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Autore: Wendy_magic_forever    29/03/2012    1 recensioni
Sperando che sia migliore di quella che ho scritto un anno e mezzo fa, eccola di nuovo, riveduta e corretta.
TRAMA:
Miki è una giovane donna che è stata diseredata dalla sua famiglia perché invece di obbedire ai suoi nonni dalle regole antiche, ha preferito seguire i suoi sogni.
Si trasferisce nella 135esima strada di New York, dove la zia le ha lasciato un monolocale e lì vive campando dei soldi che guadagna facendo la tassista. Ma poco dopo essersi trasferita scoprirà che le basterà girare l'angolo per ritrovare la felicità perduta il 25 giugno 2009.
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Le immagini sono puramente indicative.
Genere: Generale, Slice of life, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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-1° parte-

New Life

 

 

(25 giugno 2014, New York)

 

Pov Miki:

 

Cos'era successo nel giro di cinque anni? Niente. Solo che avevo continuato a ballare e cantare, mi ero ribellata ai voleri dei miei nonni ed ero stata diseredata.

 

Ero dentro alla mia nuova casa, che era appartenuta a mia zia prima che avesse fortuna e andasse a lavorare e a vivere a Portofino, in Italia.

 

Il cellulare squillò, col suo numero in sovrimpressione; quasi lei sapesse che ero arrivata.

Accettai la chiamata e sentii la sua voce, solare e raggiante come al solito: «Ciao, tesoro, come va?»

«Ciao, zia, sto bene.»

«Sei già arrivata alla tua nuova casa?»

«Sì, zia...»

«E ti piace?» c'era una certa aspettativa nella sua voce

«Bhe...» la “casa” in questione era un monolocale dai muri crollanti, i tubi che perdevano acqua e l'aspetto poco abitabile «...non sembra molto resistente.»

«Oh, non ti preoccupare, io ho vissuto in quella casa per tredici anni!»

«... Sicura che resisterà altri tredici?»

«Ma ovviamente! Tranquilla! Tu continua solo a seguire il tuo sogno, va bene?»

«Certo.»

«Allora ti saluto! Goditi la tua nuova casa, ok?»

«Ok, ciao.»

 

Misi giù.

 

Guardai la mia nuova casa ancora per un po' e sospirai: dopo tutta la vita passata in saloni dorati e ville grandi quanto città, ero finita in un buco per topi, e tutto a causa di un cantante morto da cinque anni che ancora amavo alla follia.

Non ero per nulla pentita della mia scelta, ma al ricordo della grande casa in cui abitavo prima che mi diseredassero non potevo non struggermi.

 

Avevo rinunciato a vita nel lusso, grandi sale e tantissimi regali per poter ballare e seguire i miei sogni; in più avevo rifiutato il matrimonio combinato che mio nonno aveva programmato per me e per questo ero stata cacciata da quella che ormai consideravo una prigione dorata. Devo a mettere; a passarmi la chiave per primo era stato Michael; la stella che mi aveva guidato per tutta la vita da quando avevo esordito nella danza.

 

Un sorriso tenero si dipinse sulle mie labbra al pensiero di tutto ciò che mi aveva regalato, indirettamente. Per tutta la vita ho imitato i suoi passi da sola, nascondendomi in un angolino poco illuminato della grande villa dove abitavo, lontano dagli occhi vigili dei miei nonni, che non approvavano la mia scelta. Sognavo di imparare le sue mosse alla perfezione e un giorno ballare al suo fianco; ma, purtroppo, lui se n'era andato prima.

Prima che tutti i miei sogni diventassero realtà. Lì per lì pensai che la mia vita fosse finita, ma poi mi ripresi e continuai a impegnarmi per continuare la sua strada e guarire il mondo.

Anche a cinque anni dalla sua morte, continuavo ad amarlo come una fangirl e, a essere onesta, non smettevo mai di sperare che lui fosse ancora vivo da qualche parte nel mondo.

 

Quando smisi di rimuginare sul mio passato, strinsi la benda che portavo sul polso e cominciai a svuotare le valigie; feci uscire i vestiti dal mio bagaglio viola e li sistemai nel vecchio armadio, le scarpe nei cassetti e i poster sui muri.

 

Dopo aver messo a posto, guardai il calendario: 25 giugno.

Giorno di lutto!”, pensai, sarcasticamente.

E anche anniversario di quello che feci al mio polso... strinsi la benda ed evitai di pensarci.

 

Aprii l'armadio e presi una t-shirt con le maniche lunghe, un paio di pantaloni neri attillati, una fascia nera che avrei messo sul braccio sinistro con su scritto “777” in bianco, e delle scarpe da ginnastica nere. Avrei preferito i mocassini, ma non li avevo; quelli che avevo comprato tempo fa si erano consumati per il troppo uso.

 

Mi guardai allo specchio. Ero cambiata molto nel giro di quasi quindici anni: i miei capelli biondo cenere erano diventati scuri e lunghi, i miei occhi erano ancora azzurri, ma avevano smesso di brillare come una volta, e la benda che portavo sul polso sinistro era il mio più grande cambiamento.

 

 

Ricordai la bambina ricciolina che aveva detto a sua zia che sarebbe diventata una cantante ballerina del calibro di Michael Jackson e sospirai, piena di nostalgia.


 

La mia vera storia, però, iniziò quando uscii di casa per conoscere il mio quartiere.

 

Camminavo lentamente, a testa bassa, seguendo il ritmo di “Stranger In Moscow”, che stavo ascoltando ascoltando a volume altissimo e mi rimbombava nelle orecchie.

L'avevo scelta perché era molto adatta alla mia situazione; dopotutto, ero una straniera in quella città. Certo, non ero a Mosca, ma il discorso era lo stesso.

 

Alla fine della canzone, passai a “You Are Not Alone”; in un giorno di lutto hai soltanto voglia di struggerti nella memoria del caro che hai perso tempo prima, e questa era la più adatta.

 

 

Another day has gone
I'm still all alone
How could this be
You're not here with me

You never said goodbye
Someone tell me why
Did you have to go
And leave my world so cold

 

 

Al solo pensare a quanto queste parole fossero vere, le lacrime salirono negli occhi per poi scivolare lungo le guance.

 

Diamine, Michael, sei morto troppo presto!” pensai “Perché mi hai lasciata da sola quando avevo più bisogno di te?”

 

Michael, il mio unico sostegno in quel lager del libero pensiero dove vivevo, era morto in un periodo critico della mia vita; la sua morte era stato il colpo di grazia alla mia felicità: da quel giorno i miei occhi si erano spenti e il mio cuore batteva più lentamente. Quel giorno mi aveva segnata per sempre.

 

Ma il dolore prima o dopo è destinato a morire: il primo passo verso la mia nuova felicità fu quello che feci per voltare l'angolo ed entrare nella 136esima strada.

 

Camminai ancora per qualche minuto, come se fossi più morta che viva, quando qualcosa attirò la mia attenzione: un ragazzino sui quindici anni che correva, portando in spalla un enorme stereo portatile.

Era medio-basso, aveva i capelli corti e riccioli e vestiva in jeans; mi passò davanti come se non esistessi ed entrò in un giardino interno, correndo col fiatone.

 

 

Arrancò col suo enorme stereo verso un cancello di rete, lo aprì ed entrò, lasciandolo aperto dietro di sé.

Incuriosita, mi avvicinai a quella sottospecie recinzione per vedere che cosa avesse di così importante per correre in quel modo, e rimasi lì ad attendere cosa sarebbe successo.

 

«L'ho trovato!» sentii gridare

«Ottimo lavoro, fratellino!» rispose una voce più adulta

 

Pov Mike:

 

«Sono stanco morto!» mio cugino Tommy non aveva più fiato in corpo, Stella lo fece sedere su un copertone

«Secondo voi funzionerà ancora?» chiesi agli altri

«Eh, speriamo!» rispose Erik «È rimasto nella polvere per tutto questo tempo!» tolse un po' di sporcizia dallo stereo che avrà avuto trenta-quarantanni

«Ellen e Diana arrivano con le cassette?» chiesi a Sarah, che ancora messaggiava alle due gemelle

«Arrivano; sono a due isolati da qui.» rispose la rossa

«Ne sei sicura?» chiesi

Perse la pazienza come al suo solito e gridò: «Sono loro che me l'hanno detto, che cosa vuoi che ne sappia??? La prossima volta mi iscrivo a un corso per indovini e poi te lo so dire!»

 

Lo so, Sarah era piuttosto sgarbata e irritabile, ma era una brava ballerina. E anche una brava ragazza, in fondo; noi del nostro gruppo la conoscevamo da quando andavamo all'asilo, quindi sapevamo che era fatta così.

«E se lo stereo non va, che facciamo?» chiese mio cugino Ash

«Lo portiamo a DJ. Lui lo saprà riparare.» risposi, sicuro

 

Pov Miki:

 

Non riuscivo a sentire nulla da lì dov'ero, sapevo solo che saranno stati in circa cinque o poco più.

 

Cercavo di captare qualcos'altro quando...

«Cosa ci fai qui?» una voce femminile non troppo amichevole bloccò i miei tentativi di spionaggio.

Mi girai di colpo e vidi due ragazze palesemente gemelle in tuta l'una verde e l'altra rosa, con i capelli biondi legati e iper-truccate. Quella in tuta rosa portava una borsa a sacchetto pieno di chissà che cosa.

 

 

Cercai di uscire da quella situazione: «Niente, ho visto un ragazzino trasportare uno stereo gigante e mi sono detta: “cosa ci fa con quell'affare?”, e mi sono appostata qui... pensavo... gli stereo come quello esistevano solo negli anni '80...»

«Non sono affari tuoi quello che facciamo.» disse la ragazza in tuta verde «Ora levati dai piedi, piccola...»

«Ferma un secondo, Ellen!» l'altra la fermò prima che m'insultasse «Il suo abbigliamento non ti ricorda qualcosa?»

La ragazza in verde, chiamata Ellen, si fermò a osservarmi per qualche secondo.

 

«... ... ... Black or White?»

«Infatti!» disse l'altra

 

Le due gemelle si girarono, dandomi le spalle, e confabularono sottovoce qualcosa che quasi non capii riguardo “essere fan”, “non lo conosce”, e “io penso di sì”.

 

Si rigirarono verso di me e Ellen mi chiese: «Perché ti sei vestita così?»

«Sono in lutto.» ci girai intorno per sicurezza

«E perché non porti i mocassini?»

«Perché sono consumati per il troppo uso.»

«E il numero 777 che porti sul braccio sai cosa significa?»

indicai i numeri mentre spiegavo «Il primo 7 significa “settimo figlio” e l'altro 77 è la somma di 19+58.»

 

Ellen rimase in silenzio per un poco.

 

«Ci credi adesso?» disse la ragazza in rosa all'altra

Ellen rimase in silenzio, poi esordì: «In questo caso, credo che tu debba conoscere il nostro gruppo!» finalmente la ragazza in verde si degnò di non essere avversa nei miei confronti «Io sono Ellen, lei è Diana; siamo gemelle.»

«Tanto piacere, Ellen e Diana. Il mio nome è Miki.»

«Quello stereo che hai visto è il tesoro più prezioso di Erik, il nostro capogruppo. È uno stereo di quarantanni che speriamo di far funzionare.»

«E con che cassette?» chiesi

«Con queste!» Diana abbassò di poco la borsa e mi fece vedere che era piena di vecchie cassette.

«Wow.» esclamai «Che forza!»

Ellen mi fece girare e mi spinse gentilmente oltre il cancello: «E vedrai che forza quando incontrerai il nostro gruppo!»

 

Mi lasciai trasportare dalle sue spinte cordiali, sotto i miei piedi l'asfalto finì e cominciò il cemento.

Oltre quel cancello c'era un cortile, limitato dai palazzi intorno ad esso, e al centro di quel cortile di cemento c'erano sei copertoni da camion divisi in tre parti e sistemati l'uno sopra all'altro.

In uno di questi era seduto il ragazzo che avevo visto prima, in un altro una ragazza ricciola e rosso chinata su un cellulare; dalla sua magrezza e altezza pensai che fosse una ballerina o qualcosa di simile.

 

 

Lì vicino ai copertoni c'era un'altra ragazza, anche lei molto snella e vestita attillata, con un caschetto biondo e gli occhi azzurri vispi, da ficcanaso.

 

 

Intorno a loro, c'erano altri tre. Il primo era un ragazzo che avrà avuto la mia età, se non un anno di più. Aveva la pelle nera, i riccioli e gli occhi scuri. Vestiva con una giacchetta di pelle nera come nere erano le sue scarpe e i suoi pantaloni, e un fisico “alleggerito”. Sì, un fisico che diceva ben poco di maschile; piatto, delicato, flessibile, femminile, il fisico che molto spesso causa accuse di omosessualità, oppure la provoca.

 

 

Il secondo avrà avuto 19/20 anni ed era grande, muscoloso, con dei bicipiti abbastanza sviluppati. In più era in canottiera, con dei pantaloni super-attillati che evidenziavano anche i muscoli sulle gambe e dei guanti senza dita alle mani; insomma, era il totale contrario del nero! Anche di faccia era super-attraente; biondo, leggermente pallido di pelle, ma dagli occhi di un verde brillante stupendo che ti faceva girare la testa, uguale a quello del ragazzino seduto sul copertone.

 

 

L'ultimo, invece aveva gli stessi occhi verdi del primo, ma era sui sedici anni, aveva la pelle color caffellatte, i capelli castani e i baffi scuri. Vestiva stile rap, con tre berretti in testa e la giacca super-larga rossa e bianca, jeans a metà sedere, con la cintura super stretta per evitare che i pantaloni cadessero e boxer bianchi in bella vista.

 

 

«Buon giorno, ragazzi!» fecero le gemelle, ma quando gli altri si girarono verso di loro per salutarle, sul gruppo calò un silenzio tombale.

Accorgendosi della mia presenza, mi scrutarono con occhi curiosi.

Quei loro sguardi indagatori mi fecero sentire piccola piccola, imbarazzata e timida; accennai un sorriso e un saluto con la mano.

 

   
 
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