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In dream
"I
don't know what to take,
Thought I was focused but I'm scared.
I'm
not prepared.
I hyperventilate, looking for help somehow
somewhere,
But no one cares.
I'm my own worst enemy."
[Given
Up – Linkin Park]
15
Febbraio, Villa Stark
Si
risvegliò con il mormorio lontano del mare che si infrangeva
sulla
spiaggia. Non aprì ancora gli occhi, cullato da quel suono
familiare. Percepiva la penombra in cui era avvolta la stanza e una
fievole lama di luce che filtrava dall'ampia finestra elettronica
scaldandogli appena il volto. Doveva essere l'alba. Socchiuse gli
occhi, ancora assonnato e senza la minima voglia di alzarsi.
Quell’incubo l’aveva distrutto ed era molto
rassicurante
svegliarsi a casa sua come ogni mattina e non in un qualsiasi letto
d’ospedale.
“Il
mio braccio?”
Era lì. Lo sentiva.
“La gamba?”
Anche la
gamba.
Sospirò:
erano lì. Era tutto come prima.
“E
l’occhio?”
La parte sinistra era ancora buia.
“Ho
una fasciatura: è ovvio che non veda.”
Era
solo un taglio doloroso, ma era ancora in grado di vedere
perfettamente.
Si
tirò su a sedere un po’ indolenzito, girandosi
subito verso la
finestra. Si voltò per alzarsi, a
sinistra – perché
a
sinistra, poi? Scendeva sempre a destra...
“No.
Oggi scendo a sinistra,” si
disse, suonando poco convincente persino a se stesso.
Poggiò
il piede per terra e si alzò senza sforzo; mosse un passo...
ma gli
mancò il secondo appoggio e rovinò a terra di
peso. Parò le mani – la
mano
–avanti, ma urtò comunque la testa dal lato ferito
e fu come se
un petardo gli esplodesse nel cervello. Lanciò un gemito
soffocato
sentendo un bruciore atroce in tutto il corpo e i moncherini che
pulsavano violentemente per l’impatto. La voce elettronica di
JARVIS risuonò nella stanza, spiacevolmente squillante:
«Signor
Stark, è ancora troppo debole per...»
«Muto!»
ordinò
tra i denti, stringendo il pugno fino allo spasmo per non mettersi a
urlare dal dolore.
Percepiva ogni muscolo del suo corpo in tensione, come
sul punto di spezzarsi. La mandibola gli cigolò per quanto
era
contratta. Poggiò la fronte per terra con le lacrime che gli
appannavano la vista, incapace di muoversi.
Rimase
a terra con i muscoli contratti e gli occhi serrati per un tempo che
gli sembrò infinito, finchè il dolore non
iniziò a scemare. Non
scomparve: la sua stretta continuava a torturargli le ferite, ma
divenne sopportabile quel tanto che bastava per permettergli di
formulare un pensiero coerente che non fosse il desiderio di
svenire.
Ora
doveva rialzarsi. Si sentì mancare, tanto che rimase bocconi
qualche
altro minuto prima di osar muovere un dito.
Forse
avrebbe dovuto chiedere aiuto. Era sicuro di non essere solo a casa;
sicuramente c'era qualche infermiere a prendersi cura di lui. Si
trovò a stringere nuovamente il pugno, sentendosi avvampare.
Le
settimane trascorse in ospedale stavano riemergendo dalla sua memoria
annebbiata, scuotendo il suo orgoglio già ferito. Non si
sarebbe
fatto accudire come un bambino anche in casa propria. Fece appello
a tutte le proprie forze e si trascinò penosamente ai piedi
del
letto, facendo leva sul gomito come un soldato che striscia tra il
filo spinato; da lì vi salì con uno sforzo
immane, aggrappandosi
con un braccio solo alle coperte e sentendosi svenire. Un'improvvisa
debolezza lo assalì e fu sul punto di lasciare la presa e
ricadere a
terra, ma con un debole colpo di reni riuscì finalmente a
issarsi
sul letto. Si abbandonò stremato sul materasso,
boccheggiando in
cerca d'aria e percependo un acuto dolore al petto, dove era
incastonato il reattore. Era assolutamente incapace di muoversi
ancora, anche solo per raggiungere il cuscino.
Fu solo allora che la
verità lo colpì come uno schiaffo.
Era stato rassicurante
fingere che non fosse successo nulla. Finché era rimasto in
ospedale
tutto quello che gli era accaduto aveva mantenuto dei contorni
irreali, come di un miraggio che per quanto sembri avvicinarsi rimane
sempre ancorato all'orizzonte. Fingere era stato facile. Bastava
ignorare tutto ciò che accadeva attorno a lui, inclusi gli
sguardi
colmi di preoccupazione di Pepper. Aveva
finto fino ad allora, cosciente o meno, ma non poteva negare
ciò che
era successo: aveva perso un braccio, una gamba e un occhio. Se lo
ripeté mentalmente più volte e quelle parole, da
spaventose e
ineluttabili, sembrarono perdere pian piano di senso, come una
filastrocca recitata troppe volte fino a diventare una semplice
sequenza di suoni privi di significato. La sua mente si stava
chiudendo a riccio, respingendo i concetti nascosti dietro a quel
mantra monocorde. Li respingeva con violenza, negando, e negando
ancora; e mentre la vera proporzione di ciò che gli era
accaduto
continuava a sfuggirgli, altre riflessioni si facevano largo tra le
fitte di dolore.
Forse quella era la punizione per aver stroncato
tanto vite nel corso della propria: quante persone erano rimaste
mutilate, o peggio, a causa sua? Portò d'istinto la mano al
reattore, avvertendone il lieve ronzio.
Allora non era quella, la sua
punizione. Doveva aver sbagliato qualcos'altro anche quando pensava
di aver finalmente imboccato la strada giusta. Forse si era solo
voluto convincere di ciò.
Ma adesso? Non doveva sprecare la sua
vita, ma come avrebbe potuto anche solo pensare di viverla
in quelle condizioni?
Quei pensieri non fecero che acuire la sua
disperazione. Non voleva rinunciare all'unica cosa che avesse dato un
senso alla sua esistenza futile. Non voleva abbandonare la sua nuova
immagine di ferro.
Rimase a fissare il soffitto, una mano ancora sul reattore, e
gli sembrò che le ombre che si allungavano pian piano col
sorgere
del sole scorressero come un diorama, proiettandogli ciò che
avrebbe
dovuto affrontare da allora in poi. Probabilmente non sarebbe
più
stato neanche in grado di camminare. Non avrebbe più potuto
lavorare
senza sosta in laboratorio, con un braccio solo. Non sarebbe riuscito
a guidare le macchine d'epoca che amava tanto. La sua fama di
dongiovanni sarebbe diventata una macchietta risibile, così
mutilato
e sfigurato. Non riusciva neanche a immaginarsi di indossare
l'armatura, di volare e combattere, di fare l'unica cosa giusta che
sentiva di aver fatto.
Chiuse l'occhio e gli sfuggì un sospiro
tremante di frustrazione.
Che senso aveva sprecare così la sua
vita?
***
Si
riscosse dal dormiveglia, frastornato. Era così sfinito che
si era
addormentato senza accorgersene. Era più calmo adesso, o
forse solo
più rassegnato.
Si
tirò a sedere sul letto, lisciandosi i capelli scompigliati
con
un'espressione ferrea sul volto. Tutto era cambiato. Ma tutto doveva
continuare ad essere come prima.
Era abituato a portare maschere
che non gli appartenevano. L'aveva fatto per anni, così a
lungo che
ormai erano diventate parte di lui. Non sarebbe stato difficile farlo
anche adesso.
Rialzò lo sguardo, incontrando quello del suo
riflesso nello specchio di fronte al letto. Si costrinse a non
distoglierlo.
La benda sull'occhio era una chiazza bianca sul suo
volto, picchiettata di rosso. Gli arti amputati erano bendati
strettamente e spuntavano brutalmente dalla t-shirt e dai
pantaloncini, impossibili da celare. Aveva ancora una loro vaga
percezione, nonostante la sua parte razionale gli dicesse che era
impossibile. Mosse la gamba destra e gli sembrò di sentire
l'articolazione del ginocchio piegarsi, il muscolo che si tendeva, i
legamenti che scivolavano tra le ossa. Il moncherino si
limitò a un
fremito doloroso che lo fece sobbalzare, scacciando
quell'illusione.
Il suo riflesso lo fissava smarrito, e si
chiese se apparisse davvero così indifeso, così spoglio.
La luce del reattore trapelava sotto la maglietta scura, ma non lo
rassicurò.
"Come
faccio a vivere così?"
Avrebbe
dovuto affidarsi totalmente a qualcuno, diventare un peso...
Non
poteva sopportarlo. Si accorse di essere scosso da brividi: la sola
idea della vita che lo attendeva annientava la sua determinazione e
incrinava la maschera che aveva appena deciso di indossare.
Guardò
ancora lo specchio, e vide solo il corpo di un... non sapeva come
definirsi. Un mezzo uomo?
Fu un pugno nello stomaco: lui, sempre
così sicuro di sé e con un ego smisurato, ora
incapace anche di
camminare e descriversi. Non riusciva a ricordare com’era
prima.
Sapeva come sarebbe dovuto apparire, ma non riusciva a cristallizzare
l'immagine, sfuggiva alla sua vista pronta ad essere
dimenticata.
Esitò, colpito da un’idea improvvisa,
un’idea
così poco sensata da accettarla a braccia aperte... si
incupì per
quell’espressione. Mormorò un ordine preciso a
JARVIS, che obbedì
dopo un paio di obiezioni atone. Persino lui si rendeva conto che non
era una buona idea.
L’immagine
riflessa nello specchio cambiò. Il suo gemello gli
restituiva ancora
il suo sguardo disperato, ma con una gamba, un braccio e un occhio in
più, creati da un reticolo olografico proiettato sul suo
corpo. Fece
più male di quel che si sarebbe aspettato; vedersi
così,
normale. Fece
per toccare il braccio virtuale, ma le
dita passarono attraverso la proiezione aumentando l’intenso
senso
di perdita. Cercò la forza di sfuggire a quella forma di
masochismo,
senza però voler realmente sottrarsi a quella tortura.
Vide
un movimento nello specchio dietro di lui e la porta si aprì
con uno
scatto metallico. Pepper fece capolino nella stanza esitante, come
temendo di svegliarlo. Nel vederlo seduto sul letto, avvolto da
quelle proiezioni azzurrine e con lo sguardo fisso davanti a
sé, si
bloccò sulla soglia.
«Signor
Stark?»
Lui
non
rispose, continuando ad ammirare il suo spettacolino autolesionista.
Voleva davvero mostrarsi così debole e incapace di accettare
la
realtà? Era ancora in tempo per annullare l'ordine a JARVIS,
per
dire "basta".
Ma Pepper ormai era entrata e potè vedere
i suoi occhi intristirsi sulla superficie lucida dello specchio.
Abbassò lo sguardo, colpevole e conscio di averla delusa. Non
aveva la minima idea di come avrebbe reagito; sperava che non lo
trattasse come un bambino bisognoso di comprensione. Era una cosa che
non avrebbe sopportato: almeno lei doveva rimanere se stessa, se lui
non ne era in grado.
La sentì avvicinarsi e fermarsi
accanto a lui, scrutando gli arti olografici che tremolavano
leggermente. Tony avrebbe voluto dire qualcosa, tirar fuori una delle
sue osservazioni sarcastiche come aveva ininterrottamente fatto
durante il suo ricovero, ma le parole si persero prima che potesse
pronunciarle.
«JARVIS,
basta così,» ordinò lei al posto
suo.
Gli ologrammi si dissolsero,
scoprendo nuovamente i moncherini.
Tony
rialzò
la testa, incontrando i suoi occhi e notando che erano leggermente
velati, ma si mantenne ferma accanto a lui, senza parlare.
«Il
signor Stark ha attentato alla sua incolumità,»
intervenne a
sproposito JARVIS, rompendo però quel silenzio pesante.
Pepper
si accigliò e guardò interrogativamente Tony.
«Sono
caduto,» mormorò lui, riprendendo una parvenza di
autocontrollo.
«E
quella?» gli indicò qualcosa accanto al letto che
prima gli era
sfuggito.
“Una
sedia a rotelle?”
Un
guizzo di vitalità lo rianimò, riscuotendolo
dallo stato catatonico
in cui era scivolato. Alzò la testa verso Pepper, con
sguardo
gelido.
«Quel
trabiccolo infernale?» lo apostrofò «Io
non ci salgo,» s'impuntò, assumendo la sua solita
espressione da
“neanche per
sogno”, ma con una voce tetra che non gli
apparteneva.
I
cupi pensieri di prima si erano d'un tratto tramutati in una fiera
ostinazione che gli impediva categoricamente di abbassarsi a tanto.
Essere scarrozzato in giro senza la minima libertà era troppo.
«E
come pensa di muoversi?»
Tony
parve pensarci, spiazzato da quella domanda così banale e
dando fondo alla sua
inventiva per trovare una risposta adeguata. Cercò di
smorzare il
suo tono troppo serio per non destare sospetti. Si stampò in
faccia
un'espressione che sperò fosse neutra e si
schiarì la gola prima di
parlare.
«Con...»
l’immagine di se stesso con un solo stivale
dell’armatura gli
attraversò la mente. «Con il mio...»
l’immagine si tramutò in
lui che sbatteva dolorosamente la testa al soffitto. «Come
non
detto.
Un paio di– una
stampella
andrà bene,» sbottò infine.
Pepper lo fissò un momento,
dubbiosa di fronte alla sua improvvisa leggerezza e indecisa se
accontentarlo o meno, ma vinse il suo senso del dovere.
Avvicinò con
un gesto perentorio la carrozzella al letto in modo da permettergli
di scendere, ma Tony continuava a pretendere la sua stampella,
insistendo di "non essere un invalido". Dopo una lunga ed
estenuante discussione Pepper dovette quasi sollevarlo di peso per
farlo sedere sull'"infernale trabiccolo" per accompagnarlo
al bagno.
«Signor
Stark, almeno per i primi tempi dovrebbe
cercare
di
abituarsi.»
«Non
voglio
abituarmi,»
mormorò lui di rimando.
Pepper
non seppe come ribattere; Tony non era mai stato molto collaborativo,
ed era un lato del suo carattere estremamente difficile da
sopportare, ma in quella circostanza era sicuramente
giustificato.
Arrivati in bagno, uno sguardo glaciale da parte sua
le fece capire che, no,
non aveva bisogno di aiuto anche per quello e, no,
anche se ne avesse avuto bisogno, non lo avrebbe chiesto né
accettato. Pepper chiuse la porta alle sue spalle sperando che
riuscisse a destreggiarsi per conto suo senza troppi danni.
Tutta
quella situazione le era assolutamente estranea e non sapeva
assolutamente come interagire con lui. In ospedale le era sembrato il
solito irriverente, sboccato e arrogante Tony Stark. La cosa l'aveva
inizialmente turbata, ma poi aveva voluto accettarla senza porsi
altre domande. Non era sicura di poter gestire anche quell'improvviso
cambiamento. Era peggio, molto peggio di quando era tornato
dall'Afghanistan. Almeno allora si era costruito qualcosa per cui
vivere, ma adesso anche quello era distrutto.
Non era in grado di
prevedere cosa sarebbe successo, ma volle convincersi che non sarebbe
stato peggio di ciò che era già accaduto.
***
«Oggi
ha un paio di visite da fare: tra poco arriverà il dottor
Mitchell.»
«Grandioso,
immagino che passerò la mattinata a sentirmi dire tutto
ciò che non
posso fare.»
«Il
dottor Mitchell è altamente qualificato e troverà
di certo il modo
migliore per...»
Tony
si passò una mano tra i capelli mentre perdeva le parole che
Pepper
pronunciava. Che cosa avrebbe potuto dirgli Mitchell che già
non
sapeva?
“Signor
Stark, si sta riprendendo molto bene...”
scimmiottò
mentalmente.
In
quel momento, disperato com’era, l'addolcire la pillola non
avrebbe
fatto altro che irritarlo ancor di più. Aveva sempre pensato
che
avere un reattore nel petto fosse la cosa peggiore che potesse
capirargli, ma evidentemente si era sbagliato. Questo
era
di gran lunga peggiore.
Si
era sempre reso conto di essere un egocentrico con un'autostima
sproporzionata e lo aveva accettato quasi con orgoglio, tanto per
ribadire il concetto di amor proprio. Il fatto di non essere
più
normale lo metteva in difficoltà, costretto a scontrarsi col
suo corpo e con la sua mente, ed era una guerra persa in partenza. Per
vincerla non poteva far altro che inculcarsi in testa la
realtà, e
nonostante tutto non la capiva.
Non poteva essere altrimenti,
ma una parte di lui doveva per forza accettarla come una nuova legge
a cui non poteva opporsi neanche lui. D'altra parte, seduto su quella
carrozzella, sentiva di non potersi opporre proprio a nulla.
Si
guardò intorno con frustrazione, sentendosi opprimere dalle
mura
della sua stanza nonostante l'ampia parete di vetro affacciata sul
mare.
Era una giornata ventosa, a giudicare dalle foglie delle
palme che si agitavano come fruste nelle folate improvvise, ma il
cielo era terso e luminoso. Avrebbe potuto essere un giorno
qualunque di gennaio, ma non lo era, almeno non per lui.
Tony distolse lo sguardo dal
mondo esterno apparentemente immutato, realizzando che lo faceva solo
sentire più impotente.
Pepper era impegnata a dare un'occhiata
alle sue cartelle mediche, un numero spropositato, prima della
visita. Ne approfittò per sbirciare ancora nello specchio,
ben
sapendo quanto poco saggia fosse quella mossa.
Click.
La stanza
sprofondò di colpo nel buio.
"Cosa?"
Non
vedeva assolutamente nulla.
"Anche
i blackout mentali? No, grazie," sospirò, rassegnato e
inquieto.
Gli
bastavano i disturbi motori, senza aggiungerci pure quelli
psichici.
Lo specchio c'era ancora. Ed era assolutamente certo di
essere ancora seduto sulla sua maledetta sedia a rotelle, ma
il suo riflesso era in
piedi, e sorrideva col suo solito sogghigno beffardo e con tutti gli
arti al posto giusto.
Era un'allucinazione?
Quanti sedativi gli avevano somministrato?
Fece
appena in tempo a focalizzare l'immagine che il suo clone
alzò un
braccio, come in un cenno di saluto. Ammiccò con
complicità e fece un giro
su se stesso, mettendo ben in vista gli arti che dovevano essere
mutilati nel suo corpo reale. Gli si mozzò il respiro in
gola,
mentre imprimeva a fuoco nella mente quell'immagine, in ogni suo
dettaglio. Percepì chiaramente le sue sinapsi,
apparentemente sedate
fino a quel momento, riavviarsi e mettere in moto un treno di pensieri.
Da qualche parte vicino al reattore percepì un'orma di
calore, come scintille che si levano da un
fuoco morente.
La figura fece infine un mezzo inchino, come di un presentatore che
saluta il proprio pubblico, e fu
come risucchiata in un tunnel alle sue spalle. Tony chiuse l'occhio,
sentendo
crescere
uno strano senso di eccitazione del tutto irrazionale che lo investiva
a ondate. Poco ci
mancò che scendesse di corsa dalla sedia a rotelle; la sua
mente
stava lavorando a velocità febbrile.
Solo dopo un po' si accorse
di essere
di nuovo nella sua stanza, con Pepper che lo scuoteva il più
delicatamente possibile per farlo rinvenire da qualunque limbo onirico
l'avesse risucchiato.
«Tony? Tony, la prego, risponda!»
«Pepper!»
gridò, quasi non riconoscendo la propria voce rotta
dall'emozione.
«Mi
ha fatto prendere un colpo!» esplose Pepper, perdendo
definitivamente la propria compostezza «Sembrava svenuto
e...»
«Ascolta!
Ascoltami!»
le afferrò il polso per bloccare i suoi movimenti agitati e
per la prima volta dopo anni spazzò via ogni
formalità tra loro, in
uno stato di esaltazione che non aveva mai provato.
«Tony?» lei
s'interruppe, presa in contropiede da quel gesto
«Ma che le...»
«Un
foglio! Mi
servono un foglio e una matita! Sa disegnare?! No, no, non importa,
ma faccia presto prima che...»
"Ora,
maledizione!"
imprecò,
sentendo i dettagli sfumare nella sua memoria e formule e calcoli che
si sovrapponevano e rimescolavano rischiando pericolosamente di
perdere senso, di svanire nell'oblio confuso della propria mente.
Non
gli importava se fosse stato un colpo di genio, un lampo di follia o
l'effetto dei sedativi: sapeva cosa fare.
Sapeva cosa fare!
Revisione effettuata il 12/02/2018
Note delle Autrici:
Rieccoci! Con sommo anticipo, di solito pubblichiamo... sì, praticamente ogni mai.
Ma questa storia ci sta prendendo più delle altre... colpa di Light marvel-fanatica, ovviamente. Ed grazie anche a sofy96 e a alliearthur che continuano a seguirci e che hanno recensito lo scorso capitolo.Ci ha fatto davvero molto contente ricevere dei pareri e sapere che siamo sulla retta via verso l'IC!
A presto!
Moon&Light
P.S.: Altre storie scritte individualmente le trovate sulle nostre rispettive pagine di EFP :)
P.P.S. (Light): Il titolo è stato scelto per due motivi: 1) È il titolo di un altro film in cui ha recitato Robert Downey Jr., 2) Ci sembrava adatto perché, come avrete notato, il confine tra realtà e sogno, o allucinazioni, se vogliamo, è piuttosto vago e continuerà ad esserlo sporadicamente.
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