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Autore: Miss Fayriteil    25/04/2012    1 recensioni
Jane potrebbe essere una donna come tante, con una bella e numerosa famiglia, ma in realtà nel suo passato si nasconde un doloroso segreto...
Questa storia l'ho scritta un po' di tempo fa... spero vi piaccia!
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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6.
 
 
La vita trascorreva, così, tranquilla, Jane finalmente si sentiva al sicuro come non lo era da più di un anno. Gli Stevens erano molto gentili con lei, e la facevano sentire veramente a suo agio. In questo modo passarono un mese, due mesi, tre mesi, senza che nessuno se ne accorgesse. Le giornate scorrevano con serenità, Jane ed Eric spesso uscivano insieme, come se fossero una vera coppia, anzi facevano quasi ogni cosa insieme. Ogni tanto passeggiavano nei dintorni del quartiere di Eric, il quale presentò a Jane anche alcuni dei suoi amici e la ragazza ricordò a lungo anche le piacevolissime serate, trascorse in una splendida atmosfera familiare. Era da più di un anno che non aveva modo di sentirsi tranquilla e non spaventata in una casa che non era la sua o di qualche altro suo familiare.
  Nonostante tutto quanto sembrasse perfetto, Jane era assolutamente sicura che quell’idillio non sarebbe durato ancora per molto tempo. Le sembrava che le cose, per lei, fossero cambiate troppo in fretta e troppo in positivo, per fidarsene completamente. Aveva imparato abbastanza della vita, ormai. Ed in effetti era nel giusto. Un giorno verso la metà di ottobre, infatti, la ragazza in base ad una serie di elementi, iniziò a sospettare una gravidanza.
  Rimase abbastanza scioccata dalla rivelazione, anche soltanto della possibilità di un fatto del genere e, una volta che si fu ripresa, cominciò a ragionare su quello che avrebbe dovuto fare. Nonostante lui c’entrasse sicuramente, non volle parlarne subito ad Eric, almeno fino a quando non fosse stata sicura che i suoi sospetti fossero fondati. Voleva evitare che il ragazzo si preoccupasse, magari senza motivo. Decise in seguito che a Eric non l’avrebbe detto in privato, ma gliel’avrebbe detto quando l’avesse detto anche al resto della famiglia. Non sapeva perché, ma sentiva che non sarebbe stata una buona idea dirlo prima a lui.
  La cosa che la preoccupava maggiormente oltre a tutto, più che il fatto in sé, era l’età di Nicholas: in fondo aveva soltanto tre mesi. Trovava che il suo bambino fosse ancora troppo piccolo, perché potesse affacciarsi in lei anche solo l’idea di avere un secondo figlio. Non aveva ancora finito di abituarsi a Nicholas, non poteva proprio averne un altro, in quel momento. Avrebbe voluto aspettare almeno un paio d’anni, se non anche di più, prima di affrontare quel passo.
  Invece purtroppo, Jane scoprì che le sue perplessità erano fondate e per di più anche esatte. Una volta superato il trauma della scoperta, decise quindi di annunciarlo alla famiglia, cosa che fece una sera, dopo cena. Una volta che la signora Stevens ebbe sparecchiato ed ebbe anche pulito la cucina, tornarono tutti e quattro in soggiorno. La ragazza consigliò ai tre Stevens di sedersi sul divano, mentre lei stessa prese posto in una poltrona di fronte a loro. Per alcuni secondi non fece altro che star lì a guardarli uno ad uno, senza avere una minima idea da dove avrebbe dovuto cominciare.
  Alla fine prese il coraggio a due mani e disse: «Dovrei farvi una specie di…» si schiarì nervosamente la voce, «annuncio».
  Fece una pausa, fissandoli di nuovo.
  «Va bene, Jane» replicò con calma il signor Stevens. «Siamo tutt’orecchi. Parla pure, ti ascoltiamo».
  La ragazza li studiò una terza volta tutti e tre ed infine, odiandosi per quanto avrebbe detto, riprese: «Ehm, dicevo, devo comunicarvi una cosa molto importante. È che non so… ecco… da dove cominciare. Il punto è che l’ho saputo solo due giorni fa, ma lo sospettavo già da un paio di settimane. Be’, insomma, ho scoperto di essere» si strinse le mani in grembo e chiuse gli occhi, «incinta».
  Un silenzio pietrificato accolse le sue parole e Jane a quel punto decise di riaprire gli occhi. Eric aveva un’espressione profondamente sconvolta e carica di sensi di colpa, il signor Stevens fissava Jane con uno sguardo vacuo, mentre la signora Stevens era semplicemente esterrefatta.
  «Ma, ragazzi, non ci posso credere» esclamò, lo sguardo che correva dal figlio a Jane. «Pensavo che avrei potuto fidarmi di voi. Credevo davvero che foste abbastanza maturi da badare anche a questo tipo di problemi».
  Jane abbassò la testa: non si era mai vergognata tanto in vita sua. Perché, si disse, perché era stata tanto sciocca da non ascoltare Mary Stevens? In fondo le era già capitato, sapeva che sarebbe potuto succedere, avrebbe dovuto pensarci. Ma ormai era troppo tardi per rimproverarsi, concluse tra sé. Con la voce leggermente tremante e senza avere il coraggio di guardare gli altri negli occhi, disse: «Mi dispiace davvero tantissimo. Vi chiedo umilmente perdono. Che cosa penserete mai di me, in questo momento? Voglio dire, voi avete ospitato me e mio figlio per tre mesi in casa vostra, senza conoscermi, in fondo, e questo… questo è il mio modo di ripagarvi. Sono veramente una stupida».
  Jane alzò lentamente la testa dopo la sua umile confessione, sperando in un intervento di Mary Stevens, che le diceva di non preoccuparsi e che non era affatto una stupida, che però non venne. Le rispose invece, un po’ a sorpresa, Eric che disse: «Be’, se è per questo, allora, un po’ è anche colpa mia. Anzi è molto colpa mia». Fece una pausa fissando la madre. «Senti, mamma, lo so che abbiamo sbagliato a non obbedirti, ma so anche che alla nostra età avresti fatto esattamente lo stesso. Del resto, sono cose che possono succedere quando si è giovani come noi. Quindi… be’ ecco, non so che ne pensa Jane, ma io sono d’accordo nel separarci, anche a malincuore, se  questo è ciò che vuoi».
  Jane lo guardò senza capire. Separarci? Quindi lei avrebbe dovuto andarsene. La ragazza era perplessa. Insomma, Eric aveva appena detto che cose come quella potevano succedere a chiunque e quindi non era il caso di preoccuparsene troppo, poi, subito dopo, affermava l’esatto contrario.
  «Cioè, intendi dire che io devo andarmene di qui? Ora, in queste condizioni?» chiese, con una lieve nota isterica nella voce. Era una cosa inconcepibile.
  La signora Stevens dopo alcuni secondi, le disse: «Sì, Jane. So che questo non è assolutamente un momento semplice per te, ma, per favore, cerca un attimo di essere ragionevole. Sarebbe molto complicato per noi tenerti. Mi capisci, vero? Sto dicendo che sarebbe poco riguardevole. È meglio per tutti, fidati, davvero».
  Riguardevole? Ma come diavolo parlava quella donna? Jane era ancora totalmente sconvolta, impietrita. Dentro di sé sentiva una gran voglia di urlare e scagliarsi contro quella donna ipocrita, che dopo averla ospitata per tante settimane, le voltava ora le spalle in un momento tanto delicato. Invece non reagì e si limitò ad annuire.
  «Bene, davvero ripeto, mi dispiace moltissimo mandarti via così, adesso, sappi che non lo facciamo a cuor leggero, ma ti assicuro che prima vai, meglio è».
  La ragazza annuì ancora una volta e disse con voce inespressiva: «Allora, d’accordo. Stavo pensando che potrei partire lunedì. Fra due giorni, intendo. Per voi va bene?» E i tre Stevens le dissero che andava bene così.
  Quindi il lunedì mattina seguente Jane, con il suo fedele zaino in una mano e con Nicholas addormentato in un comodo marsupio appena comprato, disse addio ad Eric ed alla sua famiglia con le lacrime agli occhi.
  «Bene, be’, è stato bello trascorrere questo periodo insieme con te» disse ad Eric. «Può darsi che un giorno ci rivedremo, forse, se deciderò di farti conoscere tuo figlio… anzi, tua figlia».
  «Come fai a sapere che è una femmina? È ancora troppo presto per saperlo, giusto?» le chiese, con non poca sorpresa, Eric. Non poteva definirsi un esperto in questo genere di cose, ma sapeva benissimo che per scoprire il sesso di un nascituro bisognava aspettare circa quattro o cinque mesi.
  «Oh, non lo so, istinto materno, immagino» gli rispose lei alzando le spalle e con queste parole se ne andò, affranta. Non poteva certo immaginare che, invece, quella sarebbe stata l’ultima volta in tutta la sua vita che vedeva sia lui sia la sua famiglia. E la cosa non le sarebbe dispiaciuta poi molto, in futuro.
  Da quel giorno, sfortunatamente, la ragazza si trovò ad incominciare una dura ed assolutamente inaspettata, vita da vagabonda. Per molte settimane non riuscì più a trovare famiglie che la ospitassero, nemmeno per pochi giorni e così normalmente trascorreva le notti in quello che probabilmente era l’albergo più squallido non solo di Sidney, ma di tutta l’Australia. Era un edificio di un brutto cemento grigiastro, a due piani, con le stanze piccole, quasi senza finestre e che sapevano di muffa. La prima volta che vi era entrata la ricordava ancora perfettamente. L’ingresso era grande più o meno come metà della sua stanza di quando stava dagli Stevens ed il banco della reception era un normalissimo tavolo, anche un po’ traballante. Si era avvicinata all’uomo dietro il banco e gli aveva chiesto una stanza singola, possibilmente la più economica che avevano. Gli aveva detto: «Non importa se è piccola, io non so dove andare e sono praticamente senza soldi. Voglio solo un posto dove dormire». L’uomo le aveva allungato una piccola chiave arrugginita e le aveva chiesto: «Quanto si ferma signorina? Solo per stanotte?» Jane aveva riflettuto per un po’, poi aveva chiesto di nuovo: «Quanto costa per tutta la settimana? Credo proprio che dovrò fermarmi qua per un bel po’». L’uomo fece un veloce calcolo con una vecchia calcolatrice e le disse: «Questa che le ho dato è la più economica. Tutta la settimana costa... cinquanta dollari. Deve pagare adesso». L’uomo allungò la mano in attesa e Jane prese il suo portafoglio rendendosi conto con sgomento che cinquanta dollari costituivano tutto quello che aveva. Ora le restavano solo trenta centesimi. “Accidenti, domani dovrò cercarmi urgentemente un lavoro. Intanto, però, così sono a posto per tutta la settimana per quanto riguarda la notte”. Dopodiché ringraziò l’uomo e se ne andò nella sua stanza. Giunse in un corridoio dove si affacciavano quattordici porte malconce con i numeri scritti in vernice tutta scrostata. Di fronte a lei c’erano delle scale rovinate che probabilmente portavano al piano superiore: nessuna traccia di un ascensore naturalmente. A quel punto la ragazza guardò il numero della sua stanza e vide che l’uomo le aveva assegnato la stanza numero 13. “Ecco, ti pareva” pensò. “Come se qui le cose non andassero già abbastanza male”. Non sapeva ancora che per i mesi a venire quella sarebbe stata più o meno la sua casa. Aprì la porta e si trovò davanti una stanzetta, anzi più che altro una tana di topo, con un lettino ammuffito, un tavolo scheggiato e una sedia tutta scrostata. “Ma del resto” pensò afflitta, “cosa pensavo di aspettarmi da una stanza a poco più di sette dollari a notte? Di sicuro non una suite imperiale.” Decise di andare subito a letto, solo che non sapeva dove mettere Nicholas a dormire. Alla fine decise di tenerselo accanto nel letto, ma di coprirlo con una coperta che si era portata da casa Stevens e che per fortuna era abbastanza grande da avvolgerlo completamente, dalla testa ai piedi. Non credeva che fosse il massimo per un bambino così piccolo come lui di stare a diretto contatto con tutta quella sporcizia.
  Jane, infatti, essendo sostanzialmente al verde, non aveva potuto trovare niente di meglio, purtroppo. La mattina seguente, era entrata nella sala da pranzo, ma l’odore disgustoso l’aveva costretta ad indietreggiare bruscamente per non vomitare. Preferiva non sapere nemmeno cosa avessero cucinato. Si era detta che avrebbe saltato la colazione quel giorno e sarebbe andata a cercarsi un lavoro seduta stante. Ormai, comunque, non si riconosceva più: durante il giorno, mangiava nei posti peggiori, quelli più economici, così malmessi che non vi entravano nemmeno i cani e se per caso occorrevano a lei o a Nicholas degli abiti nuovi, perché ormai quelli vecchi erano così rovinati che non assomigliavano più nemmeno a dei vestiti, era costretta a rovistare nei grossi container alla discarica comunale. Lei quel periodo non l’avrebbe mai più scordato. Per poter guadagnare qualcosa, quel minimo per poter pagare la stanza e comprarsi qualcosa da mangiare, si era fatta assumere dal padrone dell’albergo come cameriera nelle stanze. La paga era piuttosto misera, ma Jane non si lamentava: lavorare le faceva bene, perché la aiutava anche a dimenticare le sue disavventure. L’unico problema fu che, una volta arrivato maggio, Jane fu costretta a smettere di lavorare come cameriera a causa della sua gravidanza troppo avanzata, così il padrone mosso a pietà dalla sua situazione, la mise alla reception per registrare i nomi dei pochissimi ospiti dell’albergo. Nicholas, mentre sua madre lavorava, era affidato ad una delle cameriere più anziane, che non vedeva l’ora di fare qualsiasi cosa pur di spezzare la sua noiosa routine ed aveva accettato con gioia anche questo lavoro improvvisato come baby-sitter.
  Perciò, per farla breve, per quasi nove mesi Jane visse in questa maniera, con un bambino molto piccolo da allevare, in modo dignitoso, per quanto le fosse possibile, nella sua difficile condizione e un altro che non era ancora nato, e che già era probabilmente destinato ad un’esistenza terribile. Qualche volta si chiedeva cosa le sarebbe potuto capitare di peggio, ma poi si rispondeva subito che, dopotutto, preferiva non saperlo proprio.
  Poi, nei primi giorni di luglio, Jane riprese i suoi tentativi, di trovare una famiglia disposta ad ospitarla. L’unica che la accolse, più o meno calorosamente, era composta dai genitori, della tipica specie “Simpatici-e-affidabili” e dai due figlioli, Samuel ed Heather, due ragazzini rispettivamente di otto ed undici anni.
  Questa famiglia era veramente gentile, così che Jane approfittò della loro disponibilità per circa tre settimane, durante le quali avvenne anche la nascita del suo secondo figlio. Il signor Barrow, così si chiamava il padrone di casa, si offrì volontario per accompagnarla in ospedale quando lei dovette partorire. 
  Questa volta, come effettivamente Jane aveva previsto, era una bambina. La ragazza, dato che lì per lì non sapeva che nome dare a sua figlia, rammentando improvvisamente le sue, per quanto molto remote, origini fiorentine, decise di chiamarla con un nome italiano: Claudia. Negli anni a venire, Jane avrebbe dovuto insegnare a diverse persone a pronunciare correttamente il nome: si pronunciava all’italiana, non all’inglese, il dittongo au si pronunciava com’era scritto, non come una o. Ma c’erano comunque persone che si ostinavano a pronunciarlo all’inglese.
  In ogni caso, questa nuova arrivata era nata, casualmente, due giorni dopo Nicholas a cui Jane e i due bambini, che si erano molto affezionati al piccolo, organizzarono una piccola, ma allegra festa nel giorno del suo primo compleanno.
  Alcuni giorni dopo la nascita di Claudia, la ragazza, ringraziando sentitamente la gentile famigliola che l’aveva ospitata, ritenne opportuno togliere il disturbo, e così fece, nonostante le numerose ed appassionate proteste di Samuel ed Heather. I due bambini non volevano che lei se ne andasse, perché in quel caso, naturalmente si sarebbe portata via anche Nicholas.
  Maledicendo il destino per la pessima piega che aveva fatto prendere alla sua vita, Jane ricominciò la difficile vita dell’anno prima, credendo di far bene, ma si pentì subito della sua scelta, non appena si rese conto di quanto diventava problematico con due bambini molto piccoli come Nicholas e Claudia. Quando li guardava dormire, durante la notte, nella loro piccola e umida camera d’albergo, a Jane si stringeva il cuore al pensiero di non poter offrire loro niente di più dignitoso.
  Lei avrebbe voluto portarli in un posto migliore, ed invece dovevano accontentarsi di quella baracca ignobile e malsana. Jane ogni tanto si fermava sorpresa a pensare a se stessa e alla sua vita e a quanto essa fosse cambiata in soli due anni. Prima che succedesse tutto questo era una ragazza normalissima come ne esistono tante altre, che sognava un giorno di poter finire il college, di laurearsi in lettere e trovare anche un buon lavoro, mentre ora faticava a trovare qualcosa da mangiare giorno per giorno, figurarsi pensare ad un albergo quasi di lusso.
  Ma ora, più di qualunque cosa, anche più del miglior albergo che non avesse mai visto, più ancora della famiglia più disponibile che esistesse al mondo, Jane Thaisis voleva tornare a casa sua. In quelle cinque settimane vissute per la strada che avevano seguito la nascita di Claudia, ma anche prima, quando lei ancora non c’era, Jane aveva provato più volte ad andare a casa sua, ma senza riuscirci. Complice una serie di fattori, tra i quali anche quello non indifferente dell’essersi molto allontanata dal centro e l’essere quasi uscita addirittura dal distretto urbano di Sidney, si era dimenticata tutto, perfino la via in cui abitava. Non credeva che fosse una cosa molto positiva, ma non poteva farci niente: aveva degli altri pensieri in testa, forse ancora più importanti di quello.
  Lei, solitamente, preferiva pensare alla sicurezza dei suoi figli, invece di fantasticare, perché ormai solo di questo si trattava, sulle comodità di una casa. Ma quella sera, la ragazza, seduta sullo scomodo letto della sua solita stanza numero 13, mentre i suoi bambini dormivano tranquilli, cullati dalla pioggia che picchiava leggera e monotona sulle piccole e sporche finestre, aveva stranamente trovato una vecchia fotografia di sua madre in fondo al suo fedele zaino. Se ne stava lì, come pietrificata e l’ammirava e solo in quel momento si rese perfettamente conto del tremendo vuoto che aveva dentro, con una delle persone più importanti della sua vita così lontana da lei. Non riuscì a fare a meno di chiedersi se sarebbe riuscita a vederla ancora una volta. Uno shock del genere era troppo anche per una ragazza forte come lei. Due grosse lacrime sgorgarono all’improvviso dai suoi occhi verde chiaro e le scesero lentamente lungo le guance.
  Lei non tentò neppure di fermare il pianto irrefrenabile che si sentiva esplodere nel petto, e di lì a pochi secondi singhiozzava disperatamente, sdraiata sul letto, le lacrime calde e salate che le finivano in bocca e nel naso ed inzuppavano il cuscino. In quel momento si sentiva soltanto una bambina sperduta, che aveva ancora bisogno della mamma per andare avanti, nonostante, ormai, avesse a sua volta dei figli da proteggere e da crescere. Per molti minuti non riuscì a calmarsi. Non appena riusciva a smettere di piangere, ecco che sopraggiungeva un pensiero, magari anche sciocco, che la faceva ricominciare immediatamente.
 
  
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