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Autore: Miss Fayriteil    17/04/2012    1 recensioni
Jane potrebbe essere una donna come tante, con una bella e numerosa famiglia, ma in realtà nel suo passato si nasconde un doloroso segreto...
Questa storia l'ho scritta un po' di tempo fa... spero vi piaccia!
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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5.
 
 
Verso la fine di aprile, iniziò a fare molto freddo e a piovere parecchio, tanto che un giorno Jane, svegliandosi, aveva guardato fuori della finestra e aveva esclamato, sorpresa: «Oggi non sembra nemmeno di essere in Australia, accidenti!»
  Con l’arrivo di maggio le cose non migliorarono, anzi, semmai il freddo e il brutto tempo aumentarono, così che Jane usciva molto di rado, solo per sbrigare qualche commissione assolutamente necessaria. Per il resto del tempo se ne stava rintanata in casa, a guardare la televisione e ad ingozzarsi di ciambelle. C’è da dire che anche per il peso della gravidanza così avanzata, era molto più affaticata rispetto a prima.
  Le visite notturne a Jack erano a questo punto diventate un’abitudine quasi quotidiana. I due ragazzi, infatti, si incontravano ogni volta che potevano e, anche se la realtà era ben diversa, il motivo ufficiale restava quello di rifinire gli ultimissimi dettagli del loro piano di fuga. Questa scusa per la verità, non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione se, per disgrazia, Number One li avesse scoperti insieme. Charlotte non faceva che ripeterlo.
  «Avete fatto un bel baccano, stanotte, tu e Jack» disse una mattina Charlotte a Jane, quando questa era seduta in cucina a fare colazione. Il suo tono era noncurante, ma la ragazza arrossì violentemente fino alle radici dei capelli fiammanti e non disse nulla, ma soffocò il suo imbarazzo sulle uova al bacon che aveva davanti. Dopo qualche istante arrischiò una domanda, sperando di suonare disinvolta, ma senza molto successo: «Ci hai sentiti per davvero?»
  Il fatto era che la notte prima, Number One e i suoi ragazzi non erano usciti, quindi lei e Jack si erano potuti incontrare. Charlotte sorrise ironica e rispose: «No, siete stati abbastanza bravi, in realtà. Vi ho sentito solo perché ero sveglia di mio».
  Fece una pausa poi aggiunse: «Quello che devi capire, Jane, è che io approvo in un certo senso la vostra relazione. Però credo che sia abbastanza rischioso essere così poco discreti con Number One, che dopotutto resta sempre tuo marito, ricorda, così a portata d’orecchio. E poi tieni sempre in mente che sei incinta».
  «Lo so, Charlotte» rispose Jane con un sorrisetto, mentre sparecchiava il tavolo. Prese una fetta di una torta al caramello dalla tortiera e cominciò a mangiarla. Poi aggiunse: «Ma ho solo ventitré anni, e per la prima volta in vita mia sono veramente innamorata. Sai, non mi era mai successo prima d’ora. Avrò diritto ad un po’ di divertimento, no? E poi Jack ha detto che non gli importa, anche se sono incinta. Vorrei tanto che il bambino fosse suo» disse con un sospiro. Poi aggiunse: «Ah e un’altra cosa. Number One non è veramente mio marito. Cioè, io questa cosa la vivo come se lui per me fosse uno sconosciuto con il quale, per un puro caso e certo non per colpa mia, mi è capitato di essere sposata».
  Charlotte scoppiò a ridere divertita e disse a Jane che dopotutto lei le raccomandava solo di stare un po’ più attenta. Inoltre lei poteva anche continuare a non considerare Number One suo marito, ma questo fatto era innegabile. Che a lei piacesse o meno.
  Jane, con espressione contrariata, disse: «Certo, hai ragione, però adesso penso anche che quando fuggirò da qui, poi non vedrò Jack mai più. Ovviamente è meglio così, me ne rendo conto, ma io non voglio lasciarlo». Per finire tirò su col naso in modo teatrale e sbuffò sonoramente.
  Charlotte le mise gentilmente un braccio intorno alle spalle. «Andiamo, Jane, non devi farne una tragedia. In fondo gli puoi sempre proporre di venire con te, no?»
  «No, gliel’ho già chiesto» borbottò Jane, risentita, sedendosi sul divano. «Lui mi ha assicurato che gli piacerebbe, ma che non si può fare perché già Number One si infurierà quando scoprirà che sua moglie, vale a dire io, è scappata, se poi dovesse perdere anche la spia…» lasciò la frase in sospeso, ma era chiarissimo che a lei delle reazioni di Number One, non importava un bel niente.
  «Be’, non ti devi in ogni caso preoccupare» riprese Charlotte. «Una volta che sarai fuori di qua, potrai trovare qualcun altro, se proprio ti sentirai disperata. Là fuori è pieno di uomini che cercano una bella ragazza come te, fidati». Jane annuì riluttante e fece un sorriso coraggioso.
  Finì di mangiare quella enorme fetta di torta e pochi secondi dopo, giusto il tempo per leccarsi via il caramello appiccicoso dalle dita, si alzò per andare a prendere una barretta di cioccolato ripieno alla crema nel frigorifero. Charlotte la fissò con aria severa. «Dovresti smetterla di continuare a mangiare tutte queste porcherie, Jane. Lo so che sfoghi tutti i tuoi problemi sul cibo e forse ti potrei anche capire, ma tu dovresti cercare di capire che tutto questo non fa bene a te e men che meno al tuo bambino. Inoltre, se ingrassi troppo adesso, in gravidanza, sarà molto difficile che tu riesca a ritrovare la tua vecchia forma smagliante, ragazza mia, a meno che…»
  «A meno che?...» le fece eco Jane,improvvisamente preoccupata.
  «A meno che,  una volta nato il bambino, non inizi una dieta ferrea dove è vietato ogni tipo di dolce!» Detto questo se ne andò in un’altra stanza, lasciando Jane molto più terrorizzata di quanto non lo fosse mai stata, al pensiero di Number One che scopriva la sua fuga o, peggio ancora, la sua relazione adulterina con Jack.
  Finalmente, dopo nove mesi d’attesa, la notte del quindici di luglio, Jane e Jack corsero all’ospedale, servendosi di un’auto che Number One aveva rubato tempo prima, e che ora se ne stava innocentemente parcheggiata nella stazione. Alle dieci della mattina successiva, alla fine, venne al mondo Nicholas, che Jane nello stesso istante, amò più della propria vita.
  Nei tre giorni in cui rimase in ospedale, Jane ricevette solo le visite di Jack e Charlotte, che l’aiutò anche a scegliere il nome per il piccolo. Number One, invece, non andò mai a trovarla, dal momento che questo era in cima alla sua lunghissima lista delle “Cose da evitare”.
  La cosa non infastidì per niente Jane, anzi, si può dire che la rallegrò discretamente: aveva per l’appunto deciso che, nei pochi giorni che avrebbe ancora trascorso in quella casa, lei non avrebbe mai mostrato suo figlio a Number One. “Anzi” pensò, “sarebbe meglio che non venga proprio a sapere della sua esistenza”.
  Una volta tornata nella baracca, Jane si rese a malapena conto di averlo fatto: la vita per lei era notevolmente migliorata. Sentiva di vivere in una sorta di dimensione parallela, molto felice e rilassata, dove esistevano solo lei e il suo piccolo Nicholas. Non lo lasciava mai, tranne che a volte durante la notte e quando andava in bagno. Ma erano situazione molto rare.
  Non ascoltava più nemmeno Charlotte e l’unico che riuscisse a farla tornare, ma solo per qualche minuto, con i piedi per terra, era Jack quando la costringeva a concentrarsi sugli ultimi dettagli del loro piano di fuga.
 
Il momento tanto atteso giunse all’una di notte del ventisei luglio, quando Nicholas aveva circa dieci giorni. Jane era nella stanza di Jack insieme al ragazzo, che era inaspettatamente riuscito a trovare una scusa per restare in casa anche quella notte. Attesero con il fiato sospeso, che anche l’ultimo degli uomini uscisse, brontolando e sbuffando, ma non ebbero il coraggio di rilassarsi finché non sentirono le loro risate sguaiate allontanarsi fino a scomparire.
  A quel punto, Jane prese da sotto il letto di Jack uno zaino, che conteneva tutti i suoi averi e si calò il più silenziosamente possibile fuori della finestra. Nicholas, in quel momento, era sul letto di uno degli altri ragazzi, addormentato, così Jack lo prese tra le braccia e lo passò a Jane, che fece per alzarsi, quando un ruggito di rabbia, che proveniva da un’altra stanza, fece trasalire tutti e due.
  «Jane!» urlò la voce, così deformata dalla rabbia che diventava difficile riconoscerla. «Ma si può sapere dove diamine ti sei cacciata, maledizione!»
  Era Number One! Doveva essere rientrato in casa senza che Jane e Jack se ne fossero accorti. Probabilmente aveva il sospetto che Jane avesse progettato di fare esattamente quello che stava facendo. I due giovani si guardarono, pallidi come morti e Jane sussurrò, terrorizzata: «Oh mio Dio, nasconditi Jack! Nasconditi!»
  Lui obbedì immediatamente e corse nel suo letto, dove si infilò sotto le coperte, fingendo di dormire. Jane invece si abbassò oltre il livello del davanzale, appena un secondo prima che Number One facesse irruzione nella stanza. Jane lo osservò attentamente, dal suo nascondiglio. Lei e Jack lo sentirono borbottare ancora fra i denti, mentre, ignorando totalmente Jack, cercava la moglie nella stanza, poi finalmente, dopo alcuni secondi che a loro parvero interminabili, se ne andò.
  Aspettarono ancora qualche istante, giusto per essere più sicuri, quindi Jane si alzò in piedi e Jack uscì silenziosamente da sotto le coperte del suo letto, dicendo, a bassa voce: «Vai ora, Jane. Non sei ancora al sicuro, Number One potrebbe tornare da un momento all’altro. Vai». Jane lo abbracciò stretto e gli mormorò in un orecchio: «Grazie, Jack, tu mi hai salvata, anzi ci hai salvati, me il mio bambino, non lo dimenticherò mai, non ti dimenticherò mai e…» ma un bacio di Jack, il più bello che non le avesse mai dato fino a quel momento, la mise a tacere.
  «Addio, Jane» mormorò. La ragazza a quel punto s’incamminò verso la stazione. Si voltò una sola volta per fare un cenno di saluto a Jack, l’ultimo che potesse fargli.
  Riprese ad avanzare, senza fare troppo caso a dove stava andando. I suoi piedi prendevano automaticamente la strada giusta. Sembrava che si sentissero ansiosi quanto la loro padrona di riconquistare finalmente la libertà. In quel momento camminava piuttosto velocemente: il pensiero che qualcuno, magari Number One, la stesse seguendo, le opprimeva la mente e il cuore. Finalmente arrivò nel parcheggio della stazione, dove non metteva piede da più di un anno, ormai e proprio in quel momento Nicholas decise che per quella notte era stato abbastanza disturbato nel suo sonno, quindi si svegliò, piangendo disperatamente.
  Jane sobbalzò dalla sorpresa e, angosciata, cercò di calmarlo, sedendosi sulla prima panchina che vide per essere più comoda. Doveva fare in fretta, prima che i suoi sonori vagiti attirassero l’attenzione di troppi ficcanaso. Esclamò, preoccupata: «Oh, Nicholas, tesoro, mi dispiace averti svegliato. Non piangere, piccolino, ti prego!»
  Lo cullò a lungo e quando infine si riaddormentò, lei si alzò dalla panchina di pietra su cui si era seduta, pensando a dove poteva passare la notte. In condizioni normali avrebbe cercato senz’alcun dubbio un albergo, ma poi pensò che la sua situazione attuale era piuttosto critica e di punto in bianco, decise di cercare una famiglia disposta ad ospitarla. Non aveva mai fatto una cosa del genere, prima d’ora e pensandoci bene le sembrava anche un’azione piuttosto stupida, ma “A mali estremi, estremi rimedi”, pensò sconfortata e proseguì per le strade poco illuminate del centro.
  Dopo alcuni minuti che camminava notò una casa che, a differenza delle altre, aveva ancora delle luci accese a pianterreno. La ragazza si stupì: dopotutto era molto tardi. Tenendo in braccio suo figlio, si avvicinò con circospezione al cancelletto di legno che dava sulla strada e lo superò, percorrendo il vialetto lastricato. Immaginò di poterlo fare. Il cancello non era chiuso con un chiavistello o cose del genere, Jane l’aveva aperto senza alcun problema. Inoltre se voleva bussare o suonare un campanello, doveva per forza entrare. Sul cancello non c’era traccia di un citofono. Si avvicinò alla porta e, dopo aver respirato profondamente un paio di volte per calmarsi, bussò timidamente.
  Mentre aspettava cominciò a soffiare un vento forte e freddissimo e Jane rimase lì per alcuni secondi battendo i denti infreddolita e proteggendo suo figlio con il proprio corpo. Dopo un po’ sentì qualcuno armeggiare con una chiave nella serratura. Alla fine la porta si aprì, rivelando una donna alta con in viso un’espressione gentile, sebbene parecchio sorpresa.
  «Sì? Scusa… posso aiutarti?»
  «Io credo di sì, signora» rispose Jane senza alcuna esitazione, muovendo con discrezione un passo in avanti. «Lo so che non mi crederà, signora, ma se lei si ricorda io sono quella ragazza che l’anno scorso venne rapita alla stazione».
  La donna si mise una mano sulla bocca con espressione spaventata e quando la riabbassò, disse: «No, ti credo invece. Non avrei mai potuto pensare che… be’, almeno tu sei sopravvissuta, giusto?»
  «Sì, ma signora, io sono fuggita da là» riprese Jane, «e non mi sento al sicuro. Vede questo bambino? È mio figlio ed ha solo dieci giorni. La prego, non ho idea di dove andare». Si accorse che gli occhi le si erano riempiti di lacrime e se li asciugò, senza farsi notare dalla donna.
  Quando rialzò la testa, la donna sorrise e le disse: «Vieni, entra. Accomodati, hai l’aria di chi ne ha passate tante. A proposito, non mi sono ancora presentata. Mi chiamo Mary, Mary Stevens». Allungò una mano affusolata che Jane strinse, sentendosi un po’ rincuorata. Le due donne superarono l’ingresso e Jane si trovò in una stanza ampia ed accogliente. Iniziò a sentirsi al sicuro e si congratulò più volte con se stessa, per aver scelto un posto probabilmente adatto alla sua situazione.
  «Siediti pure, non c’è problema» la invitò la signora Stevens, prendendole lo zaino e contemporaneamente indicando il divano con una mano. La ragazza sedette, un po’ confusa da tutta la disponibilità e la gentilezza che quella donna aveva mostrato nei suoi confronti, una sconosciuta che bussava alla porta di casa sua alle due di notte.
  «Grazie… per tutto quel che sta facendo per me, anzi per noi» mormorò impacciata. La donna sorrise e mosse la mano in un gesto vago. «Ma se non ho ancora fatto niente! Mi sento in dovere di ospitare una donna sola e in difficoltà, soprattutto se è una madre. E poi» aggiunse con fare misterioso, «ho un figlio che dovrebbe avere circa la tua età. Tu quanti anni hai?»
  «Ventitré» rispose Jane. Poi la ragazza si rese conto che la signora Stevens non sapeva ancora il suo nome, così riprese: «E mi chiamo Jane. Thaisis. Così lo sa».
  «Grazie per avermelo detto… Jane. Ora che ci penso, è molto probabile che il tuo nome lo sapessi già». Si strinse nelle spalle. «In ogni caso, se hai ventitré anni, hai solo un anno in meno di Eric. Ora vado a chiamarlo, così vi presentate. Sono sicura che è ancora davanti a quel maledetto computer». Jane sorrise divertita e Mary Stevens scomparve su per le scale.
  Ricomparve alcuni minuti dopo, seguita da un ragazzo alto. Era molto avvenente, con lunghi capelli scuri e Jane decise che sarebbe stata disposta a rimanere in quella casa anche per sempre. Il ragazzo le tese una mano. «Piacere di conoscerti».
  Jane ricambiò la stretta, sorridendo debolmente e senza riuscire a dire alcunché. Dopo che si furono presentati, la signora Stevens mostrò a Jane la sua stanza, dove Jane si sistemò con tutte le proprie cose. Si accorse che la donna le aveva procurato anche qualcosa simile ad una culla di fortuna per Nicholas. Jane avrebbe voluto commuoversi, ma era troppo stanca perfino per quello.
  Nei giorni che seguirono, i due giovani scoprirono di avere un feeling molto particolare. Jane, per la verità, si era innamorata di Eric già la prima sera in cui si erano conosciuti, mentre al ragazzo bastarono altri due giorni per poter dire la stessa cosa con sicurezza. La signora Stevens si era accorta dei sentimenti tra suo figlio e Jane, quindi per evitare qualche “incidente”, come definiva lei una gravidanza indesiderata, raccomandò ai due ragazzi di non estendere il loro rapporto oltre una bella amicizia. Inutile affermare che le sue parole entravano loro da un orecchio e uscivano dall’altro. I due ragazzi erano troppo giovani ed irragionevoli per stare ad ascoltare i suoi discorsi preoccupati. Presto, però, si sarebbero pentiti di non averla ascoltata, ma ormai sarebbe stato troppo tardi.
 
 
 
  
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