contrariato.
-Credo che Burn abbia deciso di non vederti finché non avrà portato a termine il suo compito…
-Quale compito?- scattò Gazel, nervoso.
-Sta raccogliendo informazioni sul team di Garshield… ciò che stavi facendo tu- replicai, feci una pausa. Mi morsi il labbro inferiore, esitante, poi aggiunsi, cauto:- Penso che si senta in colpa.
Gazel continuò a stringere le lenzuola tra le dita.
-È proprio il tipo da sentirsi in colpa in una situazione del genere- brontolò. Per alcuni secondi parve in conflitto con se stesso, ma alla fine scosse il capo e sbuffò.
-Lasciamo perdere. Vieni qui, Midorikawa, siediti. Sei venuto per parlarmi, no?
Rincuorato, accettai al volo il suo invito e mi sedetti sul bordo del letto. Da così vicino, potevo osservare meglio il suo volto: Gazel aveva delle pesanti occhiaie violacee, le labbra screpolate, i capelli più spettinati del solito. Era evidente che nemmeno lui stava passando notti serene.
-Ho problemi di insonnia- ammise Gazel, intuendo i miei pensieri. –Faccio sogni che… Al diavolo, rivedo sempre le stesse cose, mille volte, ma non trovo le risposte che cerco.- Sospirò e si ravviò i capelli con una mano.
-Vorrei fare qualche ricerca sul mio passato, o almeno riprendere a lavorare al caso Garshield, ma non mi lasciano toccare un telefono, figuriamoci un portatile- disse, frustrato. -Mi hanno detto che potrò tornare alla base in una settimana, ma è probabile che non mi faranno lavorare ancora per un po’… Dannazione, mi sento così inutile! Odio stare in questa sorta di vacanza forzata.
Vacanza forzata. Mi chiesi se la reclusione di Hiroto potesse essere chiamata così, sebbene ci si fosse messo da solo.
-Ti capisco, ma credimi se ti dico che noi non stiamo ottenendo maggiori risultati- commentai, amareggiato, poi gli raccontai quello che era successo.
Sembrava impossibile che fosse accaduto solo due giorni prima.
Avevo impiegato un giorno intero a riprendermi dallo stato di stanchezza in cui ero precipitato dopo aver toccato la pietra. Non mi era mai successo prima, di sentirmi tanto esausto dopo aver usato le mie capacità empatiche. Ancora avevo fitte di dolore in diverse parti del corpo, come alle giunture degli arti e al petto. Soprattutto al petto. Solo grazie alla mia determinazione avevo trovato la forza di alzarmi, quella mattina, e andare in ospedale a trovare Gazel.
Mi ascoltò in silenzio, sistemandosi di tanto in tanto i cuscini dietro lo schiena o aggiustando le coperte sul letto in modo che non gli dessero impiccio.
-Okay, eliminiamo subito tutte le considerazioni inutili. Tu cosa vuoi fare?- chiese alla fine.
-Voglio aiutare Hiroto- dissi subito –e voglio sconfiggere Garshield.
-Chi non vorrebbe liberarsi di quello stronzo- ribatté Gazel, amaro. –Dovresti farlo, comunque. Aiutare Hiroto, intendo. Sei l’unico che potrebbe farlo in questo momento.
-Non so come fare- dissi e lo guardai crucciato. –Speravo in un consiglio…
-Non conosco Hiroto così bene, ma per esperienza personale il mio consiglio è: parlagli. Anche se ti sembra che lui non ascolti, continua a parlargli. Se vuoi che Hiroto si apra con te, devi fare lo stesso con lui. Alcune persone nascondono il proprio dolore per non essere un peso, o anche solo perché ci sono abituate. Dovresti capire di cosa parlo, perché anche tu sei fatto così.
-Anch’io sono sempre stato così. Io e te abbiamo avuto la fortuna di incontrare qualcuno che non si è mai arreso con noi. Hiroto non si è mai veramente aperto con nessuno, nemmeno con Endou, ma ho il presentimento che…- Gazel s’interruppe e mi guardò con serietà.
–Voglio dire, è solo una sensazione, ma… penso che con te lo farà. Con te vorrà aprirsi, quindi non arrenderti.
Rimasi a fissare Gazel immobile, sorpreso. Aveva ragione. Sebbene Hiroto non sembrasse disposto ad ascoltarmi, dovevo continuare a provare, finché non si fosse aperto uno spiraglio. Non ero sicuro di riuscire ad essere bravo come Kazemaru, che aveva provato ad aiutarmi anche a rischio di farsi odiare e perdere la nostra amicizia, però ci avrei provato.
-Va bene, lo farò. Grazie- mormorai, pieno di gratitudine, ed istintivamente mi avvicinai a lui per abbracciarlo. Mi fermai a metà del movimento ricordandomi che Gazel non amava il contatto fisico.
-Ehm… posso?- chiesi, incerto, e Gazel alzò gli occhi al cielo.
-Se proprio devi- rispose, apparentemente seccato, ma poi lui stesso mi attirò tra le sue braccia e sentii le sue dita stringere forte il retro della mia maglia. Piegando la testa per poggiarla sulla sua spalla, non riuscii a trattenere un sorriso.
 
xxx
 
Tornai all’edificio dell’agency. Tornai davanti alla porta della camera di Hiroto.
Inspirai profondamente e mi dissi, deciso: Non tornerò indietro, qualunque cosa succeda. Non tornerò indietro finché non vedrò Hiroto e non gli parlerò e non saprò come sta. Poi bussai forte contro la porta, una, due, tre volte.
-Hiroto, sono Midorikawa. Sono venuto a trovarti. Vorrei parlare con te. puoi farmi entrare?- dissi allora, scandendo bene e a voce alta. Dall’altra parte non arrivò alcune risposta: chiaramente Hiroto continuava a far finta di non esistere, o forse si era addormentato. Comunque fosse, non potevo averne la certezza, perciò non mi restava che continuare dando per scontato che potesse sentirmi.
Stavo rimuginando su cosa avrei potuto dire per convincere Hiroto ad aprirmi quando mi parve di sentire qualcosa all’interno della stanza.
Subito mi appiccicai con l’orecchio destro alla superficie della porta, concentrandomi intensamente per cogliere un qualsiasi cenno di vita. Pochi istanti dopo udii un leggero, ma distinto, rumore di passi strascicati.
-Non posso farti entrare- sospirò Hiroto. La sua voce era bassa e roca e sembrava davvero, davvero stanco, ma il solo fatto che avesse interrotto il suo silenzio per me era un progresso.
Mi addossai ancora di più alla porta e mi schiarii la voce.
-Perché?- chiesi. Seguì un minuto (interminabile) di silenzio, poi un altro sospiro.
-È… pericoloso… stare vicino a me- disse Hiroto, strascicando le parole come se parlare gli costasse fatica.
–L’altro giorno, io ero... Non volevo…- S’interruppe, respirando affannosamente. Nonostante le sue frasi spezzate ed apparentemente insensate, avevo capito a cosa si riferiva; dovevo interrompere subito quella linea di pensiero, che non era solo infruttuosa, ma anche nociva.
-La sera del ballo… te la ricordi, Hiroto?- esclamai, così in fretta che parve improvviso anche a me. Non ero ben sicuro di come procedere. Non sapevo cosa potesse spingere Hiroto a fidarsi di me, l’unica cosa che sapevo era che dovevo essere sincero. E quindi gli dissi quello: la verità.
-Quella sera mi hai baciato per la prima volta… non sapevo perché l’avessi fatto ed ero arrabbiato con te. Ero già innamorato di te, ma non volevo ammetterlo. Forse perché ero spaventato. Perché non riuscivo a capirti, a capire chi eri davvero. Ancora ora non capisco molte cose di te. Non so perché mi hai baciato, quella sera, ma ho deciso di credere in te. Ho deciso di non arrendermi. Forse innamorarmi di te non è stata una mia scelta, ma ho scelto di continuare a stare al tuo fianco.
Mi fermai e presi fiato, in ansia. Dall’altro lato seguì un rumore improvviso, che mi fece sussultare; poi capii che Hiroto aveva semplicemente poggiato la testa contro la porta.
–Se ti facessi del male, non potrei perdonarmelo- confessò con un fil di voce. -Perché non sei arrabbiato con me?
-Oh, Hiroto- sospirai -è stato un incidente e io sto bene! Ho avuto paura, certo, ma so che non l’hai fatto apposta. Magari non ti conosco così bene, ma so che non faresti mai intenzionalmente male a qualcuno, quindi non voglio che tu ti nasconda da me. Puoi essere completamente sincero, voglio che tu sia te stesso quando sei con me. Per favore, credimi.
Dopo un attimo di silenzio, la serratura schioccò. Sussultai e fissai la porta incredulo, chiedendomi se non mi fossi immaginato il rumore della chiave che girava. Appoggiai l’orecchio alla porta, esitante, e udii i passi strascicati di Hiroto che si allontanava; solo a quel punto mi decisi ad entrare.
Quando tirai giù la maniglia, la porta si mosse senza resistenze. Aprii solo un pochino e, attraverso lo spiraglio, vidi che Hiroto si era seduto sul letto, con le ginocchia tirate contro il petto e il viso sepolto nelle braccia.
La stanza era buia e puzzava di stantio, di polvere e sudore.
Entrai e chiusi la porta dietro di me, poi mi fermai, in piedi e in silenzio, ad osservare il ragazzo che avevo davanti.
Non avrei saputo dire quanto tempo restammo in quella posizione, separati da pochi metri di spazio, senza che nessuno dei due facesse nulla per accorciare la distanza. Hiroto non aveva detto nulla in proposito, eppure in qualche modo sentivo che la distanza era importante. Hiroto sembrava… fragile, esausto. Così diverso dalla persona a cui ero abituato, quella che si sforzava sempre per nascondere la propria debolezza. Probabilmente aveva paura del contatto fisico. Il suo potere spaventava molto più lui che me, benché io ne avessi sperimentato gli effetti sulla mia pelle.
Mentre riflettevo, Hiroto sollevò leggermente il volto dalle ginocchia. Non riuscivo a vedere bene i suoi occhi, nascosti dalla frangia, però ero certo che mi stesse osservando. Poi d’un tratto la sua mano destra si sollevò, tremante, e si tese verso di me. Respirando a fondo, mi avvicinai, mi fermai davanti a lui e aspettai. Le sue dita cercarono le mie: erano fredde come ghiaccio.
-Va bene così?- mormorai, stringendo la sua mano per riscaldarla.
Hiroto annuì e si passò il dorso del braccio libero sugli occhi, strofinando via le lacrime. Tremava, ma gradualmente il suo respiro stava tornando ad essere quieto e regolare. Pensai di spostarmi un po’ e sedermi in modo più comodo, ma quando provai a muovermi Hiroto strinse la mia mano con urgenza.
-Non andare- esclamò, allarmato.
-Cosa? Io non… ah, no, hai frainteso- Dopo un iniziale istante di sorpresa, capii che aveva interpretato in modo sbagliato il mio movimento e mi affrettai a rassicurarlo.
-Non vado da nessuna parte. Qualunque cosa ti spaventi, la affronteremo insieme- dissi dolcemente. Mi dondolai in avanti, toccando il pavimento con le ginocchia, e con la mano libera gli sfiorai il viso. Hiroto sussultò e, quando lo attirai in un abbraccio di conforto, nascose il volto nella mia spalla come un bambino.
Vorrei tanto sapere cosa prova in questo momento.
Quel pensiero aveva attraversato la mia mente all’improvviso e mi lasciò interdetto. Ogni tanto mi era capitato di dirlo, ma non sul serio; dopotutto, l’unica persona in grado di eludere la mia abilità empatica era Diam e anche lui non poteva farlo a lungo, era costretto ad abbassare la guardia proprio mentre usava i suoi poteri. Diam era un caso isolato, comunque. Su Hiroto l’empatia aveva sempre funzionato perfettamente. Questa volta, però, per quanto mi concentrassi e frugassi nell’atmosfera della stanza, percepivo soltanto la presenza fisica di Hiroto, i suoi respiri, i suoi battiti, il suo corpo premuto contro il mio; tutto ciò che i miei cinque sensi riuscivano ad afferrare, e nulla di più. Ero abituato ad assorbire le emozioni altrui come una spugna, invece ora provavo solo emozioni mie. Tutto ciò che provavo mi apparteneva. Avrebbe dovuto essere normale, invece per me era una sensazione stranissima, fuori posto.
Mi accigliai e arricciai le labbra in un broncio. Come era successo? E da quando? Avevo l’impressione che la risposta fosse vicina, che mi sarebbe bastato poco per trovarla, ma in quel momento Hiroto si mosse leggermente e attirò la mia attenzione.
-Voglio stendermi- sussurrò, mi tirò dolcemente per le braccia. Annuii e mi arrampicai sul letto, mentre lui si rannicchiava su un bordo per farmi spazio; una volta sistemati, Hiroto avvolse un braccio intorno alla mia vita e si strinse a me, affondando il viso nella mia clavicola. Sentivo il suo respiro caldo e bagnato contro la pelle scoperta del collo.
-Midorikawa- mormorò, sfiorandomi con le labbra –Grazie.
-Sì- dissi, piano. Poco dopo, Hiroto sospirò e parve rilassarsi. Gli poggiai una mano sul petto e lo sentii sollevarsi e abbassarsi con regolarità: si era addormentato in un batter d’occhio. Probabilmente non aveva riposato granché, pur essendo rimasto chiuso in camera tutto quel tempo.
Afferrai la sua mano libera e, delicatamente, intrecciai le dita con le sue, poi anch’io chiusi gli occhi e mi lasciai cullare in un breve sonno.
 
xxx
 
Mi svegliai e la stanza era ancora buia, ma certamente fuori era già spuntato il sole: attraverso le persiane si erano infiltrate delle linee di luce che, allungandosi e strisciando sul pavimento come serpenti, erano arrivate fino ai piedi del letto.
Era mattina, ma sapere l’ora precisa era impossibile, a meno di non liberare il polso su cui avevo l’orologio. Nel fare il movimento, mi resi conto che le dita strette a quelle di Hiroto avevano perso la sensibilità, al punto che quasi non le percepivo come parte del mio corpo; nonostante ciò, le agitai per toglierle dalla presa e sbirciare l’orologio.
Le nove e quindici. Non era poi così tardi, ma gli allenamenti giù dovevano essere cominciati già da un paio d’ore. Non che avessi pensato di andarci, visto che avevo scelto di restare con Hiroto, ma non avevo ancora partecipato a mezzo allenamento da quando Natsumi aveva rifatto il programma di esercizi e sinceramente il pensiero mi turbava un po’. Pensai a Diam e Kazemaru che, come sapevo, prendevano parte alle esercitazioni insieme, per dare modo a Kazemaru di affinare il suo dono. Mi avevano invitato a raggiungerli qualche volta, ma non l’avevo mai fatto, troppo preso da Hiroto e dai miei problemi.
Quando mi girai verso di lui, vidi che Hiroto aveva gli occhi semi-aperti e mi stava fissando, apparentemente tranquillo. I suoi occhi erano lucidi e cerchiati di rosso per il pianto, la sua pelle così pallida da sembrare porcellana, ma il suo respiro era stabile.
-Sono cresciuto qui, sai- disse, girandosi d’un tratto in modo da stare steso sulla schiena.
-Quando ero molto piccolo, stavo in orfanatrofio. Mi hanno raccontato che i miei genitori erano morti in un incidente mentre andavano all'ospedale, che mia madre mi aveva partorito con tutte le forze che le erano rimaste e poi era morta- spiegò. -Non li ho mai conosciuti, perciò non posso dire di averne sentito la mancanza, ma penso di essermi sempre sentito… smarrito. Come se fossi incompleto, capisci. L’orfanatrofio era un bel posto, ma non era una “casa”. Non riuscivo a vederlo come tale. Ero molto timido, non facevo amicizia facilmente.
Trattenni il respiro e sgranai gli occhi per la sorpresa quando mi resi conto, incredulo, che Hiroto si stava confidando con me. Non mi aspettavo che l'avrebbe fatto. Affondai la guancia nel cuscino mentre ascoltavo, attentissimo a non fare gesti bruschi per non interromperlo; non sapevo quando avrei avuto un'altra opportunità del genere. Comunque, Hiroto non parve notare il mio nervosismo: stava fissando il soffitto con uno sguardo distante, come se non si trovasse più nella sua stanza, ma in un posto lontano, in un tempo lontano.
-Mio padre… suo padre era diventato da poco una Spy Eleven- continuò -ed era uno dei benefattori dell’orfanatrofio. Ogni tanto sua moglie veniva a farci visita portando con sé Hiroto... Hiro-chan, il mio primo amico. Ci somigliavamo molto di aspetto, avevamo persino lo stesso nome, ma non potevano esserci persone più diverse. Lui era positivo, coraggioso, un vulcano di idee. A volte quando c'era mio padre giocavamo qui, in questo stesso edificio. Correvamo nei corridoi, nella sala riunioni. Immaginavamo di essere supereroi, o agenti segreti… quando eravamo insieme, potevamo essere qualsiasi cosa. Io l’avrei seguito dappertutto-. Hiroto parve perdersi per un attimo nei ricordi più felici della sua infanzia, ma il sorriso che era appena comparso sulle sue labbra scomparve subito.
-Naturalmente, non poteva durare per sempre. Non potevo seguirlo davvero ovunque andasse e, un giorno, lui morì mentre era lontano da me. Nessuno mi disse nulla, lo scoprii da solo su internet… fu abbastanza traumatico. I Kira smisero di venire all’orfanatrofio e io pensavo che non li avrei visti mai più, invece… loro tornarono.
-Eri felice?- mormorai, osservandolo con attenzione per non lasciarmi sfuggire niente. Lui corrugò la fronte e arricciò lievemente le labbra in un broncio: la sua espressione si era rabbuiata di colpo.
-Sì- rispose, cauto. -Ma avevo anche paura. Ero confuso. Era giusto prendere il loro cognome? Avrei preso il posto del mio amico? Era questo che mio padre voleva da me? Somigliavo così tanto a suo figlio, che non sapevo cosa pensare. Volevo a tutti i costi restare me stesso, ma allo stesso tempo non riuscivo a staccarmi da lui. Non mi lamentavo mai, reprimevo me stesso e mi comportavo sempre da bravo bambino per non essere abbandonato... Detestavo gli specchi, non riuscivo neppure a toccare un computer. Mi odiavo...
-E poi… poi ho scoperto di avere un dono. Finalmente, finalmente avevo qualcosa che mi rendeva speciale! Ero così emozionato… così ingenuamente felice, perché avrei potuto rendere mio padre fiero di me...- La sua voce ebbe un fremito. Per un attimo pensai che stesse per piangere, ma Hiroto prese semplicemente un profondo, tremante respiro.  
-Ma non era così semplice. Non sapevo come controllare il mio potere, e cominciai ad averne paura. Mio padre voleva che mi allenassi per diventare un agente. Hitomiko era convinta che imparando a controllarlo avrei avuto meno paura, perciò mi sono buttato anima e corpo nel mio allenamento, lasciandomi alle spalle tutto il resto, ma stavo soltanto scappando...
-In quel periodo ho conosciuto anche Endou. Lui mi è sempre stato vicino, mi ha aiutato a uscire dal mio guscio e fare amicizia con altre persone. Senza di lui, sarei rimasto sempre chiuso nelle mie paure. Mi piaceva per questo, sai. Perché lui non ha paura dei cambiamenti, né del futuro, e affronta tutto a testa alta. Perché non si arrende mai ed è sempre onesto. E perché mi accetta al di là dei miei meriti, mentre io non sono capace di farlo. Non vedevo il mio valore, perciò non riuscivo a credere nemmeno in Endou, non sono mai riuscito a confidarmi completamente. Temevo che lui mi avrebbe abbandonato, e non sarei riuscito a sopportarlo...
-Capisci, la possibilità… la possibilità di sbagliare e non poter più rimediare… la possibilità di fare male a qualcuno per sbaglio… non mi appare meno orribile ora di quanto non lo fosse quando ero bambino. Per quanto mi sia sforzato di andare avanti, in realtà non mi sono mosso di un passo, in tutto questo tempo. Non riuscivo a essere me stesso, ma nemmeno a essere all'altezza delle aspettative di mio padre, perciò sono scappato… ed è quello che ho sempre fatto. Ogni volta che pensavo fosse troppo difficile, ho voltato le spalle agli altri e sono scappato. Ho paura di restare ferito, di aprire il mio cuore e rivelare l’oscurità che si nasconde dentro... in fin dei conti, sono solo un codardo.
Hiroto rimase in silenzio per un attimo. Capii che stava piangendo.
-Il pensiero di uscire da qui e affrontare gli sguardi degli altri… il pensiero di affrontare mio padre… mi terrorizza- sussurrò. Si girò verso di me e nella penombra le sue iridi mi parvero scurissime; mi parve una richiesta di aiuto. Ricambiai il suo sguardo con altrettanta intensità.
-Non ti lascerò solo- dissi.
Lui annuì e si asciugò le lacrime con la manica della maglia.
-Sì… Quando sei con me, mi sento diverso. Tu mi rendi più forte, per questo non voglio più nascondermi- rispose. Il suo viso si rabbuiò all’improvviso e aggiunse, in tono amaro: -Anche se… non sono ancora certo di poter fare… ciò che devo.
Lo guardai confuso, lui sospirò.
-Io… C’è una cosa che posso fare solo io. L’ho capito nel momento in cui ho saputo…- esitò, ma non perché non volesse dirmelo. Sembrava stesse lottando con se stesso per trovare le parole.
-Mio padre… lui non me l’ha detto, ma io l’ho capito lo stesso.
-Cosa, Hiroto? Di cosa stai parlando?
Hiroto mi guardò e i suoi occhi si velarono di lacrime, ma lui non distolse lo sguardo. La sua mano cercò di nuovo la mia e la strinse forte. La sua voce s’incrinò.
-Devo addormentare Hiro-chan- bisbigliò, inconsolabile -e questa volta per sempre.
 

 

**Angolo dell'Autrice**
Questo capitolo è stato difficile per me da scrivere. Il rapporto tra Hiroto e Midorikawa è ad un punto di svolta importante: stanno imparando a conoscersi a vicenda, a conoscersi davvero. Finora abbiamo visto Hiroto solo attraverso gli occhi di Midorikawa, che sono gli occhi di una persona innamorata (e perciò, di fatto imparziale). È importante per me sottolineare che, benché Midorikawa sia certamente aiutato dalla sua empatia, questo non significa che sappia leggere le persone in modo infallibile. La sua empatia gli permette di condividere le emozioni di un altro, ma non di conoscere le ragioni o la storia di quella persona. Quindi, quando Hiroto decide per la prima volta di confidarsi con lui, Midorikawa accetta tutto quello che Hiroto ha da dargli semplicemente ascoltandolo: non ha la sua empatia ad aiutarlo e può solo immaginare come Hiroto si senta, ma lo accetta così com'è. Ed è un'accettazione reciproca, perché Hiroto a sua volta sta riponendo una completa fiducia in Midorikawa; gli sta donando il suo cuore intero, con tutte le sue ombre ed imperfezioni. Questa è la rappresentazione della Hiromido che volevo dare, e non è affatto finita qui. La loro relazione si sta ancora sviluppando, loro stanno ancora crescendo. Hiroto e Midorikawa saranno i protagonisti indiscussi di questo arc, anche se altri pg hanno un ruolo più o meno importante. Come avrete intuito, non li aspettano cose molto belle...
È stato bello poter aggiungere un'altra scena con Gazel e Midorikawa! Chi mi conosce sa che mi piace la GazeMido, sia in modo romantico che non, e in questa fic hanno molto in comune su cui legare *brotp intensifies* 
Ah, mi sono dilungata troppo! Spero di non essere stata noiosa :') 
Al prossimo capitolo,
Roby

P.S. Mentre scrivo, spesso mi piace dare delle "ost" ai personaggi, quindi ecco alcune che ho usato per questo capitolo:  
Touch, Mattia Cupelli // Hiroto Kiyama & 비오는 밤, Donawhale // Midorikawa Ryuuji. Prima o poi farò una playlist come si deve :'D
 
 

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Capitolo 41
*** Mission 41. ~Hiroto's Arc. ***


Sono sopravvissuta all'università! Ora avrò tempo libero per un po' e di questo sono molto felice~
Naturalmente proprio in questi giorni il modem di casa mia ha iniziato a fare i capricci... Ma almeno sono riuscita di scrivere questo capitolo. Spero di riuscire a progredire un po' di più con la storia e di velocizzare gli aggiornamenti. 
Detto ciò, buona lettura!




Mi gettai dell’acqua fredda in faccia e osservai il volto bagnato che, riflesso nello specchio, mi fissava di rimando.
Ormai ero abituato alle occhiaie, ai cerchi neri che parevano disegnati con l’eyeliner. Mi asciugai il viso con l’asciugamano di spugna poggiato accanto al lavandino e mi tirai su la zip della felpa, avevo scelto di indossare una tuta comoda e pratica per il mio primo allenamento di gruppo.
Ero rimasto con Hiroto per tutta la notte e avevo lasciato la sua stanza solo verso le otto di mattina, per fare colazione. Quando Hiroto si era rifiutato di scendere con me, non me l’ero sentita di insistere, non dopo ciò che mi aveva raccontato il giorno precedente... e specialmente non dopo ciò che mi aveva confessato quella mattina. Mentre mi rivelava quell’orribile segreto, Hiroto aveva un’espressione di dolore che non avrei mai voluto vedere sul suo volto. Mi chiedevo cosa potessi fare per alleviare almeno un po’ il peso che portava sulle spalle…
Scossi il capo, uscii dal bagno e mi infilai le mani in tasca.
Kazemaru mi aspettava seduto sul suo letto, con lo sguardo fisso sulle mani intrecciate in grembo.
Ci eravamo visti a colazione, poi eravamo tornati nella nostra camera insieme per prepararci. 
Lo raggiunsi e gli misi una mano sulla spalla.
Kazemaru alzò il viso verso di me, mi scrutò per un attimo, poi si alzò.
-Mi spiace che tu non abbia potuto partecipare in questi due giorni- mi disse.
-Dispiace anche a me, tra una cosa e l’altra non ci vengo quasi mai... E invece ne avrei proprio bisogno- brontolai. Kazemaru ed io arrivammo alle scale e le scendemmo senza incontrare nessuno. Dovevano essere tutti in sala addestramento, o impegnati negli uffici. 
Kazemaru, al contrario di me, aveva partecipato a quasi tutti gli allenamenti speciali pianificati da Natsumi e riempiva il silenzio parlandomi di cosa avevano fatto nelle altre sessioni. Per quanto mi sforzassi di ascoltarlo, ero distratto da altri pensieri e perdevo di continuo il filo del discorso. Kazemaru dovette accorgersene, perché ad un certo punto smise di parlare del tutto.
Mi morsi il labbro inferiore, il silenzio era pesante.
-Scusami- mormorai. -Non ti stavo ascoltando, mi dispiace.
Kazemaru scosse il capo.
Mi voltai verso di lui e notai che, contrariamente alle mie aspettative, non sembrava né arrabbiato, né offeso.
-Lo capisco, non preoccuparti. È solo che vorrei che mi parlassi di più dei tuoi problemi- disse.
Annuii, capivo come si sentiva.
Dopo il litigio che avevamo avuto, ci eravamo ripromessi di essere più aperti l’uno con l’altro, ma chiaramente dovevo ancora migliorare su questo aspetto. L’abitudine di tenermi tutto dentro sembrava essere fin troppo radicata.
Aprii la bocca, ma Kazemaru mi anticipò.
-Non scusarti di nuovo- disse. -Ascolta, so che sei preoccupato per Hiroto. Endou mi ha già raccontato cosa è successo con Seijirou.
-Volevo solo dirti che io ti appoggerò sempre. Seijirou ci ha aiutato molto e gliene sono grato, ma venire qui è stata una nostra scelta, una scelta che abbiamo fatto insieme. Se tu non ci fossi stato, non credo che sarei venuto qui da solo… Se tu non sei al mio fianco, nulla di tutto questo ha senso, perciò non mi importa nemmeno di diventare un drifter- disse, e abbozzò un sorriso.
-Perciò decidi liberamente, Ryuuji, fai ciò che senti giusto. Io sarò sempre dalla tua parte, qualunque cosa succeda. Voglio solo che tu sappia questo.
Kazemaru tese la mano verso la mia. Sembrava tranquillo, molto più di quanto mi aspettassi, ed un sorriso si fece largo spontaneamente sul mio viso.
-Va bene- risposi.
Sentire quelle parole, stringere quella mano, queste cose bastavano a darmi una sensazione di invincibilità.
 


xxx


 
Nella sala di addestramento c’erano soltanto tre delle Spy Eleven che avevo visto in sala riunioni.
Tra loro identificai subito Edgar Valtinas, la Spy Eleven del Regno Unito. Era sempre stato più che appariscente, grazie anche alla chioma turchese che risaltava in mezzo alle altre teste. Quel giorno era vestito in abiti casuali, con una camicia bianca e un paio di pantaloni gessati: su chiunque altro il completo sarebbe apparso banale, ma lui appariva tanto elegante come lo sarebbe stato in abiti di gala. La spilla dorata, simbolo delle Spy Eleven, luccicava sul petto, all’altezza del cuore.
Alla destra di Valtinas, c’era un ragazzo con i capelli blu scuro e la pelle scura baciata dal sole. Indossava un paio di pantaloni al ginocchio e una maglietta a maniche corte, della quale continuava ad arrotolare e srotolare le maniche mentre chiacchierava con Natsumi. Non ricordavo il suo nome e non riuscivo a vedere la sua spilla, tuttavia lo riconobbi immediatamente come la Spy Eleven africana.
A sinistra, invece, vidi la Spy Eleven americana, Mark Kruger. La sua spilla era appuntata sul colletto di un gilet nero lucido, sopra una camicia azzurra; con il suo viso, che molti avrebbero definito angelico, e i suoi capelli biondo-dorati, sembrava pronto per sfilare su una passerella internazionale piuttosto che ad ingaggiare un combattimento.
Accanto a lui c’erano anche Aphrodi e il ragazzo con gli occhialoni, che chiacchieravano con fervore (magari avevano legato davvero, durante le sedute dalla psicologa).
Non appena Kazemaru ed io varcammo la soglia della stanza, Diam ci intercettò saltandomi letteralmente addosso.
-Reize! Mi sembra che non ci vediamo da una vita!- esclamò.
Quando si staccò, mi prese per le spalle e mi osservò per alcuni secondi; come al solito non percepivo alcuna sensazione provenire da lui e il suo sguardo, attento e scrutatore, mi rendeva nervoso.
Ma poi Diam sorrise e si infilò tra me e Kazemaru, tenendo una mano su una spalla di ognuno.
-Allora, gente, che si fa? Io speravo di potermi unire a quel gruppetto laggiù oggi- annunciò, guardando verso Kruger e Valtinas. –Natsumi-san ha organizzato un addestramento speciale incentrato sul potere di Mark Kruger. Pare che abbia un dono molto figo, perciò sono curioso!
-Per me va bene- disse Kazemaru.
Avvicinarsi alle Spy Eleven sembrava anche a me una buona opportunità per vari motivi, tra i quali parlare con Aphrodi e chiedergli se avesse notizie di Gazel, o dei Fubuki. Dopo averci riflettuto per qualche secondo, annuii con convinzione.
-Sì, mi sembra una buona idea- affermai. Diam si illuminò.
-Fantastico! Aspettate solo un momento…- disse, poi si girò e scrutò la stanza.
Seguendo il su sguardo, notai che all’altra parte della sala, nella zona del poligono di tiro, c’erano i compagni di Diam, tutti meno IQ, che stava probabilmente ancora lavorando; tra loro però vidi Maki e, cosa più sorprendente, Rean, che stava attaccata al braccio di Ai come se da ciò fosse dipesa la sua vita.
-Ehi, Maki!- gridò Diam e, quando lei si girò, le fece cenno di raggiungerci.
Maki si avvicinò, quasi saltellando, e ci salutò con un gran sorriso.
Quel giorno indossava un vestito a righe rosa, bianche e azzurre, che faceva pendant (casualmente?) con i pantaloncini azzurri e la maglia bianca di Diam. Non potei fare a meno di notare la naturalezza con cui Diam le prese la mano e subito mi girai verso Kazemaru, interrogativo; lui sorrise e scrollò le spalle. Diam e Maki non parvero far caso a quel nostro scambio.
-Allora, andiamo? Sono curiosissimo di vedere cosa faremo!
Con queste parole Diam si girò ed iniziò a camminare, tirando Maki con sé. Aveva evidentemente deciso che era giunto il momento di smettere di parlare e di muoversi. A causa della sua impulsività, Maki rischiò di inciampare per un momento.
-Ehi, Hiromu! Fai attenzione!- protestò, ma sul suo volto c’era un piccolo sorriso al posto di un broncio.
Diam rise e si girò,  prendendole anche l'altra mano e continuando a camminare all'indietro.
Aphrodi fu il primo a vederci arrivare e, mentre i miei amici proseguivano verso Natsumi, io mi fermai da lui per chiedere ciò che volevo. 
-Gazel sta bene, ormai si è del tutto ripreso! Credo che da un giorno all’altro lo faranno rientrare in servizio. In realtà le sue ferite sono guarite da tempo, ma visto che il suo dono si è manifestato all’improvviso Kudou-san ha insistito perché rimanesse ancora fermo… penso che volesse prima accertarsi che il suo potere fosse stabile, capisci…- mi disse Aphrodi.
-Kudou-san si intende molto di queste cose, eh…- osservai, pensieroso.
-Ma certo! È un ricercatore piuttosto famoso, sai?! Ed è un esperto in materia di doni! Persone intelligenti e colte come lui non si trovano dappertutto!- esclamò Aphrodi, quasi incredulo che io non lo sapessi, poi sospirò e cambiò rapidamente argomento.
-Comunque, Burn alla fine non è andato a trovare Gazel nemmeno una volta! Non so proprio come fare con quei due, sono sempre stati incredibilmente cocciuti… Ho sempre avuto la sensazione che avessero stretto un rapporto di fiducia reciproca, ma forse questo non basta a farli aprire completamente- disse, suonando quasi esasperato.
-Ho capito… E per quanto riguarda i due Fubuki? Non ho più avuto loro notizie…
Aphrodi parve incupirsi.
–Be'... Grazie alle cure offerte dal padre di Gouenji, le ferite di Fubuki Shirou sono guarite del tutto e ora può anche utilizzare il suo dono al cento per cento. Mi preoccupa di più suo fratello. La consapevolezza di non avere più il suo dono, la certezza che gli sia stato rubato… per una persona così orgogliosa non è facile da tollerare- mi spiegò, poi si morse il labbro. -No… forse non è nemmeno questo… Ho l’impressione che quel dono fosse importante per lui, che rappresentasse una sorta di legame unico con suo fratello. Ora che non c’è più… l’impatto psicologico…- smise di parlare, ma io intuii ugualmente cosa volesse dire.
-Grazie delle informazioni, sei stato gentile a rispondermi- dissi. Aphrodi annuì, ma prima che potesse rispondermi una mano si posò sulla mia spalla. Mi voltai, sorpreso, e mi trovai davanti Edgar Valtinas.
-Midorikawa-kun, Terumi-kun, buongiorno!- ci salutò cordialmente.
-Terumi-kun, credo che Mark e il suo sottoposto abbiano richiesto la tua presenza laggiù.
Aphrodi ringraziò e, dopo avermi lanciato un’ultima occhiata, si avviò verso Mark Kruger. Notai che anche i miei amici si erano raccolti nella zona vicino alla Spy Eleven americana; avrei voluto raggiungerli, ma Valtinas me lo impedì.
-Midorikawa-kun, ti spiace fermarti un attimo? Non intendo trattenerti troppo a lungo- disse, anche se la mano stretta sulla mia spalla sembrava significare l’esatto contrario.
-Va bene- risposi, non che avessi molta scelta.
Edgar sorrise, apparentemente soddisfatto.
-È passato molto tempo dall’ultima volta che abbiamo conversato da soli, mh? Ti ricordi ancora di quell’incontro, Midorikawa-kun?- osservò, in tono apparentemente casuale. Sapevo però che il suo atteggiamento era solo una facciata.  
Mai giudicare un libro dalla copertina era il motto che più rappresentava le Spy Eleven; del resto, il solo fatto di aver ricevuto quel titolo li rendeva spaventosi. Ci era sempre stato detto che diventano Spy Eleven coloro che hanno un grande carisma, un grande potere o una grande mente, ma ormai avevo visto e sentito abbastanza nell’ultimo anno per rendersi conto che, a parte rari casi, le Spy Eleven avevano in genere tutte e tre queste caratteristiche. Anche quelli che apparivano più tranquilli potevano trasformarsi in belve ed erano i portatori dei più sordidi segreti. Edgar, con il suo sorriso enigmatico e l’apparenza pulita e raffinata, mi sembrava un caso emblematico.
Ovviamente ricordavo benissimo la nostra ultima conversazione privata. Era riuscito a farmi dubitare di me stesso, cogliendomi di sorpresa con la stessa nonchalance con cui mi parlava adesso. Mi sentii subito a disagio ripensandoci.
-Mi ricordo- risposi, asciutto, cauto.
Edgar parve accorgersi della mia riluttanza e la sua espressione misteriosa si trasformò in un sorriso quasi sincero.
-Suvvia, non c’è bisogno di mettersi sulla difensiva, ora- disse, divertito.
–Non ho intenzione di rimproverarti e, per essere completamente onesto, non ne avevo intenzione nemmeno allora. Probabilmente avrai pensato che ti stessi sottovalutando, non è vero? Su questo non posso darti torto. Non nutrivo grandi aspettative su di te, benché Seijirou mi avesse parlato bene del tuo dono.
-Non importa. Credo di aver capito cosa intendesse dirmi quella volta- risposi, intrecciando le mani dietro la schiena.
-Il mondo non è diviso in bianco e nero. In passato ho dato giudizi affrettati sulle persone… Quando sono troppo coinvolto, tendo a perdere di vista il quadro generale. È questo che voleva dire, vero? Che è difficile stabilire una linea netta tra bene e male, soprattutto se siamo troppo coinvolti emotivamente.
-Giusto. Avere un forte senso della giustizia, comunque, non è sbagliato in sé- disse Edgar.
-Ma lei ha detto che bisogna essere obiettivi, ed io non credo che potrei mai riuscirci… Quando ci sono di mezzo dei sentimenti, io…
-È chiaro che bisognerebbe essere sempre obiettivi- mi interruppe Edgar. –Tuttavia, credo concorderemmo nel dire che nessuno riuscirebbe ad essere imparziale quando si tratta di qualcuno con cui c’è un legame affettivo. A volte, però, è facile illudersi di non essere coinvolti emotivamente. La tua opinione su Dumb, allora, era offuscata dal fatto che avesse aggredito il tuo partner. Non era un’opinione obiettiva e questo era comprensibile, ma tu rifiutavi di vederlo.
-Il punto quindi è che bisogna essere obiettivi e saper riconoscere quando non si è tali?- chiesi, perplesso dall’andamento del discorso. Edgar annuì, soddisfatto.
-Yes, esattamente- rispose. -Ti trovo cambiato, più maturo forse. Quando Seijirou mi disse di te, allora, ero perplesso. Non avevo idea di come la tua empatia potesse essere utile per risolvere il caso, ma mi è bastato vederti all’opera per capire che mi sbagliavo. Da allora sono sempre stato curioso riguardo al tuo dono.
-Passiamo dunque al vero motivo per cui desidero parlarti. Trovo che la tua abilità sia molto interessante, Midorikawa-kun, e mi piacerebbe saperne di più… naturalmente, soltanto se sarai disposto a condividere con me queste informazioni.
Stava ancora sorridendo, ma il suo sguardo era di una serietà quasi inquietante.
Valutai per un attimo la sua richiesta, poi scrollai le spalle.
-Okay- dissi. In fondo, non avevo niente da nascondere.
-C’è qualcosa in particolare che vorrebbe sapere?
–Oooh, ottimo atteggiamento! Per cominciare, posso chiederti quando hai scoperto di avere questa abilità e come funziona?
Sospirai e mi fermai a riflettere.
–In terza media il mio amico Kazemaru perse una corsa al festival culturale della scuola. Stavo solo cercando di consolarlo, e all’improvviso le sue emozioni erano le mie- raccontai.
-In realtà, in quel momento ero solo confuso e non capivo cosa stesse succedendo. Da allora cominciò a succedermi sempre più spesso, come se dentro me si fosse sbloccato qualcosa. L’anno dopo, quando Hitomiko venne a reclutarci, mi rassegnai al fatto di dover imparare a convivere con quel potere, perché non sarebbe più scomparso.
Edgar annuì, incitandomi a proseguire.
-La mia empatia funziona in modo molto spontaneo... A volte la controllo, ma il più delle volte la uso senza rendermene conto. Dal primo istante in cui si è attivata, per me è naturale come respirare. Se la persona che mi è vicino prova un’emozione particolarmente intesa, subito la mia empatia cerca di assorbirla, come una spugna.
D’un tratto provavo molto imbarazzo: più parlavo della mia abilità, più mi rendevo conto che non era davvero granché. Mi fermai e scoccai un’occhiata a Edgar, ma lui sembrava davvero preso dall’argomento.
-Uhm, non ha niente di incredibile- Mi sentii quasi in dovere di sottolinearlo. -Certo, può essere utile in alcuni casi, ma… ma non funziona con tutti, tanto per dirne una!
Edgar annuì. -Ah, sì, ho sentito dire da Saginuma che uno dei suoi ragazzi ha un’immunità quasi totale a quel tipo di abilità. Pare che neanche il dono di Mark funzioni su di lui... I poteri che operano sulla mente e sull’animo umano sono molto utili, ma possono rivelarsi terribilmente limitati. In più, quel ragazzo è dotato dello straordinario potere di renderci tutti sordi. Penso che sia delizioso, davvero- commentò, quasi allegro.
Seguendo il suo sguardo, vidi che stava fissando Mark Kruger e Diam. Non sembrava che stessero parlando; piuttosto, Diam sorrideva, mentre Kruger cercava forse di usare il suo dono su di lui. Non sapevo di cosa si trattasse, ma se come diceva Edgar il dono di Kruger somigliava al mio, allora senza dubbio non avrebbe sortito alcun effetto su Diam.
-Diam è straordinario- confermai. -Al confronto, io non ho molto di cui vantarmi…
-Ma la tua empatia è solo una parte del tuo dono, non è così?
La domanda mi colse di sorpresa.
-Sì, è vero- ammisi, abbassando la guardia per lo shock. Come faceva lui a saperlo?
–P-però l’empatia resta la mia abilità più sviluppata… Voglio dire, so fare altre cose, ma perlopiù sono scoppi di energia incostanti e casuali… Un attacco ben riuscito è pura fortuna- brontolai, ripensando ai miei desolanti risultati durante il periodo di allenamento al centro di addestramento.
-Non ti ho mai visto usare a pieno il tuo dono- osservò Edgar in tono pensieroso. Il sorriso che comparve sulle sue labbra non aveva nulla di rassicurante e, poco dopo, arrivò la proposta che temevo.
-Ti andrebbe di fare un combattimento di prova con me, Midorikawa-kun?- chiese Edgar con voce apparentemente leggera, come se quella fosse stata un’offerta rifiutabile. Il suo sguardo, infatti, mi suggeriva che non era affatto un’offerta.
-Chiederò alla signorina Raimon se può riservarci un angolo di campo- disse infatti Edgar subito dopo.
Senza darmi la possibilità di rispondere, si incamminò verso Natsumi, interrompendola mentre guardava e commentava con la Spy Eleven africana e Kruger una tabella di addestramento probabilmente scritta da lei. Vicino a lei, Diam e Maki stavano parlando animatamente con il compagno di Kruger; dal momento che il ragazzo non pareva capace di parlare o comprendere il giapponese, era però necessario che Aphrodi facesse loro da interprete.
Edgar e Natsumi parlarono per qualche minuto, poi la Spy Eleven inglese si voltò verso di me e mi fece cenno di muovermi. Sospirai e mi grattai la nuca nervosamente.
-Non ho proprio scelta, uh…- borbottai.
Kazemaru si accorse di me e mi lanciò un’occhiata interrogativa e preoccupata. Io scrollai le spalle, rassegnato.
Natsumi ci disse che potevamo usare il campo dietro il poligono, spazio al momento inutilizzato. Edgar mi poggiò di nuovo una mano sulla spalla e praticamente mi spinse fino al punto indicato.
-Farete come nei vecchi film western? Dieci passi, poi vi girate e sparate? Bang!- suggerì la Spy Eleven africana con un sorriso divertito, imitando la forma di una pistola con le dita.
-Non scherzare, Rococo- disse Natsumi, ma la prospettiva di uno scontro sembrava interessare anche lei. Aveva già pronto un nuovo foglio per prendere appunti.
-Quei film sono orribili, ma l’idea mi piace- commentò Edgar.
Rococo (Rococo Urupa, ora ricordavo il suo nome) rise e incrociò le braccia sul petto, preparandosi ad assistere.
Seguendo il suo suggerimento improvvisato, quindi, Edgar mi disse di posizionarmi in piedi in mezzo al campo rettangolare di terra rossa, schiena contro schiena con lui, mentre Rococo, Natsumi ed altri si riunivano sule linee laterali per osservare, fuori da eventuali traiettorie di tiro.
-Pronto?- sussurrò Edgar, poi alzò la voce di colpo:- Ready… steady… go!*
Al suo ordine iniziai a camminare, contando i passi a bassa voce. Edgar, invece, li contava ad alta voce e in inglese.
Ero circa a metà conteggio quando ricordai in un flash l’unica volta che avevo visto Edgar usare il suo potere; purtroppo, mentre mi facevo prendere dal panico per mancanza di un piano d’attacco, entrambi eravamo già al decimo passo e ci stavamo girando.
-Excalibur!
La voce di Edgar dovette certamente rimbombare in tutta la palestra. In un attimo, si voltò e sollevò la gamba come se volesse calciare l’aria: una spada di energia si concretizzò davanti a lui, pronta a scagliarsi verso di me e a trafiggermi. Era meno luminosa ed opprimente di come la ricordassi. Edgar si stava chiaramente trattenendo dall’usare tutta la sua forza, cosa che comunque non mi metteva in una situazione più facile.
L’attacco di Edgar mi raggiunse senza lasciarmi il tempo di pensare a nessun contrattacco. In realtà, non riuscivo a pensare proprio a nulla. Col cuore in gola, stesi le mani davanti a me a palmo aperto, sperando di riuscire ad evocare una qualche forma di difesa com’era capitato in passato. La luce azzurra dell’Excalibur mi travolse e, in quell’istante, avvertii dell’energia accumularsi dentro di me; prima che riuscissi a decidere cosa farne, questa si sprigionò da sola e l’impatto tra i due attacchi sollevò una massa d’aria tale da scaraventarmi a terra.
La mia caduta sollevò un cumulo di polvere rossa, che mi fece rotolare su un fianco in una fitta di tosse. L’Excalibur si dissipò subito dopo. Rimasi a terra, stordito, ma quasi del tutto incolume.
-Midorikawa!
-Reize!
A fatica mi misi seduto e individuai Kazemaru e Diam accanto a Natsumi. Notai anche che tutti i presenti, compresi Natsumi e Rococo, mi guardavano con un misto di curiosità e stupore.
Sapevo di aver fatto qualcosa, ma cosa? Sollevai le mie mani e le fissai stupidamente per almeno un minuto, come se potessero darmi la risposta che cercavo.
-Midorikawa-kun, stai bene?
La voce vellutata di Edgar mi riscosse dai miei pensieri.
Alzai lo sguardo e lo vidi di fronte a me, con una mano stesa in avanti. Mi pulii frettolosamente le mani sui pantaloni, macchiandoli di polvere rossa, e accettai volentieri l’offerta di aiuto.
Edgar mi rimise in piedi in un attimo e si accertò che stessi bene.
-Non sono ferito. Non me lo aspettavo, tutto qui… L’ho delusa, non è vero?- dissi, spostando della terra coi piedi e fissando la punta ora rossa delle mie scarpe. Avevo un’improvvisa voglia di sotterrarmi, ma Edgar non era dello stesso parere.
-Non sono affatto deluso! Ben fatto, Midorikawa-kun!- replicò Edgar con una nota di allegria.
Mi accigliai. Mi aveva sconfitto con disarmante facilità, benché si fosse trattenuto, eppure non sembrava affatto deluso dallo scontro, né il suo interesse nei miei confronti era sparito.
-Mi scusi, io… Io non sono sicuro di aver capito cosa intende- dissi, il più educatamente possibile, anche se la mia voce tradiva un certo livello di impazienza. Edgar mi sorrise con una strana gentilezza.
-Questo scontro è andato ben al di là delle mie aspettative su di te. Ammiro il coraggio con cui hai affrontato la mia sfida, sebbene tu non avessi idea di come sarebbe andata. In effetti, eri abbastanza disperato, non è vero?- disse e ridacchiò. Arrossii di vergogna, ma lui continuò.
-Non è una cosa negativa. In battaglia nessuno è calmo e sereno. Certamente sarebbe meglio avere sempre un piano di riserva, ma provare ad agire in ogni caso è il minimo che si possa fare. E non direi che ti è andata malissimo! Sono rimasto piuttosto sorpreso- esclamò. -Hai detto che il tuo potere somiglia ad una spugna, se non erro. Credo che un buco nero sarebbe un paragone più calzante. Se rifletti bene su quello che hai fatto, sono sicuro che ne trarrai le dovute conclusioni… Bene, ora ti lascio con i tuoi amici. Ti ringrazio del tuo tempo.
Edgar mi diede un’ultima stretta di mano, come se volesse infondermi fiducia, poi si voltò, attraversò la sala e uscì. Rimasi ad osservarlo finché Diam e Kazemaru non si avvicinarono riempendo completamente il mio spazio visivo.
-Perché Edgar Valtinas ti ha sfidato a singolar tenzone?- domandò Diam. Mentre lo diceva, saltò leggermente di lato e mimò il movimento di uno spadaccino che fa un affondo.
-Non ne ho idea- risposi scuotendo il capo.
-Penso che ti servirà una doccia- disse Kazemaru mentre mi aiutava a scrollarmi di dosso la terra che mi si era attaccata alle braccia e alle gambe.
Maki apparve dietro di loro e mi squadrò da capo a piedi, poi batté le mani e sorrise.
-Questa terra non viene via facilmente, ma tranquillo, ti cucirò dei vestiti nuovi!- esclamò e, visto che l’idea pareva renderla molto felice, decisi di lasciarle fare come voleva.
Cambiai argomento, rivolgendomi di nuovo a Diam.
-E voi invece? Avete fatto addestramento con Kruger? Ti ho visto con lui, prima…- dissi.
-Oh, sì, Hiromu ha avuto il suo turno, ma sembra proprio che il potere di Kruger-san non abbia effetto su di lui- intervenne Maki. Diam annuì e gonfiò il petto, fiero di sé.
-Anche Maki e Kazemaru non se la sono cavata male- aggiunse con un sorriso.
-All’inizio sono andata un po’ nel panico. Ma poi mi sono ricordata che eri là con me e mi sono tranquillizzata… Sono riuscita a concentrarmi meglio dopo- ammise Maki, e sia lei che Diam arrossirono vistosamente.
-Ah… sono felice di averti aiutata…- mormorò Diam. Si sorrisero, lui le prese di nuovo la mano e restarono a guardarsi.
Io guardai di nuovo Kazemaru, come per chiedere "Da quando...?", e lui alzò le spalle come a dire “E io che ne so?”
-Ehm… Okay, ho la sensazione di essermi perso un mucchio di cose in questi giorni- osservai ad alta voce. 
Diam e Maki sembravano ancora persi nel loro mondo, perciò tornai a rivolgermi a Kazemaru.
–Ma di che cosa si tratta, precisamente?- chiesi.
-È come se ti proiettasse in testa delle immagini. Sono molto realistiche… penso che sia uno di quei poteri che agisce sul sistema nervoso, come…- Kazemaru si interruppe bruscamente. Sapevo che stava pensando a Hiroto, ma non dissi nulla.
Aphrodi intervenne salvandoci da un eventuale imbarazzo.
-Come il mio, per esempio!- esclamò, puntandosi un dito contro il petto. Mentre io ero occupato con Edgar, notai, Aphrodi si era legato i capelli in una treccia laterale, che gli ricadeva morbidamente su una spalla.
-Il mio dono è uno di quelli che colpisce il sistema nervoso e sì, anche quello di Mark funziona così. Che ne dici, Midorikawa, vuoi fare un giro di prova anche tu? A parer mio, allenarsi con questo genere di poteri è molto utile. I poteri che manipolano la mente sono i più pericolosi; è un bene averli dalla propria parte, ma bisogna anche sapersi difendere da essi, in caso fossero in mani nemiche.
-È anche una buona occasione per comprendere meglio questo tipo di doni. Ma visto che hai già combattuto contro Edgar, se non te la senti o sei stanco non fa niente.- Lo sguardo di Aphrodi si addolcì. Al contrario di Edgar, mi stava dando la possibilità di scegliere. Avrei potuto rifiutare, ma mi chiesi se non me ne sarei pentito, più tardi.
-Posso fare un tentativo- dissi, tranquillo. Aphrodi annuì e mi diede una pacca sulla spalla.
-Perfetto. Vado a dirlo a Mark, aspettami qui un momento- affermò, e si allontanò.
Sentii le dita di Kazemaru avvolgermi il polso della mano destra.
-Non sforzarti troppo- mormorò, diede una leggera stretta, poi si ritrasse quando vide Aphrodi tornare indietro con Mark Kruger. La Spy Eleven era accompagnata come sempre dal suo compagno, i cui occhialoni sembravano ancora più grossi visti da vicino; potevi quasi specchiartici dentro. Il ragazzo mi indicò ed esclamò qualcosa in inglese, gesticolando apertamente. Aphrodi annuì, gli rispose, poi si rivolse a me:- Ti ha riconosciuto, anche se in effetti sei venuto una volta sola a quelle sedute.
-E lui ha dormito tutto il tempo- aggiunsi. Aphrodi ridacchiò. L’altro ragazzo ci guardò confuso e Mark Kruger tirò un lungo sospiro e borbottò qualcosa in inglese, poi si rivolse a me in giapponese.
-Ehi, piacere di conoscerti- disse. -Io sono Mark Kruger, la Spy Eleven in ruolo negli Stati Uniti d’America. Il mio compagno si chiama Dylan Keith. Afuro mi ha detto che sei disposto a sottoporti al mio addestramento. Qual è il tuo nome?
Glielo dissi e gli strinsi la mano. Come Edgar e Fideo, anche Mark parlava abbastanza bene il giapponese, ma con un forte accento. Praticamente tutte le Spy Eleven sembravano capaci di cambiare lingua come se nulla fosse, ma chissà quanti anni di pratica e studio avevano fatto per ottenere quel risultato.
-Quando Natsumi mi ha proposto questa cosa, credevo che nessuno avrebbe voluto farlo. In genere le persone non sono felici di avermi nella loro testa. Per fortuna qui qualcuno di coraggioso c’è- continuò Mark. -Prima di tutto, sai in cosa consiste questo addestramento speciale?
-Mi è stato detto qualcosa, ma…- dissi. Mark annuì, comprensivo.
-Una spiegazione ufficiale non ti farà male. Dunque, il mio dono agisce sul sistema nervoso, in particolare mi permette di scavare nella tua mente, cercare immagini e rielaborarle a modo mio. Posso farti vedere quello che voglio, sentire quello che voglio. Ti farò venire dubbi persino su dove ti trovi, se me lo lascerai fare- spiegò, calmo e razionale. -Il tuo compito, in parole povere, è impedirmelo. Immagina la tua mente come un appartamento: devi cercare di limitarmi, di chiudere tutte le porte a chiave, così che io non riesca a trovare nessun spiraglio aperto. È tutto chiaro?
Annuii con convinzione.
-Sei pronto?- domandò Mark. -Puoi chiudere gli occhi, se ti aiuta a concentrarti.
Seguii il consiglio e chiusi gli occhi; per un momento rimasi semplicemente fermo, ascoltando il mio respiro finché non mi parve che i miei dintorni fossero scomparsi. C'eravamo solo io e la mia mente.
-Sono pronto- dissi, e rimasi in attesa.
Mi chiedevo se avrei percepito, in qualche modo, l’intrusione nella mia testa. Non riuscivo a immaginare come ci si dovesse sentire, ma, come aveva detto Mark, feci del mio meglio per concentrarmi e immaginare la mia mente come l'interno di una casa. Come potevo chiudere quelle “porte”? Cercai prima di tutto di non pensare a cose troppo importanti. Hiroto era uno dei miei più grandi punti deboli, nonché uno dei miei pensieri fissi di recenti; non volevo assolutamente che mi colpisse lì, o che vedesse i miei ricordi legati a lui, per cui immaginai di metterli tutti in una scatola e buttare via la chiave. E dovette funzionare, perché l’immagine che si formò poco dopo davanti ai miei occhi non riguardava per niente Hiroto.
Pioveva. Mi sembrava di sentire distintamente il fruscio dell’acqua, di annusare l’odore di umido e di muffa che mi faceva arricciare il naso. Davanti a me, in lontananza, s’intravedeva una vecchia ruota panoramica arrugginita, che si stagliava contro un paesaggio scarno e grigio. D’un tratto nella mia visuale comparve un vetro, poi un davanzale e un muro, e mi resi conto di star guardando attraverso una finestra... Mi spostai di lato, intorno a me c’erano degli scaffali di legno scuro, ricoperti di vecchi volumi impolverati con titoli difficili. Non riuscivo a leggerli, perché le lettere addossate le une alle altre erano come scarabocchi incomprensibili ai miei occhi; cosa più importante, non ricordavo di essere mai stato in una stanza del genere. Stavo davvero guardando attraverso i miei occhi? Dove mi trovavo? Mi parve di sentire dei passi rimbombare dietro di me, chi poteva essere? La mia visuale si fece confusa, come l’immagine di una videocamera spostata troppo in fretta; realizzai che stavo correndo. Stavo scappando da qualcuno. Nella mia visuale offuscata apparve una porta che avevo visto spesso: era l’unico dettaglio familiare di quel luogo. Una mano si stese davanti ai miei occhi, la mano di un bambino, la mia mano...
A quel punto la mia mente reagì e rigettò il ricordo, spingendolo fuori dalla mia testa con tutta la forza possibile.
Aprii gli occhi di scatto.
Mark Kruger e gli altri erano ancora intorno a me e mi guardavano con interesse, qualcuno con preoccupazione.
Poi Mark applaudì spezzando il silenzio.
-Non male. All’inizio eri un po’ in balia della situazione, ma poi hai reagito bene. Sei stato bravo, Midorikawa-kun, hai chiuso tutte le porte- disse.
Ma si sbagliava.
Non avevo chiuso io l’ultima porta, era sempre stata chiusa fin dal principio: la porta che continuava ad apparire nei miei sogni conteneva ricordi che la mia mente stessa continuava a rigettare anche da sveglia.
 


xxx


 
[Normal P.O.V.]
 




Hitomiko Kira attraversò l’atrio dell’ospedale e si lasciò cadere su un divanetto di pelle posizionato all’ingresso.
Al bancone della reception, una giovane infermiera stava curando un piccolo bonsai e un vaso di crisantemi, annaffiandoli e togliendo le foglie secche dov’era necessario. La giovane sembrava talmente presa dal suo lavoro da non essersi accorta della presenza di un’altra persona nell’atrio, e Hitomiko ne era sollevata: non voleva che qualcuno le rivolgesse la parola, aveva bisogno soltanto di silenzio e pace per riposare.
Dal momento che Kudou aveva insistito per visitare Gazel un’altra volta, era rimasta nell’ospedale con loro per tutto il pomeriggio, senza prendersi un attimo di pausa. Non lo considerava un peso: era suo preciso dovere occuparsi della salute di quei ragazzi, l’aveva sempre pensato, e per questo si era sempre impegnata al massimo per loro.
Proprio per questo, Hitomiko non riusciva ad accettare il fatto di aver fallito proprio con Hiroto.
Per anni si era illusa che andasse tutto bene, tra loro... Certo, all’inizio aveva avuto dei dubbi: aveva appena perso il suo fratellino, dopotutto, ed il pensiero che suo padre volesse adottare un altro bambino, per giunta un amico del figlio, sembrava assurda. Ma una volta che Hiroto era entrato nella loro famiglia, tutta l’incertezza di Hitomiko si era dissipata; dal primo momento in cui Hiroto l’aveva chiamata “sorella”, Hitomiko aveva capito che avrebbe potuto amarlo senza dover mettere da parte l’affetto per suo fratello. Negli anni, aveva dato a Hiroto tutto l’amore e la protezione di cui era stata capace. Si era impegnata così tanto per lui, ma nonostante tutto aveva fallito…
Come aveva potuto essere così cieca da non vedere i piani di suo padre? Come aveva potuto non accorgersi di quanto Hiroto stesse soffrendo? Hiroto probabilmente non nutriva rancore nei suoi confronti e l’avrebbe perdonata, pensò Hitomiko. Si premette le mani contro il viso, le dita contro le palpebre, nel tentativo di reprimere le lacrime. Forse Hiroto l’avrebbe perdonata, ma lei non ci sarebbe riuscita: il suo orgoglio, il suo modo di essere e di amare glielo impediva.
Un rumore proveniente dal piano superiore la fece sobbalzare: sembravano vetri infranti.
Hitomiko guardò il proprio orologio da polso. Erano circa le sei di pomeriggio, quindi nell’ospedale dovevano ormai esserci solo i pazienti e il personale medico. Forse si trattava soltanto di un vaso rotto, tuttavia valeva la pena salire a dare un’occhiata.
Hitomiko si alzò e andò verso il bancone.
-Rimanga dov’è, non si muova per nessun motivo, d’accordo?- disse all’infermiera, che annuì con aria preoccupata.
Hitomiko si incamminò verso le scale, giudicandole più sicure dell’ascensore, e mentre saliva estrasse la propria pistola dalla tasca interna della giacca. Non aveva ricevuto alcun dono dalla natura, così come suo padre, perciò aveva dovuto imparare ad usare le armi; aveva sempre cercato di seguire le orme di Seijurou, anche se ora, 
in luce delle ultime scoperte, non appariva più tanto come una buona idea.
In apparenza, al piano superiore era tutto tranquillo, tuttavia Hitomiko intravide un lembo di tessuto scuro scomparire dietro un angolo e in un attimo fu certa che la situazione era ben più grave di un vaso rotto.
-Dei mantelli marroni…- mormorò tra sé e sé. Secondo le testimonianze, quello era un abito che caratterizzava l’esercito di drifters sotto il controllo di Garshield… ma perché si trovavano lì? Una volta erano venuti per la figlia di Kudou, ma ora era stata trasferita in un luogo più sicuro.
Purtroppo, Hitomiko aveva soltanto un’altra ipotesi.
Cercando di essere il più discreta possibile, ma allo stesso tempo consapevole che doveva fare presto, corse alle scale e salì fino al terzo piano, dove la stanza di Gazel si trovava. Il corridoio era deserto e, a quanto sapeva, poche camere erano occupate.
Aveva ancora la pistola in aria quando una figura le apparve davanti, rapida e silenziosa come un’ombra.
Hitomiko sparò senza esitare e i proiettili traforarono il mantello del ragazzo, apparentemente senza riuscire a ferirlo; quando lui si voltò nella sua direzione, istintivamente Hitomiko aprì una porta e vi si nascose dietro: per fortuna era stata abbastanza veloce, o la vampata di fuoco che il ragazzo aveva prodotto l’avrebbe cotta a puntino. Rimosse velocemente la mano dalla maniglia di ferro; per un attimo restò a guardare orripilata il metallo tingersi di rosso bollente, arroventato, poi fu costretta ad abbassarsi di scatto perché si era accorta che la finestrella sul lato superiore della porta, che somigliava ad una specie di oblò, si stava spaccando. Il vetro esplose un paio di secondi dopo e alcune schegge le caddero addosso, lacerandole la giacca.
Hitomiko deglutì e, una volta raccolto tutto il suo coraggio, si sporse per osservare la situazione: il ragazzo con il mantello non l’aveva inseguita, preferendo invece dirigersi verso la camera di Gazel, proprio come lei temeva…
Aveva già sparato almeno quattro colpi su sei, rifletté.
Decise di ricaricare la pistola prima di muoversi, ma in quel momento si rese conto che le sue mani stavano tremando fortissimo e che il dorso della destra era coperto di sangue per via di un taglio da vetro poco sotto all’indice e al medio. Deglutì di nuovo, ingoiando anche lacrime di paura: doveva controllare le proprie emozioni, doveva smettere di tremare e prepararsi a combattere. Riuscì a tenere le mani abbastanza salde da ricaricare la pistola e digitare un messaggio per Saginuma: ora che sapeva che suo padre l’aveva ingannata, Saginuma era l’unico di cui si fidava…
Sentì un altro rumore forte, questa volta sembrava che avessero trascinato qualcosa di pesante sul pavimento, forse un letto, o un altro mobile. Non ci furono urla, né di dolore, né di paura. Consapevole di non poter perdere altro tempo e di non poter attendere rinforzi, Hitomiko uscì dal proprio nascondiglio e si avvicinò di soppiatto alla camera di Gazel.
Ma non appena guardò dentro, capì che tutta la cautela del mondo non le sarebbe bastata.
Nella stanza c’era solo il ragazzo che l’aveva aggredita: aveva capelli lisci e bianchi e il mantello marrone rovinato.
Hitomiko era certa che fosse l’assassino di Bonitona, la drifter del fuoco, della quale ora stava usando il potere, dopo averlo copiato con il dono di suo fratello… Hitomiko strinse i pugni e percepì una grande rabbia montare dentro di sé.
Il letto era stato letteralmente capovolto e le parve di scorgere Gazel fare capolino dietro di esso; il ragazzo si sporse appena e la vide, i suoi occhi si riempirono di stupore e la sua bocca si allargò come se stesse per urlare…
Poi qualcosa colpì Hitomiko alla nuca e un dolore bruciante le attraversò la schiena. Barcollò e cadde a terra, perdendo la presa sulla pistola, e i suoi sensi cominciarono rapidamente a perdere sensibilità.
Un ragazzo con lunghi capelli argentei era chino su di lei; Hitomiko notò che impugnava la spada in modo strano, perché probabilmente l’aveva colpita con l’elsa. Lo sentì parlare con l’altro, le voci appena udibili al di sopra del ronzio che le aveva riempito le orecchie come effetto della botta alla nuca.
-La uccidiamo?
-No… È la figlia di Kira. Può essere utile…
-No- mormorò Hitomiko, ma sapeva che nessuno l’avrebbe ascoltata. No, pensò, non voleva diventare un peso…
Il ronzio nella sua testa durò ancora per un po’, poi si spense e calò il buio.
 
 




[*] Espressione inglese che sta per l’italiano: “Pronti… partenza… via!”


**Angolo dell'Autrice**
Eccomi qui di nuovo :)
Devo ammettere che sono stata felice di poter mettere un po' d'azione nel capitolo 41, soprattutto dopo aver scritto il 40 (che però è comunque uno dei miei preferiti ♥). Gli "addestramenti speciali" di Natsumi sono in larga parte incentrati sui doni, spesso coinvolgendo delle Spy Eleven perché allenarsi con i più forti è il metodo migliore per migliorare! Anche in canon Natsumi è dura e quasi spartana con gli altri, ma lo fa per il loro bene, in realtà è una persona molto dolce. 
Ci tenevo a far riapparire Edgar per poter creare un parallelo con i primi capitoli; per questo la conversazione di Edgar e Midorikawa riprende in parte la discussione che avevano avuto precedentemente. E poi volevo far vedere anche altre Spy Eleven, ragion per cui ho inserito Mark e Rococo. Il potere di Mark mi piace molto; ho un debole per i poteri che agiscono sul sistema nervoso, come quelli di Mark, Afuro e Hiroto, perché sono affascinanti e inquietanti al tempo stesso: sono proprio quel tipo di poteri che non vorresti mai vedere in mani nemiche XD
(Comunque, non tutte le Spy Eleven hanno un dono; come si è detto, possono essere diventati tali per altri meriti.)
Ho buttato qua e là hints di Diam/Maki, non ho potuto resistere - per chi se lo fosse chiesto, sono diventati amici e ora sono in una fase di corteggiamento(?) reciproco. Ma si imbarazzano facilmente (lol).
La fine di questo capitolo è molto importante perché mette in moto gli eventi che costituiranno la parte finale dell'arc di Hiroto... Non vedo l'ora, ahah.
A presto (spero),
      Roby

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Capitolo 42
*** Mission 42. ~Hiroto's Arc. ***


Finalmente il nuovo capitolo è pronto! Ci ho messo settimane, sigh. Spero che almeno valga l'attesa.

Quella mattina cominciò in modo apparentemente normale.
Mi ero svegliato presto e Kazemaru ed io ci eravamo subito diretti in sala addestramento. Natsumi aveva pianificato un addestramento a coppie. Ci trovavamo a fronteggiare i due ragazzi della squadra americana che erano venuti in Giappone con Kruger, Dylan Keith e Ichinose Kazuya, probabilmente i suoi sottoposti più vicini.
Avevo presto imparato che gli enormi occhiali di Dylan non erano solo un accessorio, bensì uno strumento per controllare e direzionare il suo potere: il ragazzo era infatti in grado di lanciare dei raggi dagli occhi, certamente così potenti da poter friggere l’avversario. Era un tipo istintivo, che passava subito all’attacco. Ichinose, invece, faceva molto affidamento sul corpo a corpo, perché era agile e scattante. Su un campo da corsa, forse sarebbe stato veloce quanto Kazemaru. Inoltre, il suo dono era della categoria Fuoco e, attraverso una sorta di danza, riusciva ad evocare un turbinio di fiamme che facevano da scudo al suo corpo.
Sorrisi tra me e me, pensando che Kazemaru sarebbe stato certamente in grado di farle estinguere: ormai era diventato bravissimo nella tecnica dei vuoti d’aria, grazie all’allenamento quotidiano con Diam. Natsumi doveva pensarla allo stesso modo; in questa prospettiva, la sua scelta di assegnargli Ichinose come avversario era logica. Natsumi non creava mai programmi di addestramento casuali.
-Ehi, amico, non distrarti!- Dylan mi chiamò per attirare la mia attenzione. Il suo giapponese non era buono come quello di Mark e aveva un fortissimo accento.
–Il tuo avversario sono io!- urlò e mi balzò addosso.
Evitai un calcio nello stomaco per un soffio spostandomi di lato, girai su me stesso e, a mia volta, cercai di colpirlo con una ginocchiata al fianco. Dylan mi scansò con facilità, poi fece una capriola all’indietro e per un attimo restò in equilibrio su una mano. L’ultimo movimento sembrava del tutto superfluo, un vezzo dovuto al fatto che Dylan amava lottare come se stesse eseguendo una sorta di break dance. Poggiò anche l’altra mano a terra e si rimise in piedi, pronto a per scattare nuovamente all’attacco.
In quel momento, un suono lungo e acuto ci fece bloccare tutti. Lo riconobbi: era il suono che precedeva le comunicazioni fatte dall’ufficio di Seijurou. Poco dopo, infatti, la voce del mio capo rimbombò nella sala.
-A tutti gli agenti presenti nell’edificio, ripeto, a tutti gli agenti in ascolto… Siete pregati di interrompere le vostre attività e dirigervi nella sala mensa nei prossimi dieci minuti per una comunicazione urgente- affermò, poi un altro suono chiuse l’annuncio.
Natsumi infilò il taccuino nella propria borsa e batté le mani.
-Va bene, ragazzi! Per oggi chiudiamo qui… Facciamo come richiesto- esclamò.
Dylan si portò una mano alla spalla e la massaggiò, facendo ruotare al contempo il braccio. Disse qualcosa a Ichinose che non riuscii a cogliere, parlava troppo veloce.
-Cosa ha detto?- chiese Kazemaru, anticipandomi. Ichinose scrollò le spalle. Da quel che avevo capito, era giapponese come noi, ma aveva vissuto tanto a lungo negli Stati Uniti da aver ottenuto la cittadinanza americana.
-Si stava solo chiedendo se la comunicazione non fosse legata all’assenza del nostro capo. Mark è stato chiamato dal signor Kira ieri sera e non si è più fatto vedere- ci spiegò, paziente. –Forse non si nota, ma Dylan è sempre un po’ agitato quando Mark non c’è.
Mi voltai a osservare Dylan. In effetti, non si notava nulla del genere in lui, appariva abbastanza rilassato, ma doveva pur esserci un motivo se si era ritrovato da una psicologa.
Uscimmo dalla sala addestramento in file ordinate di due e in poco tempo arrivammo alla mensa; dal momento che ogni Spy Eleven aveva portato con sé almeno due o tre sottoposti, in sala si era formata una bella folla di ragazzi di varia nazionalità, con abiti e pelle di colori differenti.
Seijurou non aveva ancora cominciato a parlare, stava aspettando che l’orologio sulla parete segnasse lo scadere dei dieci minuti che aveva concesso. La sua espressione bastò a farmi capire che non aveva buone notizie da dare; per la prima volta, avvertivo sensazioni di angoscia e paura provenire da lui, niente a che vedere con il suo solito sangue freddo. Oltre a lui, le uniche Spy Eleven presenti erano Desarm e Raimon, il padre di Natsumi.
Preso dall’inquietudine, mi strinsi a Kazemaru. Nella folla scorsi molti volti familiari, come Reina e Zell, ma ne mancavano altri importanti, come Afuro, o l’intera squadra italiana. Ad un tratto Zell mi vide e si chinò verso Reina come se le stesse bisbigliando qualcosa all’orecchio; subito dopo, la ragazza si girò verso di me: aveva uno sguardo turbato e mi fece cenno di avvicinarmi. Ebbi l’impressione che volesse dirmi qualcosa, ma non fece in tempo, perché in quel momento Seijurou fece un passo avanti e si schiarì la voce. Tutti i presenti si girarono immediatamente verso di lui.
-Purtroppo, miei cari ragazzi, ho una notizia orribile da darvi. Ieri sera abbiamo ricevuto notizia di un attacco da parte del gruppo di Garshield. Non solo numerosi dei nostri poliziotti e degli impiegati dell’ospedale sono stati brutalmente uccisi, ma due persone sono state portate via. Due nostri cari amici sono stati rapiti… Gazel, il nostro archivista, e Hitomiko Kira… mia figlia – annunciò, grave. Si fermò per schiarirsi nuovamente la voce.
-Fideo Ardena e Choi Chang Soo si sono offerti, con i membri del loro team, di recarsi sul luogo incriminato per raccogliere indizi e interrogare possibili testimoni- disse. -Al loro ritorno, presumibilmente nel tardo pomeriggio, si terrà un meeting nella nostra sala conferenze e noi Spy Eleven decideremo che misure adottare e come contrattaccare, per procedere finalmente con la cattura di Garshield Bayhan. Per il momento, è tutto. Ci rivediamo al meeting per aggiornarvi con ulteriori svolgimenti.
Mentre Seijurou si ritraeva e lasciava la sala insieme al signor Raimon e a Desarm, un brusio di voci si alzò dai ragazzi presenti in sala. Mi voltai e incrociai lo sguardo di Endou: la sua espressione corrucciata mi fece intuire che aveva avuto il mio stesso pensiero. Mi fece un cenno di assenso col capo, e nello stesso momento Kazemaru mi colpì leggermente il braccio.
-Vai, adesso- mi sussurrò. Annuii, mi girai e subito cominciai a farmi largo tra i presenti per raggiungere la porta. Se Hitomiko e Gazel erano stati rapiti, Hiroto doveva saperlo. Ero certo che avesse sentito l’annuncio di Seijurou e che fosse preoccupato.
Passai in mezzo a Heat e Nepper e m’infilai nel varco della porta; ero appena uscito quando sentii una mano stringersi attorno al mio braccio. Era Reina.
-Midorikawa, aspetta un attimo. Devo parlarti di una cosa importante- disse con una punta d’impazienza, ma io posai una mano sulla sua, facendole allentare la presa.
-Mi dispiace, ora sono un po’ occupato… Magari possiamo parlare più tardi? Se vuoi?- risposi in fretta. Reina esitò per un istante, ma poi annuì e mi lasciò andare. Mi staccai da lei e mi misi a correre verso la stanza di Hiroto.
-Midorikawa, vieni a cercarmi appena hai finito, okay?- mi gridò Reina alle mie spalle.
-Certo, a dopo!- replicai, senza voltarmi, e continuai a correre.
 
xxx
 
Quando bussai alla porta di Hiroto, lui mi aprì subito.
-Cos’è successo?- chiese appena ci trovammo faccia a faccia. Aveva un’espressione preoccupata. –Mio padre ha fatto una comunicazione urgente e…?
Come sospettavo, aveva sentito. Presi un respiro profondo e gli spiegai brevemente cosa ci aveva detto Seijurou. Hiroto non distolse mai lo sguardo da me mentre parlavo; mi si strinse il cuore vedendo la sua espressione incupirsi sempre di più. Infine si sedette sul letto ed abbassò lo sguardo sulle proprie mani intrecciate in grembo.
-Capisco. Garshield ha deciso di sferrare una mossa decisiva… Finora ho sempre avuto l’impressione che stesse tastando il terreno, o che si divertisse a giocare con noi- commentò, amareggiato. Si morse l’interno della guancia con aria pensierosa.
–Forse anche l’attacco alla nostra agency era stato studiato in previsione di questo…
Lo guardai, sorpreso, e chiesi:- Cosa vuoi dire?
-Ne avevo già il sospetto, ma è probabile che quel giorno i ragazzi di Garshield non fossero venuti a rubare semplici informazioni dagli archivi… A dire il vero, penso che fossero qui per Gazel- affermò Hiroto con un’espressione molto seria.
-Pensi che già allora mirassero a rapire Gazel? Ma perché?
-Pensaci bene, Midorikawa. Tu eri presente quando è successo… Non hai notato nulla di strano?
Non riuscivo a capire il ragionamento di Hiroto. Non amavo rivisitare i ricordi quel giorno, ma mi sforzai di ricordare com’erano andate le cose. In effetti, nonostante i nemici si fossero introdotti in tutto l’edificio, il loro attacco principale si era focalizzato sull’ufficio di Gazel…
-Gli attacchi sembravano disorganizzati- mormorai. –Hanno attaccato in vari punti dell’edificio… Forse volevano depistarci, per non farci capire qual era il vero obiettivo…?
Hiroto annuì lentamente.
-È probabile. Ascolta… Non l’ho mai raccontato a nessuno, perché allora ci dissero di mantenere il segreto… ma non credo abbia più senso insabbiare l’accaduto, in queste circostanze- disse.
-Quando eravamo ancora nel periodo dell’addestramento, il nostro centro è rimasto coinvolto in un incidente strano. Il centro è stato costruito sotto terra e si dirama in molte gallerie… Era un luogo dotato di tutte le norme di sicurezza, continuamente tenuto sotto controllo. Chang Soo, che ne era a capo, era molto attento a queste cose- mi spiegò. –Eppure, durante una prova, inaspettatamente, una galleria crollò, bloccando alcuni di noi sotto terra. Con me c’erano Burn, Gazel, Afuro ed altri due ragazzi, che ora fanno parte del team coreano di Chang Soo.
-Nonostante le difficoltà, riuscimmo a uscire… Ma avevamo la costante sensazione di essere osservati. Al termine della prova, Chang Soo rientrò da solo e controllò personalmente tutte le gallerie. Non ci ha mai detto cosa ci abbia trovato, ma ci disse che aveva parlato con mio padre e ci fece promettere di non raccontare in giro cosa fosse successo.
-Hiroto…- lo interruppi. –Tu credi… che anche allora c’entrasse Garshield…?
-Non ho prove per affermarlo con certezza, ma il fatto che sia avvenuto solo dopo l’arrivo di Gazel e che anche stavolta ci sia lui di mezzo… Non possono essere coincidenze, questo è un piano ben studiato. Non capisco perché Garshield lo abbia preso di mira, ma Gazel è stato chiaramente uno dei suoi obiettivi fin dall’inizio. Sono certo che se indagassimo meglio, scopriremmo che i documenti che sono stati rubati dall’archivio riguardano Gazel stesso.
Si fermò, sospirò e si massaggiò le tempie con due dita.
-Quanto a mia sorella, probabilmente lei non c’entra nulla… Sicuramente ha cercato di aiutare Gazel, ma alla fine è stata presa anche lei- mormorò.
-Hai detto che oggi pomeriggio si terrà un meeting, giusto?- domandò.
-Sì, esatto.
Hiroto rimase per un po’ in silenzio, poi si riscosse e alzò lo sguardo.
-Bene, è il momento di fare qualcosa. Ho intenzione di partecipare al meeting- affermò.
Lo fissai, spiazzato e forse un po’ scettico.
-Ne sei sicuro?- chiesi. Hiroto annuì.
-A dire la verità, ho paura di incontrare mio padre- ammise, non senza una certa amarezza.
–Ho così tante cose da dirgli… da chiedergli… eppure allo stesso tempo ho paura di parlare con lui. Ma non posso odiarlo. Non ci riuscirei nemmeno provandoci.
Scossi il capo, frustrato.
-Io… Io non posso perdonarlo- dissi. –Non posso proprio perdonargli di averti ferito così!
L’espressione di Hiroto si distese lievemente.
-Grazie… Sapere che pensi a me fino a questo punto mi rende molto felice, e capisco come ti senti… Ma Seijurou è mio padre, è ancora l’uomo che mi ha cresciuto. Io… Per quanto possa essere difficile, o doloroso, voglio continuare a credere in lui. Voglio credere che mi abbia visto davvero come un figlio, in tutti questi anni.
-Inoltre, ho la sensazione che, se tu sarai al mio fianco, andrà tutto bene. Midorikawa, tu mi dai coraggio… Quando sono con te, mi sembra di poter fare qualunque cosa. È grazie a te se ho finalmente deciso di smetterla di scappare- aggiunse, inspirò a fondo.
-Sai… penso che in realtà tu mi sia sempre piaciuto- confessò timidamente.
-Certo, i miei sentimenti per Endou erano veri. C’è sempre stato per me, non mi ha mai lasciato solo. Ma con te è tutto diverso. Tu mi piacevi e allo stesso tempo ti invidiavo, perché non hai paura di metterti in gioco. E poi… beh, ecco, c’è la questione dell’attrazione fisica…
Ero sicuro che stesse pensando al nostro primo bacio; automaticamente il mio sguardo cadde sulle sue labbra, che stava mordicchiando nervosamente, e la scena mi tornò vividamente alla memoria. Arrossimmo furiosamente entrambi.
Hiroto tossicchiò, imbarazzato, e cambiò argomento, tornando al punto centrale.
-Comunque, quando ho scoperto la tua empatia, mi sei piaciuto ancora di più. Mi sono sentito sollevato… Probabilmente mi piaceva il fatto che tu potessi capirmi senza che io dovessi espormi…
D’un tratto sentii la mia bocca seccarsi.
-Ecco… A proposito della mia empatia…- Mi bloccai, esitante, poi mi costrinsi a continuare.
-Devo dirti una cosa importante. La mia empatia non… non funziona più su di te- confessai con un certo imbarazzo.
L’espressione sorpresa sul volto di Hiroto si addolcì subito. Mi fece cenno di sedermi sul letto accanto a lui e, non appena ci trovammo abbastanza vicini, mi abbracciò goffamente.
-Midorikawa, non devi preoccuparti di quello… Non importa più, ormai. Ho smesso da tempo di fare affidamento sulla tua empatia- mi rassicurò. -Dopo la tua dichiarazione, ho cominciato ad osservarti anche io, sai... Ho visto come sei altruista e coraggioso, come metti sempre il bene degli altri prima del tuo.  E più ti guardavo, più mi accorgevo di volerti essere di sostegno.
-Sono felice che tu voglia aiutarmi, ma ho deciso che non scaricherò più il peso del mio passato sugli altri. In fondo, voglio condividere molto più che solo dolore con te. Voglio condividere momenti felici… Ormai è da tempo che desidero un futuro felice al tuo fianco, Midorikawa.
Le orecchie di Hiroto erano rosse quasi quanto i suoi capelli per l’imbarazzo. Quando compresi cosa volesse dire, avvampai furiosamente anch’io. Hiroto si distaccò leggermente e poggiò la fronte contro la mia.
-Sapere che sei al mio fianco, sapere che sei qui per me... questo mi dà una forza e un coraggio che non credevo di avere- sussurrò. -Io ti amo, Midorikawa.
Il mio cuore perse un battito.
-Sì, ti amo anch’io- risposi, la voce mi venne a mancare. Abbassai istintivamente lo sguardo sulle sue labbra, che erano a pochi centimetri dalle mie, e questa volta non esitai un attimo. Lo baciai dolcemente e lui ricambiò, poi si scostò per poggiarmi un bacio leggero sulla fronte. Nei suoi occhi c’erano tracce di lacrime, ma vidi anche una rinnovata determinazione.
La reclusione di Hiroto era finita.
 
xxx
 
La porta della sala riunioni era chiusa, il meeting probabilmente era già iniziato.
Hiroto mi lanciò un’occhiata ed io gli presi la mano, poi abbassai lentamente la maniglia e, senza far rumore, ci infilammo nella stanza. Restammo in piedi davanti alla porta, addossati alla parete, e nessuno si accorse della nostra presenza; le luci erano spente e l’ambiente era quasi completamente al buio, probabilmente affinché si vedessero meglio le immagini proiettate sullo schermo.
Quei ragazzi dovevano avere tutti la mia età, circa, o erano di poco più grandi. Il primo che riconobbi fu il ragazzo che ci aveva attaccati il giorno in cui eravamo tornati al locale di Bonitona e aveva ferito Fubuki Shirou; si chiamava Fox, aveva capelli bianchi fino alle spalle, un occhio coperto dalla frangia e l’altro socchiuso, come se stesse studiando i dintorni. Probabilmente era stato lui ad uccidere Bonitona e a rubarle il dono. Scorsi rapidamente gli altri nomi, cercando di memorizzarli e al contempo legarli a dei volti: Jackal, Buffalo, Mantis e molti altri, in tutto erano almeno una decina. Mi soffermai a lungo su Coyote, colui che più volte ci aveva ostacolato e che più volte avevo incontrato personalmente.
Le Spy Eleven occupavano i loro soliti posti ed ascoltavano con attenzione ciò che il team di ricerca aveva trovato. A presentare le informazioni, per la maggior parte, era Marco Maseratti, che girava con un computer portatile in mano: probabilmente era tramite quello che poteva trasmettere le immagini sullo schermo. Accanto a lui c’era il suo inseparabile compagno, Gianluca Zanardi, e Haruna Otonashi, una ragazza che, a quanto ricordavo, faceva parte del team di Natsumi ed era molto brava con i computer. Era stata lei, insieme a IQ, ad agire da hacker ed infiltrarsi nei server nemici, continuando il lavoro lasciato incompleto da Gazel. A pochi metri da Otonashi, c’era anche Burn, che pure aveva collaborato alla ricerca. Stranamente non sembrava intenzionato ad aprire bocca, stava solo in piedi con le braccia incrociate al petto ed il volto scuro. Pensai che, probabilmente, Gazel era al centro dei suoi pensieri.
-I ragazzi che vedete sullo schermo sono coloro che chiamiamo “il team di Garshield”- stava dicendo Marco. Aveva un microfono ad archetto sistemato tra l’orecchio destro e la bocca.
–Hanno tutti tra i quindici e i diciotto anni. Per la maggior parte sono orfani provenienti da un orfanatrofio nello Shinsekai, da dove sono stati prelevati circa due anni fa. Due o tre di loro, invece, vengono da una casa famiglia a Okinawa. Sembra che tutti loro abbiano sviluppato una sorta di… attaccamento per il loro rapitore.
-Un evidente caso di sindrome di Stoccolma- precisò Gianluca, cupo. Marco annuì con serietà, poi si rivolse nuovamente alle Spy Eleven e alla platea di ascoltatori.
-Di recente abbiamo appreso, grazie al lavoro del ricercatore Kudou, che Garshield si è impossessato di un modo per “copiare” i doni altrui, in modo che i suoi ragazzi potessero usarli. Non conosciamo tutti i poteri che sono stati rubati, ma dai filmati sono emerse alcune cose che vi invito a memorizzare nel caso ve li trovaste davanti.
Marco premette un tasto sul proprio pc e, in tal modo, solo cinque foto comparvero sullo schermo, ingrandite e poste una di fianco all’altra in una fila orizzontale.
-Coyote ha un dono della categoria Vento, sottocategoria Ghiaccio. Ha rubato questo dono a Fubuki Atsuya, l’unica vittima sopravvissuta ai loro “furti”- spiegò Gianluca, indicando l’immagine del ragazzo.
Alle sue parole seguì un rumore che, seppur debole, riuscii a udire perfettamente, poiché proveniva da qualche parte vicino a me. Mi guardai intorno e, con la coda dell’occhio, notai che erano presenti anche i gemelli Fubuki. Osservavano ed ascoltavano come tutti, ma erano chiaramente immersi in un mondo che apparteneva soltanto a loro; a dimostrazione di ciò, se ne stavano appartati in un angolo per conto proprio, in piedi, talmente vicini che nessun’altro avrebbe potuto sentire i loro commenti. Non era comunque difficile immaginare cosa si stessero dicendo. Percepivo una forte frustrazione, accompagnata da rabbia e tristezza, provenire da loro. Mi resi conto che il rumore che avevo sentito era stato causato da Atsuya, il quale aveva appena dato un pugno al muro dietro di lui; Shirou gli circondava ora saldamente la mano con la propria e gli stava bisbigliando qualcosa all’orecchio, ma il suo gemello, per una volta, non sembrava intenzionato ad ascoltarlo. Era inconsolabile; non avrebbe probabilmente superato il dolore della perdita del proprio dono, avrebbe portato con sé quel vuoto per tutta la vita.
Tornai a concentrarmi sullo schermo e vidi che Gianluca era passato avanti.
Come avevo già intuito, era Fox ad aver rubato il dono di Bonitona. Gianluca presentò poi in successione Mantis, un ragazzo dai capelli verdi che aveva acquisito un dono della categoria Foresta; Jackal, uno della categoria Montagna; ed infine Buffalo, un bestione con un potere di categoria Albero, Energia, come Endou. Dei tre drifters a cui avevano rubato i doni, solo due erano stati identificati – l’uomo e la ragazza di cui anche Bonitona e Rean ci avevano parlato – mentre era stato impossibile riconoscere l’altro corpo a causa delle lesioni subite. Rabbrividii al pensiero che dei ragazzi miei coetanei, o persino più piccoli, avessero fatto a pezzi una persona. Eppure, era davvero colpa loro? Non era forse tutta colpa di Garshield, che li aveva rapiti ed aveva fatto loro il lavaggio del cervello? Sapevo razionalmente che era così, ma non potevo che provare odio verso quei ragazzi. Era difficile mettere da parte i sentimenti negativi e ragionare lucidamente in circostanze del genere. Che fossero stati manipolati o meno, quei ragazzi avevano commesso omicidi ed altre azioni orrende; erano assassini a tutti gli effetti.
-Questi sono i soli membri del team di cui conosciamo i poteri… Sono quelli che più spesso vengono mandati in missione nel mondo esterno. In particolare, questo ragazzo- disse Gianluca, indicò Coyote –sembra essere una sorta di leader all’interno del gruppo ed il più vicino a Garshield. Si può dire che sia lui a ricevere gli ordini e a passarli al resto del team.
-Se ve lo trovate davanti, consiglio di attaccare per primi. Non è saggio lasciare che sia lui a fare la prima mossa- aggiunse Marco con una smorfia.
D’un tratto, la Spy Eleven argentina intervenne con voce profonda.
-Ah! Se si trovasse davanti a me, questo poppante  passerebbe il più brutto quarto d’ora della sua vita. Si pentirebbe amaramente di aver lasciato la culla- affermò in tono arrogante. Aveva una voce profonda, con un pesante accento, ed aveva un fisico solido, forte, di larga stazza. Francamente, pensavo che anch’io non avrei mai voluto trovarmelo come avversario in un combattimento, nemmeno durante un addestramento: aveva l’aria di poter sollevare un pilastro da solo, una specie di Atlantide in forma umana.
-Non sottovalutare il nemico, Tolue- lo rimproverò Edgar Valtinas. Stranamente, non aveva la solita aria calma, impassibile; al contrario sembrava alquanto esasperato.
-Sarebbe anche ora che tu ammettessi la mia superiorità, Valtinas- ribatté Tolue, vagamente irritato. –Sbaglio, o l’ultima volta che ci siamo scontrati ti ho preso a calci nel…
-Hai barato. Hai attaccato prima che l’arbitro desse il segnale.
-Non ho mai detto che avrei attaccato dopo il segnale. Quelle sono regole da mammolette.
Dal modo in cui battibeccavano, e soprattutto dalle espressioni rassegnate o impassibili delle altre Spy Eleven, era probabile che quei due avessero avuto quella discussione già molte altre volte.
-Teres, Edgar, vi prego- disse Mark, infatti, poco dopo. –Stiamo parlando di uno scontro avvenuto più o meno dieci anni fa! Non potete mettere da parte i rancori una volta e per tutte?
-Nove anni- lo corresse Edgar, puntiglioso. –E no, non finché non ammetterà di aver barato. Non riconoscerò mai la vittoria di questo bruto.
Tolue aprì la bocca, pronto a rispondergli per le rime, ma in quel momento Roniejo, la Spy Eleven brasiliana, tossicchiò per attirare la loro attenzione.
-Scusate, questo non mi pare né il momento né il luogo per litigare. Quando tutto questo sarà finito, potremmo organizzare un nuovo scontro per pareggiare i conti. Vi farò io stesso da arbitro- propose. –Ora, invece, dovremmo concludere il meeting e definire la nostra strategia.
Le sue parole furono accolte con approvazione da parte dei suoi colleghi, anche da Valtinas e Tolue, i quali accettarono quindi di mettere da parte il diverbio e pareggiare i conti più in là, per concentrarsi invece sui problemi presenti. Roniejo sorrise, soddisfatto.
-Sono spiacente per l’intromissione- disse Chang Soo, con un tono che lasciava intendere che non era affatto dispiaciuto –ma io avrei delle informazioni da condividere con voi tutti. Ho la vostra attenzione?- Attese per un momento che tutti fossero in silenzio, poi riprese.
-Prima di tutto, mi preme rivelarvi che uno dei due ostaggi proviene dallo stesso orfanatrofio dello Shinsekai da cui vengono molti dei ragazzi di Garshield. Ciò mi porta a credere che il nostro agente fosse uno dei loro obiettivi da molto tempo prima che cominciassero i recenti attacchi- confessò Chang Soo.
Mi girai di scatto verso Hiroto; contemporaneamente, lui mi lanciò un’occhiata ed annuì. I suoi sospetti, quindi, si rivelavano essere fondati: Gazel era sempre stato un obiettivo.
-Il nostro agente ha solo di recente scoperto la natura del proprio dono, Kudou stava ancora conducendo dei controlli al riguardo. Perché Garshield è così interessato al dono di Gazel? Di ciò non siamo a conoscenza. Tuttavia, è chiaro che la liberazione di Gazel, e naturalmente di Kira Hitomiko, deve essere una delle massime priorità di questa missione.
-Fortunatamente, i ragazzi del team di Garshield non sembrano essersi accorti del fatto che Gazel portasse con sé una ricetrasmittente. Era tramite di essa, infatti, che l’agente comunicava con Kudou quando lui non aveva possibilità di visitarlo all’ospedale. Grazie a questa trasmittente, siamo in grado di dire dove gli ostaggi sono stati portati.
-Si tratta di un centro commerciale abbandonato, poco fuori dal quartiere dello Shinsekai. È altamente probabile che, con gli ostaggi, si trovino anche dei membri del team di Garshield, con il compito di fare la guardia. Riteniamo infatti che quella sia la loro base, il loro rifugio per così dire, ed anche il luogo dove si trova la “macchina” per la copia dei poteri.
Chang Soo si fermò per qualche minuto, come per dare a noi che ascoltavamo il tempo di metabolizzare tutte quelle informazioni. Alla menzione della “macchina” della copia, Hiroto mi prese la mano e la strinse forte ed io ricambiai. Quando sollevai lo sguardo verso di lui, sperando di intuire cosa provava dalla sua espressione, vidi che aveva lo sguardo fisso davanti a sé, precisamente in direzione di suo padre, come se a sua volta stesse tentando di carpirne i pensieri.
Intanto, Chang Soo seguitò a parlare.
-Propongo la formazione di due squadre di membri scelti, che si infiltreranno nella base nemica. L’obiettivo primario è liberare gli ostaggi, ma la prima squadra, che chiameremo A, farà soltanto da avanscoperta, mentre sarà la seconda ad occuparsi di raggiungere gli ostaggi- dichiarò.
-Qualcuno ha obiezioni?
-A me sta bene, niente da ridire- intervenne Fudou. –Anzi, ci tengo a proporre me e i miei sottoposti come avanscoperta. Avrò la possibilità di fare a pezzi parecchia feccia.
Immaginai che, da qualche parte nella platea, Genda e Sakuma dovessero star sospirando, rassegnati al comportamento del loro leader, tuttavia nessuno di loro mosse obiezioni. Probabilmente avevano imparato ad accettarlo così com’era. Ancora più strano fu accorgermi che, nonostante tutto quello che era successo, o forse proprio per quello, anch’io avevo cominciato a nutrire una forma di rispetto nei confronti di Fudou.
Desarm sollevò la mano per attirare l’attenzione su di sé.
-Anche io vorrei proporre la mia squadra per questa missione, tuttavia porterò solo alcuni membri- disse, poi si schiarì la gola ed alzò la voce. -Diam, Heat e Nepper, siete con me. IC e Clara resteranno qui per occuparsi della ragazza sopravvissuta all’attentato.- Sapevo che parlava di Rean. Forse IC era riuscita a diventare sua amica, dopotutto.
-IQ, Zell, voi resterete qui a dare una mano con le ricerche- continuò Desarm. –Conto su tutti voi!
Tutti i membri della sua squadra si levarono in piedi, risposero ad alta voce, in coro, con un sì, e si sedettero nuovamente.
Quindi Diam avrebbe partecipato alla missione in prima linea… Ero preoccupato per lui, ma allo stesso tempo bisognava ammettere che il suo potere era decisamente adatto a quel ruolo. Capivo anche la scelta di portare Heat e Nepper. Desarm conosceva bene i suoi sottoposti.
-Bene, così abbiamo già sette componenti- riassunse Chang Soo, poi si rivolse a Marco.
-Maseratti, ti spiace fare uno schema al computer e trasmetterlo allo schermo?
-Niente affatto, signore, sarà fatto subito- rispose l’italiano, mettendosi subito al lavoro.
Chang Soo annuì e riprese il microfono.
-Passiamo quindi alla formazione di una seconda squadra, che chiameremo B, per il salvataggio degli ostaggi. Trattandosi qui di una mia vecchia conoscenza, desidero propormi come leader del gruppo. Porterò con me soltanto il mio braccio destro, Aphrodi, quindi chiunque altro voglia farsi avanti è il benvenuto.
Non appena ebbe finito di parlare, Seijurou si mosse. Mi concentrai subito su di lui, curioso ed in ansia. Era la prima volta che apriva bocca nel meeting ed era probabile che stesse per proporre la sua squadra.
-I due ostaggi fanno parte del mio team, quindi è giusto che di questo gruppo facciano parte soprattutto i miei agenti. Ora chiamerò dei nomi; quando sentite il vostro, rispondete- disse Seijurou con voce grave. Inspirò a fondo, poi iniziò:– Endou Mamoru. Kazemaru Ichirouta. Gouenji Shuuya. Midorikawa Ryuuji. Nagumo Haruya. Questi sono i membri che ho scelto.
Mi aspettavo la nomina e mi feci avanti, rispondendo a piena voce senza esitare. Tutti gli altri fecero lo stesso, alzandosi in piedi. Vidi Kazemaru voltarsi verso di me, cercare il mio sguardo; era seduto tra le file centrali, tra Endou e Diam, ed i nostri occhi si incrociarono per un momento attraverso la sala. Anche Diam si girò di scatto, mi individuò e mi salutò agitando un braccio. Avremmo preso parte tutti e tre alla stessa missione, sebbene in gruppi diversi. Ad essere sincero, non potevo chiedere di meglio: desideravo andare in prima persona a salvare Gazel e Hitomiko e, anche se Seijurou non mi avesse nominato, mi sarei probabilmente offerto.
La mia attenzione fu distratta nuovamente da Hiroto, che si era irrigidito, la sua stretta sulla mia mano ora faceva quasi male. Lo guardai, sembrava molto nervoso.
Mi sovvenne che il suo nome non era stato chiamato.
-Questa è la formazione della squadra B, dunque- dichiarò Chang Soo. –Desidero inoltre chiedere agli altri miei colleghi di occuparsi dell’arresto definitivo di Garshield mentre noi ci dilettiamo con i suoi deliziosi allievi.
-Troveremo la sua postazione- intervenne Raimon. –E bloccheremo ogni sua possibile via di fuga.
-Conosciamo i luoghi in cui c’è maggiore probabilità di scovarlo. Alla fine Big D ha parlato. Deve essersi reso conto che Garshield non lo avrebbe protetto affatto…- aggiunse Mark Kruger.
-Mi stupisce che ci abbia anche solo creduto- borbottò Fideo sotto voce.
-Possiamo fermarlo. Questa volta, possiamo fermarlo davvero. Lo arresteremo- esclamò Urupa.
Sembravano tutti molto determinati ora che avevano raggiunto un accordo. Certo, era ancora tutto molto vago; bisognava elaborare un piano, mettere a punto una strategia di attacco.
D’un tratto sentii la mano di Hiroto lasciare la mia.
Mi voltai di scatto verso di lui, ma si stava già muovendo, si stava incamminando verso il palchetto su cui stavano le Spy Eleven. Rimasi immobile a guardarlo andare, chiedendomi cosa avesse in mente; dopo qualche secondo, altre teste iniziarono a girarsi verso Hiroto, seguendo con lo sguardo il suo passaggio attraverso la stanza, lungo il corridoio centrale che separava i due blocchi di sedili. Ricordai che Hiroto mi aveva detto di aver giocato molto, con il figlio di Kira, tra queste sedie, e mi chiesi che effetto dovesse fare per lui percorrere la stessa stanza adesso, sotto circostanze completamente diverse. Lo immaginai, bambino, correre e ridere nello stesso spazio dove ora, cresciuto, camminava lentamente, serio, silenzioso.
Le Spy Eleven, ancora immerse in una conversazione interna, notarono che qualcuno si stava avvicinando solo quando Hiroto arrivò praticamente davanti al palchetto; senza dire nulla, il ragazzo sorpassò Burn, che gli scoccò un’occhiata sorpresa, e si fermò davanti a Chang Soo.
Hiroto disse qualcosa che non riuscii a sentire, dal momento che non aveva un microfono. Forse stava chiedendo a Chang Soo il permesso di parlare. La Spy Eleven parve soppesare la richiesta, pensieroso, poi annuì solennemente e si voltò verso Gianluca.
-Agente Zanardi, le spiace prestare il suo microfono all’agente Kiyama?- gli chiese. Il suo tono lasciava intendere che la richiesta era stata posta sotto forma di domanda più che altro per educazione, ma non era prevista una risposta negativa.
Nonostante ciò, Gianluca non obbedì subito, lanciò prima un’occhiata a Fideo, come se cercasse la sua approvazione. Probabilmente non lo aggradava dover prendere ordini da qualcun altro; per quanto poco lo conoscessi, era chiaro che fosse una persona orgogliosa. Soltanto quando Fideo gli accennò di procedere, Gianluca si rassegnò, si sfilò il microfono ad archetto e lo passò a Hiroto, il quale ringraziò con un piccolo inchino.
Poi il ragazzo si raddrizzò, indossò il microfono e si girò in modo tale da avere sott’occhio sia le Spy Eleven, da un lato, che la platea dall’altro.
-Come Zanardi e Maseratti ci hanno spiegato, non è un mistero ormai che Garshield disponga del potere di copiare i doni altrui e che lo usi per rendere più forti i suoi sottoposti. Finché avrà quest’arma, sarà difficile fermarlo… Per questo, credo che sia necessario bloccare definitivamente il potere della copia- disse Hiroto con voce ferma.
-Vi chiedo formalmente di rivedere gli obiettivi della missione e la formazione attuale delle squadre. Abbiamo bisogno di qualcuno che fermi il potere della copia per sempre.
Le Spy Eleven sembravano sorprese dalla sua richiesta. Ancora una volta, fu Chang Soo a prendere la parola per primo.
-La tua richiesta giunge inaspettata, Kiyama, ma non è irragionevole. Naturalmente, sappiamo entrambi che c’è una sola persona, in questa sala, che abbia davvero la possibilità di annullare quella particolare abilità di copia- replicò con un’espressione indecifrabile.
Hiroto inspirò a fondo per farsi coraggio. Chiuse gli occhi per un attimo e, quando li riaprì, apparve ancora più determinato.
-Naturalmente. L’unica persona con un dono simile sono io stesso. Per questo vi chiedo di affidarmi questa missione. Mi occuperò personalmente di farlo- affermò.
Dalla platea si levò un mormorio. Nell’espressione di Hiroto non c’era esitazione, era bravo a nascondere la tensione.
-In effetti...- cominciò Raimon lentamente, –Kiyama ha il dono di annullare le altre abilità, dico bene, Seijurou?- Si volse verso il vecchio amico, che si limitò a fare un cenno brusco col capo. Hiroto gli gettò uno sguardo rapido, quasi impercettibile, probabilmente chiedendosi quali pensieri stessero attraversando la mente di Seijurou in quel momento.
-Sì, signor Raimon, ciò che ha detto è corretto- Hiroto riprese rapidamente le fila del discorso. -La mia abilità può annullare temporaneamente o definitivamente le altre. Per questo, non penso ci sia nessuno di più adatto a questa missione.
-Dovremmo quindi fidarci di te, affidarti un compito tanto delicato e darti una squadra tutta tua?- domandò Chang Soo, secco.
Hiroto non rispose, ma sostenne il suo sguardo con fermezza. Chang Soo lo studiò per un minuto o due, e più il silenzio si protraeva, più l’aria si caricava di tensione; alla fine, però, il coreano sorrise, quasi divertito, e si alzò dal suo posto.
-Non ho nulla in contrario- dichiarò. –Per quanto mi riguarda, la tua proposta è più che valida, pertanto merita il mio appoggio. Mi sembra, in effetti, che questa sia l’unica strada percorribile.
Si risedette con grazia e, subito dopo di lui, Mark Kruger si alzò dal proprio posto.
-Penso che i ragazzi di Garshield debbano essere fermati. Garshield li usa come armi, per cui dobbiamo togliere loro quel potere. Perciò appoggio la proposta di Kiyama, ma vorrei fare un’aggiunta- affermò.
–Dal momento che bisogna formare una nuova squadra, desidero propormi come volontario insieme ai miei sottoposti per accompagnare Kiyama e sostenerlo. Kazuya? Dylan? Posso contare su di voi?- I due agenti interpellati, seduti tra le prime file in basso a destra, diedero subito il loro consenso. Kruger tornò a sedersi, soddisfatto.
Il suo intervento parve decisivo; seguendo il suo esempio, infatti, anche Urupa si offrì di accompagnare Hiroto insieme ai due agenti che aveva portato con sé. Windy Faster, un ragazzo con capelli azzurri e una bandana, non esitò ad appoggiare il suo leader, sebbene la sua approvazione si limitò ad un cenno del capo. Invece il suo compagno, un certo Goushu Flare, si alzò in piedi.
-Rococo, sai che ho piena fiducia in te, ma non posso restare in silenzio quando nutro dei dubbi- affermò. Urupa gli fece un cenno con la mano.
-Grazie per la tua onestà, Goushu, sai che ti stimo per questo. Visto che sei uno dei partecipanti alla missione, mi sembra giusto ascoltare la tua opinione. Parla pure liberamente.
Non appena il suo capo ebbe finito di parlare, Flare si rivolse a Hiroto.
-Tu. Non conosco il tuo nome. Di che squadra fai parte?
-Sono Hiroto Kiyama, sotto il comando di Kira Seijurou, Spy Eleven di Tokyo- rispose Hiroto senza battere ciglio. Flare lo guardò attentamente e un lampo di consapevolezza gli fece cambiare espressione di colpo.
-Ho capito chi sei. Sei il ragazzo che si è chiuso in camera propria per tre giorni, per un proprio capriccio… Come possiamo fidarci di uno come te? Non scapperai mica con la coda tra le gambe alla prima difficoltà?- domandò Flare contrariato.
Le sue parole mi infastidirono; in una situazione normale sarei intervenuto, tuttavia in questo caso esitai. Flare aveva tutto il diritto di sollevare dubbi...
Con mia grande sorpresa, fu Burn ad intervenire in difesa di Hiroto.
-Ehi! E chi saresti tu per giudicarlo? Se non sai nulla della sua situazione personale, non parlare!- esclamò, facendo un passo avanti per avere un confronto faccia a faccia con Flare.
-Io giudico quel che vedo con i miei occhi- ribatté l'altro, inarcò un sopracciglio ed incrociò le braccia al petto. Burn lo guardò con occhi lampeggianti di sfida.
-No, Nagumo, lascialo parlare- s’intromise Hiroto. Anche lui sembrava piacevolmente sorpreso dal fatto che il compagno l’avesse difeso. –Voglio rispondere io, è giusto che sia così. Comunque, grazie- aggiunse con un sorriso mite. Burn scrollò le spalle, come per nascondere imbarazzo, e si ritrasse.
–Capisco benissimo i tuoi dubbi nei miei confronti… Flare, giusto?- L’altro annuì, e Hiroto proseguì. –Il mio comportamento negli ultimi giorni è stato… ah, riprovevole, lo ammetto. Non ho intenzione di giustificarmi in alcun modo. Ma qui si tratta di una missione, non di una questione personale…
Hiroto s’interruppe di colpo, come fulminato da un pensiero improvviso.
-No, anzi… Mi correggo- riprese, mentre si voltava lentamente a guardare tutta la platea.
-Questa è una questione personale. Garshield Bayhan, quest'uomo… Ha fatto del male a nostri amici, conoscenti, parenti, e potrebbe farne ancora, in qualsiasi momento, con qualunque mezzo. Sappiamo che quest'uomo non ha scrupoli, non ha paura e sembra non aveva nemmeno rimorsi. È un minaccia per noi che abitiamo in Giappone, ma ha possibilità di attaccare anche all’estero. Garshield Bayhan è una minaccia costante per tutti e va fermato.
-Per me, è una questione personale. Voglio partecipare a questa missione e fare tutto ciò che è in mio potere per fermarlo. Voglio proteggere le persone che amo, voglio metterle al sicuro e dare loro un futuro felice- disse Hiroto serio, deciso. -Non scapperò, resterò fino alla fine. Per favore, lasciatemi combattere con voi.
Non appena Hiroto tacque, mi accorsi di quanto silenziosa fosse la sala. Nessuno aveva osato interromperlo ed anche adesso non c’era nemmeno un mormorio, come se tutti fossero rimasti rapiti dal suo discorso. Hiroto era così bravo a parlare da aver messo a tacere tutti.
Il rosso si voltò di nuovo verso Flare e lo fissò direttamente negli occhi; l’altro agente ricambiò lo sguardo, come se stesse soppesando la sua onestà, ed infine chinò leggermente il capo.
-Va bene. Riporrò in te la mia fiducia, per il momento- affermò.
Hiroto s’inchinò educatamente. -Ti ringrazio. Non ti deluderò.
-È tutto, Goushu?- domandò Urupa. L’altro annuì.
-Sì. Non ho altre obiezioni- rispose e tornò a sedersi. Urupa fece altrettanto, mentre Chang Soo attirò a sé il proprio microfono.
-Dunque, se qualcuno ha altro da dire, lo ascolteremo adesso- dichiarò.
Alle sue parole, Hiroto si raddrizzò e squadrò la platea, probabilmente aspettandosi di dover rispondere ad altri dubbi, di doversi ancora difendere. Invece, nessuno si fece avanti. Chang Soo sorrise, quasi sornione, come se avesse appena vinto una scommessa, ed io capii un’altra cosa: Hiroto non era solo bravo con le parole, era carismatico. Aveva parlato con una tale forza e determinazione da riuscire a convincere tutti senza l’aiuto di nessuno, nemmeno delle Spy Eleven. Il mio petto si gonfiò di orgoglio per lui, al punto che mi vennero le lacrime agli occhi.
-Perfetto, direi che possiamo passare oltre- affermò Chang Soo.
-Dunque, tenendo conto delle nuove proposte, direi di definire nuovamente le squadre, con i rispettivi obiettivi- propose. –Abbiamo quindi tre squadre in totale. Ci sono obiezioni a riguardo?
-Nessun problema. Non vedo l’ora di spaccare la faccia a qualcuno di quegli stronzi- commentò Fudou senza alcuna delicatezza. Desarm sospirò, senza dubbio per la deplorevole scelta lessicale del collega, ma annuì per dare il proprio consenso.
-Scusate, vorrei unirmi alla squadra di avanscoperta con i miei- affermò Fideo d’un tratto.
-Più siamo, meglio è, no? Marco, Gianluca, siete con me?
-Certo!- rispose Marco con un largo sorriso.
-Ovviamente- aggiunse Gianluca, arricciando le labbra, come lievemente stizzito del fatto che l’altro avesse risposto prima di lui.
Fideo si girò verso Fudou. –Pare che li prenderemo a cazzotti insieme- gli disse, e l’altro gli lanciò un mezzo sorriso di complicità.
Poco dopo, su richiesta di Chang Soo, Marco aggiornò lo schema, battendo rapidamente sui tasti del proprio pc e, in men che non si dica, sullo schermo apparvero le attuali formazioni modificate.
 
***
 
Squadra A
Obiettivo: Squadra di Avanscoperta.
Leaders: Fudou Akiou, Saginuma Osamu (Desarm), Ardena Fideo.
Membri: Genda Koujirou, Sakuma Jirou, Miura Hiromu (Diam),
Netsuha Natsuhiko (Nepper), Atsuishi Shigeto (Heat),
Marco Maseratti, Gianluca Zanardi.
 
Squadra B
Obiettivo: Salvataggio degli ostaggi.
Leader: Chang Soo Choi.
Membri: Terumi Afuro (Aphrodi), Nagumo Haruya (Burn), Midorikawa Ryuuji,
Kazemaru Ichirouta, Endou Mamoru, Gouenji Shuuya.
 
Squadra C
Obiettivo: Arresto del potere della copia.
Leaders: Kruger Mark, Urupa Rococo.
Membri: Kiyama Hiroto, Keith Dylan, Ichinose Kazuya,
Faster Windy, Flare Goushu.
 
Squadra D
Obiettivo: Rilevamento ed arresto di Garshield Bayhan.
Leaders: Valtinas Edgar, Tolue Teres, Raimon Souichirou,
Kira Sejurou, Roniejo Mac.
 
***
 
-Bene, bene. Vedete di fare tutti il vostro lavoro e di non essere d’impiccio- affermò Tolue, e nel dirlo lanciò uno sguardo arrogante a Valtinas.
-Tu pensa a fare il tuo lavoro- lo rimbeccò subito l’inglese con irritazione. Tolue scrollò le spalle, tirò indietro la sedia ed accavallò le gambe, come se non fosse minimamente turbato.
-Sempre a litigare come bambini- mormorò Fideo, sotto voce, e Kruger abbozzò un sorriso.
Raimon si schiarì la voce. –Dunque, Seijurou ed io parteciperemo da qui, grazie ai ragazzi che si sono offerti di proseguire le ricerche informatiche. Valtinas, Tolue e Roniejo, con tutti gli agenti disponibili, perlustreranno tutti i possibili luoghi in cui Garshield potrebbe nascondersi.
Nella sala si sparse un brusio di approvazione.
Seijurou si alzò in piedi. –E così, la nostra ultima missione per la cattura di Gashield ha inizio. Prego tutti voi di fare molta attenzione e di mantenere la massima concentrazione. Come ha ricordato correttamente mio figlio, Garshield è pericoloso per tutti- dichiarò con voce profonda.
Hiroto non si voltò a guardarlo.



 
**Angolo dell'Autrice**
Buongiorno!
Questo capitolo è stato un vero parto, ahah. Mi conforta però il fatto che ho già scritto vari e diversi frammenti di capitoli successivi (uno addirittura l'ho già scritto per intero?? ok?? perché sono così caotica lol) che sono occupati interamente dall'ultima missione di cui si parla qui. Ho preferito scrivere chiaramente come sono formate le squadre incaricate e quali sono gli obiettivi, per offrire un quadro più nitido a me e a voi che leggete. 
Hiroto e Midorikawa sono in squadre diverse, ma si daranno comunque sostegno a vicenda. I loro sentimenti l'uno per l'altro sono più forti che mai. È importante, per me, che Hiroto abbia imparato ad appoggiarsi a Midorikawa senza però fare affidamento solo sulla sua empatia, e che abbia deciso di proteggerlo a sua volta. Hiroto mi piace tantissimo ///
(Chi di voi ha capito come mai Midorikawa non può più usare l'empatia su Hiroto? Arrivarci non è impossibile, ma probabilmente lo dirò più in là, lol. Intanto, fate pure tutte le teorie che volete~)
Nel caso siate confusi da nomi o voleste sapere chi sono i personaggi nominati per la prima volta in questo capitolo, vi raccomando di fare riferimento alla wikia su Team Garshield (vi linko la pagina inglese perché in quella italiana molti pg non sono descritti); inoltre qui trovate Windy Faster e Goushuu Flare.
Al prossimo capitolo!
       Roby

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Capitolo 43
*** Mission 43. ~Hiroto's Arc. ***


Stavo aspettando Hiroto fuori dalla sala riunioni quando Reina mi afferrò il braccio all’improvviso, facendomi spaventare.
Aveva un’espressione allarmata, tanto che pensai immediatamente ad un’emergenza. Avevamo avuto troppi allarmi rossi di recente.
-Cosa è successo? Un altro attacco nemico? Proprio ora?!
Reina si bloccò, sbatté le palpebre e mi guardò stralunata.
-Cosa stai dicendo? Midorikawa, dobbiamo parlare, ricordi?
L’avevo completamente dimenticato.
Lei parve leggermelo in volto e fece un sospiro puramente esasperato.
Realizzando che non si trattava di nessuna emergenza, mi strinsi nelle spalle e bofonchiai una scusa. Stavo per chiederle di cosa dovesse parlare quando mi parve di scorgere un testa rossa tra la folla; mi girai di scatto, ma niente da fare. Hiroto doveva essere stato trattenuto dalle Spy Eleven per discutere i dettagli del piano. Non tentai neanche di nascondere il disappunto sul mio viso, cosa che strappò a Reina un altro verso di frustrazione.
-Midorikawa, puoi smettere un attimo di…?- S’interruppe, serrando la mascella, poi esclamò:
-Vieni con me e basta!- ed iniziò a trascinarmi non so dove. Protestai debolmente, ma una sua occhiata bastò a farmi tacere. Mi sentivo in colpa per essermi dimenticato di cercarla come promesso, inoltre in quei giorni mi aveva tampinato con tanta insistenza che doveva trattarsi per forza di una cosa urgente.
Reina mi portò nel corridoio vicino all’infermeria, quindi si fermò e mi lasciò il braccio. Notai subito che l’area era deserta ed il fatto che ciò che dovesse dirmi richiedesse tanta segretezza iniziò a rendermi nervoso.
-Allora… Qual è il problema?- chiesi per rompere il ghiaccio.
Reina non rispose subito. Aveva un’aria cupa ed emaciata, come una malata; anche lei doveva aver passato numerose notti in bianco. Il mio senso di colpa si acuì.
-Ehi… stai bene?- aggiunsi, sinceramente preoccupato.
Mi sorprese vedere Reina chiudere gli occhi ed inspirare profondamente per un paio di volte. Era strano vederla così agitata, visto che in genere dava sempre l'impressione di avere pieno controllo di sé. Qualunque cosa dovesse dirmi, pareva certo richiedere una discreta dose di coraggio.
-Midorikawa… Non ti ho mai parlato del mio dono- esordì. La sua non era una domanda, bensì un’affermazione. Rimasi spiazzato, non capivo perché introdurre quel discorso ora, ma decisi di ascoltarla fino in fondo.
-Quando ero piccola, ho fatto un sogno sui miei genitori... Era un sogno molto inquietante, ma loro non ci diedero peso. Poco dopo, sono morti- disse Reina. -Quella è stata la prima volta... Da allora, ho continuato ad avere visioni del futuro. Continuavo a cercare di avvisare le persone intorno a me, ma nessuno mi ascoltava… Mi diedero della pazza, della bugiarda, ma le predizioni si avveravano, una dopo l'altra. Allora mi dissero che portavo sventura.
Si fermò e fece un respiro profondo. I suoi occhi mi parvero un po' lucidi. Le poggiai una mano sulla spalla.
-Va bene così, Reina- mormorai. -Non devi sforzarti di parlarne se ti fa male…
-No, no, devo, io devo…- ribatté lei. Si scrollò la mia mano di dosso con agitazione. La guardai, stranito. Non capivo perché mi stesse raccontando tutto questo adesso; mi appariva tutto troppo improvviso, troppo strano da parte di una persona tanto riservata.
-Quindi… il tuo dono consiste nel prevedere il futuro?
Reina scosse il capo con un’espressione di pura amarezza.
-No… Magari. Il mio dono… il mio dono mi permette di vedere solo la morte degli altri, e non c'è modo di controllarlo. Solo soltanto... dei sogni. Ma si avverano ogni volta- rispose. -Crescendo, ho rinunciato ad avvertire gli altri. Nessuno mi avrebbe creduto, e il futuro non è cambiato neanche quando cercato di impedirlo. Il maestro Jordaan è morto anche se avevo fatto di tutto perché tu gli stessi vicino…
Ero sempre più esterrefatto.
In effetti, Reina era stata particolarmente insistente nel persuadere Hitomiko a mandarmi da Jordaan, ma pensavo fosse solo per carpire informazioni da lui. Mai avrei immaginato che dietro ci fosse una ragione simile. Quindi aveva visto la sua morte? E quella degli altri? Come poteva una persona restare sana dopo tutto questo?
-Ecco perché, quando Gazel è sopravvissuto, sono rimasta di sasso- continuò Reina, accalorandosi. -Avevo visto la sua fine, ma è sopravvissuto! E così mi sono dette che dovevo riprovarci… perché il futuro può essere cambiato…!
Si voltò completamente e mi guardò dritto negli occhi.
-Midorikawa, devo dirtelo- disse, le labbra tremule. -Ho... ho visto la tua morte. Qualche notte fa. Era uno di quei sogni e c'eri soltanto tu... e questo significa che in questa missione morirai. Da solo.
Alle sue parole seguì un silenzio gelido.
La fissai basito, mentre cercavo di digerire ciò che aveva detto.
Morire? Io? Non era impossibile, vero: era una missione pericolosa. Ma non ero solo, avevo le spalle ben coperte. Non riuscivo a immaginare che uno dei miei compagni mi avrebbe lasciato morire senza far nulla. Reina aveva espressamente detto che sarei morto da solo. Non era possibile, non potevo… No, non volevo credere alle sue parole.
L'espressione di Reina si incupì.
-Non mi credi- constatò con amara rassegnazione.
-Mi dispiace- mormorai. -Ma è una cosa difficile da accettare…
-Non è colpa tua. Nessuno vorrebbe credere ad una cosa del genere. Tutti reagiscono così- disse Reina. Incrociò le braccia sul petto, stringendosi le spalle per proteggersi, come se improvvisamente avesse freddo. Capii che quei pensieri tormentavano più lei che me.
-Reina, io… Non è che non voglia crederti, ma…
-Che tu mi creda o meno, non cambia niente. Queste predizioni si avverano!- Reina mi interruppe con veemenza, poi mi rivolse uno sguardo di supplica. -Midorikawa, promettimi che farai attenzione... e che non resterai mai solo.
Esitai. Lei mi afferrò un braccio e mi diede una scrollata.
-Midorikawa, promettimelo…!
Mi morsi il labbro. Ancora non le credevo del tutto, ma sapevo che Reina non avrebbe mai detto una cosa del genere con leggerezza. Il suo sguardo mi diceva quanto disperata fosse. Ciò che aveva detto doveva essere la verità, o almeno lei doveva esserne convinta.
Le presi la mano per tranquillizzarla.
-Va bene. Non morirò, te lo prometto.
Lei mi guardò per un momento, poi mi colse di sorpresa tirandomi a sé in un abbraccio.
-Buona fortuna- sussurrò, poi dopo un’ultima stretta si scostò e corse via.
Toccandomi la spalla, mi resi conto di avere le la maglia inumidita dalle sue lacrime.

 
xxx

 
[La sera successiva, ore 20.00, Inazuma Agency]

 
 
Controllai ancora una volta che tutto fosse in ordine. La pistola aveva la sicura ancora inserita, tutti i colpi dentro; una volta infilata nella tasca del cinturino, era pressoché invisibile. Le divise disegnate da Maki erano formate da tre pezzi, giacca, maglia e pantaloni di colori scuri, così da non dare eccessivamente nell’occhio. Niente mantelli, che sarebbero stati d’impiccio. Portavamo scarpe da ginnastica, adatte alla corsa e al salto. Inoltre, Marco e Gianluca avevano dotato le Spy Eleven di piccoli microfoni, quasi invisibili, tra bocca e orecchio, e tutti avevamo ricevuto un paio di occhiali infrarossi, con varie funzioni di regolazione.
Sospirai. Avevo passato tutta la mattina a preoccuparmi, tanto da non riuscire a godermi nemmeno i pasti, e sospettavo di non essere l’unico. Il corridoio di ingresso al piano terra era gremito di persone, tutte intente ad ultimare i preparativi; esattamente come me, avevano controllato il proprio equipaggiamento più e più volte. In meno di un’ora saremmo stati tutti fuori di lì, in viaggio verso il nostro obiettivo. Qualcuno aveva preferito tenersi leggero e portare solo una pistola, forse ritenendo il proprio dono sufficiente per qualsiasi altra emergenza; qualcuno invece aveva indosso molte armi, nascoste nella giacca ed attaccate al cinturino, semplicemente per sentirsi più sicuro.
La verità era che, qualunque cosa facessimo, ci sembrava di non essere preparati abbastanza.
Sapevamo solo in parte cosa ci avrebbe aspettato una volta dentro l’edificio. Un uomo influente come Garshield non poteva non disporre un’unità di agenti al proprio servizio, guardie del corpo addestrate per proteggere lui ed i suoi possedimenti. Ma, per quanto specializzati, erano comunque esseri umani. La vera incognita, e fonte di pericolo, era rappresentata dai ragazzi di Garshield: a causa dei ripetuti scontri, ormai conoscevamo le capacità di alcuni di loro, ma dai nostri dati (i dati che Gazel, Burn e gli altri avevano raccolto con tanta fatica) risultavano esserci molti membri di cui non sapevamo nulla. Ricordavamo bene i loro volti, che avevamo dovuto guardare in foto tanto a lungo da memorizzarli. Sembravano ragazzi come noi, eccentrici, ma non serial killer – le apparenze, però, potevano ingannare soltanto chi non era a conoscenza della loro fedina penale. Io avevo visto alcuni di loro uccidere; il solo ricordo del sangue versato bastava a cancellare ogni briciolo di compassione in me. No, non mi sarei fermato alle apparenze; non avevo intenzione di fargliela passare liscia anche questa volta.
E, allo stesso tempo, non potevo fare a meno di pensare che forse quella sarebbe stata l’ultima volta che avrei visto le persone intorno a me. Forse sarei morto io, forse uno di loro. Avrei dovuto tenere a freno questi pensieri; quella notte, la paura non era ammessa.
-Ehi, Reize. Come mai quella faccia cupa?
Mi girai e vidi Diam, appoggiato alla parete con un fianco, le mani in tasca. Sembrava calmo, come se stessimo semplicemente andando a fare un scampagnata; bisognava conoscerlo bene per intuire quanto in realtà non lo fosse.
-Vai con una sola pistola? Non va bene. Devi essere più previdente- disse. Per un momento trafficò con la propria cintura, poi mi porse una Smith&Wesson carica. Guardai la pistola, poi lui.
-Sei sicuro? Tu come stai messo?- chiesi.
-Ah, ne ho un’altra- rispose, aprì la giacca per farmi vedere l’arma nella tasca interna della maglia. Esitò, come se non fosse sicuro di cosa aggiungere. Per toglierlo dall’imbarazzo, annuii e mi infilai la Smith&Wesson nell’altro lato del cinturino.
-Grazie.
-Figurati, lo faccio più per te che per me. Mi fa sentire meglio saperti più sicuro.
Un sorriso evanescente gli comparve sulle labbra, ma sparì subito.
-Reize. Stai attento- disse, serio, scrutandomi. Sostenni il suo sguardo con gli stessi sentimenti.
-Anche tu- sussurrai.
Lui abbozzò di nuovo un sorriso.
-Tranquillo, ho un portafortuna- disse, alzò il braccio e si tirò su la manica: legato al polso, c’era un bracciale di fili colorati intrecciati. -Maki lo ha fatto per me- mormorò, felice, con un’espressione tenera che non gli avevo mai visto fare. Si tirò giù la manica, giusto poco prima che Desarm lo chiamasse. Diam mi diede una pacca amichevole sulla spalla, poi corse via.
Diam faceva parte della prima squadra di ricognizione.
Mi morsi le labbra e chiusi gli occhi per un momento, cercando di scacciare via i pensieri negativi.
Il fatto che Garshield avesse a disposizione il potere della copia ampliava in modo esponenziale la possibilità che anche le sue guardie del corpo avessero acquisito doti speciali. Nessun avversario poteva essere sottovalutato. Per questo era essenziale liberarsi di quel potere…
-Hiroto- mormorai, quasi inconsciamente.
Dov’era finito? Non lo avevo più visto dal suo discorso nella sala riunioni; le ultime ventiquattro ore erano state piuttosto caotiche per entrambi. Hiroto era stato impegnato a discutere dettagli della missione con Urupa e Kruger, mentre io, insieme al resto del team di Chang Soo, ricevevo direttive dal coreano stesso su come avremmo dovuto muoverci. Anche quando eravamo riusciti ad incrociarci, non avevamo potuto scambiarci più di uno sguardo, un saluto. Era giusto così, c’erano ben altre priorità al momento.
Ma dovevo assolutamente parlare con lui almeno una volta prima di andare.
Mi feci largo tra le persone guardandomi intorno con molta attenzione. Se Diam era stato chiamato, allora restava poco tempo prima che anche le altre squadre dovessero muoversi. Il team di Chang Soo sarebbe entrato subito dopo di loro, una volta che avessero dato il via libera; sapevo che sarei stato chiamato a momenti.
Qualcuno mi afferrò un braccio da dietro. Mi voltai di scatto.
-Hiroto!- esclamai, sorridendo istintivamente.
-Ti stavo cercando- aggiunsi, girandomi completamente verso di lui.
Lui ricambiò subito il mio sorriso, probabilmente provando il mio stesso sollievo.
-Anch’io- ammise, infatti. -Sono felice di averti trovato. Avevo… avevo bisogno di parlarti, prima di andare…
Annuii, confortato dal fatto che avessimo pensato la stessa cosa. Nonostante sapessi non fosse il momento di lasciarsi andare a scene romantiche, non potevo fare a meno di sentirmi leggero, come se stessi fluttuando. Hiroto gettò un’occhiata intorno a sé, poi mi fece cenno di seguirlo dietro un angolo.
Era uno dei pochi posti del corridoio in cui non c’era nessuno e, nonostante il brusio di sottofondo ci ricordasse della presenza di altri a pochi metri da noi, per un momento potevamo far finta di essere soli. Hiroto mi strinse a sé appena possibile ed io ricambiai l’abbraccio con la stessa foga, affondando le mani nella sua giacca. Il suo respiro caldo contro la pelle del collo mi faceva tremare leggermente.
-Midorikawa- mormorò –ti amo.
Mi sfuggì una risatina nervosa. -Ah… che succede? Sei in ansia per la missione…?
-Mi sembra solo di non avertelo detto abbastanza- rispose, con un po’ di amarezza. Mi scostai lievemente e vidi le sue labbra curvarsi in un broncio. Le baciai d’istinto, desideroso di distenderle, come se ciò potesse cancellare la preoccupazione dalla sua mente.
Hiroto ricambiò il mio bacio per alcuni secondi che parvero un’eternità; poi si staccò, il suo naso urtò leggermente il mio, poi mi sfiorò una guancia. Le sue labbra si premettero contro la mia tempia.
-Ti amo. Una volta finito il mio compito, correrò da te, ovunque tu sia- mi bisbigliò anche se nessuno poteva sentirci. Il cuore mi batteva così forte che pareva sul punto di esplodere.
Feci un respiro profondo ed annuii.
-O sarò io a correre da te- risposi. Lo sentii ridere piano, con la bocca premuta all’attaccatura dei miei capelli.
Quando ci separammo, i suoi occhi brillavano di determinazione.


 
xxx

 
[Normal P.O.V.]
 
 
 
-L’edificio ha tre piani ed un sotterraneo. Entreremo dall’entrata sud, al piano terra- spiegò Desarm. Aveva steso a terra la cartina dell’obiettivo e stava indicando l’accesso da cui avrebbero dovuto infilarsi. Fideo e Fudou erano seduti al suo fianco, sporgendosi in avanti per guardare la mappa, mentre i membri delle loro squadre aspettavano le direttive, schierati in piedi intorno a loro, in modo da poter controllare l’area in ogni direzione.
Diam si sistemò il colletto della giacca e sollevò lo sguardo al cielo buio. L’unica luce su di loro era offerta da un lampione, che reagiva solo al movimento umano: un semplice passo fuori dalla sua piccola area circoscritta bastava a farlo spegnere. Emanava una luce azzurra e spettrale, senza dubbio adatta ad una notte del genere.
-Sia il secondo piano che il sotterraneo sono accessibili solo dal piano terra…- continuò Desarm.
-Quindi abbiamo un ruolo cruciale. Dobbiamo sgomberare al più presto il posto per permettere agli altri di accedere. 
-Che bello, amo essere l’anima della festa- disse Fudou in tono sardonico.
Desarm non batté ciglio.
-Non posso darti torto in questo caso, saremo davvero l’anima della festa- disse Fideo, sospirò e con il dito tracciò il corridoio che dall’entrata sud andava verso le scale del secondo piano. Si fermò su una rientranza e si accigliò. –Qui il corridoio sembra intersecarsi con un altro. Questo vuol dire che potrebbero arrivare da qui, o da qui.
-A cui va aggiunto questo punto… Le scale che portano ai sotterranei- disse Fudou. -Be', perfetto, no? Ognuno di noi prende un accesso, con la propria squadra, e facciamo pulizia senza pestarci i piedi a vicenda.
Desarm annuì. Fideo fece un cenno, sovrappensiero, poi sollevò lo sguardo.
-"Facciamo pulizia"? Sai che non li devi uccidere, vero?- chiese, preoccupato.
Fudou sbuffò. -Certo che lo so, mi prendi per scemo?
-No… ma ammetterai di avere qualche problema di gestione della rabbia- azzardò Fideo.
-Non ha tutti i torti- sussurrò Sakuma a Genda. Fideo sperò che Fudou non lo avesse sentito, per timore che questo lo mettesse di cattivo umore e lo aizzasse in modo sbagliato. Con sua grande sorpresa, però, Fudou non ebbe alcuna reazione, anche se era chiaro che avesse sentito.
-Non ucciderò nessuno. Sono pur sempre persone normali, anche se hanno sbagliato lavoro- disse in tono neutro, poi si mise le mani in tasca e distolse lo sguardo. Fideo era stupito dal suo atteggiamento: sembrava essersi notevolmente calmato da quando si erano visti l’ultima volta. In effetti, a parte i soliti commenti beffardi o arroganti, Fudou si stava comportando abbastanza bene. Non aveva avuto scoppi d’ira ed era persino ragionevole.
Be', tutti reagiscono male quando a essere minacciato è qualcosa di speciale, pensò l’italiano. In quelle circostanze, con la propria famiglia coinvolta, neanche lui poteva dire di aver mantenuto il sangue freddo. E Fudou sembrava tenere molto a Fuyuka Kudou. Fideo meditò per un momento di chiedergli come stava la ragazza, ma lui e Fudou non erano mai stati amici, e quello non pareva proprio il momento adatto.
A quel punto Fudou si accorse che Fideo lo stava osservando.
-Che hai da guardare?- sbottò. -Non mi credi? Ti ho detto che non farò fuori nessuno, il resto non sono affari tuoi. Faccio come mi pare, capito?
-Ti credo. Non ho intenzione di mettermi a discutere adesso- Fideo si affrettò a chiudere la conversazione e si rivolse a Marco e Gianluca. -Ragazzi, noi prendiamo l’accesso al sotterraneo.
I due annuirono. Marco si stiracchiò le braccia, mentre Gianluca si legava i capelli in una più pratica coda di cavallo.
Fudou si girò verso Desarm. -Io prendo le scale al secondo piano- disse subito.
-Non ho obiezioni. La mia squadra vi coprirà le spalle- replicò l’altro, e solo allora alzò lo sguardo sui tre ragazzi che lo accompagnavano.
Onestamente, Diam cominciava a sentirsi un po’ messo da parte.
Sapeva che i tre comandanti dovevano discutere tra loro le direttive, mentre il compito degli agenti era solo di obbedire; tuttavia, non gli sarebbe dispiaciuto se qualcuno avesse chiesto loro un parere. Era sempre così: non era mai stato tagliato davvero per seguire gli ordini. Desarm aveva cercato a più riprese di correggere quel vizio, persino portandolo con sé in missioni quando a nessuno degli altri ragazzi era ancora permesso. Sperava forse che, messo in situazioni di difficoltà, Diam avrebbe messo la testa a posto. Ma non era successo.
Se avessi avuto la possibilità di crescere e diventare adulto come tutti, avrei lavorato da solo, nel modo più indipendente possibile, questo pensava Diam. Ne era fermamente convinto. La sua indole ribelle rifiutava con tutta se stessa le restrizioni, e dentro di lui c’era sempre una vocina che diceva: Ehi, anch’io qui sono in prima linea, a combattere o morire per la giustizia, a nessuno interessa la mia opinione?
Ma si era probabilmente giocato l’opportunità di dire la propria quando era scappato per affrontare Big D da solo, qualche tempo prima. Nonostante la missione fosse stata relativamente un successo, Desarm lo aveva messo in punizione subito dopo la partenza di Midorikawa e non faceva che rinfacciarglielo. Desarm era un uomo fin troppo rigido e serioso: Diam non riusciva ad immaginare che potesse aver infranto le regole e aver fatto di testa propria nemmeno una volta nella sua vita. Al contrario di Midorikawa, o Maki…
Diam sorrise istintivamente. Quei due erano spiriti liberi, insofferenti agli ordini, proprio come lui. E per questo era attratto da loro, anche se in maniera differente. Non poteva negare di essersi invaghito di Midorikawa fin dal primo istante; inizialmente era solo curioso del suo dono, ma era bastato poco tempo per imparare ad amarlo davvero. Di Midorikawa amava la sincerità, il coraggio, l’altruismo. Quando lo aveva rivisto, però, la passione per lui si era spenta vedendo quanto era felice con Kiyama.
Tirò su la manica e si mise a guardare il bracciale colorato, cosa che aveva fatto molte volte da quando gli era stato regalato. Maki aveva insistito per farlo personalmente, e il ricordo della sua espressione concentrata e delle sue dita (le mani, le sue belle mani con cui era in grado di guarire le persone) che gli sfiorano il polso, tremanti, bastava a fargli bruciare il viso dall’imbarazzo. Non aveva mai provato nulla di così puro per una persona. Non aveva mai provato quella sensazione di vuoto quando entri in una stanza e quella persona non c’è. Maki gli aveva regalato tanti nuovi sentimenti.
Qualcuno gli toccò la spalla, dandogli una leggera scrollata.
Era Heat.
-Tutto bene? Sembri sovrappensiero- disse sottovoce, con un’espressione preoccupata.
Diam si ricoprì il polso e accennò un sorriso. Da quando avevano catturato Big D, non era stato solo lui a cambiare, ma anche gli altri; prima sembravano intimoriti da lui, e questo aveva sempre creato una sorta di barriera tra di loro. Quella distanza, ora, era sparita, e Heat lo trattava come un vero amico. Diam non avrebbe mai immaginato che bastasse così poco a renderlo felice.
-Sto benissimo, non vedo l’ora di poter tornare indietro- sussurrò. -Tu? Nervi saldi?
Heat annuì e, subito dopo, Desarm diede loro l’ordine di muoversi. In un attimo Nepper fu vicino a Heat. Diam intravide, nel buio, che si stavano tenendo la mano. Anche Nepper era molto più rilassato attorno a lui, adesso.
Iniziarono a muoversi. L’entrata sud, da cui dovevano entrare, non era molto lontana da dove si erano fermati. All'apparenza non c'erano luci accese nell’edificio, ma era circondato dai lampioni, che avrebbero tradito qualunque movimento esterno.
Questo sarebbe stato un problema se non avessero avuto con loro Desarm.
Non erano in molti a saperlo, ma anche lui possedeva un dono. Senza esitare, alzò una mano, la agitò e poi la chiuse a pugno: questo semplice gesto attirò verso di lui tutte l’energia elettrica, lasciando la strada nel buio totale. A eccezione di Fideo e Fudou, tutti ne furono colpiti. Della sua squadra solo Diam aveva assistito a una cosa simile, un paio di volte in cui erano stati in missione assieme, per cui anche Heat e Nepper rimasero a bocca aperta. Ma non era finita lì.
Quando arrivarono davanti alla porta automatica, difatti, Desarm non batté ciglio. Cercò subito qualcosa che somigliasse ad un pannello elettrico e, una volta individuato, si limitò a poggiare la mano sopra: l’energia rubata e rilasciata dal suo corpo fluì nel sistema elettrico, mandandolo in cortocircuito. La porta si aprì senza fare resistenza, con una sottile vibrazione che soltanto Diam parve udire: allenando il proprio dono, infatti, aveva sviluppato una grande sensibilità ai rumori anche più fini.
Desarm si voltò verso Fideo e Fudou. I tre si scambiarono uno sguardo, poi allo stesso tempo diedero cenno ai propri agenti di indossare gli occhiali infrarossi e tenere pronte le armi.
Entrarono uno dopo l’altro, guardandosi intorno con circospezione, poi i gruppi si separarono come da piano. Mentre il gruppo di Fudou passava loro davanti, Diam notò che una delle mani di Sakuma Jirou era di metallo e luccicava ogni qualvolta un po’ di luce lunare filtrava attraverso una delle finestre del corridoio. Quel luccichio lo distraeva, per cui cercò di ignorarlo il più possibile. Si mise a studiare i dintorni: le finestrelle erano strette, avevano tutte le sbarre ed erano poste a circa tre metri da terra. Unite alle porte elettriche, rendevano certamente difficile ad un ladro di penetrare l’edificio. Ma questi sistemi avrebbero fermato solo un ladro qualunque. Era tutto troppo semplice per un uomo come Garshield...
Si fermarono al punto in cui i corridoi s’intersecavano. Fudou e i suoi lo sorpassarono, dirigendosi alle scale.
Diam non fece nemmeno in tempo a sporgersi dietro l’angolo che il suo udito colse il suono lievissimo di un fischio. Lo avrebbe riconosciuto tra mille. Si buttò a terra immediatamente, trascinando con sé Heat nella foga, e il proiettile silenzioso che gli era stato tirato si conficcò nel muro. Diam scrutò l’oscurità, cercando di capire da dove fosse arrivato il colpo. Individuò un uomo in giacca nera inginocchiato nel mezzo del secondo corridoio: anche lui portava i loro stessi occhiali e, quando si accorse che Diam poteva vederlo, si affrettò a nascondersi. Anche se non poteva esserne certo, a Diam parve che fosse proprio dietro l'angolo di una parete.
Desarm e Nepper si abbassarono al loro fianco, e tutti e quattro si nascosero usando i muri come scudi contro eventuali tiri.
-Un cecchino?- chiese Desarm accigliandosi.
-Sì, signore- rispose Diam. Levò la sicura dalla propria pistola e stava per sporgersi di nuovo, ma Desarm lo fermò alzando una mano.
-Aspetta. In questa situazione, siamo noi ad avere lo svantaggio. Proviamo invece a stanarli- affermò, poi si girò verso Heat. -Heat, mi servono un paio di sfere di fuoco nella direzione da cui è venuto lo sparo. Sei in grado di individuarlo?
-Credo di sì, signore- rispose pronto l’agente. Ripose la pistola, chiuse gli occhi e inspirò a fondo; dai suoi palmi sollevati verso l’alto cominciarono a sollevarsi delle piccole fiamme, che Heat modellò in piccole sfere con dita esperte. Si mise seduto lateralmente, di modo da avere sott’occhio il bersaglio senza però esporsi troppo. Prima che lanciasse, Diam gli mise una mano sulla spalla e gli sussurrò: - Cerca di farle scivolare vicino alla parete a te più vicina. Immagina una specie di partita a bowling, solo che devi mandare la palla nel canale.
Heat guardò Desarm e, dopo aver ricevuto un cenno di approvazione, fece esattamente come gli aveva detto Diam. Contarono fino a venti, poi qualcuno da lontano si lasciò sfuggire un'imprecazione. Diam si sporse appena e vide che le scarpe del cecchino stavano bruciando: era nascosto proprio dietro l’angolo formato dalla parete, come da lui previsto.
-Abbiamo attirato la loro attenzione- disse Desarm. Diam non capì se fosse una semplice constatazione o se stesse parlando al microfono con le altre due Spy Eleven.
Di sicuro, però, aveva ragione. La confusione creata dall’uomo attirò l’attenzione dei suoi compagni, che balzarono imprudentemente fuori dai nascondigli per sparare agli intrusi. Loro non aspettavano altro. Desarm sparò un paio di colpi mirati alle gambe e, a giudicare dai lamenti, ci aveva preso. Allo stesso tempo, Heat lanciò altre sfere di fuoco, mandando ancora più nel panico le guardie.
Diam aspettò ancora un po’, nascosto, e si mise a contarli. Erano circa una ventina. Sentiva rumori provenire da poco distante, segno che anche le altre squadre erano state trovate (o avevano trovato) gli uomini di guardia sul piano. Era evidente dai numeri che Garshield non badava a spese, osservò Diam con disprezzo, mentre con le dita regolava lo zoom degli occhiali per osservare meglio gli avversari e carpirne dei punti deboli. Notò subito che avevano tutti delle specie di cuffie, forse per schermarsi dal rumore. Forse, quindi, erano stati avvisati che qualcuno aveva un potere come il suo. Per qualche motivo, sapere che lo temevano lo riempì di orgoglio. Era d’accordo con Fudou, era bello essere l’anima della festa.
-Nepper!- chiamò e, quando l’amico si girò, si tamburellò un dito vicino all’orecchio. Nepper lo guardò, poi si girò verso le guardie e capì subito.
-Ci penso io!- esclamò. Dopo qualche momento, le cuffie si arroventarono fino a prendere un colore rosso acceso, e Diam vide gli uomini strapparsele di dosso e scagliarle a terra. Al contempo, Desarm, Heat e Nepper indossarono rapidamente i tappi per le orecchie. Diam si alzò in piedi.
-Fudou, Ardena. Devo interrompere momentaneamente le comunicazioni. Vi consiglio fortemente di mettere i tappi che vi ho dato- disse Desarm. Quelle parole fecero sorridere Diam, che non si era nemmeno accorto che Desarm si fosse portato tappi in grande quantità. Bene, perché Diam non aveva certo intenzione di trattenersi.
Aprì la bocca e urlò con quanto fiato aveva in corpo.
I cecchini si coprirono subito le orecchie con le mani, ma era tutto inutile: dopo poco infatti cominciarono a cadere a terra, uno dopo l’altro, come sacchi di patate. Solo quando l’ultimo cadde, privo di sensi, Diam chiuse la bocca e fece tornare il silenzio. Si girò verso i compagni.
-Bell’assist!- esclamò, alzò la mano verso Nepper. L'altro gli diede subito il cinque.
-Figurati!- Nepper sogghignò.
Intanto, Desarm si era avvicinato per esaminare i nemici svenuti. Una volta sicuro che non si sarebbero rialzati, si tolse i tappi e si infilò il microfono.
-Che cazzo era quello?!- La voce di Fudou era talmente alta che rimbombò fuori dall’apparecchio come un eco, permettendo anche a Diam, Heat e Nepper di sentirlo. Diam lo prese come un complimento.
-Abbiamo liberato la nostra zona- rispose Desarm senza dilungarsi. -Com’è la situazione da voi?
-Tutto libero anche qui. Aspettiamo notizie da Ardena e poi possiamo dare il segnale…- Fudou rimase in silenzio per un po’, poi borbottò:- Ehi, Ardena, ci senti? Muovi il culo!
Quasi come se queste parole lo avessero evocato, Fideo apparve per unirsi alla conversazione.
-Scusate, avevo ancora i tappi… Cavoli, qui hanno tremato le pareti!- esclamò. Diam prese come un complimento anche questo.
-Qui libero! Possiamo dare il segnale- assicurò poi Fideo.
-Ricevuto. Procedo- concluse Desarm, poi si toccò l’apparecchio nell’orecchio come se stesse cambiando frequenza.
-Qui Desarm a Base. Area piano terra libera. È possibile far entrare squadre B e C. Ripeto: area piano terra libera. È possibile pertanto procedere con il piano- dichiarò, molto chiaro e coinciso.
Poi, per la prima volta, cambiò espressione: per un momento parve esitare su qualcosa, aprì la bocca, ci ripensò, infine si schiarì la gola.
-Vorrei l’autorizzazione a unirmi alla squadra B da questo momento in poi- affermò, spiazzando i suoi agenti e forse chi c’era dall’altro lato del centralino. Desarm rimase in attesa qualche momento.
-Sì, sono cosciente di ciò che la mia decisione comporta, so che è una richiesta improvvisa. Vi chiedo ugualmente di prenderla in considerazione…- Rimase di nuovo in ascolto. -Ovviamente mi fido della mia squadra, so che faranno il loro lavoro egregiamente anche in mia assenza. Grazie a tutti dell’opportunità.
La comunicazione parve interrompersi lì. Desarm sospirò, poi si girò verso i propri agenti.
-Diam, Heat, Nepper- disse con grande serietà -voi rimarrete su questo piano di guardia insieme a Fudou e Ardena.
-Sì, signore- risposero i tre all’unisono. Non era il caso di aggiungere altro, ma Diam non riuscì proprio a trattenersi.
-Non sarebbe contro le regole cambiare squadra di testa propria?- chiese, senza peli sulla lingua. Desarm non diede peso alla sua sfacciataggine, a cui era abituato, e invece di offendersi abbozzò un sorriso.
-A volte le regole possono essere cambiate con una volontà di ferro- ribatté.
Heat e Nepper lo guardarono esterrefatti, come se riuscissero a credere alle loro orecchie, mentre Diam scoppiava a ridere. Chi lo avrebbe detto? Anche il loro capo a volte non seguiva le regole.
A quel punto Desarm dovette rendersi conto di aver detto una cosa non da lui, perché subito dopo tossicchiò per coprire l'imbarazzo. -Comunque, non vuol dire che possiate farlo a vostro piacimento…- aggiunse. Guardò soprattutto Diam, che si strinse nelle spalle.
La sua mente era già altrove; dopotutto, presto le altre squadre sarebbero state lì. Avevano portato a termine la loro parte, tuttavia la sensazione di trionfo durò poco, lasciando posto a pensieri su ciò che sarebbe avvenuto dopo. Non avrebbero potuto dirsi realmente soddisfatti e sollevati finché non fosse finito tutto.
Diam si appoggiò alla parete e, incapace di scacciare del tutto i sentimenti negativi, chiuse gli occhi e si ummaginò all'agency con le persone che amava di più. Nella sua mente, augurò di nuovo a Midorikawa buona fortuna.




 

**Angolo dell'Autrice**
Dopo uno hiatus di mesi, sono finalmente riuscita ad aggiornare. Mi dispiace per la lentezza degli aggiornamenti, ma quest'anno l'università e faccende mie personali sono spesso messe in mezzo; per me è stato un anno molto pesante sotto tanti punti di vista ;A; Per fortuna molti pezzi dei capitoli successivi sono già scritti, ma sicuramente faticherò ad aggiornare con costanza, vi prego di avere pazienza e spero che questo capitolo vi sia piaciuto.
Personalmente, a me è piaciuto scriverlo, perché ho potuto inserire tre cose a cui pensavo da tempo: 1. Il potere di Reina; 2. La scena HiroMido del secondo pezzo; 3. Un P.O.V. di Diam, con un approfondimento su lui e Maki (amo la Diamaki). Mi piacerebbe sapere i vostri pensieri a riguardo, cosa ne pensate di Reina? Vi aspettavate questa svolta? Nei miei programmi futuri vorrei scrivere una raccolta di one-shot volte ad approfondire singoli personaggi e/o rapporti che nella main story hanno poco spazio per forza di cose; se lo facessi, Reina sarebbe sicuramente tra i personaggi in lista ♥
Ringrazio infinitamente chi ha la pazienza di seguire questa storia nonostante i tempi morti e chi la recensisce. Non sempre ho il tempo di rispondere ai commenti, ma li leggo sempre! 
Buona sera,
         Roby

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Capitolo 44
*** Mission 44. ~Hiroto's Arc. ***


Questo capitolo è un po' più lungo dei soliti e probabilmente anche i prossimi lo saranno! Ringrazio infinitamente Ren che mi ha fatto da beta per questo capitolo, aiutandomi a correggere errori vari ed eventuali.
Dopo aver lasciato il team A, ora seguiamo il team B, riprendendo con il P.O.V. di Midorikawa. Per chi non lo ricordasse, il team B è formato da Chang Soo (al comando), Afuro, Burn, Midorikawa, Kazemaru, Endou e Gouenji, ai quali si è aggiunto Desarm.


Buona lettura!
 
[Midorikawa's P.O.V.]

I condotti di aerazione erano terribilmente stretti.
Era passato un po’ di tempo dall’ultima volta che ero entrato in un edificio così; quando svolgevo soltanto lavoro abitudinario con Kazemaru, capitavano spesso incarichi di ricognizione, o pedinamenti, e passare inosservati era fondamentale. Era quasi nostalgico trovarsi di nuovo a gattonare nell’ombra, scrutando il percorso davanti a sé per tenere d’occhio il proprio compagno.
La squadra A aveva svolto un lavoro impeccabile; nonostante quel piano fosse stato sgomberato, tuttavia, una volta arrivati lì ci eravamo resi conto che usare semplicemente le scale per il piano superiore sarebbe stato un azzardo. Le scale erano state costruite in modo tale da ostruire la visuale; a meno di non arrivare almeno a metà rampa, non avremmo potuto sapere ancora cosa avremmo trovato. Metterci in condizione di vedere cosa ci sarebbe arrivato addosso in tempo utile per reagire era la priorità.
Un’altra situazione inattesa si presentò quando, al nostro arrivo, Desarm lasciò la sua squadra per unirsi alla nostra. A giudicare dalle espressioni degli altri, non ero l’unico sorpreso: era stata una decisione improvvisa e soltanto le Spy Eleven ne erano state messe al corrente. Non avevo idea di cosa avesse potuto spingere Desarm a prendere una decisione così impulsiva. Ma Chang Soo non sembrava avere nulla in contrario; si era limitato ad accettare la nuova situazione, poi, dopo una rapida ispezione dei dintorni, aveva preso la decisione di usare il condotto di aerazione.
Un sussurro raggiunse le mie orecchie scivolando attraverso i nostri auricolari.
Chang Soo, che guidava il gruppo, aveva individuato la grata da cui saremmo scesi. Proseguendo, il condotto si sarebbe stretto ulteriormente, costringendoci a strisciare, e impossibilitando troppo i nostri movimenti. Un rumore sinistro, graffiante si diffuse all’interno del condotto, come se qualcuno stesse grattando il rivestimento di ferro, oppure… svitando una grata.
Mi sporsi un pochino di lato, inclinando il capo per cercare di cogliere le macchioline di luce che si formavano sul soffitto del condotto, luce proveniente senza dubbio dal corridoio sotto di noi.
In quel momento Chang Soo stava lavorando con mani esperte per disfarsi della grata. Dalla mia posizione, non potevo vedere con cosa la stesse aprendo, poco a poco, con pazienza infinita. Stava cercando di fare meno rumore possibile. Un altro suono acuto, seguito da una maggiore quantità di luce all’interno del condotto, ci fece capire che la grata era stata rimossa. Chang Soo la spostò di lato, fuori dai piedi, poi scivolò attraverso il quadrato vuoto con l’agilità di una scimmia o di un circense. Subito dopo di lui, iniziammo a calarci nell’ordine in cui ci trovavamo; prima Afuro e Burn, poi Endou, Gouenji, Kazemaru ed io, lasciando per ultimo Desarm. Anche posizionare le due Spy Eleven come apri-fila e chiudi-fila era stata una decisione ponderata da Chang Soo. Desarm si era adattato, una volta unitosi alla nostra squadra Chang Soo era diventato anche il suo comandante. Forse anche lui pensava fosse più saggio mettere i combattenti veterani in posizioni strategiche.
In apparenza, Desarm aveva un’espressione mite, quasi stoica; se qualcuno avesse notato una certa rigidità nei suoi lineamenti, avrebbe probabilmente pensato che fosse soltanto molto concentrato sulla propria missione. Tuttavia, non poteva ingannare me. Percepivo benissimo la sua irrequietudine, un nervosismo che aveva una consistenza lievemente diversa dal nostro, dall’ansia di noi ragazzi più giovani appena lanciati nella missione più grande e pericolosa delle nostre vite. Desarm non era solo nervoso per la missione; ad inquietarlo era qualcosa di diverso, che non riuscivo ad afferrare. È frustrante avere un dono che ti permette di scoprire una cosa, ma non ti fornisce istruzioni sul cosa fare a riguardo.
Ma non potevo distrarmi così. Chang Soo fece cenno di non muoverci mentre lui, Afuro e Burn andavano in avanscoperta per alcuni metri, ispezionando il corridoio. Approfittando di questo momento di sospensione, mi appoggiai alla parete più vicina per un momento, mi premetti le dita contro le tempie ed iniziai a massaggiarle con movimenti circolari per qualche secondo; dovevo concentrarmi per tenere tutte le emozioni altrui fuori dal mio spazio personale, così da poter incanalare i miei sforzi tutti in una sola direzione: cercare di capire se eravamo soli sul piano, o meno. Era una cosa a cui avevo pensato soltanto di recente, quella di provare a spazzare via ogni cosa, per far luce solo su una. Mi costava grande sforzo, perché la mia empatia mi bombardava continuamente di paure, ansie, aspettative altrui, come un’onda che ti sommerge ad intervalli regolari. Ma questa non era una missione qualsiasi. Dovevo affinare tutte le mie armi.
Presi un respiro profondo e provai a fare il vuoto intorno a me. Riconoscevo ognuna delle singole emozioni che mi circondavano al punto che avrei potuto indicare con dito a chi appartenevano.
Eccetto una.
Mi arrivò addosso come l’onda che non ti aspetti, quella che spezza il ritmo della marea, e ti lascia senza fiato; un denso grumo di sensazioni come raramente mi capitava. L’unica cosa che riuscivo a distinguere dalla matassa era una vivida, acuta sete di sangue. Mi fece rabbrividire. Poche persone in passato mi avevano comunicato esattamente quel tipo di sensazione.
Senza pensarci due volte, mi portai il microfono alle labbra.
-Credo che stia arrivando qualcuno del team Garshield- sussurrai. -Lo sento arrivare.
I compagni rimasti al mio fianco, compreso Desarm, si voltarono immediatamente verso di me. In un attimo, si strinsero in un cerchio rivolto all’esterno, pronti a difendersi. Qualche metro più avanti, anche Chang Soo, Afuro e Burn si irrigidirono e assunsero una posizione di difesa.
-Dimmi di più, Midorikawa- mi ordinò la voce di Chang Soo attraverso l’auricolare.
-Sì, signore. Uhm… mi sembra che sia una sola persona- dissi.
-Sei sicuro che si tratti di uno dei ragazzi?
-Sì, signore. Questa… questa sete di sangue…- deglutii, strizzai gli occhi per un momento per scacciare via i ricordi insanguinati che mi tornavano in mente ogni volta che si menzionavano i ragazzi di Garshield. Concentrati, mi ordinai, finalmente possiamo fermarli. Fermare quel ciclo di morti orribili, quella catena di sangue.
-Midorikawa, stai calmo- disse Chang Soo, intuendo la mia ansia. -Ottimo lavoro a individuarlo. Ora preparati a combattere.
-Sì, signore- risposi piano. Mi staccai dalla parete, unendomi al cerchio formato dai miei compagni. Kazemaru mi scoccò un’occhiata complice ed annuì. Aveva i miei stessi pensieri. Sapere che era lì con me, dove potevo vederlo ed assicurarmi stesse bene, era confortante. Dovevo mantenere il sangue freddo; Kazemaru era solo una delle persone che volevo proteggere. Pensai a Diam, che al piano di sotto mi aveva abbracciato, mi aveva stretto la spalla ed augurato buona fortuna. Pensai a Reina, alla quale avevo promesso di non morire.
Pensai a Hiroto e ritrovai la forza di andare avanti.
-La sensazione si è affievolita, penso si sia allontanato- dissi nel microfono.
Seguì un attimo di silenzio, poi Chang Soo ci ordinò di raggiungerlo lentamente. Non dovevamo abbassare la guardia, né smettere di guardarci intorno. Da una placca dorata fissata ad una parete appresi che ci trovavamo al secondo piano dell’edificio.
Chang Soo mi mise un braccio sulla spalla, portandomi vicino a sé per un momento.
-Midorikawa, voglio che ascolti molto attentamente- mi disse, -La tua abilità può esserci molto utile. Voglio che ti concentri su questi corridoi. Voglio che tu faccia il vuoto di qualsiasi cosa, eccetto i nostri nemici e gli ostaggi. Se percepisci anche solo un minimo segno che la signorina Hitomiko e Gazel siano qui, dimmelo immediatamente. Voglio che tu sia i miei occhi, per illuminarmi su tutto ciò a cui sono cieco. Noi, i tuoi compagni, ti proteggeremo. È chiaro?
Lo guardai  ed annuii senza esitazioni.
Volevo rendermi utile con tutto me stesso, perciò ripresi subito a concentrarmi sul mio lavoro. Con la coda dell’occhio, vidi gli altri stringersi attorno a me, ma come richiesto da Chang Soo smisi di farci attenzione e feci del mio meglio per incanalare ogni briciolo della mia empatia nella direzione giusta. Cercai ogni traccia di sete di sangue, benché ne fossi terrorizzato e disgustato. Cercai segni della mia stessa paura in altre persone, di ansia o, se fosse stato possibile, speranza da parte di Hitomiko e Gazel. Il tempo per me sembrava essersi fermato.
Dopo un’attesa interminabile, mi parve di percepire Hitomiko. Da Gazel non proveniva niente, ma mi sforzai di ingoiare il mio panico per informare Chang Soo.
-Capisco- disse la Spy Eleven, con espressione pensosa.  Scrutò i nostri volti ansiosi e scosse il capo.
-Non allarmartevi ancora. Gazel potrebbe essere privo di sensi. Non possiamo permetterci di tirare conclusioni affrettate- aggiunse con fermezza.
-Giusto. Intanto, abbiamo appurato che Hitomiko è su questo piano. È così, Reize?- Desarm si rivolse a me, e stavolta chiunque avrebbe potuto notare la nota speranzosa nella sua voce. Hitomiko. Sapevo che Desarm e Hitomiko erano in costante contatto benché in sedi diverse, forse erano amici, forse era per lei che Desarm era preoccupato. Era per lei che si era unito alla nostra squadra.
Annuii e percepii subito il suo sollievo.
-Non affrettiamo i tempi. È una buona notizia- disse Chang Soo. -Ma c’è ancora almeno un potenziale nemico che si aggira qui intorno… Dobbiamo essere cauti…
Un’esplosione inghiottì le sue ultime parole.
Istintivamente balzai accanto a Kazemaru, Endou e Gouenji e mi coprii il volto con le braccia per proteggere gli occhi dai detriti e dall’enorme nuvola di polvere che si era sollevata.
Avvertii di nuovo la stessa sete di sangue e rabbrividii.
Kazemaru non perse tempo: il vento da lui sollevato spazzò via la polvere, così da annullare il vantaggio del nemico. Il corridoio riemerse nuovamente davanti ai nostri occhi, come se il velo che lo copriva fosse scivolato via, e ci rivelò la presenza di un individuo di stazza non indifferente, avvolto nell’inconfondibile mantello che distingueva i ragazzi di Garshield. Era fisicamente il doppio di me sia in altezza che in larghezza. Si girò verso di noi, con occhi scavati e cerchiati di nero, con i denti digrignati, poi emise un basso ringhio e ci caricò come un toro da combattimento.
Il mio primo istinto fu di sparargli, mirando alle gambe, ma lui evitò i proiettili saltando; con un’agilità e rapidità inaspettata, si lanciò di lato per sfuggire anche al Pugno di Giustizia di Endou. Il vento scatenato da Kazemaru, tuttavia, parve rallentarlo: nonostante il suo peso gli impedisse di essere spazzato via, non riusciva con facilità a combattere contro la corrente contraria. Frustrato ed impaziente, si gettò allora a terra e diede un pugno al pavimento. Il colpo, sferrato con una forza bruta inimmaginabile, strappò la moquette, spaccò il marmo sottostante e creò uno spostamento d’aria tale da annullare il potere di Kazemaru. Detriti e polvere si alzarono nuovamente e Kazemaru fu costretto di nuovo a toglierli di mezzo; nel frattempo il nemico si era portato pericolosamente vicino a noi.
Mi chiesi se non volesse davvero caricarci come un toro da corrida, un bufalo o un orso; una belva feroce più che un essere umano. Era abbastanza vicino da poterlo guardare negli occhi, e così mi resi conto che non erano semplicemente cerchiati di nero, non truccati con una linea di matita scura, come talvolta faceva Diam. Quella persona non aveva bianco negli occhi: la sclera era nera come pece e su quello sfondo scuro risaltavano ancora di più le iridi gialle. Era difficile anche solo pensare che fosse umano come noi, o che almeno lo fosse stato. Cos’aveva fatto Garshield a quei ragazzi, cosa aveva potuto trasformarli in belve assetate di sangue? Non sembrava aver nemmeno paura di morire. Gouenji eresse un muro di fiamme, ma il ragazzo non si fermò. Continuò a correrci incontro, finché non si sollevò da terra per lanciarsi su di noi. Kazemaru era il più vicino, gli sarebbe finito direttamente addosso; afferrai rapido il braccio del mio partner, ed in quel momento scorsi un altro movimento sospetto lungo la parete alla mia destra. Fu solo un attimo, come un lampo, ed i miei occhi non riuscirono a seguire il movimento.
Prima che il mio cervello potesse registrare cosa stava accadendo, un drago di luce si staccò dal muro come un disegno che prende vita, si sollevò in aria ed avvolse le proprie spire intorno a braccia e gambe del nemico, smorzando il suo impeto e costringendolo a toccare nuovamente terra. Il ragazzo emise un altro ringhio, urlò, si dibatté nella presa, ma le spire sembravano stringersi di più ad ogni tentativo di fuga. Il drago abbassò la testa fiammeggiante verso la sua preda, spalancò le fauci e chiuse l’enorme bocca su di lui. Il ragazzo si trovò avvolto in un turbine di fiamme rosse e dorate, ma riuscì a liberarsene scrollandosi di dosso il mantello che aveva preso fuoco: così si trovò costretto a scoprire il volto abbronzato, i capelli scompigliati mantenuti da una fascia rossa, ed una sciarpa di colore identico legata al collo, un altro segno distintivo del suo gruppo.
Dall’intensità del suo sguardo era evidente che ci stava facendo già a pezzi nella sua immaginazione.
Alle sue spalle, c’erano Chang Soo, Desarm, Afuro e Burn. Chang Soo aveva il braccio teso in avanti, la mano aperta che irradiava un alone dorato così sottile da essere visibile solo come una sorta di iridescenza. Nient’altro che un’emanazione del suo potere, il drago di fiamme continuava a scivolare su e giù dal soffitto alle pareti, coi lunghi baffi che ondeggiavano, pendendo dalle forti mascelle, pronto a sferrare un altro attacco se necessario. Desarm e Burn erano ugualmente sul piede di guerra.
Ma quando Desarm azzardò un passo, pistola alla mano, con un solo cenno di mano Chang Soo gli segnalò di arrestarsi e aspettare. Desarm gli scoccò un’occhiata frustrata, ma non si mosse. Accettare di non avere il comando era la condizione sotto cui gli era stato permesso il cambio di squadra e, benché in conflitto con se stesso, Desarm non era il tipo da rompere le righe.
Dopo aver bloccato lui, Chang Soo fece invece segno ad Afuro di muoversi. Divenne chiaro allora che intendeva utilizzare la voce ammaliante di Aphrodi sul nemico per provare a controllarlo, o almeno a distrarlo e metterlo fuori gioco; sembrava che non avesse intenzione di ucciderlo. Non avevamo ricevuto ordini precisi in proposito. Probabilmente le Spy Eleven speravano di tenere in vita quante più persone possibili, in modo da avere testimoni nel futuro processo contro Garshield. Nel caso di Chang Soo, sentivo da parte sua un interesse di altro tipo, un misto di curiosità e pena verso quei ragazzi, come se si stesse interrogando su come fossero, se fosse possibile riportarli indietro.
Afuro trasse un respiro profondo, poi si tolse microfono ed auricolare ed iniziò a camminare verso l’energumeno ostentando sicurezza.
-Non muoverti- disse. -Resta fermo dove sei e guarda soltanto me.- La sua voce era chiara e forte, e le parole rimbombarono nel corridoio. Il nemico trasalì e si voltò di scatto verso Afuro, ringhiando tra i denti come un molosso rabbioso. Come primo istinto, scattò in avanti, probabilmente con l’intento di caricare Afuro come aveva fatto con noi, ma il suo corpo si stava già paralizzando: muscoli facciali e delle braccia scoperte si irrigidirono, tesi come corde di violino, nello sforzo di combattere contro l’istinto di assecondare gli ordini di Afuro. Ogni nervo del suo corpo stava lottando per non spezzarsi, per mantenere il controllo su di sé, mentre la voce di Afuro lo spingeva a rilassarsi, arrendersi, cadere. Non avendo ricevuto da Chang Soo un segnale contrario, Afuro continuava a camminare verso il ragazzo, senza smettere di parlare e senza interrompere il contatto visivo.
-Dimmi il tuo nome- gli disse, con lo stesso tono di prima.
L’altro digrignò i denti, strabuzzò gli occhi, strinse i pugni lungo i fianchi.
-Buffalo- soffiò infine, con voce logora, lacerata. Subito dopo si morse la lingua, come per auto-punirsi di aver ceduto, e soffocò un mugolio di dolore. Misi a fuoco le sue emozioni, cercando di cogliere il suo umore, e vi trovai un misto di rabbia e sofferenza, ma anche paura. Sapeva chi era Afuro, cosa poteva fare. Probabilmente tutti loro erano stati messi in guardia, perché avevano raccolto informazioni su di noi. E qualcuno di loro era anche già caduto nella trappola di Afuro.
-Buffalo, non muoverti. Non attaccare. Ascoltami. Dimmi il luogo dove tenete gli ostaggi. Dimmi in che direzione andare- ordinò Afuro.
Il ragazzo serrò la mascella con maggiore forza, mentre l’umiliazione divampava dentro di lui. Stava avendo fantasie piuttosto cruente su come avrebbe ucciso Afuro, se solo avesse potuto liberarsi dall’incantesimo e reagire. Intuivo che uccidere era l’ordine che gli era stato impartito, che questa era la differenza tra noi e loro. Noi non avevamo né ordine né desiderio di uccidere, eravamo pronti a farlo, ma soltanto se necessario; per loro, al contrario, era la priorità, il divertimento più gustoso.
-Buffalo, dimmi dove si trovano gli ostaggi.- Usare il nome della vittima sembrava rendere ancora più efficace il potere di Afuro e, finalmente, Buffalo iniziò a piegarsi alla sua voce. Ci indicò il corridoio alle mie spalle con un braccio tremante, il corpo intero scosso da convulsioni; poi cadde a terra, esausto, in ginocchio. Afuro era ormai a pochi passi da lui, lo guardava gelido dall’alto in basso.
-Dove dobbiamo andare? Dimmelo- gli ordinò.
-Seguite il corridoio… In fondo… dietro l’angolo… c’è una porta- Buffalo si morse ancora una volta la lingua, questa volta tanto forte da strapparsi un verso di dolore. Afuro scrutò il suo viso con un’espressione indecifrabile, apparentemente indifferente.
-Bene- disse infine. -Ora dormi, Buffalo. Vai a dormire adesso.- Poi alzò una gamba, gli premette un piede contro il petto e diede uno spintone. Buffalo non resistette nemmeno un minuto, cadde a terra di lato e le sue palpebre si chiusero. Il suo corpo rimase rigido ancora per qualche secondo, poi si rilassò, i suoi pugni si aprirono e i suoi lineamenti si distesero nel sonno.
-Resterà fuori dai giochi per un po’. Dovremmo avere il tempo di trovare Gazel e Hitomiko- esclamò Afuro. -Come state voi? Tutti interi?
Endou, Gouenji, Kazemaru ed io ci scambiammo qualche sguardo.
-Tutti interi, per fortuna- confermò Endou con un lieve sorriso. -Certo, è stato inaspettato…
-Credo che nessuno di loro si presenterà su invito- bofonchiò Afuro.
Chang Soo si schiarì la voce. -Ottimo lavoro, Aphrodi. Ora leghiamolo e proseguiamo- affermò. Istintivamente mi girai verso la parete e notai che il drago era scomparso.
-Sì, signore- esclamò Afuro, sistemandosi di nuovo microfono ed auricolare, poi si rivolse a noi.
-Forza, muoviamoci. Non voglio perdere un minuto di più.
Era chiaro che eravamo tutti d’accordo con lui su questo punto, per cui non ci fu nessuna esitazione. Tutti e quattro scavalcammo il corpo di Buffalo, lo trascinammo verso un muro in modo da metterlo in posizione seduta e lo legammo con una delle corde che ci erano state provviste; per avere una sicurezza in più, dopo avergli legato mani e piedi, gli tappammo anche la bocca, attenti a non coprirgli il naso perché potesse respirare.
Lo lasciammo lì, sperando che restasse fuori dai piedi per molto più tempo del previsto, e ci affrettammo a raggiungere Chang Soo. Notai che Desarm non aveva rinfoderato la pistola e, in effetti, mi sembrò la cosa più intelligente da fare, perciò lo imitai prontamente. Non avevo piena confidenza nei miei poteri, ma ero pur sempre in grado di sparare.
 

Avanzavamo, immersi nel silenzio. Non potevo fare a meno di pensare che fosse un’atmosfera innaturale, per non dire inquietante.
Benché Buffalo avesse letteralmente aperto un buco in una parete, non si era presentato nessun altro nemico oltre lui. Anche in seguito avevamo di certo fatto un bel po’ di confusione, eppure nessuno era intervenuto. Eravamo riusciti davvero a passare inosservati? O stavano solo aspettando la loro occasione? Tutto sembrava fin troppo pacifico.
Non avvertivo nessuna emozione estranea, nessun’aura al di fuori delle persone che erano con me, eppure non riuscivo a stare del tutto tranquillo. Decisi di provare nuovamente a mettere a fuoco Hitomiko e Gazel, nel caso ci stessimo avvicinando. Riuscivo a percepire un’aura simile a quella di Hitomiko, le sue paure, i suoi dubbi. La sua sofferenza. Adesso che ero più vicino a lei, ne sentivo chiaramente il dolore. Doveva esserci qualcosa che non andava in lei. Forse era ferita.
-Qualcosa non va? Tutto bene?
Trasalii, sbattei le palpebre più volte per tornare alla realtà. Alzai lo sguardo verso Desarm, improvvisamente comparso al mio fianco.
-Mm… Scusi, diceva a me?- chiesi, stordito.
-Ti ho chiesto se va tutto bene- ripeté Desarm senza battere ciglio. -Avevi un’espressione contrita, come se stessi soffrendo. Sicuro di non esserti fatto male durante lo scontro di prima? Nascondere una ferita non è mai una mossa saggia, soprattutto se potrebbe incidere sulla missione.
-Oh, sì… Volevo dire, sì, signore, sto bene- farfugliai. Lui non parve esserne convinto.
-Sei sicuro?- chiese, infatti. Annuii, cercando di apparire più deciso, e lui sospirò.
-Va bene, ti crederò. Ma se succede qualcosa, promettimi che non tenterai di nasconderlo. Ti ho avuto come cadetto per poco tempo, ma ho capito che sei il tipo che si sacrifica troppo. Fai attenzione.
-Uhm, sì, signore- risposi. Desarm mi rivolse un ultimo sguardo prima di rallentare il passo, in modo da tornare a chiudere la fila.
-Non è ferita?- insistette. Scossi il capo.
-Potrebbe esserlo… ma non sta soffrendo in questo momento. Mi dispiace, non posso fare più di così- risposi con più chiarezza possibile. Desarm annuì.
-Ti ringrazio. Non è molto, ma me lo farò bastare…- mormorò. -Se possibile, informami se percepisci qualche cambiamento.
-Lo farò- dissi, anche se in cuor mio non ero sicuro fosse una buona idea. Per quanto fosse rispettoso delle regole o riluttante a rompere le righe, riuscivo benissimo a immaginare Desarm farlo se fosse stato per salvare Hitomiko. Dopotutto, era innamorato di lei.
Non ero certo che qualcuno ne fosse al corrente, lei compresa, e probabilmente Desarm non si era reso conto di avermi appena rivelato, senza volere, il suo segreto. In quel momento, le sue emozioni per lei mi apparivano così chiare che anche volendo non avrei potuto ignorarle. Non avrei detto nulla, ma ora sentivo di dover essere più cauto con Desarm quando mi chiedeva di Hitomiko.
Pur sapendo che mi stava osservando anche in quel momento, decisi di non lasciarmi distrarre. Feci nuovamente il vuoto intorno a me e questa volta incanalai tutte le mie energie direttamente verso Hitomiko. Immaginai il suo volto ed il suo nome nella mia mente. Quanto più chiara era l’immagine di lei nella mia testa, più facilmente l’avrei trovata. Le sue emozioni non erano cambiate; non c’era traccia di dolore fisico, ma di certo molta sofferenza a livello emotivo e psicologico, molto stress dovuto alla situazione in cui era finita e, forse, anche a causa di Gazel. Tra le sue incertezze e le sue paure, infatti, riuscii a districare un filo di preoccupazione, di apprensione per il prossimo. Non era da sola. C’era in lei il desiderio di proteggere qualcuno. C’era Gazel con lei…
La mia mano iniziò a tremare. La fissai, confuso, chiedendomi se non fosse per lo sforzo mentale, ma non mi sentivo affatto così stanco. Ma poi il tremito si estese fino all’intero braccio, si diffuse in tutto il corpo, e d’un tratto mi resi conto che a tremare non ero io.
Erano il pavimento e le pareti ed il soffitto; l’intero edificio stava tremando. Le scosse diventano più violente ed intense ad ogni minuto che passava. Eravamo nel pieno di un terremoto.
A circa metà del corridoio da cui eravamo venuti, alle nostre spalle quindi, erano comparse due figure incappucciate. Ci avevano trovato di nuovo. Uno dei due sogghignò sotto il largo naso e premette una mano contro la parete alla nostra destra.
Un rumore assordante ci fece sobbalzare.
Mi voltai di scatto e notai che nel muro che il ragazzo aveva appena toccato si stavano aprendo numerose crepe, sempre più lunghe e profonde, che si diradavano come lacci di rampicanti, fino a coprire del tutto la superficie. Il suo potere doveva essere la causa dell’improvviso terremoto. Desarm provò a sparargli, ma il compagno che era con lui deviò i proiettili estraendo una lunga sciabola lucente.
In un attimo, Chang Soo si fece largo agilmente fra di noi e si posizionò esattamente nello spazio che ci separava da quegli individui. Allargò le braccia, come per tenerci dietro di lui e farci da scudo, ed urlò:- Andate. Mi occuperò io di questo.- Le sue mani già si stavano illuminando per invocare il drago di fuoco, mentre la sua voce veniva inghiottita dal frastuono.
Per la prima volta, Afuro non obbedì subito al suo ordine. Al contrario, rimase immobile, indeciso se restare col proprio comandante o meno. La sua esitazione durò un attimo di troppo.
Gridando il suo nome, Burn scattò verso di lui per afferrarlo e tirarlo via, ma era già troppo tardi.
Le scosse ci tolsero letteralmente la terra da sotto i piedi, ci fecero perdere l’equilibrio ed annullarono il nostro tempo di reazione. L’esplosione ed il crollo che seguirono furono inevitabili e così brutali da sollevarci e scagliarci all’indietro; anche Burn si trovò sbalzato via dall’impatto. Questa volta, si sollevarono ben più di una nuvola di polvere ed una pioggia di detriti, erano venuti giù larghi pezzi di muro.
Mi coprii il volto con un braccio e cercai di scrutare lo spazio intorno a me, per capire dove fossi, dove si trovassero i miei amici e dove i miei nemici. Era impossibile vedere più lontano del proprio naso. Kazemaru trovò la mia mano per primo e la strinse forte. Alla mia destra intravidi Gouenji e Burn, inconfondibili grazie alla forma dei loro capelli. Riconobbi a stento anche Desarm, il più alto tra noi, prima di accorgermi che oltre a Chang Soo e Afuro mancava anche Endou.
-Endou…! Endou!- urlai. Pensai subito a Hiroto, a cosa Endou significava per lui, poi a Kazemaru...
Il mio partner mi strinse di nuovo forte la mano. Mi girai a guardarlo e la voce mi venne a mancare, ma lui non sembrava allarmato; al contrario, mi posò l’altra mano sulla spalla e mi scosse con delicatezza.
-Ryuuji, stai calmo… Mamoru sta bene… Guarda…- Seguii la direzione indicata dal suo dito attraverso la fitta nuvola di polvere ed intravidi la schiena di Endou, dritta davanti a noi. Lo fissai, incredulo. Non solo era riuscito miracolosamente a rimanere in piedi, ma si era anche frapposto all’ultimo tra noi e l’esplosione; d’un tratto scorsi la familiare iridescenza scorrere lungo le sue mani sporche e graffiate e, alzando lo sguardo, vidi l’enorme mano di luce che Endou aveva evocato perché ci servisse da scudo: i pezzi di muro e le schegge erano rimbalzate su di essa, proteggendoci. Endou era salvo, stava bene. Stavo per tirare un sospiro di sollievo, ma in quel momento la polvere iniziò a diradarsi, permettendoci di intravedere le figure di Afuro e Chang Soo e la sensazione di panico mi montò nuovamente dentro.
Afuro era in ginocchio nello sporco, con i vestiti strappati e rivoli di sangue che colavano dai numerosi graffi sul corpo. Chang Soo era steso a terra e non si muoveva. Non dava cenni di vita.
Barcollando, mi rimisi in piedi e aiutai Kazemaru a fare lo stesso. Ora più che mai non riuscivo a lasciargli la mano: avevo bisogno di restare aggrappato a qualcosa o qualcuno. E Kazemaru mi capì, mi sostenne, anche se lui stesso aveva paura. C’erano talmente tanti sentimenti negativi nell’aria che ne fui sommerso, mi sentivo soffocare. Endou non si mosse, mentre Desarm avanzò al suo fianco con la pistola puntata, facendo segno a Gouenji di venire con lui. Non c’era traccia dei nostri nemici, ma erano sicuramente ancora lì, in agguato.
Incurante delle schegge su cui si stava muovendo, Afuro gattonò verso Chang Soo e si chinò su di lui; i capelli gli scendevano su viso e collo, rendendo impossibile leggere la sua espressione. Le sue mani rimasero sospese in aria per qualche secondo, come se non sapessero esattamente cosa fare. Burn li osservava con un’espressione contratta; ancora stordito, stava tentando di mettere a fuoco la scena e, quando vi riuscì, trattenne bruscamente il respiro. Seguii subito il suo sguardo ed il fiato mi si spezzò in petto. Kazemaru ed io ci stringemmo istintivamente l’uno all’altro.
Chang Soo non aveva più le gambe: erano intrappolate, dalle cosce in giù, sotto le macerie.
Superato lo shock iniziale, le mani di Afuro cominciarono a scavare tra i detriti per liberare il corpo del suo comandante, ma più continuava più appariva chiaro quanto tutto fosse inutile. Endou fece per scattare verso di loro; con il suo potere, era l’unico che avesse davvero la capacità di spostare le macerie in tempo utile, tuttavia Chang Soo lo fermò.
-Stai fermo dove sei, Endou Mamoru- gli disse.
Endou si bloccò per la sorpresa e guardò Chang Soo ad occhi sgranati.
-Signore, io posso…
-So cosa puoi fare, ma in ogni caso sarebbe inutile- lo interruppe Chang Soo, secco, e l’espressione di Endou si adombrò.
Chang Soo era un uomo pratico. Stava già pensando al futuro, mentre noi eravamo bloccati a quel momento. Quando pure lo avessimo liberato, cosa avremmo fatto dopo? Dal momento che Chang Soo non poteva camminare sulle proprie gambe, avremmo dovuto trascinarlo. Per quanto crudele fosse, tutti sapevamo che sarebbe stato un peso. Naturalmente, Chang Soo lo sapeva.
Nessuno di noi voleva accettare la verità, ma lui lo aveva già fatto.
-Aphrodi… può bastare- mormorò, le sue dita si chiusero attorno al polso di Afuro per fermarlo.
Afuro lo fissò con gli occhi pieni di lacrime e scosse il capo, come se non volesse capire.
-Mi lasci… lei è… dobbiamo...
-No- lo interruppe Chang Soo, con una tale fermezza che Afuro si pietrificò.
-Il nemico è ancora qui da qualche parte. Non possiamo perdere tempo. Il crollo giocherà a nostro favore, impedirà loro di raggiungervi in fretta ed io li tratterrò come posso.
Girò il capo quanto più possibile per guardare Desarm.
-Te li affido- disse. -Sai cosa devi fare… Dovrai trattenere la tua impazienza e guidare questi ragazzi al posto mio… Gli ostaggi e le squadre di Urupa e Kruger aspettano il nostro arrivo.
-Certamente. Conta su di me, Chang Soo- affermò Desarm con voce roca. Giunto finalmente ad una decisione, ogni esitazione o traccia di irrequietezza scomparve dal suo viso.
Chang Soo annuì lentamente, poi guardò verso di noi.
-Ah, Nagumo… Sei così insolitamente silenzioso- mormorò. -Non hai nulla da aggiungere?
Solo a quel punto, Burn si riscosse, reagì e corse verso di loro.
Con mia sorpresa, la prima cosa che fece fu prendere Afuro per le spalle e tirarlo su. Afuro lo guardò sorpreso, poi nascose il viso contro la sua spalla e strinse una mano nella sua maglia, in cerca di conforto. Burn gli avvolse le spalle con un braccio e si volse verso Chang Soo. L’uomo lo stava osservando placidamente, attendendo ancora una sua risposta.
-Ehi… stai per morire, non è vero?- mormorò Burn.
Chang Soo sollevò un sopracciglio, quasi interdetto.
-Hai già smesso di darmi del lei, Nagumo?
-Ha davvero importanza adesso?- La voce di Burn era bassa e stanca, vulnerabile.
Chang Soo abbozzò un sorriso sardonico, ma il suo tono era rassegnato, malinconico.
-Suppongo di no. In fondo, come hai detto tu, sto per morire- rispose. Afuro strinse le dita nella mano di Burn, mentre l’altro serrava la mascella. Chang Soo non ci badò.
-Comunque, riuscirò a fare il mio dovere fino all’ultimo respiro. Il drago di fuoco è ancora vivo in me- proseguì Chang Soo. Il suo volto era madido di sudore, pallido come un cencio. Sembrava avesse deciso di non mostrare il proprio dolore fino alla fine.
Burn abbassò lo sguardo e calciò via alcune pietruzze con rabbia.
-Lei è davvero…- cominciò, ma prima di insultarlo si fermò e cambiò idea. L’espressione del suo viso si distese lievemente mentre la rabbia si attenuava. Sospirò, rassegnato alla natura irritante del suo ex-maestro.
-Una vita piena di rimpianti è una vita ben spesa… giusto?- disse Burn, con voce più ferma.
Chang Soo lo fissò per un momento, poi gettò il capo all’indietro e scoppiò in una risata rauca, quasi allegra, finché non gli venne la tosse. -Ah, sì- mormorò, ghignando tra i colpi di tosse.
-Voi ragazzini… sempre con questa faccia tosta…
Smise di ridere e, sebbene il sorriso fosse ancora al suo posto, era tornato serio.
-Dovete andare, ora- affermò. Burn si era preparato ad eseguire quell’ordine. Si girò e s’incamminò verso di noi, trascinando Afuro con sé. Arrivati davanti a Desarm, i due ragazzi alzarono lo sguardo verso di lui, in attesa di ricevere nuovi ordini.
Desarm serrò la mascella e, in un tono che non ammetteva discussioni, disse:- Andiamo.
E così voltammo le spalle al campo di battaglia.
Quando girammo l’angolo, imboccando un lungo corridoio uguale a tutti gli altri, nuove esplosioni rimbombarono dietro di noi facendo tremare tutto l’edificio. Dovevano aver attaccato di nuovo, pensando di averci in pugno, sepolti sotto le macerie, o almeno indeboliti…
-Non voltatevi. Proseguiamo- ordinò Desarm, alzando la voce per sovrastare il frastuono.
Sentimmo delle urla. Un bagliore di luce abbracciò il corridoio alle nostre spalle, arrivando quasi fino a noi; per un attimo si spense, ma poi tornò a splendere, ancora più accecante: tingendosi di rosso e dorato, si distese e si snodò lungo le pareti, assumendo la forma di un drago.
La figura aleggiò per pochissimi secondi e, quando si spense per la seconda volta, non tornò più.
Burn sembrava sul punto di fermarsi, ma stavolta fu Afuro a strattonarlo.
-Proseguiamo, Haruya… Se mi volto indietro adesso, non riuscirò più a proseguire- lo esortò. Sembrava che avesse anche qualche difficoltà a camminare. Burn gli mise prontamente un braccio intorno alla vita per supportarlo, poi si girò e guardò dritto davanti a sé, determinato.
-Riporteremo Gazel indietro, te lo prometto- disse. Afuro annuì, sforzandosi di ricacciare indietro le lacrime.
 

Riuscivamo già a scorgere la porta che Buffalo ci aveva indicato. Non era per nulla nascosta, il che mi rese subito sospettoso e, a quanto pareva, non ero l’unico.
Desarm si parò davanti a noi e stese un braccio per bloccare la strada.
-Reize- mi chiamò sottovoce -ho bisogno che tu mi dica cosa senti in questo momento.
Chiusi gli occhi per un istante e annuii. In quel punto, avvertivo la presenza di Hitomiko più forte che mai; le sue emozioni erano così intense da darmi quasi la sensazione di essere punto da mille spine. Alzai lo sguardo verso Desarm e di nuovo feci cenno di sì col capo.
-Diamoci da fare, allora- mormorò lui.
Dopo averci guardati uno ad uno, valutando chi di noi potesse farcela, scelse Gouenji e Burn. Prima ancora che Burn potesse reagire, Afuro iniziò a districare l’abbraccio per fargli spazio.
-Vai- gli disse, piano, e gli strinse forte una mano. Burn annuì e, insieme a Gouenji, seguì Desarm verso la porta.
Mi mossi subito per offrire ad Afuro una spalla a cui appoggiarsi in assenza di Burn. Lui mi scoccò un’occhiata grata, tuttavia mi premette una mano sul petto e mi allontanò con delicatezza.
-È meglio se non mi stai così vicino- disse, con il viso chino ed i capelli che gli scendevano davanti agli occhi. -Le mie emozioni, adesso… potrebbero essere un po’ troppo per te.
Scossi il capo, strinsi la sua mano e mi passai il suo braccio attorno alle spalle.
-Non è niente. Se tu puoi sopportarlo, posso farlo anch’io. Lasciati aiutare.
-Sei troppo buono, Midorikawa- sussurrò Afuro. Abbassò ancora di più il volto, rendendo quasi impossibile vedere la sua espressione. Mi accorsi che gli tremavano le labbra, che le mordeva pur di non scoppiare in lacrime.
Incrociai lo sguardo di Kazemaru; al suo sguardo interrogativo, risposi solo con un cenno del capo. Un attimo dopo, lui e Endou arretrarono fino a mettersi davanti a me e Afuro, come a farci lo scudo.
Intanto, Desarm, Gouenji e Burn stavano cercando il modo di aprire la porta che, sebbene in bella vista, non era certo facile da aprire: ricoperta di acciaio, disponeva di numerosi tre lucchetti a combinazione. Non avevamo tempo da perdere in decifrazioni di codici o password, per cui Desarm optò per il piano B.
-Abbattetela- ordinò, e dallo sguardo di Burn era chiaro che non stesse aspettando altro.
-La ridurrò in cenere- soffiò, poggiando una mano contro la superficie metallica. Si girò verso Gouenji. -Cerca di starmi dietro. Per come mi sento adesso… non credo riuscirò a controllarmi- lo avvisò, con uno scintillio negli occhi.
Gouenji si sfilò il guanto dalla mano destra; finora aveva sempre combattuto senza toglierli.
-Non devi preoccuparti di questo. Anch'io dubito di riuscire a trattenermi- ribatté. La sua voce era controllata, ma la mascella contratta e lo sguardo acceso tradivano il suo reale stato d’animo.
Non perse neanche un attimo e, con uno schiocco di dita, incendiò uno dei lucchetti, causando una piccola esplosione di scintille. Il congegno cadde a terra e sulla porta, al suo posto, restò una macchia di bruciato da cui esalava un filo di fumo. Le labbra di Burn si incurvarono in un sorriso distorto.
-Capisco. Facciamo sul serio, allora- sibilò, poi poggiò anche l’altra mano sulla porta.
Trattenni istintivamente il fiato. Endou e Kazemaru ebbero la mia stessa reazione. Afuro tacque, mentre Desarm si allontanò saggiamente dalla porta, osservando da qualche metro più in là.
Il corpo di Burn era completamente avvolto di fiamme, fino alla punta dei capelli, che ondeggiavano come il fuoco di un camino, con mille sfumature luminose. Cercare di guardarlo direttamente era accecante. La temperatura nel corridoio cominciò a salire, per fortuna non al punto di diventare soffocante; in contraddizione con le sue parole, nei fatti Burn stava trattenendo almeno l’energia necessaria a non trasformare quel posto in una fornace. Sentivo il sudore scorrermi sulla fronte, nel colletto della maglia, lungo la schiena. Non sembrava che le fiamme provenienti dal suo corpo lo disturbassero, o che facessero male. Burn, pensai. Bruciare. Era nel suo elemento.
Dopo alcuni minuti di resistenza, il metallo iniziò a cedere, ad arrossarsi. Gouenji eliminò gli altri lucchetti presenti, poi premette a sua volta la mano nuda sulla superficie, per niente spaventato dalla sua iridescenza o dal fatto che dovesse essere più che bollente. Così come Burn, Gouenji non aveva paura di scottarsi. Il suo corpo non si ricoprì di fiamme, ma le sue dita erano piccoli turbini di fuoco che penetravano come trivelle nell’acciaio.
La porta cominciò lentamente a sciogliersi come fosse stata di burro, mentre una nuvola di fumo grigio saliva verso l’alto, inghiottendo Burn e Gouenji. Intravidi la sagoma di Burn spegnersi, letteralmente, mentre le fiamme che lo avvolgevano si diradavano. La temperatura, una volta raggiunto il suo picco, iniziò a calare lentamente.
-Gazel! Gazel!- Chiamando il compagno quasi con disperazione, Burn scavalcò i resti della porta in un balzo e si gettò nella stanza senza aspettare che lo raggiungessimo o che Desarm desse un qualsiasi ordine. Desarm e Gouenji, più vicini, furono i primi a seguirlo di corsa.
Endou si posizionò dall’altro lato di Afuro, si passò l’altro suo braccio sulle spalle e mi rivolse uno sguardo determinato. Con il suo aiuto, e Kazemaru che ci guardava le spalle, mi incamminai verso la stanza portando con me Afuro che zoppicava.
La prima camera in cui ci trovammo era ampia e spaziosa, tuttavia spoglia, vuota. Gli unici oggetti presenti erano un orologio da parete, appeso troppo in alto perché potessimo arrivarci, ed un tappeto che era stato scalciato in un angolo, per assicurarsi che non nascondesse una botola o altri passaggi segreti. Ora, Burn, Gouenji e Desarm stavano osservando le pareti.
-Deve averci mentito!- sbottò Gouenji, strinse i pugni con frustrazione.
-No- ribatté Afuro, stanco, ma ancora combattivo. -Non avrebbe potuto… Era sotto il mio potere e gli ho fatto delle domande precise. Non poteva mentirmi.
-Se ha detto la verità, allora dobbiamo solo cercare- concluse Desarm. -Sparpagliamoci, la stanza è grande, ma non enorme. Non dovremmo metterci molto.
Mi morsi l’interno della guancia. Il mio istinto mi diceva che Hitomiko si trovava lì, dietro uno di quei muri, tuttavia, ora che era così vicina e le sue emozioni così pungenti, individuarla in modo netto era più difficile del previsto. Stavo affogando nelle sensazioni. Scossi il capo ed il mio sguardo scivolò su ogni parete, in cerca di una distrazione per sgombrare la mia mente e ricominciare daccapo. Non cercavo nulla di preciso, ogni dettaglio poteva essere utile. Gli indizi avrebbero potuto trovare dappertutto, ad un palmo dal nostro naso.
I miei occhi passarono oltre l’orologio, ma vi tornarono subito. Era impossibile che segnasse l’ora giusta. Non sapevo perché quel dettaglio mi disturbasse. Potevano essere passate al massimo un paio di ore da quando eravamo entrati nell’edificio. Mi costrinsi a smettere di fissarlo e ripresi ad osservare i dintorni. Dove potevano aver nascosto due persone, in una stanza così? C’era qualcosa di decisamente innaturale. Tornai di colpo a guardare l’orologio, preso da un dubbio: come pensavo, era perfettamente immobile.
Mi scostai da Afuro per potermi avvicinare e, osservandolo da sotto, mi resi conto che quell’oggetto non aveva il minimo spessore. Abbassai lo sguardo, poggiai con cautela la mano contro la parete davanti. Ora ne ero certo.
Mi allontanai rapidamente ed estrassi la mia pistola dal fodero.
-Ragazzi- dissi, ad alta voce per farmi sentire da tutti -penso di aver trovato il trucco.
Consapevole di avere l’attenzione di tutti, sparai un singolo proiettile, ben centrato, contro la lastra di vetro che avevo di fronte. Era stata posizionata ad arte, truccata in modo da fondersi col resto della stanza e darci l’impressione che fosse del tutto reale. Lo sparo fece tremare la superficie, aprì al suo interno un singolo foro, dal quale però si allargarono decine di fratture, finché il vetro non andò in pezzi davanti ai nostri occhi. Si frantumò in un soffio, svelandoci la presenza una seconda porta interna. Non appena fu visibile, Burn mi superò di corsa, calpestò i vetri, non gli importava. Fece saltare in un’esplosione di scintille la maniglia della porta e la spalancò gridando il nome di Gazel.
Lo seguimmo subito, Desarm in testa al gruppo.
In un angolo di quell’angusto stanzino, c’erano i nostri amici. 
La sensazione di sollievo generale si smorzò bruscamente non appena notammo che nessuno dei due si muoveva. Hitomiko era seduta, con la schiena appoggiata ad una parete, rannicchiata su se stessa; il suo respiro era pesante, affannoso. Gazel giaceva svenuto a pochi centimetri da lei.
Burn si gettò in ginocchio a fianco a Gazel.
-È soltanto svenuto- lo rassicurò Hitomiko con voce rauca. Il suo volto era privo di colore, gli occhi lucidi e arrossati. Burn spostò lo sguardo da Gazel a lei e i suoi occhi si spalancarono per lo stupore.
-Lei… La sua gamba…- esclamò, strozzato. Non riuscì a dire altro, ma le sue parole bastarono ad allarmare Desarm. In un attimo, l’uomo fu al loro fianco, in ginocchio accanto a lei.
-Fratturata, forse- soffiò Hitomiko d’un fiato. Il suo pantalone era strappato in più punti lungo la gamba destra, la pelle gonfia e tumefatta.
Desarm strinse i denti e le prese il volto tra le mani, accarezzandole le guance e scostandole i capelli dal viso umido di sudore e lacrime.
-Tra poco sarai fuori da qui, sarai al sicuro, te lo prometto- le disse, con voce carica di emozione.
-Osamu…- mormorò Hitomiko, poi chiuse gli occhi, abbandonandosi a lui. Non aveva la forza di aggiungere altro, ma almeno era sollevata di essere in mani fidate. Desarm la osservò ancora per un istante, poi si sfilò la giacca, la strappò e la usò per fasciarle la gamba, usando quanta più delicatezza possibile per non farle male. Nessuno di noi osava fiatare.
Una volta terminato il lavoro, Desarm si rialzò e si asciugò il sudore dal viso. Aveva un’espressione combattuta.
-La cosa migliore da fare è separarci qui- disse infine, spostando lo sguardo su ognuno di noi.
-Dobbiamo ricongiungerci con le squadre di Urupa e Kruger, ma anche assicurarci che gli ostaggi siano sani e salvi è una priorità. Burn, Afuro, Gouenji-. Si girò verso le persone che aveva interpellato. -Prendetevi cura di Hitomiko e Gazel. Parlerò con il comando e farò in modo che la mia squadra venga a prendervi. Mentre non ci sono, Afuro, tu hai il comando di questo gruppo.
Fece una pausa, trattenendo le parole che voleva dire. Afuro capì ugualmente.
-Ero il secondo di Chang Soo. Non la deluderò- disse. -Sono ferito, ma posso comunque usare il mio potere.
Per una manciata di secondi rimasero a fissarsi. Desarm distolse lo sguardo per primo; lasciare Hitomiko da sola nel momento del bisogno doveva costargli moltissimo, ma non aveva scelta. Aveva una missione da svolgere, l’incarico che Chang Soo gli aveva affidato di persona.
Si voltò, tornò nell’altra stanza e cominciò a parlare rapidamente nel proprio microfono. Non avevamo la possibilità di sentire la risposta dall’altro lato; a quanto pareva, le Spy Eleven avevano una linea privilegiata, chiusa, che soltanto loro potevano usare per comunicare: era una telefonata privata.
Una volta che aveva finito, Desarm si affacciò alla porta.
-Afuro, restate nascosti. Salvo imprevisti, la mia squadra arriverà a breve, assieme a quella di Ardena... Non abbassate mai la guardia- esclamò, poi si voltò verso di me.
-Reize, Kazemaru, Endou... Voi siete con me. Proseguiamo.
Endou strinse le mani di tutti prima di lasciare la stanza, augurando loro buona fortuna.
Mi voltai un’ultima volta indietro, sulla porta, poi insieme a Endou e Kazemaru seguii Desarm fuori dalla stanza e nel corridoio. Speravo con tutto il cuore che riuscissero a uscire sani e salvi, che per una volta tutto sarebbe andato liscio come l’olio. Tutti avevamo bisogno di almeno un pizzico di speranza, quella notte.



 
~Angolo dell'Autrice~
Buongiorno! Come al solito, i miei aggiornamenti sono molto sporadici, chiedo perdono ;u;
Però porto buone notizie, ovvero: 1.) Ho già iniziato a scrivere il capitolo 45 e, dal momento che i due capitoli successivi sono in realtà già scritti, non dovrei metterci un altro anno a finire questo arc (lol); 2.) Ho quasi finito anche una delle storie spinoff che avevo intenzione di pubblicare, quindi vi svelo il progetto. Sarà una raccolta di spinoff, sia prequel che sequel, intitolata "Spy Eleven: Alternative". Il primo capitolo sarà un prequel sui Fubuki!
Passando a parlare di questo capitolo: 
Intanto, spero che sia stata una buona lettura. Mi dispiace per Chang Soo, ma in verità avevo pensato a questo svolgimento per il suo pg fin da quando l'ho fatto apparire in No Light (infatti, troverete il parallelo riguardo alla frase sui rimpianti che Burn dice a Chang Soo in questo capitolo). Penso che sia uno dei miei personaggi preferiti di questo capitolo, insieme ad Afuro e Desarm. Afuro è il più figo di tutti (sì) e non è stato facile rendere quanto sia vulnerabile. Come dire, Afuro è un personaggio che riesce ad essere forte anche nelle situazioni disperate, ma allo stesso tempo è molto fragile. Per quanto riguarda Desarm, spero di essere riuscita a far capire il contrasto che sta vivendo tra i suoi sentimenti personali e il suo senso del dovere. Midorikawa è l'unico ad essersi accorto di questo contrasto, per cui ho cercato di far emergere i sentimenti di Desarm quanto più possibile attraverso il POV di prima persona.
Nei prossimi capitoli appariranno di nuovo alcuni membri del Team Garshield, in caso di dubbi sui pg vi rimando alla wikia!
Al prossimo aggiornamento,
 Roby


 

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Capitolo 45
*** Mission 45. ~Hiroto's Arc. ***


Consigli di soundtrack per il capitolo: ,




Il pavimento continuava a tremare sotto i nostri piedi. Il ragazzo che aveva rubato un dono della terra era ancora a piede libero e stava facendo il possibile per complicarci la vita. Ci riusciva piuttosto bene: dal momento che le scosse erano discontinue, di varia frequenza e lunghezza, era diventato impossibile prevederle e pianificare i propri movimenti.
A causa di ciò, eravamo costretti a procedere lentamente, fermandoci di tanto in tanto per cercare di misurare l’intensità delle scosse. Avanzavamo in fila indiana, pistola alla mano, guardando le proprie spalle e quelle dei compagni. Desarm aveva preso la posizione da capofila, la nostra punta di lancia in caso di attacco frontale; a difenderci da dietro, come chiudi fila, c’era Endou. Il suo volto non tradiva cenni di nervosismo, era saldo come una roccia. Potevamo affidarci completamente a lui. Quando una scossa particolarmente inaspettata ci aveva fatti barcollare, poco prima, Kazemaru aveva rischiato di cadere, ma Endou aveva reagito all’istante: lo aveva afferrato per un braccio e lo aveva rimesso in equilibrio in un attimo. Mi sentivo leggermente più sicuro con Endou e Kazemaru là dietro, sapevo di poter contare su di loro. Ci saremmo protetti a vicenda, noi tre. Desarm ci guardava soltanto quando doveva darci ordini, apparentemente impaziente di raggiungere la meta.
D’un tratto il corridoio diventò tutto buio. I fanalini al neon sul soffitto si erano spenti di colpo. Sentii Desarm sospirare di sollievo e capii che Hiroto aveva trovato il generatore e l’aveva disattivato. Questo era un punto a nostro favore nella partita che stavamo giocando, anche se certamente il buio avrebbe potuto darci qualche problema al momento.
-Endou, Kazemaru, Reize- Desarm attirò la nostra attenzione. Intravidi il suo profilo, era tornato sui suoi passi avvicinandosi a noi. -Prendete questi- disse, tendendoci qualcosa con una certa urgenza.
-Sono occhiali a visione notturna- precisò Desarm. -Avevamo previsto che potesse succedere una cosa del genere mentre eravamo ancora dentro… Per fortuna Chang Soo me li aveva passati prima di… prima che...- La sua voce si affievolì in mancanza di parole.
Rinfoderai la pistola per prendere gli occhiali e, una volta indossati, vidi che Desarm si stava mordendo il labbro inferiore, probabilmente rimuginando su quanto era successo a Chang Soo. Tuttavia, il suo sconforto durò solo un momento.
-Perdonatemi- disse. -Non possiamo permetterci di pensarci adesso, abbiamo altre priorità. Chang Soo vorrebbe che proseguissimo e portassimo a termine ciò che abbiamo cominciato…- Si schiarì la voce con un leggero colpo di tosse. -Riprendiamo a camminare. Seguitemi.
-Sì, signore!- La nostra risposta venne all’unisono. Avevamo tutti già indossato gli occhiali, perciò eravamo pronti ad andare avanti.



xxx
 


-Le scosse sembrano essersi acquietate… Dovremmo riuscire a procedere più velocemente. Provo a mettermi in contatto con Urupa e Kruger…- mormorò Desarm dopo un po’. Avvertivo un lieve sollievo, quasi una speranza, nella sua voce. Dal canto mio, non potevo che essere nervoso: non solo la tensione nell’aria non era per nulla diminuita, ma nutrivo una profonda diffidenza verso quella quiete improvvisa. Mi strinsi a Endou e Kazemaru mentre Desarm si metteva in contatto con gli altri.
-Mark? Sì, qui Desarm. Ricevo bene. Avete già parlato con Seijirou? Ah, sono usciti sani e salvi…- stava dicendo la Spy Eleven. Un sorriso involontario apparve sul suo volto. –Quindi Hiroto ha… Bene, bene. Mandatemi le vostre coordinate precise… Ho tre agenti di Seijirou con me, vi raggiungeremo in poco tempo, spero. Chiudo. A tra poco.
Desarm spense il microfono e si girò verso di noi.
-Aphrodi ha raggiunto Diam e gli altri. Gazel e Hitomiko sono al sicuro, riceveranno le cure necessarie- ci disse, poi fece cenno col capo ad una porta chiusa, a qualche metro da noi. -Noi proseguiamo… Dietro quella porta dovrebbero esserci delle scale. È un rischio… Temo che presto o tardi incroceremo chiunque sta creando tutte queste dannate scosse, perciò occhi aperti e…
Proprio in quel momento, la sua voce fu inghiottita da un profondo rimbombo, segno che da qualche parte, non troppo lontano da noi, doveva essere avvenuto un altro crollo. Seguirono altri piccoli scoppi, sempre più vicini. Mi guardai intorno, il battito del mio cuore accelerò. Desarm lanciò uno sguardo preoccupato al soffitto, come se stesse cercando delle crepe, o qualsiasi altra traccia che potesse aiutarci a capire quale fosse la fonte dei rumori…
I neon si accesero all’improvviso e inondarono il corridoio con una luce bianca, accecante. Dall’espressione allarmata di Desarm, compresi che non era previsto. Il mio primo istinto fu quello di chiudermi agli altri, di scacciare le loro ansie e paure dalla mia mente, già abbastanza inquinata dalle mie preoccupazioni. Nella mia testa esplosero mille domande: è successo qualcosa a Hiroto? Sta bene? Cos’è accaduto al generatore? Non sapevamo da dove sarebbe venuto l’attacco. Non sapevo se togliermi o meno gli occhiali, dovevo farlo subito o mai più, perché non potevo permettermi di avere le mani occupate, se non per impugnare un’arma. Qual è la cosa più giusta da fare, ora?
Desarm urlò e diede un violento spintone a Kazemaru, buttandolo addosso a Endou e facendo cadere entrambi a terra. Mi spostai in fretta, scartandoli lateralmente e addossandomi alla porta, giusto in caso avessimo bisogno di un’uscita di emergenza, ma non ci diedero il tempo di reagire. Davanti ai nostri occhi esterrefatti, il pavimento si spaccò, le mattonelle si frantumarono, le schegge volarono dappertutto… Uno dei ragazzi di Garshield emerse dalla spaccatura che aveva causato, incurante della pioggia di detriti, agile, alto e slanciato; portava una sciarpa rossa legata attorno alla testa e due spade piatte e corte come sciabole, una in ciascuna mano. Era apparso già voltato verso Desarm, come se fin dal principio lo avesse puntato come proprio obiettivo. Desarm dovette arrivare alla stessa conclusione: si asciugò il sangue di un taglio fresco sulla guancia col dorso della mano e serrò la mascella, preparandosi a combattere.
Tuttavia, per il ragazzo non era sufficiente.
Con uno scatto repentino, si girò verso di noi e conficcò le due sciabole nel pavimento. Prima che potessimo muoverci, il colpo inferto spalancò due enormi crepe da un lato all’altro del corridoio, come segandolo a metà in orizzontale. Il soffitto venne giù senza darci un attimo di tregua e ci trovammo separati da Desarm e dal ragazzo in una manciata di secondi.
Ancora sotto shock, fui costretto a riprendermi in fretta sentendo arrivare altre persone.
-Guardate, abbiamo tre pesciolini nella rete… Jackal ha fatto un buon lavoro. Occuparcene sarà un gioco da ragazzi.- Avrei riconosciuto quella voce, gelida e tagliente, anche senza guardare chi avesse parlato. L’avevo già incontrato troppe volte, per i miei gusti. Rivolsi un’occhiata disgustata e sprezzante a Coyote, che invece sembrava quasi divertito nel trovarmi lì… Sapevo che questo sarebbe stato il mio ultimo incontro con lui, comunque fosse andata.
Coyote ghignò. -Siamo tre contro tre, non è perfetto?- commentò, come se fosse un gioco.
-Non direi, no- borbottò Kazemaru. Scivolò verso di me con grazia, quasi del tutto impercettibilmente, e mi lanciò uno sguardo eloquente. Sperando che le mie intenzioni non fossero facilmente leggibili, cercai a tentoni la maniglia della porta dietro di me. È un rischio, aveva detto Desarm. Se fossimo rimasti dov’eravamo, tuttavia, non avremmo avuto comunque scampo: alle spalle c’erano macerie, davanti a noi i tre nemici, di cui uno era grande e grosso come un bufalo.
Dovevo tentare.
Aprii la porta velocemente.
-Endou!- urlai. Il ragazzo capì al volo, evocò la Mano di Luce e sbaragliò i nemici per il tempo sufficiente perché potessimo scappare. Le scale che portavano al piano di sotto erano state distrutte, o da loro o per effetto delle scosse. Non ci restava che salire, perciò ci lanciammo in una corsa disperata verso il piano di sopra. Una volta arrivati su, ci sfilammo gli occhiali e osservammo i dintorni: ci trovavamo in una larga stanza, apparentemente una specie di deposito, pieno di casse di legno sigillate. Mi chiesi se non contenessero armi. Dall’altro lato della camera, c’era un arco, sprovvisto di porta, che dava su uno spazio contiguo.
-Tre contro tre… poteva andarci peggio, ma cerchiamo comunque di coprirci le spalle- disse Endou, voltandosi verso le scale, le mani tese in avanti in propria difesa. Coyote e  un altro apparvero poco dopo, ma questa volta scansarono agilmente la Mano di Luce, correndo in direzioni opposte. Coyote usò una parete come appoggio e ci balzò addosso. Prima di tutto, cercò di uccidere con la spada Kazemaru, che riuscì a stento a scansarlo, procurandosi però un taglio lungo la guancia; senza fermarsi, Coyote girò su se stesso e, con un calcio rotante, colpì Endou alle ginocchia da dietro, facendolo cadere. L’altro ragazzo, quello che si chiamava Fox, si gettò contro di me con un fendente che avrebbe potuto tagliarmi un braccio, se non l’avessi evitato prontamente. Continuò a tempestarmi di attacchi, così che mi trovai sempre più distante dai miei amici, ma non potevo preoccuparmene. Non avevo il tempo di pensare a niente se non parare i suoi colpi, schivare i fendenti e difendermi in tutti i modi possibili. Riuscii a graffiargli il dorso di una mano con un proiettile, tuttavia lui non batté ciglio e non perse la presa sull’arma. Non sentivano dolore? O non importava, in confronto alla loro grande “missione”? Quella gente mi terrorizzava. Erano soltanto ragazzi, esattamente come noi, ma non c’era luce nei loro occhi. Sembravano aver perso la loro umanità…
Accadde tutto troppo rapidamente. Fox mi tirò un calcio e, nonostante fossi riuscito a pararlo con le braccia, mi costrinse a indietreggiare, fino ad oltrepassare l’arco. Ebbi appena il tempo di sollevare lo sguardo, che una lama mi trapassò il fianco destro. Un verso strozzato, simile a quello di un animale morente, lasciò la mia bocca; il respiro mi si mozzò di colpo e per poco non mi morsi la lingua. Guardai Fox in faccia e per la prima volta visi le sue labbra contrarsi in una specie di sorriso di trionfo. Ero caduto in una trappola? Buffalo comparve in quell’esatto istante dal pavimento, spaccandolo in due con la forza bruta. L’impatto creò non solo una sorta di voragine, ma causò anche il crollo dell’arco e del muro che lo circondava. La pistola mi cadde di mano e scomparve tra i resti della parete distrutta. Sentii Buffalo ruggire, Kazemaru gridare il mio nome, mentre il rombo del crollo inghiottiva ogni cosa... Ogni suono diventò ovattato.
Quando Fox estrasse la lama dal mio corpo, mi resi conto che quella era l’unica cosa a tenermi in piedi. Mi accartocciai su me stesso come una marionetta senza fili.
Caddi all’indietro e battei la testa contro il pavimento, dove rimasi, steso con braccia e gambe scomposte, come quelle di una marionetta senza fili. Pensai a Toda, a com’era morto. Ai miei compagni che stavano ancora combattendo e, soprattutto, a Kazemaru. Pensai che non avrei potuto più proteggerlo. Non potevo più fare niente, né per lui, né per me stesso. Ero solo, completamente solo. Mi chiesi se gli altri che erano stati trafitti da quella spada avessero pensato la stessa cosa, prima di morire. Probabilmente erano morti troppo rapidamente per avere un ultimo pensiero, mentre io stavo ancora boccheggiando tra vita e morte. Pensai a Reina, al suo avvertimento, e provai pena per lei. Sarei stato solo una predizione come le altre. Solo un altro fallimento.
 
Non voglio morire.
 
Ogni pensiero riguardo altre persone si spense di colpo. Ero completamente solo e preso da ciò che stavo provando. Un sapore di sale e ruggine, di lacrime e sangue, pervadeva la mia bocca e ogni respiro mi procurava fitte al petto. Non ce l’avrei fatta. Stavo già perdendo conoscenza e sapevo che, una volta arrivato il buio, sarebbe arrivato anche il gelo. Quella era un’oscurità che nessuna luce avrebbe potuto raggiungere. Avrei voluto urlare.
 
Non voglio morire. Non ancora, non sono pronto!
 
Ma quando lo sarei stato? Non volevo dire addio. C’erano ancora così tante cose che avrei voluto fare o dire. Volevo un futuro felice, quello che Hiroto desiderava per noi. Volevo diventare più forte, per proteggere gli altri, perché nessuno morisse ancora davanti ai miei occhi.
 
Diventerò più forte. Devo proteggerti.
 
Un urlo di disperazione mi risuonò in testa. Era la mia voce, eppure al tempo stesso sembrava estranea e distante. Si dice che in punto di morte tutta la nostra vita ci scorra davanti agli occhi. Così, mentre lottavo per tenere aperti gli occhi, nella mia mente si era insinuato un ricordo spezzato: avevo detto quelle parole a qualcuno. A chi? A qualcuno, molto tempo prima… Qualcuno che avevo desiderato di proteggere a tutti i costi… Nel buio, comparve un’immagine, ma era troppo distante, il ricordo si stava nuovamente assopendo... E poi, dal nulla, emerse una canzone.
 
Dai, andiamo insieme, tu ed io,
Canteremo e raccoglieremo fiori
Faremo ghirlande di stelle del mattino…
 
Tutto diventò buio, poi di un bianco accecante.
Ogni singola fibra del mio corpo fu pervasa da calore, una sorta di energia che mi corrodeva dall’interno e, al contempo, mi dava forza. Scosso da un’improvvisa, rapida convulsione, sussultai e battei di nuovo la nuca a terra; la botta mi strappò al bianco e mi restituì al presente.
Aprii gli occhi di colpo, inspirando con la disperazione di chi è rimasto in apnea troppo a lungo. Tutto intorno a me era una macchia di colore sfocato.
Allertato da un sesto senso che non avrei saputo spiegare, mi spostai di scatto, muovendomi d’istinto e alla cieca: rotolai sulla pancia, superando il dolore, e con la coda dell’occhio vidi qualcuno chinarsi su di me. Una lama calò e si ficcò nel pavimento, esattamente dove prima c’ero io.
Sollevai il capo ed incrociai lo sguardo scioccato di Fox: certamente non si aspettava che fossi ancora vivo e che avessi le energie per muovermi. In effetti, era una sorpresa anche per me. Mi tirai a fatica sulle ginocchia e tentai di alzarmi in piedi, ma il corpo mi tremava troppo violentemente perché le gambe mi reggessero e, quando misi una mano a terra come sostegno, le mie dita scivolarono su qualcosa di vischioso e ricaddi col sedere a terra. Abbassai lo sguardo e mi mancò il respiro: ero praticamente seduto in una pozza del mio stesso sangue.
La cosa che più mi sconvolgeva era non percepire alcun dolore fisico, come se quella misteriosa canzone mi avesse anestetizzato. Respirare era diventato più facile, ma i miei sensi, accecati, erano come impazziti. Non avvertivo alcuna sensazione, se non l’istinto di combattere.
Combattere per sopravvivere. Combattere per annientare l’altro.
Ero talmente preso dal mio delirio interiore che percepii la presenza di Fox solo quando fu a pochi metri da me: dopo aver estratto la spada dal pavimento, si preparava a colpirmi con l’intenzione di farla finita. In un istante, scattai in piedi e bloccai la lama a mani nude, senza pensare. Il ferro reagì al mio tocco in maniera inaspettata: si annerì completamente, poi si disintegrò, come sotto l’effetto di un acido. Mi ritrassi di scatto ed entrambi restammo a fissare ciò che restava della spada, ossia l’elsa che Fox stringeva ancora in mano.
Il ragazzo si riprese per primo dalla confusione. Gettò da parte l’arma ormai inutile, accumulò energia nella mano destra e me la scagliò addosso sotto forma di sfere pesanti come piombo.
Mi lasciai andare ai miei istinti, il mio corpo si muoveva quasi da solo. Tendendo le mani in avanti, assorbii nelle dita tutta quell’energia. La sentivo fluire dentro di me. Rimasi ad assaporare quel potere finché non riuscii più a contenerlo, poi lo buttai fuori, rispedendo il colpo dritto al mittente. Riuscii a colpire Fox in pieno petto, con una forza tale da farlo volare attraverso il corridoio e schiantare contro una parete. Abbassai lo sguardo sulle mie dita tremanti, stupito di ciò che avevo fatto. Sfortunatamente, non c’era tempo per ragionarci. Fox si stava già rialzando, seppur a fatica, perciò gli mandai contro un’altra sferzata di energia.
Questa volta l’impatto contro la parete fu tale da fargli perdere i sensi. Il corpo di Fox rotolò a terra tra pezzi d’intonaco e polvere di gesso. Restai immobile a fissarlo ancora per un momento, per accertarmi che fosse davvero fuori combattimento, poi mi girai verso le macerie che mi separavano dai miei compagni. Senza pensarci due volte, tesi le mani verso quell’ostacolo, concentrando l’energia nella punta delle dita. Alcuni pezzi di calce si distrussero, ma non era abbastanza, avevo esaurito la pazienza. Chiusi i pugni di scatto e ogni singolo pezzo esplose in frammenti così piccoli da rovesciarsi a terra come un mare di sabbia. Il boato m’investì in pieno, stordendomi per qualche minuto, ma riuscii comunque a intravedere il corpo di Fox parzialmente sommerso dai resti dell’esplosione che io avevo causato. In quel momento, provavo per lui soltanto una fredda indifferenza. Non mi importava nemmeno sapere com’ero sopravvissuto, o perché non sentissi dolore: contava solo che fossi in grado di muovermi e di combattere. Dominato soltanto dalla furia, e dal desiderio di rivincita, mi incamminai attraverso la nuvola di gesso, muovendomi alla cieca, lasciandomi guidare soltanto dai suoni della battaglia e dalle voci dei miei compagni, mescolate a quelle dei miei nemici…
Davanti ai miei occhi, infuriavano due battaglie: Endou stava combattendo contro Buffalo, Kazemaru contro Coyote. Nessuno di loro si accorse del mio arrivo. Sapendo di poter contare sull’effetto sorpresa, cominciai a raccogliere energia dentro di me e a farla fluire nel mio corpo, per poi concentrarla nella punta delle dita. Il pensiero di cosa avrei potuto fare con tutta quell’energia mi dava brividi di eccitazione, il suono del mio cuore mi rimbombava nelle orecchie. Non era semplicemente adrenalina. Più usavo il mio potere, più mi sentivo in forma; non avevo nemmeno bisogno di verificare per sapere che la mia ferita era guarita. Ubriaco di potere, registravo a malapena il fatto che il pavimento si stesse spaccando sotto i miei passi…
Poi le grida dei miei compagni mi riportarono alla realtà.
Kazemaru aveva attaccato Coyote, ma non era servito; il ragazzo lo aveva scansato facilmente e ora lo stava tormentando con una raffica di colpi, senza un attimo di respiro. Endou se ne accorse: afferrò Buffalo con il Pugno di Giustizia e lo scagliò via, poi cercò di fare altrettanto con Coyote. Nonostante i loro attacchi combinati, però, Coyote non parve per nulla spaventato. Con un solo gesto, trasformò il pugno di energia in ghiaccio, poi lo frantumò in mille pezzi, come se volesse ricordarci che, nelle sue mani, il potere di Atsuya Fubuki era mille volte più pericoloso.
Coyote si girò verso Endou, con la spada levata in aria. Era il momento che stavo aspettando. Rilasciai l’energia che avevo raccolto e la scagliai contro Coyote, il quale, colto alla sprovvista, venne sollevato in aria dall’impatto e scaraventato a terra, a qualche metro di distanza.
Endou e Kazemaru si voltarono a guardarmi, sconvolti. Kazemaru si asciugò rapidamente il viso col dorso del braccio e mi corse incontro, gettandomi le braccia al collo.
-Sei vivo! Credevo, temevo che…- Si staccò da me e la sua voce si spezzò. –Ti ho visto… Il muro è crollato, poco prima ho visto quello lì colpirti, non sapevo che pensare…  
-Non c’è tempo per questo- lo interruppi secco, perché con la coda dell’occhio avevo notato che Coyote si stava già rialzando. Con una mano brandiva la spada, con l’altra accumulava potere. In un istante, grazie alla sua mostruosa velocità, si avvicinò di nuovo a noi.
Spinsi da parte Kazemaru e mi avventai sul mio avversario come una belva affamata. Con un gesto repentino li afferrai i polsi e strinsi, così da fargli lasciare la spada. L’arma cadde a terra e iniziò rapidamente ad imbrunirsi; questa volta il mio potere divorò la lama sino all’elsa. A quella vista nello sguardo di Coyote balenarono stupore e rabbia. Si sforzava di mantenere il controllo di sé, ma era chiaro che stava perdendo la calma. Digrignando i denti come un cane rabbioso, si dimenò con tale ferocia da liberarsi dalla mia presa e avere la possibilità di allontanarsi per un momento. Mi rivolse uno sguardo di puro odio, mentre raccoglieva una grande massa di ghiaccio e neve attorno a sé, come un enorme scudo che circondava il suo corpo.
Quando si tuffò nuovamente contro di me, non cercai di scappare. Volevo lo scontro esattamente quanto lui. C’erano dei conti da regolare, con Coyote più di altri. Riuscii a scansare il primo calcio, ma i suoi pugni mi presero in pieno nello stomaco e mi fecero ruzzolare all’indietro. Sbattei con la schiena a terra e tossii violentemente, sputando sangue, ma mi rialzai immediatamente sui quattro arti, pronto a riprendere. Non avevo paura di Coyote, né di nessun altro. Mi sentivo forte. Invincibile.
Con la coda dell’occhio, vidi Kazemaru venire ad aiutarmi.
-No! Lui è mio!- gridai, senza perdere d’occhio il mio avversario.
-Ma sei ferito! Io…
-Dammi soltanto la tua pistola! La pistola!
Kazemaru esitò soltanto per un secondo, poi si tolse la 38 dalla cintura e la fece scivolare verso di me. Mi chinai velocemente per afferrarla da terra e sollevai lo sguardo su Coyote, che si stava avvicinando, inevitabile e distruttivo come una tempesta di neve.
-Stai lontano- gli intimai, stringendo convulsamente le dita sul grilletto della 38.
-Avresti dovuto essere morto- sibilò lui con odio. -Non so come tu sia sopravvissuto a Fox… ma non riuscirai a sconfiggere me!- Fulmineo, sollevò un braccio e poi l’abbassò, facendo sì che una miriade di schegge di ghiaccio si separassero dal suo scudo e si dirigessero verso di me.
Prima che potessi reagire, Kazemaru si frappose tra me e lui con una barriera di vento, deviando l’attacco. Lanciai al mio partner un’occhiata di disappunto per aver fatto l’esatto opposto di ciò che gli avevo appena chiesto. Sembrava che Kazemaru avesse, a sua volta, molto da dirmi, ma Coyote non glielo permise.
-Patetico- commentò, gelido, -Non intrometterti nella mia lotta!- Lanciò un altro attacco, che tagliò la barriera di Kazemaru e lo colpì violentemente. Kazemaru fu spinto lontano da me e cadde a terra. Endou provò a andare in suo soccorso, ma Buffalo si scaraventò contro di lui come un lottatore di sumo. Rotolarono a terra insieme; anche se Endou tentava di dimenarsi, Buffalo lo teneva giù col proprio peso e non c'era verso di liberarsene.
Coyote si avvicinò a Kazemaru, affondò le dita nei suoi capelli e spinse la sua testa verso il basso, come se volesse schiacciargli il viso contro il pavimento. Le sue labbra s’incurvarono in un sorriso crudele.
-Giocare agli eroi è divertente, vero? Siete così patetici- mormorò.
Kazemaru gemette di dolore, ma digrignò i denti e oppose una ferma resistenza, rifiutandosi di distogliere lo sguardo dal suo nemico, con sfida. Aveva i pugni stretti lungo i fianchi, rigidi, e le unghie conficcate nei palmi; il suo volto, tumefatto e gonfio, era rosso per lo sforzo e per le ferite. Vederlo in quelle condizioni mi fece ribollire il sangue nelle vene e la rabbia servì da miccia per riaccendere il desiderio di combattere. Una miriade di pensieri si affastellarono nella mia testa mentre mi rimettevo in piedi, la pistola ben stretta nella mia mano. L’idea di infondere il mio potere nelle pallottole era allettante… Raccolsi quanta più energia possibile e mi schiarii la gola roca.
-Lascialo stare. Stavi combattendo con me, no?!- urlai, con tutta la voce che avevo in corpo. Coyote si voltò verso di me, con la fronte aggrottata, e mi rivolse un sorriso di scherno.
-Cosa credi di fare? Stai tremando di paura- osservò, piatto. I brividi arrivavano fino al braccio, ma ignorai il suo commento e mantenni ferma la pistola. Non era la paura, a farmi tremare.
-Lascialo, ora- sibilai, furioso.
Coyote non si mosse: continuava a guardarmi, quasi con curiosità. Alla fine, sembrò arrivare ad una conclusione e si rivolse a Buffalo in tono arrogante:- Abbattilo.
Il gigante lasciò immediatamente la presa su Endou. Serrata la mascella, ringhiò e mi caricò come un toro. Io lo degnai appena di uno sguardo. Volevo eliminare Coyote e avrei fatto lo stesso con qualunque ostacolo avessi incontrato sulla mia strada; anche se Buffalo si era messo sulla traiettoria del proiettile, non esitai a premere il grilletto.
La pallottola, carica di energia, esplose dalla canna e trapassò la spalla destra di Buffalo. Il ragazzo crollò a terra e le sue strilla si levarono altissime, così stridule da diventare dei suoni disumani. Nell’aria si sollevò l’odore acre di carne bruciata: la spalla e una parte del braccio erano come arsi. Probabilmente, l’impatto gli aveva anche sbriciolato le ossa. Il dolore doveva essere accecante. Il boato dello sparo stava ancora rimbombando tra le pareti quando scavalcai il corpo di Buffalo ed iniziai ad avanzare verso Coyote, senza rompere il contatto visivo con lui.
Tirai indietro il carrello della pistola e lo rilasciai lentamente, in modo che Coyote vedesse che avevo caricato il colpo successivo.
-Il prossimo sei tu- sibilai, minaccioso. -Lascialo andare.
Coyote non reagì subito. Non aveva degnato neanche di uno sguardo il compagno caduto, come se non gliene importasse nulla, e lasciò la presa solo dopo qualche secondo di riflessione. Kazemaru  ebbe appena la prontezza di mettere le mani avanti per non sbattere a terra di nuovo, poi si rannicchiò su se stesso, a quattro zampe, tossendo. Coyote lo ignorò, totalmente concentrato su di me, e serrò i pugni davanti a sé, in modo da ricreare il proprio scudo proprio davanti a sé.
Non potevo più aspettare. Sparai il mio colpo e il proiettile si conficcò nello scudo di ghiaccio: pian piano, cominciò a perforarlo. La barriera di Coyote non avrebbe resistito per molto. Il mio potere stava assorbendo il suo. Schiacciato da quell’inaspettata pressione, Coyote indietreggiò involontariamente e la sua maschera di indifferenza si infranse del tutto quando si rese conto che non riusciva a contrastarmi. I suoi occhi si spalancarono, increduli e, per la prima volta, spaventati. Per un istante, Coyote assaporò davvero cosa significasse la paura. Le sue difese crollarono come castelli di carte. Lo scudo andò in pezzi e la potenza dell’esplosione lo scagliò all’indietro; l’impatto distrusse anche il muro contro cui era finito, scatenando una lunga scossa di terremoto. Dubitavo che l’edificio potesse reggere ancora per molto. Guardai il muro crollare addosso a Coyote, senza fare nulla se non caricare un terzo proiettile. Attesi per qualche minuto che la polvere si diradasse un po’, poi approcciai con cautela il corpo di Coyote, di cui intravedevo la sagoma.
Provai uno strano misto di sollievo e disappunto nel vedere il ragazzo a terra, sconfitto e privo di sensi. Il ciondolo che gli dava potere si era disintegrato nello scontro e ora dal suo collo pendeva solo un laccetto scarno. Le grida di Buffalo erano diventate fiacche, ridotte ad un pianto strozzato, e Fox era ancora intrappolato tra le macerie. Come avevano potuto incuterci tanta paura? Ora mi sembravano delle esistenze insignificanti, mi sarebbe bastato un cenno e li avrei spazzati via per sempre… Avevo accumulato così tanto odio, così tanta rabbia dentro di me… Non potevo credere che fosse realmente finita. Non appena abbassai la 38 verso Coyote, sentii la voce di Kazemaru alle mie spalle.
-Midorikawa, no! Non devi farlo, non ucciderlo!- urlò, tossì per lo sforzo. Mi voltai per guardarlo, ma la vista del suo volto devastato era troppo per me. Non ero stato abbastanza forte da evitarlo. Distolsi subito lo sguardo, amareggiato.
-Se non lo faccio, si rialzerà. E distruggerà tutto, tutto ciò che conta- risposi, strozzato.
-E non c’è già abbastanza distruzione, secondo te? Midorikawa, guardalo. Non si rialzerà. È finita- replicò Kazemaru.
Capii che voleva incoraggiarmi a mettere giù la pistola. Gettai uno sguardo verso Coyote, poi chiusi gli occhi e inspirai a fondo. Sapevo che aveva ragione. Facendomi forza, mi voltai verso Kazemaru. Ancora una volta, vedere il suo viso così ridotto mi fece venire voglia di piangere, ma trattenni le lacrime e lo raggiunsi.
-Questa è tua- mormorai, imbarazzato, restituendogli la 38. Kazemaru abbozzò un sorriso mentre inseriva la sicura e rinfoderava l’arma. Mi schiarii la voce e stavo per ringraziarlo, quando il dolore al petto tornò a scalciare, togliendomi il fiato.
Nel giro di pochi secondi, il mio mondo finì nuovamente sottosopra.
Caddi in ginocchio, stringendomi le braccia al petto, abbracciando le vesti strappate e insanguinate. La sensazione di essere invincibile aveva lasciato nuovamente posto al gelo. Mi sentivo svuotato. Non c’era più un nemico da sconfiggere, tuttavia il mio potere non si fermava, come se in me si fosse risvegliata una fame insaziabile, come se fosse necessario riempire quel vuoto con qualsiasi cosa intorno a me.
-Midorikawa?!- urlò Kazemaru. -Ryuuji, che succede?! Ryuuji!- Mosse un passo verso di me, ma con le forze che mi restavano cercai di spingerlo via.
-No! Non avvicinarti!- strillai. -Dovete… andarvene… di qui!
-Non… non posso lasciarti così! Cosa… cosa ti sta succedendo…?!
Scossi il capo, incapace di articolare le parole. I miei pensieri si spensero di colpo, a sovrastarli soltanto quella canzone, che rimbombava come un inno di guerra… Era tutto sbagliato, tutto sbagliato, quella canzone non avrebbe dovuto essere distruttiva, era… Avrebbe dovuto essere… Non riuscivo a ricordare.
-Basta, basta, fatela smettere!- implorai, a nessuno in particolare, e mi rannicchiai su me stesso, premendo le mani sulle orecchie con forza. -Basta, ti prego, basta- singhiozzai.
Il pavimento cominciò a tremare. Pezzi d’intonaco cadevano dal soffitto, spaccandosi in mille pezzi, e i detriti sobbalzavano per via delle scosse. Per lunghi, lunghissimi istanti, rimasi immobile, accucciato a terra, da solo. Nessuno osava toccarmi, nessuno poteva raggiungermi… Poi qualcuno mi afferrò con fermezza: due mani si strinsero sulle mie spalle e mi scossero bruscamente.
-Midorikawa! Midorikawa, guardami! Va tutto bene!
Conoscevo quella voce. Era Hiroto. Era la voce di Hiroto.
Lo fissai a occhi sgranati, troppo sopraffatto per rispondergli. Ero felice di vederlo, così felice, ma avevo anche paura per lui. No, non va tutto bene. Non va bene per niente. Quando le lacrime mi inondarono il viso, Hiroto mi cinse la vita con delicatezza e mi attirò a sé, premendomi nella sua spalla. Mi teneva stretto come se fossi stato una cosa preziosa, in procinto di finire in mille pezzi.
-Ce l’abbiamo fatta- mi sussurrò, le sue labbra erano calde contro il mio orecchio.
-Abbiamo spento la macchina, è tutto finito. Tolue, Roniejo e Valtinas hanno tagliato ogni via di fuga a Garshield, lo abbiamo preso una volta e per tutte… Hitomiko e Gazel sono al sicuro. È tutto finito.
Strinsi i denti e annuii, poi cercai di spingerlo via, di allontanarlo da me, ma Hiroto non si lasciò smuovere. Sospirai e sollevai il viso verso il suo. Dovevo almeno provare ad avvertirlo.
-Hiroto, io…
-Sssh, sssh, sono qui per aiutarti- mi interruppe, dolce. -Devi fidarti di me - sussurrò, sfiorandomi la tempia con un bacio delicato. Poi mi lanciò uno sguardo apprensivo, esitante. All’improvviso, tutto mi fu chiaro. Gli accarezzai la guancia con una mano e annuii, piano.
-Fai quello che devi…- bisbigliai. -Non ho paura… Io mi fido di te.
Hiroto esitava ancora. Il tempo era agli sgoccioli.
-Tu non mi farai del male. Ne sono sicuro. Ho fiducia- dissi, per rassicurarlo. Hiroto mi prese il volto tra le mani e poggiò la fronte contro la mia. Non sentii freddo, anzi un tiepido torpore si diffuse nel mio corpo. Era come una carezza dolce, morbida, che mi incoraggiava ad addormentarmi. Il dono di Hiroto spazzò via qualsiasi voce oltre alla propria, attenuò la stanchezza e ricacciò indietro il desiderio di distruzione. Mi abbandonai a quelle sensazioni familiari. Ah, è proprio come quella volta… Il giorno in cui aveva calmato il mio attacco di panico, dopo la morte di Jordaan… Anche allora aveva usato il suo potere per calmarmi? Hiroto era sempre con me, pronto a strapparmi dai miei incubi e a riportarmi alla realtà…
-Midorikawa...?- Sussurrò il mio nome un’ultima volta, interrogativo, come per accertarsi che fossi ancora sveglio. Aprii a stento gli occhi e il suo volto preoccupato apparve davanti al mio per qualche istante, prima che tutto cominciasse a oscurarsi di nuovo. Mi sforzai di parlare, avrei voluto rassicurarlo.
-Va tutto bene- bofonchiai. -Non fa male…
Mi sciolsi nel suo abbraccio e mi lasciai trascinare nel sonno senza opporre resistenza.



 
[Note dell'autrice]
Ancora due capitoli e l'Hiroto Arc sarà finalmente concluso! Facendo qualche conto e rivedendo la scaletta, mi sono resa conto che mancano davvero troppi pochi capitoli per mollare... Voglio finire questa fic, lo voglio davvero! Giuro! 
Non ho molto da dire riguardo il cap.45, se non che Midorikawa è il solito sfigato (lol) e spero di essere riuscita a mantenere alta la tensione. Ho cercato di dare un'idea del ritmo frenetico dell'azione. Tutte le battaglie di questo arc sono così... rapide orz
Grazie a chi continua a seguire questa fic, nonostante gli alti e bassi ;__; 
Un abbraccio caloroso,
Roby

p.s. La canzone di Midorikawa non è una canzone reale, è totalmente fittizia.

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Capitolo 46
*** Mission 46. ~Hiroto's Arc. ***


Arrivo con un nuovo capitolo fresco fresco di scrittura. È il penultimo capitolo dell'Hiroto Arc e sarà praticamente tutto pov di Hiroto (in terza persona). Questo arc è quasi concluso!


 
[NORMAL P.O.V.]



 
 
-Va tutto bene. Non fa male…
 

Hiroto sentì Midorikawa mormorare queste parole mentre i suoi occhi già si chiudevano. La mano del ragazzo, ancora premuta contro la sua guancia, scivolò via e il braccio gli ricadde lungo il fianco, inerme. Quando le forze vennero a mancargli del tutto, anche le gambe cedettero e Midorikawa iniziò a sfuggirgli dalle braccia. Hiroto strinse istintivamente la presa attorno alla sua vita per fermarne la caduta. La testa di Midorikawa si reclinò all’indietro e i capelli scompigliati gli ricaddero sul viso: l’aura minacciosa che poco prima l’aveva circondato era scomparsa, lasciando posto ad un’espressione innocua.
Osservando quel volto addormentato, Hiroto si pietrificò, assalito dall’ondata di terrore che accompagnava sempre l’uso del proprio dono.
Alzando lo sguardo, notò Kazemaru ed Endou correre loro incontro. Kazemaru sembrava molto scosso e, mentre osservava Midorikawa, i suoi occhi si riempirono di lacrime.
-Sta…?- mormorò con voce soffocata, troppo spaventato dalla possibile risposta per riuscire a completare la domanda. Hiroto lo guardò, apprensivo, e cercò di colmare i vuoti al posto suo.
-Sta bene. Dorme- rispose. Sperava di suonare confortante, ma non sapeva se con quelle parole stava tentando di confortare più Kazemaru o se stesso. Hiroto spostò lo sguardo da Kazemaru a Midorikawa, e viceversa.
-Vuoi… portarlo tu alla base?- azzardò.
Kazemaru deglutì, il suo sguardo fisso su Midorikawa. Rifletté sulla proposta per qualche minuto, poi strizzò forte gli occhi per ricacciare indietro le lacrime e scosse il capo.
-Con te è al sicuro- disse. La sua voce era più ferma e calma di poco prima. Hiroto ne restò colpito, anche se non era sicuro che Kazemaru avesse ragione.
Guardandosi intorno, vide che la stanza si era riempita di persone. Buffalo e Fox erano ancora a terra, svenuti, mentre Windy aveva ammanettato Coyote e gli teneva le braccia strette dietro la schiena. Probabilmente, anche gli altri ragazzi di Garshield erano stati presi.
Mark Kruger si avvicinò di corsa.
-Tutto bene qui? Dobbiamo evacuare subito l’edificio, con tutti i danni subiti dubito reggerà molto… Valtinas sta venendo qui con il suo elicottero- li informò, apprensivo.
-Tutto bene… Certo- rispose Hiroto, poi tacque. Non sapeva cos’altro avrebbe potuto aggiungere. Kruger abbassò per un attimo gli occhi sulle sue braccia, ma distolse subito lo sguardo. Hiroto capì che stava cercando di non fissare Midorikawa, forse per tatto, forse per altri motivi.
-Ottimo lavoro, Kiyama. Senza di te sarebbe stato impossibile fermare del tutto Garshield. Hai mantenuto la tua parola, grazie del tuo sostegno. Inoltre…- Mark si fermò, osservando la devastazione che li circondava. Hiroto attese che continuasse, ma Mark decise di non farlo. Scosse il capo. -Ottimo lavoro- disse di nuovo, poi si allontanò per tornare dalla propria squadra.
Hiroto non era affatto sicuro di aver fatto un ottimo lavoro.
Endou e Kazemaru gli toccarono gentilmente la schiena, come per incoraggiarlo.
-Andiamo, Hiroto- disse Endou.
–Torniamo a casa- aggiunse Kazemaru.
Hiroto gettò uno sguardo verso i due compagni. Entrambi gli sorrisero, anche se visibilmente provati dalle ultime ore, e Hiroto sentì un’ondata di affetto verso di loro. Gli vennero le lacrime agli occhi, al punto che riuscì solo ad annuire. Con il loro aiuto, si caricò Midorikawa sulla schiena mentre si avviavano verso gli altri agenti. Un rumore di pale di elicottero squarciò il cielo e, poco dopo, videro il mezzo di Valtinas fare capolino attraverso macerie e calcinacci.
 
L’edificio stava crollando.
I danni provocati da Jackal erano stati enormi, al punto che era un miracolo che la struttura non avesse ceduto molto prima, mentre loro erano ancora dentro. A modo loro, erano stati fortunati. Hiroto non si sentiva molto fortunato in quel momento ed era sicuro che anche Endou e Kazemaru fossero dello stesso avviso.
Circondati dalle auto della polizia e dei paramedici, che continuavano ad arrivare, accalcandosi nello spazio davanti al palazzo, tutti i partecipanti alla missione osservavano il crollo da una distanza di sicurezza. Di certo, nessuno dei presenti avevano mai visto niente del genere, perché non potevano nascondere il loro sgomento né a smettere di osservare quello che sembrava uno scenario post-apocalittico. Il generatore doveva essere esploso a causa dei danni e aveva trascinato con sé nella rovina l’intero impianto elettrico, facendo scoppiare un incendio: ciò che non era stato devastato da Jackal e da Midorikawa sarebbe finito ugualmente distrutto.
Una mano si posò sulla sua spalla. Hiroto sussultò e si voltò verso Valtinas.
-Ora che Garshield è sotto arresto, lo incastreremo una volta e per tutte per i suoi crimini. Dovrà pagare per tutto il sangue versato… Questa volta ce la faremo- disse, mentre stringeva leggermente la sua spalla. Abbozzò un sorriso. Hiroto non riuscì a ricambiarlo, ma annuì, sperando che Valtinas capisse. Sperava con tutto se stesso che fosse davvero finita; al tempo stesso, però, non riusciva a scrollarsi di dosso la paura, la sensazione che qualcosa avrebbe potuto andare storto. Si era già concesso di pensare che sarebbe andato tutto liscio una volta, subito dopo aver spento il generatore, e aveva pagato il suo errore a caro prezzo.
Addormentare Hiroto Kira non era stato… difficile. Quello che restava, e che Garshield aveva sfruttato per bene, non era Hiroto Kira in nessun modo: quella persona era ormai sparita per sempre, apparteneva ad un passato che non sarebbe ritornato. Hiroto gli aveva già detto addio tante, tante volte, in cuor proprio. Questo era stato soltanto l’ultimo di una serie di addii. Aveva disattivato per sempre il dono della copia, spento il generatore e, con esso, le macchine che per anni avevano spremuto quel potere fino all’ultima goccia. Non avevano affatto previsto di cadere in un’imboscata, di essere attaccati da un gruppo misto di drifters e guardie. I drifters di Garshield erano feroci, spericolati, infuriati: non avevano paura del dolore, o persino della morte. Le guardie erano soltanto esseri umani normali, per cui bisognava essere cauti. Mettere fuori combattimento qualcuno senza arrecare troppi danni non era mai semplice. La fortuna di Hiroto era stata semplicemente quella di trovarsi con due Spy Eleven esperte e una buona squadra, pronta a coprir loro le spalle. Stentava a credere che fosse successo solo qualche ora prima.
Nulla di ciò di cui era stato testimone quella sera, però, avrebbe potuto prepararlo a ciò che avrebbe visto dopo. Quel potere devastante, distruttivo, come un buco nero che risucchiava ogni cosa verso di sé, polverizzando e trasformando qualsiasi cosa.
E Midorikawa, l’occhio del ciclone, al centro di tutto.
Midorikawa.
 
Hiroto sapeva che tutti gli sguardi erano puntati su di loro, o meglio su Midorikawa, ancora svenuto su una barella dei paramedici. Qualcuno, come Kruger, evitava di guardare verso di loro, cosa forse anche peggiore, perché era evidente che stessero tentando di evitarlo. Erano tutti incuriositi e intimoriti da Midorikawa: sembrava così innocuo, adesso. Hiroto non aveva idea che il suo dono potesse arrivare a… certi livelli. Era probabile che neanche Midorikawa lo immaginasse. La sua espressione, quando Hiroto lo aveva trovato, era difficile da descrivere. Era come… come se… come se il mondo per lui stesse finendo in quell’istante. Hiroto avrebbe voluto soltanto stringerlo a sé ancora di più, ancora più stretto, per proteggerlo e nasconderlo dagli sguardi altrui.
Hiroto, a sua volta, stava cercando adesso di evitare uno sguardo: quello di suo padre, Seijirou. Era arrivato con le altre Spy Eleven mancanti, insieme alla polizia locale. Non aveva mostrato ancora segni di volergli parlare, preferendo restare al fianco di Hitomiko, mentre i paramedici la visitavano, ma Hiroto era certo che Seijirou stesse tenendo sott’occhio anche lui. Forse avevano entrambi paura di cosa avrebbero letto uno nell’espressione dell’altro. Se per Hiroto non era stato difficile dare l’addio finale a Hiroto Kira, probabilmente per Seijirou era un pensiero insopportabile. Hiroto sapeva che avrebbe dovuto parlare, prima o poi: aveva così tante cosa da chiedere a Seijirou, così tante cose che avrebbe voluto sentirsi dire. Provò a immaginare come sarebbe stato, ma gli girava la testa. Era troppo stanco per pensarci. Gli stava salendo la nausea. Benché tra lui e suo padre ci fossero soltanto a pochi metri di distanza, sembravano divisi da una barriera insormontabile.
Un urlo lo distrasse. Arrivò da chissà dove, dalla folla, e squarciò il silenzio attonito.
Hiroto si voltò di scatto e vide la polizia chiudersi attorno ad un punto preciso. A quel singolo urlo se ne aggiunsero altre, si moltiplicarono. Valtinas gridava di restare calmi, Fideo si stava chinando su qualcuno che stava a terra. Mark Kruger. Mark era stato colpito da… da cosa? Mentre Hiroto cercava di capire cosa stesse succedendo, la temperatura circostante si abbassò di colpo.
Un brivido lo scosse, ma non era soltanto a causa dell’improvviso freddo. Era la causa a farlo rabbrividire. Era Coyote. Le manette erano cadute a terra, congelate, spezzate, e ora le sue mani erano libere. In qualche modo, doveva essersi ripreso abbastanza da fare un ultimo, disperato tentativo di resistenza. Hiroto si sentì improvvisamente del tutto inutile, non riusciva a capire cosa stesse succedendo.
Successe tutto in pochi attimi. Approfittando dell’effetto sorpresa, Coyote spazzò via gli agenti intervenuti per fermarlo con una tempesta di ghiaccio evocata sul momento. Li mandò gambe all’aria, li ferì con cristalli di neve e congelò le loro armi. Poi si slanciò in avanti, i suoi occhi fissi su un’unica persona, allargò le braccia e raccolse le ultime energie per creare un’altra ondata di gelo puro. Hiroto si mosse istintivamente tra lui e Midorikawa.
Qualcun altro si frappose tra loro e Coyote.
Seijirou non provò neanche a difendersi, non ne aveva modo. Semplicemente, si buttò davanti a Hiroto con le braccia spalancate. L’attacco lo colpì in pieno petto e lo sollevò da terra. Hiroto non riuscì a staccargli gli occhi di dosso: il momento gli sembrò durare un tempo indeterminato, suo padre era come sospeso in aria, come se non avesse più peso. Anche se suo padre lo aveva protetto, Hiroto si sentì come se avesse comunque ricevuto il colpo. Tutta l’aria aveva lasciato il suo corpo, i rumori erano diventati ovattati. Poi Seijirou toccò terra: cadde con un rumore secco, come un oggetto qualsiasi, e non si rialzò, e il momento finì. Il tempo per Hiroto riprese a scorrere. Erano passati solo pochi secondi.
-Figlio di…!- Fudou si scagliò contro Coyote con un ringhio, più che un urlo. Inaspettatamente, però, qualcuno lo precedette: Fideo Ardena, emerso chissà dove dalla folla, si buttò su Coyote come una furia. Coyote non provò a ribellarsi, nemmeno quando Fideo lo afferrò per il colletto e lo sbatté a terra con violenza. Hiroto incrociò per un attimo il suo sguardo e lesse soltanto delusione negli occhi di Coyote. Aveva un solo tentativo a disposizione, una sola possibilità di riuscita, e aveva fallito ed era deluso. Quasi rassegnato. Fideo gli diede un pugno in faccia, facendogli perdere i sensi, e Hiroto gliene fu grato. Lo avrebbe fatto lui, se avesse avuto la forza di fare qualcosa, qualsiasi cosa. In realtà, era ancora bloccato. Non aveva neppure urlato.
Infatti, Hiroto aprì la bocca e non ne uscì alcun suono. La voce di sua sorella riempì quel vuoto.
-Papà… No… no, papà!
Hitomiko provò persino ad alzarsi dalla barella, tuttavia la gamba rotta non resse e la trascinò verso terra; sarebbe caduta anche lei, se Desarm non fosse stato lì a sostenerla.
-Osamu, lasciami! Devo… lasciami andare da lui! Papà, apri gli occhi! Papà!- urlava, la sua voce distorta dal pianto. Hiroto aveva visto Hitomiko piangere, qualche volta, ma mai come in quel momento. La vide dibattersi nell’abbraccio di Desarm, tendere la mano verso Seijirou, che stava ancora rannicchiato a terra.
Una delle ambulanze lo portò via d’urgenza. Hitomiko vi salì, Hiroto no. Ancora frastornato, il ragazzo rimase immobile, come se non riuscisse a elaborare quanto successo. Solo quando un’altra ambulanza si apprestò a portare via Midorikawa, il ragazzo si riscosse. Si sedette accanto a Midorikawa, gli prese la mano e la strinse forte, se la portò alle labbra e la baciò più volte sul dorso. Endou e Kazemaru salirono con loro e, benché si fossero accorti che Hiroto stava piangendo, non parlarono per tutto il tragitto.
 
xxx
 
Erano trascorsi appena dieci minuti da quando aveva messo piede in ospedale e già si sentiva fortemente a disagio. Hiroto non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che non dovesse trovarsi lì. Era difficile credere che due delle persone più importanti della sua vita si trovassero entrambe là, nello stesso momento; era semplicemente un pensiero orribile.
La camera di suo padre era azzurra e quasi del tutto spoglia, così come ti aspetteresti da una camera di ospedale. Sul comodino c’era un vaso di cristallo, da cui sporgeva un mazzo di camelie rosse e bianche che non avevano alcun profumo. Un leggero vento faceva oscillare le sottili tende di tele, cosicché queste sfioravano, di tanto in tanto, il tubicino della flebo che pendeva da una sacca di plastica. Hiroto si sforzò di distogliere lo sguardo dall’ago infilato nel braccio di suo padre, perché gli dava la nausea. Le lenzuola erano azzurre, una sfumatura appena più scura rispetto a quella delle pareti e del soffitto della stanza, appena più chiara di un cielo vero, quello ritagliato dalla finestra. Seijirou se ne stava seduto in mezzo a tutto quell'azzurro, con la schiena appoggiata tra due grandi cuscini e le mani nodose intrecciate sul grembo. Stava fissando il vuoto con aria pensierosa. Anche quando sentì Hiroto spostare la sedia per mettersi accanto al letto, aspettò alcuni momenti prima di voltarsi lentamente. Aveva un’espressione quasi incredula, come se non credesse che Hiroto fosse davvero lì.
-Non sapevo se saresti venuto- disse, infatti. Hiroto rimase seduto, intrecciò le mani in grembo e lo guardò, pensando che un tempo quell’uomo era stato tutto il suo mondo.
-Penso che tu abbia delle cose da raccontarmi- gli disse. -Sono venuto per ascoltare.
Sperava di apparire tranquillo, come se avesse preso quella decisione serenamente, e non rimuginandoci per tre settimane. Non era stato facile decidere di venire, anche se il ricordo di quella notte continuava a ripetersi nella sua testa, come una pellicola di un film che si riavvolgeva costantemente.
Suo padre avrebbe potuto morire quel giorno, invece la vita aveva dato loro un’altra occasione. Una possibilità di chiarire le cose. Prima che Coyote li attaccasse, Hiroto aveva pensato a quella conversazione. Sembrava quasi che il fato avesse risparmiato suo padre perché questo momento potesse arrivare.
-Voglio sapere ogni cosa. A questo punto, crederò solo a ciò che esce dalle tue labbra- disse.
Seijirou si accigliò, poi distolse lo sguardo e annuì.
-Sì… Naturalmente, hai ragione… Tu devi sapere- borbottò.
-Ci sono molte cose che non ti ho mai detto… Per esempio, che somigli molto a tua madre.
Hiroto alzò il volto di scatto e fissò Seijirou ad occhi spalancati. Aveva pensato molte volte a quale tipo di conversazione sarebbe stata. Da giorni ripeteva scenari sempre differenti nella sua testa, cercando di anticipare cosa Seijirou avrebbe detto, cosa lui gli avrebbe risposto… Hiroto aveva immaginato tante cose che suo padre avrebbe potuto dirgli, ma certamente non questa. Gli mancò la voce, si costrinse a deglutire.
–Conoscevi mia madre…?
-Sapevo chi era. Era imparentata con mia moglie, una nipote, l’unica parente che le fosse rimasta... Mia cognata è morta giovane e le due donne sopravvissute sono rimaste legatissime- spiegò Seijirou.
-Quindi, vedi, in un certo senso tu hai sempre fatto parte di questa famiglia. Hai, in parte, lo stesso sangue di Hitomiko e di… Hiroto-. Seijiirou fece una pausa, come se dire ad alta voce il nome del figlio fosse ancora troppo doloroso. Hiroto lo capiva fin troppo bene: c’erano ferite che nemmeno il tempo poteva guarire. Cercare di offrire conforto avrebbe portato solo altra sofferenza.
-Certo, è comunque incredibile che tu e Hiroto foste quasi del tutto identici. Penso sia stata mia moglie a suggerire di darvi lo stesso nome.
-La madre di Hiroto ha voluto questo…?
Seijirou annuì di nuovo.
-Quando tua madre e tuo padre sono rimasti coinvolti in un incidente, mia moglie ha subito un duro colpo… Come ti ho detto, era legatissima alla tua mamma. Mia moglie avrebbe voluto adottarti, ma non c’erano soldi. In quel periodo spendevamo molto per le sue cure, lei era malata… Per questo, invece, veniva a trovarti spesso all’orfanatrofio, portando Hiroto con sé. Te la ricordi? Ti ricordi… di lei?
Il ragazzo scosse il capo. Non conservava alcun ricordo di quella donna, ma, ora che sapeva chi era, avrebbe voluto ricordarla. Il volto di Seijirou s’incupì.
-Capisco… Sarebbe stato bello- disse, amareggiato. -Tutto è precipitato rapidamente. Mia moglie morì e, come ultimo desiderio, mi chiese di prendermi cura di te, voleva che fossimo una famiglia. E io la amavo così tanto che le dissi di sì...!- Seijirou si fermò. Singhiozzò.
Hiroto si rese conto, stupefatto, che il padre stava piangendo. Non lo aveva mai visto così vulnerabile: sembrava sul punto di cadere in mille pezzi da un momento all’altro.
-Io… Io sono una persona orribile… Aver perso metà della mia famiglia mi ha reso egoista e meschino. Ero accecato dal dolore e dalla rabbia per la morte ingiusta di mio figlio. Anche se l’avevo promesso, mi dimenticai di te dopo la morte di Hiroto. Sono caduto in depressione. E anche quando mi sono ricordato della promessa, non ero certo di potercela fare... Come avrei potuto prendermi cura di te, quando non riuscivo neanche a essere un buon padre per mia figlia? Me ne vergogno... mi vergogno terribilmente di com'ero in quel periodo, ma siete tu e Hitomiko ad averne pagato le conseguenze.
Stringendo le lenzuola così forte che le sue nocche diventarono livide, Seijirou si lasciò sfuggire un respiro tremulo, poi lo guardò con sincera commozione.
-Ero... ero convinto di non poter mai amare un bambino quanto mio figlio, ma sbagliavo. Tu mi hai fatto cambiare idea. Non ho potuto non amarti… Proprio quando ero convinto di non poter provare altro che odio, la tua mano piccola nella mia, il tuo amore incondizionato, tutto questo mi ha salvato dalla disperazione in molte occasioni. Hai cambiato la mia vita più di quanto io abbia cambiato la tua- disse Seijirou, e sorrise.
Hiroto sentì gli occhi bruciare di lacrime. Erano le parole che aveva sempre, sempre voluto sentirsi dire. Tuttavia, non era abbastanza.
-Papà… io…- mormorò, ma Seijirou scosse il capo.
-So bene che non puoi perdonarmi. Queste parole arrivano troppo tardi. Ho commesso troppi sbagli, ti ho ferito troppe volte- disse. Aveva smesso di sorridere. -Anche quel giorno è stato uno sbaglio… Non avrei mai voluto che lo scoprissi così, devi credermi, so quanto bene vuoi a mio figlio… Non avrei mai dovuto permetterlo, ma, ancora una volta, sono stato egoista… Ero così vicino a smascherare la verità e punire l’assassino di mio figlio… Ho messo la mia vendetta davanti al tuo benessere. Mi sono guadagnato il tuo disprezzo e quello dei tuoi compagni- mormorò Seijirou, coprendosi gli occhi con una mano. -Mi dispiace… Mi dispiace di averti trattato in modo così freddo… Non sono degno di essere tuo padre…
-Non dire così. Io non lo penso- lo interruppe Hiroto e, mentre lo diceva, si rese conto che era vero. Non voleva semplicemente confortare Seijirou, o essere gentile. -Mi hai dato una casa e una famiglia. So che mi avete voluto bene… Io mi ritengo fortunato. Sono stato davvero fortunato. Se sono qui oggi, è grazie a te e a Hitomiko… Quindi, basta aggrapparsi al passato. Adesso tutto ciò che voglio è guardare avanti. E penso che dovresti farlo anche tu- aggiunse, con dolcezza.
Seijirou singhiozzò più forte, apparentemente incapace di fermare il pianto. Hiroto pensò che avesse trattenuto quelle lacrime per molto, molto tempo, e decise di aspettare finché non si fosse placato. Passarono circa cinque minuti in silenzio, come unico suono quel pianto spezzato, prima che Seijirou riuscisse a parlare di nuovo.
-Ah… Ormai sono vecchio e stanco…- mormorò, asciugandosi le ultime lacrime con il pollice, poi guardò Hiroto con sincero affetto. -Ma tu, tu sei diverso da me. Sei sempre stato diverso da me… e non potrei esserne più felice. Non potrei esserne più orgoglioso… Tu non hai mai cercato vendetta, sei sempre stato puro. Perciò, non devi dimenticare questi sentimenti… Ogni giorno possiamo cambiare la vita di qualcuno, non devi mai dimenticarlo.
Finalmente Seijirou sorrise di nuovo e, soprattutto, questa volta Hiroto riuscì a ricambiare.
Seijirou sollevò a fatica una mano e indicò la cordicella argentata che pendeva dal soffitto, urtando quasi i fiori dai petali rossi. Hiroto immaginò che servisse per chiamare l’infermiera responsabile del reparto e si sporse rapidamente per afferrarla al posto di suo padre.
-Ah, grazie. Avrei proprio voglia di un bel tè nero…- disse Seijirou, pensieroso.
-Il dottore dice che la caffeina fa male ai convalescenti, vecchio mio- lo interruppe una terza voce. I due si voltarono.
Il signor Raimon era sulla porta, con una camicia a righe e un completo beige. Teneva il cappello in mano, appoggiato contro il petto. Prima di entrare, accennò un rispettoso inchino sia a Seijirou che a Hiroto.
-Posso disturbarti un po’, vecchio mio?- chiese, fermo sullo stipite.
Seijirou non sembrava sorpreso di vederlo.
-Certo- disse, con un leggero sorriso. -E puoi dire al dottore, più tardi, che un sorsetto di tè non ha mai ucciso nessuno.
Il signor Raimon rise e fece un passo avanti dentro la stanza. Si girò verso Hiroto.
-Ho portato le carte, ti va una partita con noi?- gli chiese. Dietro le lenti degli occhiali, i suoi occhi erano gentili e cordiali, e Hiroto comprese che in realtà gli stava chiedendo se desiderasse passare un po’ di tempo in più con suo padre. Scosse il capo.
-No, la ringrazio- rispose. -Mi dà solo un altro momento?
Il signor Raimon annuì come se avesse capito perfettamente, poi girò i tacchi e se ne andò, chiudendo la porta alle proprie spalle. Hiroto si girò verso Seijirou, che lo stava guardando con vivo interesse e, forse, un filo di speranza. Hiroto non sapeva cosa si aspettasse.
-Non posso perdonarti subito, ma un giorno probabilmente lo farò. Spero che riuscirai a perdonarti anche tu- disse, esitò mordendosi il labbro. Poi aggiunse, sottovoce:- Per quello che vale… per me sarai sempre mio padre.
Seijirou non rispose, ma i suoi occhi si inumidirono di nuovo.
Hiroto si voltò e andò alla porta. Quando la aprì, si trovò faccia a faccia con il signor Raimon e si spostò per lasciarlo entrare. L’uomo gli sorrise senza dire nulla e si rivolse a Seijirou.
-Allora, vecchio mio, siamo io e te! Da quanto tempo non facciamo una bella partita, eh? Ora che la situazione si è calmata, possiamo finalmente fare una bella chiacchierata, magari ricordare i tempi andati!- affermò, poi notò lo sguardo confuso di Hiroto. -Ah, Seijirou, la signora Kira e io siamo stati compagni di liceo, non lo sapevi? Bei tempi, sì!
-Bei tempi- ripeté Seijirou, senza dubbio ripensando alla moglie. Si distrasse fissando il vaso, studiando la forma delle camelie e il modo in cui gli steli s’incurvavano nell’acqua.
-Capisco- disse Hiroto, gentile. -Allora vi lascio alla vostra chiacchierata. Buona giornata, signor Raimon, e mandi i miei saluti a vostra figlia.
-Certamente, certamente-. Il signor Raimon sorrise, un bel sorriso luminoso e amichevole. A Hiroto piaceva quell’uomo. Sembrava portare con sé un’atmosfera rilassante, come una mattina riscaldata dal sole. Si rivolse a Seijirou con quel tono caldo.
-Chiederò alla caporeparto se è possibile farti avere una tazza di tè- affermò. A quelle parole, finalmente Seijirou si riscosse e, guardando il vecchio amico, parve leggermente più allegro. La sua fronte si distese. -Oh, ti ringrazio- disse, rincuorato.
Hiroto uscì dalla stanza, chiuse la porta alle proprie spalle senza far rumore e li lasciò alle proprie cose. Dopo qualche metro, controllò che il corridoio fosse vuoto, poi si appoggiò ad un muro e, per un momento, lasciò che le proprie emozioni traboccassero: non tentò di fermare le lacrime, pianse silenziosamente, ad occhi chiusi per alcuni minuti. Dopo un po’, il nodo alla gola si sciolse e il peso che avvertiva sulle spalle si alleggerì. Forse era troppo presto per dire di star bene; sicuramente ci sarebbe voluto molto più tempo per mettere una pietra definitiva sul passato.
Hiroto buttò fuori tutta l’aria, inspirò e ripeté l’operazione finché non si sentì pronto ad affrontare la tappa successiva della giornata, non più facile della prima. Quindi, si staccò dal muro e s’incamminò nel corridoio precedentemente attraversato, entrò nell’ascensore e scese al piano di sotto. La porta della camera di Midorikawa, su cui c’era il numero 234, inciso su una targhetta di ottone, era semichiusa, il che significava che le visite erano già in corso.
Quando Hiroto bussò, tuttavia, non c’era nessuno a parte Midorikawa, che dormiva con un’espressione pacifica. Qualcuno, forse una delle infermiere, gli aveva spostato le mani in modo che stessero sul petto, con le dita intrecciate. Hiroto pensò che fosse davvero di pessimo gusto: sembrava che il ragazzo fosse sul letto di morte. Per prima cosa, quindi, separò le mani di Midorikawa, afferrò quella più vicina a sé e la strinse tra le proprie, sperando intimamente che l’altro ricambiasse la stretta. Restò in attesa di un movimento, anche impercettibile, per alcuni secondi, poi sospirò.
Era davvero patetico; non stavano certo recitando in un film strappalacrime.
La finestra era aperta e i fiori bordeaux sul comodino emanavano un odore dolciastro, un particolare aroma che ricordava quello del cioccolato. Hiroto non conosceva il nome di quel fiore e si riservò di chiederlo alla caporeparto. Gli piacevano di più rispetto alle camelie che avevano portato a suo padre.
La porta si aprì di nuovo, rivelando la presenza di Kazemaru.
Il ragazzo gli riservò un sorriso caldo e sollevò le mani, ciascuna delle quali stringeva una lattina di tipo diverso. -Ehi, ho pensato che saresti passato- disse. –Tè verde o caffellatte?
Hiroto ricambiò il sorriso timidamente. –Tè. Grazie- rispose. Kazemaru si avvicinò e gli diede la lattina senza esitare. Sembrava felice di vederlo. In quei giorni, si erano incrociati spesso in quella stanza, che Kazemaru lasciava solo quando strettamente necessario. In un angolo, infatti, era ammassata la sua roba, tutta rinchiusa in una borsa rigonfia. Hiroto sapeva che Kazemaru passava quasi sempre la notte in ospedale.
-Sono andato a trovare mio padre- affermò, poi si fermò. Non sapeva che altro dire, forse perché non c’era altro da dire. Kazemaru non commentò il fatto che ci fosse andato solo quel giorno, nonostante fosse venuto all’ospedale tutti i giorni della settimana a trovare Midorikawa. Lui e Kazemaru non erano gli unici; anche la squadra di Desarm faceva spesso un salto la mattina o il pomeriggio, in particolare Diam, che aveva anche l’abitudine di fare lunghi discorsi all’amico addormentato (da quando il medico aveva detto che parlare con lui aiutava, Diam aveva interpretato il consiglio come una missione di vita).
-Oggi siamo solo noi due?
-Oh, Diam è venuto stamattina con Maki. Ma all’agenzia ci sono ancora un sacco di scartoffie e… Beh, non sono potuti restare. Comunque Diam ha parlato tanto da coprire l’arco di un’intera giornata in sole due ore- disse Kazemaru, rise.
-Gli vuole davvero bene- commentò Hiroto.
-Già, e Maki gli ha fatto un braccialetto di pronta guarigione. Guarda il polso destro- Kazemaru glielo indicò. –Maki dice che esprime sempre dei desideri quando crea vestiti o accessori. Per via del suo dono, mi sembra quasi che possano avverarsi.
Hiroto osservò per qualche secondo il bracciale: era un sottile intreccio di fili neri di pelle, da cui pendevano delle perline verdi. Il colore di Midorikawa. Sorrise e spostò lo sguardo, permettendosi di indugiare sui lineamenti di Midorikawa, soffermandosi a fissare le lunghe ciglia nere posate sulle guance. Era difficile resistere alla tentazione di baciarlo, tuttavia si fermò, troppo conscio della presenza di Kazemaru accanto a sé. Quando sbirciò verso l’altro, scoprì che anche lui stava fissando Midorikawa. La lattina di caffellatte era ancora chiusa, intoccata.
-Ha un’espressione pacifica, vero? Mi chiedo cosa sogni… se sogna. Penso che glielo chiederò, quando si sveglierà- commentò Kazemaru, pensieroso.
Quando, non se.
Il braccio di Midorikawa ebbe un sussulto e lui lo guardò sorpreso, speranzoso, prima di rendersi conto che era la propria mano a tremare così forte da far muovere anche quella dell’altro; Hiroto sciolse in fretta la presa, strinse in un pugno la mano e chiuse le dita dell’altra sulle nocche nel tentativo di farla stare ferma. Prima che la situazione peggiorasse, però, Kazemaru gli afferrò una spalla e strinse forte, riportandolo di forza alla realtà. Hiroto si rese conto di star trattenendo il respiro. Alzò lo sguardo di scatto e fissò l’altro in cerca di una qualsiasi forma di rassicurazione, sentendosi patetico e piccolo e spaesato.
-Si sveglierà- disse Kazemaru, rispondendo alla domanda che aleggiava nell’aria.
-Certo che si sveglierà. Conosci qualcuno più testardo di lui? Giuro che è tornato letteralmente dalla morte, la scorsa settimana- aggiunse. Aveva gli occhi lucidi, ma la sua voce era ferma e, d’un tratto, Hiroto riuscì a percepire una tiepida, piacevole brezza che gli accarezzava il viso. Era incredibilmente confortante e, pian piano, lo calmò. Si chiese se non fosse opera di Kazemaru anche quello.
Era probabile che Midorikawa stesse dormendo così a lungo solo per riprendersi dallo sforzo fatto la scorsa settimana. E poi, Hiroto era certo di essersi trattenuto: non era mai concentrato tanto per controllare il proprio dono, proprio perché non aveva mai avuto tanta paura… La stessa paura che minacciava costantemente di togliergli il fiato. Ovviamente non avrebbe mai voluto ferire davvero qualcuno; spesso, però, le persone intorno a lui si facevano male lo stesso, che lui lo volesse o meno, e Hiroto non poteva fare a meno di pensare che fosse colpa propria.
No, Hiroto non pensava affatto di aver fatto un ottimo lavoro.
Tuttavia, Midorikawa aveva fiducia in lui. Kazemaru aveva fiducia in lui, e così tanti altri.
-Sai, spero che stia sognando te- disse Kazemaru dopo un po’. Stava sorridendo con dolcezza, gli occhi fissi sul volto di Midorikawa. -Spero stia sognando te, perché non l’ho mai visto così felice come quando è con te.
-Kazemaru, io…
-Ascoltami. Lui non è solo il mio partner. È mio fratello, e lo conosco. Lui si sveglierà.
Lo disse con tale forza che non si poteva non crederci.
Hiroto continuò a ripetersi quelle parole per tutto il tempo che rimase nella stanza. Lui e Kazemaru bevvero le loro bevande in silenzio, vegliando su Midorikawa.
Si sveglierà. So che ti sveglierai, pensava Hiroto. Midorikawa, ti sto aspettando.
E quando si sarebbe svegliato, Hiroto gli avrebbe detto tutto ciò che provava per lui.
 



xxx
 
 


Passò ancora un’altra settimana, poi un’altra.
Una fresca notte di marzo, Midorikawa Ryuuji si svegliò in un letto d’ospedale, mentre dall’altro lato dell’edificio Kira Seijirou chiuse gli occhi e non li riaprì più. Il ragazzo era confuso, spaesato, ma vivo, mentre l'uomo era andato via con le mani intrecciate e un pallido sorriso sulle labbra. Le due persone più importanti della vita di Hiroto Kiyama presero strade completamente opposte.
Erano entrambi ignari che il loro più grande nemico, il mostro che aveva terrorizzato Tokyo e il mondo intero e che li aveva spinti su quelle strade, volontariamente o meno, stava affrontando il suo destino quella stessa notte. Il mattino dopo, infatti,
si sarebbe tenuto il processo che avrebbe dichiarato Garshield Bahyan colpevole e lo avrebbe condannato all’ergastolo, mettendo così fine al sanguinoso capitolo per sempre.


 
**Angolo dell'Autrice**

La storia di Hiroto e di Seijirou ce l'avevo in mente dall'inizio, a grandi linee, l'ho modificata un po' man mano che la fic andava avanti. Avevo un po' di dubbi su come scrivere quella parte, perciò ho deciso di rivedere l'episodio 63 della serie... e allora ho capito cosa volevo fareì. La scena tra Hiroto e Seijirou non è una scena di perdono. È una scena di catarsi e di scuse dovute. Però sì, Hiroto lo perdonerà. Mi ha sempre colpita molto la scena dell'anime in cui dice a Reina che, nonostante tutto, Seijirou sarà "sempre suo padre". Per questo, sono sicura che Hiroto lo perdonerà, anche se altri non lo faranno. 

La parte che mi è piaciuto più scrivere, però, è quella con Hiroto e Kazemaru. Il loro rapporto è uno di quelli che si è evoluto di più, anche se non esplicitamente. Penso che entrambi siano cresciuti moltissimo, grazie a Midorikawa (anche se non so quanto il diretto interessato ne sia consapevole, lol).

Grazie a chi ha letto il capitolo ♥
Vi auguro una buona giornata!
     Roby

...Ah, e siccome sono una fissata con il linguaggio dei fiori: 
la camelia / il fiore di Seijirou → sacrificio (in nome dell’amore);
il chocolate cosmos/ il fiore di Midorikawa → ti amo più di chiunque altro (in generale i cosmos simboleggiano un amore pacifico e tranquillo).



 

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Capitolo 47
*** Mission 47. ~Hiroto's Arc. ***


Questo è l’ultimo capitolo dell’Hiroto Arc e costituisce una sorta di epilogo. Buona lettura!
[p.s. ho messo il collegamento, quindi se cliccate sul titolo della canzone, vi si aprirà la finestra youtube ♥]


 
[Midorikawa P.O.V.]
 
 
 

 
“Let's talk about our dreams again one day
In this place where the light shines,
under the cherry blossoms”
                                                              - sakura no ki no shita, [kokia]




 
 
 
Alla fine di Marzo, venne organizzata una cerimonia in onore di Seijurou.
Trovarmi lì mi faceva uno strano effetto. Non riuscivo a smettere di pensare all’ultima volta che avevo visto Seijurou vivo. Era come se non potessi capacitarmi che ora fosse in una cassa in fondo ad una buca. La sua morte per me era stata troppo improvvisa, inaspettata, perché era avvenuta mentre io dormivo.
Era stato scelto un parco all’aperto, così da poter accogliere non solo i membri della nostra agency, ma anche tutti gli agenti stranieri ancora presenti. Inoltre, era stata consegnata a tutti una divisa unica, regolare, da indossare. Se avessimo potuto vederci dall’altro, ci saremmo trovati davanti una macchia uniforme di cappelli e mantelli grigio scuro, in stridente contrasto con il tappeto rosa di petali che si estendeva per tutta la larghezza del parco e oltre, sulle strade del circondario. I ciliegi erano in fioritura e, ogni tanto, un soffio di vento versava cascate di petali proprio sul palco appositamente allestito dove le Spy Eleven, una ad una, stavano recitando i propri omaggi e saluti per i due colleghi venuti a mancare.
C’era qualcosa di solenne ed etereo in quel tipo di cerimonia. Ci sarebbero stati dei funerali privati, certamente, più avanti, tuttavia Hitomiko aveva insistito per tenere una cerimonia collettiva, per una ragione ben precisa: non avevamo avuto il tempo di piangere nessuno dei nostri morti fino a quel momento. Era un’occasione per onorare la memoria non solo di Seijurou Kira, ma anche di tutti gli altri compagni che avevamo perso lungo la via. La vittoria su Garshield andava celebrata, ma non in quel giorno, non in quel luogo.
Il signor Raimon salì sul palco e si schiarì la gola.
–La mia amicizia con Seijurou è stata molto longeva, per cui non ho molto che posso dire. Quando sei amico  di una persona per tanto tempo, non c’è mai molto da dire, vero? Perché, anche se ci sforziamo, ci vengono in mente solo cose che vorremmo dire a quella persona… che purtroppo non è più qui per ascoltarle- disse. Abbozzò un sorriso.
-Tuttavia, vorrei comunque offrire qualche parola di conforto per i suoi cari. Seijurou era umano e ha commesso degli errori, ma io so con certezza che il suo cuore è sempre stato al posto giusto. E che, anche se non è sempre stato capace di dimostrarlo, il suo cuore è stato, fino alla fine, pieno di amore per voi.
Il suo sorriso sbiadì e, per un lungo attimo, il suo sguardo si fece distante, come se la sua mente stesse viaggiando verso altri luoghi, altri ricordi. Poi il momento cessò di esistere, rapido così com’era nato, e il signor Raimon tornò tra noi.
-Oggi onoriamo insieme la memoria di tutti coloro che hanno dato vita per una causa: un mondo migliore- concluse. Fece un inchino e, tra i nostri applausi, ritornò tra i suoi colleghi. Si soffermò solo un momento, passando accanto a Hitomiko, e le offrì un sorriso.
Aiutata da Saginuma, Hitomiko si fece largo verso il palco. Aveva ottenuto un permesso per uscire dall’ospedale prima del previsto, ma aveva dovuto accettare di aver bisogno delle stampelle, cosa che chiaramente trovava molto frustrante. Invece di salire sul palco, decise di posizionarsi davanti, nello spazio tra noi e la struttura.
-Vorrei ringraziare tutti… per la vostra presenza- esordì, quasi esitante. Il suo sguardo scivolò sulla folla, come se cercasse di indovinare le emozioni di ognuno. O forse stava cercando Hiroto. Ma nessuno di noi lo aveva visto per l’intera mattinata, e ora sospettavo neanche lei.
Hitomiko rimase in silenzio per qualche minuto. Per una volta, appariva completamente vulnerabile, come se la stanchezza e lo shock dovuti ai recenti avvenimenti avessero sovrascritto l’immagine di persona forte e autoritaria che si era costruita. Saginuma la fissava preoccupato, così come molti tra agenti e Spy Eleven, tuttavia nessuno osò commentare o muoversi. Decisi anche io di non distogliere lo sguardo e chiusi del tutto la mente, impedendo al mio dono di manifestarsi. Hitomiko era l’unica a poterci far entrare nel suo cuore.
Dopo lunghi minuti, che parvero un’eternità, la donna sospirò.
-Ma che sto facendo?- mormorò una domanda a se stessa. Poi fece un altro sospiro e ricominciò.
-Mio padre… è stato, come dire, molte cose. Come tutte le persone. Non era speciale, no… Era come tutti gli altri. Un padre, un amico- guardò verso Raimon, -e per molti anche un mentore, una guida. Per alcuni è stato soltanto il loro capo. E non sempre siamo stati capaci di accettare la sua visione delle cose o le sue decisioni o le sue azioni. Mio padre non era speciale.
-Mio padre, tutte le persone che sono morte… stavano semplicemente facendo la loro parte in questa storia. Stavano combattendo per qualcosa in cui credevano, per un… mondo migliore, sì. E forse è vero che queste parole saranno di conforto soltanto a noi vivi, ma… Io credo che il modo migliore di onorarli sia continuare a combattere per questo.
La sua voce tremò. Hitomiko si fermò a riprendere fiato e tentò di inghiottire le lacrime, ma ormai le colavano già lungo il viso arrossato. I suoi occhi brillavano, pieni di vita e ardore più che mai. Mi resi conto che, nonostante non avesse un microfono, riuscivamo a sentirla tutti forte e chiaro. Intorno a lei era sceso un silenzio di rispetto e ammirazione.
-Non potrò mai dimenticare cos’è successo a mio fratello e non permetterò mai più che lo stesso possa accadere a qualcun altro- disse Hitomiko, commossa. –E finché saprò che ci sono altre persone come me, come voi, in questo mondo, non perderò la speranza di poterlo cambiare. Vi ringrazio… di aver combattuto insieme a me e a mio padre…- Non riuscì ad andare oltre e si inchinò a fondo. I capelli sciolti le scivolarono sul volto. Saginuma le poggiò una mano sulla schiena, chiaramente in un gesto di conforto.
Qualcosa si smosse. Qualcuno, tra la folla, si tolse il cappello e se lo premette contro il petto. Poi qualcun altro lo imitò e la marea partì, inarrestabile. Incoraggiata da Saginuma, Hitomiko sollevò il viso e vide coi propri occhi tutte le persone levarsi il cappello per rendere onore alle sue parole. Mentre toglievo il mio e lo stringevo al petto, ripensai a ciò che Hiroto aveva detto prima di quell’ultima missione. Stavamo tutti proteggendo qualcosa. Era stata, fin dal principio, una questione personale. Tutti potevamo rivederci nel discorso di Hitomiko. E, mentre lei non riusciva a far altro che ringraziare e piangere, tutti rimasero in silenzio, allo stesso tempo addolorati da ciò che avevamo perduto e infinitamente grati per ciò che avevamo salvato.
 



 
Alla fine della cerimonia, benché non fossimo obbligati a restare, non riuscimmo a lasciare subito il parco. Eravamo ancora sotto l’effetto delle parole di Hitomiko, come se ci avesse lanciato un incantesimo. Appena finito tutto, cercai subito i miei amici e li trovai subito, probabilmente perché anche loro stavano cercando me.
Maki e Diam si tenevano per mano, e lei aveva il viso inondato di lacrime.
-Ehi, Reize- Diam mi accolse con un sorriso amichevole, un po’ più spento del solito. -Me ne andrò tra qualche giorno, perciò pensavo che potremmo passare questi ultimi giorni insieme. Non so, giocare a calcio per strada, guardare qualche film, cose così. Mi farete vedere voi cosa c’è da fare qui in giro.
Scoccai un’occhiata a Maki e la vidi trasalire. Intuii quindi che, tra le ragioni delle sue lacrime, c’era anche l’imminente partenza di Diam. Mi girai di nuovo verso di lui e risposi con un lieve sorriso:- Certo. Ogni tanto giochiamo anche a calcio qui, non saprei dirti sui film perché non abbiamo davvero il tempo di andare al cinema, ma qualcosa la troviamo.
-L’importante è stare assieme, amico- disse Diam scrollando le spalle. –Non mi sembra vero di star parlando con te da sveglio finalmente, sai.
Non sapevo come rispondergli, e mentre ci pensavo Kazemaru mi anticipò.
-Diam!- esclamò, in tono di rimprovero, e gli tirò uno schiaffetto sul braccio. Diam sbatté le palpebre, visibilmente confuso.
-Che c’è?- chiese. Kazemaru gli lanciò un’occhiataccia. Diam capì e si grattò la nuca, nervoso.
-Ah, uh, scusa? Non dovevo dirlo?
-Va tutto bene- intervenni. –Anzi, mi dispiace di avervi fatto preoccupare tanto…
-No- Maki mi interruppe, cogliendoci di sorpresa. Si asciugò il viso col dorso del braccio e lasciò la mano di Diam per prendere le mie, stringendole con decisione. –Non hai niente di cui scusarti con noi, Mido-chan. Siamo i tuoi amici, e gli amici si coprono le spalle- affermò.
Sentendola usare il vecchio soprannome, provai un’ondata di tenerezza verso di lei, che si intensificò quando Maki notò il bracciale che portavo al polso e il suo sguardo si addolcì. Era un regalo che mi aveva fatto mentre ero ancora incosciente. Soltanto osservando le delicate perline verdi che pendevano dai fili neri, potevo immaginare quanta pazienza e quanta cura avesse infuso in quella sua creazione, sebbene in apparenza fosse molto semplice.
-Hai ragione- ammisi. –Oggi è un giorno per ringraziare, non per scusarsi. Quindi, grazie a tutti voi per esservi presi cura di me.
Maki e Diam mi guardarono emozionati. Kazemaru mi sorrise, caldo come una mattina di sole.
-La persona che è stata al tuo fianco più di tutte non è qui, però- osservò. Lo guardai confuso, e lui mi indicò un punto dietro di me. Mi girai e, finalmente, scorsi la persona che volevo vedere più di tutte da quando era cominciata la giornata.
-Oh, uh, vado- dissi velocemente. –Scusatemi, devo proprio…
-Vai!- mi interruppe Diam ridendo.
Annuii e mi avviai verso il punto dove avevo visto Hiroto. I suoi capelli rossi spiccavano anche in mezzo ai ciliegi e al cappello nero che portava sul capo. Se ne stava tutto solo in mezzo al ponte che passava sopra il laghetto delle carpe, con lo sguardo perso nel vuoto.
-Hiroto! Hiroto!
Si girò di scatto sentendo la mia voce e, per un momento, sorrise, quasi genuinamente felice. Feci gli ultimi metri di corsa per gettarmi verso di lui e attirarlo in un abbraccio fortissimo. Lo sentii sussultare, poi sciogliersi contro di me, mentre le sue dita affondavano nella mia camicia e il suo viso nella mia spalla. Mi sembrava così fragile, così tenero, che non avrei voluto lasciarlo mai più, ma dopo un po’ Hiroto si tirò indietro.
Lo lasciai andare e Hiroto tornò alla posizione di prima, appoggiando una mano sulla ringhiera del ponte. Un’ombra attraversò il suo volto, mentre il suo sguardo scivolava verso la superficie del lago. Cercai i suoi occhi nel suo riflesso. Nonostante non sapessi cosa stesse pensando, mi sentivo stranamente calmo. Non avevo bisogno di assorbire le sue emozioni. Hiroto era sempre stato sincero con me.
Lo guardai mentre ispirava profondamente, espirava. La sua mano strinse la ringhiera, poi si rilassò e infine Hiroto lasciò cadere il braccio lungo il corpo.
-Hitomiko è stata scelta come sostituta di mio padre. Sarà lei la nuova Spy Eleven... e secondo me non esiste persona migliore per questo incarico- disse.
-Capisco…- risposi. -Ma qualcosa ti turba, giusto?
Hiroto annuì lentamente.
-Le Spy Eleven si sono riunite per accordarsi e… In realtà, la votazione si è conclusa in modo diverso. Sebbene tutti fossero d’accordo su Hitomiko, c’era anche un’altra opzione. Qualcuno ha proposto me- rivelò, senza voltarsi.
Non dissi niente. Onestamente, aveva senso.
-Non sembri stupito- commentò Hiroto, infatti, intuendo cosa pensavo. -Ma dovresti esserlo. Non sono... forte come credono tutti.
Scosse il capo e si morse il labbro inferiore.
-Anzi, sono un codardo. Anche quella volta, io… io ho esitato. Ho avuto paura di usare il mio potere su di te, anche se sapevo che era la cosa giusta da fare… Avevo paura che non ti saresti più svegliato… Tutti mi ripetono quanto sia stato bravo, ma io… io non credo di riuscire a sopportarlo. Le persone hanno paura del mio potere e hanno ragione-. Hiroto abbassò lo sguardo sulle proprie mani, angosciato.
Non potendo più trattenermi, mi avvicinai e gli presi il viso tra le mani. Era freddo come ghiaccio.
-Hiroto, guardami. Io sono qui e sto bene, giusto? Guardami- esclamai, sollevando il suo viso verso il mio, così che Hiroto non potesse far altro che guardarmi negli occhi.
-Sono qui solo grazie a te... perché tu mi hai aiutato. Hai protetto me, e tutte quelle persone… Non c'è nessuno che abbia più paura del tuo potere di te. Ma, anche se avevi paura, sei stato coraggioso e lo hai fatto.
Hiroto fece una smorfia.
-Tu sei molto più coraggioso di me- replicò debolmente, ancora dubbioso.
-Io sono solo impulsivo-. Scossi il capo e gli sorrisi con dolcezza. Per un attimo, lasciai correre le dita tra i suoi capelli, togliendo dei petali caduti e rimasti incollati tra le sue ciocche. Hiroto arrossì, imbarazzato, ma si sforzò di sostenere il mio sguardo.
-Hiroto... non sei un codardo, sei solo… umano- mormorai, serio. -Ma saresti un ottimo capo, anche gli altri se ne sono accorti. Ogni potere può essere usato in modo sbagliato, tutto dipende da noi. E io mi fido di te. So che farai sempre la scelta giusta. Lo so.
Mi guardò incerto.
-Come fai a esserne così sicuro?
Ripensai alle parole di Maki e sentii un grande calore inondarmi il petto. Volevo trasmetterlo anche a Hiroto, almeno un pochino.
-Sai... Se sembro coraggioso, è perché ho tante persone che mi coprono le spalle- dissi. -Perché ho te. La persona che amo.
Arrossii per aver detto una cosa così audace.
Hiroto aprì la bocca, ma non riuscì a rispondere. Sembrava sul punto di piangere. Annuì, si sporse in avanti e mi posò un bacio sulla fronte. La sua temperatura corporea era tornata normale, le sue labbra bruciavano febbrilmente contro la mia pelle.
-Quando tutto sarà finito, devo dirti una cosa. Mi ascolterai?- chiese, con un leggero tremito nella voce. Annuii subito, poi scrutai il suo viso e aggrottai la fronte quando vidi la sua espressione.
-Stai bene?- gli chiesi.
-Non lo so- sussurrò.
La mia reazione fu immediata. D'istinto lo abbracciai e, con una mano sulla sua nuca, lo spinsi delicatamente a poggiare la testa contro la mia spalla. Hiroto ebbe un sussulto e cercò di voltarsi il tanto che serviva per guardarmi.
-Midorikawa…?- mi chiese, con gli occhi sgranati e lucidi.
-Non devi trattenerti- mormorai e, come lui aveva fatto con me, lo baciai teneramente sulla fronte.
-Anch'io ho paura, ma tu mi salvi sempre- aggiunsi. -Hiroto, non te l’ho ancora detto, ma… grazie.
Le mie parole sgretolarono le sue ultime difese. Gradualmente, Hiroto si lasciò andare e cominciò a piangere, affondando le dita nei miei vestiti e stringendo forte, mentre il suo corpo veniva scosso dai tremiti. Lo nascosi tra le mie braccia, tenendolo al sicuro da eventuali sguardi indiscreti, e gli accarezzai i capelli gentilmente per tutto il tempo.
 




 
Quando tornammo indietro, Kazemaru si era allontanato per cercare Endou, ma il gruppo era comunque cresciuto. Vidi subito la chioma rossa di Burn, poi Gazel, Afuro. A quanto pareva, Maki e Burn avevano cominciato a bisticciare appena questi era arrivato tra loro.
-Dai, Maki, basta piangere. Il tuo fidanzatino abita comunque in Giappone, esistono i treni!
-Oh Haruyan, adesso fai tutti questi discorsi da uomo vissuto, ma guarda che io me le ricordo le chiamate che mi facevi quando ancora eravamo in training, e tu non facevi che lamentarti, Gazel di qua, Gazel di là, Gazel mi ha fatto questo, bla bla…
-S-smettila! Non è vero! Non è vero nulla!
-Riesco a immaginarmelo benissimo- commentò Gazel, del tutto incurante del colore rosso acceso che colorava le guance del compagno. Incrociò le braccia al petto e gli scoccò un’occhiata interrogativa, con un sopracciglio alzato.
-Be', in effetti Haruya non faceva altro che attaccar briga con te- disse Afuro con un sorriso beffardo. -Come quei bambini delle elementari che tormentano la propria cotta…
-Ah, l'amore è complicato!- esclamò Diam con un sorrisetto ironico.
-In effetti anche a me pare di ricordare qualcosa del genere- aggiunse Hiroto, fingendo di rifletterci seriamente.
Mentre Burn ribatteva che non era assolutamente vero, Gazel decise di tirarsene fuori e si girò verso di me con un'espressione corrucciata.
-Dimenticati questa conversazione insensata- disse. -Ho delle cose da chiederti, ti va di parlare... in privato?
Fece un gesto eloquente per dirmi di spostarci più in là, poi si girò e s'incamminò senza aspettare la mia risposta. A quanto pareva, non avevo scelta. Gettai un'occhiata di sottecchi a Hiroto e vidi che si era già accorto della situazione. Hiroto annuì in modo impercettibile e per un secondo sfiorò il dorso della mia mano con la propria. Mi costrinsi a staccargli gli occhi di dosso e, con un sospiro, raggiunsi Gazel, che mi aspettava poco più in là con uno sguardo accigliato e le braccia incrociate sul petto.
Decisi di andare subito al sodo.
-Di cosa devi parlarmi?- domandai, un po' nervoso.
Gazel mi squadrò da capo a piede.
-Non abbiamo molto tempo, ma devo chiedertelo. Ho sentito che i tuoi poteri sono tornati, è vero?
Ah, quindi si tratta di questo? pensai, e mi fermai un attimo a riflettere.
-Be', ci credi se ti dico che non lo so...? Credevo fossero tornati, ma se ne sono andati via di nuovo. E, anche se ho dei ricordi, sono troppo vaghi- dissi. -Non penso di aver fatto molti progressi... Però una cosa è cambiata. Da quel giorno riesco a controllare benissimo la mia empatia.
Gazel parve sorpreso. –Davvero? Mmh… Forse qualche progresso c'è, allora- osservò. D'un tratto ridusse la distanza e mi poggiò una mano sulla spalla. Aveva un'espressione molto seria.
-Dobbiamo tenere questa cosa sotto controllo, capito? Ci sono ancora troppe cose che non sappiamo- disse a bassa voce. -Nessuno sa come Garshield abbia messo le mani su una tecnologia tanto avanzata, o come abbia fatto ad avere così tante informazioni sui doni... Finché non avremo tutte le risposte, dobbiamo continuare a indagare. E ovviamente voglio dire anche su di te e sul tuo dono.
-Starò attento- replicai. -E se ci sono cambiamenti, te lo dirò. Va bene così?
Gazel mi fissò ancora per un istante, poi si tirò indietro di colpo e riprese a parlare in un tono di voce normale.
-Perfetto, bello vedere che ci siamo capiti- disse. -Comunque, almeno per ora abbiamo un po' di respiro, con Garshield in galera e tutto il resto. Almeno quello è sistemato...
Fu interrotto da un grido alle mie spalle. Dopo tutte le prese in giro, Burn era finalmente esploso. Gazel aggrottò la fronte. -Quell'idiota... Ma che ha da agitarsi tanto?- borbottò, ma intravidi una sfumatura di rosso sul suo viso che prima non c'era. Era evidente che sapeva benissimo che stavano ancora parlando di lui.
Mi chiese di tornare prima di lui, forse per avere un momento per ricomporsi. Era una cosa molto carina, e sarebbe stato facile stuzzicarlo, ma decisi di dargli tregua e acconsentii alla richiesta, mordendomi le labbra per nascondere un sorriso divertito.
Feci dietrofront e tornai dagli altri. Non appena mi fermai, mi resi conto che Hiroto era al mio fianco, gravitò verso di me come spinto da una forza invisibile. Di nuovo, sfiorò la mia mano con la sua. Dal suo sguardo capii che voleva sapere se stavo bene e, colto da un'ispirazione improvvisa, tracciai i kanji di "tutto bene" sul dorso della sua mano. Hiroto parve sorpreso, ma poi si lasciò scappare una risata divertita e sollevata. Gli sorrisi in risposta.
Poco dopo, Gazel tornò, proprio nel momento in cui Burn stava gridando:- Ho detto che non è vero, ma non importa quanto lo dico, continuate a insistere!! Razza di...!
Inaspettatamente s'interruppe senza finire l'insulto. Sembrava quasi che stesse cercando di trattenersi, cosa insolita perché Burn non teneva spesso a freno la lingua. Frustrato, si voltò di scatto verso Maki.
-Ugh, sai che ti dico?! Non cercherò mai più di consolarti!
Maki lo guardò, colpita.
–Stavi cercando di consolarmi? Oddio, Haruyan, era assolutamente… patetico… Oh no…- Nonostante ciò che aveva detto, Maki ricominciò a piangere, forse toccata dalle buone intenzioni dell'amico.
Non appena vide le lacrime, Burn si allarmò e fece marcia indietro. -Oh no, no, no! Non ricominciare, dai, mi dispiace! Non lo faccio più!- si affrettò a dire, asciugandole le lacrime col dorso della propria manica di camicia.
-Sì, sì, ora mi calmo, scusate- mormorò Maki, inspirando ed espirando alcune volte per fermare le lacrime.
Diam le prese la mano e la strinse forte.
-Forse sarà un po’ difficile per via della distanza, è vero, ma io sono fiducioso!- esclamò. –E comunque, non c’è scelta. Non può esserci nessun’altra per me.
A quelle parole, Maki si girò di scatto e lo abbracciò, premendo il viso nel suo petto. Pianse un altro po’, ma sicuramente anche lei pensava le stesse cose. E Diam… Diam sembrava irradiare felicità. Non c’era altro modo di descriverlo. Non dovevo leggere le sue emozioni per capirlo.
Dopo un po’, Maki si staccò e annuì con vigore. Un sorriso a trentadue denti le illuminava tutto il viso.
-Hai ragione, Hiromu. Noi due possiamo farcela! E poi verrò a trovarti appena posso!- esclamò, più ottimista. –Ogni tanto mi porterò anche Mido-chan, non sei contento?
Sentendomi chiamare in causa, aggrottai le sopracciglia, confuso.
-Uh? Che c’entro io?
A Diam brillarono gli occhi. Non lo avevo mai visto così felice.
–Oh, dai! Maki è la mia dolce metà, ma tu, Reize, resti il mio unico partner- disse con finta solennità, come se fosse stata una nomina ufficiale e irrevocabile. Rise, poi la sua espressione si addolcì.
-Sai, Reize, penso che tu mi porti fortuna. Da quando ti conosco, Reize, mi succedono solo cose belle- disse. –E quelle cose in cui credeva mia madre, coraggio, speranza… Grazie a te, adesso sento di crederci anche io.
-Oh Diam, è bellissimo- risposi. –Sono davvero, davvero contento per te.
Non sapevo che altro dire, ma Diam parve capire lo stesso e il suo sorriso si allargò. Si girò verso gli altri.
-Quindi, torniamo tutti a lavoro?- chiese allegramente.
Afuro annuì e abbassò lo sguardo.
-Sì, anch'io torno a casa. Chang Soo… be', lui è già in viaggio verso casa, e devo seguirlo più presto per organizzare la cerimonia funebre- spiegò. -Voglio rendergli onore come si deve, perché lui è stato più di un semplice capo per me. È stato il mio mentore. Senza di lui, ora non sarei qui.
Gazel gli lanciò un'occhiata eloquente.
-Ma non è solo per questo che torni subito, vero?
Afuro rise alla domanda dell'amico.
-E dire che volevo tenerlo segreto per un altro po'... Mah, non importa. È giusto che lo sappiate da me- disse Afuro, scrollando le spalle.
-Sono stato nominato successore di Chang Soo, perciò, non appena metterò piede in Corea, sarò ufficialmente una Spy Eleven.
Lo guardammo tutti a bocca aperta, tranne Gazel, Burn e Hiroto, i quali non sembravano sorpresi.
-Be', ovvio. Non può farlo nessun altro- osservò Burn.
-Oh? Lo credi davvero? Haruya, sono onorato!- esclamò Afuro con un sorriso angelico che mal si adattava al tono del commento. Burn gli scoccò un'occhiata tagliente.
-Non prendermi per il culo, guarda che sono serio- borbottò.
-Lo so, lo so, e lo apprezzo, giuro!- Afuro ridacchiò e accarezzò Burn sulla testa come un cagnolino. Burn non parve gradire il gesto, ma stranamente non reagì e, seppur con riluttanza, lo lasciò fare.
A quel punto Gazel, che fino a quel momento aveva osservato il loro scambio in silenzio, intervenne.
-Vengo con te- disse, con insolita solennità.
Le sue parole furono accolte in un silenzio esterrefatto. Poi Afuro e Burn parlarono quasi in contemporanea.
-Eh? Cosa?!
-Con me? Ma che vuoi dire?
Gazel non si scompose affatto. Guardò Burn, poi Afuro, e infine abbassò lo sguardo.
-Ci sono ancora molte cose che devo capire... Ma prima di tutto voglio salutarlo come si deve- disse con grande serietà.
-Il mio dono si è risvegliato troppo tardi… Avrei voluto che Chang Soo vedesse cosa sono diventato- continuò. –Non so se posso definirlo un mentore... però, in un certo senso, mi ha salvato facendomi entrare in quel centro. Per questo vorrei venire con te e partecipare alla cerimonia per... per dargli l'ultimo saluto. Glielo devo.
Esitò, poi alzò di nuovo lo sguardo su Afuro.
-Ma c'è anche un'altra cosa. Vorrei... vorrei essere al tuo fianco quando succederà. Non ti lascerò solo- disse.
Afuro non rispose subito: per una volta parve davvero senza parole. Restammo in silenzio per una manciata di secondi, perché nessuno osava intervenire in quel momento tra loro due.
Quando Afuro ritrovò la voce, la prima cosa che disse fu un "grazie" un po’ tremante. E poi lo disse di nuovo, più forte, e l'attimo dopo lanciò le braccia attorno al collo di Gazel, che si lasciò stringere forte sebbene non amasse il contatto fisico. Ancora una volta intuii quanto il loro rapporto dovesse significare per entrambi.
Dopo un po' Burn tossicchiò per richiamare l'attenzione.
-In realtà anch'io stavo pensando di andarci. Se posso unirmi a voi…- bofonchiò, imbarazzato.
Senza pensarci due volte, Afuro allungò un braccio e trascinò anche lui nell’abbraccio. Al mio fianco Hiroto sospirò, in qualche modo sollevato. E poi tutto a un tratto Maki lanciò un gridolino.
-Reina! Ma dov’eri finita? Ti ho persa di vista un attimo e sei sparita!
Mi girai di scatto.
Non vedevo Reina dal giorno in cui mi aveva fatto la predizione. Non era mai venuta a trovarmi in ospedale, nel periodo in cui ero rimasto in convalescenza, anche dopo essermi svegliato.
Mentre ero incosciente, avevo sognato di nuovo il corridoio e la porta, ma questa volta, al lato opposto, avevo visto un varco di luce chiara e pura. Avevo sentito delle voci chiamarmi da quel lato. Erano le voci delle persone che amavo, perciò non avevo avuto la minima esitazione.
Mi ero risvegliato confuso e dolorante. Non il migliore dei risvegli. In più, c'era stata un sacco di confusione intorno a me: un fuggifuggi di infermiere, un viavai di medici, una raffica di come ti senti, puoi parlare, puoi muoverti?. Nei giorni seguenti mi avevano sottoposto a mille cure e controlli.
Una mattina qualsiasi, Kazemaru era entrato nella mia stanza come un uragano, aprendo la porta di schianto. Nessuno dei due aveva detto nulla, e due secondi dopo c'eravamo trovati già nelle braccia l'uno dell'altro, come se fosse stata la cosa più naturale del mondo. Ed io mi ero sentito più vivo che mai, nonostante tutto, perché la monotonia era finita: infatti, da quel momento, i giorni avevano smesso di essere uno uguale all’altro.
Hiroto e Kazemaru erano venuti a trovarmi tutti i giorni, Maki e Diam quando potevano, e persino Gazel e Burn si erano presentati, qualche volta.
Reina, invece, non era mai venuta, nemmeno una volta.
E ora, guardandola negli occhi, capii il perché.
Mi fissava come se avesse visto un fantasma, come se non riuscisse a credere che fossi là davanti a lei, vivo e reale. Senza smettere di guardarla, mi pizzicai una guancia e le sorrisi. La reazione fu immediata. Reina si portò le mani alla bocca mentre si scioglieva in lacrime che di certo aveva trattenuto a lungo.
Non appena mi avvicinai a lei per consolarla, mi gettò le braccia al collo. Fu inaspettato, ma ricambiai subito. Nessuno sembrava capire cosa stesse succedendo, a parte forse Maki, che la osservava con una dolcezza indescrivibile. Avevo sempre pensato che fosse Reina a prendersi cura di Maki, ma mi sbagliavo: allo stesso modo Maki vegliava su di lei, e lo aveva sempre fatto. Si prendevano cura l’una dell’altra, proprio come me e Kazemaru. Erano partner.
-Va tutto bene- sussurrai a Reina, stringendola. -Va tutto bene.
E, alzando lo sguardo sul cielo azzurro, sentii che era vero.
Andava tutto bene.
 
 
 
 



 

**Note dell’Autrice**

Questo arc è durato così tanto, che mi sembra di aver appena terminato un lungo viaggio…!
Anche se il viaggio non è davvero finito, anzi per nulla, visto che adesso affronteremo l’arc finale, quello più impegnativo di tutti.
(MA sono fiduciosa. Tutti i nodi stanno finalmente venendo al pettine.)
È normale che io sia tanto orgogliosa di personaggi fittizi?? Che non sono neanche miei?? È assurdo perché in questo capitolo li ho sentiti davvero tutti vicinissimi! Sono tutti cresciuti tanto. Ripensando a tutto il percorso di Hiroto (ma anche a quello di Gazel!), mi sento davvero soddisfatta.
Spero che resterete con me fino alla fine, perché i prossimi capitoli costituiranno il Midorikawa’s Arc. Finalmente parliamo davvero del protagonista!! È stato davvero un lungo viaggio… ho disseminato tante tessere di un puzzle lungo la via, e ora mi tocca rimetterlo assieme!
Ringrazio tantissimo chi ancora legge, e chi mi recensisce persino!! Siete bellissimi e avete una pazienza infinita!!

Un abbraccio,
  Roby

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Capitolo 48
*** Mission 48. ~Midorikawa's Arc. ***





.~    Midorikawa’s Arc    ~.
The Forgotten Song
.
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[Midorikawa's P.O.V.]

 

Sentii le sue labbra contro la mia fronte ancora prima del calore del sole.
Non aprii gli occhi subito, no. Una parte di me mi diceva di farlo, per poter vedere il suo volto il prima possibile, ma non c’era alcuna fretta ed ero curioso di cosa sarebbe venuto dopo. Sentii le sue dita scostarmi la frangia e seguì un altro bacio, sulla tempia. Mi sforzai di trattenere il sorriso che minacciava di tradirmi. Bisognava avere pazienza. Il fresco notturno si era consumato velocemente, lasciando che la stanza tornasse calda, e non in modo piacevole. Si trattava di quel caldo estivo umido e afoso. Questo, e i cicloni, rendevano la stagione estiva a Tokyo particolarmente dura e il tempo passato assieme terribilmente prezioso. Prevedere quando saremmo stati sommersi di lavoro era impossibile. Basta pazienza.
Afferrai la mano di Hiroto e rotolai verso di lui, in modo da spingerlo contro il materasso, sotto di me. I suoi occhi si sgranarono per un momento. Sorrisi, compiaciuto che il mio attacco a sorpresa fosse andato a segno.
-Buongiorno- sussurrai, inclinando leggermente il capo per far scivolare i capelli sulle spalle.
-È sleale far finta di dormire- replicò Hiroto, trattenendo un sorriso. Sollevai le sopracciglia.
-E baciarmi nel sonno non lo è?
-Non ti ho baciato- mormorò, i suoi occhi guizzarono verso le mie labbra. –Non davvero…
Beh, era il momento di rimediare. Mi chinai e lo baciai sulle labbra, un contatto che voleva essere breve, lungo quanto il tempo di dire “buongiorno”, ma che divenne molto di più quando Hiroto si tese verso di me dal basso. Intrecciai le dita con le sue, mentre con l’altra mano gli accarezzavo il viso. La mano libera di Hiroto salì lungo il mio braccio e si arrestò sulla mia nuca per tenermi premuto contro di lui. Decisi di mordergli leggermente il labbro, un’idea che fu ricompensata da un gemito e un suono soffocato che avrebbe potuto essere il mio nome. Una familiare, naturale sensazione di calore si diffuse gradualmente dal petto al resto del corpo. Mi staccai a fatica da lui.
-Se continuiamo, presto non potremo fermarci- commentai, con voce molto meno ferma di quanto avessi voluto. Hiroto si leccò le labbra, facendomi vacillare.
-Dobbiamo fermarci…?- chiese, una mano stretta nella mia e l’altra tra i miei capelli. Guardai rapidamente al di là dello schienale del suo letto, verso la sveglia. Segnava le otto.
-Mi sa di sì- bisbigliai con una smorfia, poi mi ricordai di una cosa e abbozzai un sorriso.
-Non avevi detto di tenermi libero oggi, perché abbiamo “programmi”?- chiesi. A quelle parole, vidi i suoi occhi schiarirsi.
-Oh, sì- disse. –Per quanto mi piacerebbe un bis di ieri sera, abbiamo davvero dei programmi, quindi ci tocca alzarci e prepararci. Hai bisogno di tornare in camera tua?
Il mio sguardo cadde sui vestiti del giorno precedente, sparsi a terra. Ne avevo bisogno. Per quanto scomodo potesse sembrare, avevamo deciso di non modificare la disposizione delle stanze. Solo perché eravamo due coppie, non significava che le nostre storie dovessero influire sul nostro rapporto col partner. Questo, e poi Hitomiko non l’avrebbe mai permesso. Era sempre molto ferrea su quello che potevamo o non potevamo fare nelle camere, e non a torto. Il solo pensiero di come avevamo trascorso la serata prima di addormentarci mi mandava il viso a fuoco (il bis sarebbe piaciuto anche a me, però).
Accesi il telefono e mandai velocemente un messaggio a Kazemaru per chiedergli di portarmi dei vestiti puliti, poi, mentre Hiroto sceglieva cosa mettersi, mi infilai per primo in bagno. Non avevo addosso nulla a parte l’intimo, che mi sfilai rapidamente prima di farmi una doccia veloce. L’acqua fresca lavò via ogni traccia di pigrizia e desiderio, e cominciai invece a chiedermi quali fossero i misteriosi programmi che Hiroto aveva in serbo per me. Non avevo praticamente nulla su cui basare le mie aspettative. Mi sarei divertito comunque, con Hiroto. Uscii dal bagno in mutande e con un asciugamano sui capelli bagnati. Nel frattempo, Hiroto aveva scelto una camicia bianca a mezze maniche e un pantaloncino, ma li aveva soltanto appoggiati sul letto. Era ancora svestito, in attesa di poter usare la doccia. Mi avvicinai e lo abbracciai da dietro.
-Non mi hai detto dove andremo, o cosa faremo- esclamai. Lui mi sorrise.
-Perché è una sorpresa.
-Nessun indizio?
-Va bene. È un posto dove siamo già stati.
Lo guardai accigliato. –Sai che non restringe molto il campo.
-L’indizio è solo questo: ci siamo stati assieme- rispose, scrollò le spalle. Si voltò nell’abbraccio, tenendomi le mani, e premette le labbra contro le mie.
In quel momento, Endou aprì la porta della stanza e si paralizzò sulla soglia. Hiroto ed io ci staccammo e lo fissammo.
-Oh merda- disse Kazemaru. –Mamoru, te l’avevo detto che era meglio bussare…
-Ma ho le chiavi!- ribatté Endou, che aveva chiuso istintivamente gli occhi, per chissà quale motivo.
Hiroto sospirò. –Endou, apri gli occhi, non stiamo facendo niente- disse.
-Ci stavamo vestendo- aggiunsi io. Kazemaru ci guardò. Sia Hiroto che io eravamo ancora in mutande, cosa che probabilmente invalidava la mia spiegazione. Kazemaru decise di non commentare e mi allungò i vestiti che mi aveva portato, un pantaloncino e una canottiera.
Notai che Endou aveva un pallone da calcio sottobraccio.
-Fate una partita? Con questo caldo?- chiesi, accigliato. Endou sembrò riprendere vita: spalancò gli occhi e sorrise, come se avesse dimenticato ogni cosa successa fino a un minuto prima.
-Certo! Il caldo non mi sconfiggerà!- dichiarò. –Mi sento irrequieto se non faccio abbastanza movimento. Facciamo troppo lavoro alla scrivania, non sono abituato!
-In effetti, sei più portato per il lavoro sul campo- osservò Hiroto, evitando delicatamente di menzionare la pila di documenti che Endou aveva sbagliato ad archiviare il mese precedente e che, com’era naturale, erano ricaduti sulle spalle del suo partner. Per fortuna, Hiroto era decisamente più capace in quel tipo di lavori ed era riuscito a smaltire tutto il lavoro in pochi giorni.
-Ecco! Le cose sono state fin troppo calme, di recente- disse Endou. –Non che non sia felice del fatto di non avere più missioni mortali da svolgere. Ce la meritiamo, la pace. Ci meritiamo un po’ meno tutto questo lavoro d’ufficio.- Strinse il pallone in entrambe le mani e lo tese in avanti come se volesse offrircelo. –Allora, giochiamo a calcio? Sono venuto a invitarvi, in realtà!
-Ah, mi dispiace, Midorikawa ed io abbiamo già dei programmi- rispose Hiroto, abbozzando un sorriso di scuse.
-Oh, davvero?- commentò Kazemaru, guardandomi. –Cosa fate di bello? Appuntamento?
-Così sembra, ma Hiroto non vuole dirmi niente!
-Tutto a suo tempo- recitò Hiroto, con una calma degna di un Buddha. Mi venne il dubbio che lo stesse facendo apposta. –Mi dispiace, ragazzi, sarà per la prossima volta. Ma oggi abbiamo tutti il giorno libero, giusto? Potresti chiedere a Burn e Gazel.
Endou annuì con vigore. –Pensavo già di andarci, ma Kazemaru doveva vedere Midorikawa quindi siamo venuti prima qua. Oh, e ho già reclutato Kidou, Gouenji, e le ragazze- spiegò, contando i partecipanti sulle dita della mano. -Beh, siamo già un numero pari, ma se Burn e Gazel accettano possiamo fare quattro contro quattro. È più divertente se siamo di più!
-A Gazel farebbe bene staccare un po’ dal lavoro- osservai. Gazel era una delle persone che più di tutte si era trovata sommersa di lavoro, e per di più non aveva avuto un attimo di respiro da quando era tornato in servizio. Almeno sembrava fosse maturato abbastanza da non usare più la spillatrice come un’arma se Burn lo irritava (per fortuna, visto che Burn lo irritava spesso).
–Non lo vedo da qualche giorno, magari faccio un salto a vedere come sta- aggiunsi, pensieroso.
-Vai pure, io devo ancora farmi la doccia- disse Hiroto. -Ci vediamo giù quando sono pronto.
-Se ti vesti in fretta, ti aspettiamo e scendiamo assieme- mi propose Kazemaru. Annuii ad entrambi e mi sbrigai a prepararmi per uscire.


 
xxx
 


L’ufficio dove lavoravano Gazel e Burn era più ordinato di quanto mi aspettassi, o forse sarebbe stato meglio definirlo... vuoto. Del resto, la stanza era stata praticamente ricostruita da zero, dopo essere stata distrutta da Coyote, congelata inavvertitamente da Gazel e in seguito chiusa e sigillata perché inagibile. L’agency aveva finalmente avuto il tempo e i fondi sufficienti per rimetterla in sesto soltanto una volta chiusi i conti con Garshield, e sospettavo che Gazel avesse avuto suggerimenti a riguardo. Dal momento che molti documenti cartacei erano stati sbrindellati, danneggiati o comunque resi illeggibili, Gazel aveva eseguito un massiccio arricchimento del nostro database elettronico; per questo, erano stati eliminati gli archivi fisici e i pochi fogli rimasti erano stati raccolti in apposite cartelle e conservati in scatole molto meno ingombranti. In sostanza, la stanza sembrava cinque volte più grande e descrivere l’arredamento come minimalista sarebbe stato un eufemismo. Non c’era quasi nessun mobile, ad eccezione di due scrivanie di metallo e due sedie girevoli, in sostituzione di quelle vecchie in legno, e un secchio della spazzatura posizionato tra le due scrivanie. Sulle finestre, al posto delle tende, erano state montate delle tapparelle. Erano state aggiunte anche altre cose: un condizionatore, una fotocopiatrice, un tritacarte e, dietro la scrivania di Gazel, persino un piccolo frigo.
Gazel era seduto su una delle due sedie, il pc spento e le gambe poggiate sulla scrivania. La canottiera e il pantaloncino mettevano in bella vista la pelle che aveva iniziato già ad abbronzarsi, nonostante passasse molto più tempo dentro l’ufficio che fuori. Stava sgranocchiando un ghiacciolo di un colore indefinito e leggendo qualcosa dallo schermo di un tablet. Burn era seduto poco lontano, totalmente abbandonato a terra, con le gambe larghe, la schiena poggiata contro il muro e uno stecchetto di gelato stretto tra i denti. Stava giocando con una playstation portatile, con un’espressione molto concentrata. Sia Gazel che Burn rimasero con gli occhi incollati ai loro schermi quando entrammo nella stanza, anzi forse non avevano neanche sentito bussare.
Nonostante la palese mancanza d’interesse, Endou non perse un minuto di più.
-Ragazzi! Giochiamo a calcio!- esclamò appena messo piede nella stanza. Sollevò la palla sulla testa come un trofeo e rivolse loro un sorriso smagliante. Burn alzò lo sguardo, le dita in pausa sullo schermo. Gazel non si mosse.
-Caldo- disse, senza elaborare oltre, e staccò un pezzo di ghiacciolo coi denti.
-Un po’ di movimento ti farà bene!- ribatté Endou senza perdersi d’animo. Questa volta Gazel lo guardò.
-Devi proprio venire qui ogni volta?- chiese, sollevò un sopracciglio.
-Già- rispose Endou –anche perché alla fine mi dici sempre di sì.
Cominciavo a capire come si fosse abbronzato, nonostante tutto.
Gazel sospirò. –È il mio dannato giorno libero- disse. Endou continuò a fissarlo sorridente.
-Non è un no.
-Dammi almeno il tempo di finire il mio gelato. E mi devo mettere le scarpe chiuse.- Gazel bloccò lo schermo del tablet, lo fece scivolare nel cassetto della scrivania e ce lo chiuse a chiave. Finì il ghiacciolo morsi e ne lanciò lo stecchetto nella spazzatura.
-Io sono già pronto- disse Burn, mettendosi in piedi con un balzo. Lasciò la playstation sulla propria scrivania, buttò lo stecco del gelato e si inginocchiò vicino al frigo, dal quale tirò fuori una bottiglietta di gassosa alla ciliegia. Gazel la occhieggiò disgustato, poi tornò a cercare le scarpe.
-Come fai a bere quella roba? Ha un sapore così… strano- borbottò.
Mi aspettavo che Burn contestasse, invece si limitò a scrollare le spalle e stappare la bottiglia. Ne bevve quasi metà in un colpo, poi si pulì la bocca con il dorso della mano e disse:- Le tue scarpe sono vicino a quelle scatole. Le hai lanciate lì stamattina.
-Ah, ecco. Potevi dirmelo subito- replicò Gazel. Fece una pausa, poi aggiunse sottovoce un “grazie” e attraversò la stanza per andare a prendere le scarpe. Burn sorrise, divertito. Sembravano essersi completamente dimenticati che c’eravamo anche noi.
Kazemaru mi diede una gomitata leggera per attirare la mia attenzione e mi sussurrò:- C’è qualcosa che mi sono perso?
-Non solo tu- bisbigliai in risposta.
Non si poteva semplicemente dire che fossero maturati: c’era qualcosa di diverso nel rapporto tra Burn e Gazel, qualcosa si era trasformato nel loro modo di relazionarsi l’uno all’altro e con il mondo. Non avrebbe dovuto essere così sorprendente. Era stato un anno a dir poco turbolento e la maggior parte di noi aveva visto la propria vita finire sottosopra. Questo era successo anche a Gazel, che aveva recuperato i propri poteri e, con essi, i propri ricordi. Forse era inevitabile che la sua visione del mondo si modificasse. A meravigliarmi di più, invece, era stato il cambiamento di Burn. Dopo il rapimento di Gazel e la morte di Chang Soo, era diventato più tranquillo, meno propenso a scoppi d’ira e provocazioni. Forse anche lui aveva fatto pace con i suoi demoni, di cui non sapevo nulla. Era sempre la solita testa calda, certo, ma a bruciare dentro di lui non era più un fuoco distruttivo. Anzi, di tanto in tanto, nei suoi occhi poteva essere trovata persino qualche traccia di gentilezza, soprattutto quando guardava Gazel.
Gazel ritornò dopo qualche minuto con le scarpe da ginnastica ai piedi.
-È assurdo pensare che il caso Garshield abbia lasciato così tanto di cui occuparsi, considerando che prima non riuscivamo a trovare niente che lo ricollegasse ai suoi crimini. Sapete quanto lavoro mi è toccato negli ultimi quattro mesi?- Gazel sospirò e si massaggiò la fronte, irritato.
–Non appena lo abbiamo preso, improvvisamente tutte le prove della sua colpevolezza hanno deciso di spuntare fuori… dal nulla. Afuro mi ha detto che in Sud Corea hanno ricevuto più di cinquanta testimonianze impreviste, gli hanno invaso l’agency, non sapevano più dove metterli...
-Provo a indovinare. Fino all’arresto erano tutti in silenzio per paura, o per soldi- commentò Kazemaru. Gazel annuì.
-O entrambi i motivi, forse. Poi, dopo che è stata annunciata la condanna a morte, sono venuti fuori tutti insieme, ne sono spuntati migliaia, sparsi per tutto il mondo… Sono persino ricomparsi fascicoli che erano stati insabbiati, cartelle segrete…- disse, scuotendo il capo.
- Sembra non esserci mai fine all’orrore- sbottò Burn, alzò gli occhi al cielo. –È come se qualcuno stesse facendo tutto questo di proposito. Magari ora scopriremo che qualche ex collega di quello stronzo è ancora in circolazione.
-Spero di no, ho già abbastanza da fare- replicò Gazel. Scrutai il suo viso e, finalmente, mi azzardai a fare una domanda che avevo trattenuto per molto tempo.
-Gazel, tu… come stai?- chiesi. Subito avvertii la tensione farsi palpabile. Gazel mi guardò dritto negli occhi. Burn spostava lo sguardo da me a lui, e viceversa, attentissimo. Endou e Kazemaru si fecero da parte.
-Noi… aspettiamo fuori- disse Kazemaru, con tatto, poi uscirono dalla stanza e chiusero la porta.
Passò un altro momento prima che Gazel parlasse. Credevo che anche Burn sarebbe uscito, invece rimase. A Gazel non sembrava importare. Decisi di controllare la mia empatia per rispetto dei suoi sentimenti e il peso della tensione scomparve, lasciando soltanto il mio nervosismo.
-Sono ancora scombussolato, credo- ammise, alla fine. –Ogni tanto mi tornano in mente delle cose… Beh, ero molto piccolo quando è avvenuto l’incidente, quindi credo sia impossibile che io recuperi tutti i ricordi della mia infanzia. Ma mi ricordo di mia madre… e questo per ora mi basta.
Tacque per un momento, poi si appoggiò alla scrivania e abbassò lo sguardo, fissandosi la punta delle scarpe, come se fosse in imbarazzo.
-Sai, inizialmente non volevo ricordarla. Il primo ricordo che mi è tornato, quel giorno… è stato la sua morte. Forse per questo i miei poteri sono esplosi, è successo anche allora. Forse è stata la sua morte a farmi perdere il controllo… Non lo so. Ma avevo paura. Non volevo pensarci, ho cercato di non pensarci per così tanto tempo, anche dopo che è finito tutto- confessò, timidamente. Poi la sua espressione si addolcì.
-Ci sono ancora molte cose che non so, che non capisco. Ma, a poco a poco, hanno iniziato a tornare altri ricordi. Ricordi belli. Adesso, pensando a lei, mi sembra quasi di ricordare il suo calore. I suoi abbracci. Il suo sorriso. Lei è una parte di me. Anche se ho paura, sto lavorando per controllare il mio dono… lo devo a lei e a me stesso.- Sorrise dolcemente. Non avevo mai visto un’espressione tanto rilassata sul suo volto.
–E poi Chang Soo mi ha lasciato… Quando sono andato in Corea, Afuro mi ha dato un fascicolo su di me. Chang Soo aveva raccolto tutta la mia storia e aveva chiesto ad Afuro di darmelo, in caso non potesse farlo lui. Ce l’ho da mesi e non l’ho ancora aperto, ma un giorno lo farò. So che lo farò. Il solo fatto che esista… mi rende felice.
Notai che Burn stava sorridendo, forse imitando inconsciamente Gazel, come uno specchio. Forse perché lui sapeva già tutto. Mi trovai a sorridere anche io.
-Sono felice per te- dissi. Almeno questa storia aveva portato qualcosa di positivo a qualcuno.
Gazel alzò di nuovo lo sguardo. I suoi occhi erano di un azzurro terso e chiaro come un cielo estivo.
-Spero di poter dire lo stesso per te, un giorno- mormorò. –Hai novità su…?
Scossi il capo. I miei sogni andavano e venivano, così come i miei poteri. Da quando mi ero svegliato dopo il coma, sembravano essere spariti di nuovo. Pensare che si fossero stabilizzati sarebbe stato troppo ingenuo. Avevo invece la sensazione fossero solo assopiti, da qualche parte dentro di me. Gazel e Burn mi rivolsero un’occhiata di comprensione.
-Spero anch’io che si risolverà, un giorno- dissi. –Intanto, magari, potrei provare ad andare da uno psicologo vero- aggiunsi, in tono scherzoso. Il mio tentativo di alleggerire l’aria fu ben accolto: Burn ghignò, mentre Gazel finse di essere offeso e mi diede un pugno sul braccio, senza forza.
-Magari- commentò. Non aggiunse altro, ma stava sorridendo.
Poco dopo, la porta si aprì e Kazemaru fece capolino.
-Pronti ad andare? Midorikawa, Hiroto è qui- disse.
-Arrivo subito- risposi, mi girai verso Gazel e Burn, ma loro non mi seguirono subito. Burn mi fece cenno di andare avanti. Annuii. Poco prima di voltarmi, intravidi un movimento, Gazel che prendeva la sua mano. Le labbra di Burn si curvarono in un sorriso.
-Pensavo che non ti piacesse il sapore- lo sentii dire.
-Sta zitto- lo redarguì Gazel senza troppa convinzione. Chiusi la porta alle mie spalle proprio mentre i due ragazzi annullavano lo spazio che c’era tra loro con un bacio.



 
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Non potevo credere ai miei occhi.
-Il Luna Park? Quel Luna Park? Sul serio?- esclamai, probabilmente a voce troppo alta. Una signora che stava cullando il figlio piccolo accanto a me mi gettò un’occhiataccia. Hiroto le rivolse un sorriso di scuse, poi mi prese per mano e attraversammo la strada.
-Non vedevo l’ora di fare un giro sulle tazzine. L’ultima volta ci siamo proprio divertiti- disse, ironico, e scoppiò a ridere. Non riuscii a trattenermi a mia volta. Quando riuscii a smettere, eravamo già in fila per entrare, circondati da famigliole con bambini e bambine urlanti e da altre coppie.
-Beh, la sorpresa è riuscita, mi hai davvero sorpreso- ammisi. –Ma come mai qui? Vuoi davvero fare un giro sulle tazzine?
-Certo- disse lui. –Quello, e poi vorrei sovrascrivere gli altri ricordi che ho di questo posto. Con te.
Continuava a tenermi per mano, incurante di occhiate altrui. Mi rendeva felice.
Appena entrati, fui io a trascinarlo verso le tazzine. Sicuramente l’addetto trovava strano che due ragazzi belli cresciuti volessero entrare su quella giostra, ma non ne mostrò segni sul volto. Ci sedemmo in una delle tazze più grandi, nella quale stavamo giusto un po’ meno stretti, con le gambe piegate contro il petto. Era una tazza rosa confetto. Mi abbracciai le ginocchia e ci appoggiai la guancia.
-Sai, questo è il posto in cui ho capito di essere innamorato di te- confessai, sincero. Hiroto mi guardò, sorpreso, e un lieve rossore si diffuse sul suo viso.
-Tranquillo, lo so che a quel tempo ero l’ultimo dei tuoi pensieri- dissi, accennai una risata.
Hiroto scosse il capo ed abbassò lo sguardo, quasi con timidezza.
-Oh, no, non è affatto vero. Occupavi già abbastanza dei miei pensieri- ribatté.
-Davvero?
-Ti ho baciato io a quel ballo.
-Oh, è vero- non trovai altro da dire, sorpreso.
Hiroto sospirò e alzò gli occhi al cielo, ma sorrideva.
-Lo so. Non è stato molto… da gentiluomo. In realtà, credo di averti confuso un bel po’, con tutti quei segnali misti. Mi dispiace per come mi sono comportato- disse. –Forse lo hai notato, ma sono un po’ lento nelle… questioni di cuore. Insomma, non ho mai fatto realmente qualcosa per farmi notare da Endou. Anche dopo essere stato rifiutato, avrei potuto comunque fare qualcosa. Invece non ho mai fatto alcun progresso, in tutti questi anni. Te l’ho detto, mi piacevi anche allora.
-Vero, me lo hai detto. Comunque mi fa strano pensare che occupassi tanto spazio nella tua testa. L’ultima volta che siamo stati qui, poi mi hai rifiutato. Penso che non fossi l’unico a essere confuso… lo eri un bel po’ anche tu- commentai, ridendo. Hiroto mi guardò negli occhi e mi prese le mani.
-Sì, la strada è stata tutt’altro che facile, ma l’importante è essersi trovati- disse.
Annuii. Intanto, la giostra cominciò a muoversi e la tazza a ruotare insieme alle altre. La musica di sottofondo era allegra e vivace. Ci godemmo il giro in silenzio, tenendoci le mani. Hiroto mi accarezzava il dorso di una mano col proprio pollice, era una sensazione piacevole. Quando il giro finì, impiegammo qualche minuto a districarci e uscire dalla tazza, il che scatenò un’altra fitta di ilarità da parte di entrambi. I bambini ci guardavano confusi e divertiti. L’addetto ci salutò con calore. Appena riuscii a calmarmi, scelsi un angolo un po’ meno affollato e soleggiato per stiracchiarmi. Hiroto fece lo stesso. Quando sorrideva in modo così luminoso, i suoi occhi sembravano brillare. Mi trovai a dovermi trattenere dal baciarlo in pubblico.
-Allora… Mi hai portato qui per parlarmi di qualcosa, vero?- chiesi per spezzare il silenzio. Lo vidi immobilizzarsi per un attimo, ma si rilassò subito.
-Come hai fatto a capirlo?- domandò, curioso.
Feci spallucce. -Forse te lo ricorderai, ma, come ho già detto, mi piace osservarti. E ormai ti conosco da un po’- risposi. Gli offrii la mano e lui la prese senza esitazione.
-Quindi è proprio vero. La tua empatia non è più tornata- osservò con tranquillità.
-No- scossi il capo –non con te. Non riesco a percepire nulla quando sono con te.
-Ti dispiace?
Ci pensai per un po’, poi dissi:- No, non particolarmente. Solo di recente ho imparato a usarla o bloccarla come voglio, ma per anni non è stato così, non è mai stata una mia scelta… È piacevole essere soli nella propria testa, ogni tanto. Comunque, non credo di averne bisogno quando sono con te.- Mi accorsi che Hiroto appariva sollevato. –Per esempio, adesso sei sollevato. Perché?
Lui rise. –Niente di particolare, è solo che…- esitò –Mi sentivo un po’ in colpa, immagino. Credo di aver scoperto perché non funziona più su di me. Penso… Penso di averla annullata, quel giorno. Quando mi hai inseguito e ho usato per sbaglio il mio dono contro di te, ho nullificato gli effetti del tuo su di me. È da allora che non la puoi più usare, giusto?
-Credo che tu abbia ragione- osservai, pensieroso. –Ma non devi sentirti in colpa. A me non dispiace affatto. Anzi, ho cominciato a pensare che sia piuttosto brutto, entrare nel cuore degli altri senza permesso. Io non vorrei che qualcuno lo facesse a me, perciò ora cerco di starne fuori, a meno che non sia necessario.
Hiroto mi rivolse un sorriso più luminoso del sole stesso.
-È per questo che ti amo- disse, e mi fece arrossire.
Prima che potessi dire qualsiasi cosa, però, mi accorsi che eravamo nelle vicinanze della ruota. Eravamo quasi al centro della sua grande ombra. Quella grande giostra che incombeva su di noi mi metteva a disagio ed evocava immagini che non volevo nella mia testa. Improvvisamente, ebbi paura che Hiroto volessi salire e puntai i piedi a terra, fermandomi di botto, nonostante non volessi affatto restare lì.
-La ruota no!- esclamai. Hiroto, costretto a fermarsi insieme a me, si girò a fissarmi perplesso. Rendendomi conto di aver alzato la voce per una sciocchezza, abbassai lo sguardo, imbarazzato, e cercai di pensare ad una spiegazione valida.
-Ho… dei ricordi legati alla ruota. Non voglio- dissi, nervoso. Non era tutta la verità, ma non era una bugia. Mi morsi il labbro inferiore.
Con mio enorme sollievo, Hiroto non mi fece domande; mi portò invece lontano da lì, il più lontano possibile, come se allungare la distanza tra noi e l’oggetto potesse guarirmi all’istante. In effetti, funzionò: allontanarmi mi aiutò a tornare rilassato, anche se non proprio come prima. Quando trovammo una panchina all’ombra, Hiroto mi fece sedere e corse via a comprare qualcosa da bere. Mentre lui era via, mi presi un po’ di tempo per inspirare ed espirare profondamente e sperai che questo bastasse a calmarmi. La mia mente traditrice continuava a sovrapporre immagini del mio passato a quelle del presente, accostando una ruota panoramica grigia e arrugginita a quella del parco. Avrei voluto prendermi a pugni per aver rovinato la nostra uscita.
Hiroto tornò circa cinque minuti dopo, con due bicchieri di tè freddo. Me ne offrì uno, lo ringraziai a bassa voce. Notando il mio umore cupo, Hiroto esitò, poi si sedette accanto a me.
-Scusami, non lo sapevo- mi disse, costernato, scrutandomi.
-Non è colpa tua. Appunto, non potevi saperlo- replicai, scossi il capo. Non ero certo di averlo mai detto a qualcuno.
–Scusa se ho rovinato la giornata…- cominciai, ma Hiroto mi interruppe con un bacio veloce sulle labbra. Mi coprii istintivamente la bocca con una mano e lo fissai incredulo, mentre il sangue mi andava tutto al viso. Anche Hiroto arrossì, come preso alla sprovvista dalla sua stessa audacia. Restammo in silenzio per alcuni minuti. A riempire il vuoto c’erano le urla dei bambini, il fruscio del vento, l’eco distante della musica delle giostre. Le persone intorno a noi camminavano tranquille, ignare o incuranti della nostra presenza.
Abbassai lentamente la mano e bevvi un sorso di tè, esitante. Hiroto sospirò e parve rilassarsi un po’ mentre a sua volta sorseggiava la bevanda. Era dolce e rinfrescante, con una fettina di lime verde che galleggiava sulla superficie, visibile anche attraverso il coperchio di plastica opaco.
-Non hai rovinato niente. Io sono felice. Che tu sia venuto qui con me, intendo. Che tu sia con me, in generale. Sono felice, ecco- soffiò Hiroto, quasi senza respirare. Si fermò a riprendere fiato, bevve un altro po’ di tè. –Volevo parlarti, Midorikawa, ma non è solo per questo che ti ho chiesto di uscire. Mi piace stare con te. Mi piaci tu. Ovviamente vorrei che tu fossi a tuo agio con me, che mi parlassi di tutto quello che vuoi, ma non voglio forzarti. Voglio che tu stia bene e sia felice, va bene?
Mi guardò apprensivo. Annuii e lentamente mi avvicinai a lui, scivolando sulla panca finché le nostre ginocchia e spalle non si toccarono.
-È… complicato stare assieme all’agency. Adoro tutti i nostri amici, sì, e passiamo comunque tanto tempo assieme, ma… In qualche modo, non è mai abbastanza. Penso sia una buona idea continuare a tenere la vecchia disposizione delle stanze, ma vorrei…- Hiroto si fermò, deglutì. –Vorrei… toccarti di più, parlarti di più, la mia testa è così piena di pensieri che a volte mi sembra di scoppiare…
-Quando stavi dormendo… venivo a trovarti tutti i giorni e pensavo sempre, costantemente, a cosa ti avrei detto una volta che ti fossi svegliato. Pensavo che, quando saremmo stati di nuovo assieme, avrei avuto il coraggio di dirti tutto, tutto ciò che sentivo- continuò, serio. –Ma poi mio padre è morto, c’è stato il funerale e… Ho avuto molto a cui pensare. Ho riflettuto su molte cose, riguardo mio padre, riguardo me stesso e… riguardo te, Midorikawa. Ho pensato molto a noi due…
Hiroto inspirò profondamente. -Adesso non possiamo fare molto. Finché saremo minorenni, non possiamo renderci indipendenti. Ma quando cresceremo… quando saremo più grandi, ho pensato… Ho pensato che noi…- Mi posò la mano libera sulla spalla e mi guardò dritto negli occhi, più serio e determinato che mai.
-Midorikawa, quando avremo la possibilità e i mezzi per farlo… vorresti vivere con me? Vorresti… passare il resto della tua vita al mio fianco? Per me, non c’è nient’altro che vorrei di più- dichiarò, e mi lasciò senza fiato. Poggiai a terra il bicchiere e gli afferrai le spalle con entrambe le mani.
-Tu… vuoi vivere con me? Per il resto della… della vita?- ripetei, incredulo e commosso.
-Sì. Voglio renderti felice, se me lo permetterai.- Hiroto non esitò neanche un secondo. –Voglio dirti ogni giorno quanto tu mi rendi felice e condividere tutto con te.
-Io… tu non puoi immaginare quanto io ti ami- dissi e, per dargliene un’idea, lo attirai a me in un abbraccio strettissimo, che quasi gli fece cadere di mano il bicchiere. E lo baciai, anche se solo sulla guancia, fregandomene di eventuali sguardi indiscreti.
-Voglio tutto quello che vuoi tu- esclamai. –Voglio te. Per tutta la vita!
Hiroto si staccò dall’abbraccio, ma solo per mettere da parte il bicchiere, così da avere entrambe le mani libere per stringermi a sé più forte. Affondò il viso nella mia spalla, lo sentii ridere contro la mia pelle. Era radioso ed io lo amavo più di quanto me ne fossi mai creduto capace.
-E soprattutto sai cosa voglio adesso?- Sorrisi, con la bocca premuta contro il suo collo. –Tornare a casa. Perché qui siamo all’aperto e in pubblico ed io voglio baciarti senza interruzioni. Visto che tu sei stato così carino a invitarmi e che siamo venuti fin qua, però, che ne dici se prima facciamo un altro giro?
-Sulla parte delle interruzioni, ho dei dubbi. Ma su tutto il resto sono d’accordo con te.
A poco a poco sciogliemmo l’abbraccio, poi recuperammo i nostri bicchieri e ci alzammo dalla panchina. Non appena lasciata l’ombra, il tè cominciò a perdere la sua freschezza, persino la fettina di lime sembrava soffrire. Mi guardai attorno nel parco, cercando al contempo un cestino e un’altra attrazione su cui salire, o un posto dove fermarci a mangiare. Evitai, per quanto possibile, di guardare verso la ruota, anche se già questo significava che ne ero fin troppo conscio. Poi Hiroto individuò una bancarella che serviva takoyaki fumanti, appena cucinati, e altre delizie di strada, e decidemmo di fermarci a mangiare lì.
-Hai preso tu il tè prima, quindi stavolta faccio io- affermai, Hiroto provò a protestare, ma lo spinsi verso un tavolo da picnic e lo convinsi a sedersi e aspettarmi. M’incamminai verso la bancarella, frugandomi nelle tasche per recuperare tutti i soldi che avevo con me, e mi misi in fila con gli altri. C’erano soltanto tre persone prima di me, e nessuno mi seguì, quindi pensai che non ci fosse niente di male a sporgermi un momento verso il bancone e afferrare qualche tovagliolino da portare al tavolo assieme al cibo.
I pezzi di carta svanirono tra le mie dita, o forse sarebbe meglio dire che si polverizzarono. Per un secondo, fissai il mio palmo vuoto, immobile. Paralizzato. Mi convinsi che il caldo stesse giocando un brutto scherzo alla mia mente. Presi un respiro profondo, tornai al mio posto dietro gli altri e appoggiai la mano sul cordone che delimitava la fila.
Anche questo svanì sotto le mie dita.
I due capi del cordone caddero a terra, come recisi. 
A quel punto, il panico cominciò a montarmi dentro, come un’onda che cresceva sempre di più, fino a soffocarmi. Mi guardai attorno, sperando che nessuno avesse visto cos’era successo, e allo stesso tempo cercando testimoni del fatto, così da accertarmi che fosse accaduto davvero. Che non era solo nella mia testa. La persona in testa alla fila ricevette i propri takoyaki e se ne andò, quelle davanti a me indietreggiarono per farla passare e una delle due, una donna sui quaranta, per poco non mi venne addosso. Nell’istante in cui stava per toccarmi, feci un balzo indietro d’istinto. Lei non se ne accorse. Avevo paura di toccarla, paura che avrei incenerito anche lei. Mi girai e mi trovai a fissare la ruota panoramica, che mi parve grande il doppio di prima.
Un attimo dopo, stavo urlando.
-Hiroto… Hiroto!- gridai il suo nome a pieni polmoni.
Tutti si voltarono a fissarmi stupiti, il venditore, le due donne in fila, i passanti, ma a me importava solo di Hiroto.
Il ragazzo arrivò di corsa e, non appena vide in che stato mi trovavo, mi raggiunse e mi prese il viso tra le mani.
–Midorikawa, Midorikawa, guardami, dimmi cosa succede- mi interrogò, allarmato.
Lottai contro le lacrime per spiegare.
-I miei… poteri…- riuscii a dire soltanto questo, ma Hiroto capì. Il suo sguardo diventò ancora più inquieto. Lo guardai con gli occhi pieni di lacrime.
-Aiutami- lo supplicai. –Non voglio…- Non voglio far del male a tutte queste persone. Non voglio farti del male, pensai, non riuscii a dirlo.
La musica delle giostre non aveva più un suono vivace, spensierato, nella mia testa si mescolava alle note tristi della mia canzone. Le voci delle persone attorno a me si mescolarono con voci che venivano dal mio passato, dai miei ricordi. Prima ancora che Hiroto avesse la possibilità di usare il suo potere, persi conoscenza tra le sue braccia, perché non riuscivo a respirare.






 
**Angolo dell'autrice**
Buongiorno!
Finalmente entriamo nell'arco del protagonista!!! Evviva!!!
Forse per la prima volta nella storia di questa fic, ho dovuto tagliare in due il capitolo perché era troppo lungo e, in qualche modo, influiva sul ritmo della narrazione. Sono un po' emozionata per questa parte finale e mi sono fatta prendere la mano... Era da tanto che non scrivevo così tanto in italiano, e mi sono anche divertita!
Le storie romantiche sono sempre state in secondo piano in questa storia, per via della trama che gradualmente è diventata più pesante e corposa. È stato bello scrivere tante scene romantiche (e un po' zuccherose, se vogliamo), anche se mi dispiace aver dovuto rovinare loro la festa anche stavolta :P 
Che ne pensate del capitolo? Vi è piaciuto?
Baci,
  Roby
 

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Capitolo 49
*** Mission 49. ~Midorikawa's Arc. ***


Oggi, a sorpresa, siccome di angst non ce n'è mai abbastanza (ehm...), ho pubblicato anche qualcos altro oltre questo capitolo... **rullo di tamburi** Una oneshot prequel sui Fubuki! L'ho postata poco fa come parte della serie, potete leggerla qui. È possibile che ne scriverò altre su altri pg, ma non prometto nulla. Ci sono molte cose che vorrei raccontare, ma poi alla fine dipende tutto dalla mia voglia di scriverle, ahah. Se solo ci fosse un modo per estrarre le idee dalla testa trasferirle sul foglio Word per iscritto... Sarebbe inquietante, ma pratico (lol). 
Vi avverto che questo capitolo sarà abbastanza... insopportabile, sotto tanti punti di vista. Quindi fate un respiro profondo prima di immergervi. 





-Non posso credere che sei tornato in ospedale- borbottò Kazemaru. Aveva gli occhi cerchiati di rosso, come se avesse pianto. –Non posso proprio crederci- ripeté, le labbra incurvate in un’espressione più che mesta.
Risposi con una smorfia. In quel momento, non riuscivo a trovare nessuna parola per consolarlo. Mi lasciai scivolare contro il cuscino e mi accucciai nel letto, scalciando via le coperte per il caldo.
Hiroto sospirò. –Non riuscirò mai a convincerti di non aver rovinato la giornata, vero?- chiese.
-Infatti- sbottai, imbronciato.
-Ma non è colpa tua. Ancora non sappiamo bene cosa potrebbe… innescare questa cosa. La prossima volta starò più attento- osservò Hiroto. Mi scostò i capelli con una mano e mi baciò leggermente sulla fronte. Rimasi imbronciato. In quel momento entrò Hitomiko. Tutti ci girammo a guardarla.
-Non hanno trovato nulla di evidente. In tutta probabilità hai soltanto avuto un attacco di panico, per questo hai smesso di respirare e sei svenuto. Per fortuna Hiroto ha eseguito subito il primo soccorso- ci informò Hitomiko.
-Nulla di evidente?- ripeté Kazemaru, confuso.
-A livello fisico, è sano come un pesce- disse Hitomiko. –In teoria, potrebbero anche rilasciarlo subito.
Mi tirai su di scatto e la fissai come se avesse avuto tre occhi.
-Sono pericoloso! Non possono farlo!
-Pensavo che avresti colto al volo l’occasione di uscire- commentò la donna, accigliandosi.
-Beh, sì, io odio stare qui- ammisi. –Ma non posso andarmene a zonzo come se niente fosse, dopo quello che ho fatto!
Mi girai verso Hiroto, cercando la sua mano oltre che il suo sostegno. Lui abbassò lo sguardo, forse rimuginando su quello che era successo. Forse orripilato. Non riuscivo a leggere la sua espressione. Cominciai a farfugliare, troppo agitato per formare frasi sensate.
-Avrei potuto far male a qualcuno, ho avuto davvero paura che… che se qualcuno mi avesse toccato in quel momento… E poi c’era la canzone, quella che sento sempre quando succede, e la ruota e…
-Midorikawa- mormorò Hiroto, interrompendomi –non è successo nulla di grave.
Lo guardai stranito. –Ma io… ho perso il controllo, è stato un attimo, ho toccato quelle cose e si sono… sono sparite, così, davanti a me! Hiroto, tu c’eri, tu sai di che parlo…
-No, no, non è successo nulla di strano- insistette Hiroto, scuotendo anche il capo. Strinse forte la mia mano.
- Non ero molto lontano da te. All’improvviso ti ho sentito urlare e ti ho trovato nel panico, che parlavi del tuo potere, non sembravi neppure in te… E poi sei svenuto.- Sollevò il viso e mi guardò apprensivo. –Ma non c’era niente che non andasse. Se tu dici di aver visto qualcosa, allora… Midorikawa, io penso che tu…
Non completò la frase, ma non ce n’era bisogno. Avevamo tutti capito cosa voleva dire, anch’io, benché non volessi ammetterlo. Ci pensò Hitomiko a rompere quel silenzio imbarazzante.
-Non sono stati riscontrati problemi fisici, ma siamo preoccupati delle allucinazioni, Midorikawa- affermò, si morse il labbro inferiore. -Quello che ti è successo mesi fa potrebbe aver incrinato un delicato equilibrio. Dopotutto, non solo hai rischiato di morire, ma i tuoi poteri sono tornati, e non sappiamo come né perché. Poi sono scomparsi di nuovo e, ancora, non ne sappiamo niente.
-Ho richiesto una consulenza professionale da parte del signor Kudou, visto che è un esperto nel campo dello studio dei doni… Purtroppo, non ho ancora ricevuto una risposta. Nel frattempo, però, credo che dovresti rimanere in ospedale. Il medico ha detto che ti faranno degli altri controlli, vogliono assicurarsi che non ci sia niente che non vada nel tuo… cervello- spiegò.
Aprii la bocca, ma non trovai niente da dire. Stavo ancora metabolizzando le sue parole, che una parte di me, totalmente irrazionale, continuava a rigettare. Avrei voluto che qualcuno, chiunque, mi dicesse che era tutto uno scherzo. L’aria nella stanza era tesa e cupa. Abbassai lo sguardo, soprattutto per evitare quelli dei miei amici.
Allucinazioni. La parola suonava così inopportuna e fuori luogo, eppure… in qualche modo, aveva molto più senso di qualsiasi altra spiegazione. Perché i miei poteri avrebbero dovuto spuntare fuori così, dal nulla? Invece, aveva senso pensare che mi fossi lasciato suggestionare dalla ruota, dai miei ricordi che minacciavano di tornare. Non è successo nulla, aveva detto Hiroto. Ripensai alla reazione delle persone intorno a me in quel frangente. Era proprio così, mi ero inventato tutto, era tutta immaginazione. Allucinazioni.
Tutto il sangue mi fluì al viso per la vergogna. Il fatto che ci fosse una spiegazione, che non avevo messo in pericolo nessuno (tranne me stesso) mi dava un po’ di sollievo.
Peccato solo che fossi pazzo.
-Potete lasciarmi da solo?- chiesi. –Per favore?
Hiroto e Kazemaru si scambiarono una rapida occhiata. Hitomiko non batté ciglio.
-Sicuramente non è grave- disse Kazemaru. –Cerca di stare su, d’accordo?
Mi sforzai di sorridere per non far trapelare le mie vere emozioni.
-Sì, sì, lo so. Vorrei solo un po’ di tempo per pensare- ribattei. –Insomma, sarà solo qualche controllo, non sono nervoso, ma vorrei un po’ di spazio, okay?
Mi rivolsi a Hitomiko, evitando consapevolmente lo sguardo di Kazemaru. Sapevo che, se l’avessi guardato, lui avrebbe capito che stavo mentendo. Probabilmente lo immaginava, comunque, ma volevo evitare un confronto diretto. Misi anche un fermo alla mia empatia, così che i sentimenti di Kazemaru non potessero influenzare i miei e, di conseguenza, farmi sentire in colpa.
Da parte sua, Hitomiko sembrava ben disposta nei miei confronti. Era sempre stata una donna riservata e, per questo, non faceva fatica a comprendere questo mio bisogno di spazio.
-Sì, capisco- disse infatti –e credo sia inevitabile che tu voglia del tempo da solo, per riflettere su tutto questo. Di certo è tutto molto difficile da digerire… Proprio ora che siamo tornati alla pace, poi.- Inaspettatamente, il suo viso si aprì in un sorriso gentile, quasi materno. –Prenditi tutto il tempo che ti serve, Midorikawa. I tuoi amici potranno visitarti a partire da domani, negli orari di visita stabiliti. Intanto, io farò tutto il possibile per aiutare. Proverò nuovamente a contattare Kudou Michiya. Restare a riposo e rifletterci con calma è la cosa migliore che tu possa fare adesso.
Annuii, docile, e mormorai un ringraziamento. Hitomiko mi salutò con un cenno e uscì dalla stanza. Subito dopo, Kazemaru si alzò e mi abbracciò forte, mi sussurrò:- Ci vediamo domani, non stare in ansia, okay?-, poi la seguì. Capii che si era mosso per primo in considerazione mia e di Hiroto, per lasciarci qualche minuto da soli. Non ero sicuro di desiderare questa cortesia, perché Hiroto era la persona che più di tutte mi rendeva vulnerabile.
Per fortuna, sebbene fosse molto preoccupato, Hiroto non cedette alla tentazione di farmi domande. Portò la mia mano, ancora stretta nella sua, alle labbra e la baciò, un bacio leggero e sfuggevole come una farfalla; poi si chinò verso di me e poggiò la bocca sulla mia una, due, tre volte, ogni bacio breve quanto un battito di ciglia. Era così delicato e gentile con me da farmi venire un nodo alla gola. Avrei voluto riavvolgere il tempo, tornare alla mattina del giorno prima, quando tutto andava ancora bene e stavamo insieme in modo spensierato. Non rimpiangevo i bei momenti che Hiroto mi aveva regalato, ma non potevo fare a meno di pensare che se non fossimo andati al Luna Park… Un altro bacio mi impedì di finire il pensiero. Forse Hiroto voleva questo, voleva impedirmi di sprofondare in quel tipo di pensieri. Poggiai la mano libera sulla sua nuca, affondando le dita nei suoi capelli, mettendo in disordine le ciocche rosse volutamente, e lo attirai a me.
Questo bacio durò più a lungo degli altri. Non volevamo lasciare quel tepore così confortante. Le mie paure e i miei dubbi, però, non erano scomparsi; dopo un po’, riuscirono a svincolarsi dall’angolo della mente in cui li avevo momentaneamente cacciati, e tornarono a galla. Lasciai la presa sulla nuca di Hiroto e, allo stesso tempo, feci scivolare la mia mano fuori dall’intreccio con la sua. Mi separai da lui, sebbene lo avvertissi come uno strappo. Hiroto aprì gli occhi, mi guardò e capì in un istante.
-Non mi farai del male- bisbigliò. –Non avere paura per me.
-Non posso- risposi. Non riuscii ad andare oltre, ma sperai che capisse. Era impossibile che smettessi di preoccuparmi o di avere paura. Ironico che i nostri ruoli si fossero capovolti. Premetti una mano contro la sua guancia e la fronte contro la sua per un momento, poi mi staccai completamente. Perché faceva così male? Volevo soltanto proteggerlo. Ma Hiroto mi faceva sentire… Non sapevo come spiegarlo.
-Ci vediamo domani- conclusi. Hiroto esitò, poi annuì e si alzò. Lo guardai uscire dalla stanza, trattenendomi dal chiamarlo finché non scomparve alla mia vista; non appena fui solo, mi lasciai scivolare sotto le lenzuola, mi girai su un fianco e piansi nel cuscino.
 
 
Non toccai quasi per nulla la cena che mi portarono. Non avevo appetito e il cibo d’ospedale mi deprimeva ancora di più. L’infermiera che venne a ritirarlo provò a incoraggiarmi a mangiare almeno il riso in bianco; per non essere costretto a sentire altre ramanzine, afferrai la scodella dal vassoio e mangiai molto lentamente. Ne lasciai comunque un fondo, non me ne importava.
Poggiai la ciotola di riso sul comodino di fianco al letto e mi allungai verso il campanellino che serviva a chiamare l’infermiera, ma prima che potessi farlo, qualcuno aprì la porta della mia stanza. Non era lei, bensì due uomini con lunghi camici bianchi, evidentemente due medici del reparto. Una strana tensione si diffuse nell’aria, segno che almeno uno dei due uomini era parecchio nervoso. Aguzzai i sensi e, soprattutto, la mia abilità empatica: anche se di recente ero diventato sempre più restio ad utilizzarla, restava pur sempre un’arma utile e mi avrebbe permesso di studiare meglio le persone che avevo davanti. Per qualche motivo, non mi sentivo a mio agio.
Il primo uomo a entrare aveva un aspetto del tutto ordinario. Mi salutò e mi fece alcune domande di circostanza, mentre l’altro, semi-nascosto dietro di lui, prendeva chissà quali appunti. Mi sporsi per osservarlo meglio, ma mi ritrassi subito dopo: qualcosa, forse la sua pelle olivastra o gli zigomi fin troppo pronunciati, me lo facevano apparire quasi raccapricciante. La sensazione di disgusto aumentò quando lui si accorse del mio sguardo e mi gettò un sorriso indecifrabile.
-Purtroppo, ho una brutta notizia. Nei tuoi test sono state rilevate delle irregolarità, ci piacerebbe quindi tenerti qui ancora per un po’- mi stava dicendo, intanto, l’altro medico. –Abbiamo informato la struttura che si occupa di te e abbiamo ottenuto il loro consenso. Domattina ti faremo altri controllo, ma stai tranquillo, ti ruberemo pochissimo tempo.
Lo fissai, inespressivo, deciso a restare sulla difensiva, e mi limitai ad annuire. Rubarmi del tempo? Mi prendeva in giro? Non è che avessi chissà che da fare, a parte stare nel letto tutto il giorno; al massimo avrei potuto sgranchirmi un po’ le gambe camminando in tondo, visto che le infermiere rifiutavano ostinatamente di farmi lasciare la stanza, come se fossi stato contagioso.
Il medico si girò verso il collega e gli fece un cenno, poi si diresse verso la porta. Non uscì, rimase in piedi a braccia conserte, in attesa di qualcosa. L’uomo dalla pelle olivastra smise di scribacchiare sul suo taccuino e alzò lo sguardo verso di me, studiandomi attentamente con i suoi occhietti nero carbone. Lo squadrai a mia volta, doveva avere almeno una quarantina d’anni. Notai anche che aveva un filo di ombretto viola sulle palpebre gonfie. Alla fine della sua analisi approfondita, l’uomo mi sorrise e ancora una volta quel gesto di confidenza mi diede i brividi.
-Midorikawa Ryuuji- disse, soppesando le parole. –Hai davvero un bel nome. Ha qualche significato particolare?- chiese. Appariva calmo, educato. Di certo era molto bravo a celare i suoi veri sentimenti, tuttavia con la mia empatia riuscii a percepire certe sfumature del suo reale umore. Divertimento. Eccitazione. Forse mi vedeva come un soggetto terribilmente interessante.
-No, è solo un nome- risposi, secco. –Deve chiedermi altro?- O vuole solo prendermi in giro? Lo fissai con sfida, per fargli capire che non mi sarei fatto mettere in piedi in testa solo perché ero soltanto un ragazzo rispetto a lui. Lui non smise di sorridere.
-No… Sono certo che ci vedremo di nuovo, e molto presto. Dopotutto, dovrai restare qui con noi ancora per qualche giorno- affermò con noncuranza. –Volevo soltanto assicurarmi del tuo stato di salute, così come il mio collega. Spero che dormirai bene… Midorikawa.
Annuii rigidamente. Quella persona mi inquietava molto. Sembrava divertirsi molto, quando non c’era assolutamente nulla di divertente nella mia attuale condizione. Lo guardai scrivere di nuovo qualcosa nel taccuino, morivo dalla voglia di vedere cosa aveva scritto su di me e, al tempo stesso, non ero certo di voler sapere. Una volta che ebbe finito, si voltò e lasciò la stanza assieme al suo collega. Attesi qualche minuto, in caso tornassero, poi mi alzai dal letto e feci un giro nella camera, girando un paio di volte attorno al letto, andando avanti e indietro come un uccellino in gabbia. Dalla finestra, vidi i due medici con cui avevo appena parlato uscire dall’edificio e passeggiare sul vialone d’entrata. Tornai a letto e agitai il campanello per far venire un’infermiera.
A quel punto, non mi restava che andare a dormire. Stendendomi nuovamente sul letto, mi ritrovai a fissare il soffitto e a interrogarmi sul perché fosse accaduto tutto questo. A ben pensarci, non era la prima volta che soffrivo di allucinazioni… Tuttavia, non sapevo cosa le aveva causate. C’erano davvero troppe cose che non sapevo, e riguardavano tutte me stesso. Era l’ignoto, lo sconosciuto, a farmi paura. Se solo avessi conosciuto meglio il mio dono, forse avrei potuto evitare di finire in certe situazioni. Non appena chiusi gli occhi, però, mi tornò in mente quella notte… La notte in cui avevo perso il controllo dei miei poteri, subito dopo averli riottenuti senza sapere come…
No, non volevo sapere. Non volevo affrontare il mio dono. Forse stavo scappando, ma al momento mi sembrava l’unica possibilità, perché avevo ancora il terrore di aprire la porta della mia mente, la mia stanza 101… Non ero pronto. Non volevo sapere. Pensarci era logorante.
Mi addormentai senza accorgermene.


 
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Quando mi svegliai la prima volta, era piena notte e il mio letto si stava muovendo. Socchiusi gli occhi e, ancora insonnolito, sollevai alla cieca una mano per cercare il bordo del letto, in un patetico tentativo di fermarlo. Un’ombra si affacciò davanti al mio volto, qualcuno mi afferrò il polso. Sentii un vago pizzicore, una specie di formicolio, diffondersi lungo il braccio. Qualcuno lo appoggiò di fianco a me, come se non fosse stato mio. In effetti, non lo sentivo quasi più come mio.
-Chi…?- riuscii a dire soltanto questo, con la bocca impastata dal sonno. Poi ripiombai nell’oblio.


 
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Dovevo fare presto. Se mi avessero trovato fuori dalla stanza, si sarebbero arrabbiati di nuovo. Non ci picchiavano mai, ma non perché fossero gentili, piuttosto perché eravamo troppo preziosi per essere “danneggiati”. Un’arma difettosa, per quanto forte, non serve a niente. E questo lo avevamo capito anche noi. Allo stesso tempo, però, non avevano nessuna considerazione di noi come esseri umani, non eravamo niente più che oggetti, materiale da ricerca, un giocattolo da usare al massimo finché non si scaricano le pile. Ai loro occhi, non eravamo niente più di questo. Perciò dovevo correre e tornare al più presto nella nostra gabbia, prima che si accorgessero che avevo trovato nuovamente il modo di uscire, o sarebbero diventati ancora più duri con noi. Se non fossi riuscito a rientrare in tempo e a chiudere la porta in modo perfetto, come se non fosse mai stata toccata, come se l’ennesimo lucchetto non fosse stato manomesso, avrei potuto continuare a entrare e uscire come desideravo anche nei prossimi giorni. Era l’unica libertà che mi restava all’interno del nostro futuro già pianificato. Tastai al buio il muro per trovare la via che ormai ricordavo a memoria grazie al tatto e all’olfatto. C’era sempre odore di chiuso e di stantio, là sotto. Mi infilai tra gli scaffali, agile, toccando gli angoli dei libri per orientarmi. Raggiunsi la porta, ne afferrai la maniglia e la aprii.
 
 
Quando mi svegliai la seconda volta, era pomeriggio e una luce al neon risplendeva fastidiosamente su di me. C’era odore di candeggina e medicinali. Cercai di alzarmi, ma mi sentivo così fiacco da non riuscire a muovermi: piegando le dita delle mani, scoprii che erano fredde e intorpidite. Qualcosa non andava. Girai il capo dove sapevo esserci il comodino, intenzionato a suonare almeno il campanello, raccogliendo le forze che avevo.
Non c’era.
La stanza era totalmente spoglia, fatta eccezione per la branda su cui stavo, e bastò una semplice occhiata in giro per accorgermi che non mi trovavo nello stesso posto di prima: dovevano avermi spostato durante la notte. Era già pomeriggio, avevo dormito tutta la mattina? Perché mi avevano spostato? Mi morsi l’interno della guancia nervosamente. E se dai test fosse emerso qualcosa di più grave di quanto mi avevano detto? Forse non avevano potuto o voluto dirmelo a causa della mia età, forse era questo che intendevano quando avevano detto di aver ricevuto il consenso dell’agency. Forse avevano anche già contattato i Kazemaru, in quanto miei tutori legali. O non ce n’era bisogno, visto che avevano firmato, al tempo, per delegare all’agency tutte le responsabilità del caso? Non sapevo cosa pensare. Continuando a osservare il nuovo ambiente, notai una sola finestra, di piccola dimensione e posizionata troppo in alto perché potessi guardare fuori. Un lungo specchio, che ricopriva quasi l'intera superficie della parete opposta alla finestra, era affiancato da una singola porta di ferro.
Quella stessa porta si aprì poco dopo. A entrare fu il medico dagli zigomi sporgenti, con un’espressione tanto allegra quanto fuori posto ed il suo inseparabile taccuino; l’unica differenza dall’ultima volta che lo avevo visto era che indossava un completo sotto il camice aperto.
-Ah, sono lieto di vederti sveglio! Significa che sei in forma come non mai!- esclamò, come se fossimo stati amici di vecchia data. Cercai di usare l’empatia per leggere il suo stato d’animo, ma ero debole fisicamente e mi costava troppo sforzo controllarla, perciò mi trovai ad essere travolto da un’inaspettata carica di adrenalina e felicità, pura e semplice felicità, che mi lasciò scombussolato.
-Non riesco a credere che ci siamo incontrati di nuovo. È stata una meravigliosa serie di circostanze per il quale sono molto grato... Finalmente qualcuno è riuscito a portare alla luce il tuo dono- proseguì, pacato, mellifluo. –Sono stato così felice di constatare che il tuo potere è… esattamente come mi aspettavo. Potente. Terribilmente affascinante. Meravigliosamente distruttivo. Avevo provato a spiegarlo, anche allora, ma tu continuavi a non mostrare alcuna virtù, non c’erano prove, capisci, alla fine è stata soltanto colpa tua. Ma ora eccoci qua, no?
Lo ascoltavo in silenzio, ancora stordito, ma abbastanza lucido da capire che quest’uomo fosse fuori di testa. Parlava come se mi conoscesse, parlava del passato, ma che ne sapeva lui? Ero certo di non averlo mai visto prima. E trovavo rivoltante il suo modo di parlare e ogni parola che usciva dalla sua bocca violacea. Lui parve leggermi nel pensiero e rispose al mio disgusto con un sorriso ancora più largo. Socchiuse gli occhi e inclinò la testa nel guardarmi dall’alto in basso.
-Tu non hai idea di quello che sei davvero, non è così… Midorikawa? O dovrei chiamarti Ryuuji? O soggetto zero-tredici? È così che ti chiamavano allora, lo sai? Non puoi immaginare il mio stupore quando ho scoperto che eri sopravvissuto… Che eri vivo e vivevi sulla terra, come tutti, come un normale essere umano! Ma tu non sei come tutti. Un “mostro” non può vivere impunito tra gli “umani”. Non sai di cosa parlo, ma pian piano lo capirai. Recupererai tutti i tuoi ricordi perduti, te lo assicuro.
L’uomo si avvicinò al bordo del letto, infilò una mano nella tasca del camice e ne estrasse qualcosa velocemente. Vidi a stento luccicare l’ago nell’istante in cui me lo piantò nel braccio. Cacciai un urlo di sorpresa e dolore, e non riuscii a impedirgli di svuotare la siringa nella mia vena. Qualunque medicina mi avesse somministrato ebbe un effetto immediato, rendendo il mio corpo ancora più fiacco e intorpidito e conciliandomi il sonno. Nonostante davanti ai miei occhi stesse già calando nuovamente il buio, e il mio corpo non si muovesse come volevo, riuscii ad articolare alcune parole.
-Cosa… mi hai…?
-Purtroppo il tuo corpo ha sempre opposto resistenza a qualunque farmaco usassimo per tranquillizzarti o addormentarti. È colpa tua se sono costretto a somministrartene più dosi- mi rispose con falsa apprensione.
–Vedi, il problema è che mi servi privo di conoscenza, Ryuuji. Mi serve che liberi il tuo inconscio, che recuperi i tuoi ricordi il più in fretta possibile, cosicché potrai innescare il tuo potere. Questa volta riuscirò a scoprire tutto su di te e sul tuo dono, finanche come ricrearlo in laboratorio. Dopotutto, a che servirebbe avere questi "doni della natura"- lo disse in tono sarcastico, -se non li usassimo come armi? Lasciami svelare tutti i tuoi segreti!
Scoppiò a ridere. Non riuscivo a seguire il suo discorso, era solo follia. Persi i sensi.
 
 
Pioveva. Il viavai di macchine era continuo, un flusso infinito che copriva la visuale dal marciapiede dove ero seduto. Non sapevo quando o se qualcuno della casa famiglie sarebbe venuto a prendermi: un bambino inquieto, un bambino che scappa, un bambino senza passato è soltanto un peso. Nessuno di loro credeva che potessi avere un futuro, quindi per me esisteva soltanto il presente. Un’auto si fermò. Il mio sguardo cadde quasi istintivamente sul finestrino a me più vicino, vidi subito il bambino seduto sul sedile posteriore. Ci fissammo per un lungo momento, lui stupito, io divorato dalla gelosia. Avrei voluto essere al suo posto.
La portiera dell’auto si aprì e il bambino mi corse incontro sotto la pioggia fitta. 
-Stai bene? Cosa ti è successo?- mi chiese. 
-Niente- dissi, anche se volevo dire: tutto.
Lui si tolse la sua mantellina da pioggia e me la mise sul capo e sulle spalle. Mi irrigidii, non ero abituato a essere toccato, ma lui non parve accorgersene. Mi tese la sua mano. Lo guardai incredulo e sospettoso.
-Andiamo via da qui- disse. Vidi una donna, alle sue spalle, scendere dall’auto, probabilmente la sua mamma. Spostai lo sguardo dal bambino a lei, tentando di leggere le loro intenzioni. Dove volevano portarmi? E lei, era venuta a staccarmi da suo figlio? A rimproverarmi, forse. Il bambino si accorse, questa volta, della mia paura. 
-Non preoccuparti. Vogliamo solo aiutarti- mormorò, la sua voce appena udibile nel rumore della pioggia. La sua mano era ancora tesa verso di me, ma non furono le sue parole a farmi accettare. Fu il suo sguardo, curioso, vivo, ma anche pieno di dolcezza. Quando mi alzai in piedi, un po’ barcollante, la donna mi diede la sua mano per aiutarmi e mi sorrise teneramente. 
 
Cercai di riaprire gli occhi, ma era come se un velo mi avesse oscurato la vista. Il farmaco mi trascinò nuovamente nell'incoscienza e in un altro ricordo.
 
-Ehi, vuoi che ti aiuti ad asciugare i capelli, uhm…?- esclamò all’improvviso il bambino. -Ah, non mi hai ancora detto il tuo nome, non so come chiamarti. Come ti chiami?
Era la domanda più semplice del mondo, eppure mi spiazzò. Non riuscii a rispondere subito. 
Il bambino mi fissava, seduto sul bordo della vasca, e mi misi a contemplare la mia immagine nello specchio per evitare di guardarlo direttamente. Lui non si perse d’animo, oppure non capì che volevo evitarlo. Continuò imperterrito. 
–Io mi chiamo Kazemaru Ichirouta- offrì il suo nome, pensando che così sarebbe stato più facile. Non lo era. Il fatto che Kazemaru Ichirouta avesse un cognome rendeva ancora più evidente la differenza tra lui e me, tra ciò che lui aveva ed io no. Quella piccola crudeltà da parte sua non era stata fatta di proposito, semplicemente non poteva immaginarlo… 
-Ryuuji- mormorai infine. Fissai dritto negli occhi il mio riflesso nello specchio, riappropriandomi del mio nome, l’unico filo che mi legava al mio passato: un tentativo debole e disperato di affermarmi. E poi feci qualcosa che diede una svolta definitiva alla mia vita. Mi trasformai. Mi guardai allo specchio e mi inventai un altro nome. O meglio, un cognome che, decisi, sarebbe stato il mio futuro. 
–Midorikawa- dissi. –Il mio nome è Midorikawa Ryuuji.
 
Il mio passato. Il mio futuro. Tutto sembrava fondersi nel presente, un presente distorto e manipolato da qualcuno. Quanto tempo era passato dall’ultima volta in cui mi ero svegliato? Avevo perso ogni orientamento. L'uomo non c’era più. Ero ancora nella stessa stanza?
Il ritorno dei miei poteri aveva spalancato la porta dei miei ricordi, non solo quelli nascosti, ma anche gli altri, e insieme formavano una matassa confusa e frammentaria che non sapevo districare. O forse era stato il contrario: erano stati i miei ricordi a innescare i miei poteri? Per questo quell'uomo voleva che ricordassi? Non ne ero sicuro. Se fosse dipeso da me, avrei volentieri dimenticato ogni cosa. Avrei dato qualsiasi cosa pur di avere una vita normale, a costo della mia storia e del mio potere. Quel tizio era pazzo. Non c’era niente di bello in quel dono. Avevo paura di toccare qualsiasi cosa. Avevo paura delle persone.
Mi addormentai di nuovo e sognai ancora il mio primo incontro con Kazemaru. Questa volta, però, non appena la mia mano toccò la sua, Kazemaru e sua madre andarono in fumo davanti ai miei occhi. Vidi le loro figure sgretolarsi, annerirsi, diventare cenere. Come figurine di carta. Poi toccò alla macchina, al padre al volante, all’intera strada e infine alla ruota: ogni cosa venne assorbita.
Mi svegliai di scatto con sudori freddi e un urlo spezzato in gola.
-È solo un sogno- sussurrai, premendomi una mano sugli occhi. –Un sogno, non un ricordo. Un sogno, non un ricordo. Un sogno, solo un sogno…
Ma era difficile esserne sicuri.
 
 
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Ero quasi sicuro che dovesse essere trascorsa almeno una settimana. Oscillavo costantemente tra sonno profondo, dormiveglia e ore di insonnia, perciò tenere il conto esatto dei giorni era impossibile, e comunque la mia mente era ormai stremata dai tentativi continui di distinguere sogni e ricordi, sogni e realtà, passato e presente. Tutti i miei sforzi erano per concentrarmi soltanto su una cosa: resistenza. Resistere. Mantenere quel tanto di lucidità sufficiente per non soccombere. Ogni tanto arrivava un medico, o un infermiere, o qualunque diavolo di cosa fossero. Mostri. Questo erano per me. Non li guardavo più come esseri umani. La cosa divertente era che era assolutamente reciproco: lo leggevo nei loro sguardi, cosa pensavano di me. Non mi importava più. Cominciavo a pensare che essere un mostro fosse il giusto prezzo per poter proteggere ciò che ami.
Se quella notte mi fossi trasformato in un mostro, l’avrei salvata.
Sorpreso da quella voce dentro di me, chiesi a me stesso: Chi?
Avrei salvato mia madre.  
Mia madre. Dapprima cercai di immaginarla, poi cominciai a ricordare ogni dettaglio... Aveva i capelli verdi come i miei, li legava sempre in una treccia, e i suoi occhi erano dello stesso colore. Le sue dita erano affusolate, prive di anelli di fidanzamento. Meglio di ogni altra cosa, ricordavo la sua voce piana, la voce di una persona che aveva paura di parlare a voce alta, perché troppo a lungo silenziata, la voce di qualcuno che sa che urlare non servirà a nulla, perché nessuno verrà. In quella gabbia, che allora era tutto il nostro mondo, c’eravamo solo noi due.
-Dai, andiamo insieme, tu ed io…- canticchiavo, steso sulla schiena, con un braccio sugli occhi chiusi e l’altro che penzolava dal bordo del letto.
 
-Dai, andiamo insieme, tu ed io…- canticchiava mia madre sotto voce, mentre con le dita mi spostava i capelli dalla fronte e mi baciava la tempia con delicatezza.
-Mamma- mormoravo, con voce assonnata, cercando di tenere gli occhi aperti. -Diventerò più forte, te lo prometto... Devo proteggerti...- E lei sorrideva con le lacrime agli occhi, e non smetteva di cantare...


Poi la scena davanti a me cambiò...

Eravamo in un luogo stretto, scuro e umido. La puzza era insopportabile, l'odore acre dell'acqua stagnante. Qualcuno mi teneva stretto per le braccia e, nonostante io scalciassi, mi dimenassi, piangessi, gridassi, non riuscivo a liberarmi. Poi di colpo il terreno venne a mancarmi da sotto i miei piedi e una raffica di vento freddo mi arrivò in faccia. Il mondo si capovolse. Sentivo il fruscio di acqua che scorreva. Non c’era altra luce che quella della luna.
Anche al di là del muro d’acqua che l’aveva sommersa, riuscivo a vedere le labbra di mia madre muoversi… ma non stava più cantando.
Un nome, stava gridando un nome. 

Ryuuji, il mio nome.
Lo sentivo distintamente, nonostante l’immagine di mia madre stesse svanendo rapidamente sotto le onde del fiumiciattolo olivastro. Sembrava disperata. Cercai di risponderle, ma la mia bocca e i miei polmoni si riempirono immediatamente d’acqua.

Sì, adesso ricordavo. Il dolore dell’impatto con l’acqua densa e gelida. Mia madre, che urlava il mio nome da qualche parte sopra di me. Non era lei ad affogare, ma io. Mi avevano gettato nel canale dell’acquedotto per liberarsi di me, come un vecchio oggetto che non serve più. Nell’oscurità e nel turbinio di quell’acqua lurida, nessun suono avrebbe potuto raggiungermi.
 
 
 
Mi morsi il braccio per strapparmi all’orrore di quella notte e per soffocare, allo stesso tempo, un urlo. Ero di nuovo confinato in una stanza, di nuovo prigioniero di quelle stesse persone. Scoppiai in un pianto silenzioso quando realizzai che non avrei mai potuto chiederle scusa. Mi girai su un fianco e mi rannicchiai su me stesso sulla branda, respirando con affanno.
 
 
 
Mi dispiace… Mamma, mi dispiace di non aver potuto rispondere, quando mi hai chiamato.

La prossima volta… Se qualcuno chiamerà ancora il mio nome, io…

Questa volta, io…
 
 




 

**Angolo dell'Autrice**
Ebbene, eccoci qui.
Questo è un capitolo molto pesante da digerire, me ne rendo conto. Mi dispiace. È stata dura anche per me scriverlo... ma questa è la storia di Midorikawa e andava raccontata, attraverso la sua voce. Spero di esserci riuscita. 
Non ho altro da dire sul capitolo, eccetto una cosetta.
Sono sicura che lo sappiate già, ma “Midorikawa” in giapponese significa “fiume verde” (suppongo sia per questo che l’adattamento europeo lo ha chiamato “Greenway”, visto che almeno per le prime tre serie di IE hanno puntato molto su una traduzione più o meno letterale dei cognomi giapponesi). Visto che il passato di Midorikawa è piuttosto incerto e lui non ne ha ricordo, ho deciso che aveva più senso per lui che s’inventasse il proprio cognome; in fondo, la madre lo chiama sempre e soltanto per nome e i ricordi di Midorikawa sono strettamente connessi a lei. Per lei Midorikawa era tutto il suo mondo, e viceversa. 
Al prossimo capitolo!
Un abbraccio,
                Roby

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Capitolo 50
*** Mission 50. ~Midorikawa's Arc. ***


aiuto, questo capitolo è venuto lunghissimo asdfsadfgfghj



[Normal POV]


 
 
L’atmosfera tranquilla nella mensa fu interrotta da un rumore di piatti infranti.
Lo schianto fece sussultare la maggior parte dei presenti, compreso Hiroto, che in quel momento era in fila per prendere un vassoio. Si guardò attorno confuso, cercando la fonte del rumore.
Individuò sua sorella per prima: stava in piedi sull’uscio della porta, con un’espressione turbata in volto. Davanti a lei, c’era Kazemaru, il quale aveva ancora un estremo del vassoio nella mano destra. Sporgendosi per guardare meglio, Hiroto vide sul pavimento la ciotola infranta ed un groviglio di ramen sbolliti e altri ingredienti, tutto in una pozza di brodo. Kazemaru era voltato verso la porta e Hitomiko, per cui Hiroto non poteva vedere la sua espressione; riconobbe, però, i tremori che gli scendevano dalle spalle lungo le braccia. Un senso di inquietudine si impadronì di lui. Quasi istintivamente lasciò la fila ed iniziò ad avanzare verso di loro.
A quel punto Hitomiko si accorse di lui, lo chiamò per nome. Hiroto la vide muovere le labbra, ma per qualche motivo la sua mente rifiutò di registrare le parole che aveva appena sentito. Era come se il tempo avesse rallentato e lui fosse diventato capace, improvvisamente, di distinguere ogni singolo battito del proprio cuore. Era una sorta di rimbombo nelle orecchie, che copriva ogni altro suono. Frastornato, riuscì solo a guardare la bocca di Hitomiko aprirsi e chiudersi.

Midorikawa è scomparso.

 
xxx

 
 
La notizia mise in subbuglio l’intera agency; le ore successive trascorserotra una telefonata e l’altra, lentamente, fino all’esasperazione. Eccetto per l’aiuto offerto da Fumiko, la quale le faceva da centralino, Hitomiko si trovò costretta a gestire la situazione quasi interamente da sola, alternando telefonate all’ospedale e a Kudou. Dal canto suo, Hiroto sapeva di doverla aiutare, ma anche volendo non sarebbe riuscito a muovere un muscolo. Sua sorella stessa gli aveva imposto di rimanere fermo, mandandolo a sedersi in sala riunioni assieme agli altri agenti operativi che al momento dell’arrivo dell’orribile notizia si trovavano nella mensa. Oltre a lui, erano presenti Kazemaru, Endou e Gazel.
Hiroto non sapeva come descrivere il proprio stato d’animo. Dal momento in cui aveva sentito quelle parole, non era più stato capace di pensare. Anche in quel momento, mentre se ne stava seduto su una sedia, con le mani intrecciate sul grembo e gli occhi fissi sul soffitto, aveva la sensazione che la sua mente si stesse scomponendo, frammentando, e che tutto il suo mondo, compreso lui stesso, stesse precipitando nel caos. Al momento, tutte le sue energie mentali erano concentrate su una cosa sola: respirare. Ricordarsi come respirare. L’ospedale aveva chiamato l’agency non appena si erano resi conti che il paziente era scomparso, presumibilmente qualche ora dopo l’avvenimento. Avevano già perso fin troppo tempo. Il presentimento che Midorikawa fosse in pericolo pesava come un macigno sul suo petto, impedendogli di respirare.
Fumiko fece capolino nella sala, annunciò:- Kudou-san si sta occupando di una questione importante, ma dovrebbe arrivare a momenti-, poi si allontanò di nuovo.
Apparentemente incapace di restare seduto ancora a lungo, Kazemaru si alzò e cominciò a girovagare senza meta all’interno della sala. Hiroto registrò a malapena il momento in cui gli passò accanto. Provare a parlargli avrebbe probabilmente peggiorato le cose per entrambi. Nessuno all’infuori di Kazemaru avrebbe potuto capire cosa Hiroto stesse provando, perciò qualsiasi parola di conforto da parte sua sarebbe suonata falsa, vuota. Consolarsi a vicenda sarebbe stato privo di significato.
Passò un’infinità di tempo, o almeno così parve a tutti loro, prima che ci fossero aggiornamenti. Fumiko ritornava ogni quarto d’ora circa per accertarsi di come stessero e aggiornarli sulla situazione. Ad un certo punto, Gazel si alzò di scatto e corse fuori dalla stanza; nessuno lo seguì. Qualche minuto dopo, Fumiko arrivò e comunicò che Kudou era arrivato. Finalmente, pensò Hiroto. Guardò sul proprio cercapersone l’orario: un’altra ora era andata. Altro tempo perso. Ma, finalmente, Kudou era lì. Hiroto non sapeva in che modo avrebbe potuto aiutare a chiarire la situazione, ma chiamarlo era stato letteralmente il primo pensiero di Hitomiko, quindi in teoria doveva esserci un senso. In pratica, al momento sarebbe stato disposto ad aggrapparsi a qualsiasi possibilità, visto che comunque brancolavano nel buio.
Quando Kudou entrò nella stanza, non era da solo. Con grande sorpresa di tutti, con lui c’era Fubuki Shirou. Hiroto aveva sentito dire, da voci di corridoio, che Kudou avrebbe trovato una soluzione per i drifter creati da Garshield. Possibile che fosse diventato responsabile anche dei Fubuki? Di Fubuki Atsuya, però, non c’era traccia. In effetti, dei due gemelli, solo Fubuki Shirou era ancora un drifter. Il ragazzo si sedette in silenzio alle prime file, non sembrava essere un problema per nessuno.
Kudou procedette fino a raggiungere, più o meno, il centro della sala; mantenne i pugni rigidi lungo i fianchi e lo sguardo basso per tutto il tempo, come se non volesse incrociare i loro occhi per nessun motivo. Aprì la bocca, esitò, la richiuse.
Il senso di sollievo che avevano provato nel vederlo sfumò immediatamente. Se non si fosse trattato di Kudou, Hiroto avrebbe detto che sembrava… turbato, persino scosso. Non riusciva a spiegarselo e, proprio per questo, lo inquietò. Un brivido freddo gli corse lungo la schiena. Il suo istinto gli diceva che alle brutte notizie ne sarebbero seguite di peggiori. Kudou riprovò a parlare.
-Purtroppo, credo che una persona interessata al potere di Midorikawa abbia scoperto che è vivo e abbia trovato il modo di arrivare a lui- disse, mestamente, e non aggiunse altro.
Kazemaru smise di muoversi e si bloccò dov’era arrivato, a pochi metri da Kudou; indietreggiò, barcollante, e si appoggiò ad una delle sedie per mantenere l’equilibrio. Endou gli offrì un appoggio, ma Kazemaru lo respinse, troppo scosso per registrare chi fosse venuto ad aiutarlo. Kazemaru provò a parlare (forse a chiedere spiegazioni), ma la voce gli mancò. Hiroto si sentì sprofondare nuovamente nel caos. Il suo viso era cereo e i suoi lineamenti rigidi per la tensione. Guardare Kazemaru fu come trovarsi davanti ad uno specchio e vedere la sua stessa paura e la sua stessa disperazione coi propri occhi. Per fortuna, prima che la sua mente potesse cominciare a confezionare scenari sempre più agghiaccianti, Hitomiko intervenne. Hiroto non si accorse di quanto si fosse avvicinata finché lei non mise una mano sulla sua spalla, con fare protettivo.
-Se quello che dici è vero, organizzeremo immediatamente un’operazione di salvataggio- affermò Hitomiko. -Kudou, ti prego di darci più dettagli possibili sulla situazione. Chi è questa persona? Hai idea di dove potrebbe aver portato Midorikawa?
Con lo sguardo ancora rivolto verso il pavimento, Kudou si schiarì la voce.
-Kenzaki Ryuuichi… Era un ricercatore, tuttavia ha perso il lavoro tempo fa, durante un’inchiesta sui crimini che aveva perpetrato ai danni di minori, durante i suoi studi nel settore…- Aggrottò la fronte, pensieroso. -Per il resto, sono incline a credere che stia utilizzando una delle vecchie cliniche per i suoi studi… Anche se abbandonate da tempo, sono le uniche strutture a possedere gli strumenti di cui ha bisogno. Posso redigere un elenco di quelle che si trovano in zona immediatamente, datemi carta e penna.
Fumiko scattò immediatamente per porgergli un blocchetto e una penna. Kudou si sedette e cominciò a scribacchiare furiosamente. Nel frattempo, Gazel rientrò nella stanza: aveva con sé il proprio portatile. Dietro di lui, comparve anche Burn, con un’espressione torva e confusa. Forse Gazel gli aveva accennato la situazione al volo. Hitomiko non perse tempo.
-Gazel, fai subito una ricerca su questa persona, Kenzaki Ryuuichi- ordinò. -Burn, il cavo del proiettore, presto!
I due scattarono subito agli ordini. Burn saltò sul palco, afferrò il cavo e lo srotolò, poi ne lanciò un’estremità a Hitomiko. La donna l’afferrò al volo e lo passò a Gazel, il quale lo inserì nel proprio portatile. Una manciata di secondi dopo, Gazel esclamò:- Trovato!-, mentre Burn accendeva il proiettore. Dopo qualche aggiustamento necessario, lo schermo del PC di Gazel comparve anche sul telo appeso alla parete.
Fu così che, per la prima volta, Hiroto si trovò faccia a faccia con Kenzaki Ryuuichi.
Era un uomo dagli zigomi alti e pronunciati. La sua pelle era così pallida da sembrare quasi grigia e la sua bocca era aperta in un sorriso viscido; se non fosse stato per quei dettagli inquietanti, sarebbe apparso come una persona perfettamente elegante, con i capelli divisi in una riga centrale e un impeccabile completo gessato, con cravatta. Una serpe vestita di tutto punto. I suoi occhi erano due voragini, nere come la pece e privi di ogni emozione.
Non appena li incrociò, Hiroto distolse lo sguardo con un brivido, istantaneamente. Burn, al suo fianco, fece lo stesso e commentò sottovoce:- Cazzo, sembra quasi possa pietrificarti con lo sguardo…
-È schedato- disse invece Gazel. -Era sotto inchiesta anni fa, giusto? Ma non sono mai riusciti a trascinarlo in tribunale, anzi, risulta proprio irrintracciabile… Ci sono altri nomi coinvolti nella stessa inchiesta… Alcuni sono ancora in carcere.- Con un altro click, la foto di Kenzaki venne affiancata da altre: in totale erano una quindicina di uomini e circa cinque donne. In quel momento, Hiroto sentì distintamente qualcuno trattenere il fiato in modo brusco.
Guardandosi attorno, notò con non poca sorpresa che si trattava di Fubuki. Stava fissando, in particolare, una foto sullo schermo, una donna con gli occhi azzurri, chiari come il ghiaccio, che sembravano poterti trafiggere attraverso le lenti degli occhiali e persino attraverso lo schermo. Fubuki mormorò un nome, poi se ne pentì e strinse le labbra in una linea sottile. Come se la parola gli fosse sfuggita contro la propria volontà, come se fosse stato un tabù.
Intanto, Kudou aveva finito di scrivere e Kazemaru passò l’elenco a Hitomiko, la quale lo lesse con attenzione per circa un minuto prima di passarlo a Gazel e di dare nuovi ordini.
-Gazel, fai una rapida ricerca su queste ex cliniche. E dirama una notifica di allerta a tutte le stazioni di polizia nelle zone interessate. Cerchiamo qualunque anomalia, qualunque spostamento. Non deve sfuggirci niente- disse, perentoria. -Con voi altri ci aggiorneremo appena possibile. Purtroppo, in questo momento non abbiamo abbastanza informazioni per muoverci.
Aveva appena finito di parlare, quando all’improvviso Kazemaru si voltò e lasciò la stanza di corsa. Sembrava impossibile, per lui, sopportare oltre. Endou lo inseguì, poi tutti, poco a poco, lasciarono la stanza. Hiroto avrebbe voluto scappare, come Kazemaru. Avrebbe voluto urlare. Invece rimase immobile, pietrificato. Il mondo gli era crollato addosso un’altra volta; ma stavolta, senza Midorikawa, gli sembrava impossibile rialzarsi.
 


 
xxx
 


Passarono tre giorni. Tre giorni interi nella paura e nell’incertezza. Hiroto non riusciva a stare calmo: Midorikawa era l’oggetto di ogni sogno, di ogni pensiero. Non riusciva a darsi pace per non esserci stato quando Midorikawa ne aveva avuto bisogno. L’unico motivo che lo spingeva a mangiare, bere e dormire era che avrebbe dovuto trovarsi in forze quando sarebbero arrivato il momento di muoversi. Inoltre, Hiroto aveva la costante sensazione che Kudou non avesse raccontato loro tutta la verità; la storia dell’inchiesta era piena di vuoti, di interrogativi irrisolti. L’intera situazione era surreale.
Dopo tre giorni, Hitomiko li convocò nel proprio ufficio.
Li aspettava seduta sul bordo della scrivania, con le braccia incrociate sul petto; alla sua destra c’era Kudou, in piedi e rigido come una statua, mentre a sinistra stavano Fumiko e Gazel. Oltre alle persone presenti la volta precedente, inoltre, si erano aggiunti Kidou e Gouenji, Reina e Maki.
-Una delle stazioni di polizia che abbiamo contattato ci ha risposto- dichiarò Hitomiko non appena tutti furono entrati. –Sono stati rilevati movimenti sospetti in un edificio abbandonato ai margini della città, nei pressi di Nagoya. Quando li abbiamo avvertiti, hanno avviato una serie di controlli e hanno scoperto che le videocamere presenti in quella zona sono tutte fuori uso. Ci hanno inviato le coordinate, quindi non perdiamo altro tempo.
Hitomiko li squadrò uno ad uno, come se stesse misurando la loro determinazione. Si soffermò un attimo di più su Hiroto.
-Vedo dai vostri sguardi che siete pronti. Avete già un motivo per cui lottare, non devo aggiungere nient’altro. Ora darò gli ordini- disse.
-Yagami, Sumeragi, Gazel e Burn saranno con me. La polizia di Nagoya ha acconsentito a collaborare, ma dovremo recarci lì per ottenere un’autorizzazione ufficiale. Purtroppo siamo fuori giurisdizione, per cui i possessori di doni hanno bisogno di permessi per muoversi liberamente.
Si fermò, riprese fiato, poi proseguì:- Useremo dei mezzi anonimi per passare inosservati. Hiroto, Kazemaru, Endou, Gouenji, Kidou, voi andrete con Kudou-san, che vi accompagnerà in auto fino a destinazione. Una volta ottenuti i permessi, sarete voi ad infiltrarvi nella clinica e recuperare Midorikawa. Partiremo il prima possibile, quindi andate a prepararvi e ci ritroviamo qui tra mezz’ora al massimo. Domande?
Inaspettatamente, Gazel alzò la mano. Hitomiko gli fece cenno di parlare.
-So di non essere un agente operativo- disse Gazel, -ma vorrei partecipare alla missione insieme al gruppo di Hiroto. Questa volta vorrei il permesso di agire sul campo.
Hitomiko lo guardò sorpresa, e non solo lei. -Non hai mai espresso desiderio di far parte delle operazioni in questo modo. Credi di avere quello che serve? I tuoi compagni sono preparati a queste situazioni. Tu credi di esserlo?- ribatté, severa.
-Sì. Non la sto prendendo alla leggera, lo giuro. Ci ho pensato in questi ultimi giorni e ho deciso così. Vorrei il permesso di scendere in campo… solo per questa volta- disse Gazel. Il suo sguardo era determinato, ma Hiroto non aveva idea di cosa lo spingesse a tanto. Impossibile dire cosa avesse in mente. Gazel non aveva mai mostrato il minimo interesse nella loro area di lavoro, quindi perché ora?
Hitomiko soppesò la richiesta per qualche minuto; infine, annuì.
-In questo caso…- mormorò. -Kidou, saresti disposto a fare a cambio con Gazel? Saresti l’unico in grado di farlo, considerato che hai effettuato e superato sia la prova da agente operativo che quella da archivista.
Gazel si girò verso Kidou, basito. -Cosa? Non ne avevo idea. Ma si può fare?- esclamò.
-Certo- rispose Hitomiko senza scomporsi. -Solo che nessuno ci riesce, normalmente. Allora, Kidou?
Kidou si sistemò gli occhialini. -Non ho nessuna obiezione a riguardo- affermò.
-Perfetto, allora direi che potete scambiarvi e…
-Un momento!- A quel punto, anche Burn fece un passo in avanti. -Anche io vorrei scendere in campo, per questa volta. Prometto che sarò utile!- esclamò. Per un attimo abbassò lo sguardo sui propri pugni chiusi, poi rialzò il volto di scatto. I suoi occhi ardevano come metallo incandescente. -Voglio rendermi utile! Voglio aiutare i miei compagni. La prego...!- disse e, con stupore di tutti, accennò persino un inchino in avanti.
Hitomiko sospirò.
-Se il tuo desiderio è tanto forte... A dire la verità, sono felice di vedervi così determinati. Significa che siete una vera squadra- commentò. Sembrava sinceramente colpita e, forse, un po’ commossa. -Vedere tanta devozione, tanta voglia di proteggervi a vicenda... Questo mi rende orgogliosa di voi. Burn, Gazel, avete il mio permesso. Fatevi valere.
I due ragazzi si scambiarono uno sguardo sorpreso, poi ringraziarono praticamente all'unisono. Hitomiko scosse il capo.
-Sono io che ringrazio voi. Ora andate tutti a prepararvi- disse, e così tutti fecero.

 
Nonostante gli tremassero le mani, Hiroto si impose di mantenere il sangue freddo. L’orologio scorreva rapidamente e ogni minuto avrebbe potuto essere fatale per Midorikawa. Non poteva permettersi di andare nel panico adesso. Si vestì in modo da essere il più leggero ma protetto possibile, indossò il giubbino antiproiettile e una pistola alla cinta.
Per tutto il tempo in cui furono in camera assieme, Endou non tentò neanche di confortarlo: anche lui era troppo impegnato a prepararsi, sia fisicamente che mentalmente. Solo quando erano sul punto per uscire, il suo partner gli poggiò una mano sulla spalla, lo guardò per un lungo momento negli occhi e poi annuì. Hiroto capì che Endou aveva trovato solo questo modo di incoraggiarlo, laddove le parole non sarebbero bastate, e ricambiò a sua volta con un cenno del capo.
Scendendo nuovamente al piano terra, incrociarono gli altri. Era la prima volta che vedeva Burn e Gazel indossare le divise da agenti operativi ed era… strano, in qualche modo. Ma, dopotutto, l’intera situazione era fuori dall’ordinario. Hiroto immaginò che dovessero essere nervosi e si chiese cosa li avesse spinti a fare quella richiesta, ma decise di non dire nulla. Tutti i presenti avevano delle espressioni cupe. Hiroto scoprì che, più di tutti, la persona che più avrebbe voluto vedere in quel momento era Kazemaru. Perciò, appena scorse la sua coda di cavallo azzurra, Hiroto gli andò incontro e istintivamente cercò la sua espressione. Non sapeva cosa vi avrebbe trovato.
Gli occhi di Kazemaru sembravano ardere come fuoco e la sua bocca era stretta in una linea sottile. Aveva i suoi pugni rigidi lungo i fianchi. Hiroto non gli aveva mai, mai visto un’espressione simile in volto. Kazemaru si era sempre mostrato forte e fiducioso davanti a lui, persino quando Midorikawa era stato in coma; adesso, invece, l’impressione che dava era che potesse andare letteralmente in pezzi da un momento all’altro e che tutti i suoi sforzi fossero raccolti per impedirlo. Mentre camminavano fianco a fianco verso l’uscita, però, Hiroto notò che Kazemaru portava due pistole: una 38, la propria, e una Smith&Wesson che Midorikawa era solito usare.
Nonostante la disperazione nel suo cuore, Kazemaru non aveva perso la speranza. Al contrario, stava scendendo in campo a testa alta. Questa, si disse Hiroto, è la differenza tra essere trascinati dagli eventi ed affrontarli a viso aperto. Una lezione che Kazemaru conosceva benissimo, e anche Gazel e Burn, e tutti gli altri. Hiroto l’aveva imparata da Midorikawa e non l’avrebbe mai dimenticata.



 
xxx



I mezzi “anonimi” di cui parlava Hitomiko si rivelarono essere dei furgoni, il cui lato posteriore era come un’ampia sala d’attesa, con due panchine disposte sui due lati verticali; la parte di guida era separato dai posti posteriori soltanto da un finestrino, per cui chi stava seduto dietro poteva facilmente tenere d’occhio chi era alla guida, e viceversa. Il viaggio durò per circa quattro ore, in totale silenzio. Per tutto il tempo, gli occhi di Kudou rimasero fissi sulla strada.
Hiroto non poteva fare a meno di sbirciare verso di lui più spesso di quanto riuscisse a dissimulare. Gazel sembrava essersi accorto che qualcosa lo turbava, ma si limitò a scoccargli un paio di occhiate interrogative, senza parlare, e Hiroto scosse il capo ogni volta. Gli altri, invece, erano troppo immersi nei propri pensieri per notare cosa succedeva al di fuori di loro. Kazemaru, per esempio, stava seduto con la schiena ricurva in avanti e lo sguardo basso, senza nessun focus particolare, come se si fosse chiuso al mondo. Nonostante fossero seduto tra Endou e Hiroto, non provò a parlare con nessuno dei due, a parte qualche breve scambio di circostanza.
La situazione cambiò poco quando il furgone iniziò a rallentare. Erano intorno alle dieci di sera e il cielo era già buio. Dopo alcune manovre, Kudou parcheggiò il furgone, a sua detta “nelle vicinanze dello stabile”. Hiroto si girò e guardò lungamente il viso dell’uomo nel riflesso dello specchietto retrovisore. Purtroppo, il retro del mezzo non disponeva di finestre, per cui non c’era modo di verificare la loro posizione se non dal posto di guida, e Hiroto non giudicò prudente aprire le porte del furgone. Dopo qualche minuto che stavano fermi, Burn fece una domanda:- Quindi, ora come funziona? Che facciamo? Aspettiamo che arrivino gli altri?
-Aspettiamo- gli rispose Kudou. La sua espressione era inflessibile, ma non più di quanto lo fosse stata prima di mettersi in cammino. Rimase in silenzio per un po’, poi disse:- Kiyama, se c’è qualcosa che devi chiedermi, questo è l’unico momento che avrai.
Quindi era sempre stato consapevole dello sguardo di Hiroto su di lui. Bene. Tutti si voltarono verso di lui e Hiroto prese un respiro profondo prima di parlare.
-Come posso fidarmi di te?- chiese, nel tono più neutro possibile.
Kudou aggrottò la fronte.
-Come posso guadagnarmi la tua fiducia?- ribatté. Rispondere con un’altra domanda era un po’ come non rispondere affatto. A Hiroto non piacque, ma non si lasciò sbilanciare.
-Non ci hai detto tutta la verità. Quindi perché non cominci da quella?- replicò. Incrociò le braccia al petto e si appoggiò alla parete del furgone, senza mai distogliere lo sguardo da Kudou, che vedeva riflesso nello specchietto sul posto di guida. Dal silenzio dei suoi compagni, Hiroto intuì che non era l’unico a farsi delle domande. Kudou abbassò gli occhi sul volante, evitando ancora una volta un contatto visivo.
-Hai ragione. Io… cercherò di spiegare- disse, stranamente remissivo. -Partirò dal principio…
Inspirò a fondo, le sue mani si strinsero attorno al volante.
-Forse non ne avete idea, ma i “doni” sono una scoperta molto recente, i primi drifter si sono manifestati una trentina di anni fa. All’epoca ero un bambino, ne rimasi affascinato e decisi di studiare per diventare un ricercatore. Dieci anni dopo, scrissi una tesi sulla possibile provenienza dei doni. Fu molto apprezzata. Appena dopo essermi laureato, fui invitato a prendere parte ad un progetto sperimentale. Cercavano ricercatori “eccellenti” per produrre i “migliori” risultati…
-Avevamo molti fondi a disposizione, c’erano forti interessi dietro. Ma agli inizi c’era anche uno scopo puramente umanitario. I bambini che trovavamo o ci mandavano erano spesso soli, spauriti, e noi cercavamo di aiutarli a capire, a essere in controllo, mentre studiavamo i loro “doni”. È stato lì che ho conosciuto i genitori di Fuyuka… due persone meravigliose, dall’animo gentile e buono.
Lo sguardo di Kudou si accese per un istante, ma la tenerezza durò solo un istante e poi lasciò posto all’amarezza. -Ma, in realtà, pochi erano davvero interessati ad aiutare- disse. -Perlopiù, si lavorava per avere riconoscimenti e accaparrarsi un po’ di gloria. Alcuni, purtroppo, cercarono di arricchirsi sulla pelle degli innocenti…
-I bambini cominciarono a sparire, o ad ammalarsi. Non riuscivamo a capire cosa fosse andato storto, finché non scoprimmo che alcuni elementi stavano conducendo esperimenti illegali sui drifter specialmente dotati. Una ricercatrice, in particolare, si occupava di viaggiare per il paese e raccogliere i ragazzini, trasferendosi di posto in posto per non destare sospetti. Si chiamava Fuyumi e aveva accordi con cliniche in svariate città. Altri facevano lo stesso. Ma era Kenzaki a condurre davvero gli esperimenti…
-Kenzaki li spingeva oltre i loro limiti… Molti ragazzini venivano sopraffatti dai loro stessi poteri, altri reagivano male ai farmaci… Prima che ci fossero altre vittime, provammo a parlare con tutti, ma senza risultati... Fuyumi fu l’unica a mostrare tentennamenti, ma continuò lo stesso a fare il suo lavoro, finché un giorno non tornò più-. Kudou si fermò, come se stesse riflettendo su qualcosa.
-Midorikawa era uno di quei ragazzi…?- lo incalzò Hiroto. Kudou esitò, poi assentì col capo.
-Ryuuji era alla clinica assieme a sua madre. Lui... aveva manifestato qualche segno quando era molto piccolo- rispose, tentennante. -Tuttavia, quei segni scomparvero quasi subito. Avrebbero dovuto lasciare la clinica. Ma Kenzaki… Kenzaki era ossessionato da loro, credeva di aver visto un enorme potenziale in Ryuuji e cercava disperatamente di riportarlo alla luce…
-Quando Fuyumi scomparve, molti ricercatori si spaventarono e tradirono Kenzaki. Si costituirono alla polizia e vuotarono il sacco nel tentativo di ridurre la pena. Nel caos che seguì, molti fascicoli furono trafugati e i segreti delle nostre ricerche furono venduti nell'ambito militare… Pensiamo che sia così che Garshield Bahyan ne è venuto in possesso.
Tutti s'irrigidirono sentendo quel nome, ma Kudou continuò a parlare.
-Intanto, Kenzaki cominciò a far sparire le prove del suo operato, ma non fu abbastanza freddo, perciò riuscimmo a capire in quale clinica teneva rinchiusi molti drifter, tra cui Ryuuji. Ideai un piano e, insieme ai genitori di Fuyuka e alla polizia, ci intrufolammo nella clinica per liberare tutti. Ci separammo, avremmo dovuto ritrovarci tutti fuori dalla clinica… Ma qualcosa andò storto, e solo il mio gruppo riuscì ad arrivare fuori. Secondo la ricostruzione della polizia, Kenzaki aveva intuito tutto e aveva pagato qualcuno per bloccarci mentre lui portava via i drifter... Ci fu una sparatoria… Molti agenti vennero feriti, mentre i bambini presenti e i genitori di Fuyuka…
La sua voce si spezzò, e Kudou dovette fermarsi. Aveva gli occhi lucidi. Aspettò qualche minuto prima di riuscire a parlare di nuovo.
-Tuttavia, neanche per Kenzaki le cose andarono come previsto: riuscì a darsi alla macchia, ma senza portare con sé nemmeno un singolo bambino- disse Kudou. -Deve aver creduto che Ryuuji fosse morto… E lo credevo anch’io, finché non l’ho incontrato a Tokyo, mesi fa.
-Quando l’ho rivisto, non potevo credere ai miei occhi... Ma ero sollevato… Non mi sono mai perdonato quello che è successo. A causa del mio piano, sono morte così tante persone… Midorikawa e sua madre non erano mai usciti dalla clinica, ma forse, forse in fondo speravo… Speravo che fossero vivi, là fuori, da qualche parte, dove non potevo vederli. Se solo questo fosse vero anche per i genitori di Fuyuka… Ma ho visto i loro corpi coi miei occhi. La verità… è che non sono riuscito a salvare nessuno.
Kudou tacque e, questa volta, non provò neanche a ricomporsi: provava troppa vergogna per se stesso. Nascose il viso tra le mani tremanti e si curvò in avanti, impedendo ai ragazzi di vedere la sua espressione. Calò un silenzio tombale. Tutti stavano ancora metabolizzando il racconto, così difficile da accettare. Nel furgone c’era una tensione soffocante, sembrava che nessuno osasse respirare.
Poi, inaspettatamente, qualcuno parlò.
-Questo è quello che credi tu- disse Gazel sottovoce. Si sporse in avanti, sedendosi sul ciglio del suo sedile, e levò lo sguardo e la voce. -Ma realtà, hai salvato altre persone, non è così?
Kudou si irrigidì, come se quello sguardo tanto intenso, puntato contro la sua schiena, lo avesse trafitto. Gazel lo guardava con qualcosa di simile alla compassione, ma, pensò Hiroto, c’era anche dell’altro. Sebbene avesse cominciato a mostrare più apertamente le proprie emozioni, era comunque difficile capire cosa smuovesse il suo cuore.
-Guarda che l’ho capito, sai? Sei stato tu a parlare a Chang Soo di me... Facendo ricerche tra gli archivi dell'agency, ho scoperto che un ricercatore si era interessato al mio "caso"... Il nome non era stato inserito nel sistema, ma... ma ora sono certo che si tratti di te. Grazie a te ho avuto la possibilità di addestrarmi con Chang Soo, anche se in apparenza non avevo nessun dono... Ma in realtà il mio dono è sempre stato dentro di me, giusto? Esattamente come Midorikawa- disse Gazel a bassa voce. Si morse il labbro, nervoso. -Più ci penso, più non posso fare a meno di trovare somiglianze… Dimmelo, ero anche io come loro, Kudou-san? Ero anch’io… uno di quei bambini…?
Kudou prese un respiro profondo. Gli tremavano le mani.
-No- affermò l’uomo. -Tu no. Non sei mai stato nelle nostre cliniche. Ma è vero che sono stato io a trovarti… Dopo quello che era successo, ho cercato di tenere d’occhio le situazioni di cui conoscevo l’esistenza. E cercando le famiglie che erano state visitate da Kenzaki, sono arrivato a te.
-Non è stato semplice... Tua madre era una drifter molto giovane, ma era intelligente e capace e più volte era sfuggita agli uomini di Kenzaki, trasferendosi di città in città sotto falsi nomi. Gazel fu l’ultimo nome prima che…- Non completò la frase, scosse il capo.
-Tua madre morì, ma anche i sicari che erano stati inviati persero la vita a causa di un incidente inaspettato... qualcosa che all'epoca nessuno seppe spiegarsi.
-La casa fu trovata interamente congelata- mormorò Gazel con un leggero tremito nella voce. Kudou annuì.
-Sì… E tu sei sopravvissuto per miracolo.
Gazel tacque, abbassando lo sguardo e passandosi una mano tra i capelli che gli cadevano sul viso. Hiroto intanto fissava ancora Kudou. Era sicuro che l'uomo stesse nascondendo ancora qualcosa. Credeva di essere ormai vicino a ricomporre l’intero quadro, ma mancava ancora qualcosa…
-Il mio nome- Gazel alzò la voce di colpo. -Se conosci il mio vero nome, dimmelo.
Kudou esitò.
-Fuusuke- mormorò. -Suzuno Fuusuke.
Suzuno annuì, piano.
Hiroto avrebbe potuto giurare che i suoi occhi fossero lucidi. E che la mano di Nagumo si fosse mossa d'istinto per prendere quella di Suzuno, avvolgendo le sue dita con le proprie. Era un gesto così intimo e delicato che Hiroto sentì di dover distogliere lo sguardo, per concedere loro un momento di vulnerabilità. Non avrebbero avuto molte altre opportunità, quella sera. Kudou riprese a parlare.
-Ho dato il tuo nome a Chang Soo perché ti tenesse d’occhio. E, quando ti sei trasferito qui, il compito è passato a Seijirou Kira. Le Spy Eleven sono state messe al corrente della situazione man mano che le hai incontrate lungo il tuo cammino. Ho dato loro tutte le informazioni necessarie, chiedendo in cambio solo di restare anonimo, per poter continuare le mie ricerche... Le tue… circostanze, infatti, mi hanno fatto capire che i doni… dormienti esistevano davvero- confessò.
-Ma, con le nuove ricerche, sono sorti anche nuovi problemi. Molti volevano zittirmi, vennero a cercarmi e Fuyuka rimase ferita per colpa mia. Per questo smisi di fare ricerche. Volevo chiudere gli occhi e le orecchie, dimenticare ogni cosa.
La voce di Kudou tremò.
-Tutto è cambiato, però, quando ho incontrato di nuovo Ryuuji- disse.
-Era come vedere un fantasma, tornato a ricordarmi dei miei errori… Ma lui era vivo e reale. Avrei voluto scusarmi con lui, ma capii subito che Midorikawa non si ricordava di me. Così appresi da Hitomiko Kira che Midorikawa soffriva di amnesia. Per questo, dapprima ho tenuto le distanze; poi ho cercato di avvertirlo di non scavare nel passato. Ma sapevo di non poterlo proteggere per sempre dalla verità, perciò… in questi ultimi mesi, ho ripreso le mie ricerche.
-E hai trovato delle risposte…?- domandò Hiroto. Tutti ascoltavano col fiato sospeso. Kudou deglutì, fece cenno di sì col capo.
-Ci sono… pochissimi casi di persone che hanno recuperato i propri poteri come Suzuno e Midorikawa. È come se… se ci fossero delle condizioni da rispettare. Ogni volta c’è stato un prezzo da pagare...
-Outsider… Così le ho chiamate… Persone fuori dagli schemi, capaci di risvegliare il proprio potere solo dopo aver visto la morte. Deve essere una morte violenta, e loro devono avere dentro di loro il desiderio di vivere ancora. Solo così può avvenire il miracolo: per un attimo il loro cuore smette di battere... e poi il loro dono li riporta in vita. È per questo che non possiamo sapere quanti ne esistano al mondo. E, per il loro bene, mi auguro che non lo scopriremo mai. Inoltre, sono dei poteri troppo forti perché una persona comune, soprattutto un bambino, possa accettarli...
-Per questo ho perso la memoria- lo interruppe Suzuno. -E per questo Midorikawa ha perso la sua.
-Sì… Credo anche che sia successo più di una volta- disse Kudou. -Tutti e due avete avuto un primo risveglio da bambini e un secondo durante quest'anno... La prima volta, il trauma è stato talmente forte da farvi perdere la memoria. La seconda volta, al contrario, i ricordi sommersi sono venuti a galla.
-Penso che la psiche di Midorikawa sia molto fragile in questo momento. Temo che, risvegliando il suo dono, si sia spezzato un delicato equilibrio…
Hiroto si sentì raggelare.
-Quindi sta dicendo che, se Kenzaki farà di tutto per far tornare il suo dono, ciò potrebbe danneggiare Midorikawa per sempre?- chiese.
Kudou tentennò, poi fece un cenno col capo. Hiroto si alzò in piedi di scatto: aveva sentito abbastanza.
-Se è così, non posso aspettare ulteriori ordini- affermò e, sotto lo sguardo sorpreso degli altri, iniziò a raccogliere la propria roba. Mentre stava infilando la pistola nella sua fondina nella cintura che indossava attorno alla vita, Endou gli afferrò il braccio.
-Hiroto?! Non stai mica pensando di entrare… adesso?!- esclamò. Hiroto non rispose, si limitò a fissarlo con determinazione. Kudou si girò verso di lui, visibilmente allarmato.
-No… non puoi- farfugliò. -Dobbiamo attendere ordini da Hitomiko… Se vai adesso, non avrai le spalle coperte! Rischi di incontrare tutti gli uomini che Kenzaki avrà assoldato! Ed io, una notte come quella… non posso lasciare che si ripeta mai più! Non se c’è un’altra scelta…!
-Ma non c’è!- Hiroto scattò, incapace di trattenersi. -Non c’è scelta! Devo andare adesso! Se Midorikawa è in pericolo, devo portarlo subito fuori da lì! Ogni minuto può essere decisivo!
Anche Kazemaru scattò in piedi. Si asciugò il viso in fretta e furia con la manica della giacca, poi si liberò dell’indumento, lanciandolo sul sedile.
-Vengo anch’io. Non è il momento per starsene fermi ad aspettare!- esclamò.
Endou, Gouenji, Suzuno e Nagumo si scambiarono delle occhiate, poi si alzarono a loro volta.
-Mi dispiace, Kudou-san. Di certo gli avvenimenti di quella notte sono stati molto dolorosi, ma... non possiamo restare paralizzati per paura del passato e rinunciare al futuro- disse Suzuno con voce ferma. -L’unica verità, adesso, è che Midorikawa ha bisogno di noi… e noi dobbiamo andare.
-Midorikawa non avrebbe abbandonato nessuno di noi- aggiunse Endou.
-I nostri compagni vengono prima di tutto il resto- concordò Gouenji.
-Midorikawa è importante per la nostra squadra. È importante per noi- disse Nagumo, per quanto sorprendente fosse. Hiroto non aveva idea che Nagumo pensasse quelle cose di Midorikawa, ma ne era felice.
Sentirli difendere Midorikawa gli fece realizzare il vero senso delle parole di Hitomiko: provenivano tutti da contesti e percorsi diversi, ma avevano pianto, riso, combattuto insieme. Questa era la vera essenza di una squadra. E parte del merito era, naturalmente, di Midorikawa.
-Kudou-san… Noi sappiamo cosa stiamo facendo. Anche Midorikawa lo ha sempre saputo. Siamo abituati a difenderci da soli- disse Hiroto, piano. Abbassò lo sguardo e, accorgendosi di avere le mani che tremavano, le chiuse in pugni. Per un attimo, immaginò che Midorikawa fosse lì con lui. Cosa avrebbe fatto Midorikawa, se fosse stato lì?
Conosceva già la risposta. Di colpo gli venne in mente che, quando lui era nervoso, Midorikawa era solito prendergli le mani e stringerle finché non tornavano calde. Era un gesto semplice, eppure così spontaneo e confortante, così adatto alla sua personalità. Quando Midorikawa gli prendeva le mani, Hiroto non poteva che sentirsi invincibile.
-Kudou-san… Scappare dal passato è facile, ma… alla fine, non fa che ferirti di più, io lo so. Ma ho giurato a me stesso e a Midorikawa che non sarei più scappato. Non so da dove vengano i doni, né che scopo abbiano in realtà, e ho odiato il mio per tanto tempo… ma Midorikawa mi ha fatto capire che non importa che potere tu abbia, è come lo usi a fare la differenza. Ed io credo… credo che questi doni debbano essere usati per aiutare le persone.
-Kudou-san, ti prego… Credi in noi. Credi nel futuro. Noi torneremo, con Midorikawa, qualsiasi cosa accada. E contiamo su di te, perché tu faccia da tramite con la nostra agency. Puoi fare questo per noi?- Glielo disse con voce ferma e Kudou, che era rimasto a fissarlo per tutto il tempo con occhi spalancati, increduli, non poté che assentire. Si riscosse, si voltò e strinse le mani sul volante.
-Va bene… Non credo esista persona al mondo capace di restare indifferente dopo avervi sentito parlare così- acconsentì. Tacque per un momento, poi mormorò:- Solo… state molto attenti. Kenzaki cercherà in tutti i modi di tenervi lontani da Midorikawa. Quell’uomo non ha scrupoli, è completamente accecato dai propri obiettivi… E ha fatto perdere le sue tracce per tutto questo tempo, quindi non so proprio quali assi nella manica possa nascondere…
-Staremo attenti- replicò Hiroto. -Kudou-san, anche tu… stai attento. E riferisci ogni cosa a mia sorella appena possibile, per favore. Dille che mi assumo io la responsabilità.
Kudou scosse il capo. -Datevi una mossa- disse, burbero -prima che io cambi idea e vi chiuda qui dentro con le sicure.
I ragazzi non se lo fecero ripetere due volte.
Quando aprirono le porte posteriori del furgone e misero piede all’esterno, però, capirono subito di non essere soli. Qualcuno era già lì, ad aspettarli. La tensione si fece palpabile, mentre si mettevano tutti in guardia. Hiroto sollevò la propria pistola e puntò dove credeva di aver visto qualcosa muoversi. D’un tratto, Gouenji sussultò e si parò tra Hiroto e il presunto bersaglio.
-Non sparare- gli disse, cercando di non alzare troppo la voce. Hiroto gli scoccò un’occhiata interrogativa, ma per il momento gli diede ascolto. Intanto, dall’oscurità emerse una figura familiare.
-Uh?! Cosa ci fai tu qui…?!- esclamò Nagumo, puntando il dito verso Fubuki Shirou.
Il drifter camminava lentamente verso di loro, con le mani sollevate e ben in vista. Era vestito tutto di nero, con svariate cinture sui fianchi e sulle gambe, e stivaletti rigidi a mezza gamba. Quante armi potrebbe nascondere?, si chiese Hiroto. Bastava osservarlo per intuire che Fubuki Shirou non li aveva seguiti per noia o gioco; era venuto per combattere. Restavano parecchi misteri: contro chi o cosa stesse combattendo, per quale motivo, o come avesse fatto a seguirli fin lì. 
Fubuki Shirou si fermò a qualche metro dal loro gruppetto e si rivolse direttamente a Hiroto, ignorando gli altri.
-A quanto ho capito, tu sei il leader- disse, con voce neutra. -Voglio partecipare a questa, ah, come dite voi? Missione. Portami con te, saprò rendermi utile.
-Non ho dubbi a riguardo, ma, se vuoi lavorare con noi, devi dirmi chiaramente che intenzioni hai- ribatté Hiroto, ancora guardingo. Quasi sicuramente non avrebbe avuto da Fubuki le risposte che cercava. L'espressione dell'altro, infatti, non lasciava trasparire nulla , eccetto forse per il suo sguardo, penetrante e selvaggio come quello di un lupo a caccia. 
-Tranquillo, non voglio in alcun modo ostacolarvi. C’è solo una cosa che voglio…- mormorò Fubuki, inclinando leggermente il volto. Alcune ciocche di capelli gli scivolarono sul viso, mentre sulle sue labbra compariva una specie di sorriso, in cui non c’era traccia né di scherno, né di malizia, ma soltanto amarezza. 
-L’unico motivo per cui sono qui è per mettere fine a questa storia. Non voglio altro che spazzare via tutto ciò che resta del passato- disse Fubuki. -È sufficiente come risposta?
Hiroto lo scrutò attentamente per un altro minuto. Aveva la sensazione che Fubuki fosse irritato da qualcosa, ma non aveva modo di confermarlo. Solo Midorikawa avrebbe potuto capire quali sentimenti si celassero davvero sotto la superficie.
Hiroto si voltò verso Nagumo, che continuava a fissare Fubuki con sospetto, e incrociò il suo sguardo; Nagumo sostenne il contatto visivo per qualche secondo, poi annuì, riluttante, e lasciò perdere Fubuki. Quando Hiroto si guardò intorno, vide che gli altri sembravano essere della stessa idea. Sospirò. Non poteva impedire loro di essere diffidenti, l’importante era che fossero disposti a superarlo in nome di un obiettivo comune. Sembrava davvero che avessero deciso, di comune accordo e senza dirglielo, che lui fosse a capo dell’operazione, che fosse lui a dover avere l’ultima parola. Perché si fidano di te, disse la voce di Midorikawa, nella sua testa. Prese la sua decisione.
-Sì. Puoi venire con noi- disse infine. Il volto di Fubuki si illuminò e il suo sorriso diventò quasi genuino. Hiroto spostò lo sguardo da lui agli altri, soppesando tutti i membri di quella squadra.
-Per prima cosa, troviamo il modo di entrare- disse, stava per voltarsi quando Fubuki tossicchiò.
-A tal proposito- disse -c’è un’entrata secondaria, lo sapete?


 
xxx



Esattamente come Fubuki aveva affermato, c’era un’entrata secondaria sul retro dell’edificio: le scale d'emergenza esterne. Stavano in mezzo a un cortile, cinto da una staccionata di legno e pieno di scatoloni di cartone impilati qua e là senza un preciso ordine, bicchieri di plastica e rifiuti organici di vario tipo a terra. Sembrava una discarica. Le scale erano sorvegliate da un gruppo di uomini. Hiroto li osservò attentamente: pochi erano di stazza grande, la maggior parte erano tarchiati, ma con le spalle larghe. Avevano tutti l’aria di saper picchiare duro, sicuramente erano anche armati. Eppure, non erano abbastanza per contrastare loro. Apparivano rilassati, in quanto stavano approfittando del turno di guardia per fumare una sigaretta.
-Gouenji- mormorò Hiroto, senza muoversi né girarsi.
L’attimo dopo, da una delle sigarette uscì non fumo, ma fuoco: il fumatore si scottò le labbra e ululò di dolore. Una dopo l’altra, tutte le sigarette si trasformarono in tanti piccoli tizzoni ardenti, e seguirono grida e imprecazioni e bestemmie. Appena gli uomini gettarono a terra gli oggetti incandescenti e cominciarono a pestarli per spegnere le fiamme, Hiroto seppe che era il momento della mossa successiva. Si girò parzialmente alla propria destra, dove sapeva di trovarlo. Bastò un solo sguardo perché Fubuki scendesse in campo.
Fece un passo in avanti e una scia di ghiaccio si espanse sull'asfalto a partire dalla sua gamba. Il ghiaccio ricoprì tutta l’area del cortile in una manciata di secondi, facendo inciampare e scivolare le guardie, ancora impegnate a saltare sulle sigarette che non riuscivano ad estinguere in alcun modo. Nel momento in cui persero l’equilibrio, i ragazzi gli furono addosso, si avventarono sugli uomini senza paura, sebbene fossero più grossi e piazzati di loro.
Kazemaru fu il primo a buttarsi nella mischia. Era il più veloce fra loro, ma Hiroto non immaginava quanto veloce potesse diventare finché non accadde. In pochi secondi, Kazemaru colpì allo sterno un uomo grosso il doppio di lui, poi gli diede uno schiaffo a mano aperta sotto il mento e finì con una ginocchiata all’inguine. Mentre lui si piegava in due sull'asfalto, con le mani premute sui genitali, Kazemaru era già passato oltre; si abbassò rapidamente per evitare una coltellata e poi gli tirò un calcio sul polso, facendogli cadere l’arma. Un terzo uomo arrivò da dietro, pronto a colpirlo, ma in quel momento sopraggiunse Nagumo, che gli afferrò il polso e glielo piegò. Per un istante i suoi occhi ebbero un guizzo dorato, poi l’uomo urlò e lasciò cadere il proprio coltello in favore di premere una mano sulla scottatura. Lo sguardo di Hiroto fu subito attratto dall'arma a terra: erano coltelli grandi, da cucina o da macelleria. Queste guardie non erano professioniste, ma solo delinquenti, forse sicari, assoldati per il lavoro.  Soprattutto, erano decisamente molto meno spaventosi di qualsiasi drifter di Garshield avessero affrontato. Mentre l'uomo si manteneva il polso dolorante, Nagumo gli diede un calcio in faccia e gli fece perdere in sensi.
Meno tre, pensò Hiroto. Si guardò attorno. Altri sette. Non dovevano permettere a nessuno di loro di scappare e far scattare l’allarme. Dovevano silenziarli in fretta. Kazemaru, Endou, Nagumo e Gouenji stavano combattendo con quattro di loro, uno contro uno. Intanto, notò che il ghiaccio di Fubuki si era arrampicato sulla staccionata e aveva creato una sorta di arco, una sorta di tetto intorno a loro. Fubuki era davvero un osso duro: una barriera come quella avrebbe senza dubbio attutito tutti i rumori.
Qualcuno cercò di tirargli una coltellata al fianco, ma, per fortuna, mancò la mira a causa del ghiaccio sotto i piedi. Grazie al contrattempo, Hiroto lo evitò e lo colpì, forte, con un pugno sotto il mento, poi gli afferrò il braccio, girò su se stesso e lo scaraventò a terra. Nello stesso momento, Suzuno si acquattò a terra e, facendo leva sulle proprie mani, roteò su se stesso e colpì le gambe di una guardia. Quando questi perse l’equilibrio, Hiroto ne approfittò per assestargli un colpo alla nuca da dietro e fargli perdere i sensi.
Suzuno e Hiroto si voltarono, cercando gli uomini rimasti, e ne videro alcuni a terra, svenuti sotto una pila di scatoloni, che gli era crollata addosso dopo che vi erano stati scaraventati contro. Li contarono: ne mancava uno. Era lì, a pochi metri da loro. Tarchiato, pesante e furioso. E con una pistola. Sparò un paio di colpi su Suzuno, che era ancora a terra, ma il ragazzino li evitò spostandosi di fianco e si rimise in piedi con una capriola improvvisata. Questo distrasse il delinquente, permettendo a Hiroto di avvicinarsi abbastanza da colpirlo nel fianco, facendolo barcollare per un momento. Nel frattempo, Suzuno lo raggiunse e, con la mano sinistra, congelò la pistola, con dita annesse; poi strinse la destra in un pugno, lo rivestì di ghiaccio e gli tirò un gancio dritto sotto il mento. Gli occhi dell’uomo si riversarono all’indietro, mostrando il bianco, mentre il suo corpo cadeva all’indietro: sbatté nel ghiaccio e finì K.O. come tutti gli altri.
Fubuki sospirò e sciolse gli effetti del suo dono, letteralmente. Il cortile si riempì di acqua gelida. Il ragazzo entrò nel cortile, camminando lentamente e scavalcando le persone stese a terra come se fossero stati oggetti qualsiasi. Nagumo si voltò a guardarlo, nervoso.
-Come facevi a sapere che c'erano le scale d'emergenza?- chiese.
-Mentre voi parlavate dei vostri problemi nel furgone, io ho fatto un giro d’ispezione qui intorno. Il minimo, no?- rispose Fubuki. -Dall’altro lato ci sono parecchie auto parcheggiate, insomma… C’era la fila all’ufficio assunzioni, uh?- aggiunse, gettando un’occhiata disgustata all’uomo tarchiato che aveva ricevuto una solida lezione da Suzuno.
Hiroto sospirò e si avvicinò alle scale di ferro che si snodavano verso il cielo buio. Era una soluzione rischiosa, ma sicuramente la più rapida. Hiroto fece cenno agli altri di raggiungerli.
-Saliamo, piano- disse.
Salirono in silenzio, attenti a non fare più rumore del necessario. Alla fine della lunga gradinata trovarono una porta d'emergenza. Dovevano essere circa a un secondo piano. Hiroto fece cenno agli altri di coprirgli le spalle, poi l'aprì con cautela. Sbucarono su un corridoio apparentemente vuoto, fatta eccezione per alcune piante in dei grandi vasi e un carrello della biancheria carico di camici bianchi. Hiroto li prese e li distribuì: forse era ingenuo, ma almeno da lontano o di spalle avrebbero potuto passare inosservati. In realtà, non si rivelò poi essere una pessima idea. Per cercare il modo di salire al piano superiore, infatti, furono costretti un po' a girovagare per il piano, ma nessuna delle guardie che videro da lontano li fermò. Hiroto capì in fretta che le guardie non si aspettavano degli intrusi e si accontentavano di vedere, anche solo di striscio, dei camici bianchi. L’impressione che davano era che fossero stati assunti separatamente rispetto ai ricercatori, e che quindi non facessero caso a qualche faccia nuova. A quanto pareva, Kenzaki non aveva né la mente criminale di Garshield, né le sue capacità manageriali; e non era neppure alla stregua di un delinquente esperto. Era un delinquente improvvisato, cieco a qualsiasi cosa all’infuori del proprio obiettivo. Tutto ciò va certamente a nostro vantaggio, pensò Hiroto.
Una volta saliti al piano di sopra, decisero di separarsi per rendere più veloce l'esplorazione. Quando si ritrovarono, dopo circa un quarto d’ora, Endou e Kazemaru arrivarono un po’ in ritardo. Hiroto tirò un sospiro di sollievo vedendoli e subito andò loro incontro.
-Siete in ritardo di quattro minuti. Trovato qualcosa di strano?- chiese, serio. I due ragazzi annuirono.
-Pare che un piano più su ci sia una sorta di ponte che unisce due lati della clinica. Sarà una decina di metri da terra- disse Endou, indicò l’altezza con le mani.  
-E c’è un viavai di ricercatori- aggiunse Kazemaru, concitato. -Sospetto, non pensate? E se Midorikawa si trovasse là da qualche parte…?
-È possibile- commentò Hiroto, pensieroso. Fece cenno agli altri di seguirlo mentre andava verso le scale.


Non fu difficile trovare il suddetto ponte. Interamente placcato di metallo, con ringhiera annessa, costituiva una sorta di sovrappassaggio sospeso tra due corridoi; affacciandosi da uno qualunque dei due lati, si avrebbe senza dubbio avuto una discreta visuale del piano di sotto.
Nascosti dietro un muro, i ragazzi studiarono i dintorni per qualche minuto. Sul ponte c’era una singola guardia, con spalle larghe e imponenti e un manganello appeso alla cintura. Intanto, un uomo e una donna, entrambi in camice bianco, stavano battibeccando dall’altro lato del sovrappassaggio; dopo un po’ lei se ne andò, stizzita, e si incamminò nel corridoio, voltò l’angolo e sparì dalla loro vista. Il suo collega scosse il capo, spense una cicca contro il cestino e la buttò. Poi si appoggiò alla ringhiera del ponte e cominciò a smanettare col proprio smartphone con aria annoiata, seminascosto dietro la guardia. Forse scambiarono due parole di circostanza. Non pareva esserci nessun altro, ma il vero problema era la presenza di due telecamere: una appesa proprio sopra le loro teste, con visuale sul sovrappassaggio, e l’altra che puntava solo sul corridoio.
-Lasciate fare a me- disse Fubuki. Guardò Hiroto per conferma e, quando lui annuì, si mosse.
Per prima cosa, usò il suo potere per creare una sottile patina di ghiaccio sulla lente della telecamera sopra di loro, in modo che la visuale risultasse opaca. Poi, prima che chiunque potesse fermarlo, Fubuki uscì dal nascondiglio e approcciò i due individui. Il rumore dei suoi passi li allertò. Il ricercatore abbassò il cellulare, aggrottò la fronte. Non appariva sospettoso, più che altro sembrava che stesse facendo uno sforzo di memoria. Questo diede a Hiroto la conferma che i ricercatori e le guardie non si conoscevano tutti tra loro. Anche la guardia si voltò verso di Fubuki con aria interrogativa.
-Ehi, quest’area è off-limits per i non autorizzati!- disse il ricercatore.
Fubuki sorrise, annuì, poi sorprese entrambi. Mise le mani sulle spalle della guardia e gli diede una testata in piena faccia. Colto alla sprovvista, l’uomo si premette una mano sul naso già sanguinante e barcollò all’indietro, andando a sbattere contro la ringhiera. Il ricercatore rimase per un attimo a bocca aperta, in preda allo stupore, poi tentò di chiamare aiuto; tuttavia, Fubuki soffocò il suo grido con un rapido pugno alla gola. Il ricercatore annaspò e crollò in ginocchio, lasciando cadere il cellulare per premersi le mani sul collo. Fubuki si chinò rapidamente verso di lui, gli diede un pugno sotto al mento che lo mandò K.O. a faccia in giù sul ponte. Intanto, la guardia si stava riprendendo, perciò Fubuki gli sfilò dalla cintura il manganello e lo colpì alle gambe, spingendolo nuovamente contro la ringhiera. Lo afferrò per la giacca.
-Dimmi una cosa. Da quella parte si tengono gli esperimenti, giusto?- disse. Accennò col mento al corridoio dall’altro lato del ponte. L’uomo scosse il capo. Fubuki stava per incalzarlo, ma un rumore di passi concitati sul ponte li interruppe. Una delle prime porte sul corridoio si era aperta e ne erano uscite altre tre guardie. Stavano arrivando di corsa, armate di manganelli.
-Gli andiamo a dare una mano?- sussurrò Endou.
Hiroto gli mise una mano sulla spalla e scosse il capo. -Aspettiamo ancora un po’...
Intanto, anche Fubuki aveva notato gli altri uomini in arrivo. Tornò a guardare l’uomo che aveva tra le mani, ancora in attesa di una risposta. Lui deglutì e provò a farfugliare qualcosa:- Non lo so, non lo so, ti giuro, io sono solo stato pagato per stare di guardia...!
Fubuki non lo ascoltò fino alla fine. -Che noia- commentò e, nello stesso momento, mollò la presa bruscamente. Non perse tempo a guardarlo cadere. La sua attenzione si era già spostata sugli altri tre; strinse la mano attorno all’impugnatura del manganello rubato ed aspettò che si avvicinassero.
Appena uno di loro tentò di bastonarlo, Fubuki si scansò agilmente e ghiacciò la superficie del ponte col proprio dono. Colti di sorpresa, gli uomini scivolarono, regalando a Fubuki un vantaggio prezioso. Il ragazzo colpì il primo all’altezza del polso, così da fargli perdere la presa, ed afferrò al volo l’arma, con cui menò una sola bastonata all’altezza delle ginocchia. L’uomo crollò in ginocchio, piegato in due, ed uno schiaffo netto sulla nuca gli fece perdere i sensi. Senza perdere un battito, Fubuki tirò l’altro manganello contro l’uomo più lontano: lo centrò in mezzo agli occhi, facendolo indietreggiare e perdere l’equilibrio, così che bastò un semplice calcio a farlo cadere oltre la ringhiera. Non ebbe neanche il tempo di gridare. Con la spinta acquisita dal calcio, Fubuki si buttò a terra, roteò su se stesso e mirò alle gambe della guardia rimasta, strappandogli il terreno da sotto i piedi. Rapidissimo, Fubuki si rialzò, lo afferrò per un braccio e lo lanciò in aria: la guardia fu scaraventata addosso al collega, emise una specie di rantolo e poi rimase immobile. Era finita.
Nel silenzio generale, Suzuno sussurrò:- Se la cava benissimo da solo, mi pare.
-È stato… meraviglioso- soffiò Gouenji, ammirato.
-Terrificante, vorrai dire- ribatté Kazemaru. -Ah, ehi, ci sta facendo segno di avvicinarci…
In effetti, Fubuki stava agitando una mano verso di loro, perciò lo raggiunsero sul ponte. Fubuki si rivolse direttamente a Hiroto:- Non c’è stato il tempo di chiedere informazioni, ma se l’area è limitata… questo potrebbe voler dire che ci siamo vicini.
Hiroto annuì, mentre cercava di contenere le proprie emozioni al pensiero che, alla fine di quel corridoio, avrebbe potuto esserci Midorikawa. Ma essere vicini a Midorikawa significava anche che aumentavano le possibilità di imbattersi in Kenzaki. Hiroto non sapeva come avrebbe reagito nel trovarselo davanti, aveva paura di scoprirlo. Anche Kazemaru sembrava molto teso, ma inspirò a fondo per calmarsi.
Il corridoio era libero, almeno apparentemente, tuttavia abbassare la guardia non sarebbe stato prudente; dopotutto, le guardie erano uscite da una delle stanze.
-State sempre all’erta- disse Hiroto. -Avanziamo piano. Ci ritroviamo in corridoio tra poco.
Gli altri annuirono. Prima di tutto, Suzuno congelò la lente della seconda telecamera, imitando Fubuki, poi si divisero e ispezionarono tutte le stanze.
Hiroto e Suzuno si diressero all’ultima porta, in fondo al corridoio; si scambiarono un’occhiata, poi Hiroto bussò. Si spostarono entrambi lateralmente, appiattendosi contro le pareti. Dopo qualche secondo, la donna di poco prima uscì dalla stanza con un’espressione torva e, forse credendo di parlare con il collega, cominciò a rimproverarlo:- Sei in ritardo, come sempre, tanto lo so che le tue pause sigaretta sono solo una scusa per chattare con delle donne su siti di…- Non riuscì a completare la frase, perché Hiroto le si parò davanti e le premette una mano sul volto: un attimo dopo, la donna si accasciò, addormentata. La lasciarono cadere. Suzuno si scansò, pur di non toccarla; Hiroto ne scavalcò il corpo ed entrò nella stanza.
In mezzo alla stanza trovarono una scrivania di metallo con un PC, diverse siringhe vuote ed alcune pile di scartoffie; appena entrato, Suzuno si sedette e cominciò a rovistare in giro Intanto, due grossi macchinari attaccati ad un muro stavano elaborando dei dati, per poi stamparli su lunghi rotoli di carta bianca in rapida successione. La parete contigua era costituita quasi per l’intera lunghezza da un vetro, come nelle sale interrogatorio della polizia, con l’eccezione di una porta che collegava la stanza direttamente con la successiva.
Hiroto sentì il fiato mozzarsi in petto non appena i suoi occhi si posarono su Midorikawa: il ragazzo era rannicchiato su un fianco su un lettino, apparentemente addormentato, con indosso solo un pigiama bianco da ospedale. Alcuni fili, attaccati alla sua fronte con delle specie di ventose bianche, lo collegavano ad una macchina. Nel suo braccio destro c’erano due aghi, due flebo collegate a sacchetti di nutritivi. Hiroto rinfoderò la propria pistola, poi si lanciò verso la porta e la spalancò. Si diresse a passo spedito verso il letto e, per alcuni secondi, non poté far altro che osservare Midorikawa con un nodo alla gola. Era molto pallido e aveva diversi segni di morsi sulle braccia, come se avesse cercato di soffocare il dolore facendosi del male. Hiroto sentì la propria gola chiudersi al solo pensiero. Gli prese una mano, era fredda, ma al polso c’era battito.
-Non credo che togliendo i fili faremo danni. Sembra che la macchina serva solo a rilevare i livelli di attività mentale- disse Suzuno, facendolo sobbalzare. Hiroto non aveva neanche notato che fosse entrato dopo di lui. Era pericoloso distrarsi così. Deglutì e si sforzò di riflettere.
-Dobbiamo portarlo subito via. Prima i fili- disse. Suzuno annuì e, in un attimo, staccò tutte le ventose. Poi guardò il braccio di Midorikawa, pensieroso.
-Mi serve della stoffa per legargli il braccio, una volta che staccheremo gli aghi. Almeno finché non troviamo dei cerotti o qualcosa del genere- mormorò. Hiroto annuì e, senza esitare, strappò il camice. Suzuno rimosse i due aghi e legò il braccio ben stretto con il tessuto, con un doppio nodo.
Dopo aver passato un braccio sotto le ginocchia di Midorikawa e cinto le spalle con un altro, Hiroto lo sollevò tra le sue braccia. Il viso di Midorikawa si reclinò all’indietro e i capelli sciolti gli caddero sulle guance e sulle spalle come una cascata di acqua verde. Non stava facendo sogni sereni, a giudicare dalla sua espressione torva; la sua fronte si distese un pochino soltanto quando Hiroto ci poggiò le proprie labbra in un bacio leggero e casto. Intanto, Suzuno andò di nuovo alla scrivania, smanettò un po’ col PC, poi prese la pistola e uscì per primo. Solo dopo che lui ebbe dato il via libera, Hiroto lo seguì e si riunirono agli altri nel corridoio.
Alla vista dell’amico, Kazemaru si pietrificò. Endou gli poggiò una mano sulla spalla, incoraggiante, e lui e Gouenji si spostarono per fargli spazio. Solo allora Kazemaru si avvicinò, esitante. Sollevò una mano e accarezzò la guancia di Midorikawa, gli tolse i capelli dal viso. Lo studiò ancora per qualche secondo, poi si schiarì la gola e alzò lo sguardo.
-Perché non si sveglia?- chiese, con la voce roca.
-Credo gli abbiano somministrato una buona dose di tranquillante. C’erano delle siringhe- rispose Suzuno, disgustato. -Ma se avessi a disposizione le cose giuste…
-C’è un’infermeria. Possiamo trovare qualcosa per svegliarlo- suggerì Gouenji. Lanciò un’occhiata al braccio di Midorikawa e aggiunse:- E magari qualche cerotto per quello…
-Bene, andiamo allora, non perdiamo tempo- tagliò corto Hiroto. Gouenji li condusse alla stanza che lui e Fubuki avevano ispezionato e che era adibita, appunto, a infermeria. Mentre gli altri restavano di guardia, Hiroto entrò e adagiò Midorikawa su una sorta di ripiano, con l’aiuto di Kazemaru. Intanto, Suzuno cominciò a frugare nei mobiletti dei medicinali.
-Ew- disse dopo un po'. -Un cauterio... Ci sono modi meno dolorosi per rimarginare una ferita, sono davvero dei barbari.
Hiroto lo guardò e vide che si stava rigirando tra le mani un ferretto dalla curiosa forma a elle. Kazemaru sbuffò, spazientito.
-Puoi concentrarti?- esclamò. Suzuno scrollò le spalle con disgusto, mise da parte lo strumento e continuò a frugare in giro, finché non trovò esattamente ciò che cercava. Armeggiò un pochino vicino al bancone, poi si avvicinò a loro con una siringa in cui traballava un liquido trasparente. Quando afferrò il braccio destro di Midorikawa, Hiroto e Kazemaru lo fissarono allarmati.
-Cos’è?- domandò Kazemaru.
-Sugammadex, l’unico rimedio sicuro contro i miorilassanti- ribatté Suzuno. Aveva girato il braccio in modo che la luce del neon lasciasse intravedere le vene in trasparenza. -Con l’aggiunta di un po’ di adrenalina… lo sveglierà di sicuro. Potrebbe avere una reazione violenta, quindi state pronti- aggiunse, poi senza dire altro infilò l’ago della siringa in Midorikawa. Il ragazzo sussultò e cominciò subito a dibattersi, finché non si inarcò di scatto, annaspando per cercare aria. Hiroto si chinò su di lui, sostenendolo con una mano sulla schiena e l’altra sulla nuca, e chiamò il suo nome.
Gli occhi di Midorikawa si spalancarono: le sue pupille si mossero per alcuni secondi come impazzite e, finalmente, si posarono su Hiroto, chino su di lui, col fiato sospeso. Mentre Midorikawa sbatteva le palpebre più volte, con un’espressione a metà tra lo stordimento e lo stupore, Hiroto cominciò ad avvertire un familiare calore intorno agli occhi. Midorikawa lo guardava intensamente. A un tratto sollevò una mano, gli sfiorò il viso per asciugargli le lacrime e la fece ricadere. Le sue labbra si schiusero appena, e Hiroto ebbe un tremito quando Midorikawa chiamò il suo nome in un soffio di voce.




 
**Angolo dell'Autrice**
Buon pomeriggio. Non mi aspettavo che il 50 uscisse così lungo, mi ha fatta penare abbastanza... Spero che ne sia valsa la pena. 
Quando ho finito di scrivere, mi sono resa conto che tutte le mie scene preferite sono quelle con Fubuki. Mi sono divertita a scrivere di lui, non è stato facile, ma in un certo senso l'ho trovato liberatorio. Se avete letto la oneshot prequel su Shirou e Atsuya, probabilmente siete riusciti a comprendere un po' meglio le motivazioni di Shirou (se non l'avete ancora letta, ve lo consiglio! La trovate qui). Ah, e se vi state chiedendo come abbia fatto Shirou a seguirli... beh, la risposta è la sua hissatsu di difesa, "Snow angel" ("Difesa di ghiaccio" nel dub italiano). In breve: pattinando sul ghiaccio! (lol)
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che abbia soddisfatto alcune curiosità.
Alla prossima,
                Roby

 

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Capitolo 51
*** Mission 51. ~Midorikawa's Arc. ***


 
 
[Normal P.O.V.]
 
 

Midorikawa lo stava ancora fissando.
Dopo aver parlato non si era più mosso; si limitava a guardare davanti a sé con un’espressione vacua e distante, come una persona che non si è ancora destata del tutto da un sogno. Hiroto lo osservava preoccupato.
Poi, di colpo, l’espressione di Midorikawa cambiò e il velo che oscurava il suo sguardo scomparve.
Midorikawa cominciò a divincolarsi con una ferocia tale che Hiroto lo lasciò andare per la sorpresa, cosa di cui si pentì subito. Midorikawa, infatti, non sapeva di essere su un ripiano e, quando si girò su un fianco, cadde sul pavimento con un tonfo. Per un momento rimase raggomitolato lì, sibilando per il dolore, ma non si perse d’animo: rotolò sulla pancia e strisciò verso la parete più vicina, contro la quale si rannicchiò tremando dalla testa ai piedi.
Hiroto, Suzuno e Kazemaru avevano assistito a tutto questo pietrificati dallo shock.
-Cosa... cosa sta facendo?- azzardò Kazemaru.
-Non lo so- disse Suzuno, dubbioso. -Forse non ci riconosce.
-Ha appena detto il mio nome- lo contraddisse Hiroto, ritrovando la voce.
Per un momento rimasero tutti fermi a guardarsi. Midorikawa sembrava estremamente diffidente nei loro confronti, e nessuno sapeva come muoversi. Non avevano previsto una cosa del genere. Suzuno si morse il labbro e guardò verso Hiroto, che si girò verso Kazemaru. Gli fece un cenno con il capo. Kazemaru si voltò verso Midorikawa con un’espressione combattuta, poi gli si avvicinò lentamente e gli tese una mano. Midorikawa non la prese: continuava a fissarli con diffidenza. Kazemaru deglutì.
-Midorikawa... Ryuuji, sono il tuo Ichirouta. Mi riconosci...?
-Sì- rispose soltanto Midorikawa. Sbirciando oltre Kazemaru, i suoi occhi caddero sulla siringa nella mano di Suzuno e la sua bocca si contrasse in una smorfia. Accorgendosi del suo sguardo, Suzuno poggiò lentamente la siringa.
-Ti ho dato qualcosa per svegliarti- disse. Midorikawa abbassò lo sguardo sul proprio braccio e fissò con sorpresa la fasciatura, come accorgendosene solo in quel momento.
Era chiaro che l’iniezione aveva spazzato via la sonnolenza delle droghe; pian piano, Midorikawa stava tornando lucido. Mentre fissava la fasciatura, però, il suo sguardo tornò distante: sembrava quasi essere in ascolto dei propri pensieri. Hiroto non poté fare a meno di chiedersi per quanto tempo fossero scomparsi dalla sua testa, e il sangue gli si raggelò nelle vene. Se non pensare significava non esistere, allora quelle persone avevano quasi annullato l’esistenza stessa di Midorikawa.
-Da quanto sono qui?- gracchiò Midorikawa.
Kazemaru esitò. -Più o meno una settimana.
Midorikawa parve sorpreso anche di quello, ma poi annuì lentamente e andò oltre.
-Cosa ci fate qui?- chiese. Kazemaru, spaesato, si girò verso Hiroto e Suzuno.
-Siamo venuti per te- rispose Hiroto.
Ma evidentemente non era la risposta giusta. Midorikawa scosse il capo e fece un sospiro di stanchezza. Hiroto sentì la bocca dello stomaco chiudersi.
-Stai bene? Senti ancora dolore?- chiese Suzuno.
Midorikawa non rispose. Quando Kazemaru azzardò un passo verso di lui, si ritrasse d’istinto e, non potendo indietreggiare di più, si schiacciò contro il muro. Sul viso di Kazemaru comparve un’espressione ferita.
-Hai paura di me? Ma io non ti farei mai del male...- S’interruppe e scrutò il suo volto -Lo sai, vero? Sai che non ti farei mai del male?- aggiunse, con una nota d’incertezza.
Midorikawa lo fissò in silenzio; poi, pian piano, si staccò dal muro e allungò le mani verso di lui. Senza esitare, Kazemaru si buttò in ginocchio e lo prese tra le braccia. Midorikawa ricambiò l’abbraccio e soffiò il suo nome con il viso premuto nella sua spalla.
-Sono qui. Ci sono qui io ora- rispose Kazemaru con voce soffocata, lottando contro le lacrime. Midorikawa lo strinse più forte, come se avesse voluto scomparire in quell’abbraccio, mentre Hiroto li osservava con una punta di gelosia e Suzuno con evidente imbarazzo.
Dopo un po’, Suzuno simulò un colpo di tosse.
-Dobbiamo andare- disse. Kazemaru prese fiato e si staccò da Midorikawa.
Suzuno prese un rotolo di garza sterile, si sedette davanti a loro a gambe incrociate e cominciò a srotolarla. Midorikawa intuì le sue intenzioni e, prima ancora che Suzuno glielo chiedesse, stese il braccio in avanti, permettendogli di sostituire la fasciatura.
-Pensi di poter camminare?- chiese Suzuno alla fine.
Midorikawa esitò un attimo, poi scosse il capo.
-Posso portarlo io- si offrì Kazemaru. -A te va bene, Ryuuji?
Midorikawa accettò di essere portato a cavallina senza fare tante storie. Quando Kazemaru si rialzò, dopo averlo fatto salire sulla propria schiena, Hiroto decise che era ora di muoversi.
-Seguitemi- disse e, con la pistola alzata, scortò gli altri all’uscita.
Nel corridoio li aspettava il resto del gruppo. Vedendoli, Endou s’illuminò.
-Siete riusciti a svegliarlo! Come sta?
-Non so, ho dovuto iniettargli dell’adrenalina- disse Suzuno.
Gouenji si accigliò. -È per questo che trema? Era davvero necessario?
Suzuno scrollò le spalle. Non sembrava che avesse intenzione di aggiungere altro: ci sarebbe stato tempo per le spiegazioni più tardi. Hiroto sbirciò verso Midorikawa, preoccupato da come avrebbe potuto reagire, ma l’altro non sembrava interessato alla conversazione. Stava guardando la dottoressa che giaceva tramortita in mezzo al corridoio con un misto di curiosità e disgusto, finché, allertato da qualcosa, non alzò di colpo la testa. Il suo sguardo vagò fino a fermarsi su Fubuki.
Era uno sguardo così intenso che Fubuki non poté non accorgersene. Per un attimo parve confuso, poi irritato.
-Piantala- sbottò. -Smettila subito di... di fare quella cosa.
Midorikawa avvampò di vergogna e abbassò lo sguardo come se fosse stato beccato a fare qualcosa che non doveva. Hiroto intuì che Midorikawa doveva aver usato la sua empatia su Fubuki.
-Non è il momento di litigare- intervenne prontamente. Fubuki non si mosse, né smise di fissare Midorikawa in cagnesco, e anche gli altri si accorsero dell'improvvisa tensione. Gouenji si avvicinò subito a Fubuki e gli mise una mano sul braccio.
-Tutto bene?- domandò.
Fubuki rimase immobile ancora per un istante, poi fece schioccare la lingua contro il palato e puntò lo sguardo altrove.
-Certo, detective, tutto bene- disse. Grazie a Gouenji, la tensione calò di una nocca. Hiroto sospirò di sollievo e si rivolse a Midorikawa.
-Puoi usare i tuoi poteri adesso?
-No- mormorò Midorikawa senza guardarlo.
-Aspettate un momento- esclamò Kazemaru. -Sono sicuro non l’ha fatto apposta, vero, Ryuuji?
Midorikawa si nascose dietro di lui e mugugnò una risposta affermativa. 
-In effetti ha sempre usato l’empatia indipendentemente dal resto- osservò Suzuno.
-Di recente aveva imparato a controllarla, però- borbottò Hiroto, ma sapeva che non significava niente. Il Midorikawa che aveva davanti adesso non era la stessa persona che l’aveva tirato fuori dalla sua stanza quando stava attraversando il periodo più buio della sua vita; la persona che avevano trovato nella clinica era una versione molto più timida, cupa e spaurita dell’originale. Ma doveva pur essere rimasto qualcosa di Midorikawa; dovevano solo cercarlo e tirarlo fuori di nuovo.
-Se avete finito di dibattere, io me ne andrei- li interruppe Fubuki in tono aspro. Era chiaramente ancora stizzito, ma non sembrava avesse voglia di litigare, voleva solo andarsene.
-Secondo voi possiamo uscire da dove siamo entrati?- chiese Endou, pensieroso.
-Magari... Ma si accorgeranno presto che siamo qui, ammesso che non lo sappiano già- ribatté Nagumo, lugubre.
-E Midorikawa non è ancora in forze... Che facciamo, Hiroto? - disse Gouenji e, ancora una volta, tutti si girarono verso Hiroto, in trepidante attesa.
Hiroto cominciava a sentirsi sotto pressione. Ebbe la sensazione che anche Midorikawa lo stesse guardando, ma era difficile da dire, visto che l’altro continuava a nascondersi dietro Kazemaru.
-Proviamo a tornare indietro, per il momento. Midorikawa può riposare mentre camminiamo- disse Hiroto. -Kazemaru, per ora continua a portarlo tu. Quando sei stanco diccelo e facciamo a cambio. Intanto voglio Endou, Suzuno e Fubuki davanti con me. Gouenji e Nagumo chiuderanno la fila.
Subito tutti si misero in formazione e tornarono al ponte di ferro. Scorgendo gli uomini ancora stesi per terra, Fubuki si bloccò di colpo, come ricordandosi di qualcosa.
-Oh, a proposito!
Si piegò di scatto, infilò una mano nello stivale destro e tirò fuori un oggetto metallico, scuro e sottile. Prima ancora che Hiroto si rendesse conto di cosa stava accadendo, Fubuki gli mise tra le mani l’oggetto misterioso, che altro non era che uno smartphone.
-L’ho rubato prima a quel ricercatore. Ho pensato che potesse esserci utile- disse. -Ed è anche già sbloccato! Che fortuna, eh?
Hiroto fissò a occhi sgranati il telefono, poi Fubuki.
-Ma quando hai avuto il tempo di...?
Fubuki scrollò le spalle. -Oh, sai, tra una cosa e l’altra.
Hiroto capì che era inutile fare domande. Cominciò a curiosare nel dispositivo, ma dopo poco si rese conto che la maggior parte dei messaggi erano scritti in un linguaggio astruso, fatto di poche lettere, molte abbreviazioni e troppi numeri: forse era una sorta di codice? Inizialmente pensò che potessero riferirsi alle stanze della clinica, ma non ricordava che fossero numerate, per cui escluse subito questa possibilità. Continuando a scorrere, notò anche che alcuni numeri si ripetevano più volte e che uno, in particolare, ricorreva spesso.
-Questo numero, zero-tredici, è ovunque. Cosa significherà?- s’interrogò ad alta voce.
In quel momento Midorikawa si fece scappare un verso di sorpresa.
Hiroto alzò di scatto lo sguardo verso di lui: Midorikawa aveva il viso bianco come un lenzuolo e l’espressione di chi è stato costretto a ingoiare un boccone amaro. Midorikawa si coprì la bocca con una mano, ma ormai era tardi.
-Ehi, se sai qualcosa, sputa il rospo!- sbottò Nagumo impaziente.
-Lascialo stare, Nagumo!- lo rimbeccò Kazemaru. Nagumo gli scoccò un’occhiata torva ed era sul punto di ribattere quando Midorikawa parlò.
-No, Kazemaru, va tutto bene. Sto bene- disse con un’espressione combattuta.
Hiroto esitò un attimo, poi domandò:- Midorikawa... sai cosa significa questo numero?
Midorikawa annuì a denti stretti.
-È il mio numero di identificazione.
In un primo momento la rivelazione cadde in un silenzio sbigottito; poi il gruppo esplose in un coro di esclamazioni indignate, Nagumo si lasciò fuggire una serie di colorite imprecazioni. Gli occhi di Suzuno erano gelidi, il suo viso chiazzato di rosso acceso. Endou e Gouenji strinsero i pugni, tenendo lo sguardo basso. Kazemaru tremava di rabbia. Solo Fubuki rimase calmo, almeno in apparenza: guardava Hiroto con un’espressione indecifrabile.
-Vai avanti- disse in tono incolore.
Hiroto si riscosse dallo shock e si accorse che stava stringendo lo smartphone con tanta forza che la mano era indolenzita. Lentamente, allentò la presa. Una miriade di emozioni lo attraversavano, ma si sforzò di metterci un coperchio sopra e reprimerle; nonostante tutto, doveva mantenere la calma. Prese un respiro profondo e proseguì nella lettura. Più andava avanti, più gli pareva di sprofondare in un’oscurità senza ritorno, ma non si fermò finché non ci fu più nulla da leggere. Solo allora alzò gli occhi e incontrò quelli dei suoi compagni.
-Se i numeri sono persone, tutto è più chiaro... Ma c’è una cosa che mi preoccupa- disse, aggrottando la fronte. -Il numero di Midorikawa non è l’unico a comparire.
-Ce ne sono altri come lui- mormorò Fubuki. Non sembrava sorpreso.
-Forse sono in altre cliniche. Mandiamo un messaggio a Kudou- suggerì Suzuno.
Hiroto prese subito il cercapersone e digitò il messaggio. Sperava davvero che Kudou sapesse come rintracciare le vittime. Midorikawa, intanto, era di nuovo con la testa tra le nuvole.
In quel momento Nagumo si chinò verso Suzuno e chiese:- Ma sicuro che sta bene? Non pare manco lui-. Il suo tono di voce era basso, ma non abbastanza perché Midorikawa non potesse sentirlo.
-Sono solo stanco- sbuffò il ragazzo.
C’era chiaramente dell’altro, ma Midorikawa non sembrava intenzionato a confidarsi. Hiroto avrebbe dato qualsiasi cosa per sapere a cosa stesse pensando.
Uno scalpiccio di passi li distrasse. Una dozzina di uomini arrivò di corsa e sbarrò loro la strada fermandosi proprio all’altra estremità del ponte. Bastava una sola occhiata per capire che non erano affiliati alle altre guardie. Erano tutti vestiti di nero, bardati con casco e giubbotto antiproiettile e armati di pistola, come un vero e proprio plotone.
Senza che Hiroto dovesse dare ordini, in un attimo, Suzuno, Endou e Fubuki formarono una linea di difesa. Gli uomini rimasero fermi a una distanza di sicurezza. Dovevano essere stati avvertiti della presenza di poteri paranormali e, in particolare, sembravano preoccupati di Fubuki; perciò, invece di lanciarsi in un corpo a corpo, aprirono subito il fuoco.
Prontamente Endou evocò la Mano di Luce come muro di protezione, ma così facendo non aveva la possibilità di usare il Pugno di Giustizia, con cui avrebbe potuto fare piazza pulita in un attimo. Dovevano dargli il tempo di cambiare tecnica, pochi minuti sarebbero bastati...
D’un tratto un vento gelido si alzò nella stanza. La parte esterna delle pistole si coprì di brina e, pochi secondi dopo, il fuoco cessò. Gli uomini non potevano credere ai loro occhi: alcuni fissavano scioccati le armi rese inutilizzabili, altri le scuotevano con frustrazione. Guardandosi attorno, Hiroto si accorse che anche le pareti erano state coperte da un sottile strato di ghiaccio. Quando si voltò verso Fubuki, però, vide che il ragazzo stava guardando Suzuno con un’espressione che tradiva un pizzico d’invidia.
-Non male- disse. -Hai congelato i proiettili?
Suzuno rispose con un’alzata di spalle, cercando di mantenere un’aria indifferente, ma aveva il fiato corto. Hiroto sospettava che soffrisse di una sorta di contraccolpo: il suo dono era ben più forte delle aspettative e non ne aveva ancora il pieno controllo.
-Aspettiamo a esultare, sono ancora in piedi- disse Gouenji. Hiroto gettò un’occhiata oltre il ponte: riusciva a vedere il corridoio al di sotto, ma l’altezza era troppa. Esclusa l’idea di saltare, quindi, dovevano farsi strada con la forza.
-Dobbiamo allontanarci. C’è troppo poco spazio per combattere- mormorò. Si girò verso Endou.
-Non possiamo più permetterci di restare solo in difesa- disse, con un’occhiata eloquente.
-Vuoi che li mandi allo sbaraglio?- chiese Endou, come se volesse essere sicuro di aver capito il piano. Hiroto gli sorrise.
-Cerca di non far loro troppo male. Sono pur sempre testimoni- rispose in tono tranquillo.
Endou fece un gran sorriso e si batté una mano sul petto.
-Lascia fare a me! Volevo proprio provare una cosa!
Si mise in testa al gruppo, nello spazio tra loro e le guardie; poi, con grande sorpresa di tutti, si avvitò su se stesso con una mano sul petto, all’altezza del cuore. Il suo corpo fu avvolto da una luce intensa, molto più intensa del solito; e non appena Endou sciolse la posizione, quella luce si materializzò in un immenso gigante alle sue spalle. Aveva la faccia di un demone, con lunghe zanne e una cresta rossa, e ognuno dei suoi pugni era grosso come un macigno. Quando Endou tese avanti la mano, il gigante imitò il movimento. L’enorme mano di luce scese sugli uomini dall’alto, si tuffò fra di loro e acciuffò una manciata di loro come se fossero stati burattini. Gli uomini, confusi e spaventati, cercarono di forzare le dita del gigante per costringerlo a liberare i loro compagni, ma fu tutto inutile; il gigante li lasciò andare solo quando lo decise Endou, e invece di farli scendere con delicatezza li lanciò sugli altri, mandando tutti gambe all’aria. La battaglia durò pochi minuti e gli uomini caddero a terra privi di sensi. A quel punto il gigante cominciò gradualmente a sparire, finché non ne rimase più traccia. Endou si sgranchì le braccia e si voltò verso i suoi compagni, che erano rimasti a bocca aperta.
-È stato fantastico- soffiò Hiroto. -E quella da dov’è uscita?
-Oh, è solo una cosetta a cui stavo lavorando. L’ho chiamata “Mano del colosso”, bella, vero?
-Sei stato fantastico!- esclamò Kazemaru, con gli occhi che brillavano di ammirazione. Endou arrossì, imbarazzato, ma felice di ricevere complimenti da Kazemaru. Hiroto gli diede una pacca sulla spalla.
-Ottimo lavoro, Endou. Approfittiamone e andiamo via da qui subito- disse.
Ora che il passaggio era libero, si misero in marcia. La cosa strana fu che non incontrarono più nessuno sul loro cammino e, arrivati al primo piano, trovarono ad accoglierli un silenzio innaturale. Era come se tutti avessero lasciato l’edificio, dando loro il via libera. Ma non ha alcun senso, pensò Hiroto, corrucciato. L’uomo che aveva rapito Midorikawa non avrebbe fatto tanta fatica per poi perderlo subito dopo; doveva avere in mente qualcosa, ma cosa? A quella domanda Hiroto, per quanto si lambiccasse il cervello, non riusciva a darsi risposta.
Era sicuro anche gli altri la pensassero come lui. Procedevano tutti in assoluto silenzio, come se temessero che fare rumore potesse attirare altre guardie. Ogni tanto Hiroto sbirciava verso Midorikawa, ma il ragazzo sembrava quasi essersi addormentato sulla schiena di Kazemaru, come se non avesse una sola preoccupazione. Che facesse finta o meno, Midorikawa era sicuramente il più composto del gruppo, al momento, e probabilmente il più riposato. Al contrario, Kazemaru cominciava a mostrare chiari segni di stanchezza.
Hiroto riportò lo sguardo avanti. Non riusciva a scacciare la sensazione che stesse succedendo qualcosa, ma, per quanto si sforzasse di non abbassare la guardia, era difficile e snervante combattere un nemico invisibile.
Alzando lo sguardo si rese conto che poco più avanti il corridoio ne incrociava un altro, formando un angolo. Era un punto pericoloso. Hiroto si addossò alla parete e sbirciò al di là, pronto a sparare; per fortuna dall’altro lato non c’era nessuno, soltanto qualche pianta d’appartamento dalle larghe foglie verdi. Qua e là c’erano delle porte chiuse, e una di quelle era la porta d’emergenza da cui erano sbucati poco prima. In fondo al corridoio se ne intravedeva un altro ancora; le scale per scendere dovevano essere da quelle parti.
Senza voltarsi, Hiroto fece cenno agli altri che c’era via libera, poi strisciò lungo la parete con fare circospetto, temendo che dalla fine del corridoio sbucassero guardie a frotte. Ma non successe nulla di tutto ciò. Invece, fu un fracasso improvviso alle sue spalle a farlo sobbalzare.
Hiroto si girò di scatto. Per poco non premette il grilletto, ma riuscì a dominare l’istinto e si bloccò prima di sparare. Anche gli altri si erano immobilizzati, con la mano sulla pistola o erano in posizione d’attacco, pronti a usare il proprio dono. Ma non c’era nessun nemico, solo Kazemaru che fissava con espressione interdetta il vaso infranto accanto al suo piede.
Hiroto abbassò lo sguardo sul vaso. Qualcosa lo aveva letteralmente distrutto, e la terra era caduta trascinandosi dietro la pianta, che giaceva soffocata tra i pezzi di ceramica.
-S-scusate... devo averlo urtato per sbaglio- disse Kazemaru, quasi più stupito di loro. Hiroto sospirò, sollevato che non fosse successo niente di grave e, soprattutto, di non aver sparato.
-Mi hai fatto pigliare un colpo, accidenti a te!- berciò Nagumo.
Kazemaru si scusò di nuovo, imbarazzato, perciò Endou gli mise una mano sulla spalla.
-Non è colpa tua, Ichi, sei solo stanco- gli disse affettuosamente.
-Allora fai a cambio con qualcuno- sbottò invece Suzuno in tono asciutto. -Se cominci a fare errori a causa della stanchezza, ci andiamo per sotto tutti...
-Ehi, non dargli addosso- protestò Endou.
-Non gli sto dando addosso, sono solo obiettivo. Si vede lontano un miglio che non ce la fa.
-Beh, neppure tu mi sembri tanto in forma!
Suzuno aprì la bocca per ribattere, ma poi la richiuse, perché Endou aveva ragione. Anche lui mostrava chiari segni di stanchezza, anche se non l’avrebbe mai ammesso di sua spontanea volontà.
-Endou, Suzuno, piantatela entrambi- intervenne Hiroto con fermezza.
-Sono d’accordo con Suzuno. Non possiamo permetterci errori, perciò qualcuno deve dare il cambio a Kazemaru-. Si girò verso Suzuno. -Ma è vero che non sei molto in forma anche tu. Prima hai usato un bel po’ di potere, e non ci hai ancora fatto l’abitudine, vero?
Suzuno si morse il labbro e rimase ostinatamente in silenzio. Hiroto sospirò, rassegnato: fin da quando si erano conosciuti Suzuno era sempre stato piuttosto restio a mostrare le proprie debolezze, non poteva cambiare da un giorno all’altro. Hiroto decise di risolvere prima la questione di chi dovesse portare Midorikawa. Quando si voltò di nuovo, però, si rese conto subito che Kazemaru sembrava riluttante a fare come gli era stato detto.
-C’è un motivo per cui non vuoi fare a cambio?- chiese quindi.
Kazemaru annuì, ma fu Midorikawa a parlare.
-Non voglio che sia qualcun altro a portarmi.
Hiroto lo fissò per un momento, poi tirò un altro sospiro. Perché dovevano essere tutti così testardi? Perché complicare tutto? Se era stato Midorikawa a chiederglielo, non c’era da stupirsi che Kazemaru non avesse chiesto il cambio. Kazemaru aveva sempre avuto la tendenza a viziare Midorikawa, anche se Midorikawa stesso non pareva rendersene conto. D’altronde, neppure Hiroto si sentiva di aggiungere altro stress a Midorikawa. Spostò lo sguardo dall’uno all’altro: Kazemaru lo guardava carico di apprensione, mentre Midorikawa osservava la povera pianta con la fronte aggrottata.
-Va bene- disse infine Hiroto. -Continuerai a portarlo tu. Ma allora voglio che vi riposiate. Sì, anche tu, Suzuno. Ci fermeremo un attimo per recuperare le forze.
Suzuno sbuffò, ma ebbe il buon senso di non ribattere.
-Aspetta un attimo- disse invece Fubuki. -Qualcuno dovrebbe andare in ricognizione.
Hiroto dovette ammettere che era un’osservazione sensata.
Dopo aver riflettuto qualche momento, affermò:- Allora Fubuki ed io andremo avanti, mentre voi altri restate qui-. E, siccome Suzuno e Nagumo sembravano sul punto di fare obiezioni, aggiunse:- È meglio che restino più persone con Midorikawa. Per una ricognizione noi due siamo più che sufficienti.
-Senza offesa, ma il tuo potere è un tantino inutile in questa situazione- disse Nagumo.
Hiroto si irrigidì quasi istintivamente. Senza farsi vedere, Gouenji diede un colpetto sul braccio di Nagumo e gli indicò Fubuki con un cenno del capo. Questo parve zittire Nagumo, che finalmente si rese conto di aver detto una stupidaggine.
-Che idiota- mormorò Suzuno, coprendosi il volto con una mano.
Gouenji si rivolse a Hiroto per rompere il ghiaccio.
-Per me non c’è problema. Mi prenderò cura io degli altri- disse. Hiroto annuì. Doveva ammettere che era rassicurante sapere di avere uno come Gouenji a coprirti le spalle. Guardò Endou e Kazemaru per accertarsi che fossero d’accordo anche loro, poi, una volta ricevuto il loro consenso, si girò e fece cenno a Fubuki di seguirlo.
Per prima cosa bisognava ispezionare tutte le stanze, perciò Hiroto andò dritto alla prima porta. Entrarono rapidamente, pronti a difendersi se necessario, ma trovarono la stanza vuota. All’interno c’erano solo una barella, una scrivania con una sedia da ufficio e un armadio di ferro. Parte del pavimento era coperta da fogli bianchi sparpagliati e Hiroto li calpestò mentre si avvicinava all’armadio. Lo aprì: dentro c’erano dei faldoni vuoti.
-Qualcuno aveva fretta di andarsene- mormorò Fubuki, raccogliendo un foglio. -Devono aver preso tutti i documenti quando hanno capito che stavamo arrivando.
-Forse hanno paura di noi?
Fubuki sorrise appena. -Speriamo. Essere temuto non mi dispiace.
-Non avevo dubbi- mormorò Hiroto passandogli accanto per uscire.
Poco più avanti trovarono dei bagni dall’aspetto immacolato. Non c’era niente fuoriposto, nemmeno un rotolo di carta igienica mancante o una strisciata di sapone liquido sui lavandini. Hiroto e Fubuki controllarono tutti i cubicoli per accertarsi che nessuno si fosse nascosto lì dentro, poi tornarono in corridoio. A pochi metri da loro c’era la porta di emergenza da cui si erano introdotti nell’edificio. Hiroto si fermò a sbirciare fuori. L’oscurità si era fatta più densa ed era difficile distinguere i bordi delle cose; il cortile, tre rampe più sotto, era come un mare di acqua scura, senza nemmeno un’increspatura di luce. Hiroto chiuse la porta e proseguì oltre.
Ogni tanto sbirciava dietro di sé per controllare che Fubuki ci fosse ancora. Fubuki, infatti, aveva il passo felpato di un gatto, e per di più non spiccicava quasi parola. Hiroto non poteva fare a meno di chiedersi cosa Fubuki pensasse di quello che aveva detto Nagumo. Una volta Hiroto era stato costretto a usare il suo dono contro di lui, e non era stato piacevole. Ma Fubuki non gli fece nessuna domanda. Hiroto non sapeva decidere se fosse un sollievo o meno.
Si fermarono di nuovo una volta trovate le scale. Alla loro destra c’era una porta chiusa, a sinistra un’infermeria con un’apertura ad arco. Hiroto si affacciò e gettò un’occhiata in giro. L’unica barella presente era libera e in bella vista sui banconi c’erano vari strumenti chirurgici e un paio di forbici grosse quanto una cesoia.
Hiroto si ritrasse. Sulla porta chiusa c’era una targa ramata con incise le lettere K e R. Provò a ruotare la maniglia, ma la serratura non scattò. Era chiusa a chiave. Almeno faceva sperare che dentro ci fosse qualcosa da nascondere.
-Dovresti starci molto attento.
Hiroto si girò a guardare Fubuki, interdetto. Immaginava che non parlasse della porta.
-Di cosa stai parlando?
-Lo sai di chi sto parlando- tagliò corto Fubuki. -Non conosco tutti i dettagli, ma è come avere tra le mani una bomba a orologeria.
Hiroto serrò la mascella.
-Riusciremo a salvarlo. Non lascerò che gli succeda più nulla- disse.
Un lampo di emozione attraversò gli occhi di Fubuki; poi il suo volto tornò calmo e serio, ma il suo sguardo trattenne una punta di malinconia, come se non riuscisse a nascondere del tutto ciò che provava. In quel momento Hiroto avrebbe tanto voluto avere il dono dell’empatia.
-Perché ti preoccupi per Midorikawa?- chiese, cauto.
Fubuki ci mise qualche secondo a rispondere. Hiroto ebbe l’impressione che stesse scegliendo accuratamente cosa dire, e soprattutto cosa non dire, e questo lo rese ancora più curioso e inquieto. Era dall’inizio che Fubuki stava nascondendo qualcosa. Lo aveva lasciato venire con loro nonostante tutto, ma era stata una buona idea? 
-Perché Midorikawa mi somiglia- disse Fubuki. Non era la risposta che Hiroto si aspettava, e lo lasciò spiazzato.
-Che vuoi dire?- chiese, ma Fubuki si limitò a scrollare le spalle.
-Una volta pensavo di sapere cosa voleva Atsuya. Avrei voluto proteggerlo da qualunque cosa. La sua felicità era l’unica cosa che contava per me. Ma quando l’ho quasi perso, ho capito che sbagliavo- disse. -Quando ti sacrifichi sempre per qualcuno, finisci per perdere te stesso. Dimentichi persino la cosa più banale: qualcuno soffrirà quando non ci sarai più. Se fossi morto, quella notte, forse Atsuya avrebbe ancora il suo dono, ma non sarebbe stato felice.
Fubuki abbassò la mano e inchiodò Hiroto con uno sguardo serio.
-Penso che tu abbia capito perché te lo sto dicendo. Te ne sei già accorto, no? Se non capisci neppure questo, non riuscirai a proteggerlo.
Hiroto non gli rispose. Fubuki lo guardò ancora per un momento, come per assicurarsi che il messaggio fosse passato; poi si avvicinò e accostò un orecchio alla porta.
-Non sento rumori provenire dall’interno- osservò con voce tranquilla.
Hiroto si lasciò sfuggire un verso di frustrazione.
-Il modo in cui cambi atteggiamento da un momento all’altro fa paura- borbottò.
-Anni di pratica-. Fubuki fece spallucce. Poi, prima che Hiroto potesse reagire, afferrò la maniglia, la congelò e la spaccò in due. La porta si aprì con un rumore sinistro. Fubuki entrò senza troppi preamboli. Hiroto scosse il capo, esasperato, e scivolò anche lui nella stanza.
Una volta dentro si guardò attorno con fare guardingo, ma anche lì non c’era nessuno. A giudicare dalla mobilia, doveva trattarsi dell’ufficio di qualcuno che ci trascorreva parecchio tempo. Al centro dello spazio, infatti, campeggiava una scrivania, sulla quale c’erano un computer fisso e una tazza scolorita. Prendendola in mano, Hiroto si accorse che dentro c’era un fondo di liquido nerastro. Lo annusò: caffè. Contro la parete, accanto ad una serie di stampe di DNA incorniciate, c’era una libreria di metallo, con volumi che spaziavano da botanica e biologia ad anatomia umana e genetica. Dirimpetto alla libreria, poggiati su un tavolino di legno, c’era una caffettiera elettrica. Fubuki la sfiorò con una mano.
-È ancora calda. Qualcuno era qui fino a poco fa- osservò, spostandosi per esaminare la libreria. Intanto Hiroto aveva posato la tazza e stava fissando il computer come se quello potesse morderlo. Dopo molti tentennamenti, si decise a premere il tasto di accensione, e rimase deluso quando l’apparecchio restò ostinatamente spento. Incrociò le braccia al petto e fissò lo schermo nero con ostilità. Per la prima volta si pentiva di non aver imparato a usare un computer e si ripromise di farselo insegnare non appena fossero riusciti a tornare a casa.
-Che strano...- D’un tratto Hiroto sentì Fubuki mormorare. Si girò e vide che l’altro stava ancora curiosando tra gli scaffali della libreria.
-Cosa c’è?
-C’è molta polvere, come se nessuno toccasse mai questi libri... Ma è evidente che è stato portato via qualcosa. Guarda qui-. Fubuki picchiettò con un dito sul dorso di un librone color porpora. Hiroto lo guardò, perplesso. Sembrava un comunissimo libro di genetica, eppure rispetto agli altri era spostato più avanti e non era impolverato. Fubuki lo prese e se lo rigirò tra le mani con aria pensierosa.
-Mmh... Ah-ha, scommetto che...- s’interruppe e aprì il libro, rivelandone così la vera natura: dove avrebbero dovuto esserci le pagine, infatti, c’era invece una cavità rettangolare, ora vuota. Hiroto sgranò gli occhi e finalmente capì dove Fubuki voleva arrivare.
-C’era qualcosa nascosto nel libro!- esclamò. Fubuki annuì.
-Qualcosa di prezioso, direi, per averlo nascosto qui. E l’ha portato via in fretta e furia.
Chiuse il libro e lo mise a posto sullo scaffale.
-Beh, ora qui non c’è più niente. Avrà sicuramente cancellato tutto dal computer.
-In realtà non si accende proprio- brontolò Hiroto, senza riuscire a nascondere la propria amarezza. Fubuki si avvicinò alla scrivania, diede uno sguardo al computer e rise.
-Per forza. Non c’è la spina- disse. Hiroto arrossì per la gaffe e si affrettò a cambiare discorso.
-Comunque è inutile restare ancora qui, torniamo dagli altri.
Fubuki rise di nuovo e, una volta usciti dall’ufficio, disse:- Consolati, non possono essere andati lontano. Troveremo tutte le prove che servono.
-Da come parli, sembra quasi che siamo noi a dover acchiappare loro.
-E non è così?- ribatté Fubuki con un sorriso sardonico.
Hiroto alzò gli occhi al cielo, ma non fece commenti. Voleva solo affrettarsi a tornare indietro. Si voltò e attaccò a camminare, ma, quando si girò per accertarsi che Fubuki fosse con lui, si accorse che stava procedendo da solo.
Fubuki era ancora fermo davanti all’ufficio, con una postura da segugio. Aveva lo sguardo fisso sulle scale. Tendendo l’orecchio, Hiroto realizzò che stava salendo qualcuno.
L’aria nel corridoio si fece improvvisamente più fredda, ma non sembrava fosse opera di Fubuki. Non c’era tempo per nascondersi: un secondo dopo, lo sconosciuto si mostrò.
Era l’ultima persona che Hiroto si sarebbe aspettato di incontrare in quel posto, eppure lui era lì, avvolto nel familiare mantello marrone che ondeggiava a ogni suo movimento. La lama che scintillava nella sua mano destra rievocava ricordi orribili.
Coyote salì gli ultimi gradini e si fermò davanti a loro.
Non appena i suoi occhi neri si posarono su di lui, Hiroto fu percorso da un brivido freddo. Era lui il suo bersaglio, ne era certo; e, a conferma delle sue paure, Coyote si lanciò in corsa verso di lui. Era anche più rapido di come Hiroto lo ricordava. In un attimo gli fu davanti, la lama pronta ad affondare e gli occhi fissi sull’obiettivo. Hiroto indietreggiò d’istinto, ma, nell’istante stesso in cui la spada calò, Fubuki si frappose fra loro.
Spinse via Hiroto con una mano e con l’altra creò una sottile barriera di ghiaccio, contro cui si abbatté la spada di Coyote. La lama rimase incagliata per qualche secondo, poi il ghiaccio cominciò a incrinarsi.
-Scappa!- gridò Fubuki.
Hiroto non se lo fece ripetere. Sapeva di non avere speranze di battere Coyote; la sua unica chance sarebbe stata avvicinarsi tanto da toccarlo, ma c’erano più probabilità di essere fatto a fette prima. Si nascose dietro l’angolo del corridoio e, da lì, si mise a osservare la battaglia.
Dopo essere riuscito a spezzare la barriera di ghiaccio, Coyote abbassò la lama, la fece roteare in aria e subito ripartì all’attacco. Menò un fendente da destra a sinistra, che Fubuki evitò a malapena: la lama non arrivò al suo braccio, ma strappò la manica del camice e la maglia sotto. Fubuki arretrò il più possibile per mettere distanza tra loro. Scambiando la sua prudenza per paura, Coyote si fermò. 
-Fatti da parte. È lui che voglio- gli intimò.
-Beh, dovrai accontentarti- rispose Fubuki.
Coyote digrignò i denti.
-Avrei dovuto ammazzarti quella notte- soffiò con astio. -Avrei dovuto finire quell’idiota di tuo fratello, e poi ammazzare anche te. Ma non è troppo tardi per rimediare.
Fubuki si irrigidì per un attimo, ma non si spostò di un millimetro. Nonostante tutto, non tradiva la minima paura, la sua espressione rimase concentrata e priva di emozioni. Per un po’ i due sfidanti continuarono semplicemente a squadrarsi. La tensione era così fitta da essere soffocante, e Hiroto si trovò senza fiato a chiedersi chi avrebbe attaccato per primo.
Poi Fubuki sferrò la propria offensiva.
Hiroto rimase subito colpito dal suo modo di combattere. Lo aveva già notato, ovviamente, ma mai come in quel momento si rese conto di quanto Fubuki fosse abile anche senza ricorrere al dono. Sapeva come, quando e dove colpire, e lo faceva con destrezza, perché non era soltanto intelligente: possedeva la furbizia e l’intuito di chi è cresciuto per strada con i propri mezzi. Mentre Coyote contava soprattutto sulla forza bruta, con l’obiettivo di sottomettere l’avversario, Fubuki mirava a indebolirlo con attacchi veloci che, pur non andando a segno, costringevano in realtà l’avversario a una costante attenzione, non gli lasciavano tempo per pensare. Quando Coyote affondava la spada in avanti, Fubuki scivolava di lato o indietreggiava, affidandosi al proprio istinto; e, se Coyote ruotava la spada e tentava un fendente orizzontale, Fubuki lo evitava saltando. Sul piano fisico era una lotta alla pari; tuttavia, osservando i loro movimenti, Hiroto intuì che presto la battaglia avrebbe preso una svolta decisiva.
Infatti, dopo un altro affondo a vuoto, Coyote si fece avanti con una raffica di fendenti che avrebbe voluto essere decisiva, ma che in realtà tradiva una pericolosa mancanza di lucidità. E Fubuki non aspettava altro che vederlo perdere la calma.
Sfuggì facilmente alla raffica con un salto e, per un attimo, parve quasi librarsi in aria; poi atterrò alle spalle di Coyote e, prima che lui potesse reagire, strinse una mano attorno all’elsa della sua spada. Nonostante la stanchezza, Coyote ebbe l’istinto di tirarla via. Era davvero il più forte del gruppo. Ma il suo corpo non poteva reggere quel ritmo a lungo, e al minimo segno di cedimento Fubuki si approfittò di quella debolezza senza farsi scrupoli. Dalle sue dita si sprigionò subito il ghiaccio, che avvolse la spada dall’elsa fino alla punta; avrebbe congelato anche la mano di Coyote, se lui non avesse lasciato andare l’arma. Non appena la spada toccò terra, si frantumò in due parti come fosse stata di cristallo. Hiroto era sicuro che fosse finita.
Invece, con un guizzo inaspettato, Coyote si voltò, saltò su Fubuki e lo buttò a terra.
Era chiaro che non aveva uno straccio di piano: voleva solo uccidere, in qualsiasi modo. A dargli la forza di continuare a lottare era soltanto l’odio che provava. Il suo sguardo era quello di una belva affamata, e le sue mani si tinsero di azzurro mentre evocava il dono che ora gli scorreva nel sangue per dare all’avversario il colpo di grazia.
La mano di Fubuki parve saltare fuori dal nulla.
Coyote urlò di dolore quando una delle due metà della spada gli venne conficcata con forza nella gamba. Si trascinò all’indietro d’istinto, ma quasi subito perse l’equilibrio e rotolò a terra con le mani strette sul polpaccio sanguinante. Il dolore doveva essere terribile.
Rapidissimo, Fubuki si rimise in piedi con un colpo di reni. Si avvicinò a Coyote e, dopo averlo studiato per un momento, gli strappò la lama dalla gamba. L’altro lanciò uno grido straziante, che si trasformò in rantolo quando Fubuki lo pugnalò nuovamente. Uno spruzzo di sangue macchiò il camice di Fubuki, stagliandosi rosso su bianco. Fubuki non parve impressionato. Un altro schizzo gli toccò l’orlo dei pantaloni.
Hiroto osservava la scena pietrificato dall’orrore. Aveva sempre saputo che Fubuki non era una brava persona, certo, ma non lo aveva mai creduto capace di tanta efferatezza. Guardandolo in quel momento, si accorse che i suoi occhi tradivano una rabbia soffocata a stento.
-Come osi- sibilò Fubuki, -usare il potere di mio fratello contro di me?
Piegò il polso con un colpo secco, facendo affondare la lama di un altro centimetro buono. Coyote emise un singulto, e i suoi occhi e la sua bocca si spalancarono in un muto terrore. Sbiancò, rendendosi conto solo in quell’istante di aver commesso un errore di valutazione: sebbene agisse a mente più fredda, Fubuki non era meno assetato di vendetta di lui.
In un disperato tentativo di farlo cadere, Coyote cercò di afferrargli la caviglia, ma Fubuki allontanò la sua mano con un calcio. Coyote si morse il labbro per non lasciarsi sfuggire nessun verso di dolore, come se non volesse dargli quella soddisfazione. Ma sbagliava anche in questo, intuì Hiroto. Perché Fubuki, al contrario di lui, non provava nessun piacere nella vendetta; a muoverlo era soltanto una furia cieca, gelida, che si estendeva tanto quanto era grande la sua lealtà al fratello. In quel momento, Hiroto capì che Fubuki non aveva mai avuto intenzione di lasciarlo andare. Fin dall’inizio, quella era stata una battaglia all’ultimo sangue.
-Come osi parlarmi di quella notte? Come osi parlarmi di mio fratello?- disse Fubuki tra i denti, estrasse ancora una volta la lama e la sollevò in aria.
A quel punto Hiroto si sforzò di muoversi.
-Non farlo!- gridò, balzando fuori dal nascondiglio. In un attimo si avvicinò a Fubuki e gli afferrò il polso, bloccandolo prima che potesse virare il colpo. Fubuki gli scoccò un’occhiata infastidita. Tutto il braccio gli tremava per lo sforzo mentre cercava di spingerlo verso il basso nonostante la stretta di Hiroto.
-Lasciami andare- soffiò Fubuki. Il suo sguardo era vacuo, ma non del tutto privo di espressione, e Hiroto pensò che poteva ancora tentare di farlo ragionare.
-Capisco come ti senti, ma non posso lasciartelo fare- disse, serio.
Fubuki rise. Era una risata arida, vuota.
-No, non puoi capire come mi sento.
-Ha ucciso mio padre.
Fubuki si girò di scattò verso di lui. Per un istante la rabbia cedette il posto alla sorpresa, e Hiroto capì di dover approfittare di quel frangente.
-Ha ucciso mio padre- ripeté, contenendo a stento l’emozione, -e stava per uccidere Midorikawa. Certo che so come ti senti. Ma non posso fartelo fare. Non posso lasciare che tu lo uccida-. Deglutì e strinse la presa.
-Pensaci bene, Fubuki. Se lo riportiamo indietro, forse potremo scoprire qualcosa in più. Forse potremo riportare indietro il dono di tuo fratello. Non posso promettertelo, ma farò tutto quello che posso perché venga fatto un tentativo- disse. -Ma anche se non dovessimo riuscirci... almeno tuo fratello avrà te. Se invece diventi un assassino, porterai via ad Atsuya la cosa più preziosa che gli rimane. Ricordi cosa mi hai detto poco fa?
Fubuki sussultò, ma non mollò la presa. Girò lo sguardo torvo verso Coyote che, ancora rannicchiato a terra, stava cercando di strisciare via, lasciandosi dietro una scia di sangue.
-Voglio che paghi per quello che ha fatto- disse Fubuki con una smorfia di disgusto.
Hiroto scosse il capo.
-Pagherà comunque. In carcere. Questa volta niente sconti- ribatté. Fubuki non si mosse; i suoi occhi erano ancora incollati a Coyote.
Poi tirò un lungo sospiro e smise di cercare di liberarsi. Quando si voltò di nuovo verso Hiroto, i suoi occhi erano limpidi.
-Va bene, ma devi promettermi due cose. Primo, che farai tutto quello che è in tuo potere perché non la passi liscia. E se c’è un modo per far riavere il dono ad Atsuya, voglio che sia fatto. Promettimi che non ci tradirai.
-Lo prometto. Giuro sul mio onore che manterrò entrambe le promesse- rispose Hiroto, senza battere ciglio. Fubuki lo studiò per un momento, poi lentamente aprì la mano e fece cadere la lama, che atterrò ai loro piedi e si spaccò in pezzi ancora più piccoli. Hiroto gli lasciò andare il braccio e Fubuki lo lasciò ricadere inerme contro il proprio fianco, come se la rabbia l’avesse svuotato di ogni energia. Si rivolse a Hiroto con voce stanca.
-Allora, che ne facciamo di lui?- chiese, accennando con il capo a Coyote.
Hiroto seguì con gli occhi la striscia di sangue sul pavimento e, all’altro capo, vide Coyote sdraiato a terra a pancia sotto, immobile mentre una pozza rossa si allargava sotto le sue gambe. A quanto pareva, aveva perso i sensi prima di riuscire ad andare più avanti.
-Prima di tutto dobbiamo bloccare l’emorragia, o morirà dissanguato- disse Hiroto.
Fubuki fece una faccia annoiata, ma aiutò Hiroto senza protestare. Per prima cosa lo girarono sulla schiena, assicurandosi così che fosse svenuto; poi strapparono il suo stesso mantello per fare una fasciatura rudimentale, ma sufficiente a bendare momentaneamente la ferita. Hiroto strinse la bendatura improvvisata finché non fu certo di aver bloccato ulteriori flussi di sangue, poi si pulì le mani su quello che restava del mantello sbrindellato.
Mentre si chiedeva come avrebbero fatto a trascinarlo senza lordarsi tutti i vestiti, sentì delle voci chiamarli e un concitato rumore di passi. Poco dopo, Suzuno e Nagumo sbucarono da dietro l’angolo del corridoio e, vedendoli, corsero loro incontro.
-Hiroto! Cos’è successo? Abbiamo sentito delle grida e...!- Suzuno si bloccò di colpo e afferrò il braccio di Nagumo, tirandolo indietro proprio un secondo prima che il compagno calpestasse Coyote per sbaglio.
-Oh merda...!- esclamò Nagumo. Quando guardò a terra e vide la pozza di sangue, i suoi occhi schizzarono quasi fuori dalle orbite. -Cosa diavolo è successo qui?!
Fubuki scrollò le spalle e guardò Hiroto, come incoraggiandolo a dare una spiegazione convincente. Ma era più facile a dirsi che a farsi. Hiroto sapeva di non poter raccontare cos’era successo senza accennare a ciò che Fubuki aveva fatto; perciò, memore delle promesse fatte, preferì restare in silenzio. Intanto, Suzuno osservava la fasciatura di Coyote con sospetto. Seguì con lo sguardo la strisciata di sangue, vide le parti spezzate della spada sparse in giro, poi guardò di nuovo Hiroto e Fubuki. Il suo sguardo si soffermò in particolare sugli schizzi di sangue sul camice bianco di Fubuki, ma l’altro non tradiva il minimo cenno di nervosismo.
-Ci ha attaccati e ci siamo difesi- tagliò corto Hiroto, poi gettò un’occhiata di rimprovero a Suzuno. -Non ti avevo detto di stare fermo e riposare?
-Mi sono riposato abbastanza! Non sono mica così debole!- protestò Suzuno.
Hiroto scosse il capo, esasperato, e diede un rapido sguardo all’orologio del cercapersone.
-È passata circa mezz’ora. Kudou si sarà già messo in contatto con mia sorella. Quando avremo dei rinforzi penseremo a spostarlo, per il momento lasciamolo qui-. E speriamo che ci resti, pensò, ma preferì non dirlo ad alta voce.
Fubuki non parve contento della soluzione, ma anche lui dovette rendersi conto di quanto complicati sarebbero diventati gli spostamenti con quel peso morto dietro. Esitò, guardò a lungo Coyote con espressione combattuta, ma poi raggiunse la stessa conclusione di Hiroto.
Lasciando Coyote indietro, quindi, tornarono dagli altri.
Endou, che si era messo di vedetta, li vide per primo e si girò rapido per dirlo agli altri; poco dopo, anche Gouenji e Kazemaru fecero capolino da dietro al muro. Midorikawa era seduto a terra, con la schiena contro la parete e le gambe piegate contro il petto. Quando sentirono che Hiroto e Fubuki si erano imbattuti in Coyote, tutti rimasero scioccati.
-Dov’è adesso?- chiese Gouenji.
-È svenuto, ma era difficile portarcelo dietro. Lo abbiamo lasciato lì- spiegò Hiroto.
Kazemaru scosse il capo, come se non volesse crederci.
-Ma da dove diavolo è venuto?- esclamò.
-Dal piano di sotto. Ha preso le scale- rispose Fubuki in tono apatico.
Kazemaru aggrottò la fronte. Si girò verso di lui e lo squadrò da capo a piedi.
-Perché sei coperto di sangue?
Fubuki gli fece un sorriso zuccherino.
-Non vuoi saperlo davvero- disse. Kazemaru chiuse subito la bocca, inorridito.
Hiroto lanciò un’occhiata a Midorikawa, che sembrava aver preso la notizia piuttosto male. A giudicare dalla sua espressione sbigottita, era chiaro che neanche lui si aspettava di rivedere Coyote lì. Eppure, Hiroto era convinto che non fosse affatto una coincidenza, che Midorikawa e Coyote si trovassero di nuovo nello stesso posto, allo stesso momento. Stava cominciando a mettere insieme i pezzi, anche se c’erano ancora dei tasselli mancanti. C’era un piano più grande in atto. E tutto faceva capo a quell’uomo, Kenzaki.
-Hiroto? Hiroto!- Endou gli stava schioccando le dita davanti al volto per attirare la sua attenzione. Hiroto mise da parte le teorie e tornò alla situazione presente.
-Scusami, dicevi?
-Mentre eravate via, abbiamo sentito dei rumori. Dal soffitto- lo informò Endou, puntando con un dito verso l’alto.
-Pensavamo che stesse arrivando qualcuno- aggiunse Gouenji. -Ma non sembravano rumori di passi. Accidenti, non sembrava nemmeno qualcosa di umano.
-Non è una gran bella notizia- osservò Suzuno in tono lugubre. -Questi qui si muovono sempre in branco, ricordate? Quindi, se Coyote è qui...- Lasciò la frase in sospeso, ma tutti capirono. Calò un silenzio cupo e preoccupato. Hiroto scoccò un’altra occhiata al cercapersone. Tre quarti d’ora da quando erano entrati.
All’improvviso, Endou batté le mani.
-Okay, ragazzi, ascoltatemi tutti! So che questo è un imprevisto bello grosso, ma non c’è mica bisogno di cambiare i nostri piani. Noi dobbiamo solo arrivare vicini all’uscita, così quando arriveranno i rinforzi sarà tutto più semplice! Vero, Hiroto?- Quando Endou si girò verso di lui con aria incoraggiante, Hiroto capì subito le sue intenzioni e annuì. Il viso di Endou s’illuminò con un gran sorriso, con tanto di fossette agli angoli della bocca.
-Visto? So come vi sentite, ma non dobbiamo perderci d’animo!- esclamò e, alle sue parole, un’ombra di sollievo passò sul viso di tutti, persino quello di Midorikawa. Hiroto non poté trattenere un sorriso. Nessuno sapeva infondere positività nelle persone come Endou.
Hiroto si schiarì la gola. -Endou ha ragione. Procediamo con il piano originale- disse.
-Abbiamo trovato le scale più avanti. Vediamo com’è la situazione, in caso possiamo sempre ripiegare su quelle di emergenza.
E così, una volta che Kazemaru aveva preso di nuovo Midorikawa in spalla, si misero in marcia verso le scale. Dopo quello che era successo, Hiroto si curò di tenere d’occhio Fubuki, il cui passo veloce tradiva una leggera impazienza. Forse Fubuki voleva accertarsi che Coyote fosse ancora lì, o forse già pregustava il momento in cui lo avrebbero sbattuto dietro le sbarre. O forse voleva semplicemente andarsene da lì, cosa altrettanto comprensibile. Quel posto metteva i brividi.
Camminavano tutti in silenzio, guardandosi attorno con circospezione, visto che non sapevano se i nemici sarebbero sbucati fuori dal pavimento o dal soffitto. Hiroto temeva persino che avrebbero visto il fantasma di Coyote. Non è che sperasse che fosse morto, ma di certo non gli sarebbe dispiaciuto. Quando arrivarono più o meno all’altezza delle scale d’emergenza, però, ebbe una sorpresa che non si aspettava.
Purtroppo per loro, infatti, non solo Coyote non era morto; ma, a giudicare dall’assenza del corpo e dalle impronte insanguinate, era più vivo che mai. Le orme portavano all’infermeria. Fubuki fu il primo a reagire e lasciò indietro gli altri per gettarsi con impeto nella stanza. Hiroto fece cenno agli altri di stare fermi, poi lo inseguì. Trovarono l’infermeria vuota, ma Coyote aveva lasciato diversi segni del proprio passaggio, tra cui raccapriccianti ditate di sangue sui banconi immacolati e sulla carta che copriva la barella. Inoltre, Hiroto notò che gli strumenti chirurgici erano stati toccati; erano tutti in disordine rispetto a come li ricordava. Voltandosi, l’occhio gli cadde in particolare su un ferretto a forma di elle, che era appoggiato sulla barella e che, stranamente, non presentava macchie di sangue. Colpito da un’illuminazione, Hiroto guardò di nuovo gli strumenti e realizzò che erano tutti puliti. Provò allora a prendere il ferretto per osservarlo più da vicino, ma dovette subito ritrarre le dita: era bollente. Ne restò impressionato. Aveva la netta sensazione di aver già visto quell’oggetto prima, aveva il nome sulla punta della lingua, ma non gli veniva...
Mancavano dieci minuti allo scoccare delle undici e mezza quando un’improvvisa scossa di terremoto fece tremare il pavimento sotto i loro piedi.
Hiroto perse l’equilibrio e si aggrappò alla barella per non cadere. Il ferretto e tutti gli altri strumenti caddero a terra con un sonoro tintinnio. Quando tutto si fermò, Hiroto si girò e scambiò un’occhiata confusa e preoccupata con Fubuki, che era riuscito a restare in piedi solo mantenendosi a un bancone. Poi qualcuno li chiamò, e loro si precipitarono in corridoio.
Tutti erano tesi e fissavano in alto. Dal soffitto provenivano rumori di smantellamento.
-Sono qui- sussurrò Midorikawa.
Hiroto seguì il suo sguardo e capì cosa sarebbe successo prima che accadesse.
-Tutti giù!- urlò. E poi:- Endou!
Il soffitto venne giù in un fracasso di cartongesso, cemento e fili elettrici.
Hiroto vide la cascata di scintille esplodere sulle loro teste attraverso la mano di luce che Endou era riuscito a evocare all’ultimo secondo. Le schegge si riversarono dappertutto e il corridoio fu inondato da una grossa nuvola di polvere, così densa che per un po’ non fu possibile vedere dall’altro lato. Hiroto si guardò attorno per verificare i danni. I suoi compagni erano tutti intorno a lui, e per fortuna nessuno era ferito. Hiroto si sentì subito più leggero, ma non c’era tempo per il sollievo.
Dall’apertura nel soffitto saltarono giù due figure.
All’inizio riuscirono a distinguere solo le loro silhouette, una alta e smilza, l’altra tozza e grossa; poi, non appena la polvere cominciò a diradarsi, Hiroto riconobbe il ragazzo che aveva la stazza di un bisonte. Lo aveva visto quella notte nell’edificio di Garshield. Se lo ricordava a terra, con una ferita profonda e orrenda alla spalla, ferita di cui ora non c’era traccia. Il ragazzo aveva occhi infossati, con la sclera nera e le pupille rosse, le braccia enormi che gli penzolavano davanti al busto e la schiena incurvata in avanti come un gorilla inferocito.
L’altro ragazzo Hiroto non lo aveva mai visto in azione. Aveva il naso aquilino, occhi vispi dal taglio sottile e un sorrisetto odioso sulla faccia. Portava il familiare mantello marrone e, cosa molto più preoccupante, aveva due sciabole, una per mano.
Kazemaru si chinò verso Hiroto.
-Quelli sono Buffalo e Jackal. Buffalo ha una forza sovrumana, mentre Jackal può creare terremoti- lo informò rapidamente, pallido come un cencio.
Hiroto strinse le labbra mentre osservava i danni fatti da Jackal.
-Non so bene quale sia la situazione, ma mi pare evidente che siano qui per fermarci- disse a bassa voce. Guardò Jackal di sbieco e con il mento fece un cenno impercettibile verso di lui. -Quel potere è una bella rogna, ma dovrà andarci piano. Sono pronto a scommettere che sia stato Kenzaki Ryuuichirou a portarli qui, per qualche motivo, e non credo sarebbe contento se distruggessero questo posto.
Era più una scommessa che altro, ma se Kenzaki davvero poneva la propria ricerca sopra ogni cosa, non avrebbe mai permesso una cosa simile. Loro sapevano cosa Kenzaki voleva, e dovevano sfruttare quel vantaggio. Finalmente Hiroto espose agli altri le proprie teorie.
-Non hanno avuto tempo di portare via tutto. Di sicuro le prove che cerchiamo sono ancora dentro questo edificio, e Kenzaki di sicuro vorrà evitare che tutto venga distrutto, o, peggio, che Midorikawa muoia.
-Quindi l’obiettivo è liberarsi di noi comparse senza fare troppo casino- sintetizzò Nagumo con inaspettata precisione. Fubuki fece scrocchiare le dita delle mani.
-Devono solo provarci- disse in tono minaccioso. Hiroto sospettava che avesse preso molto male la faccenda di Coyote.
Gouenji si voltò leggermente a guardarsi indietro.
-Le scale sono qui dietro. Possiamo correre- disse.
-Non ci lasceranno andare tanto facilmente, e poi come facciamo con Midorikawa? Lui non può correre- obiettò Suzuno, corrucciato.
Hiroto si girò verso Buffalo e Jackal. Bastava incrociare il loro sguardo assetato di sangue per sapere con certezza che li avrebbero inseguiti come un leone con la preda. L’idea di ingaggiare un combattimento con loro non lo entusiasmava affatto, ma che altra scelta avevano? Non potevano lasciare Endou in difesa per sempre. Anche se l’altro non dava segni di cedimento, era ovvio che fosse stanco. Lo erano tutti.
-Siamo più vicini alle scale d’emergenza. Proviamo a farci strada con la forza- disse Hiroto. -Endou, conterò fino a tre. Al tre, ritira la Mano di Luce.
-Quando vuoi!- gridò Endou, senza voltarsi. Hiroto si guardò attorno per assicurarsi che tutti fossero pronti; poi prese la pistola e iniziò a contare. Al suo due, come se sapesse cosa avevano in mente, Buffalo s’incurvò ancora di più e, con un grugnito animalesco, cominciò a strisciare un piede per terra. Il sorriso di Jackal si allargò, scoprendo denti bianchissimi. Hiroto strinse la pistola tra le dita e si preparò mentalmente allo scontro.
Non appena gridò il tre, la Mano di Luce di Endou scomparve in un fascio di luce; nello stesso momento, Fubuki congelò il pavimento. Ma Jackal e Buffalo non si fecero rallentare. Jackal affondò subito le sciabole nel pavimento e disintegrò il sottile strato di ghiaccio. Indisturbato, Buffalo partì alla carica. Si lanciò su Endou, che era il più vicino. 
Endou aspettò fino all’ultimo per scansarsi, poi si girò e gli tirò un calcio nel fianco. Il colpo non parve sortire alcun effetto. Buffalo emise un verso divertito, come se Endou gli avesse fatto il solletico, poi gli afferrò la gamba e lo gettò a terra. Endou rotolò qualche metro più indietro e per poco non travolse Gouenji e Fubuki.
Senza lasciargli il tempo di rialzarsi, Buffalo tornò alla carica: sembrava che avesse intenzione di lanciarsi su Endou a peso morto, per schiacciarlo come un lottatore di wrestling. Ma, prima che potesse farlo, Gouenji gli bloccò il polso con dita infuocate e glielo girò con forza, mentre Fubuki lo colpì in faccia con il palmo della mano aperta, così da stordirlo. Con un grido di rabbia, Buffalo cominciò ad agitarsi con violenza: si girava di qua e di là come una trottola impazzita. Menava pugni ovunque capitasse, tanto da costringere Gouenji e Fubuki ad arretrare per evitare di essere colpiti. Endou estrasse la pistola e sparò due colpi alle sue gambe, con la speranza di riuscire a rallentarlo; tuttavia i proiettili lo sfiorarono appena e Buffalo continuò a muoversi come se nemmeno se ne fosse accorto. Quasi alla cieca caricò Fubuki e Gouenji come una furia e crollò loro addosso con tutto il suo peso.
Fino a quel momento Jackal si era limitato a osservare il combattimento da lontano. Sembrava che stesse aspettando il momento migliore per buttarsi nella mischia; e quel momento arrivò quando vide Buffalo atterrare i suoi avversari. A quel punto Jackal estrasse le sciabole dal pavimento, con tutta calma; poi come un fulmine guizzò in avanti. Usando la schiena del compagno come trampolino di lancio, saltò a sciabole incrociate sugli altri.
Suzuno si parò subito davanti a Kazemaru e Midorikawa. Stese la mano avanti, e davanti a lui si erse una barriera di ghiaccio che si estendeva da un muro all’altro, ma lo sforzo lo fece cadere in ginocchio. Come Hiroto temeva, non si era ancora ripreso del tutto. Senza pensarci troppo, Hiroto corse subito da lui, gli prese un braccio all’altezza del gomito e cominciò a trascinarlo con sé mentre indietreggiava rapidamente. Suzuno fece un verso contrariato, ma Hiroto non aveva tempo di essere delicato. Jackal aveva già inferto alla barriera due colpi; con il primo era riuscito a stento a scalfirlo, ma al secondo il ghiaccio cominciò a creparsi.
Hiroto lasciò andare Suzuno e gettò un’occhiata alle spalle di Jackal, giusto in tempo per vedere Fubuki assestare un colpo alla gola di Buffalo che gli mozzò il fiato. Quando Buffalo si tirò indietro d’istinto, con le mani al collo, Gouenji ne approfittò per sparargli una fiammata in petto. Il gigante venne letteralmente sbalzato in aria e sbatté contro il muro opposto. A quanto pareva, non era un mostro di strategia.
Con un terzo colpo, Jackal sfondò la barriera di ghiaccio in un turbinio di schegge. Nello stesso momento, Nagumo corse verso di lui con un pugno alzato, mentre Hiroto gli sparò con una mano sola; ma Jackal sviò il proiettile all’ultimo secondo con il lato piatto della sciabola, mandandolo a conficcarsi in un muro. Schivò Nagumo con un passo laterale, corse addosso a Hiroto e in un attimo gli fu sopra, fendendo l’aria con la sciabola.
Seguendo solo l’istinto, Hiroto si buttò a terra, rotolando a destra. Non poteva spostarsi più di tanto, o avrebbe lasciato Suzuno scoperto e vulnerabile. Sollevò la pistola per sparare, ma Jackal fu più veloce e cercò di colpirgli il fianco. Hiroto riuscì a bloccarlo a stento con il lato della pistola, ma la violenza dell’impatto gliela fece volare di mano. Sentì il rumore dell’arma che cadeva a terra poco lontano. Non aveva il tempo per girarsi e vedere dove fosse. Jackal stava per attaccare di nuovo e lui era disarmato. Per fortuna, però, non era solo.
Nagumo saltò sulle spalle di Jackal senza preavviso.
Subito Jackal cominciò a dibattersi per scrollarselo di dosso, ma l’altro teneva duro. Poi, con un bagliore, le braccia di Nagumo si ricoprirono di fuoco dal gomito fino alla punta delle dita. Il mantello di Jackal prese fuoco in un istante; e il ragazzo, infastidito e preoccupato che le fiamme potessero estendersi, fu costretto a far cadere una sciabola per acchiappare Nagumo. Prima lo colpì in faccia per sbaglio, con un cazzotto dato alla cieca; poi, quando riuscì ad afferrarlo per la maglietta, tirò con tutta la forza che aveva e se lo lanciò oltre la spalla. Ma Nagumo reagì con grande agilità: si girò in aria, atterrò sulle mani e, dandosi lo slancio, si rimise in piedi. Si passò il braccio sul viso, sputò a terra il sangue che aveva in bocca e digrignò i denti. I suoi occhi caddero sulla sciabola che Jackal aveva fatto cadere. A causa della colluttazione, Jackal doveva averle dato un calcio, spostandola di qualche metro, e ora l’arma si trovava esattamente al centro tra loro due. Approfittando del fatto che Jackal fosse ancora stordito, Nagumo corse verso la sciabola e la allontanò da Jackal con un calcio, mandandola fuori dalla sua portata, verso Hiroto. Poi accelerò e si gettò dritto contro Jackal. Nell’impeto finì per dargli una testata nello stomaco che lo fece cadere a terra, e poi andò giù con lui. Jackal lasciò anche l’altra sciabola, ma non si perse d’animo e si difese con le mani. Mentre loro due rotolavano a terra, menando pugni e calci alla rinfusa, nel corridoio si sollevò un’improvvisa raffica di vento gelido.
Hiroto si rese conto in un attimo che non era opera di Fubuki, né di Suzuno. Restava solo una terza possibilità. Il sangue gli si raggelò nelle vene. Si guardò alle spalle e vide altre due persone che venivano verso di loro.
Uno era Coyote, disarmato e zoppicante, ma non per questo meno minaccioso; e l’altro un ragazzino poco più basso, che aveva invece una spada. Quando Midorikawa lo vide, il suo sguardo si rabbuiò.
-Fox- soffiò tra i denti. Il ragazzo ricambiò la sua ostilità con un’occhiata truce. D’impulso levò la spada e gliela puntò contro, ma Coyote alzò una mano per fermarlo.
-Ci serve vivo. E non solo lui- disse con voce perentoria. Si guardò attorno con una smorfia. -Mi sfugge il perché, ma Kenzaki vuole che glieli portiamo tutti.
-Va bene, ma non farà differenza se prima gli taglio un braccio o una gamba, no?- insistette Fox, ancora riluttante. Coyote gli gettò un’occhiata annoiata e Fox abbassò la spada con un’espressione tutt’altro che entusiasta, senza che i suoi occhi lasciassero mai Midorikawa.
-Buffalo, Jackal, il tempo di giocare è finito. Metteteli al tappeto- disse Coyote.
A quelle parole Jackal e Buffalo si riscossero e, con un improvviso slancio di forza, riuscirono ad avere la meglio sui propri avversari. Buffalo afferrò Gouenji e Fubuki per le maglie e li scagliò con forza su Endou, mettendoli al tappeto in un colpo solo; mentre Jackal atterrò Nagumo a terra e gli premette un gomito tra le scapole per tenerlo giù. Con un brivido di orrore, Hiroto realizzò che fino a quel momento non avevano combattuto sul serio. Stavano solo prendendo tempo. Giocando con loro come il gatto con il topo.
Mentre guardava gli sconfitti, Coyote accennò un sorrisino.
-Bene. Ora catturiamoli e portiamoli da Kenzaki. Avanti, perdenti, in piedi!- berciò.
Jackal e Buffalo costrinsero Gouenji, Endou, Nagumo e Fubuki ad alzarsi con la forza, strattonandoli e spingendoli e pungolandoli da dietro. Hiroto aiutò Suzuno a rialzarsi prima che lo facessero loro. Coyote gettò un’occhiata ostile a Kazemaru.
-Fallo scendere- gli ordinò, accennando con il mento a Midorikawa. -Voglio vedere questo bastardo camminare con le sue gambe, se gli riesce. E se non ce la fa, può anche strisciare.
I suoi compagni parvero trovarlo molto divertente e scoppiarono a ridere, come un branco di iene. Midorikawa, ignorandoli, sussurrò qualcosa a Kazemaru, che si accovacciò per farlo scendere. Coyote lo fissava divertito, evidentemente convinto che Midorikawa sarebbe caduto appena avesse toccato terra; invece, con sua meraviglia e delusione, Midorikawa non diede segni di cedimento e rimase in piedi dritto come un fuso. Coyote fece una smorfia e gli diede uno spintone per farlo camminare.
-Muoviti- abbaiò, nervoso. -Muovetevi tutti!
Li raggrupparono come dei carcerati e li costrinsero a camminare, mandando Midorikawa avanti da solo. Hiroto si posizionò vicino a Kazemaru, pensando di tranquillizzarlo, ma invero finirono entrambi a fissare con apprensione la schiena ritta di Midorikawa, il suo profilo fiero. Sembrava che avesse deciso fermamente di non mostrare né paura, né nervosismo. Hiroto ammirava e invidiava il suo coraggio, mentre Fox e Coyote continuavano a lanciargli sguardi omicidi. Malgrado la palese irritazione, però, non lo toccarono neanche con un dito. Hiroto era sicuro che si sarebbero accaniti su di lui; quando non accadde, non poté fare a meno di chiedersi cosa ci fosse davvero in gioco. Che razza di accordo avevano fatto con Kenzaki? Come mai erano passati dalla sua parte? Portargli Midorikawa era il prezzo della loro libertà? Non tutto quadrava; doveva esserci dell’altro dietro.
E c’era anche un’altra cosa che lo preoccupava. Solo poco prima, Coyote aveva cercato di ucciderlo, ora invece lo voleva vivo. O forse catturarlo era sempre stato il suo unico obiettivo? In ogni caso, Hiroto dubitava che fosse stata un’idea sua. Era piuttosto chiaro che, se fosse dipeso da lui, sarebbe finito tutto in un bagno di sangue. Ma Kenzaki gli aveva chiesto specificamente di portargli tutti loro, vivi. Perché?
All’imboccatura delle scale, si fermò e deglutì. Era più che sicuro che laggiù avrebbe avuto tutte le risposte ai suoi dubbi; ma voleva davvero sentirle?
Coyote lo fece quasi ruzzolare per le scale con uno spintone.
-Scendi- gli sibilò, pungolandolo da dietro. Hiroto era molto grato del fatto che non avesse più una spada. Si morse il labbro. Doveva farsi venire in mente uno straccio di piano prima che tutti arrivassero al proprio limite; ma a ogni passo gli pareva di avvicinarsi un po’ di più alla bocca dell’inferno.
Dopo essere scesi al piano inferiore, i ragazzi attraversarono un corridoio e, costretti a tirare dritto senza distrazioni, sbucarono nella hall della clinica. Era un’ampia stanza ottagonale con pareti bianche lisce, un pavimento piastrellato e luci al neon che pendevano dal soffitto. Su un lato si estendeva un largo bancone da reception bianco, dietro cui c’era una larga finestra rettangolare con infissi chiari e tapparelle color crema. Esattamente al lato opposto rispetto al corridoio, c’era una grande porta con pannelli a vetro così lucidi da potersi specchiare.
In mezzo a quell’ambiente così pulito e asettico, c’era Kenzaki.
La prima sensazione che Hiroto provò, a pelle, fu disgusto. Kenzaki Ryuuichi era così pallido da sembrare quasi grigio e, guardandolo negli occhi, si aveva l’impressione di fissare un serpente. Quando li vide arrivare, gli angoli della bocca sottile si piegarono in un sorriso compiaciuto.
Alle sue spalle, intimoriti e curiosi al tempo stesso, fecero capolino gli altri ricercatori rimasti nella struttura, due donne e due uomini; a difenderli c’erano una trentina di guardie e almeno una quindicina di uomini con equipaggiamento più pesante, perché Kenzaki non aveva badato a spese. Coyote zoppicò fino a Kenzaki e si fermò davanti a lui.
-Te li abbiamo portati, come volevi- disse in tono incolore. -Ora dacci la nostra ricompensa.
Sembrava piuttosto impaziente, ma purtroppo per lui Kenzaki era di un altro avviso e gli passò accanto facendogli soltanto un cenno con la mano, come per dirgli di aspettare. Coyote digrignò i denti, irritato, e Hiroto capì che Kenzaki non gli piaceva molto più di quanto piacesse a loro: fino a quel momento si era sforzato di assecondarlo per ottenere quello che voleva, ma la sua pazienza era agli sgoccioli. Un rapido sguardo ai volti di Buffalo, Fox e Jackal bastò a capire che erano d’accordo con Coyote.
Ma Kenzaki parve non accorgersi nemmeno di tutto quel malanimo nei suoi confronti. A lui interessava solo Midorikawa; vedeva solo Midorikawa. Gli si avvicinò con tutta calma e si fermò a meno di un metro da lui. Midorikawa si era irrigidito e lo fissava con astio, ma Kenzaki sembrava affascinato persino dal suo odio.
-Sono felice di vederti in buona salute, Ryuuji. Non è da tutti riprendersi tanto velocemente, nonostante l’alto numero di medicinali di cui è stato fatto uso, sai? Come ho sempre pensato, sei diverso da tutti gli altri. Sei davvero materiale di altissima qualità- disse con voce melliflua, mentre lo squadrava da capo a piedi con occhi che brillavano.
Hiroto tratteneva a stento la rabbia. Avrebbe voluto mettersi in mezzo, tirare via Midorikawa e tenerlo al sicuro, ma sapeva che così non avrebbe risolto nulla. I numeri non erano dalla loro parte. Si impose di mantenere la calma e, quando vide Kazemaru sul punto di sbottare, lo trattenne stringendogli un braccio. L’altro lo guardò torvo, ma Hiroto scosse il capo. Non era il momento di reagire, era il momento di stringere i denti e resistere.
Midorikawa sembrava essere dello stesso avviso. Invece di rispondere, si limitò a fissare Kenzaki con disgusto; era chiaro che lo considerava alla stregua di un insetto ripugnante.
-Sei arrabbiato con me? Oh, ma non esserlo. Infatti, voglio che tu sappia che so essere molto generoso... E per questo ho deciso che lascerò che qualcuno dei tuoi amici resti per farti compagnia- disse Kenzaki.
A quelle parole Midorikawa sbiancò e vacillò leggermente. Si morse il labbro per non parlare. Kenzaki accolse la sua reazione con un sorriso compiaciuto, poi guardò oltre le sue spalle, prestando attenzione a qualcun altro per la prima volta. Hiroto si spostò istintivamente davanti a Suzuno, e gli occhi di Kenzaki caddero proprio su di lui. Il suo sorriso si allargò.
-Hiroto Kira... Ops, perdonami, Kiyama. Un vero peccato che tu non sia un Kira, no?- disse. Fece una risatina greve, coprendosi le labbra con una mano. -Seijirou Kira era un vero idiota. Aveva tra le mani un... dono straordinario come il tuo, e non ti ha saputo valorizzare come meritavi. Il massimo che è riuscito a farti fare è stato uccidere qualcuno che era già morto.
Tese la mano verso di lui. -Ma io, per tua fortuna, so riconoscere il talento quando lo vedo. E tu hai un talento preziosissimo! Sarai la mia ricerca migliore, dopo Midorikawa- disse. I suoi occhi si ridussero a fessura. -A meno che Suzuno Fuusuke non mi farà il piacere di venire con me, questa volta? Non ti farò più scappare.
Suzuno trasalì sentendo il proprio nome e cominciò a tremare.
-No grazie- rispose Hiroto in tono gelido, -per entrambi.
Kenzaki lo ignorò. Allargò le braccia in modo teatrale, con una luce folle negli occhi.
-Non posso credere che siate venuti tutti qui, per me! Tutti i talenti migliori, in un unico posto! Mi avete fatto un regalo immenso, ed io saprò ricompensarvi giustamente, non temete!- esclamò. -Ryuuji, Kiyama, Suzuno e...- Si fermò mentre contava sulle dita e la sua attenzione si fissò su Fubuki.
-E naturalmente, Fubuki Shirou... L’adorato cocco di Fuyumi! Deve essere stato devastante, perderla di punto in bianco. Doveva portarvi entrambi, lo sapevi? Ma poi si affezionò talmente tanto a te, che decise di portarci solo tuo fratello-. Kenzaki sospirò in modo esagerato. -Beh, alla fine non ha fatto tanta differenza, no?
Fubuki gli rivolse un'occhiata di puro odio; se avesse potuto pugnalare Kenzaki al cuore in quel momento stesso, lo avrebbe fatto. Hiroto, intanto, li guardava con una certa apprensione. "Fuyumi", anche Kudou aveva fatto quel nome... Almeno adesso Hiroto riusciva a comprendere un po' di più le motivazioni di Fubuki. Sperava solo che non facesse gesti avventati.
-Ti proporrei di portare qui anche tuo fratello- continuò Kenzaki con un sorrisetto, -ma, visto che non ha più il suo dono, sarebbe inutile, no?
Hiroto rivolse a Fubuki un’occhiata supplice, ma Fubuki non lo vide nemmeno.
-Lascia stare mio fratello- sibilò, furioso. Kenzaki lo guardò con sussiego. Intanto Coyote, alle sue spalle, scalpitava irrequieto.
-Ehi, Kenzaki, smettila di ignorarci- si lamentò.
-Non è il momento, Coyote.
Coyote digrignò i denti e puntò il dito verso Fubuki.
-Posso almeno spaccargli la faccia? Non ti dispiace, no?- chiese.
Tutti si irrigidirono. Gouenji guardava preoccupato Fubuki, che però non batté ciglio. Kenzaki lo studiò per un momento, poi si girò verso Coyote.
-Ma sì, basta che siano vivi. Fa’ pure- disse freddamente, e Coyote non aspettava altro.
Vedendolo farsi largo tra gli altri come una furia, Gouenji cercò di mettersi davanti a Fubuki, ma Buffalo lo afferrò per la maglia e lo strattonò all’indietro con prepotenza. Coyote raggiunse Fubuki e lo colpì al volto con un pugno. La testa di Fubuki scattò di lato con uno schiocco nauseante. Hiroto strinse istintivamente gli occhi, pensando a quanto male dovesse aver fatto, ma Fubuki non si perse d’animo. Soffocò il dolore e sputò a terra il sangue che aveva in bocca. Sulle scarpe di Coyote.
Coyote gli diede un altro pugno, con una violenza tale da buttarlo a terra; poi affondò le dita nei suoi capelli e glieli tirò con forza per costringerlo ad alzare la testa. Quando fu certo che Fubuki potesse guardare, tese la gamba ferita e gliela mostrò. La ferita c’era ancora, ma, sebbene il dolore non fosse certamente scomparso, non era più aperta e sanguinante. La pelle aveva un orribile colore scuro, come se fosse marcita, anzi, come se fosse stata bruciata...
Suzuno trattenne bruscamente il fiato. Hiroto lo vide mimare la parola cauterio a fiori di labbra e, d’un tratto, ricollegò il ferretto che aveva visto alla ferita di Coyote. Il suo sguardo scattò su Fox, che aveva il dono del fuoco di Bonitona. Pur di richiuderla, avevano cauterizzato la ferita. Doveva essere stata un’agonia. Se si fosse trattato di altri Hiroto non l’avrebbe creduto possibile, ma loro erano abbastanza folli da farlo. Abbastanza assetati di potere da non fermarsi davanti a nulla.
Fubuki non riusciva a muoversi. Coyote lo canzonò.
-Hai visto, perdente? I tuoi sforzi non sono serviti a niente.
Ma, con suo grande disappunto, Fubuki si rifiutava di guardare. Coyote lo tirò con più forza, ma Fubuki si morse il labbro per non farsi sfuggire versi di dolore e continuò a fissare ostinatamente il pavimento. A quel punto Coyote si stancò e lo lasciò andare.
-Io sono ancora in piedi e tu no- disse in tono asciutto. -Io sono forte e tu debole. E appena sarà possibile ti farò pagare l’umiliazione che mi hai dato. E dopo essermi occupato di te, cercherò tuo fratello e finirò il lavoro, puoi starne certo.
Sentendo nominare il fratello, Fubuki alzò di scatto lo sguardo con rabbia. Coyote ghignò, perché la sua provocazione aveva avuto effetto.
-Bravo. Questo è lo sguardo che voglio vedere- disse, gli diede un calcio in pieno petto. Fubuki cadde all’indietro e si rannicchiò su se stesso tossendo.
-Può bastare- intervenne Kenzaki. Coyote sbuffò, chiaramente insoddisfatto, ma obbedì e si ritirò. Kenzaki si portò una mano al mento con fare pensieroso.
-Uhm, dov’eravamo? Oh, sì. Stavo decidendo chi di voi portare con me- riprese come se nulla fosse successo. -Vi propongo un semplice scambio. Se verrete con me, vi svelerò i segreti della mia ricerca. Eccitante, vero? Potreste ottenere un potere illimitato... e persino sconfiggere la morte!- Si fermò con un sospiro e li guardò uno a uno con uno sguardo di compassione.
-Sicuramente non vi piaccio molto, ma i partner in affari non devono per forza piacersi, no? Funziona così nel mondo degli adulti. Non crediate che Garshield Bahyan ed io fossimo grandi amici. Ma eravamo grandi partner d’affari. Grandi- continuò, si strinse nelle spalle. -Seijirou Kira, invece, non ha mai voluto sporcarsi le mani. Gli proposi di vendergli i miei segreti quando era capitano di polizia, ma rifiutò. Bah. Se avesse accettato, magari suo figlio si sarebbe salvato. Invece Bahyan li ha comprati prima di tutti e ha deciso di ammazzare il ragazzo. Un vero peccato. Ma in fondo è servito più da morto che da vivo. Guardate che splendidi esperimenti Bahyan ha creato con il mio aiuto!
Kenzaki allargò le braccia per indicare Coyote, Fox, Buffalo, Jackal. Ma era tutto assurdo. Hiroto non riusciva a guardare Kenzaki in faccia; c’erano troppe informazioni in gioco e gli stava venendo da vomitare. Le parole di Kudou riaffiorarono nella sua memoria.
Nel caos che seguì, molti fascicoli furono trafugati e i segreti delle nostre ricerche furono venduti nell’ambito militare.
Garshield Bahyan aveva fatto la sua fortuna vendendo armi e attrezzature militari. Commerciando segreti. Cosa che Seijirou si era rifiutato di fare... Seijirou Kira era diventato Spy Eleven per i suoi meriti come capitano di polizia e si occupava principalmente di contatti con l’ambito militare... Erano tutte cose che Hiroto sapeva benissimo. Quante volte aveva letto i fascicoli sui vecchi lavori di suo padre? Quante volte aveva guardato con ammirazione i vecchi trofei, i distintivi, le targhe appese in casa e in ufficio? Ma, nonostante tutti gli anni trascorsi insieme, in quel momento Hiroto realizzò di non aver mai veramente conosciuto l’uomo chiamato Seijirou Kira. Non aveva mai avuto accesso alle sue motivazioni, ai suoi pensieri, alle sue paure. Ora che conosceva tutta la verità, dovette fare appello a tutte le sue energie per non andare in pezzi mentre tutte le certezze gli crollavano addosso. Non aveva intenzione di mostrarsi debole, ma non riusciva a trovare nulla a cui appigliarsi.
Poi la voce di Midorikawa ruppe il silenzio, dura, impietosa.
-Perché?
Una domanda che aveva il peso del mondo intero. Hiroto cercò Midorikawa con lo sguardo. Pensava che assistere al suo coraggio lo avrebbe rassicurato; invece, quando posò gli occhi su di lui, fu come ricevere una scossa violenta.
Midorikawa, tremante di rabbia, coi capelli sciolti e scarmigliati che gli circondavano il volto, era furia allo stato puro, come l’immagine stessa di Medusa, e guardava Kenzaki dritto negli occhi come se volesse tramutarlo in pietra.
-Perché?- ripeté Kenzaki, senza capire. Sbatté le palpebre, perplesso: la domanda sembrava averlo preso in contropiede. -Che vuoi dire, perché?
Midorikawa serrò la mascella.
-Qual è lo scopo della tua “grande” ricerca?- domandò aspramente.
-Ah- mormorò Kenzaki. -Non te lo avevo detto? Eppure pensavo che, proprio tu, tra tutti, avresti capito. Non ho forse detto che avrei sconfitto la morte?
Si passò una mano nei capelli con fare drammatico.
-Io voglio te, Ryuuji. Tutto quello che sei. Perché tu puoi sopravvivere alla morte? Perché non dare questo grande dono a tutti? Se potessimo avere l’immortalità... Ah, non sarebbe forse il più grande successo, per uno studioso? Io voglio il potere, la gloria, la massima conoscenza, voglio tutto, tutto- affermò Kenzaki. Adesso non appariva più calmo e controllato; al contrario, il suo viso era deformato dalla follia e la sua voce cresceva sempre più in volume man mano che si lasciava prendere dall’eccitazione.
-E ho votato tutta la mia vita a questo grande scopo! Anche se gli altri non capiscono... Anche se ho dovuto lottare per ogni briciolo di riconoscimento...! Quando scoprirò il tuo segreto, Ryuuji, diventerò l’uomo che ha scoperto l’immortalità. Il nuovo Prometeo!
-Beh, grazie a me Bahyan ha avuto i suoi soldati- Kenzaki si fermò e accennò a Coyote. -Grazie alle mie ricerche, ha potuto tirar fuori dei soldati eccellenti da comunissimi ragazzini di strada... che, lo ammetto, hanno del potenziale. Ma Bahyan si è sempre fermato a piccoli risultati... Si può pensare molto più in grande! Per questo ho stretto un accordo con questi ragazzi. Io so cosa bramano più di tutto... E gliel’ho offerto su un piatto d’argento.
-Potere- soffiò Kenzaki. -Ho dato loro libertà e potere, e in cambio sono diventati cavie del mio esperimento. Dal momento che ho mescolato il loro sangue con quello dei drifter sacrificati, non hanno più bisogno di pietre o altri mezzucci per usare quei doni. Certo, è ancora un risultato imperfetto... Non sono certo come te, Ryuuji... Ma sono un passo più vicino a al mio sogno di sconfiggere la morte! E...
-Ci hai promesso anche di liberare nostro padre- lo interruppe Coyote, accigliandosi.
Kenzaki sbuffò, seccato di essere stato interrotto, e fece un segno di deferenza con la mano.
-Oh sì, sì, certo- lo liquidò. -Gashield Bahyan è stato un ottimo alleato, sapete. Le persone avide non mi dispiacciono; sono le più facili da capire, dopotutto.
Anche se il tono non era dei migliori, Coyote parve soddisfatto della risposta; lui, Fox, Jackal e Buffalo si scambiarono occhiate compiaciute. Per loro la liberazione di Garshield era una notizia da festeggiare, tanto quanto era una disgrazia per la giustizia. Hiroto rabbrividì pensando a quanto avevano perso in quella battaglia. Il solo pensiero che quell’incubo potesse ricominciare bastava a terrorizzarlo.
Poi lo sentì. Un debole bip, dal suo fianco destro. Hiroto s’irrigidì per un momento, perplesso, ma si riscosse quando si ricordò del cercapersone. Gettò una rapida al dispositivo e notò che sul lato superiore si era accesa una lucina verde, appena visibile. Qualcuno stava cercando di contattarlo: era un segnale.
Il sollievo lo travolse come un’onda, ma era ancora presto per cantare vittoria. Ora più che mai dovevano stringere i denti e resistere.
Hiroto strinse il braccio di Kazemaru per attirare la sua attenzione e, quando l’altro si girò, tamburellò piano un dito sul cercapersone. Lo sguardo di Kazemaru cadde quasi automaticamente su quel punto e un barlume di speranza accese il suo viso. Hiroto gli lasciò il braccio e, sempre tenendo lo sguardo fisso su Kenzaki e Coyote, si avvicinò di un mezzo passo a Suzuno. Suzuno aveva già visto il segno che Hiroto aveva fatto a Kazemaru; perciò intuì subito qual era il messaggio e lo passò a Nagumo e Gouenji. Intanto, Kazemaru aveva urtato casualmente Endou, così da potergli sussurrargli qualcosa. Hiroto vide mille emozioni passare sul volto dei compagni, e anche come si sforzarono di sopprimerle per non risultare sospettosi.
In quel momento, Kenzaki alzò una mano e guardò l’orologio da polso.
-Oh, ma è già così tardi! È stata una conversazione molto piacevole, ma credo che dovremo finirla qui. La mia ricerca mi aspetta!- esclamò in tono brioso, come se stesse annunciando di voler fare un picnic. Si girò verso il suo plotone di difesa e schioccò le dita.
-Su, prendeteli- ordinò serenamente.
A rispondere subito all’ordine furono gli uomini in nero, che cominciarono ad avanzare lentamente verso i ragazzi, stringendo il cerchio attorno a loro. Quando furono a pochi metri da loro, Hiroto guardò Kazemaru.
-Adesso!- gridò, e Kazemaru si mosse come un fulmine.
Balzò in avanti, agguantò Midorikawa e, tenendolo stretto tra le braccia, evocò il suo dono. In un istante attorno a loro si formò un ciclone d’aria tanto violento da costringere gli uomini a indietreggiare. Nella stanza si levarono grida di stupore e spavento. Kazemaru fece un altro sforzo e ingigantì il ciclone fino a fare il vuoto attorno a sé: era stanco, e non sarebbe riuscito a mantenere vivo il ciclone a lungo, ma l’importante era guadagnare quei pochi secondi. Approfittando di quel piccolo vantaggio, infatti, Hiroto e gli altri si raggrupparono rapidamente attorno a Kazemaru e Midorikawa. Resistere era la parola chiave.
Dal nulla, la lama infuocata di Fox tagliò una parete del ciclone e nel vento cominciarono a danzare delle lingue di fuoco. Gouenji cercò di cambiarne la direzione prima che si propagassero, ma, occupato com’era a sostenere Fubuki con un braccio solo, riuscì soltanto a spedirle verso il soffitto. Una fiammata colpì una delle luci al neon, che esplose in una doccia di scintille, e tutti urlarono. I ricercatori corsero a tuffarsi dietro il bancone, sperando così di proteggersi. Persino Kenzaki non si sforzava più di apparire calmo e urlava come un ossesso.
-Cosa state aspettando?! Ryuuji, catturate Ryuuji!
Ma, nonostante lui si agitasse e si sbracciasse, le altre guardie non si muovevano. Guardavano ora Kazemaru, ora Fox, con crescente preoccupazione, probabilmente perché non volevano trovarsi tra i due fuochi. Anche gli uomini in nero esitavano ad aprire il fuoco: si limitavano a osservare la situazione per capire che tipo di piega avrebbe preso.
Dopo aver dissolto l’attacco di Kazemaru, Fox si scagliò contro di lui con la spada infuocata, ma fu bloccato dalla Mano di luce di Endou, che si materializzò come un muro tra loro. Fox la colpì con violenza, ma non riuscì a smuoverla di un millimetro, perché la volontà di Endou era più forte della sua. A quel punto anche Jackal si gettò nella mischia. Anche se l’ordine di Kenzaki era di catturarli, aveva nello sguardo una furia omicida tale che Hiroto ebbe paura di aver innescato uno scontro all’ultimo sangue.
Jackal si lanciò su Endou come una furia e, con un fendente ben mirato, gli lacerò la spalla. Il sangue iniziò a sgorgare a fiotti dalla ferita. Endou perse la concentrazione per un istante, ma la ritrovò subito dopo e, nonostante il dolore, la Mano di luce non vacillò. Niente gli avrebbe impedito di proteggere Kazemaru. Jackal sollevò di nuovo la spada, deciso a piegare la sua volontà a costo di tagliargli un braccio; ma, quando fece per virare il colpo, si bloccò come se qualcosa lo stesse tirando da dietro.
Nagumo era alle sue spalle, con una mano stretta attorno all’elsa della sciabola. Rivolse a Jackal uno sguardo sprezzante.
-Ci rivediamo, stronzo- soffiò tra i denti, poi le sue dita si ricoprirono di fiamme. L’elsa si arroventò in un istante e Jackal cacciò uno strillo di sorpresa e dolore. Cominciò ad agitarsi per liberarsi di quel ferro ardente e salvarsi la mano, e Nagumo glielo lasciò fare. La sciabola cadde a terra e nessuno osò prenderla. Jackal si guardò incredulo la mano coperta di bolle rosse, poi alzò su Nagumo uno sguardo carico di odio. La stanza iniziò a tremare. Stava arrivando una nuova scossa. Kazemaru si strinse ancora di più a Midorikawa, mentre Hiroto spostava Nagumo e prendeva il suo posto. Aveva un solo pensiero in testa. Se solo fosse riuscito a toccare Jackal... Allungò la mano verso di lui e per un momento riuscì a sfiorarlo.
Le scosse si fermarono di colpo.
Nagumo sospirò, ma Hiroto non riusciva a condividere il suo sollievo. Sapeva di non essere stato lui a fermare Jackal. Fissò l’avversario negli occhi e capì di avere ragione quando vide la sua stessa incredulità nello sguardo dell’altro. Si girò di scatto verso Fox, che stava fissando la lama della sua spada, non più avvolta dalle fiamme, con lo stesso stupore. Anche Buffalo si era fermato, e l’espressione di Coyote era un misto di sorpresa e orrore. Hiroto trattenne il fiato e tornò a guardare Jackal, il cui volto era contratto in una smorfia, come se si stesse concentrando per immagazzinare una grande quantità di potere. Solo che quel potere non c’era più.
-Ah, dannazione- sbottò Kenzaki.
Sembrava molto infastidito dall’inconveniente. Ignorando tutti gli sguardi su di sé, si passò una mano tra i capelli e borbottò qualcosa sottovoce; poi sfilò dalla giacca una piccola agenda di pelle e cominciò a sfogliarla febbrilmente.
-Esperimenti imperfetti- mormorò con disgusto. -Pessimo, pessimo materiale di partenza...
-Cosa stai dicendo? Cosa succede?- lo interruppe Coyote con una nota isterica nella voce.
Kenzaki non gli rispose, se non con uno sguardo gelido e sprezzante.
La sua reazione confermava ciò che Hiroto aveva già capito.
-I loro doni stanno sparendo- parlò prima di pensare, e subito si coprì la bocca con una mano. Coyote gli scoccò un’occhiata furiosa, poi si rivolse a Kenzaki.
-Cosa sta succedendo, Kenzaki?!- sbraitò.
Kenzaki fece schioccare la lingua contro il palato.
-È inutile che te la prendi con me. Il mio lavoro è stato impeccabile. Non è colpa mia se il materiale di partenza era scadente- ribatté seccamente, chiudendo l’agendina con un gesto di stizza e agitandola davanti al naso di Coyote. -È tutto scritto qui dentro! Un lavoro perfetto, non potevo fare di meglio! Potete incolpare solo voi stessi!- lo rimbeccò in tono infantile.
Grazie a quella farsa, però, Hiroto riuscì a dare una buona occhiata all’agenda. Avrebbe scommesso un occhio che era quello il contenuto del libro portaoggetti che lui e Fubuki avevano trovato vuoto. Non poteva essere altrimenti. Nella sua mente riaffiorò l’immagine della targa e delle iniziali incise sopra. Come aveva potuto essere così idiota da non arrivarci? Quello doveva essere proprio l’ufficio di Kenzaki, e loro dovevano assolutamente mettere le mani su quell’agenda.
Ma, prima ancora che Hiroto potesse pensare a come prenderla, Kenzaki se la infilò nuovamente nella parte interna della giacca, nascondendola alla loro vista.
-Beh, a questo punto direi che non se ne fa più niente- disse, arricciando le labbra sottili in un broncio. Coyote lo fissò sbigottito, poi la sorpresa si tramutò in sospetto. Fece un passo verso Kenzaki con i pugni stretti lungo i fianchi.
-Cosa sta dicendo?!- esclamò.
-Devo farti lo spelling?- Kenzaki alzò un sopracciglio. -Siete zavorra, un peso morto, una palla al piede, un’inutile e fastidiosa spina nel mio fianco. Potete tornare a casa vostra, per la strada, o emigrare dove vi pare, non mi importa più.
Coyote digrignò i denti e puntò i piedi.
-Abbiamo fatto tutto ciò che volevi. Vogliamo la nostra ricompensa.
Kenzaki lo guardò come se ne fosse ricordato solo in quel momento.
-Ah, sì. La vostra ricompensa- disse con aria solenne. Poi, dopo un attimo di silenzio, gli angoli della sua bocca si piegarono all’insù.
Quando non riuscì più a mantenere un’espressione seria, Kenzaki tirò indietro la testa in una fragorosa risata.
-La vostra ricompensa! La ricompensa!- ululò, mentre sghignazzava come se avesse appena fatto la battuta del secolo. Anche se tutti gli altri lo guardavano basiti, Kenzaki rise ancora un po’ e fece persino finta di asciugarsi delle lacrime.
-A dire la verità, non ci penso nemmeno!- esclamò. Coyote e i suoi compagni lo fissarono con un misto di shock e rabbia, ma Kenzaki li ignorò apertamente e si rivolse al resto della platea come se stesse eseguendo un monologo teatrale.
-Bahyan era un ottimo alleato. Era così facile da manipolare- proseguì imperterrito. -Ma non ha mai riconosciuto il mio valore! Il merito era tutto mio, ma lui non l’ha mai voluto riconoscere! E negli ultimi anni era diventato una piaga insopportabile. Nonostante gli avessi già dato tutto quel materiale, continuava a chiedermi di più, sempre di più! Avevo pensato di liberarmene io stesso, a un certo punto, ma mi avete anticipato. Poco male! Mi avete fatto un gran favore!
Scoppiò in un’altra risata ululante.
-I patti...- provò di nuovo Coyote, ma Kenzaki lo interruppe.
-Oh, ti prego- disse con enfasi. -Credete davvero che avrei fatto un patto con voi? Mi servivano solo delle pedine da utilizzare a mio piacimento. E ora siete solo... dei giocattoli rotti.
I ragazzi di Garshield cominciarono a tremare di rabbia.
-Tu ci hai usati per i tuoi scopi- sibilò Coyote, furioso.
-Esatto. E in modo brillante, aggiungerei! Non ho mai avuto intenzione di parlamentare con il vostro capo. Guardate, il lato positivo, però! Magari sta apprezzando il suo tempo in cella-. Le sue labbra si curvarono in un sorriso da brividi. -Anche se suppongo che a quest’ora sia già troppo tardi per chiederglielo- aggiunse in un sussurro.
Il volto di Coyote si fece violaceo.
-Cosa gli hai fatto?- disse. E poi ancora, gridando:- Che cosa gli hai fatto?!
Kenzaki scrollò le spalle e Coyote esplose.
-I patti non erano questi! Avevi detto che, se ti avessimo aiutato, tu lo avresti liberato! Lo avevi giurato!- Indicò Midorikawa. -Avevi detto che se fossimo diventati come lui...
-Ah, ma questo possiamo verificarlo subito- lo interruppe Kenzaki.
Poi, senza preavviso, estrasse dalla cintura una pistola e crivellò il busto del ragazzo di piombini. Dalle ferite sgorgò subito sangue rosso vivo e, per un momento, parve quasi che sul petto e sul torace gli fossero sbocciati dei fiori rossi.
-No!- Fubuki gridò, disperato. Cercò di gettarsi verso Coyote, ma Gouenji lo trattenne.
Coyote si guardò le ferite, incredulo, come se non credesse davvero di poter morire. Si girò a cercare i suoi compagni, i suoi fratelli, ma i suoi occhi si erano già offuscati e non potevano più vedere nessuno. Coyote cadde a terra e non si rialzò. Le sue labbra si schiusero mentre pronunciava per l’ultima volta il nome dell’uomo a cui era rimasto leale fino alla fine. La voce non uscì. Era immobile. Morto. E con lui se n’era andata anche l’unica speranza che avevano di riportare indietro il dono di Atsuya.
Nella hall calò un silenzio tombale. Kenzaki attese qualche minuto per vedere se Coyote si sarebbe rialzato, ma, visto che non succedeva nulla, fece un sospiro drammatico.
-Un vero peccato- mormorò. Si girò verso i suoi colleghi. -Come potete vedere, l’esperimento è ancora imperfetto- li informò in tono amareggiato, ma gli altri non parevano condividere il suo stato d’animo. Più che per i risultati della ricerca, sembravano preoccupati della propria incolumità, e fissavano la pistola tra le mani di Kenzaki con il terrore di essere i prossimi. Per loro fortuna, in realtà Kenzaki non cercava secondi pareri. Gettò via l’arma scarica e scrollò le spalle, poi si rivolse al manipolo di guardie e sicari che gli era rimasto.
-Prendete Ryuuji e ammazzate tutti gli altri.
A quelle parole Fox, Buffalo e Jackal si riscossero dallo shock e si lasciarono andare a grida di sdegno, rabbia e dolore per tutto quello che avevano perso. Buffalo reagì per primo: accecato dai propri sentimenti, si lanciò contro la schiera di guardie come un treno in corsa. Gli uomini aprirono il fuoco, ma Buffalo continuò a picchiare duro, incurante dei proiettili che lo colpivano e del sangue che schizzava dalle ferite. Incoraggiato dalla sua furia, anche Fox piombò sulla folla ferendo a colpi di spada chiunque capitasse a tiro. Jackal s’insinuò tra le fila delle guardie e scomparve alla vista in breve tempo.
I ricercatori non rimasero ad assistere alla disfatta, ma, usando le guardie come scudo, si mossero in gruppo verso l’uscita, strisciando sotto i muri come una fila di ratti. A quanto pareva, avevano deciso all’unanimità che la gloria o qualsiasi altro premio Kenzaki avesse promesso loro non valeva la candela, e che era molto meglio salvarsi la pelle finché potevano. Erano ormai quasi alla porta quando Kenzaki si accorse della diserzione di massa.
-Dove andate? Dove andate?! Traditori! Voltagabbana! Giuda! Io vi rovino!- starnazzò.
Purtroppo per lui, però, i suoi colleghi fecero finta di non aver sentito e proseguirono la fuga, forti del fatto che Kenzaki non avrebbe potuto raggiungerli senza rischiare di rimetterci a sua volta le penne. Anche Kenzaki dovette rendersene conto. Li guardò con odio, livido per l’indignazione, ma decise di lasciarli perdere: voltò loro le spalle e si diede alla fuga in direzione opposta, imboccando il corridoio.
Non appena lo vide, Hiroto si lanciò all’inseguimento senza dare spiegazioni a nessuno, non ce n’era il tempo. I rinforzi sarebbero arrivati presto, ma intanto lui doveva mettere le mani su quell’agenda a qualsiasi costo. Non avrebbe lasciato che Kenzaki la facesse franca una seconda volta, non dopo tutto il male che aveva causato. Kenzaki doveva pagare per tutto.
Scivolando lungo il muro, Hiroto evitò il più possibile la battaglia. Perse di vista Kenzaki, lo ritrovò per un istante, poi lo perse di nuovo e non lo vide più. Quando Hiroto imboccò il corridoio a sua volta, Kenzaki sembrava essersi volatilizzato. Ma non poteva essere andato lontano. Non dava l’aria di essere molto atletico, e l’unica via di fuga erano le scale. Hiroto si gettò uno sguardo indietro, poi tirò fuori la pistola e proseguì senza esitare.
Prima di salire, decise di dare un’occhiata in giro per accertarsi che Kenzaki non si fosse nascosto. Passò davanti a una porta con un oblò chiuso da una graticola di ferro. Uno sgabuzzino, probabilmente. Sbirciando all’interno, Hiroto vide dei manici di scopa e un paio di secchi. Non c’era abbastanza spazio per nascondersi.
Più avanti c’era un’altra porta. Hiroto la aprì ed entrò. 
Su un lato c’era una fila di banconi, qualche caffettiera elettrica, e due macchinette automatiche piene di snack. Nello spazio rimanente erano stati messi quattro tavolini di plastica con il doppio delle sedie. A quanto pareva, si trattava di una specie di caffetteria dove sgranocchiare una barretta di cereali e fare due chiacchiere sugli esperimenti umani in corso. Hiroto adocchiò con disgusto il cestino, pieno di carte fino all’orlo, poi si guardò attorno cercando un’apertura qualsiasi da cui Kenzaki avrebbe potuto lasciare l’edificio.
All’improvviso delle braccia lo agguantarono alle spalle, bloccandogli le mani dietro la schiena per immobilizzarlo.
Hiroto non esitò un istante: pestò il piede dell’aggressore con forza, poi tirò la testa all’indietro e lo colpì al mento. La persona si lasciò sfuggire un gemito di dolore. Non appena la presa si allentò, Hiroto si voltò e fu sorpreso e irritato di trovarsi faccia a faccia con Jackal. Non sapeva perché Jackal avesse lasciato l’altra battaglia per inseguire lui, ma non era importante. Era chiaro che l’altro cercasse uno scontro. E la pazienza di Hiroto era ormai finita.
Si fissarono intensamente per qualche secondo, poi Jackal attaccò di nuovo. Con i capelli grigi scompigliati e i denti scoperti sembrava un lupo affamato, ma Hiroto non si lasciò intimidire. Si era allenato con persone molto più temibili di lui per parecchi anni. Si accucciò all’ultimo secondo e ruotò su se stesso, colpendolo alle gambe; poi, mentre Jackal incespicava, si tuffò a sinistra con una mezza capriola e si portò alle sue spalle. Guizzò in piedi e si slanciò contro l’avversario premendogli un gomito tra le scapole. Jackal emise un guaito di dolore e cadde a quattro zampe a terra. Hiroto non perse tempo: si rialzò in piedi e osservò attentamente l’avversario di spalle per trovare punti deboli da sfruttare.
Una volta ripresosi, Jackal scattò in piedi, si girò e gli andò addosso. I suoi movimenti erano più lenti di prima, per cui Hiroto lo evitò con facilità; tuttavia non si rese conto di essere molto vicino ai banconi e per poco non ci sbatté dentro. Jackal approfittò della sua esitazione per aggredirlo di nuovo: stavolta, riuscì a prendergli una spalla e, tenendolo bloccato sul posto, lo colpì al volto due volte consecutive. Hiroto non poté far altro che incassare i colpi e subito sentì in bocca il sapore del sangue.
D’istinto gli afferrò il collo della maglia e, tirandolo verso di sé, gli assestò una testata in faccia. Alle sue orecchie arrivò un raccapricciante scricchiolio. Jackal scattò all’indietro con un grugnito di dolore, mentre si premeva una mano sul naso, da cui grondava un fiumiciattolo di sangue.
Hiroto lo afferrò per un braccio e, con un forte strattone, lo spinse contro la macchinetta automatica più vicina. Jackal rimase per un attimo stordito dall’impatto, dando a Hiroto il tempo di allontanarsi il più possibile dai banconi. Stavolta non avrebbe fallito.
Quando riuscì a rimettersi in piedi, Jackal era furioso per l’umiliazione subita. Senza più pensare a nulla, accecato dalla disperazione, lanciò un grido di guerra e gli corse addosso.
Hiroto ebbe giusto il tempo di prepararsi all’impatto prima che Jackal lo investisse in pieno e lo gettasse a terra. Gli si mozzò il fiato. Jackal si sedette a cavalcioni sul suo stomaco e gli serrò le mani attorno alla gola. Il suo viso era una maschera di rabbia, con le narici dilatate, i denti scoperti, gli occhi ridotti a fessura. Ma Hiroto non aveva più paura di lui. Tenne gli occhi fissi nei suoi mentre gli prendeva le mani. La stretta cominciò ad allentarsi.
Jackal spalancò gli occhi e fissò Hiroto con sorpresa, come se l’avesse messo a fuoco solo in quel momento. Forse stava iniziando a capire, ma poco importava. Ormai era questione di attimi. Jackal provò a dire qualcosa, a insultarlo o maledirlo, ma le forze gli vennero meno: le labbra si mossero a malapena, e non ne uscì neanche un suono. Le palpebre si chiusero pesantemente e Jackal cadde in avanti, afflosciandosi come un fuscello.
Tossendo, Hiroto se lo scrollò di dosso e si trascinò fino a una parete. Si appoggiò con la schiena al muro e, mentre riprendeva fiato, considerò i danni subiti. Avvertiva un forte dolore alla spalla, dove di sicuro stava affiorando un livido; aveva anche delle fitte al fianco destro, un labbro spaccato e il respiro corto per essere stato quasi strangolato. Nulla di irreparabile. Attaccato al suo fianco, il cercapersone faceva ormai un rumore sempre più insistente. Hiroto si passò il dorso della mano sul viso per asciugare il sangue e si costrinse a pensare.
Doveva pianificare la prossima mossa. Coyote era morto, Jackal fuori combattimento. Fox e Buffalo erano ancora nell’ingresso, da dove provenivano grida e altri rumori. Malgrado i muscoli indolenziti, Hiroto tentò di rimettersi in piedi usando la parete come sostegno. 
In quell’istante, una violenta scossa fece tremare il pavimento sotto i suoi piedi e lo fece desistere. Hiroto scivolò di nuovo contro il muro e sollevò lo sguardo verso il soffitto di cartongesso, che andava a incrinarsi sempre di più man mano che la scossa si intensificava. Il palazzo intero stava tremando, minato alle fondamenta. Hiroto aveva già assistito a una cosa del genere una volta, una volta sola, che pensava gli sarebbe bastata per tutta la vita. E invece si trovava sul punto di affrontare di nuovo il volto della distruzione: era un volto che conosceva molto bene. Tutti i tasselli nella sua mente stavano finalmente tornando al loro posto.
Se non capisci neppure questo, non riuscirai a proteggerlo.
Midorikawa non aveva affatto perso i poteri, li stava solo nascondendo.
Faceva tutto parte dei suoi piani.
 
 
 

 

**Angolo dell'autrice**
Ehilà, lettori! Incredibile ma vero, sono risorta dagli abissi.
Purtroppo il 2020 per me è stato un anno disastroso, non solo per la pandemia (che ovviamente ha peggiorato tutto, inutile dire altro); una circostanza che pensavo sarebbe stata felice si è rivelata invece tossica, e mi sono ritrovata in un ambiente ostile dove non avevo alcuno stimolo a scrivere o creare qualsiasi cosa. Fortunatamente il NaNoWriMo invece è stato molto produttivo e sono riuscita a portare a termine una oneshot, questo capitolo e parte del prossimo. L'editing di questo capitolo è stato massacrante e perciò voglio ringraziare la mia ohana che ci ha dato un ultimo sguardo ;u;
Infine voglio dire che Shiro è diventato tipo il mio preferito (lol) e mi pento di non aver scritto molto di più su di lui, perché è così rancoroso e ferale, e per questo... catartico, in qualche modo? Comunque ho riscoperto anche un vecchio ma nuovo amore per Hiroto ♥
Alla prossima, 
      Roby

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Capitolo 52
*** Mission 52. ~Midorikawa's Arc. ***


 
Ormai lo sapete che scrivo sentendo molta musica (ho una playlist apposita per Spy Eleven!), quindi anche stavolta vi beccate le ost consigliate per il capitolo: ♫ x, x, x ♫ 
Buona lettura e ci rivediamo come al solito nelle note in basso ↓


 
[Midorikawa P.O.V.]
 
 
 
Nessun piano è a prova di imprevisti, perciò non è che non ne avessi messo in conto qualcuno. Ma non avrei mai potuto prepararmi all’arrivo di Coyote e Fox, o all’entrata in scena della polizia capitanata da Hitomiko. Almeno quest’ultima giocò a mio favore.
Quando Endou e Hiroto avevano parlato di rinforzi, non mi aspettavo certo di vedere un centinaio di persone.Tra queste, riconobbi i miei compagni di squadra; Hitomiko, naturalmente, ma anche Kidou, Maki e Reina. Con mia grande sorpresa vidi anche altri volti familiari, come Zell e Desarm, che non capivo perché fossero lì. Non credevo che ci sarebbe stato il tempo di chiederlo. In ogni caso, la marea blu entrò sfondando l’ingresso e in pochi secondi invase la hall, chiudendo ogni via d’uscita; la situazione non poteva che volgere a nostro vantaggio. Anche gli uomini assoldati da Kenzaki lo capirono e, come se si fossero messi tacitamente d’accordo, lasciarono tutti cadere le loro armi e alzarono le mani in segno di resa mentre i poliziotti li tenevano sotto tiro. Non opposero resistenza neanche quando furono messi in manette: almeno per loro, la notte era già finita. Una volta scomparso Kenzaki, non avevano motivi per continuare la battaglia. Volgendo lo sguardo verso l’entrata, notai che anche i ricercatori erano stati intercettati e arrestati, e osservai per qualche istante le loro facce pallide e angosciate. Dovevo ammettere che era un piacere vedere le loro espressioni sconfitte. Ma guardie e ricercatori erano solo pesci piccoli. Kenzaki era ancora a piede libero, per non parlare di Buffalo, Fox e Jackal. Anche se avevano perso Coyote erano ancora pericolosi; anzi, forse lo erano più di prima, mossi dalla rabbia e dal lutto ancora fresco.
Mi accigliai. Per quanto guardassi, non vedevo traccia di Fox e Jackal da nessuna parte. L’unico ancora in vista era Buffalo che, come c’era da aspettarsi, stava dando un bel po’ di filo da torcere ai miei colleghi. Nonostante perdesse sangue da braccia e gambe, non sembrava intenzionato a fermarsi: a quanto sembrava, aveva perso la percezione del dolore. Il suo volto contratto mi fece pensare alla maschera di un namahage, con due cavità nere al posto degli occhi. Capii che era stato completamente sopraffatto dal dono che aveva ricevuto. A prescindere dall’esito della battaglia, aveva già perso.
La sua fine arrivò all’improvviso quando, nel tentativo di fermare i suoi movimenti, Desarm gli scagliò addosso una scarica elettrica. Avendo usato apposta un voltaggio ridotto per non ucciderlo, però, non riuscì a paralizzarlo del tutto. Il pugno di Buffalo scattò verso destra, dove c’era Reina, ma non la sfiorò nemmeno: rimase bloccato a mezz’aria a circa un metro da lei. Zell si gettò verso Reina e l’afferrò per le spalle, tirandola indietro, ma non ce n’era bisogno. Buffalo aveva perso i sensi mentre era ancora in piedi.
Per un po’ tutti rimasero a fissare quella posa assurda, preoccupati che potesse ricominciare a muoversi da un momento all’altro. Hitomiko fu la prima a riscuotersi dallo shock.
-Arrestatelo! Legatelo ora che è innocuo!- ordinò. I poliziotti ebbero un attimo di esitazione, ma, quando capirono che Buffalo non si sarebbe ripreso, si gettarono subito su di lui per arrestarlo. Non potendo mettergli le manette ai polsi, perché erano troppo piccole, lo legarono con delle corde spesse, poi cominciarono a farlo rotolare verso l’uscita. Sarebbe stata una scena comica, se non ci fossimo trovati in quella situazione.
Una volta terminati gli arresti e portato fuori Buffalo, poliziotti e agenti fecero un ultimo giro di ispezione e così trovarono Jackal: era svenuto in mezzo al corridoio che portava alle scale, e nessuno sapeva come ci fosse finito. Fox, invece, sembrava svanito nel nulla. Era scappato? O si era semplicemente nascosto? In ogni caso, potevamo solo augurarci che non fosse più un pericolo.
Osservavo tutto questo con uno strano distacco, come se lo stessi vedendo succedere attraverso uno schermo. Tutto questo avrebbe presto smesso di essere un mio problema. C’era soltanto un’ultima cosa che dovevo fare. Dopo essermi trascinato all’entrata, mi appoggiai contro una parete e mi misi a guardare le persone che, più o meno ordinatamente, lasciavano l’edificio, in attesa di vedere i miei compagni e accertarmi che stessero bene.
E, poco alla volta, li vidi. Burn e Gazel furono i primi a passare, sostenendosi a vicenda. Non avevano riportato grandi danni, fisicamente, ma Gazel era a pezzi dopo aver usato il suo dono in un modo a cui non era abituato. Quando mi passarono accanto, Gazel mi scoccò un’occhiata stanca, ma per qualche motivo si voltò subito dopo, come se quello scambio di sguardi avesse avuto un costo. Subito dopo vidi arrivare Gouenji con Fubuki in spalla. Tra quelli che avevano preso parte alla missione, Fubuki era sicuramente quello che ne era uscito peggio. Il suo bel volto era chiazzato di viola e rosso dove era stato colpito più volte da Coyote, e senza dubbio molti altri lividi simili sarebbero presto sbocciati su tutto il suo corpo. Ma c’era dell’altro. Il suo sguardo era privo di vitalità e persino la rabbia che lo animava era scomparsa, come se gli eventi di poco prima l’avessero prosciugata. Rabbia. Era tutto quello che avevo sentito quando avevo lasciato che il mio dono lo toccasse, una rabbia così forte da non poter essere nata da poco. Doveva aver vissuto dentro di lui per anni, alimentandosi di giorno in giorno. Non sapevo perché Fubuki avesse deciso di partecipare al mio salvataggio, né perché fosse così arrabbiato, ma di una cosa ero sicuro. Qualcosa dentro di lui si era spezzato e il suo futuro sarebbe stato determinato da come avrebbe superato quel muro.
Ero impaziente di vedere Hiroto, ma lui non passò. Cominciai subito a preoccuparmi. Forse era già andato avanti, forse aveva raggiunto Hitomiko per darle un primo resoconto della nottata; sarebbe stato da lui. Sollevato ma anche deluso, cercai di convincermi che era meglio così, che non ci fossimo incrociati. Intanto, Endou e Kazemaru vennero verso di me. Erano tra gli ultimi a uscire e, quando mi vide, Kazemaru si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo; dal suo sguardo apprensivo capii che mi stava cercando dopo avermi perso di vista tra la folla. Scambiò un’occhiata con Endou, che annuì e andò avanti, lasciandoci soli, per quanto possibile. Kazemaru mi si avvicinò e, prendendomi delicatamente per la mano, mi parlò a bassa voce.
-Come ti senti? Vuoi che ti porti in braccio?- mi chiese, preoccupato. Cercava di capire come stavo dalla mia espressione, ma evitai apposta il suo sguardo. Non volevo che provasse a leggermi; temevo che avrebbe intuito cosa mi stava divorando. Dovevo trovare il modo di dirglielo, in fretta, prima di essere scoperto.
-Kazemaru, io...- cominciai, ma mentre cercavo le parole giuste un grido straziante mi interruppe. Entrambi ci girammo verso la fonte di quell’orribile suono.
Uno degli uomini di Kenzaki era immobile in mezzo alla stanza, solo. Gli altri gli avevano fatto il vuoto attorno. Accigliato, guardai meglio l’uomo, il cui volto era una maschera di orrore e sorpresa, con occhi e bocca spalancati. Un filo di sangue gli colava dall’angolo della bocca. Abbassai lo sguardo e vidi che la punta di una lama gli usciva dal petto. Una volta estratta la lama, dalla ferita zampillò una fontana di sangue, che si riversò a terra, raggiungendo con i suoi schizzi le persone più vicine. L’uomo emise un rantolo e si accartocciò su se stesso; il suo corpo, riverso a faccia in giù nel suo stesso sangue, non ebbe neppure un sussulto quando Fox gli passò sopra con noncuranza, piantandogli un piede in mezzo alle scapole invece di scavalcarlo. Fox proseguì senza degnarlo di uno sguardo e nessuno osò mettersi sulla sua strada. La spada al suo fianco gocciolava sangue sulle mattonelle a ogni passo. Quando i suoi occhi scuri si posarono su di me, intuii che il suo interesse per le guardie di Kenzaki era scemato nel momento in cui lui se l’era data a gambe, e che aveva ucciso quell’uomo unicamente per attirare la nostra attenzione. La mia attenzione. Nonostante tutto quello che era successo, ero ancora io il suo obiettivo.
Ogni muscolo del mio corpo si tese con la consapevolezza che non avrei evitato lo scontro. Rapidissimo, lasciai la mano di Kazemaru e misi della distanza tra noi, così da non coinvolgerlo accidentalmente. Ma prima che potessi pensare a un piano, Fox scattò in avanti all’improvviso. Non verso di me.
Capii troppo tardi cosa aveva in mente. Tornai indietro, ma in un lampo Fox era già su Kazemaru con la spada sguainata. Delle gocce di sangue volarono sul volto del mio partner, che riuscì soltanto a sgranare gli occhi. Avevo visto molte persone fare quell’espressione sorpresa davanti alla certezza della morte. Lui no. Lui no. Urlai, o almeno credetti di farlo: ogni suono era scomparso, come risucchiato dalla stanza insieme all’aria nell’istante in cui la lama calò su Kazemaru.
Poi Fox estrasse la spada dalla sua gamba con la stessa violenza con cui l’aveva trafitto e, quando Kazemaru urlò, i suoni e le voci tornarono. Il tempo riprese a muoversi con la solita velocità e il sangue cominciò ad allargarsi a macchia attorno al taglio, infradiciando i pantaloni strappati e gocciolando sulle mattonelle. Kazemaru cadde a terra, trascinato verso il basso dal peso morto della sua stessa gamba. Fox avrebbe potuto finirlo in un istante.
Invece, si girò a guardarmi e sorrise.
Anche quello, era stato per me. Lo aveva fatto solo per la mia attenzione.
Il sangue mi andò alla testa di colpo. Lo shock si trasformò in furia e trovai finalmente la forza di reagire. Senza pensarci due volte, sfilai dalla cinta di Kazemaru una pistola e sparai a Fox un colpo che, se non fosse stato abilmente schivato, gli avrebbe trapassato la mascella. Fox si allontanò con un balzo, mi studiò per un attimo e poi tornò all’attacco. Affondò la spada alla mia destra e, quando riuscii a evitarla, ruotò il polso in modo da sferrare un altro colpo in rapida successione. Mi spostai di nuovo, ma lui mi venne dietro senza paura e riuscì a sfiorarmi una guancia con la punta della lama. Era solo un taglietto superficiale, ma iniziò subito a sanguinare. Mentre lui gongolava, gli afferrai il polso della mano dominante e lo tirai ancora più vicino, in modo che non potesse reagire subito, poi gli tirai una violenta gomitata nello stomaco. Non contento, gli sferrai un calcio sotto il mento mentre si piegava in due per il dolore e lo feci ruzzolare all’indietro; poi, approfittando di quella manciata di secondi che avevo guadagnato, mi girai e corsi da Kazemaru. Passandogli un braccio dietro la schiena per sorreggerlo, cercai di rimetterlo in piedi, ma mi resi subito conto che era uno sforzo inutile: stava perdendo troppo sangue per poter camminare. Tentai di dominare il panico. Guardai verso la porta, dove i poliziotti si affrettavano a far uscire gli arrestati, e improvvisamente mi ricordai di Maki. Maki avrebbe potuto chiudere la ferita in un attimo, se solo fossi riuscito a portare fuori Kazemaru...
Fox si rialzò prima che potessi anche solo muovere un passo. Vedendolo avvicinarsi, non pensai più a niente. Alzai la pistola e sparai senza calibrare il mio potere.
Il proiettile esplose con una violenza tale che l’onda d’urto aprì una crepa nel pavimento, divelse le luci del soffitto e spaccò il vetro della finestra. All’ultimo il proiettile impazzì e, prima di arrivare al bersaglio, deviò verso l’alto e si schiantò nel soffitto con un fragore assordante. Lo spostamento d’aria fu così forte che Fox dovette piantare la spada a terra e aggrapparsi per non essere spazzato via. Il soffitto si squarciò e dall’alto cadde una cascata di detriti. Anche quando la polvere iniziò a diradarsi, il brontolio del crollo continuò a risuonare come eco nel silenzio gelido.
La mano mi tremava per il contraccolpo, e fu solo per pura forza di volontà che riuscii a non far cadere la pistola. Dopo poco, però, mi accorsi che tutto il mio corpo tremava, non sapevo se per lo sforzo o per il panico. Per un attimo rimasi a fissare il buco nel soffitto; poi mi ricordai di Kazemaru e abbassai lo sguardo verso di lui, sperando che nel frattempo non avesse perso i sensi. Ma lui era sveglio e mi stava guardando a occhi sgranati. Quando i nostri sguardi si incontrarono, lui sussultò e distolse il suo, come rendendosi conto dell’errore commesso, ma era troppo tardi. Anche se solo per un momento, avevo visto la paura nei suoi occhi.Aveva paura di me. La consapevolezza mi colpì come uno schiaffo in faccia, e sentii subito il familiare bruciore delle lacrime. Non riuscivo a parlare.
Mi forzai a distogliere lo sguardo e, quando alzai gli occhi sull’ingresso, vidi Endou farsi largo tra quelli che stavano uscendo; era l’unico ad andare controcorrente, perciò individuarlo fu semplice. Kazemaru era troppo stordito per reagire, perciò presi quella decisione per lui.
-Endou! Vieni qui, sbrigati!- gridai. Endou alzò la testa di scatto e mi guardò per un istante, poi tornò a chiedere alle persone di spostarsi con maggiore urgenza.
Quando riuscì a entrare e ci raggiunse, gli bastò una sola occhiata per capire che Kazemaru versava in condizioni critiche. Senza perdere tempo, gli dissi di inginocchiarsi e feci salire Kazemaru sulla sua schiena, in modo che Endou lo portasse come lui aveva portato me per tutta la sera. Non mi sfuggiva l’ironia.
Una volta che si furono sistemati, mi rivolsi a Endou.
-Endou, prendi Kazemaru e portalo fuori. Ha bisogno di Maki, subito!
Lui annuì, ma poi il suo sguardo guizzò verso Fox, che nel frattempo si stava rialzando. Mi accorsi che Endou stava esitando, preoccupato al pensiero di lasciarmi solo con Fox, perciò gli misi una mano sulla spalla e lo costrinsi a girarsi verso la porta. Se voleva salvare Kazemaru, doveva correre senza voltarsi indietro; questo era chiaro a entrambi.
-Endou, vai- dissi con voce dura. Stavolta, Endou mi ascoltò.
Intanto, Fox si era rimesso in piedi e, vedendo Endou correre verso l’uscita con Kazemaru in spalla, decise di provare a fermarlo. Si lanciò verso di loro, ma riuscii a mettermi sulla sua strada in tempo per bloccarlo; a quel punto l'impatto fu inevitabile e cademmo entrambi a terra, perdendo di vista le nostre armi. Disarmati, cominciammo a strattonarci a vicenda e a menare colpi alla rinfusa nel tentativo di assumere il controllo. Poi Fox riuscì a scaraventarmi a terra e a bloccarmi sotto di lui, sedendosi sul mio stomaco. Velocissimo, gli afferrai i polsi per impedirgli di strangolarmi a mani nude e ingaggiammo una nuova battaglia di forza. Gli occhi di Fox erano iniettati di sangue.
-È tutta colpa tua! Se solo non fossi mai esistito...!- soffiò tra i denti, a un centimetro dalla mia faccia. La rabbia lo rendeva cieco e vulnerabile, ed io approfittai della sua debolezza. Accumulai potere nella punta delle dita e spinsi avanti le mani con tutte le mie forze. Fox allentò istintivamente la presa per il dolore e finì gambe all'aria.
Inginocchiato a terra, si guardò incredulo le mani e i polsi: nei punti in cui l’avevo toccato si erano formate delle macchie violacee, come piccole ustioni. Prima che si riprendesse dallo shock, scivolai in avanti e gli diedi un calcio nel petto, facendolo cadere all’indietro, poi mi alzai e gli schiacciai la cassa toracica con un ginocchio. Fox tossì violentemente, con il volto rosso e contratto dalla sofferenza. Sapevamo entrambi che non aveva speranza di vittoria. Non quando io potevo ancora contare su un dono e lui no. Per qualche momento restammo così, immobili, a fissarci. Fox fu il primo a parlare.
-Che fai, non mi uccidi?- mi chiese, sprezzante, ma anche confuso. E anche io fui sorpreso di scoprire che la risposta a quella domanda era no. Lo odiavo con tutto me stesso; non c'era nemmeno un briciolo di compassione per lui dentro di me. Ma non lo volevo morto. Forse aveva semplicemente smesso di importarmi.
Senza degnarlo di una risposta, mi rialzai, lo afferrai per il retro della maglia e lo trascinai verso l'uscita. Con mia grande sorpresa, Fox non oppose quasi nessuna resistenza: sembrava svuotato, paralizzato come Buffalo. Attraversai tutta la stanza senza che lui si divincolasse e, una volta arrivato alla porta, lo gettai fuori come spazzatura, in pasto ai poliziotti che sicuramente avrebbero saputo cosa farne. Ma nessuno si avvicinò, almeno non subito. Quando alzai lo sguardo, lessi paura e incertezza nei loro occhi. Paura non solo di Fox, ma anche di me. E come biasimarli? Arretrai lentamente, fermandomi appena dietro l'uscio della porta. Era strano, ma nonostante tra me e gli altri ci fosse solo un varco, per di più aperto, sentivo come se fossimo separati da una barriera invalicabile. Era così che doveva essere.
Tra gli altri, cercai con lo sguardo soltanto Hiroto, ma non riuscii a trovarlo da nessuna parte. Speravo solo che stesse bene e fosse al sicuro. Non chiedevo altro.
Quando mi girai per tornare dentro, qualcuno mi chiamò.
-Agente Midorikawa!- Era Hitomiko. La guardai. Si era fatta largo tra le divise blu per raggiungermi, ma neanche lei osava avvicinarsi troppo. Leggevo nei suoi occhi l'incomprensione e, al tempo stesso, la consapevolezza che stava per accadere qualcosa da cui non avremmo più potuto tornare indietro.
-Agente Midorikawa, questo è un ordine. T-torna indietro- disse Hitomiko, cercando di tenere la voce ferma, ma le sfuggì un tremito alla fine. Feci un altro passo, mi chinai a raccogliere la pistola e mi girai di nuovo verso di lei.
-Mi dispiace, Hitomiko-san. Questo è l'ultimo dei tuoi ordini a cui disobbedisco, te lo prometto- risposi, poi alzai il viso verso l’arco superiore della porta, sollevai la pistola e sparai.
Il colpo vibrò in aria con il fischio di un fuoco d'artificio ed esplose contro la parte superiore della porta, facendola cadere a pezzi; il muro si spaccò con il brontolio di una frana. Mi allontanai per evitare di finirci sotto e rimasi a guardare mentre blocchi di cemento si schiantavano al suolo, accompagnati da una pioggia di detriti. Come speravo, anche chi stava dall’altra parte si scansò. Desarm tirò via Hitomiko, schermandola tra le sue braccia, ed entrambi rimasero a fissarmi impotenti.
Per un attimo vidi anche Kazemaru: il suo sguardo mi diceva che aveva capito, e che aveva paura. Nonostante poco prima si fosse staccato da me, adesso mi stava tendendo la mano, come se avesse potuto afferrarmi davvero. Poi anche quel varco si chiuse, e decisi di non farmi più distrarre.
Girai la pistola per vedere quanti colpi avevo a disposizione e di colpo mi accorsi che era una Smith&Wesson. La mia. Kazemaru doveva averla portata qui per me, e non riuscii a non provare un leggero senso di soddisfazione al pensiero che, dopo tante missioni assieme, sarebbe rimasta con me fino alla fine. Ne accarezzai il dorso mentre la giravo per verificare quanti colpi c’erano dentro. Era stata caricata da poco, probabilmente subito prima di venire lì, perciò solo una camera di scoppio su cinque era vuota. Avevo altri quattro colpi, un numero più che sufficiente per quello che dovevo fare. Mi girai e sparai il secondo proiettile sulla parete sopra alla finestra, in modo da tappare anche quell’entrata, poi andai nel corridoio dove Jackal era stato trovato. Mi fermai e mi guardai intorno. Dove poteva essere andato Kenzaki? Mi costrinsi a pensare come lui. Di certo cercava una via di fuga, ma doveva esserne una che soltanto lui conosceva, una che gli avrebbe permesso di lasciare quel posto indisturbato, senza lasciare tracce…
Il mio sguardo cadde sullo sgabuzzino alla mia sinistra. Sbirciando all’interno, appariva come una stanza normalissima; tuttavia, fece scattare subito qualcosa in me. Una sensazione di deja-vu… un ricordo. La stanza in cui io e mia madre venivamo rinchiusi era sempre buia e puzzava di umido e muffa. Perché si trovava sottoterra.
Tirai un calcio alla porta e la sfondai, poi entrai sbattendo i piedi a terra. Dai pannelli del pavimento veniva un rumore sordo e, se ci si faceva caso, anche un filo d’aria fredda. Come sospettavo. Cercai con lo sguardo il modo per spostare un pannello, finché non trovai una sorta di incanalatura che avrebbe potuto essere una maniglia, ci infilai la mano e spinsi: il pannello mobile si spostò in avanti come una porta scorrevole, rivelando delle scalette di metallo che si srotolavano verso il basso, come le spire di un lungo serpente. Dal fondo, un pozzo nero di oscurità, venivano aria fredda e puzza di muffa. Mi rialzai e tornai indietro, all’imboccatura del corridoio; da lì, caricai un colpo e sparai verso l’alto. La pallottola sfondò il soffitto e il piano superiore e schizzò ancora più su, creando onde d’impatto attorno a sé, finché non si schiantò contro il punto più alto che potesse raggiungere e si distrusse in un’esplosione di fuoco e scintille. Era un segnale che non esitai a cogliere: di lì a poco, la devastazione sarebbe stata dappertutto e la palazzina sarebbe collassata su se stessa, come speravo.
Dopo aver messo la sicura alla pistola, tornai allo sgabuzzino, mi calai nell’apertura e cominciai a scendere le scale un piolo per volta, stando ben attento a dove mettevo i piedi. Non mi preoccupai di chiudere il pannello. Chi avrebbe potuto seguirmi laggiù? E poi, quella che veniva dall’alto, era l’unica luce che avevo. Più andavo in basso, più l’odore nauseabondo di umidità e muffa aumentava, il che significava che ero sulla strada giusta. Il passaggio era largo a stento per una persona sola e il senso di claustrofobia mi stringeva il petto. I miei piedi scivolavano facilmente sul metallo freddo e sudicio. Fu solo con un enorme sforzo di volontà che riuscii a impormi la calma e a continuare la discesa, e nonostante tutto non potei trattenere un sospiro di sollievo quando toccai terra con la pianta di un piede.
Girandomi, mi trovai davanti alla bocca di un tunnel che curvava verso destra. Sapevo che doveva per forza portare ad una stanza, perciò strinsi la pistola tra le dita e imboccai il tunnel, muovendomi a tentoni nel buio come facevo da bambino. L’unica luce era un debole bagliore ovattato alla fine del cunicolo; seguendola, arrivai finalmente in una stanza ovale e stretta. Dalle tubature sul soffitto gocciolava dell’acqua putrida e verdastra, che si raccoglieva a terra nelle sporgenze di roccia; quando finii per sbaglio con un piede in una pozza, riuscii a trattenere a stento un brivido di disgusto. Davanti a me, girato di spalle e ricurvo su un tavolo di metallo, c’era Kenzaki, apparentemente intento a scribacchiare qualcosa su un foglio. Accanto alla sua mano una torcia emanava la debole luce che mi aveva fatto da guida.
Non appena sentì i passi alle sue spalle, Kenzaki si voltò di scatto. Aveva i capelli spettinati, i vestiti stropicciati, e le sue pupille si assottigliarono con un senso di panico, i suoi lineamenti tesi per la paura e lo shock che qualcuno avesse potuto seguirlo fin lì. Quando vide che ero io, la sua espressione cambiò leggermente e nei suoi occhi vidi comparire un barlume di confusa felicità. Le sue labbra sottili si distesero in un sorriso.
-Ryuuji… mi hai seguito? Sei intelligente… come c’era da aspettarsi da te- soffiò, con voce ossequiosa. Mentre parlava, con una mano accartocciò il foglio, mentre con l’altra cercava a tentoni una sorta di faldone dall’aria molto piena; appena lo sentì sotto le dita, lo attirò a sé e lo strinse contro il proprio fianco. Il movimento non mi sfuggì. Non avevo dubbi che in quel faldone ci fosse il materiale per la sua ricerca: statistiche, dati e suoi appunti a riguardo.
Senza esitare, puntai la pistola contro di lui, facendo scattare, al contempo, la sicura. Per un attimo Kenzaki mi fissò a occhi sgranati, con quel sorriso ebete ancora sulle labbra. Lo scatto della pistola sembrava averlo destabilizzato.
-Ryuuji… cosa stai facendo? Non vorrai... uccidermi…?- domandò con voce tremula.
Non gli risposi. Quando capì che ero serio, il suo viso diventò di un pallore mortale e il sorriso gli scivolò per un attimo dalle labbra; lasciò il foglio accartocciato e si aggrappò al tavolo con la mano tremante, come se avesse bisogno di un supporto per non cadere a terra. Da come mi guardava, incredulo, sembrava davvero non capire perché fossi venuto a ucciderlo. -No… no… Hanno rovinato i miei piani, ma posso… posso ancora…- farfugliò sottovoce, mentre istintivamente, i suoi occhi scattarono verso una porta di ferro pesante alla sua destra. Quello sguardo mi disse tutto ciò che c’era da sapere: quella porta, che doveva in qualche modo portare all’esterno, era la sua unica via di fuga.
-Non puoi fare nulla- lo interruppi, gelido -perché morirai qui e adesso.
Feci un passo verso di lui e Kenzaki indietreggiò d’istinto, andando a sbattere contro il tavolo.
-Aspetta, aspetta, Ryuuji, potrei avere informazioni... sì, informazioni preziose!-cominciò a farfugliare di nuovo. Stringeva febbrilmente il faldone al petto come un tesoro prezioso, e lo guardai con evidente disgusto.
-Non mi importa che hai da dire- sbottai, con tanto veleno che Kenzaki mi guardò smarrito per un momento. Ma subito si riprese, gli occhi illuminati da un guizzo di vita improvviso.
-Neanche se ti dicessi che tua madre potrebbe essere ancora viva?
Non me lo aspettavo. Le sue parole furono una doccia gelata, e il dito mi scivolò dal grilletto.
-Cosa?- Non volevo rispondergli, ma non riuscii a trattenermi. Le labbra violacee di Kenzaki si piegarono in un sorriso quasi comprensivo.
-Avevo spiegato nei dettagli il mio piano ai miei sottoposti, ma non avrei dovuto dare per scontato che persone inferiori sapessero riconoscere il talento… Quella notte c’è stato un malinteso, e loro hanno buttato via… soltanto te- spiegò, con una punta di disappunto. Lo fissai
pietrificato mentre cominciavo a capire.
-Pensavano che fosse lei… che lei fosse la drifter- dissi con un fil di voce.
Kenzaki annuì con aria affranta.
-Sì. Tragico- mormorò in tono laconico. -In verità, io desideravo salvare entrambi. Volevo solo il meglio per te, Ryuuji, devi credermi. Sapevo che non avresti mai voluto che tua madre… sparisse così-. Sembrava veramente dispiaciuto, ma sapevo che la sua tristezza era falsa, come tutto il resto di lui. Sapevo di non dovermi fidare dei suoi discorsi, per quanto ben costruiti e recitati. Ma per un momento abbassai comunque la pistola.
Il pensiero che mia madre potesse essere ancora viva… il pensiero che Kenzaki sapesse dov’era, e che io potessi ancora salvarla… non potevo ignorarlo così facilmente. Ripensai alla vita che aveva fatto per colpa mia. Una vita da prigioniera, da criminale, quando l’unica cosa che avesse mai fatto era stata partorirmi. Lei meritava di meglio, eppure non me l’aveva mai fatto pesare; ricordavo vividamente quanto mi adorava, le sue mani che stringevano le mie quando aveva paura, la sua voce morbida mentre cantava per farmi addormentare… Ma poi affiorarono anche altre immagini. Lei che mi stringeva forte nel letto, fingendo che stavamo dormendo, sperando che quel giorno avrebbero desistito (non lo facevano mai). Lei che mi sussurra di non uscire di nascosto così spesso, che se mi avessero preso ci avrebbero fatto ancora di più del male… Mia madre aveva paura. Era diventata una vittima per colpa mia. Se c’era anche solo una possibilità di salvarla…
Con la coda dell’occhio intravidi un movimento, un guizzo scuro riflesso in una pozzanghera. Alzai il capo verso Kenzaki e riconobbi, nei suoi occhi, un’emozione che oscillava tra la vittoria e la furia. E capii che non dovevo esitare.
La pallottola lo sorprese a metà movimento, mentre già tentava un passo verso la porta, e gli passò la spalla da parte a parte. Il sangue schizzò sulla parete alle sue spalle e sul tavolo, mentre il faldone gli cadde di mano e si aprì; alcune delle carte si sparpagliarono a terra, altre finirono nell’acqua e cominciarono rapidamente ad assorbirla, diventando niente più che carta straccia. Kenzaki si afferrò la spalla ferita con un urlo stridulo e barcollò, ma nonostante le gambe molli riuscì a reggersi in piedi. Anche quella debole scintilla di vittoria che aveva stretto per un istante era scomparsa dal suo sguardo, che ora tradiva solo paura. Mi guardava come se non mi avesse mai visto prima, come se prima non avesse creduto davvero che avrei sparato. Ma, benché non fosse caricata con il mio potere, quella pallottola avrebbe comunque potuto ucciderlo.
-Non ti credo- gli sibilai, furioso che avesse cercato di distrarmi con un trucco tanto semplice e che io, anche se solo per un momento, ci fossi cascato. Mia madre non poteva essere viva. Ammesso che fosse andata come diceva lui, non potevano averla risparmiata; era una testimone scomoda, una pedina di cui Kenzaki non aveva realmente bisogno. Pensava che io fossi morto. Non aveva ragione di tenerla in vita. Era così evidente. Come avevo potuto sperarci?
-Non ti credo- ripetei, con tutto il veleno di cui ero capace.
-Aspetta, aspetta, aspetta!- strillò Kenzaki, come ricordandosi di qualcos’altro. -Non uscirai vivo da qui! Solo io conosco la strada per uscire! Se mi uccidi, morirai anche tu…!
Questa volta era il mio turno di sorridere. Scoppiai in una risata vuota.
-Non mi importa. Non hai ancora capito? Nessuno di noi due uscirà vivo da qui- mormorai. Guardando nei suoi occhi, mi accorsi che finalmente stava capendo, e che era terrorizzato. Era stato convinto di essere superiore agli altri per tutta la vita, ma alla fine aveva paura della morte esattamente come tutti coloro che tanto disprezzava. 
-Io l’ho accettato. Dovresti farlo anche tu- gli dissi, gelido, e sparai, convinto di farla finita.
All’ultimo secondo, invece, qualcuno mi afferrò il braccio, spostando la canna della pistola verso l’alto. Il colpo esplose dalla canna e venne inghiottito dall’oscurità delle tubature. Preso alla sprovvista, rimasi a fissare il vuoto per un istante, poi abbassai lo sguardo di scatto e il cuore mi saltò in gola.
Hiroto non avrebbe dovuto trovarsi lì. Non aveva alcun senso.
Per un istante rimasi a bocca aperta a fissarlo, scioccato e stordito. Nella semi-oscurità, vidi che aveva un labbro spaccato e diversi graffi sul viso. I miei pensieri precipitarono in una spirale di panico. Cosa gli era successo? Era ferito? Perché era lì? Perché mi aveva fermato?
Il tempo sembrava essersi congelato per noi due. Le dita di Hiroto erano strette attorno al mio polso. La mia mano tremava per il rinculo del colpo.
-Perché…- rantolai a stento.
-Sono venuto ad aiutarti- sussurrò Hiroto. Lo guardai, smarrito. Allora perché mi stava ostacolando? Non riuscivo a capire.
Un tonfo nell’acqua poco distante mi fece sobbalzare. Mi girai di scatto e vidi con orrore che Kenzaki stava approfittando della nostra distrazione per raccogliere i fogli e ficcarli di nuovo nel faldone, anche se zuppi e illeggibili, come preso da una furia maniacale. Il mio sguardo guizzò verso la porta di ferro. Sapevo che se Kenzaki fosse riuscito a scappare per di là, non sarei stato in grado di acchiapparlo. Ma avevo ancora una pallottola, ero ancora in tempo. Quando scattai verso di lui, però, uno strattone mi ricordò che Hiroto mi teneva ancora stretto il polso. Mi voltai verso di lui, irritato.
-Lasciami- soffiai tra i denti, tirando per liberarmi, con il risultato che Hiroto lasciò andare me e afferrò invece la canna della pistola nel tentativo di togliermela. Gli afferrai la mano con entrambe le mie e tirai, sperando che non partisse per sbaglio l’ultimo colpo che avevo a disposizione. Non volevo sprecarlo.
D’un tratto, la stanza in cui ci trovavamo piombò nella semi-oscurità. Mi girai e vidi una debole luce verdognola introdursi nella stanza attraverso uno spiraglio della porta, uno spazio tra parete e porta, largo appena quanto una persona, nel quale la luce della torcia di Kenzaki s’infilò e sparì con lui. Doveva essere riuscito a sgattaiolare verso la porta e a smuoverla mentre ero impegnato a lottare con Hiroto. Al pensiero che l’avrebbe fatta franca, il sangue mi andò alla testa e fu questo a spingermi a una decisione drastica. Lasciai la pistola di colpo, rinunciando così all’unica arma che avevo, e al tempo stesso spinsi via Hiroto; poi, mentre lui barcollava all’indietro, preso alla sprovvista, io mi gettai all’inseguimento di Kenzaki. M’infilai rapido nello spazio della porta e mi trovai davanti a un lungo tunnel scavato nella roccia, con due stretti marciapiedi di cemento che racchiudevano un canale d’acqua verde petrolio. Dall’acqua saliva un odore pungente. Aveva un’aria malsana, con una leggera schiuma bianca in superficie, causata da medicinali, detersivi e liquami vari che dalla clinica si riversavano là dentro. I cunicoli non erano del tutto bui, ma alcuni fanalini al neon fissati alle pareti li rischiaravano con una spettrale luce verdognola. Ai miei piedi, appoggiato a una parete, giaceva abbandonato un mucchio di pezzi di ferro arrugginiti, tra cui interi segmenti di tubature.
Guardandomi rapidamente attorno, notai un’ombra infilarsi in un cunicolo e mi gettai subito all’inseguimento; quando svoltai di corsa per infilarmi nel passaggio, qualcosa di stretto e lungo entrò nel mio campo visivo e fu solo grazie ai miei riflessi che riuscii ad abbassarmi e a scansare il colpo. Rialzai il capo, preparandomi a combattere, e vidi che Kenzaki brandiva come un’arma un tubo di ferro sporco e spezzato. Nella pallida luce verde del tunnel, il suo viso appariva ancora più bianco e i suoi occhi ridotti a fessura ricordavano quelli di un serpente.
-Sei disarmato, eh? Le posizioni si sono capovolte!- Sogghignò, ma era più spavalderia che altro. I suoi movimenti erano lenti per via del dissanguamento. Alzò il tubo sopra la testa e lo brandì di nuovo contro di me, ma anche questa volta riuscii a evitarlo con facilità.
In quello stesso momento Hiroto comparve all’apertura del tunnel: ci guardò per un momento, poi senza esitare colpì Kenzaki al braccio ferito. Kenzaki ululò di dolore e lasciò cadere l’arma improvvisata, ma Hiroto non gli diede tregua. Lo colpì con tutta la sua forza ed entrambi caddero, andando a sbattere contro una parete e poi a terra. Non riuscivo a capire chi dei due stesse avendo la meglio e, d’un tratto, mi resi conto che Hiroto cercava di sfilargli i guanti o tirargli via la giacca: cercava un contatto diretto, pelle contro pelle, per usare il suo dono. Sarebbe stata una buona strategia, se Kenzaki non avesse saputo del suo potere, ma purtroppo l’uomo capì le sue intenzioni e iniziò subito a ribellarsi, coprendosi il volto per impedire a Hiroto di toccarlo, finché non riuscì a dargli un calcio nello stomaco. Hiroto rotolò all’indietro, sbatté in una parete e rimase immobile. Il cuore mi saltò in gola. Nel buio non riuscivo a capire se stesse perdendo sangue. Istintivamente mi gettai a terra per aiutarlo, ma quando lo feci avvertii un forte strattone alla testa, seguito da una fitta di dolore. Kenzaki mi aveva preso per i capelli e, con il faldone sotto il braccio sano, tentava di trascinarmi con sé mentre borbottava tra sé e sé che doveva salvare la propria ricerca, con uno sguardo vacuo e distante.
Scoccai un’occhiata allarmata a Hiroto, che giaceva ancora esanime contro la parete. Se solo avessi potuto usare il dono… ma era troppo rischioso, avrei coinvolto anche lui. Presi quindi a divincolarmi, anche se ogni movimento mi dava una fitta di dolore, e i miei piedi si tagliavano sulla roccia a forza di impuntarsi. Irritato dalla mia resistenza, Kenzaki si riscosse dai propri pensieri e mi strattonò più forte.
-Come osi, come osi ribellarti- sputò tra i denti, con tutto il veleno di cui era capace. -Piccolo ingrato… Io, io ti ho fatto diventare ciò che sei… Se io non ti avessi scoperto, saresti ancora un nessuno, invece io ti ho fatto diventare l’oggetto della mia ricerca, ti ho dato una chance…!
Avrei voluto mandarlo al diavolo, ma mi costrinsi a risparmiare il fiato e le energie per resistergli. Eravamo quasi alla fine del tunnel, quando Hiroto apparve all’improvviso dietro di noi, si buttò addosso a Kenzaki e lo afferrò per le spalle da dietro. Kenzaki mollò la presa su di me per cercare di colpirlo. Scivolai a terra e, anche se mezzo stordito, alzai la testa per vedere che Hiroto stava trascinando Kenzaki per la strada da cui eravamo venuti, forse per ridurre le possibilità che raggiungesse l’uscita nel caso fosse riuscito a metterci entrambi al tappeto. Kenzaki si dibatteva furiosamente, respirando a fatica, con le narici dilatate e i denti digrignati. La manica del completo e il guanto sinistro erano ormai fradici del sangue che dalla spalla gli colava lungo tutto il braccio. Fu proprio a causa del sangue che Hiroto perse la presa: le sue dita scivolarono, e Kenzaki riuscì a dargli una gomitata nel petto. Hiroto barcollò all’indietro, senza fiato, mentre Kenzaki si chinava a raccogliere un pezzo di tubatura lungo almeno dieci centimetri. Capii cosa voleva fare e balzai in piedi, ma una fitta di dolore mi fece barcollare e dovetti appoggiarmi a una parete per reggermi in piedi. Avevo la vista appannata e un ronzio mi riempiva le orecchie. Kenzaki mi gettò un’occhiata e sorrise.
-Un attimo solo, Ryuuji… Fammi liberare di questa seccatura…- mormorò.
Vedendolo sollevare il tubo sopra la testa, pronto a vibrare il colpo di grazia su Hiroto, il sangue mi andò al cervello e mi diede una scarica di adrenalina.
-Non osare toccarlo!- Con un singhiozzo di rabbia, mi lanciai su Kenzaki, afferrai l’altra estremità del tubo da dietro e gli diedi uno strattone tale da fargli perdere l’equilibrio. Kenzaki ringhiò e cercò di spingermi via, di prendermi per la maglia e spingermi verso il canale accanto a noi. La mia collera esplose quando mi resi conto che cercava di gettarmi in acqua. Nessuno lo avrebbe mai fatto, mai più. Con un altro strattone, riuscii a togliergli il tubo di mano, perdendo però anche la presa che avevo su di lui. Entrambi perdemmo l’equilibrio e, mentre io sbattevo per terra, aprendomi le ginocchia sul marciapiede, Kenzaki indietreggiò e inciampò nei tubi di ferro. Il faldone gli volò dalle mani e la sua bocca si spalancò in un urlo silenzioso mentre il suo tesoro più prezioso si librava in aria, per poi precipitare nel canale con un tonfo sordo. Kenzaki non esitò a sporgersi per cercare di prenderlo. Lo mancò per pochi secondi, inciampò nei propri piedi e cadde in avanti; poi, dopo aver sbattuto il lato della testa contro il bordo, scivolò sulla superficie dell’acqua e affondò come un sasso. Nel punto in cui era caduto salì a pelo d’acqua una macchia di sangue, poi alcune bollicine d’ossigeno. Intravedemmo anche il movimento di un braccio, un gomito, un lembo di vestito. Poi più niente.
Restammo in silenzio, immobili, per lunghi minuti. Era accaduto tutto troppo in fretta, e ora… c’era solo calma piatta. Solo un attimo prima avevamo visto riaffiorare qualcosa, ma adesso c’era soltanto acqua scura, senza la benché minima increspatura. Mi accigliai. Quanto poteva essere profondo quel canale? Forse Kenzaki stava raschiando il fondo del canale nel tentativo di salvare fino all’ultimo fogliettino, ma per un istante mi venne anche il dubbio che ci fosse, là sotto da qualche parte, una grata, un tombino, un qualsiasi tipo di passaggio verso l’esterno. E se fosse riuscito a nuotare via, a scappare da lì? Era improbabile, ma non impossibile. Spazientito, mi affacciai oltre il bordo e scrutai la superficie piatta e oleosa dell’acqua, ma era troppo sporca per poterci vedere attraverso. Come leggendomi nel pensiero, Hiroto strinse la presa sul mio braccio per paura di vedermi tuffare.
-E se…- cominciai, irritato, ma le mie parole furono coperte da un rombo assordante sopra le nostre teste. Alzammo gli occhi allo stesso tempo. Il soffitto stava cedendo.
-Dobbiamo tornare indietro- disse Hiroto. -Corri!
-Indietro dove?! Non possiamo risalire!- gli gridai in risposta, ma lui non mi ascoltò. Fui costretto a seguirlo comunque verso la stanzetta sotterranea proprio sotto la clinica. Arrivati alla porta, mi girai indietro a guardare il canale e la pioggia di detriti e pezzi di ferro che si stava depositando nell’acqua e mi morsi il labbro per la frustrazione di non poter verificare che fine avesse fatto Kenzaki. Poi Hiroto mi tirò dentro e chiuse la porta. Il buio piombò su di noi, ma solo per un attimo: Hiroto tirò fuori dalla tasca una torcia e la accese, puntandola verso l’alto. Mi accorsi che scrutava con aria preoccupata il soffitto.
-E adesso che facciamo? Kenzaki…- sbottai, irritato che mi stesse ignorando.
Hiroto non si mosse.
-È probabilmente morto- mormorò. Scosse la testa. -Non è quello che volevo.
Scoppiai in una risata isterica e vuota. Morto? Poteva esserlo davvero? Quasi non ci credevo. Era assurdo credere che fosse accaduto in modo così rapido, quasi indolore. Kenzaki era morto, e io lo volevo, ma non volevo che andasse così. Il mio piano era stato un fallimento: lo provava il fatto che fossi ancora lì, vivo e vegeto, che fossi sopravvissuto. E in più avevo trascinato Hiroto in quel casino. Non avendo più un obiettivo su cui scaricarla, la mia furia si spense come un fuoco senza ossigeno e, al suo posto, arrivò la morsa della paura, gelida e soffocante. Il pensiero che Hiroto sarebbe morto lì, a causa mia, era paralizzante. Eravamo topi in trappola. Non riuscivo a pensare a niente, una sola voce nella mia testa gridava è colpa tua colpa tua colpa tua… Mi strinsi le braccia al petto, trattenendo a stento i tremiti.
-Perché? Perché sei qui?- chiesi con voce stridula.
Hiroto abbassò lentamente lo sguardo su di me. Per quanto assurdo potesse sembrare, non era spaventato e la sua voce, quando parlò, era del tutto calma.
-Perché tu sei qui- mi rispose semplicemente, sospirò.
-Ti ho osservato tutta la sera. Purtroppo nella confusione ho perso di vista sia te che Kenzaki, e intanto Jackal mi ha attaccato... Dopo che l’ho messo K.O., ho cominciato a sentire le scosse e ho capito che eri tu. Subito dopo, infatti, ti ho visto comparire... Ti ho visto aprire la porta e trovare la botola e ho deciso di seguirti fin qua... Sapevo che avresti affrontato Kenzaki con qualsiasi mezzo- raccontò e, mentre parlava, spostò la torcia verso il pavimento. Seguendo con gli occhi il fascio di luce, vidi brillare per un attimo il dorso della pistola che lui mi aveva strappato di mano, per poi abbandonarla sul pavimento di quella stanzetta umida e soffocante.
-Non sapevo che avessi una pistola, però- mormorò Hiroto. Strinsi i denti e voltai lo sguardo.
-Quella... l’ho presa a Kazemaru.
-Ovviamente- rispose lui con amarezza. Aveva capito anche quello. Il cuore mi batteva a mille e il ronzio alle orecchie era tornato. Possibile? Possibile che avesse capito il mio piano? Sì, dalla sua espressione mi era chiaro che sapeva tutto, tutto.
-Sei venuto a fermarmi- dissi.
-Sono venuto ad aiutarti- mi corresse, puntando la luce sulle nostre scarpe. Scossi il capo.
-Da quanto...- Mi fermai, presi fiato. -Da quanto lo sai? Quando lo hai capito?
Hiroto scrollò le spalle.
-C’erano... tante piccole cose che non tornavano. Ma ho iniziato a sospettare davvero quando hai rotto quel vaso- disse. -Avevo questa sensazione, che... che qualcosa fosse fuori posto. E poi ho capito. Eri tu. Sei sempre stato tu… Il tuo dono prende energia da ciò che ti circonda. Stavi recuperando le energie. Ne ho avuto la certezza quando ho sentito le scosse.
Mi guardò con tristezza.
-Forse è perché ti conosco da un po’ di tempo- mormorò. -Per questo ho capito che ti saresti sacrificato per mettere fine a tutto. Non avevo altra scelta che seguirti.
Mi morsi il labbro e tenni lo sguardo basso. Aveva davvero indovinato tutto. Come c’era da aspettarsi da lui... Scossi il capo, trattenendo a stento le lacrime.
-Non avresti dovuto- dissi a fatica. Non riuscivo a respirare.
Nel riflesso dell’acqua lo vidi tendere una mano verso di me, ma l’ultima cosa che volevo in quel momento era che mi consolasse; balzai all’indietro e arretrai, brancolando nel buio e quasi inciampando nei miei stessi piedi, fino ad addossarmi a una parete. Provai a parlare, ma la voce mi rimase incastrata in gola. Da lontano, ma non così tanto, proveniva un sinistro brontolio, come un’avvisaglia di ciò che sarebbe successo di lì a breve. Dovevo trovare il modo di far uscire Hiroto da lì al più presto, ma, per quanto mi lambiccassi il cervello, non riuscivo a farmi venire nessuna idea. Infine mi arresi, esausto: non c’era soluzione. Scivolai lungo la parete e mi raggomitolai a terra, tappandomi le orecchie con le mani. Il rombo del crollo sopra le nostre teste mi ricordava lo scrosciare dell’acqua e mi metteva in agitazione; l’aria gelida e l’umidità nella stanza sembravano penetrare fin dentro le ossa.
Dai tonfi nell’acqua capii che Hiroto si stava avvicinando. Alzai debolmente una mano, come a voler innalzare una barriera invisibile tra noi e, socchiudendo gli occhi, spiai il suo volto con discrezione. Anche nella semioscurità, vedevo la determinazione nel suo sguardo. E, ovviamente, stava ignorando il mio tentativo di mettere distanza tra noi.
-Non puoi tenermi lontano. Sono pronto a correre ogni rischio per te.
-È proprio quello il problema- soffiai, distogliendo lo sguardo.
Hiroto si fermò davanti a me, si sedette sui talloni e prese la mano che non avevo ancora abbassato. Intrecciò le nostre dita con delicatezza, come per suggellare una promessa.
-Ryuuji- mi pregò, con una serietà tale che non potei ignorare la richiesta contenuta in quella singola parola. Alzai lo sguardo e incontrai il suo.
-Ce ne andremo insieme- mi disse con voce ferma, che non ammetteva discussioni. Capii allora che non c’era niente che potessi fare o dire per convincerlo del contrario. Per salvarlo, dovevo scendere a patti con lui. Feci un sospiro che esprimeva tutta la mia insofferenza.
-Cosa devo fare?- chiesi senza mezzi termini. Hiroto era così sicuro di sé che doveva per forza aver già pensato a un piano. Era sempre stato bravo a trovare la soluzione ai problemi, anche in faccia alle difficoltà.
-Scusami per quello che sto per chiederti- disse Hiroto. -Ma dovrai usare il tuo potere, ancora una volta. Dovrai usarlo molto più di quanto tu abbia mai fatto finora... Se non c’è via d’uscita, ne creeremo una. Io ti aiuterò a controllare il tuo potere.
Lo guardai, incredulo.
-Vuoi che usi il mio potere... per farci uscire di qui?
Hiroto annuì. Non era difficile capire cosa avesse in mente, ma sembrava una pazzia: c’era più margine d’errore che garanzia di successo. Un solo sbaglio avrebbe potuto farci inghiottire dal crollo, o peggio, risucchiare dal mio potere. Certo, una situazione disperata richiedeva una strategia disperata, ma era comunque un rischio enorme.
Stavo per fare le mie obiezioni, ma fui subito interrotto da un rombo assordante. Un lato della palazzina doveva essere crollato definitivamente. Capii che non avevamo molto tempo per uscire e d’istinto strinsi la mano di Hiroto.
-Va bene- acconsentii, seppur riluttante. -Facciamolo.
Hiroto sorrise. Come poteva farlo? Io mi sentivo soltanto schiacciato dall’angoscia. Ma dovevo darmi una mossa. L’unica cosa importante era salvare Hiroto. Ne feci la mia priorità e, mentre lui mi prendeva anche l’altra mano, chiusi gli occhi e cercai di fare il vuoto dentro di me, di sgombrare la mente da pensieri inutili per concentrarmi sul mio potere. Lo sentivo formicolare nelle mie vene come corrente elettrica, impaziente di essere liberato, e ci volle tutta la mia concentrazione per incanalare quell’energia in un posto solo. Sollevai una mano verso la parete che avevo davanti e pensai, Sparisci.
Appena lasciai la presa, tutta quell’energia si rovesciò all’esterno come un fiume che esce dagli argini. Mi sentii subito schiacciato dalla pressione e, per un attimo, sentii una sensazione simile all’affogamento; ma al contrario dell’acqua, che quando si ritira restituisce sempre qualcosa, il mio potere non lasciava nulla indietro. Era pura distruzione. Esattamente quello che ci serviva in quel momento. In pochi secondi, infatti, lo spazio circostante cominciò a piegarsi alla mia volontà: nel soffitto si formò una crepa sempre più estesa, che si andava allargando in tutte le direzioni, finché la pressione non divenne tale da far esplodere la parete in una miriade di schegge. Il rumore dell’esplosione ci assordò, ma non mi fermai. Feci sparire ogni singolo detrito. Un largo pezzo di parete si staccò e ci volò addosso; ridussi in briciole anche quello. Niente poteva toccarmi senza finire distrutto: quella era la portata del mio dono, che collassava ancora e ancora su se stesso come un gigantesco buco nero.
Da lì a poco si formò un vero e proprio vortice di energia, simile a una tromba d’aria. Tutto il mondo cominciò a turbinare davanti ai nostri occhi mentre la palazzina si piegava e si apriva, malleabile come ceramica. Pezzi di ferro e cemento venivano strappati via e sollevati in aria come se fossero stati comuni fili d’erba. Potevo sentire il fischio del vento, un risucchio verso l’alto. La polvere turbinava nell’aria prima di essere a sua volta assorbita e, tra le crepe, in ogni spiraglio, si insinuava la luce. Non sapevo cosa avrei trovato, una volta fuori di lì, e avevo paura. Ormai il mio potere era al suo massimo e il vento si sollevò con una forza tale che avrebbe potuto spazzarci via; i nostri capelli si sollevarono verso l’alto come se la gravità stessa fosse stata annullata. Hiroto, però, mi teneva saldamente, ancorandomi a terra. D’un tratto avvertii come un’energia estranea sfiorarmi, abbracciarmi, e capii che era il suo dono che entrava in contatto con il mio. Ne rimasi sorpreso: anche se lo chiamavano il tocco mortale, non era freddo come la prima volta che l’avevo sentito, anzi. Era un tocco gentile, caldo, quasi come una carezza, un bacio della buonanotte. Aprii gli occhi e guardai Hiroto con incredulità, chiedendomi se lui potesse avvertirlo. Come poteva non saperlo? Come poteva non sapere di essere bellissimo, meraviglioso? Cominciai a piangere, quasi senza accorgermene, e anche le mie lacrime si separarono da me e cominciarono a galleggiare nell’aria.
Quando tutto si esaurì e non ci fu più nulla da distruggere, Hiroto mi fermò. Per un momento tutto rimase immobile: non c’era neanche un filo di vento. Mi guardai attorno. Eravamo in un cimitero di macerie, tubature spezzate e fili elettrici interrotti, ma alzando la testa si vedeva perfettamente il cielo indaco. Con la notte agli sgoccioli, i colori dell’alba cominciavano a penetrare nella fortezza sgretolata. Il pericolo del crollo era passato, la morte di Hiroto era stata sventata. Non era ancora il momento di essere sollevati, però: eravamo ancora sottoterra, intrappolati sul fondo di una sorta di cono di roccia.
Poi sentimmo un vocio, sempre più forte, e un soccorso insperato arrivò dall’alto.
Attraverso la bocca del cono scese su di noi una grossa mano di luce gialla, che ci avvolse e ci offrì il palmo aperto come appoggio. Hiroto la guardò con sollievo, poi mi ci trascinò sopra. Appena ci sedemmo sul palmo, le dita si chiusero delicatamente attorno a noi, in un pugno che ci portò fuori dal cono e ci poggiò sul terreno, accompagnandoci piano, come si fa quando si libera una coccinella. Alzando gli occhi, vidi come prima cosa il volto sollevato e preoccupato di Endou; dietro di lui c’erano anche gli altri. Tutti tacevano, qualcuno persino tratteneva il respiro.
Poi Hitomiko si fece largo tra la gente e si gettò a terra per stringere il fratello tra le braccia, singhiozzando. Doveva averlo perso di vista nella confusione e, vedendo il palazzo crollare, aveva temuto il peggio. Hiroto ricambiò l’abbraccio con una mano sola, mentre con l’altra stringeva ancora la mia, come per impedirmi di scappare. Era stupido, pensai, rassegnato. Anche volendo, non potevo andare da nessuna parte. L’adrenalina era finita, e non avere più un obiettivo mi aveva lasciato sfinito, per non parlare di tutta l'energia appena usata.
Hitomiko continuò a stringere Hiroto finché lui non si lasciò sfuggire un flebile verso di dolore. Sia io che lei scattammo. In tutto quel caos mi ero quasi dimenticato che Hiroto era ferito. Quando se ne accorse, Hitomiko si girò allarmata verso gli altri, cercando qualcuno in particolare. -Maki!- chiamò, con un tremito nella voce. -Fatela passare! Maki, presto!
La piccola folla di poliziotti e agenti, si divise subito in due per fare strada a Maki, che senza dire niente si apprestò a raggiungere Hitomiko e Hiroto e si gettò in ginocchio accanto a loro. Fu in quel momento che mi vide. I suoi occhi si riempirono di lacrime all’istante. Scossi il capo e feci un cenno verso Hiroto. Maki capì e, reprimendo i suoi sentimenti, rivolse tutta la sua attenzione verso Hiroto.
-Dove ti fa male? Ferite gravi?- chiese in un sussurro.
-Nulla di grave- assicurò Hiroto, sorridendo nonostante il labbro spaccato. -Scusa per averti fatto preoccupare. Sto bene. Qualche livido, tutto qui…
Hitomiko singhiozzò e abbassò la testa, portandosi la mano di Hiroto alla bocca e baciandola più e più volte. Aveva il volto bagnato di lacrime e gli occhi rossi.
-Grazie al cielo. Grazie, grazie- mormorò. Poi, mentre Maki cominciava a sistemare i tagli che Hiroto aveva sul volto, si girò finalmente verso di me. Mi irrigidii. Nei suoi occhi leggevo l'accusa che le ferite di Hiroto erano colpa mia.
Quando Hitomiko alzò la mano verso di me, ero sicuro che mi avrebbe tirato uno schiaffo, invece lei la poggiò solo sulla mia fronte, come per controllarmi la temperatura. La guardai, confuso. Hitomiko mi fissò in volto ancora per un momento, poi notò i miei piedi e le ginocchia insanguinate e si accigliò.
-Ci serve un infermiere- disse, alzando un po' la voce. Un brusio si diffuse tra i presenti.
Notai in quel momento che sul posto c’erano anche degli infermieri, le cui uniformi bianche spiccavano tra le divise blu della polizia come spuma nel mare. Nonostante il richiamo di Hitomiko, nessuno si mosse. Avevano troppa paura di me per avvicinarsi. 
Tutto rimase immobile per qualche secondo; poi Reina uscì dalla folla e mi venne vicino.
-Riesci ad alzarti?- mi sussurrò, chinandosi verso di me. Annuii senza guardarla negli occhi.
Senza dire altro, Reina mi passò un braccio attorno alla vita e mi aiutò a tirarmi su. Solo a quel punto Hiroto lasciò la mia mano: per un momento lui e Reina si fissarono intensamente in silenzio, come se Hiroto mi stesse affidando a lei. Nel frattempo accorse anche Zell per darci una mano e, mettendosi dall’altro lato, mi fece da seconda stampella.
Attraversammo così quello che una volta era stato il cortile posteriore della clinica, ora una pianura brulla e apparentemente sconfinata che si fondeva con la campagna circostante. Poco distante dal lotto era parcheggiata un’ambulanza con le porte posteriori aperte, pronta ad accogliere feriti. Vedendomi arrivare con Reina e Zell, gli infermieri parvero tranquillizzarsi sulla mia innocuità e mi aiutarono a sedermi sul bordo della vettura, facendomi appoggiare la testa contro il lato di una portiera. Quando tentarono di toccarmi, però, opposi un’ostinata resistenza, assicurando che non avevo bisogno di nulla, finché non mi lasciarono in pace.
Il cielo, intanto, si era schiarito ulteriormente e ora virava verso un color lavanda a tratti striato di rosa, con sprazzi di giallo e arancio attorno al cerchio luminoso del sole. Chiusi gli occhi e tirai un sospiro. A parte i lividi e qualche graffio, non avevo riportato ferite fisiche; ero solo esausto, sia fisicamente che mentalmente. Più che dell'ambulanza avrei avuto bisogno di un letto.
Cosa ci facevo lì? Fino a solo un’ora prima, non avrei mai pensato di poter vedere un’altra alba. Invece, in qualche modo, ero sopravvissuto di nuovo. Avevo fallito, anche se Kenzaki era stato sconfitto. Ammesso che non fosse morto sul colpo, non c’erano speranze che fosse uscito vivo dalle fognature dopo il crollo. Ma era una magra consolazione. La sua morte non avrebbe portato indietro le vittime e, soprattutto, la sua ricerca era ancora viva, più viva che mai, e un giorno avrebbe fatto ancora del male a qualcuno. Il solo pensiero mi toglieva il fiato.
Quando una mano mi sfiorò la schiena, sussultai e, voltandomi di scatto, afferrai il polso di quella persona con riflessi che sorpresero anche me. Mi accorsi subito che la mano che stringevo stava tremando. Alzai la testa e mi trovai faccia a faccia con Kazemaru, che mi fissava a occhi sgranati, come se avesse visto un fantasma. D’istinto scoccai un’occhiata alla sua gamba, ben visibile a causa del pantalone strappato: l’unica traccia rimasta della ferita era una lunga linea rosa che andava dal ginocchio fin quasi all’inguine, una cicatrice che neppure Maki aveva potuto cancellare. Era probabile che Kazemaru fosse lì a riposare da prima di me, ma, preso dai miei deliri, non ci avevo fatto neppure caso.
Lasciai andare la sua mano, senza staccare gli occhi da lui. Kazemaru aprì la bocca, la richiuse, inspirò bruscamente. Aveva gli occhi gonfi e arrossati, il viso di un pallore mortale. Mentre le lacrime riprendevano a scorrere, mi avvolse tra le braccia e affondò il viso nella mia spalla, poi, a voce bassa e tra i singhiozzi, cominciò a scusarsi a ripetizione. Il pianto gli rompeva la voce e il respiro. Non ricambiai l’abbraccio, ma non ebbi la forza di respingerlo, perché mi sentivo in debito con lui. A scusarmi avrei dovuto essere io, era colpa mia se Fox lo aveva attaccato. Le ferite di Kazemaru e di Hiroto erano una mia responsabilità.
Cominciavo a sentirmi sempre più pesante. A quanto pareva, il mio corpo reclamava il sonno che gli era stato promesso. Non sarebbe stato male stendermi un po’ e recuperare le forze; se avessi finto di dormire, inoltre, avrei avuto il tempo di riordinare le idee e progettare la mia prossima mossa. Mentre mi intrattenevo con quelle fantasie, qualcuno si avvicinò all’ambulanza. Con la coda dell’occhio intravidi una punta di violetto, ma nessuna divisa bianca o blu.
-Ryuuji- disse Kudou, a pochi metri da noi. Il suo volto era pallido, tirato, con pesanti occhiaie scure; i suoi capelli viola erano spettinati, come se ci avesse passato più volte le dita, nervosamente, e la sua barba sembrava meno pulita del solito.
-Mi riconosci?- chiese in un fil di voce, quasi imbarazzato. Nei miei ricordi Kudou era sempre stato freddo e controllato, il totale opposto rispetto alla timida versione che avevo davanti. Ma non voleva dire che non l’avevo riconosciuto.
In un attimo mi divincolai dall'abbraccio di Kazemaru e balzai giù dall’ambulanza. Non appena i miei piedi toccarono terra, avvertii un senso di vertigine, ma ignorai tutti i campanelli d’allarme che il corpo mi lanciava e mi avvicinai a Kudou con passo svelto e deciso. Poi gli diedi un pugno in faccia. Quando lui barcollò all’indietro, colto alla sprovvista, lo atterrai e mi avventai su di lui come un leone con la preda. Kudou provò a dire di nuovo il mio nome, ma lo afferrai per le spalle e lo sbattei a terra, togliendogli il fiato.
-Tu… Tu! Come osi… come osi venire qui… e rivolgermi la parola…! Tu l'hai lasciata morire!
Le mie grida attirarono l’attenzione di altre persone. Alcuni infermieri accorsero per aiutare Kudou, cercarono di afferrarmi e trascinarmi via da lui, ma io mi aggrappai al suo corpo, ai suoi vestiti, al terreno; feci di tutto pur di non mollare la presa, ribellandomi a qualunque mano cercasse di afferrarmi.
-Non fategli del male! Vi prego, non fategli del male!- urlò Kazemaru, disperato, ma nessuno gli diede retta, perché al momento c’erano molte più possibilità che a farsi male fosse Kudou. Lo tenevo bloccato sotto di me, così da impedirgli di fuggire, ma in realtà Kudou non ci stava neanche provando: si limitava a fissarmi, atterrito e sgomento, con un rivolo di sangue che gli colava dal naso. Vederlo così inerme mi irritava ancora di più.
-Perché non l’hai salvata?!- continuavo a urlare. -Tu avevi… avevi il potere di farlo… e non l’hai salvata! Mia madre era innocente, ma tu hai lasciato che la uccidessero! Perché… perché…?!
Stavo per dargli un altro cazzotto quando all’improvviso qualcuno mi colpì alla nuca. Sentii una fitta di dolore, poi il cerchio alla testa. Caddi a terra, ma riuscii comunque a strisciare verso Kudou e a stringere un pugno nel collo della sua maglia.
-Perché…?- mormorai. La figura davanti a me si stava già offuscando e non riuscivo a restare sveglio, perciò mi rannicchiai sul terreno, respirando a fatica e sperando soltanto che tutto finisse in fretta. Persi conoscenza ancora prima di accorgermene.


 
xxx

 
 
Nella mia stanza non erano permesse visite. Lo capii al terzo giorno di ricovero, quando ormai tutte le ferite e le contusioni erano state medicate e divenne perciò chiaro che l’unica ragione per tenermi a letto era assicurarmi che io non mi muovessi da lì. Sinceramente, fu un sollievo. Avevo ancora la mente confusa e non volevo essere costretto a dare spiegazioni a nessuno. Mangiavo poco e dormivo molto. Da quando avevo riaperto gli occhi, ero stato investito da un senso di futilità: il mio piano era fallito, non ero riuscito a morire e non sapevo ancora se fosse stato un bene o meno. E non volevo nemmeno pensarci.
Una mattina, mentre finivo la colazione, le cose presero una brusca svolta.
Sentii un vocio venire dal corridoio, poi l’infermiera che si occupava di me nelle ore diurne aprì la porta a scorrimento. Mi accigliai. Non avevo ancora finito di mangiare. Ma lei non era venuta a portare via i piatti. Era una donna piuttosto avanti con gli anni, sempre impassibile e perfettamente controllata, così che capire cosa succedeva dalla sua espressione era praticamente impossibile; ci avevo rinunciato al primo giorno.
Quando si spostò di lato per far passare qualcuno, rimasi con il cucchiaio di zuppa sospeso in aria per la sorpresa, mentre fissavo la porta a bocca aperta. Avevo visite.
Dalla porta entrò prima Hitomiko, poi un uomo che aveva un volto familiare. Portava degli occhiali rettangolari con montatura rossa, capelli castani lasciati lunghi sul capo e rasati dalle tempie in giù, e dei baffi con pizzetto che gli circondavano la bocca. Sapevo di averlo già visto da qualche parte, ma mi sfuggiva dove. L’uomo fece un cenno all’infermiera, la quale rispose con un inchino di rispetto e poi si dileguò, lasciandomi solo con quei due.
Hitomiko mi scrutò e aggrottò la fronte. Il suo sguardo cadde sul mio pranzo.
-Mangi abbastanza? Sei molto pallido- osservò con una nota preoccupata. Mi resi conto che avevo ancora il cucchiaio sospeso a mezz’aria e d’un tratto mi sentii molto stupido. Vedendo l’espressione di Hitomiko, decisi di finire velocemente la zuppa, anche se non avevo per nulla fame e mangiare davanti a loro era parecchio imbarazzante. Dopo l’ultimo sorso lasciai il cucchiaio nel piatto e allontanai il vassoio da me spingendo via il carrello. Guardai Hitomiko e poi l’uomo con sguardo interrogativo. Lui parve finalmente capire.
-Ah, forse non ti ricordi di me. Mi hanno avvisato del fatto che hai un po’ di confusione in testa, e non abbiamo mai parlato, quindi c’era da aspettarselo. Hai conosciuto mia figlia, però- disse con un sorriso comprensivo. Prese una sedia e la trascinò accanto al mio letto, spostando il carrello più in là per farsi spazio, poi si frugò nella tasca della giacca. Aveva indosso un completo interamente grigio, con una camicia bianca e una cravatta rossa. Quando tirò fuori il suo distintivo, mi tornò subito la memoria: Raimon Souichirou. Una Spy Eleven. Avevo davvero conosciuto sua figlia, Natsumi, che per un breve periodo si era occupata dei nostri addestramenti.
-Signore- mormorai e chinai il capo in un saluto educato, ma lui sollevò una mano come per dirmi che non era importante.
-Preferirei passare direttamente al sodo. Kenzaki Ryuuichi è morto- parlò lentamente, osservando la mia reazione alle sue parole.
Rimasi a fissarlo senza parole. Me l’ero chiesto spesso, in quei giorni, se nonostante tutto fosse riuscito a sopravvivere anche lui; e adesso mi veniva data la risposta su un piatto d’argento. Era così ovvio, eppure una parte di me rifiutava di accettarlo. Mettere la parola “fine” a quella storia non poteva essere così facile. Strinsi le dita nel lenzuolo e, consapevole che il signor Raimon mi stava fissando con attenzione, cercai di controllare la mia voce.
-Ne siete… proprio sicuri?- domandai. Lui annuì.
-Sicurissimi. L’agente Kiyama ci ha riferito cos’è successo laggiù. Ma, anche senza la sua testimonianza, presto o tardi saremmo comunque arrivati a questa conclusione. I vigili del fuoco hanno scavato tra le macerie della clinica e controllato il sistema fognario da cima a fondo. Hanno trovato il corpo- mi spiegò.
Mi sfuggì un sospiro che non sapevo di star trattenendo.
Avevano trovato il corpo. Non c’erano dubbi.
Provai all’istante un senso di liberazione, come se mi fosse stato tolto un enorme macigno dalla schiena; il mio sollievo, però, si spense non appena realizzai cosa Raimon aveva detto.
-Cosa vi ha detto Hiroto?- chiesi, senza riuscire a fermarmi. Mi girai verso Hitomiko, ma lei evitò il mio sguardo.
-La collaborazione dell’agente Kiyama è stata essenziale- disse Raimon al suo posto. -Non solo è stato in grado di darci una versione dei fatti attendibile, come testimone diretto, ma è anche riuscito a sottrarre a Kenzaki la sua agenda, grazie alla quale stiamo risalendo ai nomi degli altri ragazzini rapiti.
Lo fissai stranito, come se avesse parlato un’altra lingua. Hiroto aveva preso l’agenda di Kenzaki? E quando era successo? Quando aveva avuto il tempo di prenderla? Anche se ero stato tutto il tempo con lui, non mi ero accorto di nulla; ero troppo stordito, troppo concentrato su me stesso e sulla mia missione per pensare ad altro. Hiroto, invece, aveva pensato a tutto.
-È straordinario- sussurrai sottovoce, più a me stesso che ad altri, ma Raimon mi rispose comunque.
-Oh sì, il giovane Kiyama è un ragazzo veramente straordinario. Sono sempre più convinto che sarà una splendida Spy Eleven. Vorrei che Seijirou fosse qui per vederlo- osservò con un sorriso bonario e un filo di nostalgia.
-Con Seijirou intende…
-Sì. Il tuo ex-capo.-Raimon annuì. -Non credo tu abbia un'opinione molto alta di lui, ma è stato mio amico per molto tempo. Ha aiutato parecchie persone, ma non si è mai lasciato aiutare da nessuno, né ha mai tentato di risolvere i malintesi. Se solo mi avesse confidato i suoi problemi…
-Credo che tu non lo sappia, Midorikawa, ma Seijirou aveva ricevuto da Kenzaki la proposta di comprare la ricerca in cambio di favori personali. Seijirou rifiutò, per cui la stessa ricerca fu venduta a Garshield Bahyan, che l’ha usata per creare il suo… personale esercito. E per indebolire Seijirou, che aveva ancora molta influenza in polizia, uccisero suo figlio in un finto incidente-. Quando Raimon finì di parlare, mi girai d’istinto verso Hitomiko, cercando conferma da lei. Ci ascoltava appoggiata al davanzale della finestra, con le mani intrecciate davanti a sé e lo sguardo basso. La sua espressione mi diede tutte le risposte.
-Mio padre non è più stato lo stesso da allora- mormorò, senza alzare gli occhi.
-Stiamo ancora conducendo le nostre indagini. Il caso Kenzaki ha fatto emergere nuovi collegamenti con Bahyan che non avevamo preso in considerazione- spiegò Raimon.
-A tal proposito, abbiamo saputo dai tuoi compagni che uno dei… discepoli di Bahyan è morto l’altra notte. Credo dovresti sapere che anche Bahyan è morto la stessa notte. È stato avvelenato mentre era nella sua cella e un uomo ha confessato sotto interrogatorio di averlo fatto dietro pagamento di Kenzaki.
Annuii. Lo avevo immaginato.
-Che fine hanno fatto gli… gli altri ragazzi di Garshield?- chiesi, pensando a Fox.
-Li abbiamo presi sotto custodia. La maggior parte di noi sono a favore di una riabilitazione, per cui faremo il possibile per cercare di recuperarli… ma, onestamente, non ci sono molte speranze. Non ricordano niente della loro vita prima che Garshield li trovasse. Erano probabilmente orfani, o le loro famiglie sono state tolte di mezzo, e non riusciamo a risalire alle loro vere identità. Le indagini su di loro al momento sono in stallo-. Raimon scosse il capo, amareggiato. -Quei ragazzi non avevano doni naturali, ma li hanno acquisiti per via artificiale, tramite esperimenti disumani. Quando hanno superato i propri limiti, i loro corpi si sono... ribellati. Potremmo quasi dire che è stata una sorta di reazione allergica. Non avevamo mai visto una cosa simile prima, ma Kudou Michiya ci sta aiutando a capirci di più- spiegò a voce bassa.
Sentire quel nome mi fece irrigidire. Raimon lo notò subito.
-A tal proposito, Kudou Michiya vorrebbe incontrarti.
Serrai la mascella.
-Beh, io no- soffiai a denti stretti.
-Credo che tu non abbia scelta- mi contraddisse Raimon con la massima serenità -perché è già qui. Vieni pure, Kudou.
Silenzio. Dopo un battito d’esitazione, la porta si aprì. Vedendolo entrare sobbalzai dal letto. Kudou entrò nella stanza a capo chino, per non incrociare i miei occhi, e rimase a distanza di sicurezza dal letto. Forse temeva che lo avrei aggredito di nuovo e faceva bene, perché la sua sola vista mi faceva ribollire il sangue nelle vene.
-Credo che tu abbia un’idea sbagliata su Kudou- osservò Raimon. Gli scoccai un’occhiata truce.
-Ha partecipato a quegli esperimenti. Ha lasciato che uccidessero mia madre. È uguale a tutti gli altri- protestai, provando una leggera soddisfazione nel vedere Kudou sussultare, arrossire e infine impallidire come se avesse ricevuto un colpo mortale. 
Raimon, invece, mantenne la massima calma.
-Per l’appunto, hai un’idea sbagliata- disse.
-La prego, non mi giustifichi- borbottò Kudou, ma Raimon scosse il capo.
-Non giustificazioni, ma fatti- lo liquidò. -Kudou ha collaborato fin dall'inizio. È stato lui a passarci le informazioni che ci hanno permesso di stanare Kenzaki anni fa. Senza di lui non avremmo potuto salvare nessuno.
-Avrei dovuto fare di più- borbottò Kudou.
-Avremmo tutti dovuto fare di più. Se fossimo riusciti a fermare Kenzaki prima, Midorikawa non avrebbe dovuto rivivere quest'incubo. Di questo mi rammarico molto, ti chiedo scusa, Midorikawa- disse Raimon con un cipiglio cupo. -Ma se non credi a me, puoi usare la tua empatia su Kudou. Vedrai che non ha assolutamente cattive intenzioni.
A quelle parole, Kudou si irrigidì. Non osava ancora guardarmi, e questo ai miei occhi lo rendeva sospetto. Ma le mie convinzioni cominciavano già a vacillare.
Osservandolo, cercavo di far combaciare l'immagine che avevo di lui con quella che Raimon mi aveva appena descritto. Possibile che mi fossi davvero sbagliato sul suo conto? Forse quello che vedevo in lui era davvero solo rimorso. Non sapevo che pensare. L’idea di doverlo perdonare mi lasciava smarrito, svuotato. Ora che non c’era più nessuno su cui scaricarli, cosa avrei dovuto fare con tutto l’odio e la rabbia che provavo?
L’unica cosa che ottenni da Kudou fu il silenzio, perciò mi tirai indietro, stanco.
-No- dissi infine. -Non posso. Non riesco a usare il mio potere, e questa volta è la verità… È come se da quella volta la mia mente si fosse chiusa.
Scioccato, Kudou alzò la testa di scatto e, per la prima volta da quando era entrato, mi guardò apertamente. Anche Hitomiko sembrava sorpresa. Raimon, invece, mi fissava mentre con una mano si grattava il pizzetto con fare pensieroso.
-Capisco- mormorò tra sé e sé, e non aggiunse altro perché in quel momento l'infermiera aprì di nuovo la porta. Impassibile come al solito, attraversò la stanza, prese il carrello, salutò con un inchino i presenti e poi uscì. Hitomiko lanciò uno sguardo a Raimon e, quando lui le fece un cenno d'assenso, andò a chiudere la porta, restando lì davanti. Con quel semplice gesto, l'atmosfera nella stanza cambiò. Capii che stavano per gettarmi addosso un’altra schiacciante verità e d’istinto mi raddrizzai.
-C’è un’altra cosa importante di cui devo parlarti, Midorikawa, e voglio che ascolti con molta attenzione. Riguarda il tuo futuro- disse infatti Raimon con aria grave. -Prima di cominciare, però, devi sapere una cosa… Non so come dirlo, ma sarò breve.
Annuii, impaziente. Ma non ero per niente preparato al dopo.
-Tua madre non è morta, Midorikawa.
Per un attimo lo guardai senza capire, poi iniziai a tremare. Aprii la bocca, ma riuscii a stento a balbettare qualcosa.
-Mia… cosa? Come…
-Fai un bel respiro, Midorikawa. So che non è facile, ma devi ascoltare tutto quello che ho da dire- rispose Raimon con inaspettata dolcezza. Chiusi la bocca e deglutii. Lui si schiarì la gola.
-Sai già che Kenzaki assoldò degli uomini per… occuparsi di te e di tua madre. Ma loro sbagliarono e si liberarono solo di te. Forse pensavano che tua madre fosse la drifter… Per questo la portarono fuori con loro- cominciò, e subito pensai a quello che Kenzaki mi aveva detto nel sotterraneo. Quindi alla fine era la verità. A ben pensarci, Kenzaki era pazzo, ma non mi aveva mai mentito davvero.
-Non sapevano però che, una volta arrivati in superficie, avrebbero trovato la polizia. Grazie alla soffiata di Kudou, siamo riusciti ad arrestare tutti quelli coinvolti nel progetto di Kenzaki… meno lui, come sai. Dal momento che il colpevole principale era ancora in libertà, abbiamo raccolto le testimonianze e offerto alle vittime la possibilità di trasferirsi altrove, con una nuova identità, nascosti allo sguardo di Kenzaki. Hanno accettato tutti… anche tua madre-. Raimon fece una pausa e mi guardò con compassione.
-Non si è mai rassegnata al fatto di averti perso, perciò mi ha chiesto di venire con me in Europa. Voleva restare il più possibile aggiornata sulle indagini… Non era in linea con il protocollo, ma quando ho pensato a cosa avrei fatto, se la mia Natsumi fosse scomparsa… non ho avuto dubbi. Ho accolto la sua richiesta.
-Quindi…- lo interruppi, incerto, e Raimon abbozzò un sorriso.
-Tua madre è viva ed è stata in contatto con me per tutti questi anni, Midorikawa. E adesso sa che anche tu sei vivo- mi disse.
Mi sentivo girare la testa.
-Posso… posso vederla…?- chiesi con un filo di voce. Raimon non mi rispose subito. Lo guardai confuso, poi spostai lo sguardo da lui agli altri due; con mia grande sorpresa, Hitomiko e persino Kudou avevano gli occhi lucidi, velati dalle lacrime. Il mio battito accelerò quando mi resi conto che qualcosa non andava. Mi girai di nuovo verso Raimon, impaziente.
-Non posso…?- mormorai. Raimon sospirò, corrugò la fronte e intrecciò le mani in grembo.
-Qui viene il difficile, Midorikawa. La verità è che… per come stanno adesso le cose, io non posso farvi incontrare- ammise. -Oltre ad aggiornarci su Bahyan e Kenzaki, c’è un altro motivo per cui le Spy Eleven si sono riunite. Ed era per decidere cosa fare con te.
-L’agente Kiyama ci ha raccontato che la morte di Kenzaki è stato un incidente per legittima difesa. E tendenzialmente, pur tenendo conto dell’affetto che lo lega a te, noi gli crediamo, perché Kiyama ha già dato prova di grande responsabilità. Ma anche dando per vera la sua testimonianza, non possiamo passare sopra ad altri… fatti- continuò in tono grave.
-Hai mentito ai tuoi compagni e al tuo capo e ti sei lanciato in una missione suicida, che potenzialmente avrebbe potuto causare molte più vittime. Per non parlare di quanto sia pericoloso il tuo dono, e quanto poco affidabile sia il tuo autocontrollo. Allo stato attuale delle cose, non possiamo far altro che considerarti un pericolo pubblico, Midorikawa. E non possiamo assolutamente lasciarti libero.
Il signor Raimon si fermò e mi scrutò in volto. Ressi il suo sguardo, stringendo un pugno di lenzuola tra le mani così forte che le mie dita divennero bianche. Per un momento mi ero lasciato accecare dalla speranza, ma naturalmente Raimon aveva ragione. Non potevo incontrare mia madre e metterla in pericolo di nuovo. Ancora una volta, mi colpì il pensiero che senza di me avrebbe avuto una vita normale. Avvertendo l’ormai familiare bruciore agli occhi, alzai le mani e mi coprii il volto: per quanto stupido, non volevo che mi vedessero piangere.
Il silenzio si protrasse per alcuni minuti, che parvero interminabili. Sembrava che Raimon stesse aspettando che io mi calmassi, e non disse niente finché non smisi di tremare. A quel punto, mi posò una mano sulla spalla e mi diede una leggera stretta.
-Non tutto è perduto, Midorikawa. C’è ancora speranza.
-Come può esserci speranza?- ribattei con voce rotta.
-C’è sempre speranza, finché siamo vivi e possiamo lottare.
Abbassai un po’ le mani e lo guardai, esausto e leggermente irritato.
-Lottare? E come si può lottare quando non sei grato di essere vivo? Come dovrei vivere la mia vita da ora in poi?
-Questo non lo so. La risposta dovrai trovarla da solo, suppongo, come facciamo tutti. Ma le Spy Eleven vogliono darti una possibilità. Infatti, sono venuto a farti una proposta… A proporti uno scambio, se vogliamo- disse Raimon.
-L’unico modo di reintegrarti in società è immetterti in un percorso di riabilitazione. Esiste una possibilità del genere dove lavoro. Se accetti, dovrai venire con me. Sotto la mia costante supervisione, ti allenerai per imparare a controllare e usare al meglio il tuo dono, mentre allo stesso tempo seguirai una rigida terapia psicologica- proseguì. -In cambio di tutto questo, e ovviamente quando lo riterrò opportuno, ti sarà concesso di vedere tua madre e, un giorno, di condurre una vita normale.
Gli rivolsi un’occhiata incredula.
-E quanto dovrebbe durare tutto ciò?
-Volendo essere ottimisti, non meno di cinque, sei anni. Molto dipende dalla tua capacità di adattamento e di crescita- ammise il signor Raimon. -Sono sicuro che hai i tuoi dubbi a riguardo, quindi sarò totalmente onesto con te. Ucciderti non è mai stato nei nostri interessi. Infatti siamo convinti, io per primo, che il tuo dono sia estremamente utile, se guidato e orientato dalla parte giusta. Certo, non sei l’agente più disciplinato del mondo…- Mi scoccò un’occhiata di rimprovero che mi fece arrossire. -Ma hai ottime potenzialità e il tuo cuore è al posto giusto. Per questo abbiamo deciso di darti un’occasione per redimerti. Cosa ne dici?
-Cosa...- esitai, mi morsi il labbro. -Cosa mi succederà se non accetto?
Raimon aggrottò le sopracciglia.
-Ah... Beh, se non concludi il percorso di riabilitazione, non possiamo farti tornare in servizio. Ma non è solo questo, certo- disse con aria grave. -Ti renderai conto che non possiamo lasciarti a piede libero, saresti troppo pericoloso. Quindi dovremmo probabilmente tenerti rinchiuso in qualche centro, come i ragazzi di Garshield. Non potrai più avere una vita normale.
-Normale- ripetei, soffocando a stento una risata. -Continua a ripetere quella parola. Ma si rende conto che non ha senso? Quando mai la mia vita è stata normale? Lei lo sa cosa si prova quando da un giorno all’altro non sei più te stesso? Quando all’improvviso un potere magico piove dal cielo e decide di renderti la vita impossibile? Lo sa quanto io...- Non riuscii a trovare parole per continuare. Mi morsi il labbro e abbassai lo sguardo.
Raimon sospirò. -No, Midorikawa, non lo so. E ti chiedo scusa se in qualche modo ho sminuito i tuoi sentimenti. Ma ti prego di pensarci seriamente. Ti stiamo dando una grande opportunità. Se non accetti, dovrai rinunciare a tutto... non solo all’agency, ma anche ai tuoi affetti- disse in tono grave.
-In considerazione dei tuoi sentimenti, vorrei darti qualche giorno per pensarci, ma dobbiamo pianificarlo per bene. Domani lascerai l’ospedale e dobbiamo essere sicuri che sarai in un posto dove possiamo tenerti d’occhio...
-Dato che in ogni caso è sospeso dal servizio, può tornare a casa per due o tre giorni. Posso chiamare oggi stesso per avvisare- suggerì Hitomiko inaspettatamente. Mi voltai verso di lei con un’espressione stupita.
-A... casa?
Hitomiko annuì e si mise le mani sui fianchi.
-E sia chiaro che quando dico che puoi tornare a casa, intendo che devi restarci fino a nuovo avviso- disse con voce ferma. -Non voglio vedere la tua faccia in giro neanche di striscio. È un ordine, e tu mi hai promesso che quello dell’altra volta sarebbe stato l’ultimo ordine a cui avresti disobbedito.
Aggrottai ancora di più la fronte, sicuro che me lo stesse rinfacciando. Non che non lo meritassi. Non feci altre obiezioni e mi limitai ad annuire mentre nella mia mente si insinuava una nuova ansia: come dovevo comportarmi una volta a casa? Non ci tornavo da tantissimo tempo e non ero sicuro di come sarei stato accolto. Cosa avrei fatto in quei giorni?
Mentre rimuginavo in silenzio, Kudou fece un passo avanti, titubante.
-Midorikawa… Non so se ti fidi di me, ma… ho una cosa che potrebbe esserti utile- disse. Si frugò in tasca e tirò fuori un braccialetto di metallo con un’apertura laterale. -È un inibitore di mia invenzione. Ti proteggerà- mormorò, poi indicò il mio braccio come per chiedere il permesso di metterlo. Glielo diedi tendendo la mano, e lui mi infilò al polso il bracciale, che si chiuse con uno scatto non appena il metallo venne in contatto con la mia pelle. Sul lato si accese una lucina rossa; immaginavo significasse che era in funzione. Lo osservai con una smorfia. Non mi piaceva l’idea, ma era meglio di niente.
Intanto, il signor Raimon si era alzato dalla sedia. Con nonchalance, andò alla finestra e aprì uno dei battenti per cambiare aria, facendo entrare nella stanza la brezza primaverile con il suo odore di fiori e la calda luce del sole. Dopo aver preso una bella boccata d’aria fresca, si girò di nuovo verso di me con uno sguardo serio.
-Va bene, faremo così- affermò. -Vai a casa domani e fra tre giorni esatti ci rivediamo. Spero che per allora avrai trovato una risposta, Midorikawa.
Annuii. Non ne ero sicuro, ma avrei potuto provarci. Che altra scelta avevo?
 
 
 
xxx
 


Tornai all’agency la mattina dopo, accompagnato da Hitomiko, soltanto per fare “la valigia”, ossia infilare tutta la roba che avevo lasciato al dormitorio in una borsa, alla rinfusa e il più velocemente possibile. Sulla strada non incrociammo nessuno, perché erano tutti impegnati ad assistere a una videoconferenza a cui avrebbero partecipato tutte le Spy Eleven mondiali. Apparentemente le indagini su Garshield e Kenzaki erano tutt’altro che chiuse e quella riunione straordinaria, indetta all’ultimo momento, serviva appunto per ridefinire il ruolo che ogni agency avrebbe avuto da quel momento in poi; ovviamente il ruolo da protagonista spettava alle due agency di Tokyo e Hokkaido, che avrebbero dovuto, per prima cosa, rintracciare tutti i laboratori di Kenzaki e altre possibili vittime dei suoi piani.
Ebbi la netta sensazione che portarmi a prendere le mie cose proprio il giorno in cui erano tutti via non fosse stata una casualità, ma qualcosa di programmato. In un certo senso, ne fui sollevato. L’ultima cosa che i miei compagni avevano saputo di me era che avevo cercato di farmi saltare in aria assieme a un palazzo, con Kenzaki e tutta la sua ricerca. Cosa avrei dovuto dire, se pure li avessi incrociati? Scusatemi per aver piantato su tutto quel casino, per il quale tra l’altro non provavo rimorso? No, era mille volte meglio non doversi scusare.
Così, Hitomiko ed io lasciammo l’agency prima che gli altri tornassero. Mentre ci infilavamo nella macchina della sicurezza e mentre viaggiavamo con i finestrini oscurati per le strade della città, mi chiesi quale sarebbe stata la reazione di Kazemaru nel trovare il mio lato dell’armadio e i miei cassetti svuotati. Se anche Hitomiko non gli aveva spiegato bene la situazione, sarebbe comunque venuto a saperlo presto.
La macchina si fermò davanti a un vialetto semi-vuoto. Non c’erano molte persone in strada. Era un quartiere residenziale, abitato ormai soprattutto da anziani, che a quell’ora erano raccolti perlopiù nella zona del mercato. Scesi dalla macchina trascinandomi dietro la borsa e mi guardai attorno: nulla era cambiato da come lo ricordavo. La casa era a due piani, con un tetto a triangolo e le mura esterne tinte di azzurro pastello; come tutte le case del quartiere, era circondata da un muretto di siepi, che si interrompeva solo all’altezza del cancello. Un tempo quel muretto mi appariva insormontabile, ma ora mi arrivava all’altezza della testa, così che, salendo un po’ sulle punte, riuscivo benissimo a sbirciare nel giardino. Anche la loro macchina, parcheggiata proprio davanti casa, era la stessa da almeno dieci anni. C’era qualcosa di rassicurante, nel ritrovare tutto esattamente come me lo ricordavo.
Varcare il cancello e percorrere il breve vialetto di ciottoli che tagliava in due il giardino mi diede un senso di déjà-vu. Dopo aver bussato il campanello, restammo in attesa e, ascoltando lo scalpiccio di passi che si affrettavano a venirci incontro, il battito del mio cuore accelerò. Avevo paura di come sarei stato accolto; in più, l’aria umida, che prometteva pioggia nel resto della giornata, mi innervosiva. Non avevo quasi più messo piede lì da quando ero diventato un agente, ma quando lo sguardo mi cadde sulla targhetta di metallo attaccata proprio sopra il campanello, avvertii subito un nodo alla gola. Passai le dita sulla targa, mimando con le labbra i kanji, senza osare leggerli ad alta voce. Kazemaru. Non era così che avevo immaginato il ritorno al luogo in cui ero cresciuto. Ma adesso ero lì. Ero tornato a casa.




 
**Angolo dell'Autrice**
Buona Pasqua, gente!
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Credo che sia in assoluto il più lungo che ho scritto (con grande gioia della mia ohana che spesso mi fa da beta) e forse anche il più difficile...? Diciamo che 51 e 52 se la giocano, va'. Sono sicura che il 51 vi aveva lasciati molto perplessi, ma era necessario un certo... velo di mistero, per non farvi capire subito il piano di Midorikawa. Vi aspettavate questa decisione da lui? Per scrivere il suo Arc, ho dovuto riflettere tanto su cosa volevo fare con il personaggio... Poi ho deciso di rileggere l'intera fic e ho capito che non poteva andare altrimenti, almeno secondo me. Midorikawa è sempre stato guidato da un fortissimo senso di giustizia e di sacrificio; per questo Hiroto, che affronta le cose con più razionalità, gli fa da contrappeso. 
Allacciate le cinture per il 53, perché arriva il gran finale!
Un abbraccio,
    Roby


 

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Capitolo 53
*** Mission 53. ~Midorikawa's Arc. ***


Volevo solo che sapeste che scrivendo questo capitolo ho pianto come una fontana.
Ringrazio la mia Ohana per avermi fatto da beta ♥



 
 
La nostra casa non era molto grande, specialmente se confrontata con l'edificio dell'agency, dove avevo vissuto nell'ultimo anno. Dalla porta si entrava direttamente nell’ingresso, dove Mamma ci faceva lasciare le scarpe e le giacche, e dall’ingresso si arrivava direttamente nel soggiorno-cucina. Lo chiamavamo così perché da un lato c’era l’angolo TV e dall’altro, alle spalle del divano, c’erano il tavolo da pranzo e i banconi della cucina. L’intera cucina era stata parte del corredo di nozze, e Mamma e Papà erano quel tipo di persone che possiedono gli stessi mobili per oltre quarant’anni, riluttanti a rinunciare alla familiarità delle maniglie che ormai sembrano aver preso la forma delle tue mani, e alla comodità di sapere quali mobili puoi tenere aperti nello stesso momento e cosa invece deve essere chiuso per far sì che il delicato gioco di incastri tra due persone impegnate a cucinare nello stesso momento possa funzionare. Quando il loro primo cuociriso di coppia era passato a miglior vita, erano rimasti a lutto per tre giorni prima di decidersi a comprarne uno nuovo. Entrambi amavano cucinare, specialmente insieme: come liquidi, si adattavano a qualunque spazio, invadendo spesso quello dell’altro, ma senza farne una tragedia. Erano sposati da quarantadue anni.
Quando si usciva dalla cucina, ci si trovava davanti a un bivio: a destra il bagno, a sinistra le scale. Al piano di sopra c’erano le due camere da letto, quella di Mamma e Papà e quella di Kazemaru, che ad un certo punto era diventata la camera-di-Ichirouta-e-Ryuuji. Una volta che Hitomiko se ne fu andata, Mamma mi mandò in camera a posare la mia roba, poi mi disse di affrettarmi in bagno. Mi aveva preparato un bagno caldo e un ricambio di vestiti puliti e stirati.
Circondato dal vapore e dall’odore pungente dei sali da bagno, mi immersi nella vasca piena quasi fino all’orlo di acqua calda, proprio come piaceva a me, e cercai di rilassarmi pensando il meno possibile. Dopo qualche momento di relax, però, dubbi e paure che avevo spinto in fondo risalirono a galla sotto forma di domande. Chi sapeva che mi trovavo lì? L’avevano detto a Kazemaru? E soprattutto, quella che più preoccupava: quanto e cosa sapevano Mamma e Papà di quello che era successo? Ci rimuginai a lungo, ma non riuscii a darmi una risposta. Mamma mi aveva accolto con calore, senza tracce di paura; dal suo atteggiamento sereno immaginai che sapesse poco o niente. Papà sarebbe rientrato solo verso sera, e allora avrei potuto vedere come si sarebbe comportato. In ogni caso, sapevo che non avrei avuto il coraggio di chiedere direttamente a loro.
Rimasi a mollo nella vasca finché l’acqua non divenne tiepida e, quando aprii gli occhi e gettai uno sguardo alla finestra, mi resi conto che fuori aveva cominciato a piovigginare. Mi alzai, mi asciugai e presi i vestiti che Mamma mi aveva preparato. Mentre mi infilavo la maglietta, lo sguardo mi cadde sul bracciale che avevo al braccio. Lo osservai per un momento, girando il polso per ammirarne la fattura. Speravo che funzionasse, oltre a essere esteticamente carino.
Dopo essermi vestito, tornai in soggiorno. Mamma era occupata ai fornelli, perciò io mi lasciai cadere sul divano, rannicchiandomi contro un cuscino mentre mi tamponavo i capelli umidi con un asciugamano. Benché fosse di spalle, sicuramente Mamma si era accorta della mia presenza, ma non disse niente. Stava canticchiando una vecchia canzone di Kyu Sakamoto che le piaceva tanto. Se non fosse stato per i suoi capelli, ormai più grigi che azzurri, avrebbe dimostrato molti meno anni di quelli che aveva. Dal fornello veniva un delizioso odore di stufato di crema, con un aroma delicato ma al contempo stimolante, che faceva venire l’acquolina in bocca. Accanto alla pentola sobbolliva un altro pentolino di latte. Lo stufato di crema era uno dei cavalli di battaglia di Mamma, nonché il piatto preferito di Papà: aveva conquistato il suo cuore partendo dal suo stomaco.
Ascoltando Mamma cantare, accompagnata dal tintinnio del mestolo di ferro contro la pentola e dal borbottio dello stufato, riuscii finalmente a rilassarmi davvero e, prima che me ne accorgessi, chiusi gli occhi e mi addormentai così, raggomitolato sul divano con l’asciugamano sulle spalle.
Solo che i miei sogni non furono altrettanto pacifici.
Sognai mia madre e Hiroto nella clinica. Sognai che Kenzaki stava per ucciderli entrambi, ma loro non lo vedevano, non vedevano il pericolo, e per quanto io gridassi la mia voce non riusciva a raggiungerli. Perché ero sott’acqua. Avviluppato dalla corrente, trascinato verso il fondo. Provai a gridare, ma di colpo i miei polmoni si riempirono d’acqua… 
Mi svegliai di soprassalto, spalancando la bocca per prendere aria. Non sapevo per quanto tempo avessi dormicchiato, ma fuori intanto aveva cominciato a piovere con insistenza  e capii che a svegliarmi era stato il rumore secco e forte di un tuono. Mi ci volle qualche momento a capire che non stavo affogando davvero, e a ricordarmi che mia madre e Hiroto erano al sicuro. Non aveva neanche senso, che fossero nella clinica assieme. Apparentemente, però, il mio subconscio aveva deciso di torturarmi.
Mentre riprendevo familiarità con la realtà, mi accorsi che sulle mie gambe era stata poggiata una coperta leggera e che l’asciugamano umido non era più attorno alle mie spalle. Un profumino di miele e spezie mi solleticò il naso e, tirandomi su, notai una tazza di latte fumante poggiata sul tavolino davanti ai miei piedi. Istintivamente mi voltai verso il lato cucina. Mamma aveva finito di cucinare lo stufato, che ora riposava pigramente in pentola sotto il coperchio, e si era seduta al tavolo, impegnata a tagliare delle vecchie maglie di Papà per farci degli stracci per la casa.
Quando sentì che mi stavo muovendo, alzò gli occhi verso di me e gli angoli della sua bocca si sollevarono in un sorriso, formando delle adorabili fossette sulle guance rosate.
-Ryuuji, ti ho preparato un po’ di latte- disse. Non fece commenti sul fatto che mi fossi addormentato, anche se doveva essere stata senz’altro lei a coprirmi.
-Grazie- mormorai, girandomi di nuovo. Mi sporsi in avanti e sollevai la tazza con molta attenzione per non versare il latte che sembrava ancora caldo; me la portai alle labbra e cominciai a sorseggiare piano. Subito il dolce bruciore del miele, seguito dal pizzicore delle spezie, mi fece formicolare la lingua, ma era una sensazione piacevole.
Poi Mamma si alzò dal tavolo e venne a sedersi vicino a me, all’altro capo del divano, ed io sussultai, ma quando notai che aveva lasciato uno spazio, seppur minimo, tra noi mi sentii deluso e vagamente ferito dal dubbio che si stesse tenendo a distanza da me. Ma perché dovrebbe?, mi chiesi subito dopo. Lei non sapeva niente, giusto?
Restammo in silenzio per un po’; lei a tagliuzzare, apparentemente concentrata sulle forbici, e io a bere, con gli occhi fissi nel vuoto mentre cercavo di ignorare l’ululato di quell’aggressiva pioggia estiva.
Mamma fu la prima a mettere giù la sua distrazione. Finito di tagliare una manica in due parti, posò sul tavolino le forbici e il tessuto forato e voltò lo sguardo verso la finestra, mordicchiandosi il labbro pensierosa.
-Questa pioggia proprio non ci voleva. Speriamo che smetta presto, eh?- disse e, quando si girò a guardarmi, sorrideva di nuovo. -Allora, hai messo a posto le tue cose? Se hai qualcosa da lavare o stirare, dammi tutto che ci penso io. Ah, non posso credere di averti finalmente a casa! Sai, è ancora un po’ strano per me vedere un cumulo di panni sempre così piccolo. Quando eravate bambini c’era sempre tanto da fare. Adesso mi sembra di avere un po’ troppo tempo libero.
Abbassai un po’ la tazza e mi schiarii la gola.
-È… è passato tanto tempo da allora- riuscii solo a dire, in modo patetico. Ma lei non mi prese in giro. Invece, sospirò e si portò una mano al volto.
-Ah, hai ragione. Sono passati due anni, eh? Ma non mi abituerò mai a sapervi lontani da casa entrambi… Una mamma mette in conto di doversi separare dai figli solo quando sono già adulti, immagino-. Sorrise e con una mano si scostò una ciocca di capelli dal viso, sistemandoli dietro l’orecchio. 
-È lo stesso per Papà, ovviamente. Purtroppo Hitomiko-san ci ha avvertiti solo ieri, perciò l’ho mandato subito a comprare delle cose… Ma sono certa che si affretterà a tornare a casa, non vede l’ora di passare un po’ di tempo con te.
Annuii distrattamente, ma quando realizzai cosa aveva detto, per poco non feci cadere la tazza.
-Avete… avete parlato con Hitomiko-san…?- chiesi.
Accorgendosi di aver detto qualcosa che non doveva, Mamma ebbe un momento di esitazione, ma era sempre stata una persona schietta, perciò non mi mentì.
-Ci ha chiamati ieri pomeriggio per dirci che saresti rimasto da noi per tre o quattro giorni- rispose. Mentre parlava non distolse mai lo sguardo da me, come se stesse studiando la mia reazione. Non c’erano più dubbi: sapevano già tutto.
Mi mancò il respiro. D’istinto mi ritrassi, rannicchiandomi di più nel mio angolino; mi affrettai a mettere giù la tazza con mani tremanti, e il latte si rovesciò in parte sul tappeto. Mamma scattò subito in avanti, allarmata, ma si bloccò prima di toccarmi.
-Ryuuji…
-Mi dispiace- dissi meccanicamente, interrompendola sul nascere. Abbassai lo sguardo e le parole si rovesciarono dalla mia bocca come un fiume in piena.
-Per colpa mia Kazemaru si è fatto male… Non sono riuscito a proteggerlo, e non ho fatto altro che causare problemi e alla fine non sono riuscito nemmeno a risolvere niente… Io… io ti chiedo scusa. Voi mi avete dato tutto e io… io non sono riuscito a restituirvi niente, ho dato solo problemi. Non so come scusarmi…
Prima che potessi aggiungere altro, Mamma mi tolse la tazza con un gesto deciso, la poggiò sul tavolo e poggiò le sue mani sulle mie.
-No, Ryuuji, no- disse, scuotendo più volte il capo. -Se c’è qualcuno che deve chiedere scusa… quelli siamo noi-. Man mano che parlava il suo volto si rabbuiava sempre di più, e alla fine la voce le tremò un poco.
La guardai confuso, ma quando aprii la bocca per parlare lei scosse di nuovo il capo.
-Lasciami parlare. La verità è che io sono… mortificata. Sono così arrabbiata con me stessa per non aver capito come ti sentivi. Non immaginavo che tu… pensassi queste cose. Pensavo che fossi felice… Ma deve essere stata dura… devi esserti sentito così solo.
I suoi occhi erano rossi e lucidi; vedendola piangere, andai un po’ nel panico.
-No! Non è colpa vostra, sono io che… sono io quello sbagliato- mormorai, imbarazzato.
Mamma non disse niente. Mi fissò a lungo senza parlare, poi si alzò e uscì dalla stanza. Restai immobile a guardarla andare via, smarrito. Fuori il rumore della pioggia si era fatto più forte, e il vento la faceva battere contro i vetri, perciò presi un cuscino e lo strinsi al petto, schiacciato nel mio angolino.
Mamma tornò dopo una decina di minuti con un grosso libro tra le mani. A guardarlo meglio, capii che era un album di foto rilegato con una copertina di tessuto azzurro; sul davanti c’era la scritta “Album di famiglia”, ricamata con un taglio pulito e ordinato. Senza dubbio Mamma ci aveva messo il suo tocco magico.
Si sedette sul divano accanto a me, stavolta così vicina che le nostre spalle si toccavano, e aprì l’album sulle proprie gambe. Le prime pagine erano piene di foto di Kazemaru da bambino a un anno, due, tre e così via; poi, verso la sesta pagina, apparve una mia foto. Rimasi a fissare stranito quel bambino con i capelli lunghissimi, tutto arruffato, praticamente un piccolo selvaggio. Doveva essere stata scattata non molto tempo dopo il mio arrivo a casa, perché nelle foto a seguire i miei capelli erano più corti e sistemati. Quasi istintivamente, allungai una mano e sfiorai con le dita la mia prima foto con Kazemaru: abbracciati, in salopette, sdentati perché entrambi stavamo ancora cambiando i denti da latte. Kazemaru mi stringeva le braccia attorno alle spalle e sorrideva con gli occhi strizzati, le fossette sulle guance. In un angolo della pagina, in alto a sinistra, c’era scarabocchiata la scritta Ichirouta e Ryuuji, 8 anni. A quell’età eravamo ancora solo dei normali bambini di Tokyo. Nella foto successiva ero io ad abbracciare Kazemaru, che era in pantaloncini da corsa e mostrava con orgoglio la medaglia del primo posto in una gara scolastica. Diventare un atleta era il suo sogno. Io, invece, di sogni non ne avevo poi molti; essendo privo di un passato, era difficile per me immaginare un futuro, perciò mi accontentavo di pianificare il domani insieme a Kazemaru. Era impossibile non notare che eravamo insieme in tutte le foto.
-Eravate inseparabili- commentò Mamma, come leggendomi nel pensiero. Mi indicò sorridendo una foto in cui dormivamo vicini, Kazemaru rincantucciato sotto le coperte ed io seduto in ginocchio accanto al letto, con la testa poggiata accanto a lui. -Una volta alle elementari dovevate andare in gita con la classe, ma Ichirouta si è ammalato proprio la sera prima… Ha pianto tutto la sera dicendo che doveva andare con te e alla fine siete entrambi crollati! Te lo ricordi, Ryuuji?
Annuii piano, senza staccare gli occhi dall’immagine. -Avevamo promesso di andarci insieme… perciò sono rimasto a casa anch’io- sussurrai.
-Sì… Me lo ricordo benissimo. Hai dormito vicino a lui tutta la notte e poi, la mattina dopo, mi hai detto tutto serio che saresti rimasto a casa per aiutarmi a prendermi cura di Ichirouta. E Ichirouta…
-Ha pianto di nuovo quando si è svegliato.
Mamma ridacchiò. -Proprio così. Aveva paura che fossi andato alla gita da solo, ma tu non avevi voluto separarti da lui- disse. Girò pagina e indicò una foto in cui eravamo seduti sul divano: avevo un ginocchio sbucciato e Papà me lo stava disinfettando, mentre Kazemaru mi teneva forte la mano con un’espressione contrita, come se stesse soffrendo più di me.
-Qui ti eri fatto male per proteggere Ichirouta- raccontò Mamma. -Stavate giocando a calcio con Papà sul lungofiume e Ichirouta è inciampato ed è caduto lungo l’argine. Tu ti sei buttato e lo hai stretto tra le braccia per attutire la sua caduta e… ti sei fatto male tu. Ma anche quando ti abbiamo medicato, tu non hai mai pianto, sai? Non sei mai stato un bambino che piange.
Mamma si fermò e fece un sorriso triste.
-Sei sempre stato così forte- sussurrò. -Così forte, e così indipendente… Quando Kazemaru era in difficoltà, eri il primo a correre in suo aiuto, ma quando eri tu a soffrire, cercavi sempre di nasconderlo per non farci preoccupare. Se avessi pianto, se ti fossi lamentato, avremmo potuto starti accanto e confortarti. Ma tu non volevi conforto, guardavi sempre avanti. E allora io e Papà non abbiamo potuto fare altro che guardarti crescere insieme a Ichirouta, e darvi una mano quando potevamo. Pensavo che avrei potuto proteggerti per sempre, ma…
Girò ancora pagina, e ancora. In alto a destra era scarabocchiata la scritta Ichirouta e Ryuuji, 13 anni. La foto che voleva farmi vedere risaliva al festival culturale della terza media. Kazemaru aveva appena perso la corsa dei 100 metri a cui teneva tanto e piangeva ancora per la frustrazione mentre facevamo il picnic con la famiglia sotto gli alberi in fiore; naturalmente, io ero vicino a lui e lo stavo consolando, offrendogli i fazzoletti. Ricordavo fin troppo bene quel festival. Come dimenticare il primo momento in cui la mia empatia si era manifestata? Un istante prima ero normale, l’istante dopo stavo assorbendo le emozioni negative di Kazemaru come una spugna.
Lanciai un’occhiata di sbieco a Mamma, chiedendomi cosa volesse dirmi.
-Ma… poi sono arrivati i nostri doni?- tentai, nervoso. Mamma assentì.
-Da quel giorno avete cominciato pian piano a essere… speciali. Anche se eravamo confusi, io e Papà abbiamo capito abbastanza in fretta che non era semplice crescita. Kazemaru era più che veloce, era come il vento. E tu… tu sentivi troppo, troppe cose, e stavi male per questo. Eravate chiaramente diversi dagli altri bambini, e noi… io… io avevo paura, Ryuuji-. Mamma deglutì e le lacrime bagnarono di nuovo i suoi occhi.
Mi sforzai di non essere ferito dalle sue parole. Anche se faceva male, dovevo essere forte per lei, glielo dovevo.
-È normale, sai… avere paura di tutto questo. Dei doni- dissi. Di me, volevo aggiungere, ma non riuscii ad andare oltre. Avevo un fastidioso nodo alla gola.
Mamma scosse il capo.
-No… No. Non capisci, Ryuuji. Non era dei vostri poteri che avevo paura- rispose.
-Temevo di… di non essere abbastanza. Avrei voluto proteggervi, ma non ero abbastanza forte… Perciò, quando Hitomiko-san è venuta da noi e ci ha spiegato tutto, mi sono sentita sollevata. Ho pensato che loro avrebbero potuto aiutarvi, e vi ho lasciati andare… anche se sapevo che avrebbe potuto essere pericoloso, vi ho lasciati andare…
-Nei primi tempi, non facevo altro che chiedermi se avevo fatto bene, se avrei potuto fare di più. Sono una cattiva madre? Avrei potuto continuare a crescervi qui, con Papà? Avremmo potuto darvi la vita che meritate, anche se siamo solo persone comuni? Ancora non lo so… Non so cosa dovrei pensare, o cosa avrei dovuto fare, ma...
Mamma si girò e mi poggiò una mano sulla guancia.
-Ryuuji, mio bellissimo, coraggioso guerriero… Tu sei mio figlio. E nulla di ciò che farai o dirai potrà mai cambiare questo fatto. Tu sei nostro figlio, e noi siamo la tua famiglia. Perciò non devi mai, mai chiederci scusa. Ogni momento passato insieme è un ricordo prezioso che nessuno potrà toglierti... e spero che ci porterai sempre con te, ovunque andrai, perché io vi porto sempre con me, nel mio cuore.
Nonostante le lacrime che le rigavano il volto, Mamma sorrideva e la sua voce era sicura.
A ogni parola sentivo il bruciore agli occhi intensificarsi, finché non riuscii più a trattenere le lacrime. Mi sporsi in avanti, schiacciando l’album tra noi due, e le gettai le braccia al collo con impeto, rifugiandomi nel suo abbraccio come un bambino. Mamma non esitò a stringermi a sé. Perché non avevo mai pianto davanti a lei? Se l’avessi fatto, avrei capito molto tempo fa che ne avevo bisogno. Lei mi avrebbe confortato come stava facendo adesso e io mi sarei sentito un po’ meno solo. Ma era inutile pensare alle possibilità mancate; c’era invece qualcosa di molto importante che potevo dirle adesso, e in futuro. Una sola, preziosissima parola che conteneva tutto ciò che provavo. Grazie. La ripetei più e più volte tra un singhiozzo e l’altro, e lei in risposta mi strinse più forte.
Eravamo così impegnati a piangere che non ci accorgemmo nemmeno che aveva smesso di piovere. Capimmo quanto tempo era passato solo quando Papà rientrò a casa dopo aver svolto le commissioni che Mamma gli aveva affidato; sentendo i suoi passi nell’ingresso, mi staccai finalmente dall’abbraccio e alzai la testa, guardando verso la porta, in attesa. Papà entrò in soggiorno camminando goffamente, impacciato dalle buste della spesa che portava a due a due, ma appena ci vide e mi guardò bene in faccia lasciò cadere di colpo tutto ciò che aveva in mano e si buttò in ginocchio davanti a me, stringendomi tra le braccia con lo stesso calore di Mamma. Abbracciai le sue spalle forti, la sua testa stempiata, quasi calva, e mi sorpresi di sentirlo piangere a sua volta.
Dopo un po’, Mamma si staccò da noi e si asciugò il viso con un fazzoletto di stoffa.
-Spero che nelle buste non ci fossero le uova- osservò, con la voce rotta dal pianto e un sorriso ironico sulle labbra. Abbozzai un timido sorriso per la battuta; dopo aver pianto mi sentivo più leggero. Papà, invece, scoppiò a ridere: non ammise la colpa, né la negò.
Quella sera, seduti a tavola, mangiammo lo stufato di crema e, per dessert, un semplice budino. Per fortuna, le uova si erano salvate quasi tutte.
 


 
xxx


 
Mamma aprì la porta della mia camera e si affacciò.
-Ryuuji? Ho messo l’acqua sul fuoco. Scendi per un tè tra poco?- chiese con un sorriso.
Annuii, ricambiando il sorriso, e lei tornò al piano di sotto tutta contenta; la sentii scendere le scale canticchiando.
Nei due giorni che avevo trascorso a casa, mi ero gradualmente riappropriato dei miei spazi e di tutte le cose che avevo dovuto lasciare indietro quando mi ero trasferito. Quel pomeriggio ero steso sul mio letto a leggere dei vecchi fumetti che avevo tirato fuori dall’armadio e sparso dappertutto sul pavimento. Oh, se avevo adorato quella serie da bambino! Forse perché era una serie di supereroi, e tutti i bambini sognano un po’ di essere degli eroi. E come potevo io, un bambino che voleva essere amato così disperatamente, non voler diventare un eroe benvoluto da tutti? Quello che mai avrei immaginato era che, beh, avere un potere non è per forza figo. Nessuno ti avverte mai degli effetti collaterali.
I due giorni che avevo trascorso a casa con Mamma e Papà erano stati sorprendentemente normali; era come se quello che era successo alla clinica non fosse mai accaduto, come se fosse stato solo un incubo i cui contorni erano sfumati una volta che me n’ero distanziato. Avrei voluto che fosse andata così, ma purtroppo sapevo che il mio dono non era scomparso. E non potevo prevedere quando sarebbe tornato.
Chiusi il fumetto e lo poggiai sul cuscino, poi mi tirai su, mi infilai una felpa e uscii dalla camera per raggiungere Mamma al piano di sotto. Mentre scendevo le scale, mi resi conto con sollievo che la pioggia si era diradata dopo essersi accanita contro i vetri per tutta la notte e la mattina successiva.
Nel soggiorno-cucina c’era profumo di tè verde e gelsomino. Mamma era in piedi davanti al fornello e stava versando il tè nei bicchieri di gras; alle sue spalle, sulla tavola, c’era anche una scatola di latta contenente dei biscotti. Senza perdere neanche un momento, mi lasciai cadere su una sedia, presi un biscotto e lo addentai. Era friabile, burroso e pieno di gocce di cioccolato, e mentre masticavo mugugnai un verso di apprezzamento. Intanto, Mamma mi tese un bicchiere di tè in cui galleggiavano due stecchini di legno. Mi preparava sempre qualcosa di caldo da bere quando pioveva. Accettai il tè con gratitudine e lo poggiai vicino a me mentre ponderavo l’idea di riempirmi la tasca della felpa di biscotti.
-Dov’è Papà?- chiesi distrattamente, portando il bicchiere alla bocca e soffiandoci sopra.
-Oh, aveva una faccenda da sbrigare. Dovrebbero essere qui a momenti- rispose Mamma serenamente. Annuii e stavo per prendere un sorso di tè quando finalmente la mia testa registrò le parole; mi bloccai e fissai Mamma confuso, con la fronte corrugata. Solo in quel momento notai che stava versando il tè in quattro tazze, non due.
-Dovrebbero chi…?
Ma coincidenza volle che la mia domanda fosse interrotta proprio dal suono del campanello. Mamma mi sorrise di sfuggita e, quando andò ad aprire, mi alzai di scatto e la seguii d’istinto. Papà stava posando delle buste a terra e alle sue spalle, impegnato a sistemare l’ombrello sul pianerottolo in modo che non fosse d’impiccio, c’era Kazemaru.
Rimasi a fissarlo a bocca aperta. Kazemaru entrò dietro Papà e cominciò a scrollarsi di dosso la giacca bagnata; quando alzò lo sguardo e mi vide, anche lui si paralizzò, con gli occhi incollati su di me e la giacca ancora appesa a un braccio.
-La pioggia ci ha beccati proprio nel tragitto tra il palazzo e la macchina! Che sfortuna, eh- si lamentava intanto Papà, scuotendo il capo mentre appendeva l’impermeabile in alto. Si girò verso Kazemaru e aggrottò la fronte, confuso dal fatto che il figlio sembrasse congelato nel tempo, ma poi si accorse di me e fece due più due.
-Oh- disse, quasi illuminandosi. Lui e Mamma si scambiarono un’occhiata eloquente, poi Mamma poggiò una mano sulla spalla di Kazemaru, attirando su di lei la sua attenzione.
-Ichirouta, tesoro, perché non finisci di spogliarti e ti avvii dentro? Vi porto il tè in camera dopo- suggerì con una certa fermezza.
Kazemaru prese la palla al balzo. Senza farselo ripetere due volte, tolse definitivamente la giacca, si sfilò le scarpe e varcò finalmente l’ingresso. Vedendomelo arrivare addosso, feci d’istinto un passo indietro, ma Kazemaru mi prese per il braccio e mi tirò nel soggiorno e poi verso il piano di sopra. Avrei potuto opporre resistenza. Non lo feci.
Solo una volta arrivati davanti alla nostra stanza, Kazemaru si fermò, mi lasciò il braccio e aprì la porta. Il suo sguardo cadde subito sui fumetti sparsi a terra.
-Wow- esclamò subito, sgranando gli occhi davanti al caos che regnava nella camera.
Mi morsi il labbro e cominciai ad attorcigliare una ciocca di capelli attorno a un dito.
-Avevo, uh… voglia di leggere qualcosa- ammisi. -Non posso uscire di casa perché… Beh, non posso. E anche se potessi, non vorrei, quindi…
Kazemaru annuì senza fare commenti, poi si chinò e raccolse da terra un numero a caso. Sorrise guardando la copertina.
-Me lo ricordo questo. Era il tuo preferito. Ti sono sempre piaciuti i supereroi- disse. Scrollai le spalle, mi lasciai cadere sul letto e abbassai lo sguardo sul fumetto che ci avevo lasciato poco prima.
-I supereroi sono fighi, ma hanno anche un sacco di problemi. È molto meglio essere normali. Era bello quando eravamo… soltanto noi, senza doni. Senza stranezze- ribattei con una punta di amarezza. 
Prima di rispondermi, Kazemaru chiuse la porta della camera. Sapevamo entrambi che Mamma sarebbe arrivata con le nostre tazze di tè quando sarebbero state già fredde.
Kazemaru si sedette accanto a me, le mani intrecciate in grembo e il volto leggermente chino in avanti in modo da scrutare il mio.
-È vero. I ricordi di quando eravamo bambini sono probabilmente i più belli che ho- ammise. -Forse non abbiamo mai apprezzato quella normalità quanto dovevamo, perché… perché era normale. E noi sognavamo di essere qualcosa di più.
Tacque per un momento, inspirò a fondo, poi continuò.
-Prima o poi lo scoprirai comunque, perciò voglio dirtelo io. I medici dicono che non potrò più fare atletica. Anche se Maki è intervenuta quasi subito, ho… perso troppo sangue.
D’istinto guardai la sua gamba. Strinsi i pugni sulle ginocchia, frustrato, ma prima che potessi scusarmi, lui poggiò una mano sulla mia e mi guardò serio.
-Non dire che è colpa tua. Io non penso che lo sia- disse, con una tale sicurezza che non riuscii a contraddirlo. Rimasi in silenzio a guardarlo, e lui proseguì.
-Persino in quella situazione, tu cercavi di proteggermi… È per questo che mi avevi allontanato da te, vero? Ma Fox ci ha presi tutti di sorpresa… Sai, ho pensato e ripensato a come avrei potuto evitarlo. Ma rimuginarci ora non porta a niente.
-Fare atletica era il tuo sogno- mormorai in un fil di voce.
Kazemaru scosse il capo e abbozzò un mezzo sorriso.
-Non avrei potuto continuare in ogni caso. Credo che usare poteri sovrumani per vincere le Olimpiadi sia ancora illegale- rispose, strappandomi un verso a metà tra una risata e un singulto. Kazemaru mi mise una mano sulla spalla e poggiò la testa contro la mia, stringendomi in un mezzo abbraccio.
-Solo perché quel sogno non si è realizzato, non vuol dire che fosse stupido... Anche se i tuoi sogni non si sono realizzati come avresti voluto, non vuol dire che non valessero niente. Puoi sempre ricominciare daccapo- disse.
-Mi dispiace di non esserti stato accanto quando ne avevi bisogno. Mi dispiace se ho avuto paura, anche solo per un istante. Quando ho capito di averti ferito, era già troppo tardi… Ti stavo già perdendo- aggiunse. La sua voce tremò alla fine, ma poi si ricompose.
-Io credo in te, Ryuuji. E voglio che tu sia felice… per questo accetterò anche di dovermi separare da te. Ma nulla di tutto questo ha senso se tu non sei felice. Ryuuji, promettimi che ti impegnerai. Io mi impegnerò, se tu continuerai a farlo.
-Non posso prometterti nulla- dissi in tono stanco. Kazemaru mi strinse di più a sé.
-Lo so- sussurrò. -Lo so. Scusami se non sono sempre l’amico che meriteresti.
-Sei più di un amico. Sei mio fratello- sussurrai. Kazemaru fece un sorriso incerto e mi guardò intensamente mentre la sua mano scivolava via dalla presa.
-Spero che lo penserai ancora tra un’ora o due… perché a dire la verità, c’è un’altra cosa di cui devo scusarmi- disse lentamente.
Alzai il viso e lo guardai, accigliato. Kazemaru si morse il labbro inferiore.
-Uhm… C’è un’altra persona che vorrebbe parlarti. Hitomiko non voleva, perché, ehm, si tratta una persona troppo ‘coinvolta emotivamente’, ma lui ha insistito per vederti, perciò… l’ho portato qui- confessò. -Gli ho detto che avrei parlato prima io con te, perciò… ti sta ancora aspettando fuori, probabilmente.
Non aveva neanche finito di parlare che ero già saltato giù dal letto. Spalancai la porta, scesi le scale di corsa e attraversai a grandi falcate soggiorno e ingresso, solo vagamente consapevole che Kazemaru, Mamma e Papà stavano assistendo a tutto quanto. Mi gettai sulla porta d’ingresso e la aprii bruscamente. Il fiato mi si mozzò in petto.
Hiroto era lì, avvolto in un trench nero, appoggiato vicino alla parete con le braccia incrociate al petto; sorpreso dal rumore della porta, ebbe un sussulto e si raddrizzò di colpo. Lo guardai sconvolto, ancora con la mano sulla maniglia, incurante del vento che mi batteva sulle guance. Hiroto alzò la mano in segno di saluto e accennò un pallido sorriso, i capelli rossi che ondeggiavano come anemoni sullo sfondo grigio lamiera del cielo.
-Midorikawa- disse, esitò. Le sue guance si imporporarono. -Uhm… speravo che… potessimo fare due passi, se ti va.
Il cuore mi palpitava forte nel petto. Non sapevo più parlare. Rimanemmo per un attimo a fissarci, senza parole. Hiroto mi guardava con un senso di nervosismo e attesa, e non potei fare a meno di chiedermi come mi vedesse in quel momento, mentre stavo lì davanti a lui con una vecchia tuta e una felpa di due taglie più grossa della mia. Sapevo di avere delle occhiaie molto profonde; mi svegliavo ogni notte con gli incubi.
Un rumore mi fece sobbalzare. Mi girai di scatto e intravidi Kazemaru sulla porta della cucina: mi faceva segno di andare. Presi un respiro profondo, poi afferrai la mia giacca e la indossai mentre uscivo, chiudendomi la porta alle spalle. Quando alzai lo sguardo su Hiroto, vidi nei suoi occhi sorpresa, sollievo, esitazione. Riabbassai subito la testa e lo presi per la manica del trench con due dita.
-Seguimi- dissi soltanto, e lui lo fece senza fiatare.
Ricordavo perfettamente che poco lontano da casa nostra c’era uno spazio verde, non grande abbastanza da essere chiamato parco, ma con una discreta area per bambini. L’entrata era aperta a tutti gli abitanti del quartiere; non c’erano cancelli, o recinzioni, o siepi. Intravidi subito l’area bambini. La minuscola piscina di sabbia, le altalene, i tubi di ferro: era rimasto tutto uguale ai miei ricordi. A quell’ora e con l’incertezza del meteo la zona era deserta, l’ideale per parlare da soli. 
Dopo essermi guardato intorno, mi avviai verso le altalene e ne scelsi una a caso su cui sedermi. Hiroto occupò subito il posto accanto al mio. Restammo per un po’ così, a ciondolare in silenzio, senza mai staccare davvero i piedi da terra, ancorati con i talloni nel terriccio. A testa china, sbirciai di nascosto il suo profilo vestito di nero, la sua espressione combattuta ma allo stesso tempo determinata, la stessa determinazione che aveva dimostrato in quella stanza sotterranea. Non riuscivo a immaginare di cosa volesse parlarmi, ma quell’atmosfera seria mi rendeva nervoso. Era venuto per lasciarmi?
Il pensiero bastava ad atterrirmi. Ero uno stupido. Ero stato io a incrinare il nostro rapporto; non avevo il diritto di lamentarmi. E forse era meglio così, perché se non lo avesse fatto lui, avrei dovuto farlo io e non sapevo se ero abbastanza forte da riuscirci.
Eravamo tanto vicini che avrei potuto toccarlo solo allungando una mano. Quando una ciocca di capelli gli scivolò sulla guancia, ebbi l’impulso di scostargliela io, così da poter continuare a osservare il suo volto, ma all’ultimo mi trattenni e strinsi i pugni attorno alle catene dell’altalena. Ma cosa sto facendo?, mi chiesi, frustrato.
Poi Hiroto prese un respiro profondo, inspirò, gli occhi fissi sulle proprie scarpe.
-Ho deciso di accettare l’incarico di Spy Eleven appena possibile- mormorò.
Mi morsi l’interno della guancia, cercando di mascherare la mia sorpresa. L’ultima volta che ne avevamo parlato, Hiroto non mi era parso esattamente entusiasta, anzi.
Sembrava passata un’eternità da quel giorno.
-Pensavo avessi detto che non ti sentivi pronto- dissi invece, con voce controllata.
-Pronto? No, non direi-. Hiroto scosse il capo. -Non penso che lo sarò mai… Continuo a pensare di non essere all’altezza. Ma quello che è successo alla clinica… mi ha fatto capire alcune cose. In questi giorni ho avuto tanto tempo per pensare alla missione, a noi due, e anche ai nostri doni.
-Voglio dire, nessuno sa precisamente da dove sono venuti, no? Sono semplicemente apparsi, da un giorno all’altro. E non sappiamo se o quando spariranno- continuò, serio. -Per come stanno le cose adesso, non abbiamo altra scelta che accettarli e conviverci… ma possiamo fare molto di più. So che possiamo. E diventare Spy Eleven è un’opportunità che non posso lasciarmi sfuggire, se voglio davvero cambiare le cose.
-Cosa… cos’hai in mente?- mormorai, titubante, alzando leggermente lo sguardo.
-Beh, prima di tutto informare come si deve i nuovi drifter e le loro famiglie. Proprio perché i doni sono un fenomeno recente e improvviso e del tutto casuale, molti di noi non hanno avuto la possibilità di avere un’infanzia normale. Le nostre famiglie sono rimaste spiazzate, o sono state distrutte, e abbiamo vissuto nella paura- spiegò Hiroto, spostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Aveva le guance rosse e parlava velocemente.
-Ma se riuscissimo a individuare i nuovi drifter e ad aiutarli a venire a capo della cosa… se pian piano riuscissimo a normalizzare tutto questo, quei bambini non dovranno passare quello che abbiamo passato noi. Noi possiamo dare loro una scelta, la scelta che molti di noi non hanno avuto. In questo modo, forse… forse potremo lasciare ai bambini del futuro un mondo migliore e più sicuro per tutti.
Hiroto si fermò per riprendere fiato, poi si girò verso di me e sorrise.
-Questo è il mio sogno. Ed è tutto merito tuo, Midorikawa. Sei tu che mi hai ispirato- disse. Per un momento il suo sorriso mi tolse il respiro, e rimasi a fissarlo senza parole, confuso e disorientato. Poi cominciai a sentirmi anche arrabbiato.
-Ispirato?- ripetei con voce tremante, con il viso accaldato dalla vergogna. Mi girai a fulminare Hiroto con lo sguardo e, nel voltarmi, lo sguardo mi cadde di nuovo sul bracciale. Nascosi rapidamente le mani nella tasca della felpa.
-Come puoi dire una cosa del genere? Dopo quello che hai visto là sotto?- sbottai, irritato. -Io… non sono una persona che può ispirare gli altri. Quando ero con Kenzaki, ho conosciuto la parte peggiore di me. Cosa ti ha ispirato, esattamente? Quando ho fatto crollare un palazzo? O quando ho quasi ucciso qualcuno?
-Midorikawa, non è…- Hiroto tese una mano verso di me, ma io la evitai e mi alzai di scatto, allontanandomi da lui con un balzo.
-No!- gridai. -Non provare a dirmi che non è colpa mia! Hai visto quello che ho fatto! L’hai visto! E non posso darti una spiegazione. Io... Io non so più chi sono! Non riesco… non riesco a essere felice di essere sopravvissuto… perché sono un mostro. Il mio dono mi rende un mostro. Come posso continuare a vivere… Come posso sapere che non succederà ancora?
Deglutii. Non volevo piangere, non adesso. Non nel momento della verità.
-Hiroto, noi non possiamo restare insieme- dissi, con voce rotta. -Lo sai, vero? Se resterai con me, non farò altro che continuare a ferirti... Alla fine ti rovinerò la vita. Questo potere vive con me... e finché sarò vivo, distruggerà tutto ciò che tocca. Lo stesso destino toccherà anche a te, e a tutto ciò che amo. Per colpa mia...- La voce mi venne a mancare. Presi un respiro profondo, poi continuai, tagliente.
-Tu hai il potere di fermarmi, è vero. Ma dopo che lo hai fatto una volta, e poi un’altra, e un’altra ancora… cosa succede dopo, Hiroto? Mi controllerai per tutta la vita? Non è questo che voglio per te.
Mi rannicchiai a terra, coprendomi la testa con le braccia, le mani sugli occhi mentre lottavo con tutte le mie forze per ricacciare indietro le lacrime.
-Non ti costringerò a uccidermi. Io… non sarò la tua prossima vittima- mormorai con amarezza. -Non c’è posto per me nel mondo sicuro e pacifico che sogni.
Appena smisi di parlare, tra noi calò il silenzio.
Hiroto non provò a rispondermi subito. Sapevo che stava pensando a come ribattere. Ma doveva sapere che avevo ragione io. Doveva saperlo. Se in passato mi ero fatto l’illusione di poter avere una vita felice, il più possibile normale, quel sogno era andato distrutto insieme alla clinica.
Dopo minuti interminabili, sentii un cigolio da qualche parte accanto a me, poi il respiro di Hiroto. Sussultai di sorpresa quando le sue mani si avvolsero delicatamente attorno alle mie. Hiroto se le portò alle labbra e baciò le nocche arrossate sotto il mio sguardo scioccato, poi, ancora in silenzio, premette la fronte contro le mie mani e chiuse gli occhi. Sentii le sue lacrime contro la pelle. Quando Hiroto sollevò di nuovo la testa, il suo sguardo sincero e determinato mi fece quasi vacillare.
-Per me non cambia niente. Tu non sei cambiato- sussurrò.
Sembrava così sicuro di sé. Mi scappò un singhiozzo e scossi il capo con veemenza.
-No, non capisci... Anche se il tuo potere è terribile, hai il potere di controllarlo. Tu fai sempre la cosa giusta. Ma io... io non sono come te. Se venissi ancora sopraffatto dal mio dono, non sono certo che farei la cosa giusta. Quindi è meglio non illudersi… è meglio dirsi addio adesso…
-No- mi interruppe Hiroto, così brusco da farmi sussultare. Accorgendosene, Hiroto addolcì la sua espressione mentre con una mano mi accarezzava la guancia, scostandomi i capelli dal viso. Quando arrossii e cercai di sfuggire alla presa, mi prese il mento tra le dita e, con delicatezza, mi fece voltare di nuovo verso di lui.
-Tu non sei un mostro. Hai sempre usato l’empatia per aiutare agli altri, no?
Aggrottai la fronte. -Quella... è una cosa diversa- borbottai.
-Il mio potere non è solo quello, è… lo hai visto, no?
Ma Hiroto scosse il capo, deciso a non farsi scoraggiare.
-Non si tratta solo dei doni, Ryuuji. Perché anche se non avessi alcun potere, tu cercheresti comunque di aiutare gli altri. Per questo mi sono innamorato di te... e per questo, credo, ho sempre saputo che ti saresti sacrificato. Sapevi che quello che stavi facendo ti sarebbe costato tanto, ma hai scelto comunque quella strada per proteggerci…
I suoi occhi si riempirono di nuovo di lacrime.
-Quando eravamo nella clinica, me ne sono ricordato. Una volta mi hai detto che avresti protetto Kazemaru a ogni costo… e non hai mai smesso di farlo. Questo sei tu. Non un mostro, ma la persona più coraggiosa e altruista che io conosca.
Lo ascoltavo in silenzio, con il cuore che mi martellava nel petto.
Le sue parole stavano cominciando a smuovere qualcosa, e non ero certo che mi piacesse. Ma, senza che me ne accorgessi, le lacrime avevano cominciato a scendere; me ne resi conto solo quando Hiroto mi asciugò una guancia con il pollice. Mi vidi riflesso nei suoi occhi, fragile, vulnerabile. Perso. Vedermi attraverso i suoi occhi mi fece crollare: premetti una mano sulla bocca per soffocare i singhiozzi, ma non c’era verso. Così, quando Hiroto fece scivolare una mano dietro la mia nuca e mi attirò a sé, facendomi poggiare il volto contro la sua spalla, finii per lasciarlo fare. Era lì che volevo stare. Lì, tra le sue braccia.
-Ho paura… Ho così tanta paura... Io non volevo, non volevo morire… Volevo solo che il dolore finisse... Volevo solo che voi foste al sicuro…- confessai in un fil di voce.
Hiroto annuì, stringendomi forte a sé.
-Lo so. Ma non devi sopportarlo da solo. Anche se verremo separati, avrai sempre delle persone dalla tua parte, te lo prometto. E io mi impegnerò ogni giorno, ogni momento, per creare un mondo dove io e te possiamo vivere insieme. Perciò ti prego, non arrenderti… Il mio sogno non esiste senza di te, niente ha senso se non ci sei tu al mio fianco.
La sua voce tremava, e mi resi conto che stava piangendo anche lui.
Mi gettai tra le sue braccia e scoppiai in un pianto furioso e disperato contro il suo petto. Hiroto barcollò, cadde seduto nella terra, ma ricambiò subito l’abbraccio, e a quel punto non riuscii più a mentirmi. Volevo che Hiroto mi consolasse. Volevo che mi dicesse che sarebbe andato tutto bene. Non avevo mai pensato di poter amare una persona così tanto, ma non potevo vivere senza di lui e, cosa ancora più sorprendente, lui non poteva vivere senza di me. E finalmente capii anche cosa voleva davvero Kazemaru: non una promessa vuota, ma un tacito accordo. Io mi impegnerò, se tu continuerai a farlo, ripetei le sue parole in mente, riflettendo su quel nuovo significato. 
Io andrò avanti, se tu continuerai a farlo.
 


 
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Mamma, Papà e Kazemaru ci aspettavano nell’ingresso di casa; quando io e Hiroto rientrammo, sporchi di terra, con gli occhi gonfi e rossi per il pianto e tenendoci per mano, tutti e tre ci fissarono con sorpresa, curiosità e apprensione. Si vedeva che morivano dalla voglia di chiederci cosa fosse successo, ma prima che chiunque potesse parlare, Hiroto prese l’iniziativa.
-Uhm… Scusate il disturbo. Sono tornato solo a riaccompagnare Ryuuji, ora vado- disse pacatamente, con un sorriso educato e gentile. Mamma si portò una mano alla guancia, pensierosa, poi scosse il capo.
-Cosa? Ma è già così buio fuori, e poi potrebbe piovere di nuovo… Oh no, no, caro, non posso mandarti via così. La nostra casa non è molto grande, ma saremmo lieti di averti a cena. Puoi anche dormire qui, vero, Papà?- esclamò, girandosi verso il marito per avere approvazione.
-Oh, certo, certo, naturalmente. Venite dentro, ragazzi- rispose prontamente Papà.
Hiroto sembrava sul punto di obiettare, ma gli strinsi la mano e lo tirai dentro con me. Quando lui mi lanciò un’occhiata interrogativa, scrollai le spalle, troppo imbarazzato per rispondere. Non avevo certo programmato di presentare il mio ragazzo ai miei genitori ed ero sollevato dal fatto che non mi avessero fatto domande, anche se probabilmente avevano già capito tutto da soli. Dal momento che Mamma aveva già preparato la cena, ci mandarono al piano di sopra per rinfrescarci e cambiarci prima di scendere a mangiare; una volta entrato in camera mia, vedendo i due cambi di vestiti sul letto, capii che rimandare a casa Hiroto non era mai stata un’opzione. Sì, avevano decisamente capito tutto.
Presi tutti i panni sul letto, tirai a Hiroto ai suoi e gli feci vedere dov’era il bagno. Hiroto entrò senza fare commenti. Quando mi passò a fianco, notai che aveva le guance rosse, e il suo imbarazzo non fece altro che aumentare il mio. Mi rintanai in camera, dove mi cambiai in fretta e aspettai che Hiroto finisse per dargli il cambio.
Mezz’ora dopo scendemmo insieme in soggiorno. Papà stava guardando la TV con aria distratta, mentre Kazemaru e Mamma erano accanto ai fornelli e parlavano a bassa voce. La tavola era già stata apparecchiata; era chiaro che avevano fatto il possibile per tenersi occupati, o almeno per fingere di esserlo, ma nonostante questo. il loro entusiasmo al nostro arrivo mi fece capire che eravamo noi il vero evento della serata. Quel pensiero mi rese un po’ nervoso. Avevo fatto del mio meglio per darmi una ripulita, ma tutta l’acqua fredda del mondo non sarebbe bastata a ridurre il gonfiore degli occhi.
Con mio grande sollievo, però, le mie paure non si avverarono. Nessuno chiese cosa fosse successo tra me e Hiroto. Nemmeno un commento sul nostro aspetto malconcio. Invece, Mamma fece accomodare Hiroto a tavola come uno di noi, tra me e Kazemaru, e lo viziò in tutto e per tutto per l’intera serata. Papà gli fece alcune domande di cortesia, ma con un sincero interesse dietro. Mentre li osservavo in silenzio, ben attento a non intromettermi nella conversazione per non attirare l’attenzione su di me più del dovuto, mi accorsi con sorpresa che si respirava un’atmosfera tranquilla, serena, come se avere a cena Hiroto fosse la cosa più normale del mondo. Anche Hiroto, che all’inizio era visibilmente nervoso, riuscì a rilassarsi dopo poco, e la cena proseguì senza intoppi fino alla fine. Ero così disorientato da quella inaspettata scenetta familiare che quando Mamma e Kazemaru iniziarono a sparecchiare e tutti si alzarono da tavola, soltanto io rimasi seduto lì come uno stupido a fissare il vuoto, senza accorgermi che la cena era finita. Hiroto mi toccò una spalla per attirare la mia attenzione.
-Tutto bene?- mi sussurrò, preoccupato. Lo guardai senza parole, e solo in quel momento mi chiesi dove avrebbe dormito. La camera mia e di Kazemaru era già stretta per due ragazzi ormai grandi, figuriamoci per tre. Allo stesso tempo, però, il pensiero di farlo dormire sul divano mi disturbava.
Il mio dubbio si risolse pochi minuti dopo, quando sentii Mamma chiedere a Papà dove avevano messo il futon per gli ospiti. Hiroto insisteva nel dire che il divano gli sarebbe bastato, ma non ci fu verso di convincerli. Stavamo per spostarci al piano di sopra quando il telefono squillò. Mamma e Papà si scambiarono una lunga occhiata, poi lui alzò la cornetta.
-Pronto? Sì-. Pausa. Papà si girò a guardarmi ed io mi avvicinai subito. Avevo già capito. Senza dire altro Papà mi passò la cornetta. La presi, poggiando una mano sul microfono, e per un momento ci fissammo: cercavo di comunicargli il mio desiderio di restare solo. Per fortuna lui capì. Andò da Mamma e le poggiò le mani sulle spalle.
-Andiamo a stendere il futon- le disse, spingendola gentilmente. Lei esitò, ma si lasciò accompagnare al piano di sopra. Kazemaru e Hiroto mi lanciarono un’occhiata apprensiva, poi anche loro si allontanarono. Rimasto da solo nel soggiorno, appoggiai la cornetta all’orecchio e dissi a Hitomiko-san di parlare.
La conversazione non durò molto, ma quanto misi giù il telefono mi sentii comunque svuotato di energie. Volevo soltanto andare a dormire. Era da un po’ che non sentivo rumori venire da sopra, come se gli altri avessero deciso persino di trattenere il respiro per non disturbare. O forse per ascoltare quello che dicevo. Per questo ero stato molto attento a parlare a bassa voce.
Salite le scale, trovai Mamma e Papà in corridoio, davanti alla porta del bagno; le spalle di Mamma tremavano leggermente e sembrava che Papà le stesse bisbigliando qualcosa per confortarla. Quando mi sentirono arrivare, si girarono entrambi. Mamma aveva la fronte corrugata e le labbra tremule strette in una linea sottile. Notai che anche Papà aveva gli occhi lucidi. Mi avvicinai, senza sapere cosa dire, ma a quanto pareva non c’era bisogno di dire niente, perché loro si limitarono ad abbracciarmi in silenzio.
Di colpo mi venne in mente che, qualsiasi strada avessi intrapreso, quella avrebbe potuto essere la mia ultima notte in quella casa. Il solo pensiero mi fece venire un nodo alla gola, perciò appena mi lasciarono farfugliai una scusa e mi rifugiai in bagno, dove mi gettai in faccia dell’altra acqua fredda. Tornai in camera solo quando fui certo di essermi calmato; un mal di testa era l’ultima cosa di cui avevo bisogno.
Quando uscii, scoprii con sollievo che Mamma e Papà non erano più lì. Probabilmente erano andati a dormire, e decisi che era il momento di farlo anche io. Appena aprii la porta della camera, Kazemaru, che era seduto sul suo letto, scattò in piedi. Hiroto, in piedi vicino alla finestra, si girò a guardarmi. Tutti e due erano rimasti alzati ad aspettarmi. Mi guardarono entrambi, come aspettando un mio cenno. Sospirai.
-Buonanotte- mormorai, imbarazzato, e diedi loro le spalle per infilarmi nel letto. Kazemaru fece lo stesso e spense la luce. Nel buio, sentii un fruscio di lenzuola e, girandomi, mi parve di intravedere Hiroto che si sistemava nel futon. Guardandolo così, mi resi conto di colpo che avevano steso il futon proprio sotto il mio letto, e che non avrei potuto alzarmi e uscire senza passargli letteralmente sullo stomaco. Chissà se non era una tattica per tenermi d’occhio. Ma ero troppo stanco per sospettare, e mentre lo osservavo nella penombra della stanza, mi venne spontaneo far scivolare la mia mano fuori dal lenzuolo e farla oscillare lungo il fianco del materasso, così da sfiorare la spalla di Hiroto.
Lo sentii sussultare e poi rilassarsi sotto le mie dita; dopo alcuni secondi, la sua mano trovò la mia. Respiravamo entrambi molto piano, per paura di svegliare Kazemaru; ma lui stava già dormendo pesantemente, o forse fingeva per rispetto dei nostri sentimenti. Chiusi gli occhi e sospirai.
-Hiroto?- bisbigliai, e attesi finché non lo sentii stringere la mia mano.
-Mi impegnerò ancora un po’- aggiunsi, senza riaprire gli occhi.
Hiroto non mi rispose, ma mi tenne la mano per tutta la notte.
 
 

 
xxx
 

 
-Hai preso tutto? Hitomiko-san arriverà tra poco. Hai visto che ti ho preso i tuoi biscotti preferiti? Ti ho messo tutto nella tasca laterale della borsa, in un pacchetto…
Misi una mano sulla spalla di Mamma e la attirai in un abbraccio, interrompendo così il flusso di parole che quella mattina sembrava non finire mai.
-Va tutto bene, Mamma. Sto bene, ho tutto ciò che serve. E grazie per i biscotti- riuscii a dire, nonostante lei mi stesse stringendo così forte da rischiare di soffocarmi. Solo quando Papà le accarezzò con dolcezza la schiena, Mamma si convinse a lasciarmi andare, ma non prima di avermi preso il volto tra le mani un’ultima volta.
-Hitomiko-san ci ha detto in confidenza che la tua vera mamma è viva- sussurrò, in modo che nessuno tranne me e Papà potesse sentire. -Non potrei chiedere un regalo più grande per mio figlio… Per te e per lei ci sarà sempre posto a casa nostra, nella nostra famiglia, se vorrete tornare.
La guardai con sorpresa, poi mi voltai verso Papà e anche lui fece un cenno di assenso.
-Grazie- mormorai. Mi sembrava troppo poco, ma non sapevo che altro dire; non volevo mettermi a piangere di nuovo, a pochi minuti dalla partenza. Mamma aveva già versato abbastanza lacrime per tutti.
Quella mattina ci eravamo svegliati tutti presto per preparare le mie borse, come se fosse stato un rituale di famiglia. Anche Hiroto fu coinvolto, e lui con la sua solita gentilezza non contraddisse i miei genitori neanche una volta. In quel momento Kazemaru gli stava facendo vedere il giardino, probabilmente per lasciarmi solo con Mamma e Papà; Hiroto lo seguiva con aria placida, anche se dubito gli interessassero davvero ranuncoli e ortensie, specialmente in quel momento.
Quando sentimmo il rombo di un motore, tutti ci fermammo e ci girammo verso la strada. Poco dopo, la monovolume di Hitomiko spuntò da dietro un angolo, attraversò il viale e si fermò davanti al cancello aperto della casa. Trattenni il fiato. Era il momento. Ma, quando scese dall’auto, Hitomiko guardò Hiroto invece che me.
-Sapevo che ti avrei trovato qui- osservò, alzandosi gli occhiali da sole sui capelli.
-Sei arrabbiata? Avrei dovuto chiedere il permesso?- replicò Hiroto con un mezzo sorriso.
Hitomiko lo studiò per un attimo.
-No- disse infine. -Hai fatto il bravo bambino per una vita. Era ora che cominciassi ad avere una fase ribelle, onestamente.
Sembrava serena. Aveva i capelli legati in una treccia, un pantalone di tuta e delle scarpe da ginnastica, come se stessimo andando a fare un’escursione o una passeggiata in montagna. Non l’avevo mai vista così… riposata. Come se, insieme all’abbigliamento da ufficio, fosse sparita anche l’aria severa, rigida e controllata che aveva sempre quando suo padre era ancora in vita.
Scesi le scale trascinandomi dietro le due borse, e in un attimo Kazemaru e Hiroto furono accanto a me, uno su ogni lato. Hitomiko ci squadrò tutti e tre.
-Immagino che dovrò portarvi tutti con me. Su, in macchina- disse soltanto, indicando con il pollice la monovolume parcheggiata alle sue spalle. Kazemaru e Hiroto non se lo fecero ripetere e, aiutandomi con le borse, mi accompagnarono all’auto ed entrarono dopo di me. Dal finestrino vidi Hitomiko entrare nel giardino e Mamma e Papà andarle incontro per stringerle la mano. Immaginai che la stessero ringraziando, ma quando Hitomiko scosse il capo con un’espressione dispiaciuta capii che avevano anche provato a chiedere più informazioni su di me, su dove sarei andato e quando sarei tornato. Ma era probabile che Hitomiko non potesse dirglielo, o forse non lo sapeva bene nemmeno lei. Il mio futuro era stato deciso da persone più in alto.
Dopo qualche minuto, Hitomiko tornò indietro ed entrò in macchina. Mentre lei si allacciava la cintura, rivolsi un ultimo sguardo ai miei genitori: non erano venuti a salutare al cancello, ma si erano fermati davanti alla veranda. Quando Hitomiko mise in moto l’auto, alzai la mano in un gesto di saluto e loro fecero lo stesso; li vidi agitare le mani finché non lasciammo il viale e la casa non fu più visibile. A quel punto, sprofondai contro lo schienale con un lungo sospiro. Hitomiko mi lanciò un’occhiata dallo specchietto, poi tornò a guardare la strada.
-Il signor Raimon ha accettato di incontrarti all’indirizzo che mi hai detto- mi informò.
Le sue parole ci misero un momento a registrarsi nella mia mente.
-Oh… okay- dissi soltanto. Kazemaru e Hiroto si girarono a guardarmi. Era ovvio che per loro fosse una sorpresa: non avevo detto niente della mia chiamata con Hitomiko. Ma, a essere sincero, ero sorpreso anch’io. Non pensavo che avrebbero accolto la mia richiesta così facilmente; dopotutto, non ero nella posizione di avallare pretese.
Nell’auto calò di nuovo il silenzio. Dopo un po’, Hitomiko accese la radio.
-Solo perché è una faccenda seria, non vuol dire che stiamo andando al patibolo- disse, apparentemente a nessuno in particolare, ma capii che stava cercando di alleggerire la tensione e gliene fui grato. Non piangere, abbi fiducia, diceva la canzone alla radio. Se piangi ora, diventerai un bugiardo anche tu. Semplicemente, anche se è sempre più difficile, vivere a denti stretti è il tuo modo di vivere…
Era una bella canzone. Chiusi gli occhi e mi concentrai sulla musica mentre rimuginavo su cosa avrei detto a Raimon. Mi ero preparato un mezzo discorso, speravo solo di riuscire a parlare senza bloccarmi per l’ansia o l’emozione. Il viaggio proseguì senza che nessuno di noi dicesse niente e, a un certo punto, riuscii persino ad appisolarmi nonostante la tensione. Fui risvegliato dalla voce di Kazemaru dopo non so quanto tempo.
-Questo posto…!- esclamò Kazemaru, poi si fermò. Aprii un occhio per vedere cosa lo avesse impressionato e riconobbi in un istante l’enorme carcassa metallica dall’altro lato della strada.
-Siamo arrivati, credo- annunciò Hitomiko.
-Ryuuji, ci siamo- mi sussurrò Hiroto, scuotendomi leggermente la spalla. Mi ero addormentato contro la sua spalla, o forse ero scivolato su di lui nel sonno. Mi riscossi e mi tirai su, imbarazzato.
-Uh. Sì- borbottai, senza riuscire a pensare a nient’altro di intelligente.
Hitomiko accostò l’auto vicino al marciapiede, spense il motore e ci fece scendere. Pochi metri più avanti era parcheggiata una macchina grigia e bassa con i finestrini oscurati, dal cui sedile posteriore scesero Raimon e Kudou. Vedendo quest’ultimo, Kazemaru cambiò espressione e si mosse istintivamente davanti a me, ma io gli abbassai il braccio con delicatezza e scossi il capo, poi lo superai e andai avanti per primo.
Mi fermai davanti a Raimon e lo guardai senza dire nulla. Lui mi sorrise.
-Sappiamo entrambi perché siamo qui, Midorikawa. Ma prima che tu mi dia la tua risposta, vorrei che tu soddisfacessi una mia curiosità- mi disse.
-Ho assecondato la tua richiesta, ma perché proprio qui?
Mi girai a guardare la ruota panoramica di fronte a me. Era in disuso da anni, ma la città non aveva mai pensato a buttarla giù; così era rimasta là, a guardare il paesaggio intorno cambiare anno dopo anno, mentre lei restava indietro, coprendosi di ruggine e rampicanti. A pensarci ora, era una vista davvero penosa. Quando ero bambino, però, bastava guardarla per riempirmi di paura.
Abbassai la testa e seguii con lo sguardo i canali di scolo pieni d’acqua stagnante che correvano lungo tutto il marciapiede, fino a riversarsi in una sorta di pozza poco profonda. L’acqua era verde e alcune bottiglie di plastica galleggiavano in superficie. Alzai una mano e indicai il grande acquedotto che da un grande tubo vomitava acqua nella pozza.
-È lì che sono emerso- dissi, cercando di tenere qualsiasi emozione fuori dalla mia voce. Sentii qualcuno trattenere bruscamente il fiato alle mie spalle, ma finsi di non averlo notato.
-Dopo che gli uomini di Kenzaki hanno portato me e mia madre nelle fognature e mi hanno gettato nel canale, sono finito qui… È qui che ho vissuto per un po’. È qui che i miei genitori mi hanno trovato- proseguii. Salii sul marciapiede e appoggiai una mano sul muro. Non c’era modo di dire quale fosse il punto esatto in cui mi sedevo sempre, aspettando chissà cosa; l’unica cosa certa era che da lì potevo vedere benissimo la ruota anche di notte, anche quando pioveva. Visto che non avevo ricordi precedenti, quando immaginavo di essere un supereroe nelle mie fantasie era sempre quello il luogo delle mie origini.
-Volevo rivedere questo posto un’ultima volta, credo- mormorai, con lo sguardo basso.
-Passavo ogni giorno a sperare che qualcuno mi vedesse… che qualcuno chiamasse proprio il mio nome… Ovviamente era una cosa stupida. Come poteva qualcuno chiamarmi per nome, se nemmeno mi conosceva? Eppure, ci ho sperato ogni giorno. E ho continuato a farlo per tutti questi anni.
Mi appoggiai al muro con entrambe le mani, poi con la schiena, e alzai lo sguardo verso il cielo terso. Sebbene odorasse ancora di pioggia, non c’era traccia di nuvole. Era un azzurro limpido, pulito, quasi abbagliante. Mi faceva venire voglia di piangere.
-Per tutto questo tempo, non ho fatto altro che cercare un posto a cui appartenere... Non riuscivo a perdonarmi di essere così debole, e ho finito per cercare ciò che mi mancava negli altri. Volevo scavarmi a tutti i costi un posto nel cuore di tutti... Ho sacrificato così tanto per gli altri… che adesso non so più chi sono- dissi con voce tremante. -Chi è veramente Midorikawa Ryuuji? Voglio provare a scoprirlo. Voglio poter rispondere con sicurezza, quando qualcuno chiamerà il mio nome. Anche io… anche io voglio trovare il mio posto.
Mi fermai a riprendere fiato, poi continuai con determinazione.
-Per questo verrò in Europa con lei. Per una volta voglio pensare a me stesso… Dovessero volerci anche dieci anni, questa volta scommetterò tutto su di me.
Mi voltai verso Raimon per vedere la sua reazione. Lui mi stava fissando, come per studiarmi; non so cosa vide sul mio volto, ma qualsiasi cosa fosse parve convincerlo della mia serietà, e sul suo viso si allargò un sorriso.
-Sono molto contento che tu abbia fatto questa scelta. Da parte mia, farò del mio meglio per aiutarti, Midorikawa, hai la mia parola- disse, dandomi una stretta di mano come se fosse stato un mio pari e non un mio superiore.
Alle sue spalle, Hitomiko e Kudou mi guardavano con sollievo, mentre Kazemaru si premeva le mani sulla bocca mentre cercava di trattenere le lacrime. Non gli stava riuscendo molto bene. Anche Hiroto aveva gli occhi lucidi, ma sembrava che riuscisse a controllarsi meglio, perciò si preoccupava di confortare Kazemaru dandogli dei colpetti amichevoli sulla schiena.
Lasciai la mano di Raimon e andai dal mio partner. Quando mi fermai davanti a lui, Kazemaru sussultò e si asciugò in fretta il viso con la manica della giacca.
-Mi dispiace… Ho detto che andava bene anche separarci, ma…- farfugliò. Gli presi la mano, scostandogliela dal viso, e appoggiai la fronte contro la sua.
-Lo so… perché siamo stati sempre insieme. Se potessi, resterei qui a prendermi cura di te. Ma questa volta devo andare. Lo capisci, vero?- sussurrai.
Kazemaru annuì, trattenendo a stento un singhiozzo. Lo abbracciai forte; poi, quando lo sentii smettere di tremare, mi staccai delicatamente da lui e mi girai verso Hiroto. Anche lui mi stava guardando, ma quando aprì la bocca per parlare, Hitomiko lo interruppe con un colpo di tosse chiaramente forzato.
-Penso… penso che possiate avere un momento da soli, vero?- disse Hitomiko nervosamente, lanciando un’occhiata di sbieco verso il signor Raimon. Ci girammo tutti verso di lui, quasi imploranti, e Raimon annuì con un sorriso benevolo. Appena avuto il suo consenso, mi girai di nuovo verso Hiroto e gli tesi la mano. Lui la prese subito e, come la sera precedente, mi seguì senza fare domande.
Mano nella mano, attraversammo la strada e ci fermammo davanti alla vecchia ruota. Vista da sotto, sembrava ancora più imponente e spaventosa, ma ormai non mi faceva più paura. I miei occhi caddero su un traliccio di edera che saliva su, su verso il cielo fino a scomparire nella luce accecante.
Mi chinai per appoggiare la testa contro la spalla di Hiroto e intrecciai le nostre dita.
-Un giorno vorrei provare a salire su una di queste- confessai. -A ben pensarci, il mio mondo è sempre stato piccolo… Mi chiedo come sarebbe il mondo da lassù? Riuscirei a vedere un mondo più grande?
Feci una pausa, poi aggiunsi, a voce ancora più bassa:
-Ehi, Hiroto… quando salirò su una di queste, ci salirai con me? Anche se sarà tra cinque, sei, o dieci anni? Quella proposta che mi hai fatto… non la dimenticherai, vero?
Hiroto si portò la mia mano alle labbra e la baciò con adorazione.
-Voglio vivere con te. E te lo prometterò ogni volta che vuoi- disse senza esitazioni. Risi piano, sentendomi un po’ timido, e stavolta non cercai di trattenere le lacrime. Hiroto si premette la mia mano contro la guancia e mi guardò negli occhi.
-Hai paura?- sussurrò. Annuii, poi gli poggiai anche l'altra mano sulla guancia.
Per qualche momento lo guardai e basta: volevo imprimere nella memoria ogni dettaglio di lui, esattamente com’era in quel momento. I suoi occhi verdi, velati di lacrime, sembravano acquerelli; mi sembrava che brillassero come stelle anche in pieno giorno. Stava di nuovo piangendo, ma era sempre bellissimo.
-Ho paura del futuro... di ciò che non conosco. Ma di una cosa sono certo… e solo tu puoi darmi questa certezza- sussurrai. -Tutti i sentimenti che provo in questo momento sono miei, solo miei… e sono tutti per te.
A quelle parole Hiroto non riuscì più a trattenersi; sporgendosi avanti, d’impulso, premette le labbra sulle mie. Il bacio fu breve, ma ricambiai con tutto me stesso, sperando di trasmettergli tutti i miei sentimenti. Grazie a lui, ora avevo un nuovo sogno. Volevo cambiare, diventare una persona capace di provare orgoglio per se stessa… soltanto così avrei potuto accettare me stesso. Quando ci staccammo, gli accarezzai le guance, guardandolo con tenerezza, poi lo strinsi di nuovo a me, ignorando per un momento il fatto che il nostro tempo insieme era agli sgoccioli. Al di sopra della sua spalla vidi il cielo azzurro, sempre più abbagliante, e d’un tratto fui colpito dal pensiero che, ovunque fossimo, il cielo sopra di noi sarebbe stato lo stesso. Almeno per il momento, quello ci sarebbe bastato.
 
 
Non piangere, abbi fiducia
Sicuramente diventerai forte
Ora è il momento di mentire
Dopotutto, per quanto sia doloroso,

Vivere stringendo i denti è il tuo modo di vivere


  
                                                                                              .
                                                                                                     .
                                                                                                            .
[1 anno dopo; Parigi]
 


Ero così nervoso che il corridoio sembrava infinito; in realtà, non potevamo aver fatto più di una decina di metri, ma la fatica appare mille volte maggiore quando il tuo cuore è pesante. Il signor Raimon era un uomo molto sensibile, e fin dal momento in cui era venuto a prendermi in camera per guidarmi a destinazione non aveva mai fatto commenti sul mio stato d’animo, anche se doveva essere palese.
-È qui dentro- la voce del signor Raimon, appena un sussurro, mi strappò ai pensieri.
Quando lo vidi fermarsi di fronte a una porta, mi irrigidii. Un attimo prima volevo solo che il tragitto si accorciasse, ora invece desideravo ritardare l’arrivo. Grazie al cielo, il signor Raimon non aprì subito la porta, anzi non fece alcun movimento del genere; rimase invece a guardarmi con amorevole pazienza, e capii che stava aspettando che io mi calmassi, mi stava concedendo altro tempo per prepararmi.
Inspirai profondamente e passai le dita sul bracciale inibitore, cercando di convincermi che sarebbe andato tutto bene.
-Sono pronto- dissi infine, senza sollevare lo sguardo. Solo allora, il signor Raimon aprì lentamente la porta.
Mi fece un cenno incoraggiante con il capo, mentre lui sarebbe rimasto fermo sull'uscio. Voleva che andassi da solo. Presi un altro respiro profondo ed entrai.
Nella stanza dominava il verde pastello: verdi infatti erano le pareti, le foglie delle piante poggiate sul tavolo, e la morbida moquette che rivestiva il pavimento. Verdi erano anche le tende di velo leggermente smosse dal vento, e i capelli della donna che stava davanti alla finestra, appoggiata al davanzale. I raggi del sole sembravano avvolgerla in un bozzolo di luce, ma per qualche motivo si abbracciava il petto con uno scialle, come se avesse freddo. Mi dava le spalle, gli occhi fissi sul grande ciliegio in fiore su cui la finestra affacciava; tra i grossi rami si intravedevano in lontananza frammenti della Tour Eiffel.
Appena i miei occhi si fermarono su di lei, il fiato mi si mozzò in gola. Per un momento la terra venne a mancarmi da sotto i piedi e nel panico mi aggrappai a un tavolino, facendo inavvertitamente tremare gli oggetti che c’erano poggiati sopra. Un posacenere rotolò giù dalla superficie del tavolo e cadde a terra.
Allarmata dal rumore, la donna sussultò, si girò di scatto, mi vide. I suoi occhi scuri si riempirono di lacrime e, mentre con una mano tremante si copriva la bocca, una singola parola le sfuggì dalle labbra.
-Ryuuji...?
Disorientato e sopraffatto dalla sua presenza, riuscii a stento a fare sì con la testa.
L’istante dopo lei si mosse, barcollando verso di me con le mani tese in avanti. Senza pensare più a niente, le andai incontro, come rispondendo a un richiamo. Quella voce mi chiamava da tanto, tanto tempo. E questa volta non c’era niente a separarci.
Le sue braccia mi avvolsero e in un istante tornai a quando ero bambino e lei mi cantava la ninnananna per guidarmi in un mondo dove i brutti sogni non avrebbero potuto raggiungermi. Da quel giorno in poi, avremmo potuto cantarla insieme. Le nostre mani si trovarono e si strinsero, decise a non lasciarsi mai più; e, ritornato tra le braccia di mia madre, finalmente riuscii a perdonarmi.





 

**Angolo dell’Autrice**
Ciao a tutti! Questo è l’ultimo capitolo, ma seguiranno 2 epiloghi. Incredibile ma vero, ce l’ho quasi fatta.
La canzone citata nel capitolo è LIAR degli SPYAIR, che amo immaginare come “Opening” se SpyEl. fosse un anime. All'inizio ero indecisa se metterla o meno, ma poi ho scoperto che è uscita nel 2010 e allora ho detto “Ok, no, devo metterla!”, perché il 2010 è anche l'anno in cui ho cominciato questa fic (e quello in cui è ambientata, più o meno, anche se nella fic non viene mai detto esplicitamente).
Penso che LIAR si adatti molto a Midorikawa. LIAR parla di qualcuno che vive a testa alta, restando sempre fedele ai propri principi sebbene il resto del mondo sia sempre pronto a mentire; in questo senso, piangere significa “mentire” perché mostrare debolezza è visto come un tradimento della strada scelta. Ma poi nell’ultima strofa la prospettiva cambia completamente! Mi piace moltissimo come conclusione. Alla fine le persone hanno bisogno di credere in un mondo migliore. Senza speranza, non esiste nemmeno il coraggio. Spero di essere riuscita a trasmettere questo messaggio con Spy Eleven ♥
Mi fa molto piacere quando scrivete nei commenti che questa fic vi ha aiutato in qualche modo ;u;  
A presto, con i migliori auguri per il futuro,
    Roby
 

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Capitolo 54
*** Epilogo (1) ***


anche se ho fallito molte volte,
sono tutti ricordi importanti

starò bene
perché tutta la felicità
mi sta aspettando
(生まれる願い - uta ari)



 


Epilogo (1)
 

 
Si sta alzando il vento. Nel viale colorato di rosa dai ciliegi in fiore, i petali raccolti sul marciapiede si sollevano e sparpagliano in giro, mentre quelli appesi ai rami, già in precario equilibrio, perdono la presa e volano via.
Il cielo è nuvoloso, ma caldo, e non appena il vento si placa e riesco a aprire gli occhi, chiusi d’istinto per evitare la polvere, vedo i raggi del sole spuntare audaci tra le nuvole e dipingere d’oro il tetto dell’aeroporto. Nel cortile c’è un gran viavai di persone con le valigie in mano e il naso incollato a un qualche dispositivo elettronico, cosicché nessuno fa caso a me nonostante io sia seduto a bordo strada sulla valigia da almeno dieci minuti. Solo ogni tanto qualcuno mi getta uno sguardo curioso, forse sospettano che io sia uno straniero. Quanti di loro mi hanno visto scendere dal volo di Parigi, o recuperare la valigia dal nastro dei voli intercontinentali? O forse hanno semplicemente scorto il piccolo adesivo della bandiera francese incollato sul fianco della mia valigia mentre la trascinavo all’uscita.
Guardo l’ora sullo smartphone che a malapena sta nella mia mano. È un modello grosso, e comunque non mi sono ancora abituato all’idea di averne uno. È stata una sorpresa quando Raimon me l’ha portato, presentandolo come un regalo per la mia partenza; l’ha detto in modo piuttosto convincente, ma il suo sorriso – bonario e allo stesso tempo complice – mi ha fatto intuire che dietro questo regalo c’è molto di più. Ho finito di scontare la mia pena, e questo cellulare è la prova che ho superato il test finale… senza neppure rendermi conto che ce ne fosse uno (ma ci ho fatto il callo. Per tutta la mia permanenza a Parigi mi hanno tempestato di test mai annunciati). In ogni caso, ho guadagnato la fiducia delle Spy Eleven. Così, dopo otto anni in cui mi è stato permesso di comunicare solo via lettera o massimo per email, ora finalmente posso fare ritorno al ventunesimo secolo e usare i messaggi e le chiamate come tutte le persone comuni. L’unico problema è che non so esattamente chi verrà a prendermi. Avrei dovuto partire tra una settimana, ma a sorpresa Raimon ha anticipato la data e, visto che mi ha dato il cellulare praticamente cinque minuti prima che salissi in aereo, non ho avuto il tempo di chiedere i numeri di nessuno (sì, al momento la mia rubrica conta solo Raimon e mia madre).
Probabilmente verrà Hitomiko. Mi guardo attorno nervosamente, colto da un dubbio improvviso. E se fossero già qui, e non mi hanno visto? Proprio quando penso di alzarmi in piedi, però, una macchina nera attira la mia attenzione parcheggiandosi accanto al marciapiede opposto al mio. Ancora prima che la macchina si fermi del tutto, la portiera dal lato passeggeri si spalanca e un ragazzo si lancia fuori, quasi inciampando nella cintura per l’entusiasmo. Anche se sono troppo lontano per impedirgli di cadere, istintivamente mi alzo di scatto, ma il ragazzo riprende subito l’equilibrio; poi si gira, mi vede, e un sorriso raggiante gli illumina il viso incorniciato da una cascata di capelli azzurri.
-Ryuuji!- Gridando il mio nome, Kazemaru attraversa la strada di corsa per raggiungermi. Vorrei rispondergli, ma prima che io possa aprir bocca lui si tuffa su di me e mi stringe con impeto, togliendomi il respiro. Questo abbraccio mi dà subito una strana sensazione. Ho stretto tra le dita il biglietto per il Giappone, sono salito sul volo, ho messo piede in aeroporto; eppure solo adesso penso davvero: Ah, sono tornato. E non riesco a trattenere una risata di sollievo.
Ci stacchiamo e per un attimo restiamo semplicemente a osservarci a vicenda, in silenzio ma con un sorriso inarrestabile stampato in volto. Ci guardiamo come si guarda un luogo che non vediamo da tanto tempo, e che quindi ci appare familiare eppure estraneo. Kazemaru indossa un paio di jeans chiari e stretti e una felpa arancione con la zip chiusa fino al mento. I suoi capelli, più o meno della stessa lunghezza di prima, sono sciolti e morbidi sulle spalle, tenuti a stento fermi da un fermaglio in cima; il ciuffo sull’occhio sinistro, quello c’è ancora. Ha un’aria più matura, adulta. 
Nei suoi occhi leggo gioia, ma anche tante domande, e sono sicuro che la mia espressione tradisce gli stessi sentimenti. 
Dopo un minuto di silenzio, Kazemaru allunga una mano, esitante, e confronta le nostre altezze. Mi accorgo in quel momento che sono più alto di lui, anche se di poco. Fa uno strano effetto.
-Non è giusto!- Kazemaru ride scuotendo il capo. -Cavolo, mi sa che sei persino più alto di Hiroto. Io e lui siamo alti uguale ora.
-Davvero?- rispondo con un sorriso. Devo dire che l'idea non mi dispiace.
-Davvero. E hai fatto crescere anche i capelli!- dice Kazemaru, indicando la treccia spettinata che ho improvvisato sull’aereo per tenere fermi i miei capelli. All’inizio li tagliavo, ma crescono così in fretta che a un certo punto ci ho rinunciato e li ho lasciati liberi, così ora mi arrivano fino al petto. A mia madre piacciono molto, anche lei li porta così e mi ha insegnato a legarli in una treccia quando la coda di cavallo tira troppo. Sto per dire tutto questo a Kazemaru quando nell’aria esplode il rumore di un clacson.
Io e Kazemaru ci giriamo nello stesso momento verso la macchina nera parcheggiata accanto al marciapiede. A causa del riflesso del sole, non riesco a capire chi ci sia alla guida, ma poi il finestrino del lato passeggeri si abbassa e vedo qualcuno che non mi aspettavo. Ho dato per scontato che sarebbe venuta a prendermi Hitomiko, ma di lei non c'è traccia né alla guida né nei sedili posteriori; invece, al volante c’è Desarm, una Spy Eleven che ho sentito poco in questi anni. Non mi spiego la sua presenza qui, e sono certo che lo stupore di vederlo sia scritto sulla mia faccia. Mentre lo guardo a bocca spalancata, Desarm si alza gli occhiali da sole sui capelli neri come pece e ci guarda con un’espressione accigliata.
-Capisco che dobbiate recuperare il tempo perduto, ma non potete farlo mentre andiamo?- ci chiede, e rilevo una certa impazienza nella sua voce.
Kazemaru gli fa un sorriso di scuse e mi prende per mano, così afferro al volo la valigia e insieme attraversiamo la strada. Dopo avermi aiutato a posare il bagaglio , Kazemaru sale con me dietro invece di sedersi avanti; mi chiedo se non sia scortese, ma Desarm non pare farci caso e mette in moto senza indugi. Inoltre, quando apro bocca per parlare, mi anticipa come se già sapesse cosa sto per chiedere.
-Sono sicuro che sei sorpreso di vedermi. Hitomiko mi ha chiesto di venire a prenderti- dice Desarm senza distogliere lo sguardo dalla strada. Il suo volto è calmo e impassibile, ma per qualche motivo sento che è nervoso. Resto in silenzio e annuisco, anche se ancora non mi è chiaro come mai si trovi a Tokyo.
Per fortuna, notando la mia confusione, Kazemaru accorre in mio soccorso.
-In questi anni la nostra sede e quella di Hokkaido si sono avvicinate molto, praticamente abbiamo una sorta di gemellaggio. Come quando abbiamo fatto quello scambio con te e Clara, solo che ora è una cosa fissa, succede almeno una volta all’anno. Il mese prossimo Honoka-chan dovrebbe venire da noi, e in cambio manderemo lì Maki, non è vero, Saginuma-san?
Desarm annuisce. Ma io ancora non capisco.
-Saginuma? Honoka?- ripeto quei nomi poco familiari, spostando lo sguardo da uno all’altro. Kazemaru capisce che la sua spiegazione mi ha confuso ancora di più e prova a rimediare, ma Desarm si intromette.
-Saginuma Osamu. È il mio vero nome- dice con leggerezza. -Per quanto riguarda Honoka, forse tu la ricordi come Rean.
Ho bisogno di riflettere un momento, ma poi mi torna in mente.
-La sorella di Bonitona? La drifter del fuoco? Quella Rean?
-Proprio lei. Dopo quello che è successo, l’abbiamo convinta a entrare in squadra. Da qualche anno ha completato l’addestramento ed è diventata un'agente di Hokkaido.
Annuisco in silenzio, poi chiedo, esitante:- Quindi… Saginuma-san?
-Sì, Midorikawa. Devi essere confuso, ma in realtà è molto semplice- dice Saginuma. -È partito tutto dal progetto Touch, un programma ideato per trovare e salvaguardare tutti i possessori di doni. All’inizio ci siamo concentrati solo sull’area metropolitana di Tokyo, ma ci stiamo espandendo pian piano in tutto il Giappone. In pratica è una rete di solidarietà, appena qualcuno scopre un drifter lo fa entrare in contatto con la rete.
-Ai drifter viene dato tutto l’aiuto possibile, vengono addestrati perché possano controllare i loro doni e scegliere cosa fare in futuro- spiega ancora. -Il programma comprende anche un’iniziativa di sostegno alle famiglie. L’obiettivo primario del progetto Touch è che nessuno resti isolato, tutti devono essere aiutati. E il primo passo è stato normalizzare l'esistenza di doni e drifter, invece di nasconderla. In questo modo anche chi prima non aveva un posto ora può vivere alla luce del sole... proprio come me e la mia squadra.
Saginuma si ferma a prendere fiato, o forse è solo concentrato sulla guida. Per fortuna non c’è molto traffico, ma Saginuma è un guidatore meno paziente di quanto ci si aspetterebbe ed è chiaro che vuole rientrare il più presto possibile. Dopo un sorpasso particolarmente audace, un sorriso soddisfatto gli compare sulle labbra.
-Onestamente, è un ottimo progetto. Non è perfetto, ma è comunque incredibile se consideriamo che prima non esisteva niente di simile. I drifter che nasceranno nei prossimi anni potranno contare su una rete di solidarietà enorme. Fino a dieci anni fa non avrei mai immaginato che una cosa del genere fosse possibile, ma suppongo che da lui non potevamo che aspettarci grandi cose.
-Lui chi?- chiedo, perplesso. Quando con la coda dell’occhio noto che Kazemaru sta sorridendo, ho come un presentimento, ma nonostante questo ho un tuffo al cuore quando Saginuma me lo dice.
-Il progetto Touch è stato lanciato da Hiroto Kiyama subito dopo essere diventato Spy Eleven.
Il cuore mi batte forte mentre mi torna in mente la conversazione che io e Hiroto abbiamo avuto il pomeriggio prima che partissi per l’Europa. Quindi questo progetto è il primo passo verso la realizzazione del suo sogno...
-Subito dopo che sei partito, sono saltati fuori parecchi nomi di gente coinvolta nei piani di Kenzaki e Garshield, quindi abbiamo avuto molto da fare. Ma non era abbastanza, ovviamente, perciò abbiamo cominciato a cercare le vittime. Non è stato semplice, non ce l’avremmo mai fatta senza l’aiuto di Kudou- dice Kazemaru, poi si ferma e si gira verso Saginuma.
-Manca ancora molto?
Saginuma getta un’occhiata all’orologio digitale sul cruscotto e stringe le mani sul volante.
-Posso fare mezz’ora- risponde, e quella che segue è probabilmente la mezzora più veloce della mia vita.
Saginuma sfreccia tra le strade come un uccello tra i cieli, incurante di tutto ciò che gli passa a fianco; rispetta le regole, ma quando arriva il momento procede senza guardare in faccia a nessuno, senza fare concessioni. Sono onestamente tanto colpito quanto terrorizzato, e non riesco a spiccicare parola per il resto del viaggio. Anche se ho del sonno arretrato, mi sento più sveglio che mai: continuo a pensare a cosa mi aspetta. Capendo come mi sento, Kazemaru poggia la mano sulla mia e la stringe, ed io trovo conforto in quel gesto mentre aspetto trepidante di scorgere l’edificio dell’agency.
Ma niente di ciò che avrei potuto immaginare si sarebbe avvicinato, e quando finalmente imbocchiamo una strada familiare, la sorpresa è comunque inevitabile.
Proprio davanti a noi si staglia imponente il vecchio edificio: è rimasto quasi identico, a parte una grande porta a pannelli scorrevoli e una verniciata di bianco fresco che lo fa quasi brillare alla luce del sole. Ma la novità più grande è che c’è un altro palazzo, più o meno delle stesse dimensioni, a poco più di sei metri dall’altro, con una sorta di passaggio che li collega al pianterreno.
La nostra agency non è più una sola. Si è sdoppiata.
-Ta-da! Ti piace? Bella, no?- esclama Kazemaru raggiante appena scendiamo dall’auto. Lo seguo tenendo lo sguardo fisso sui due edifici, con la bocca spalancata per la sorpresa. Osservo con meraviglia il nuovo edificio, cogliendo tutti i dettagli che lo rendono unico, diverso dal fratello più vecchio: il tetto a spiovente blu, i muri recentemente affrescati di un delicato color panna, la fila di finestre del primo e secondo piano. Qualche finestra è aperta, e all’interno s’intravedono sottili tende bianche smosse dal vento. D’un tratto mi sembra di sentire un vociare e abbasso lo sguardo sul breve passaggio che connette i due edifici, una linea retta di cemento coperta da una tettoia, come il corridoio esterno di una scuola; poco dopo, un gruppetto di ragazzi esce dal vecchio edificio e si dirige a quello nuovo. Non ne riconosco nessuno, sono chiaramente più piccoli di noi.
Così, mentre alle nostre spalle Saginuma scende e inserisce il blocco sicure alla macchina, cerco di attirare l’attenzione di Kazemaru tirandogli una manica. Kazemaru segue subito il mio sguardo e anche lui nota il gruppetto, ma non li chiama né fa altro per fermarli; così restiamo semplicemente a guardarli chiacchierare finché non si infilano nel nuovo edificio e spariscono alla nostra vista. A quel punto domando, curioso:
-Chi erano quelli?-
-In un certo senso, i nostri kouhai- risponde Kazemaru con un sorriso, poi mi poggia una mano sulla schiena e mi spinge delicatamente avanti. -Vieni, andiamo dentro. Prendiamo un caffè e ti spiego tutto- aggiunge, e sinceramente l’idea di un caffè solletica il mio interesse. Non appena mi sovviene che sono a digiuno da stamattina presto, il mio stomaco inizia a brontolare, come rispondendo a un richiamo primordiale.
-Scusate… sull’aereo ero troppo nauseato per fare uno spuntino- borbotto, imbarazzato.
Kazemaru mi guarda comprensivo, Saginuma sospira.
-Ho capito. Andiamo alla caffetteria- dice, e senza aspettarci si incammina verso l’entrata, infila la porta ed entra. Guardo Kazemaru con aria interrogativa.
-Abbiamo una caffetteria?
Lui annuisce e mi spinge dentro senza dire altro.
Una volta entrati, mi rendo immediatamente conto che solo l’esterno dell’edificio è rimasto identico: dentro è stato ristrutturato da capo a piede. Tanto per cominciare, dove prima c’era la mensa ora c’è una caffetteria, e non è più una stanza chiusa: al contrario, il muro di separazione è stato abbattuto e ora i tavoli sono in mezzo al corridoio. Entrando vediamo subito Saginuma appoggiato al bancone e intento a studiare il “Menù del giorno”, scritto con gesso bianco su una lavagnetta appesa al muro. Alle spalle del bancone si intravedono una porticina e una finestrella con la luce accesa che di certo danno sulla cucina. Mi avvicino per esaminare il menù, ma faccio giusto in tempo a scorgere sōmen freddi e yakitori in salsa che la mia attenzione si sposta invece sulla serie di salse, spezie e condimenti disposti sul bancone, sul frigorifero a vetri ricolmo di bevande, e non ultimo sulla pila di bento vuoti sull’angolo destro del bancone, puliti e pronti per l’utilizzo. Noto che c’è anche una macchina da caffè semiprofessionale, simile a quelle nei cafés parisiens, niente a che vedere con le macchinette automatiche su cui facevamo affidamento prima. Mentre la guardo estasiato, Kazemaru mi punzecchia il fianco con il gomito e mi indica una teca che prima non avevo notato, ma che cattura rapidamente il mio interesse non appena mi accorgo che al suo interno ci sono manju sia dolci che salati, delle fette di torta al cioccolato e varie altre merendine che sembrano fatte in casa. Anche se non ne sento il profumo, la sola vista di queste prelibatezze mi risolleva l’animo e mi fa brontolare di nuovo lo stomaco. Sto giusto scegliendo su cosa tuffarmi quando la porta della cucina si apre e ne esce Tobitaka: non è cambiato di una virgola, eccezion fatta per la barba ispida e non rasata che gli costella mento e zigomi.
-Ehi, seconda colazione?- chiede, senza alzare gli occhi mentre si asciuga le mani sul grembiule sporco di farina.
-In realtà penso che Midorikawa non abbia fatto neanche la prima- osserva Kazemaru.
A quelle parole Tobitaka smette di pulirsi le mani, solleva gli occhi verso di me e mi scruta con aria corrucciata. A un certo punto il cipiglio muta in un’espressione sorpresa e, anche se non ci siamo mai parlati al di fuori dei pasti, capisco che mi ha riconosciuto.
-Ah, il ragazzo che è partito, no?
Resto in silenzio mentre, per un momento, ripeto e rigiro quelle parole nella mente. È  probabilmente la definizione fin troppo lusinghiera per descrivermi; mi piace, me la tengo.
Rivologo a Tobitaka un sorriso di gratitudine che non può capire.
-Vorrei un caffè, e tutti i manju salati che ti sono rimasti- comunico in tono allegro. Lui solleva entrambe le sopracciglia, ma mi accontenta senza fare troppe domande, poi si mette a preparare tre caffè.
Saginuma beve il suo in piedi, tamburellando le dita sul bancone. Kazemaru ed io lo lasciamo lì e occupiamo un tavolo a scelta, tanto sono tutti liberi. Aspetto a stento di sedermi prima di aprire il sacchetto di carta e addentare il primo manju, mugolando di piacere quando il dolce, speziato sapore della carne con salsa si espande sulla mia lingua. Kazemaru, intanto, sorseggia il caffè allungato e mi spiega la nuova organizzazione dell’agency.
Tre anni fa tutti gli uffici sono stati spostati al piano di sopra, dove c’erano le nostre stanze. Al piano terra ora ci sono solo la caffetteria, una palestra, la sala conferenze, e al posto dell’ufficio di Gazel una biblioteca che tutti i membri della squadra hanno contribuito ad arricchire, anche se il grosso l’ha comunque messo Hitomiko, che ha recuperato un gran numero di libri usati tra le conoscenze di suo padre. Attaccato alla biblioteca resiste ancora l’archivio, dove però si possono trovare solo faldoni di vecchi casi irrisolti e innocue pratiche, mentre dati sensibili e documenti davvero importanti sono stati digitalizzati o messi in sicurezza altrove.
-A un certo punto siamo diventati tutti adulti, e abbiamo capito che non potevamo più vivere qui tutti assieme, che avevamo tutti bisogno dei nostri spazi. Quindi la decisione è stata unanime. Beh, Endou ed io avevamo già deciso di andare a vivere da soli, comunque- dice Kazemaru tra un sorso e l’altro. Un tempo solo dirlo lo avrebbe fatto arrossire, invece ora sembra calmo, come se si fosse ormai abituato a quell’idea; quando abbassa gli occhi, però, colgo una punta di malinconia nella sua espressione.
-Sai, è stato Endou a propormelo. Dopo che te ne sei andato, non riuscivo a dormire da solo. Così gli è venuta questa idea, e stiamo davvero bene insieme- aggiunge con un sorriso. Annuisco, con un leggero senso di colpa per non esserci stato quando ne aveva bisogno. Fisso il manju che sto per mangiare con la fronte un po’ aggrottata, poi decido di non commentare e concentrarmi invece sul cibo, perché l’appetito di certo non mi è passato, e anche perché non credo che a Kazemaru farebbe piacere se mi scusassi. Cosa più importante, dovrò imparare a conoscere questo edificio da capo, a quanto pare, e ci sono ancora tante cose che mi lasciano perplesso.
-Okay, ma quindi l’edificio accanto a che serve? E chi erano quei ragazzini?
Kazemaru abbassa il bicchiere e si lecca le labbra pensieroso.
-Sono le nostre nuove reclute- dice alla fine. -Hiroto non te lo ha scritto?
-No… Non ci era permesso di parlare del suo lavoro- rispondo, un po’ mogio. Kazemaru annuisce, non commenta, e va avanti.
-Okay, allora ti spiego tutto io. Ecco, quando i nostri doni sono saltati fuori in pratica c’erano solo due scelte, no?- dice, alzando due dita. -O ci si affidava alla polizia, come abbiamo fatto noi, oppure si viveva nell’ombra, e chi sceglieva la seconda opzione spesso finiva in attività illegali. Per questo Hiroto ha ampliato le scelte di partenza. Certo, la strada è ancora lunga, ma… normalizzando l’esistenza dei doni nel mondo intero, ora è possibile scegliere altre strade. Il progetto Touch sostiene i possessori di doni e le loro famiglie, qualsiasi cosa vogliano fare.
-Stando così le cose, pensavamo che avremmo avuto un calo nei nostri numeri. Ma non è stato così, anzi, ho sentito che in altre nazioni sono addirittura raddoppiati! Quanto a noi, c’è stato un po’ di viavai, ma adesso abbiamo un gruppetto di kouhai più o meno stabile, quei ragazzi che hai visto prima. È per loro che Hitomiko e Hiroto hanno voluto il dormitorio qui di fianco. I più sono possessori da poco tempo, li abbiamo scoperti nell’ultimo anno. Te li presento più tardi-. Fa una pausa e abbassa lo sguardo sul bicchiere mentre gratta il cartone con le unghie; per un attimo appare pensieroso, poi scrolla le spalle e si alza.
-Facciamo ancora due passi, ti va? Ti faccio vedere anche il piano di sopra.
Anche se ho ancora un manju da finire, annuisco e mi alzo a mia volta. Kazemaru si gira verso Saginuma, che sta fissando l’orologio da polso con un cipiglio severo, come se guardare minacciosamente un orologio facesse passare più veloce il tempo.
-Saginuma-san! Porto Ryuuji a fare un giro!
Preso di sorpresa, Saginuma ha un impercettibile sussulto, ma si sforza di apparire composto e fa un cenno con la mano mentre sorseggia il caffè con aria di assorta nonchalance. Quando lancio a Kazemaru un’occhiata interrogativa, lui si stringe nelle spalle, perplesso quanto me, poi mi prende per mano e mi trascina con sé. Così ci lasciamo alle spalle Saginuma e Tobitaka e, mentre ci addentriamo nell’agency, osservo il profilo di Kazemaru in silenzio. Ho la sensazione che ci sia qualcosa di non detto nell’aria.
-Puoi dirmi tutto quello che vuoi, sai?- dico senza particolare intonazione, con la massima calma mentre sbocconcello l’ultimo manju. Kazemaru esita per un momento, poi sento la sua mano stringere la mia.
-Lo so. Ma te lo dico dopo- dice, e mi è sufficiente per non fare altre domande.
Intanto abbiamo sorpassato biblioteca e palestra senza fermarci, e benché questo mi sorprenda resto in silenzio e mi lascio guidare al piano di sopra. Dal mio punto di vista è anche meglio, perché è quello che mi incuriosisce di più; forse per questo all’imbocco del corridoio Kazemaru si ferma e mi lascia andare avanti a esplorare da solo.
Qui il silenzio è interrotto solo dal ticchettio delle dita che battendo sulla tastiera del pc calcolano, compilano, revisionano, e da un brusio di voci che commentano, domandano, chiamano. Si respira un’atmosfera del tutto diversa da quella che ricordavo, le cose sembrano funzionare in modo più efficiente. Non posso fare a meno di restarne colpito. Quando siamo arrivati all’agency una decina di anni fa, era evidente che l’edificio non era stato pensato per noi: era piuttosto una caserma di polizia che Kira Seijirou aveva rilevato e adattato alle necessità sorte, inserendo degli uffici, una mensa e anche delle stanze dove potessimo dormire. Ma restava pur sempre una caserma. Adesso invece la struttura è tutt’altra cosa, è parte di un progetto ben preciso, studiato nei dettagli dal principio.
Fa uno strano effetto percorrere il corridoio, passare davanti alle porte e realizzare che in quelle che per almeno due anni sono state le nostre camere da letto ora ci sono solo impiegati sommersi di lavoro. A ogni tasto colpito, a ogni foglio stampato, un pezzetto della nostra vita precedente viene archiviato e lasciato indietro in una scatola chiusa. La stanza che ho condiviso con Kazemaru non è più nostra; la stanza dove Hiroto si è chiuso per scappare da suo padre non esiste più, non come prima. Quando arrivo davanti a quella porta, mi fermo un attimo più a lungo mentre i momenti che ho trascorso lì con Hiroto mi scorrono davanti agli occhi. Ed è come se solo ora riuscissi ad accettare l’idea che siamo cambiati, e che il mondo che ho lasciato quando sono partito è cambiato con noi.
Mi stacco dalla porta e torno indietro per raggiungere Kazemaru, che mi sta aspettando accanto alla scala. Sta scrivendo qualcosa al cellulare, uno smartphone con una cover arancione, ma quando mi sente arrivare si affretta a metterlo via e mi scruta in volto, come per accertarsi che vada tutto bene. Gli rivolgo un sorriso rassicurante e senza dire niente lo supero per tornare di sotto.
Una volta tornati giù, Kazemaru mi indica la palestra. -Vuoi dare un’occhiata?
-Sinceramente mi incuriosisce di più il nuovo edificio- rispondo, e vedo qualcosa balenare nei suoi occhi, un’emozione troppo rapida da identificare. Sto per chiedergli se qualcosa non va, quando proprio di fronte a noi la porta della biblioteca si apre e qualcuno appare sull’uscio. Mi blocco di colpo, e la mezza esclamazione di sorpresa che non riesco a trattenere attira la sua attenzione su di me.
Per un momento io e Fubuki Shirou restiamo a fissarci, ugualmente confusi. Fubuki è il primo a ricomporsi, e la sua bocca si curva in un sorriso divertito.
-E così l’eroe torna a casa. Fatto buon viaggio?- esclama, come se fossimo vecchi amici. Annuisco, ancora sbigottito dalla sua presenza. Dovrei chiedergli perché è qui? Guardo Kazemaru in cerca di aiuto, ma la sua attenzione è rivolta più che altro al fascicolo che Fubuki ha in mano.
-Sei stato all’archivio? Cosa facevi lì?- domanda, accigliato.
Il sorriso di Fubuki non vacilla neanche per un istante.
-Sono andato a distruggere tutti i documenti su me e Atsuya, naturalmente- risponde in tono serio. Kazemaru alza gli occhi al cielo.
-Certo. Beh, spero che tu non abbia lasciato tracce, a Suzuno non piacerà.
-A Suzuno non piace quasi niente- ribatte Fubuki con naturalezza.
Durante tutto lo scambio continuo a osservarlo stranito. A eccezion fatta per la riga dei capelli, ora laterale, non è cambiato poi molto da come lo ricordo.
-State tranquilli, sto solo lavorando- riprende Fubuki, e per fugare ogni dubbio si fruga nel colletto della maglia e tira fuori la targhetta identificativa che porta appesa al collo. Per un attimo la fisso senza capire, poi nel mio cervello scatta qualcosa.
-Lavori qui?!
Fubuki mi guarda con un misto di curiosità, sorpresa, e una punta di divertimento per la mia ignoranza.
-Ah, quindi è proprio vero che non potevi avere contatti con nessuno- osserva, si gira verso Kazemaru. -Posso dirglielo io?
Kazemaru si copre il volto con una mano e sospira.
-Accomodati.
Fubuki sorride e torna a rivolgersi a me.
-Atsuya ed io siamo stati assunti come informatori. Abbiamo accumulato parecchi contatti utili da quando siamo a Tokyo, e sappiamo come muoverci anche in ambienti poco… raccomandabili. Un lavoro perfetto per noi, non credi?
-Niente da dire a riguardo- replico, -ma come…?
Il sorriso di Fubuki si affievolisce un po’, e mentre parla evita il nostro sguardo.
-Beh, anche dopo che è finita la faccenda di Kenzaki, non potevamo certo andarcene a spasso. Ero ancora in convalescenza, e non sono riuscito a trovare il modo di far tornare il dono di Atsuya… Perciò siamo rimasti sotto la custodia della polizia per un po’-. Fa una pausa, poi scrolla le spalle e continua con più nonchalance.
-Ci hanno messi in un percorso di riabilitazione e lasciati lì a fare la muffa... pensavo che ci avrebbero lasciati là a vita, sinceramente. Invece Kiyama ci ha fatto un’offerta di lavoro piuttosto interessante, quando è diventato il capo di questo posto.
Fubuki sorride di nuovo, e questa volta mi sembra un sorriso sincero, diverso dall’espressione di scherno di poco fa.
-“Non ho potuto mantenere la promessa di ridare il dono ad Atsuya, ma voglio comunque aiutarvi”, mi ha detto così. Che idiota, vero? Avrebbe potuto fare finta di nulla e basta. Ma sono felice che non l’abbia fatto. Grazie a lui abbiamo potuto addestrarci come agenti e venire a lavorare qui-. Fa un’altra pausa, ride. -Anche questo fa parte del suo grande piano per un mondo migliore, suppongo. Uno dei nostri compiti è rintracciare drifter in posti che di solito la gente non conosce, non sa neanche che esistono.
-Per chiarire, fa tutto parte del progetto Touch. In questo modo, secondo Hiroto, sarà possibile poco a poco integrare nel sistema anche i drifter già esistenti e non ancora legalizzati, dopo un percorso di riabilitazione... come è successo ai Fubuki- interviene Kazemaru. -Purtroppo non sempre la riabilitazione riesce. Non siamo mai riusciti a recuperare i ragazzi che Garshield ha sfruttato, per esempio- aggiunge con amarezza.
-Non tutti possono essere salvati. Eppure Kiyama mi ha detto… “Voglio raggiungere tutti”, me lo ricordo benissimo. È stupido, ma quando me lo ha detto non ho potuto fare a meno di pensare che sarebbe stato bello seguirlo- conclude Fubuki. -E quindi eccomi qui. Soddisfatto del riassunto?
Annuisco e lo ringrazio mentre penso a quanto Hiroto sia incredibile. Il mio desiderio di vederlo cresce sempre di più, ma quando chiedo a Kazemaru dov’è, lui esita.
-Mi dispiace, Ryuuji, stamattina è uscito con Hitomiko, ma sono certo che tornerà presto- dice in tono vago, sembra in imbarazzo. -Lo sai... è marzo- aggiunge sottovoce, e solo grazie a questo realizzo in che periodo sono arrivato. È in questo mese che il padre di Hiroto è morto, anni fa; senza dubbio lui e Hitomiko sono andati a trovarlo, e se è così, allora non c'è niente da fare. Sono arrivato una settimana prima del previsto, dopotutto. Sospiro, senza nascondere la mia delusione, e Fubuki ne approfitta per inserirsi nuovamente nella conversazione.
-Ho un’idea, perché non visiti il dormitorio mentre lo aspetti? Così conoscerai anche le nostre nuove promesse- propone.
-Oh, giusto-. Imbattermi in Fubuki a sorpresa mi ha distratto. Mi giro verso Kazemaru, e per un istante lo sorprendo a guardare storto Fubuki; ma è solo un secondo.
-Oh, e va bene, andiamo- acconsente Kazemaru.
Fubuki si illumina. Per qualche motivo sembra divertirsi un mondo, e decide di mettersi in testa al nostro piccolo corteo; io vengo per secondo e infine Kazemaru ci segue con il viso chino e gli occhi incollati allo smartphone mentre scrive messaggi rapidissimi con i soli pollici. Durante il tragitto incrociamo anche Saginuma, che una volta saputo dove stiamo andando si unisce a noi, e così come il party dell’eroe in un videogioco ci incamminiamo verso la meta.
Andiamo al dormitorio per il corridoio esterno, e mentre cammino resto ancora una volta impressionato da quell’idea. Pare davvero di essere tornati a scuola; è una sensazione strana ma familiare allo stesso tempo, anche se i miei ultimi ricordi scolastici risalgono alle medie. E sono anche stato fortunato. Guardo Fubuki di soppiatto e penso che probabilmente lui non le ha neanche mai fatte, le medie. Dopo quello che è stato archiviato come “l’incidente Kenzaki”, sono venute a galla parecchie cose, non solo su di me. Scoprire di essere solo una delle tante vittime di Kenzaki, e che alcune di quelle persone erano proprio a un passo da me, è stato un pugno allo stomaco.
Osservandolo adesso, Fubuki non sembra più portare con sé quell’immensa rabbia che lo seguiva ovunque come un’ombra, ma non posso dirlo per certo; è sempre stato bravo a nascondere ciò che pensa davvero.
-Non guardarmi così, detective, mi consumi.
E ha ancora un irritante spirito di osservazione, a quanto pare.
Fubuki mi lancia un’occhiata veloce, con un sorriso irriverente sulle labbra.
-Stai facendo di nuovo il giochetto delle emozioni?- mi chiede, una punta di sarcasmo sempre presente nella voce, ma senza il mordente che mi sarei aspettato. Il Fubuki Shirou che ricordo io non è certo uno che si trattiene.
Scuoto il capo. -So come controllarlo ora- dico nel modo più pacato possibile. -In fondo, è come entrare in casa di altri senza invito, e senza neanche bussare. Quindi ora non lo faccio più. Anzi, ti chiedo scusa per averlo fatto in passato.
-Scuse accettate. Ma comunque stavo scherzando, rilassati. Siamo compagni di riabilitazione, dopotutto- replica Fubuki con un’alzata di spalle. Si ferma davanti alla porta, poi ci ripensa e si sposta per farmi largo con un gesto quasi galante. Gli lancio un’occhiata stranita mentre gli passo davanti e apro la porta.
Quando la porta si spalanca, non faccio nemmeno a tempo a sbattere le palpebre che un boom di colori mi scoppia davanti agli occhi, accompagnato da un bang bang bang! assordante. Per un momento penso che mi stiano attaccando, ma non sento dolore da nessuna parte. Poi con la coda dell’occhio vedo una striscia di carta colorata scivolarmi su una spalla, le mie scarpe sono piene di coriandoli. Sento un coro di voci urlare “Sorpresa!” totalmente fuori sincrono, e subito dopo qualcuno mi vola tra le braccia e qualcun altro esclama:- Ehi Maki, così non vale!
Davanti a me ci sono i miei amici: Suzuno, Nagumo, Endou, Gouenji, Kidou, Reina, persino Diam. E abbassando lo sguardo riconosco Maki tra le mie braccia, mi sta abbracciando così stretto che quasi non respiro. Le tulle gialle del suo vestito ondeggiano dietro di lei come la coda di una papera quando si alza sulle punte per guardarmi meglio.
-Oh, non posso credere sia tutto vero- dice, con la voce vibrante di emozione.
-Maki, sei sleale- la riprende Diam. -Avevamo detto di non correre subito ad abbracciarlo, di aspettare che gridassimo Sorpresa!
-Non ho resistito! Insomma, guardalo, è qui! In carne e ossa! Ed è diventato un figo!
A quel punto Diam si avvicina, mi scruta da capo a piede e poi commenta:- Beh, vero.
Il loro battibecco mi diverte e, anche se sono un po’ imbarazzato, sto al gioco.
-Anche tu non sei male, Diam- replico.
Diam mi fa un sorrisone. Porta una maglia nera con jeans scuri strappati al ginocchio, ma al polso ha due bracciali di plastica giallo limone che sembrano coordinati al vestito di Maki. Ha i capelli più lunghi adesso, legati in un codino sulla nuca, e quando ride gli orecchini a pendente viola oscillano leggermente.
-Sono Miura Hiromu adesso. O meglio, di nuovo- esclama e mi tende la mano con aria casual, come se cambiare identità due volte nel giro di una vita sola fosse una cosa normale. Mentre gli stringo la mano, vedo Reina e gli altri venire verso di noi.
-Maki, Miura, basta monopolizzarlo- dice Reina, poi con decisione mi attira a sé e mi abbraccia forte. -Ci sei mancato molto, Midorikawa- sussurra con il volto nella mia spalla, e quando si stacca mi rivolge un largo sorriso. Se possibile, è diventata ancora più bella di prima; ha un’aria più rilassata, oserei dire leggera, e i capelli a caschetto che le solleticano la nuca le danno un look sbarazzino.
Dopo di lei, anche Nagumo, Suzuno, Kidou, Endou e Gouenji mi salutano con strette di mano, pacche sulle spalle, o battendo il pugno contro il mio. In pochi secondi mi trovo circondato da sorrisi più o meno familiari; persino Suzuno sta sorridendo. L’unico escluso da questa atmosfera gioiosa sembra essere Saginuma: appena entrato si è messo in piedi in un angolo con le braccia incrociate, la faccia contrita come se avesse ingoiato un limone. Ma in questo momento poco importa. Tutti i miei amici sono qui per me.
-Scusa, non abbiamo finito di sistemare, abbiamo preparato tutto in fretta quando abbiamo saputo che arrivavi oggi- spiega Endou ridendo, mentre con una mano indica un largo striscione bianco con la scritta Bentornato, Midorikawa!, e solo quando me lo fa notare mi accorgo che la stanza è chiaramente decorata a festa, con palloncini che scorrazzano qui e lì come bambini indisciplinati.
-Tra parentesi, in teoria Kazemaru avrebbe dovuto portarti qui più tardi- fa notare Suzuno inarcando entrambe le sopracciglia.
-Non è colpa mia- si lamenta Kazemaru. -Ho fatto del mio meglio per tenerlo lontano, ma Fubuki ha rovinato tutto.
-Morivo dalla voglia di vedere la sua faccia sorpresa-. Fubuki si stringe nelle spalle, per nulla pentito. -E poi anche voi non vedevate l’ora di vederlo, no? Dì la verità, Kazemaru, volevi solo tenerlo tutto per te un altro po’.
Kazemaru arrossisce, borbotta qualcosa a bassa voce, e fissa male Fubuki. A quel punto interviene Gouenji, forse per evitare che il battibecco degeneri.
-Comunque sia, siamo contenti che tu sia tornato, Midorikawa. Oggi si festeggia…- Si ferma, aggrotta la fronte. -A proposito, Shirou, ma Atsuya non è andato a prendere da bere un’ora fa?
-Oh, lo sai com’è Atsuya. Quando vede qualcosa che gli piace, si distrae subito.
Gouenji sospira, non so se rassegnato o esasperato. -Lo so bene, infatti casa nostra sta diventando un bazar, non so più dove mettere la roba che compra.
-Se Atsuya sa che ti disturba, probabilmente lo fa apposta. Non è adorabile?- conclude Fubuki con un tono più allegro del dovuto. Gouenji scuote il capo e sospira. Qualcosa mi dice che non è la prima volta che hanno questa conversazione.
Mentre loro continuano a parlare, mi distraggo a osservare la stanza, una specie di sala comune con il pavimento di morbida moquette verde, ora costellata di coriandoli e stelle filanti – quelli che mi hanno sparato addosso –, e pareti tappezzate di poster, festoni e ghirlande di carta colorata appiccicati con lo scotch al muro. Sugli scaffali si alternano libri impilati in ogni senso possibile e piantine di fiori rossi, e in una libreria ad angolo scorgo qualche gioco da tavolo: delle carte hanafuda tenute assieme con un elastico, una scacchiera da Shogi piegata in due, e delle pedine del Go orfane di tavolo da gioco. Attorno a un tavolo di legno rotondo, coperto da una tovaglia quasi trasparente, ci sono due divani verdi e qualche sedia pieghevole.
A un certo punto attira la mia attenzione una grande bacheca di sughero, con fogli fittamente scritti che oscillano e sventolano verso l’alto come piccole bandiere al minimo soffio di vento nonostante le puntine colorate. Su uno leggo “Turni di pulizia” e sotto una tabella con i nomi – ne conto almeno sei –, e proprio a fianco noto un foglietto a righe scarabocchiato con furia, praticamente illeggibile da lontano, così mi avvicino per curiosità. La calligrafia non è delle migliori, ma riesco comunque a decifrare la scritta: “Kariya, smettila di saltare i turni o darli ad altri!!!” Ma l’appello è stato inutile, perché qualcuno – scommetto il destinatario del messaggio – ha risposto solo con un impietoso commento a pennarello rosso: “Senpai, la tua grafia è orribile”. Non riesco a trattenere un sorriso. Il mio sguardo cade poi su una bacheca portachiavi di legno: le chiavi delle camere sono tutte qui. Guardandomi attorno, vedo una scala che porta al piano di sopra. Mi avvicino e poso una mano sulla ringhiera, ma non salgo, mi limito a scrutare il pianerottolo.
Pochi secondi dopo, sento un mezzo grugnito venire dal piano di sopra, e poi qualcuno che fa “ssssh!” furiosamente, ma non c’è nulla da fare, l’altro sembra essere stato colpito da un attacco di ridarella e quella voce cristallina si fa sempre più forte.
-Chi c’è lassù?- domando ad alta voce, ma nessuno mi risponde chiaramente. A quel punto anche gli altri si girano verso la scala. Maki comincia a ridacchiare.
-Oh, i ragazzi sono timidi- dice.
-Già, sei una specie di superstar, amico- aggiunge Hiromu.
-Io?- Rivolgo loro uno sguardo confuso, mentre Kazemaru si avvicina e getta uno sguardo esasperato verso l’alto.
-Ragazzi, potete uscire, non vi morde mica.
Le sue parole sono seguite da un attimo di silenzio, poi scoppia un brusio caotico e sconnesso: sembra che stiano decidendo chi deve andare avanti. Guardo Kazemaru, lui scuote il capo con aria rassegnata, e così aspettiamo. Anche gli altri si radunano vicino alla scala, curiosi e divertiti. Alla fine, apparentemente, i ragazzi decidono di affidarsi a una rapidissima partita di carta sasso forbici che dura circa venti secondi.
-Non vale, perdo sempre io!- bisbiglia il perdente in tono lamentoso.
-Una sconfitta è una sconfitta, vai prima tu!- lo redarguisce un altro.
Altro silenzio, poi un borbottio:- E se invece la piantassimo di fare questo stupido gioco?-che scatena altre polemiche, e i due finiscono nuovamente a bisticciare.
-Forse dovremmo salire noi- dico a Kazemaru, che inarca le sopracciglia. Prima che possa rispondermi o salire, però, inaspettatamente qualcuno scende di sua volontà.
È un ragazzino alto e smilzo, che cammina con la schiena dritta e un portamento sicuro, le mani infilate nelle tasche del pantalone a zuava viola e fluenti capelli blu legati in una coda di cavallo alta. Il ragazzino si ferma davanti a me e mi guarda dritto in faccia quasi con fare sfrontato, non sembra affatto timido. Ma quello che più mi colpisce sono i suoi occhi, con ciglia lunghe e nere e un filo di eyeliner scuro che fa risaltare ancora di più il colore dorato delle iridi. Mi fanno pensare all’ambra e al miele.
Il suo coraggio smuove un po’ le acque, e poco dopo dietro di lui cominciano a scendere anche gli altri, cosicché nel giro di pochi secondi le nuove reclute sono tutte davanti a noi.
Kazemaru si porta un pugno alle labbra e tossicchia per schiarirsi la voce.
-Facciamo le presentazioni. Allora, da destra: Kyosuke, Ranmaru, Masaki, Takuto e Taiyou- dice, indicando i ragazzi man mano che li nomina.
Così apprendo che: Kyosuke è il ragazzo con i capelli blu che mi è venuto incontro; Taiyou è quello che sta ancora tentando di sopprimere la ridarella; Takuto sembra il più mite di tutti; Masaki è quello che ha perso al gioco, e Ranmaru non perde occasione di farglielo notare.
-Avresti dovuto scendere tu per primo- dice infatti, senza preoccuparsi nemmeno di parlare sottovoce, e provocando immediatamente la stizza dell’altro.
-Avete barato!
-No, è che butti sempre carta per prima!
-Masaki, Ranmaru, basta così-. Kazemaru batte le mani per interromperli e aspetta che il bisticcio si spenga prima di riprendere il filo. -So che avete sentito parlare molto di lui, ma voglio presentarvelo ufficialmente: lui è Midorikawa Ryuuji, il mio partner. Ha dovuto lasciare l’agency per cause di forza maggiore, ma adesso che è tornato riprenderà il suo ruolo di agente operativo.
Appena sentono il mio nome, i ragazzini sgranano gli occhi e spostano lo sguardo su di me come se stessero osservando una specie rara, Kyosuke e Masaki in particolare. Mi sento un po’ in soggezione, ma faccio finta di nulla e, sfoggiando un sorriso sicuro, alzo la mano per un saluto.
-Spero di lavorare bene con voi- dico in tono tranquillo. I ragazzi rispondono di sì in coro, qualcuno con un largo sorriso, qualcuno imbarazzato, e non c’è il tempo di dire altro perché in quel momento la porta si apre di nuovo e stavolta a entrare sono Zell e Atsuya.
Zell – o qualunque sia il suo nome ora – si avvicina per salutarmi.
-Ehi, ti trovo bene. Devi fare un salto a Hokkaido quando puoi- dice, sorride mentre si alza gli occhiali da sole sulla fronte. Nell’altra mano ha una busta da cui spuntano due bottiglie di Pepsi-Cola. Vedo Atsuya dietro di lui con altre due buste.
-Accidenti, sarebbe fantastico! Verrai, no?- esclama Hiromu, entusiasta per il suggerimento di Zell. Annuisco e sorrido.
-Sì sì, sicuramente io…- comincio a dire, ma vengo subito interrotto da Nagumo, che mi sposta con un braccio e si china in avanti per sbirciare nelle buste di Atsuya; la sua voce sovrasta la mia mentre chiede:- L’hai trovata la birra alla ciliegia?
Atsuya non risponde subito. I suoi occhi sono nascosti da un paio di occhiali dalle lenti rosate, e per un momento è difficile capire la sua espressione; poi però abbassa gli occhi e mi guarda mentre le sue labbra si curvano in un ghigno.
-No, ma ho portato qualcosa di meglio- dice, e allo stesso tempo fa un passo di lato.
Ora che Atsuya non è più in mezzo, mi accorgo che qualcuno viene di corsa verso di noi, e quando questa persona raggiunge la porta e si getta dentro, quasi inciampando per la fretta, il mio campo visivo si riempie di rosso e la mia mente si svuota. Tutto il corpo brucia per il desiderio di muovermi verso di lui, di averlo tra le braccia, di baciarlo. Invece lo fisso, paralizzato: dentro di me si affaccia, oltre all’emozione di vederlo, una paura sibillina che mi gela per un attimo le vene. In un flash mi torna in mente la nostra camera, ormai svuotata di tutto ciò che ricordava noi, e per un istante ho paura.
Ma poi Hiroto alza gli occhi e la paura scompare come una bolla di sapone, Hiroto apre la bocca e tutti i suoni scompaiono nella sua voce. Dice il mio nome e di colpo il mondo si ferma.
Questa volta posso rispondere, e lo faccio senza esitare. Mi sento leggero mentre gli getto le braccia attorno con slancio, sicuro che mi prenderà. Lo abbraccio forte, respirando nei suoi capelli, contro la sua pelle. Ha degli occhiali neri nuovi, un po’ storti per aver corso, e quando chino la testa per baciarlo sbatto involontariamente il naso contro il suo nel tentativo di evitarli; scoppiamo a ridere, ci riproviamo, questa volta ci troviamo alla perfezione e oh, penso, oh. Adesso sì che ci siamo. Gli infilo le mani nei capelli, lo tiro a me e lo bacio per tutte le volte in cui ho pensato a lui in questi anni, per tutte le volte in cui pensare a lui ha acceso una luce nell’oscurità. Lo bacio per tutte le volte in cui avrei voluto baciarlo, lo bacio sentendomi vivo e grato di esserlo. Devo chinare la testa per baciarlo bene, e quindi è vero che sono più alto di lui. Questa cosa mi piace veramente tanto e sorrido mentre lo bacio intrecciando le dita nei suoi capelli, che sono diventati un po’ più fitti e lunghi sulla nuca.
Nessuno osa interromperci, e noi ci dimentichiamo completamente di loro. Anche volendo, non riuscirei a pensare ad altro che a lui: la mia testa è piena solo dei suoi occhi, delle sue mani, delle sue labbra, piena della sua voce quando mormora il mio nome tra un bacio e un altro, come se non potesse mai dirlo abbastanza. Trattengo a stento i singhiozzi, e solo quando i baci cominciano a essere salati mi rendo conto che stiamo piangendo entrambi. Allora gli prendo il viso tra le mani e poggio la fronte contro la sua.
-Scusa se ci ho messo tanto- sussurro. -Ma sono a casa, Hiroto.
Mi risponde con una mezza risata e la voce carica di emozione.
-Bentornato… ti stavo chiamando. Mi hai sentito?
-Sì- mormoro, poi gli getto le braccia al collo e lo stringo forte, parlando contro il suo collo. -Non lasciarmi mai più. Anche se dovesse essere per il mio bene… non lasciare mai più che me ne vada. Non lasciarmi andare mai più- dico, serio, con voce tremante.
-Non lo farò- mi assicura, e io lo stringo ancora di più, respirando piano mentre le lacrime mi scorrono sul viso. Ho tenuto duro fino a questo momento perché Kazemaru o gli altri non mi vedessero triste, volevo solo ridere con loro in modo spensierato, volevo una riunione piena di gioia. Ma vedere Hiroto ha sconvolto tutto, ovviamente.
Ho pensato spesso all’ultima sera prima della partenza. Quella sera, nonostante quanto le parole di Hiroto mi abbiano reso felice, non sono riuscito a fare altro che piangere e farmi consolare da lui. Ero così debole e spaventato che non sono riuscito nemmeno a ringraziarlo. Ma ora finalmente posso dargli la mia risposta, quindi faccio un respiro profondo, mi stacco da lui e lo guardo negli occhi.
-È lo stesso per me. Voglio vivere con te- dico tutto d’un fiato, e non mi ferma nemmeno la sua espressione stupefatta; anzi, sono così nervoso che parlo ancora più veloce. -Niente ha senso per me se non ci sei tu al mio fianco. E sono sicuro che questa cosa non cambierà mai. Anzi, ti sposerei subito. Adesso…
Hiroto mi stringe a sé con tale impeto da sollevarmi da terra, e intorno a noi esplode un coro di esclamazioni, incitamenti e fischi. Maki e Hiromu gridano più di tutti. Tutti applaudono, tranne i nostri kouhai, che apparentemente sono troppo scioccati per fare qualcosa che non sia fissarci a bocca aperta. Ops?
Mi viene da ridere, ma mi blocco quando noto che alle spalle di Hiroto c’è Hitomiko. Le mie orecchie vanno a fuoco quando realizzo che è sempre stata lì e che ho appena fatto una sfacciata proposta di matrimonio a suo fratello davanti a lei; poi però mi accorgo che anche lei sta applaudendo e, quando i nostri sguardi si incrociano, il suo volto si apre in un sorriso raggiante. D’un tratto mi sento travolgere da un’ondata di affetto e gratitudine verso di lei. Hitomiko è una delle poche persone con cui ho avuto contatti costanti negli ultimi anni, e senza di lei io e Hiroto non avremmo potuto neanche scambiarci le lettere. Una volta pensavo fosse una persona fredda, ma non avevo capito niente: al contrario, è una delle persone più gentili che abbia mai incontrato. Vorrei ringraziarla per tutto quello che ha fatto per me, ma Hiroto mi sta ancora tenendo tra le braccia e Saginuma le si avvicina prima che possa farlo io. Si ferma a un passo da lei, le prende la mano e...
-Hitomiko, ti prego, potresti sposarmi?!
Una bomba. Ha lanciato una bomba.
Di colpo tutti smettono di parlare e nella sala comune cala un silenzio incredulo. Per un istante restiamo tutti pietrificati, Hitomiko compresa. Lui compreso. Saginuma ha il viso contorto in una smorfia contrita ed è così rosso che sembra sul punto di esplodere; appena si rende conto di cosa ha sbottato, impallidisce, sgrana gli occhi, e le lascia la mano.
-No, aspetta, hai ragione, sono stato precipitoso- farfuglia, mentre comincia a frugarsi nervosamente nelle tasche. -Mi sono fatto prendere dall’emozione, ma non sarebbe dovuta andare così, avevo scritto un discorso, ce l’avevo proprio qui, per l’amor del…
-Sì.
Hitomiko lo interrompe bruscamente. Anche lei è rossa scarlatta adesso. Saginuma si blocca con la mano ancora impigliata nella tasca. Quando alza lentamente lo sguardo su di lei, ha un’espressione stordita, come se pensasse di aver avuto un’allucinazione uditiva.
-Cosa hai…? Scusa, forse non ho...
-Sì- ripete Hitomiko con voce soffocata. Per la sorpresa aveva smesso di piangere ma ora ha ripreso. -Sì, posso… Voglio dire, possiamo sposarci. Lo voglio.
Hiroto la guarda senza fiato. Saginuma ha l’aria di chi sta per avere un collasso.
-Ommioddio, ommioddio, ommioddio!- strilla Maki, scuotendo Hiromu con un braccio. -Ma che sta succedendo oggi?! Hiromu, se è un sogno dammi un pizzicotto!
-Oh no, credo che sia proprio tutto vero- risponde Hiromu. Getta la testa indietro in una risata fragorosa, poi tira fuori dalla tasca uno smartphone nero e scatta una foto a Saginuma, nemmeno troppo di nascosto visto che l’altro è troppo scosso per accorgersene. -Questa la mando a Natsuhiko. Cioè, non possono perdersi la vista del capo in preda allo stordimento amoroso, vero, Ryuuichirou?- esclama, dando di gomito a Zell/Ryuuichirou – il quale però non lo sta ascoltando.
-Scusa Miura, devo fare una cosa- dice infatti in tono assente. Ha l’aria di aver avuto lui stesso una grande rivelazione. Così, sotto gli sguardi perplessi di Maki e Hiromu, si gira verso Reina con una luce determinata negli occhi.
-Yagami, ti ho sempre amata. Vuoi uscire con me?
Lo dice così, senza girarci troppo attorno. Reina lo fissa basita, come se non avesse recepito il messaggio, poi sembra finalmente capire e il suo viso diventa di mille colori per l’imbarazzo.
-Ommioddio- soffia Maki, mentre Hiromu scuote solo il capo a bocca aperta, apparentemente troppo sbalordito per spiccicare parola. Per una volta, Miura Hiromu è davvero senza parole: questo sì che sarebbe uno scatto unico e irripetibile, penso mentre scoppio a ridere per la strana piega che la giornata ha preso. Sembra infatti che la mia goffa dichiarazione d’amore abbia causato una sorta di reazione a catena. Anzi, una dichiarazione a catena, direi. Per un attimo intravedo Nagumo girarsi verso Suzuno, ma l’altro lo respinge con decisione borbottando un Non ci provare, Haruya, e subito dopo le loro voci vengono sovrastate da altre.
-Tutto questo è veramente incredibile- sta dicendo infatti Fubuki a pochi passi da me e Hiroto. Lo vedo girarsi verso Gouenji con un largo sorriso.
-Che ne dici, Shuuya? Andiamo a vivere insieme?
-Shirou, noi viviamo già assieme. Io, te e Atsuya.
-Oh, è vero! Assurdo il mondo, eh?
-Okay, non parliamone mai più in pubblico- interviene Atsuya, stappandosi una lattina di birra come se necessitasse dell’alcol per affrontare questa conversazione.
-Bene, gente, non ho fatto duecento metri a piedi per prendere bibite che nessuno beve! Quindi muovete il culo e venite a prendervi la roba, sì, pure voi ragazzini, dai!
Mentre tutti intorno a noi si muovono per andare a prendersi da bere, Hiroto invece mi tira per mano fuori dalla stanza, e ci lasciamo la confusione alle spalle per appartarci in cortile. Siamo vicini abbastanza da sentire ancora le voci degli altri, ma anche lontani abbastanza da non essere disturbati, e appena siamo soli Hiroto mi bacia di nuovo all’ombra dell’edificio, sfiorandomi dolcemente la guancia con le dita. Fuochi d’artificio esplodono nel mio petto ogni volta che mi tocca. Non c’è nulla che io abbia sognato più di lui.
Quando ci stacchiamo, non riesco a smettere di sorridere.
-Non pensavo che avrei scatenato tutto questo, ma mi piace- sussurro.
-Hai sempre portato scompiglio ovunque andassi- mi risponde. -Per quanto mi riguarda, però, la tua proposta rimane la più bella di tutte.
-Stavolta volevo dirtelo io- ammetto. -E ho ancora tante altre cose da dirti… Ho sentito tutto quello che hai fatto. Mi hanno detto tutto… Sei incredibile. Hai davvero fatto tutto quello che avevi promesso, vero?- aggiungo, pieno di ammirazione.
Hiroto annuisce.
-Non è stato facile, soprattutto all’inizio. Ma tutti erano con me, in ogni momento. Non sono mai stato solo... Ho mantenuto anche la mia promessa con te. Tutti i bambini che Kenzaki aveva rapito ora sono al sicuro- dice, si morde il labbro. -Due di loro sono qui, adesso, penso che dovresti saperlo- mi confessa. Per un istante mi si mozza il fiato.
-Chi?- dico soltanto.
-Masaki, Kyosuke- risponde lui in un soffio, e sentire i loro nomi mi fa piangere. Perché non sono più solo numeri. Hanno dei nomi, che qualcuno può chiamare.
Di colpo mi rivedo nella stanza, rivedo i loro occhi su di me – hanno lo stesso colore di occhi, ora che ci penso – e capisco tutto. Sono così sollevato che la terra mi manca da sotto i piedi, ma per fortuna Hiroto mi sostiene.
-Grazie- mormoro, soffocato. Non so nemmeno per cosa lo sto ringraziando, ma sono sincero. Anche se non era colpa mia, mi sento come se mi avesse tolto un enorme peso dalla coscienza, e ora una voce dentro di me mi dice che il viaggio è finito e finalmente posso riposarmi; che una volta raggiunto un porto sicuro, posso fermarmi e non ripartire mai più, perché adesso questa è casa mia.
Alzo lo sguardo sull’edificio, sbircio attraverso la finestra aperta e vedo gli altri chiacchierare e divertirsi come se nessuna tragedia fosse mai avvenuta.
Hiroto mi passa un braccio attorno alla vita e mi tira a sé, poggiando la testa contro la mia.
-Cosa senti?- mi chiede. Sorrido e, per la prima volta da quando ho fatto ritorno qui, lascio a briglia sciolta la mia empatia: il mio potere scivola fuori dal mio corpo silenziosamente ed entra nella stanza sfiorando le persone all’interno come una brezza primaverile, calda e ospitale.
-Felicità. Amore. Speranza- rispondo piano.
Sono a casa.





 
**Angolo dell'Autrice**
*rullo di tamburi* Eeee buonasera, finalmente eccoci con la prima parte dell'epilogo!
Mi sono divertita un mondo a scriverlo e spero tanto che ve lo siate goduto anche voi. In un certo senso, è stato davvero liberatorio scrivere così tanti baci tra Hiroto e Midorikawa, visto che il ritmo degli eventi nel corso della storia non me lo permetteva - ma, come dire, se lo meritano, no? (e ce lo meritiamo anche noi)
La seconda parte è in lavorazione, ma spero di poterla pubblicare presto. Ancora non ci credo che siamo quasi arrivati, ma il viaggio non è ancora finito del tutto, ci vediamo al prossimo capitolo per i saluti finali! Intanto vi auguro buone vacanze, divertitevi e riposatevi ;)
Come sempre grazie alla mia Ohana che mi fa da beta ♥
Alla prossima,
            Roby

 

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Capitolo 55
*** Epilogo (2) ***


abbiamo riso insieme,
percorrendo la nostra strada

il domani di me e te
è appena cominciato

 
(春うらら - genic)
 
 
 
Epilogo (2)
 

 
Mia madre è atterrata in Giappone alla fine di maggio, dopo più di dieci anni di assenza. La prima settimana l’ha trascorsa in un albergo pagato dal signor Raimon, e ha passato ogni singolo giorno a prepararsi psicologicamente, finché non è arrivato il momento di conoscere il resto della famiglia.
Per tutto il viaggio in taxi, mi ha stretto forte la mano mentre, addossata al finestrino, assorbiva con sguardo avido il paesaggio che scorreva attorno a noi come la pellicola di un film. Da quando ha cambiato nome ed è diventata una insospettabile signora parigina, non è più tornata in Giappone per non rischiare la copertura, e anche ora che finalmente può vivere alla luce del sole ci ho messo un bel po’ a persuaderla, perché aveva paura. Non del cambiamento, ma del vuoto che avrebbe trovato. Mia madre non ha più nessuno a parte me, e non ha niente che la leghi a questa terra più di quanto non sia legata alla Francia; da quando siamo scesi dall’aereo non fa che guardarsi attorno come una bambina che si è persa in un grande centro commerciale. Non c’è un filo di vento, eppure lei non si è mai tolta lo scialle. Mia madre ha sempre freddo, come se le sue ossa non avessero mai dimenticato l’umidità del seminterrato.
A un certo punto, quando ho visto il profilo della casa sbucare all’angolo della strada, anche il mio cuore ha cominciato a palpitare, ma vedendo Kazemaru e Hiroto davanti al cancello sono riuscito a calmarmi. Kazemaru ha visto il taxi per primo; si è subito girato verso il giardino e, pochi secondi dopo, anche Mamma e Papà sono comparsi sul viale.
Ho fatto fermare il taxi, sono sceso e ho dato la mano a mia madre per aiutarla. Le sue dita, fredde come il ghiaccio, si sono strette attorno alle mie. Per un lungo istante, mia madre e i miei genitori si sono fissati senza dire niente, con il fiato sospeso. Stavamo tutti zitti, persino io che avrei dovuto fare le presentazioni, ma non ci riuscivo perché avevo la lingua incollata al palato. Era tutto immobile.
Poi Mamma ha fatto il primo passo e in un solo abbraccio ci ha stretti entrambi, sia me che mia madre. Ho sentito le sue lacrime contro la pelle mentre soffiava un “Bentornati a casa” sottovoce, e ho mormorato “Sono tornato” in risposta. Mia madre non ha detto niente, non ha ringraziato; pensavo fosse spaventata, ma quando ci siamo staccati e ho visto il suo volto rigato di lacrime, ho capito che per lei era semplicemente troppo. Nel tempo in cui era rimasta da sola si era disabituata a essere amata, e niente avrebbe potuto prepararla a tutto questo.
Per fortuna Mamma ha preso in mano la situazione: l’ha presa sottobraccio e l’ha guidata dentro casa con dolcezza, chiedendole piano come volesse essere chiamata. Mia madre non è riuscita a risponderle, ma si è aggrappata a lei con tutta se stessa.
Siamo entrati in casa: avevano preparato il tè e i pasticcini e la tavola era tutta apparecchiata per noi. Papà ha spostato la sedia per mia madre, ma lei non è riuscita a bere nulla. Ha smesso di piangere e tremare solo quando le ho presentato Hiroto, e i suoi occhi scuri si sono fissati su di lui come se non vedesse altro.
Non ho mai raccontato a nessuno cosa è successo quella notte nei sotterranei della clinica. Anche quando ho dovuto fare rapporto ai miei superiori, non sono mai sceso nei dettagli, ho cercato di essere il più oggettivo possibile. Perciò non ho mai detto a nessuno cosa ho provato quella notte o cosa ha significato per me la presenza di Hiroto.
Eppure, quando mia madre lo ha incontrato, la prima cosa che ha fatto è stata gettargli le braccia al collo e stringerlo forte al petto; poi gli ha detto:- Grazie di averlo salvato.
Hiroto quella notte mi ha salvato la vita, ma credo che sarebbe difficile spiegare davvero cosa intendo quando dico così. Non siamo supereroi. Se dovessi fare un paragone, direi che è stato come accendere la luce in una stanza buia. E credo che se mia madre lo ha percepito, pur non avendo nessun potere magico, è perché avrebbe voluto che qualcuno accendesse una luce per lei. Mentre guardavo Hiroto ricambiare l’abbraccio, ero incredibilmente felice.
Quando più tardi mia madre è riuscita a dire il suo nome ad alta voce, è stato come vederla sbocciare; in quel momento, ho pensato, era più bella di qualsiasi ciliegio in fiore.


 
 *
 
Siamo un’unica grande famiglia mentre prendiamo posto sulle panchine allineate simmetricamente nel grande giardino, circondati da aceri con foglie rosse e larghe e pioppi dalla chioma dorata. Siamo vestiti più o meno tutti allo stesso modo: quando ha capito che la maggior parte di noi non avrebbe messo particolare cura nello scegliere un abito da cerimonia, Maki ha deciso di prendere le redini della situazione e di vestire tutti, scegliendo una palette che per miracolo o abilità si adatta perfettamente anche alla location del matrimonio, una villa immersa nella natura con un tori rosso come arco nuziale e il dolce sciabordio di un ruscello come marcia.
È proprio sotto al tori che Saginuma aspetta la sposa con indosso un tradizionale hakama grigio scuro che continua a toccare e sistemare in preda all’agitazione finché la sposa non compare finalmente all’orizzonte, e allora lui si paralizza di colpo, senza fiato. Perché Hitomiko è meravigliosa. Indossa un tradizionale shiromuku con ampie maniche e labbra di tessuto che si dipanano ai suoi piedi mentre avanza, la mano poggiata delicatamente su quella di Hiroto, che rispetto a loro ha un completo moderno, di certo più comodo per accompagnare la sorella nel gran giorno. Quando arrivano al tori, accanto a Saginuma, Hitomiko guarda Hiroto con gratitudine e gli stringe la mano per un attimo prima di lasciarla e prendere quella dello sposo. Hanno tutti e tre un’espressione di tale felicità in volto che gli occhi mi si riempiono di lacrime. Hiromu, alla mia sinistra, mi passa un fazzoletto mentre permette con immensa pazienza a Maki di asciugarsi sulla sua camicia; dall’altro lato Reina è visibilmente impegnata a confortare Kimiko, che è scoppiata in lacrime appena hanno visto arrivare Hitomiko in abito da sposa, e anche Ryuichirou, che pare essere molto sensibile a questo tipo di cerimonie (o forse è solo sopraffatto dall’emozione nel vedere Saginuma sposarsi).
La cerimonia è breve e intima, e per questo scava facilmente un posto nei nostri ricordi; non c’è modo di dimenticare questa giornata. Dopo aver sorseggiato il sake e scambiato gli anelli, Hitomiko spezza l’atmosfera seria con una sorpresa: sorride a tutti, solleva il tondeggiante bouquet di crisantemi e lo lancia come si fa nei matrimoni occidentali. L’aria si riempie di grida sorprese e risate mentre tutti alzano la testa per seguire la traiettoria del bouquet. Per un momento sembra restare sospeso nell’azzurro del cielo come una colomba, con i nastri rossi a fargli da ali; poi comincia a scendere, inevitabilmente, e con una perfetta parabola trova casa tra le braccia di Reina. Lei lo fissa incredula, poi diventa paonazza e ci si nasconde dietro. Anche Ryuuichirou, che è seduto nelle prime file come testimone di Saginuma, avvampa vistosamente tra le strilla e le risate generali, ed è un momento assolutamente perfetto.
Poco dopo, gli sposi si cambiano e tutti ci spostiamo in un’altra parte del giardino, sotto un gazebo dove è stato allestito il buffet con pietanze che sembrano infinite e una torta di crema a tre piani che Hitomiko e Saginuma tagliano insieme. I piatti si riempiono di dolci, i calici di uno spumante dorato che sembra sole liquido. Al margine del gazebo c’è un palco di legno bruno alto un paio di gradini, e Hiroto è il primo a salirci subito dopo il taglio della torta.
-Vorrei dire qualcosa- esclama. Non ha un microfono, eppure la sua voce è chiara, cristallina, e attorno a lui ogni rumore si spegne. Ci voltiamo tutti verso di lui, in attesa.
Hiroto sorride timidamente, si schiarisce la gola prima di prendere di nuovo la parola.
-Mi sono chiesto spesso cosa significasse la parola famiglia- comincia.
-Ricordo bene il mio primo giorno di scuola dopo essere diventato un Kira. Ero nervoso, e mi sentivo diverso dagli altri bambini. Mi sentivo fuori posto guardando le mamme e i papà venire a prendere i miei compagni… Ma poi ho visto Hitomiko- dice, le sorride. -Era stata lei ad accompagnarmi e sempre lei venne a prendermi. Mi prese la mano e mi chiese com’era andato il primo giorno, e ricordo di essermi sentito subito al sicuro. Fin dall’inizio mia sorella mi ha sempre protetto in questo modo e ha continuato a farlo per tutti questi anni. E anche senza legami di sangue, da quel giorno non ho mai, mai dubitato del suo amore per me.
Hiroto si ferma e resta in silenzio per un momento, come se volesse assaporare quel ricordo ancora un attimo prima di passare oltre. Nessuno dice una parola e, quando mi guardo attorno, vedo che non sono il solo con gli occhi lucidi. Hitomiko ha cominciato a piangere e sembra resistere a stento alla tentazione di asciugarsi il viso e rovinare il trucco; Saginuma le stringe la mano, con le dita intrecciate alle sue, gli anelli che si toccano.
Hiroto si schiarisce la gola, anche lui ha gli occhi umidi.
-Tutte le famiglie hanno bisogno di qualche piccolo aggiustamento per funzionare, e mia sorella è stata la persona che ha tenuto insieme la mia. Mi ha insegnato che l’amore non è qualcosa che dobbiamo meritarci, ma qualcosa che si sceglie- continua.
-Sono molto felice di vederla oggi con la persona che ha scelto. Non posso che farvi le congratulazioni e pregare per la vostra felicità. Quindi, per concludere, vorrei fare un brindisi a mia sorella Hitomiko e a Saginuma-san.
Quando Hiroto alza il calice, sul volto di Hitomiko compare un sorriso, mentre i suoi occhi brillano di affetto, orgoglio e gratitudine. Senza esitare mi alzo in piedi e sollevo il calice, seguendo la guida di Hiroto.
-A Hitomiko-san e Saginuma-san!- grido, e subito dopo di me molti altri dicono le stesse parole,  finché le voci non si mescolano e confondono in un allegro brusio. Ma tra tutti Hiroto cerca il mio sguardo e, quando scende dal palco, mi offre la mano con un sorriso innocente e luminoso.
-Balliamo?- mi chiede.
Lo guardo sorpreso e, automaticamente, penso alla prima volta in cui abbiamo ballato insieme, a quella festa di tanti anni fa. Scruto l’espressione di Hiroto e dal modo in cui i suoi occhi si illuminano capisco che stiamo ricordando la stessa cosa.
Rido e gli prendo la mano; non c’è bisogno neanche di pensarci.


 
 *
 
Dopo una lunga, fiaccante ricerca durata mesi, durante i quali abbiamo visitato case su case, alla fine abbiamo trovato ciò che cercavamo in un piccolo appartamento al primo piano di un complesso. Non è molto grande. Non è neanche perfetto. Tra la cucina e la sala da pranzo c’è solo un bancone separatore, come a casa dei Kazemaru; abbiamo anche una sola camera da letto e due bagni, uno così piccolo che sembra uno sgabuzzino. Ma la grandezza della casa non ci preoccupa. L’abbiamo scelta perché è luminosa, e perché dalla finestra della cucina si vedono i rami di un ciliegio. Adesso non è più in fioritura da un pezzo, ma penso proprio che mi piacerà vedere i fiori a prima mattina, quando la primavera tornerà.
A far innamorare me è stato il ciliegio, ma Hiroto dice che per lui è stato un amore a seconda vista, dopo la prima notte che ci abbiamo trascorso: la mattina dopo, quando ha aperto la finestra della cucina, il sole ha inondato la stanza come l’alta marea, e lui si è sentito avvolgere da un tocco caldo e carezzevole. Per questo, anche se inizialmente il piano era di tenere il posto in affitto mentre cercavamo altro, abbiamo chiamato subito la proprietaria e l’abbiamo pregata di vendercelo; non ci sono state obiezioni, e ora questa è casa nostra.
Lentamente, sta già cominciando a cambiare.
Con l’aiuto dei nostri amici abbiamo già cominciato a montare dei mobili e a riempirla di libri, piante, regali di ogni tipo. Le pareti, che abbiamo trovato bianche all’arrivo, ora sono di un verde pastello delicato e liquido come gli occhi di Hiroto; a parte il nuovo colore sono ancora immacolate, non ci abbiamo ancora appeso nulla, ma io so con certezza che voglio riempirle di foto. Né io né Hiroto possediamo foto di famiglia, perciò ho deciso che la nostra casa sarà piena di fotografie nostre, dei nostri amici, della nostra famiglia di adesso e di domani. La galleria del mio smartphone si è riempita di foto in un lampo da quando sono tornato. Non voglio perdermi nemmeno un istante della mia nuova vita, ed è per inaugurarla che oggi abbiamo invitato qui i nostri amici, anche se lo spazio è poco e in camera da letto c’è ancora una pila di scatoloni da aprire e svuotare.
Proprio in questo momento sto considerando lo spazio sopra al divano, cercando di capire a occhio quante cornici c’entrano, quando qualcuno alle mie spalle mi chiama.
-Midorikawa, queste dove le metto?
Mi giro e vedo Kazemaru con due ciotole da riso, una per mano. Sono oggetti molto semplici, bianche con disegnate delle linee ondulate blu sopra. Mi fanno venire in mente che non abbiamo ancora preso i set di bacchette, o le ciotoline per le salse, e tantomeno le pentole, se per questo. Però abbiamo la vaporiera per il riso e le ciotole adatte. Grazie a Dio per il riso.
-Nel mobiletto a vetri sopra i banconi- dico, indicando l’angolo cucina con un vago gesto della mano, poi mi volto verso Endou e Suzuno, che stanno montando quella che sarà la libreria.
-Come va lì?
-Se questo è il bullone 5, bene- mi risponde Endou, mostrando il bullone argentato che tiene tra due dita della mano destra. Suzuno intanto fissa le istruzioni con la fronte aggrottata. 
-No, credo che quello sia il 2.
-Oh. Allora non bene.
Mi viene da ridere, ma cerco di trattenermi per non urtare accidentalmente la sensibilità di Suzuno. Con il tempo è diventato meno ombroso, ma più irritabile; devo dire che lo preferisco così. Accanto a me, Kazemaru scuote il capo a labbra strette. Purtroppo i nostri sforzi per non scoppiare a ridere vengono vanificati da Nagumo, che si mette a gridare dall’altro capo della stanza.
-Ah-ha! Suzuno, stai perdendo!- esclama con fare tronfio. -Non era questo l’accordo, ma se proprio sei in difficoltà, non sono del tutto contrario all’idea di darti una mano! Ahahah!
-È il modo più indiretto di offrire aiuto che abbia mai sentito- dico, perplesso, inarcando le sopracciglia. -E poi, cosa starebbe perdendo, di preciso?
Nagumo ghigna, già gongolando per una vittoria che sente in tasca.
-Chi finisce per ultimo l’ordine assegnato deve offrire la cena-. La sua spiegazione mi fa alzare gli occhi al cielo, ma non riesco a trattenere un sorriso divertito.
-Avete trasformato l’arredamento della casa in una competizione?- chiede Kazemaru in tono esasperato, ma in qualche modo non sembra stupito. Sinceramente, non lo sono neppure io. È da quando sono tornato che li osservo e sono arrivato alla conclusione che competere su tutto sia il loro modo di flirtare, anche se Hiroto giura che nessuno sa esattamente quando abbiano iniziato a uscire assieme, o a essere… insomma, qualsiasi cosa siano ora.
Purtroppo per Nagumo, Suzuno ha da tempo affinato la capacità di ignorare apertamente tutto ciò che non lo aggrada, proprio come sta facendo in questo momento, mentre con il naso sepolto nelle istruzioni finge di non aver sentito una sola delle parole uscite dalla bocca dell’altro. E a Nagumo questo non piace.
-Ehi Suzuno, mi stai ascoltando?!
-No- risponde laconico Suzuno, senza alzare lo sguardo dalle istruzioni. Indignato, Nagumo apre la bocca per replicare, ma decido di anticiparlo per evitare che il bisticcio degeneri.
-Beh, tu come te la stai cavando, Nagumo? Hai bisogno di una mano?
-Ah! Con chi credi di parlare? Ho lavorato in archivio per una vita, sono un mago a organizzare le carte. Anche se ovviamente i miei talenti sono sprecati così!- mi risponde, nella sua voce è tornata la sfumatura orgogliosa e tronfia di poco fa. Sorrido senza commentare, sollevato dal fatto che si sia distratto da Suzuno, e volgo lo sguardo alla mensola sulla quale sono allineati ordinatamente almeno una ventina di numeri di una rivista di viaggi che Hiroto ha cominciato a collezionare mentre ero via. Devo ammettere che Nagumo sta facendo davvero un ottimo lavoro.
Kazemaru, intanto, pare ricordarsi che ha ancora in mano le ciotole di riso e va al mobiletto indicato per metterle a posto; nel farlo i suoi occhi cadono sul calendario appeso alla parete, e non ho nemmeno bisogno di guardare per sapere cosa sta fissando.
Tra le caselle di settembre ce n’è una cerchiata di rosso: il mio compleanno.
 
Il primo compleanno che io ricordi l’ho festeggiato il giorno in cui è nato Kazemaru.
Erano passati diversi mesi da quando i Kazemaru mi avevano preso con loro, ma io continuavo a sentirmi a disagio. Ogni cosa mi ricordava che non ero uno di loro; per questo, quando è arrivato il giorno del compleanno di Kazemaru, l’ho odiato con tutto me stesso. La torta di panna a centro tavola sembrava uno scherzo di cattivo gusto. Mentre la fissavo divorato dalla gelosia, però, Mamma ha acceso le candeline e Kazemaru si è girato entusiasta verso di me e mi ha detto “Prima tu!” con una risata, come se fosse naturale che anche io festeggiassi insieme a lui. Ero così scosso che invece di spegnere le candeline sono scoppiato a piangere. Da quel giorno abbiamo festeggiato insieme tutti gli anni, finché non ci siamo separati.
È stato solo quando ho ritrovato mia madre che ho scoperto la vera data del mio compleanno; è stata lei a confermarmi che sono nato lo stesso anno di Hiroto e Kazemaru – l’anno del Gallo – il che è stato un gran sollievo. Al nostro ritorno finalmente ho potuto dirlo anche al resto della famiglia, ma siccome sarebbe stato un peccato non festeggiare più insieme, Kazemaru ha deciso una data intermedia tra me e lui per continuare la tradizione.
Così io, che un tempo non avevo un compleanno, ora mi sento come se ne avessi tre: quello che Kazemaru ha condiviso con me, quello che festeggiamo con la famiglia, e la data in cui sono nato e che sarà qui tra qualche giorno.
 
-Allora, tu e Hiroto fate qualcosa per il tuo compleanno?- mi chiede Kazemaru, riscuotendomi dai miei pensieri. Quando alzo la testa, vedo che ha messo a posto le ciotole e ora mi sta guardando con curiosità, comodamente appoggiato al bancone dietro di lui.
Sorrido e annuisco.
-Sì, ma non so ancora cosa. Hiroto ha detto che è una sorpresa.
-Davvero? Non pensavo che Hiroto fosse il tipo da sorprese!
-No, infatti non lo è- dico con una risata. Una cosa che ho scoperto di recente, infatti, è che Hiroto non sa fare le sorprese: si agita troppo, gli si legge negli occhi che è felice. Perciò preferisce uscire allo scoperto e dirmi che ha una sorpresa; le sue sono sorprese annunciate, ma non per questo mi fanno battere meno il cuore.
-Beh, che tipo di sorpresa pensi che sia?- incalza Kazemaru, così continuiamo a chiacchierare, cercando di ipotizzare di cosa potrebbe trattarsi e tirando fuori le cose più assurde, ridendo e scherzando finché non sentiamo suonare il campanello.
Mi raddrizzo, attraverso il piccolo soggiorno scavalcando i pezzi della libreria e vado ad aprire la porta. Ho un buon presentimento. Ancora prima di vedere chi è, percepisco un’ondata di eccitazione, frizzante come aranciata fresca, con lampi di allegria e impazienza; due secondi dopo mi trovo davanti Maki con un vestito di tulle rosse che la avvolgono come petali di un tulipano. 
-Ehilà, Mido-chan! Siamo venute a far festa!- mi fa con un sorriso raggiante, e dietro di lei Reina le dà un leggero buffetto sulla testa con aria rassegnata.
-Fingi almeno di essere venuta a dare una mano, Maki...- Reina sospira, poi mi sorride. -Possiamo entrare? Abbiamo portato qualcosa da bere-. Col capo accenna alla busta di tessuto che porta appesa a una spalla, da cui spunta fuori il collo di una bottiglia di Coca-cola.
Mi sposto per farle passare e prendo le buste che Maki ha in mano mentre andiamo in soggiorno. Mentre io e Reina mettiamo a posto quante più bevande possibili nel frigo, Maki spalanca la finestra della cucina e ammira con entusiasmo il parco sottostante.
-Ehi ragazze, gli altri?- chiede Endou da terra.
-Gouenji e Kidou ci raggiungono tra poco con i ragazzi. I Fubuki sono andati a comprare da mangiare. Atsuya ha una sfortuna incredibile con i sorteggi!- spiega Maki allegramente.
-Avete visto Hiroto?- chiedo, fingendo nonchalance. Maki e Reina mi sorridono in un modo che lascia intendere che non inganno nessuno, quindi prendo un’altra bottiglia così da avere una scusa per nascondermi dietro la porta del frigo.
-Mi dispiace, non l’ho visto. - risponde Reina, e Maki aggiunge con un sorrisone:- Ooooh, penso che ti stia preparando una sorpresa per il compleanno!
Vorrei dirle che lo so già, ma non è facile interrompere Maki quando è eccitata per qualcosa, perciò il flusso di parole rimane ininterrotto. Intanto, svariate cose accadono in rapida successione: Suzuno ha l’illuminazione per montare la libreria e, in quattro e quattr’otto sotto lo sguardo esterrefatto di Endou e Nagumo, completa l’opera battendo Nagumo all’ultimo; la porta suona di nuovo; e mentre accolgo in casa Kidou, Gouenji, i nostri kouhai e i Fubuki carichi di roba da mangiare, sento il rumore di una macchina proprio sotto i palazzo. Senza riflettere, mi faccio largo tra gli ospiti, mi affaccio alla balconata e guardo giù, sulla strada, dove una familiare monovolume sta facendo inversione per parcheggiare dritta. Il momento dopo, mi sto già precipitando per le scale; il cuore martella come un tamburo nel petto anche se in fondo non ci vediamo solo da poche ore.
-Hiroto!
Hiroto, che sta scendendo dal posto passeggeri, si gira e guarda dritto verso di me; poi, senza un attimo d’esitazione, apre le braccia in un invito che non rifiuterei mai. Correndo, mi lancio tra le sue braccia e lo stringo in un abbraccio fortissimo.
-Bentornato a casa!
Sento la sua risata cristallina all’orecchio.
-Sono a casa, Ryuuji.
Casa, mi piace questo suono. Mi piace tantissimo.
 
Con il ritorno di Hiroto finalmente la festa può cominciare, così stappiamo le bevande, apriamo sacchetti di patatine e altre stuzzicherie e alziamo il volume della musica. Per fortuna c’è solo un altro appartamento in questo complesso oltre al nostro e al momento è vuoto, perciò non dobbiamo preoccuparci di dare fastidio a vicini innocenti.
Tra una canzone e l’altra, osservo le persone nella stanza, cercando di catturare le loro emozioni e imprimere quei volti gioiosi nella mia mente; così vedo Maki e Reina ballare insieme, ridendo e appoggiandosi l'una all’altra, mentre dall’altra parte della stanza Gouenji parla con i Fubuki e, anche se tempo fa sarebbe apparso come uno strano terzetto, ora condividono la familiarità che viene dal vivere assieme quotidiano: Shirou sorride in modo rilassato e genuino, e persino Atsuya sembra tranquillo, per una volta. Intanto, Taiyou cerca di convincere Kyosuke e Takuto a unirsi a lui e ballare in mezzo agli adulti, e persino Ranmaru e Masaki hanno smesso di bisticciare per il momento; sembrano tutti molto meno nervosi del solito, come se la trepidazione del momento influenzasse anche loro. Scorgo Nagumo e Suzuno appoggiati alla libreria appena costruita, un po’ troppo vicini per una normale conversazione; a uno sguardo più attento mi accorgo che le loro mani sono intrecciate e che Suzuno ha la testa poggiata contro la sua spalla, e non c’è bisogno di usare l’empatia per sapere quale sentimento li lega.
Poi a un tratto la musica scema, e al centro della stanza Kazemaru leva in aria un bicchiere colmo di birra fino all’orlo, fa cadere delle gocce ma non sembra importargli.
-A Hiroto e Ryuuji!- grida, e tutti corrono a riempirsi i bicchieri per brindare, gli adulti di birra e i minorenni di succo di frutta o tè oolong. Sorridono tutti mentre ripetono le parole di Kazemaru, perché la felicità è contagiosa, e ognuno di noi sembra percepire quanto preziosi siano questi attimi che non torneranno più: questo preciso momento è solo qui e ora. Ma la felicità può sempre essere trovata, e se restiamo insieme potremo vivere momenti altrettanto belli e ripetere gli auguri quante volte vogliamo.
Possiamo essere felici, molto, molto più di oggi.
 
 
*
 
Quando scende la sera, quando cibo e bevande finiscono e gli altri tornano alle loro case portando via sacchi pieni di bicchieri e piattini di plastica... insomma quando siamo soli e non prima, Hiroto decide che è arrivato il momento di sorprendermi. E siccome mancano ancora tre giorni al mio compleanno, la sorpresa riesce alla perfezione anche se mi era stata annunciata.
Ci sediamo sul divano a un soffio di stanza, e subito Hiroto mi tira a sé, una mano sul mio fianco e dita dell’altra intrecciate alle mie. Stiamo fronte a fronte per un momento, poi lui inclina la testa e preme le labbra contro le mie. I miei sentimenti per lui sbocciano come un fuoco d’artificio al centro del petto, e mi sento andare a fuoco, come se il bacio fosse stato la miccia. Quando ci stacchiamo vorrei inseguirlo, ma cerco di contenermi; dallo sguardo di Hiroto, così innocente ed emozionato, capisco che è meglio aspettare, che sta per accadere qualcosa d’importante.
-Ho qualcosa da darti- mormora, infatti, con un fremito nella voce. 
Annuisco, senza fiato, e lo guardo con disperata impazienza mentre Hiroto ritrova la sua borsa e tira fuori alcune cose: un pacchetto elegantemente confezionato, una busta da lettere, e un cofanetto di velluto grande quanto il palmo della mia mano.
-Tre regali- dice in un sussurro -per tre compleanni.
Intrigato e confuso, li guardo uno a uno, mordendomi le labbra. Non so cosa aprire prima, così Hiroto mi toglie dall’imbarazzo offrendomi il pacchetto. Lo prendo tra le mani con delicatezza, quasi per paura di romperlo, di rovinare la magia; ho un attimo di esitazione, poi prendo un respiro profondo e finalmente mi decido ad aprirlo. Basta una sola tirata per sciogliere il nastro, e la carta si disfa quasi da sé, rivelando il contenuto.
È una targa rettangolare, di legno. La soppeso tra le mani, la giro e faccio scorrere un dito sull’incisione, seguendo i contorni delle lettere e mimando con le labbra ciò che leggo, incantato; i nostri cognomi sono uniti da una lineetta nel mezzo. 
-Possiamo appenderla fuori alla porta- propone Hiroto.
Riesco solo ad annuire perché ho già un nodo alla gola, ma Hiroto non mi mette fretta. Solo quando riesco ad alzare lo sguardo, prende il secondo regalo e me lo porge in silenzio.
Apro la busta con impazienza e dentro trovo due biglietti per un parco divertimenti. Alzo gli occhi di scatto, colpito da un pensiero.
-La ruota panoramica- sussurro. -Non l’hai dimenticato...
Hiroto scuote leggermente il capo. La luce del sole persiste nonostante l’ora, e i raggi che colpiscono questa parte di Tokyo colpiscono Hiroto alle spalle e fanno brillare i capelli rossi come fiamme.
-Certo che no. Te l’ho promesso, ricordi? Se non ti senti pronto, possiamo fare altre cose. Ma se vuoi salirci, io sarò al tuo fianco per tutto il tempo. Che ne pensi, Ryuuji? Ti senti pronto?
Annuisco e, mentre comincio a sentire il calore delle lacrime inumidirmi gli occhi, tendo la mano avanti per stringerlo in un abbraccio. Hiroto mi attira a sé in modo del tutto naturale, e non c’è bisogno di fare aggiustamenti, né di parlare. Ci troviamo subito, come pezzi di un puzzle.
Hiroto mi lascia piangere silenziosamente nella sua spalla per tutto il tempo che mi serve a ricompormi, o meglio, finché non mi torna in mente che c’è ancora un regalo da aprire. Una parte di me pensa che quello si può rimandare a dopo, che dovrei baciare Hiroto qui e adesso, ma un’altra parte è irresistibilmente curiosa, così cedo. Mi basta fare un cenno perché Hiroto capisca e sciolga l’abbraccio, rimanendo però vicino per asciugarmi le lacrime con la sua mano. Lo lascio fare, poi i miei occhi si posano sullo scatolino di velluto come magneticamente attratti e in quello stesso istante sento un click nel mio cervello.
So cos’è. Ovviamente so cos’è, ma allo stesso tempo non riesco a crederci.
Hiroto non mi dà lo scatolino. È lui invece ad aprirlo e tirarne fuori il contenuto con delicatezza; poi mi prende la mano, la bacia con adorazione, copre di baci piccoli e leggeri le nocche e le dita. Qualcosa di freddo scivola lungo una delle mie dita. Tutto il mio corpo trema, il cuore inizia a dibattersi disperatamente nel petto. Respirando piano, abbasso lo sguardo sulla mia mano e guardo l’anello bianco e sottile al mio anulare baluginare nella luce morente della stanza.
-Sono così grato e felice che tu sia nato- mormora Hiroto con un sorriso timido, poi mi prende la mano e bacia il dorso, ancora e ancora.
-Grazie di esserti innamorato di me – un bacio – Grazie di avermi dato coraggio – un bacio – Grazie di essere tornato a casa – pausa.
-Ryuuji… vuoi passare con me il resto della vita?
Le lacrime cominciano a cadere senza che io possa o voglia fermarle.
Non posso più trattenermi. Lo stringo forte a me, in un abbraccio che annulla ogni vuoto; poi lo bacio premendo le labbra forte contro le sue, e quando non è più sufficiente premo la lingua contro la sua. Percepisco il sussulto nel suo respiro e il modo in cui la sua voce si spezza, così dolce e innocente; e quando non basta più nemmeno questo, disegno una linea di baci dal mento all’orecchio e gli sussurro di portarmi a letto, subito.
Non importa che la camera sia un completo disastro, che dobbiamo scavalcare gli scatoloni e quasi inciampiamo nelle lenzuola del letto che non abbiamo avuto il tempo di rifare. Non importa neanche che ci sia ancora la luce del giorno, perché tutto quello che voglio è spingerlo giù e baciarlo ancora. Hiroto mi guarda con occhi scuri, appena socchiusi, mentre le sue mani scivolano sui miei fianchi e poi sotto la maglia, la arrotolano con cura fino alle scapole perché le sue dita possano scorrere sulla pelle nuda indisturbate, tracciando linee invisibili sulle mie cicatrici. Lo hanno chiamato tocco mortale, ma io so la verità. So quanto calde e forti sono queste mani, quanto sono affidabili e gentili. Le sue mani che mi hanno sempre protetto. Il modo in cui mi tocca – delicato e voglioso allo stesso tempo, come se mi stesse dicendo che non può fare a meno di me – mi fa tremare fin nel profondo. Dove lui mi tocca, le cicatrici scompaiono e al loro posto fiorisce l’amore, ancora e ancora.
 

 
 *
 
Mentre dormivamo la pioggia ha iniziato a cadere, lenta e silenziosa come se non volesse disturbarci. Mi sveglio comunque quando la stanza comincia a riscaldarsi dopo le prime ore del mattino, e per un momento resto steso sul fianco, con il braccio di Hiroto sotto la guancia a farmi da cuscino, a osservare la costellazione di ombre sul pavimento grigio. I vetri della finestra sono fradici e in tutta la casa penetra il sommerso sciabordio dell’acqua.
Dopo qualche minuto, mi tiro su e mi districo con delicatezza dall’abbraccio di Hiroto, poi scivolo fuori dal letto e vado alla finestra a piedi scalzi. Mi avvicino fino a poter premere il palmo della mano contro il vetro e per un momento rimango così, immobile, più concentrato su quello che accade dentro di me che fuori.
È una sorpresa accorgermi che l’ansia legata alla pioggia è sparita, e che invece a pervadermi in questo momento è il senso di pace e sicurezza che accompagna la scoperta di un rifugio sicuro, o l’arrivo a casa. Riuscirò anche a salire sulla ruota panoramica, adesso ne sono certo; non avrò paura. Il debole riflesso del mio viso nel vetro mi restituisce il sorriso.
Assorto nei pensieri, non mi accorgo dei secondi che passano. Ho lasciato il cellulare spento sul comodino, senza guardare l’ora, ed è solo quando sento un fruscio alle mie spalle che mi riscuoto e distolgo lo sguardo dal vetro.
Hiroto mi fissa con occhi adoranti, steso sulla pancia con una guancia premuta nel cuscino. Non posso fare a meno di lasciar scivolare lo sguardo sulla sua figura semi-distesa, sulla schiena nuda e la linea della colonna vertebrale che s’interrompe al confine con l’inizio del lenzuolo ancora intrecciato alle sue gambe. È bellissimo anche con i capelli spettinati dal sonno, sparati in tutte le direzioni: durante la notte sembrano essere esplosi.
-Cosa guardi?- mi chiede a bassa voce, come per paura di interrompere qualcosa.
-La pioggia- rispondo, con la stessa tenerezza che lui mi riserva.
A quel punto, Hiroto sguscia fuori dal nostro nido, si infila i pantaloni del pigiama e mi raggiunge, a piedi scalzi e senza la maglia. Mi chiedo se non abbia freddo, ma prima che io possa esprimere questa preoccupazione lui mi avvolge da dietro con le braccia e, sentendo il calore del suo corpo contro il mio, mi dico che no, non fa freddo per niente. Restiamo per un po’ in silenzio, a fissare le gocce di pioggia che picchiettano contro la finestra; poi mi giro nell’abbraccio e, circondando la sua vita con le braccia, appoggio la testa contro la sua spalla e sospiro. Hiroto è un po’ più basso di me, questa posizione è perfetta. Sbircio la sua espressione, curioso, e mi rassicuro trovando nei suoi occhi la stessa serenità che provo anche io. Da quel giorno di tanti anni fa, non ho mai più sentito le emozioni di Hiroto con la mia empatia, ma ci ho fatto l’abitudine e, alla fine, non ci ho pensato quasi più: non ce n’era il bisogno. È come se a un certo punto il mio suono avesse incontrato il suo a metà strada, e da quel momento siamo sempre stati accordati sulla stessa chiave. Le emozioni delle persone, in fondo, sono come suoni che devi imparare ad ascoltare, e io negli anni ho fatto molta pratica.
 
Sarò felice? Saremo felici? Cos’è la felicità?
Mi sono fatto queste domande tante volte. Penso che non esista nessuno al mondo che non se le faccia. Ognuno di noi è alla costante ricerca di una risposta. Non abbiamo fatto sempre la strada più facile, o quella più breve, e spesso siamo finiti in vicoli ciechi. Abbiamo fatto scelte sbagliate, preso svolte impreviste. Ma anche se la strada percorsa è stata più lunga di quel che ci aspettavamo, va bene così; più della soluzione facile, mi attira ciò che ho trovato lungo la via e che ho messo in tasca, per poi ritrovarlo alla fine del viaggio: i sentimenti preziosi che gli altri hanno condiviso con me, le parole che mi hanno detto. Porterò tutto questo con me nel prossimo viaggio, ma non ho fretta di partire, perché ho già trovato una risposta.
Ci sono voluti dieci anni per scoprire che sono poche le cose davvero necessarie alla mia felicità: gli amici che sono stati al mio fianco tra alti e bassi; la mia famiglia, che è cambiata così tanto e ora è formata da due mamme, un papà, un fratello, un marito; e infine questa casa, la targa con i nostri nomi intrecciati per sempre e i nostri anelli.
Forse non è la risposta perfetta, e forse cambierà negli anni, ma finché il mio cuore sarà al posto giusto sono certo che saprò trovare ancora la felicità. In fin dei conti, io sono una persona fortunata: c’è voluto del tempo, ma ora lo so. Perché sono stato amato da tante persone nel corso della mia vita, e soprattutto ho amato. E non c’è niente che dia più coraggio di questo.
 
 
 *
 
Dai piedi delle scale si sente qualcuno litigare. Di nuovo.
Mi fermo un attimo con la mano sulla ringhiera delle scale. Alle mie spalle, Takuto sta suonando il pianoforte con aria di apparente calma, mentre Kyosuke legge una rivista di calcio su un divano, con le gambe accavallate. Mi chiedo se abbiano sviluppato la capacità di estraniarsi perché sono abituati a tutto quel rumore, o se l’hanno sempre avuta; in ogni caso, gliela invidio. Ma io sono l’adulto, qui. Con un sospiro mi convinco e salgo al piano di sopra, già sapendo cosa troverò.
La camera di Ranmaru e Masaki è aperta e inondata dalla luce del mattino. Do una rapida occhiata al suo interno. La prima cosa che noto sono i capelli di Ranmaru: sono molto più ruvidi e mossi del solito, quasi aggrovigliati, come una matassa di lana. Ho la sensazione che sia tutto qui il nodo della vicenda, che lo stato dei capelli di Ranmaru c’entri con il motivo della disputa e che sia colpa di Masaki. È quasi sempre colpa di Masaki. Sembra che non riesca proprio a lasciarlo in pace.
Facendo un passo verso di loro, sento uno splash sotto le scarpe e scopro che il pavimento è coperto da un sottile velo d’acqua, che brilla sotto i raggi del sole autunnale. Seguendolo con lo sguardo, lo vedo allargarsi a partire da Ranmaru. Come temevo. Deve essere davvero preso dalla discussione per non essersene accorto.
Mi avvicino a Ranmaru e gli metto una mano sulla spalla. Lui sussulta, si volta di scatto e mi guarda sorpreso.
-Ranmaru- dico, in tono serio, -non so quale sia il problema, ma devi restare calmo.
La sua espressione diventa confusa. Allora con un cenno del capo gli indico il pavimento, e Ranmaru spalanca gli occhi e annaspa.
-Hai allagato anche l’altro edificio. Suzuno non è contento- lo informo. In realtà è stato divertente vedere Suzuno scivolare e finire addosso a Nagumo, ma questo è meglio tenerlo per me. Ranmaru mi sembra già abbastanza scosso.
-Oh no!- esclama, dando inavvertitamente un calcio all’acqua e facendola schizzare attorno a sé. -Oh no, oh no, oh no- continuando a imprecare, cerca di richiamare a sé l’acqua, ma senza risultato. Dobbiamo ancora lavorarci.
-Ho cercato di dirtelo prima, senpai- dice Masaki con aria innocente. -Ma tu eri troppo impegnato a urlarmi addosso per ascoltarmi...
Ranmaru si gira verso di lui con un’occhiataccia.
-E di chi sarebbe la colpa, scusa?! Guarda che hai iniziato tu! Come sempre!
-Hai mai pensato che forse sei tu a non avere senso dell’umorismo? 
Sembra che da loro non otterrò molto, per cui mi giro verso Taiyou, l’unico a non essere emotivamente coinvolto.
-Che è successo?- gli chiedo. Taiyou non risponde subito. Notando che sta cercando di non ridere, inarco le sopracciglia in un modo che spero trasudi disapprovazione. Sì, la situazione è circa divertente, ma scoppiare a ridere ora non sarebbe d’aiuto: è ancora troppo presto perché Ranmaru possa riderne con noi. In qualche modo Taiyou capisce cosa voglio dirgli, si morde il labbro inferiore e distoglie lo sguardo da Ranmaru.
-Masaki gli ha infilato dei bigodini tra i capelli mentre dormiva e… questo è il risultato- dice.
Okay, è decisamente più divertente di quanto mi aspettassi. Ma sono l’adulto, mi ripeto.
-Masaki- dico, con il tono più serio e costernato che riesco a fare.
-Era solo un modo per ridere- ribatte lui, e Ranmaru si fa rosso in volto.
-Sì, di me!
-Ma dai senpai, io pensavo di farti un favore! Così somigli a Shindou-san- Masaki fa un mezzo sorriso ironico. -Potrebbe migliorare la tua immagine. Sei come un barboncino, e a chi non piacciono i cani?
-Okay, ne ho abbastanza, io ti…!- A questo punto Ranmaru scatta verso Masaki, senza dubbio con l’intenzione di mettergli le mani addosso, ma lo blocco per il collo della maglia.
-Mai toccare i tuoi compagni, Ranmaru - lo rimbecco.
-Uhm- fa Taiyou a voce bassa, ma lo ignoro per continuare la mia ramanzina.
-La violenza non è ammessa qui. Quindi o ne parlate civilmente, oppure… Oppure fagli uno scherzo anche tu, Ranmaru. Uno scherzo innocuo, per piacere.
-Non può, non ha inventiva- interviene Masaki. Ranmaru lo fissa torvo, e mi giro a guardarlo anche io, più esasperato che altro. Non posso dargli torto: fare la permanente a qualcuno mentre dorme richiede, in effetti, una grande dose di creatività.
-E tu, Masaki, non esagerare troppo con i tuoi scherzi. Devi darti una regolata- dico.
-Uhm- si intromette di nuovo Taiyou, stavolta un po’ più forte.
-Okay, okay, dico solo che non dovrebbe prenderla sempre così male. Hai detto anche tu che gli scherzi innocui vanno bene, no, Midorikawa-san?- replica Masaki.
-Io... no, non ho detto esattamente questo...
-Uhm,- ripete Taiyou, quasi gridando, -scusate, ma un albero sta crescendo proprio ora davanti alla finestra, e non credo sia tanto normale!
Alle sue parole tutti ci voltiamo verso il punto da lui indicato, e finalmente ci accorgiamo dell’immenso fusto che sale sempre più verso il cielo, fino a oscurare completamente la finestra e poi l’intera stanza. Prima che chiunque possa commentare, sentiamo un frastuono provenire dalla strada, e qualche secondo dopo la luce rossa dell’allarme colora il corridoio. Dall’altoparlante sulla parete arriva la voce impaziente di Hiroto.
-Ragazzi, abbiamo un drifter fuori controllo in zona. Hanno richiesto il nostro intervento, vi voglio tutti sul posto.
Basta questo perché il litigio venga subito dimenticato.
Taiyou e Masaki raccolgono le giacche delle divise, Ranmaru si lega i capelli disordinati come meglio può, poi vanno al piano di sotto, dove si riuniscono a Takuto e Kyosuke. Scendo per ultimo. I ragazzi mi aspettano, come in attesa di un mio segnale, e sento un moto di orgoglio verso di loro.
-Su, al lavoro, ragazzi!- esclamo. Anche se la situazione è critica, non riesco a non sorridere.
Al segnale, i ragazzi si muovono disordinatamente verso la porta; non sono ancora in sintonia, ma gli strumenti sono tutti qui, non resta che cominciare. Osservandoli, ripenso a come eravamo noi, spaesati e alla deriva nel mondo, e spero di poter diventare un porto sicuro per questi ragazzi e per quelli che verranno. Il futuro lo facciamo qui e adesso.
Inizia un altro giorno alla Inazuma Agency.
 
 
 
 
fine.


 
**Ultimissimo angolo dell’Autrice**
Voglio cominciare questo angolo con i ringraziamenti:
Grazie a tutti i lettori che sono stati qui dall’inizio alla fine e ai lettori che sono arrivati a metà e sono rimasti.
Grazie a Cami e Ren che mi hanno fatto da beta con santa pazienza per tutta l'ultima parte finale e ancora ascoltano tutti i miei deliri su questa fic.
E grazie a me stessa per averla completata anche se sono chiaramente allergica al completare le cose.
Continuerò ad aggiornare la raccolta di oneshot (ne ho ancora qualcuna in cantiere), ma la storia principale finisce qui. Tutti i viaggi prima o poi devono finire: questo è durato almeno dieci anni e sono contenta di aver tenuto duro tra alti e bassi.
Quando ho cominciato questa fic ero molto immatura, ma anche più coraggiosa di adesso, così mi sono buttata in un progetto senza pianificarlo fino in fondo e sono finita su un percorso molto difficile. Ci sono sicuramente molte cose che cambierei di Spy Eleven oggi, ma in ogni caso sento che questa storia è un pezzo di me e ne sono orgogliosa. Non so bene cosa scriverò da oggi in poi, e se lo farò su EFP o meno, ma grazie di aver seguito Spy Eleven insieme a me.
I personaggi non sono miei né lo saranno mai, ma ho cercato di rappresentarli al meglio, sempre con un occhio di riguardo all’opera originale che amo ora come dieci anni fa. Se leggendo questa fic vi è venuta voglia di (ri)guardare Inazuma Eleven, vi prego, fatelo. Merita davvero tanto.

Con l’augurio che il viaggio che vi siete scelti vi porti alla vostra personale, unica definizione di felicità,
mando un abbraccio a tutti i lettori.
        Roby

 

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