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Autore: Lue    30/04/2012    7 recensioni
Avevamo quindici anni e lui mi rivolgeva un saluto in cortile, forse Ada ci presentava.
Avevamo sedici anni e parlavamo senza troppa convinzione di politica e manifestazioni.
Avevamo diciassette anni e ci raccontavamo cose di noi che nessun altro sapeva.
Avevamo diciotto anni e la nostra prima volta era una sera, a casa mia, e lui continuava a chiedermi: “Sei sicura? Sei sicura?”.
Avevamo diciannove anni e studiavamo per la maturità, baciandoci tra Greco e Filosofia.
Avevamo vent’anni, una paura folle di fare le scelte sbagliate e una speranza che ci cresceva rigogliosa nel petto.
Adesso di anni ne avevamo ventidue e sembrava che avessimo vissuto una vita insieme, una vita che si concentrava nelle sue mani, nel suo zaino e nel suo borsone, nella sue pelle scottata da un sole straniero, nei suoi occhi che tante volte s’erano specchiati nei miei.
Rimasi a bocca aperta davanti a lui.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Parole

- Sesto capitolo -




 

Non ho pianto molte volte per Enea, nella mia vita.
La prima volta fu la nostra prima estate, l’unica che passammo interamente separati. La mia famiglia mi aveva obbligata a seguirli in campagna, nel piccolo e desolato paesino dove avevamo la casa. Mi ero fatta prestare da Nina una ventina di Dvd e passai tutta la settimana sul divano di camera mia, a guardare film.
Enea era partito con Gaetano, Ada e alcuni amici per Berlino, e il terrore che mi dimenticasse cresceva dentro di me ogni giorno che passava.
Una sera guardai un film, Remember me, e osservando i personaggi prendersi e lasciarsi sullo sfondo di una New York degli anni Duemila, cominciai a realizzare davvero quanto stessi investendo nel rapporto con Enea.
Mentre Robert Pattinson scagliava un estintore fuori dalla finestra di un’aula, io piangevo calde lacrime sul mio computer, immaginando il mio cuore al posto di quella finestra, frantumata da un estintore.
La seconda volta piangemmo insieme, seduti su un divano a casa di Ada. Eravamo brilli e felici e ci sussurrammo il nostro primo “Ti amo”, mentre gli altri schiamazzavano e ridevano nella stanza. Nonostante tutto fu uno dei nostri momenti più intimi, ci guardammo negli occhi e piangemmo allegramente, ché sapevamo che era la verità quella che ci stavamo rivelando.
Poi, a un tratto, piansi molto per lui, e non so quante volte perchè le mie lacrime erano così tante che si confondevano.
“È questo il problema. Io l’ho appena fatto”.
Mi alzai da terra e mi tolsi la giacca.
“Me l’avevi promesso”, mormorai, “me l’avevi promesso. Avevi detto che non mi avresti fatto del male”.
“Mi dispiace, ero arrabbiato...”.
“Hai detto che non stai più bene in questa casa. Perfetto, puoi andartene”.
Gli voltai le spalle e uscii dalla stanza. In corridoio mi trovai davanti Ada, e abbassammo entrambe gli occhi.
Mi chiusi in bagno e scoppiai in lacrime.
Quando mi decisi ad uscire, Enea se n’era andato e i suoi libri erano scomparsi dagli scaffali.
“Ada” chiamai, e la mia voce era roca e strozzata. La sentii accorrere, mi avvolse in un abbraccio e io avvertii il rigonfiamento del suo pancione sfiorare il mio bacino.
“Se n’è andato davvero”, percepii le lacrime scendere lungo le mie guance, “Enea se n’è andato”.
Trattenni i singhiozzi e le urla che giacevano nella mia gola, e rimasi lì con Ada, a farmi accarezzare i capelli, pregando che fosse tutto solo un brutto sogno.
 
Ada rimase a vivere con me nei mesi seguenti, e mi fece da madre, usando come scusa il fatto che: “Devo cominciare ad abituarmi, devo capire come si allevano i pulcini”.
Io mi tagliai i capelli a caschetto e mi comprai una bicicletta; andavo a trovare i miei vecchi amici, e a volte mi fermavo nel bar di Gaetano, che aveva fallito per quando riguardava la medicina, ma aveva avviato un’attività commerciale e il suo locale cominciava a diventare uno dei più frequentati in tutta Milano.
Una mattina, quattro mesi dopo che Enea se n’era andato, ad Ada si ruppero le acque. Corremmo in ospedale, io le tenni la mano e urlammo insieme e ridemmo di gioia quando, dopo ore, il bambino finalmente uscì.
Ada lo chiamò François. Aveva gli occhi di un colore chiaro, acquoso, era grassottello e aveva una voce potente.
 
Vera,
mi manchi. Sono a Dallas da Roberto, mio fratello, e lo sto aiutando: ha aperto una libreria, come quella di tua madre, ogni volta che ci entro penso a te.
Ricordo che volevi che io ti portassi in America con me, e la mattina presto, nel dormiveglia, fingo che tu sia accanto a me nel letto, e vorrei carezzarti i capelli e baciarti.
Ho ricominciato a scrivere, sai? Scrivo racconti per bambini, assomigliano un po’ a quelli del Boldini, te lo ricordi il nostro prof di Italiano? C’è una bambina che appare sempre nei miei racconti, è simpatica e intelligente, ma anche un po’ scontrosa, le ho dato il tuo nome.
Qui a Dallas ho finalmente conosciuto i miei nipotini, ti piacerebbero tantissimo, probabilmente sono gli unici tre bambini americani che non sono obesi o stupidi. È una cosa cattiva verso i poveri bimbi americani, ma è anche innegabile.
So che se ti mandassi questa lettera probabilmente non mi risponderesti e la stracceresti prima di leggerla, perciò la terrò qui con me.
Mi sento inutile, Vera, e ricordo il tuo viso come fosse ieri l’ultima volta che ti ho visto.
Mi dispiace per quello che ti ho fatto, ma mi dispiace ancora di più per non aver lottato, per non essere rimasto, quella sera, per non aver preso a pugni la porta, finché tu non mi avessi ripreso con te.
Sono un codardo, Vera, ma sono un codardo che ti ama.
Enea


 

__________




Caro Enea,
non so perché ti scrivo. O meglio, so chi mi ha convinto a farlo: Ada. Ha appena partorito e mi ha spedita a casa, perché dice che non posso passare un altro giorno con lei in ospedale senza lavarmi. Questa cosa ti farebbe ridere, lo so.
Comunque, Ada mi ha dato questo compito: dice che devo scriverti una lettera, perché sono passati quattro mesi e sono ancora più incasinata che in quella sera, e l’unico modo per sbrogliare questo gomitolo che è il mio cuore è mettere nero su bianco i miei pensieri.
E, oddio, non è per niente facile come immaginavo.
Mi vengono in mente tantissime cose: quella volta che pioveva e ci siamo fatti tutta via Torino a piedi, dal Duomo alle Colonne ché il tram non passava, e diluviava ed è stato uno dei momenti più belli della mia vita. Quella volta in cui mi hai preparato la cena ma hai bruciato tutto e così siamo andati a mangiare al McDonald’s più vicino, e tu hai pensato a tuo fratello e mi hai raccontato che aveva trovato un altro lavoro, lì in America. I nostri baci, come mi mancano.
Torna, Enea, ti prego torna perché io lascio ancora lo spazio per le tue scarpe, nel bagnetto, e certe volte che sono sovrappensiero apparecchio la tavola per tre, e Ada, perché io non mi senta in imbarazzo, dice che penso già al bambino, per quando verrà a casa con noi.
Mi mancano i tempi del liceo, avere diciassette anni e pensare davvero che sarei diventata una poetessa. La vita ci ha smontati tutti, non è vero? Io, te, Ada, Gaetano, siamo tutti poveri in canna, coi nostri sogni che si riempiono di polvere e i nostri vent’anni che pesano come se fossero sessanta.
Recentemente ho rivisto anche Marinella, Nina e Leonor. Marinella è tornata dall’Africa e non sa se ripartire, per l’India magari, o cominciare finalmente l’università.
La professoressa di Nina, quella di critica cinematografica, la porta a Venezia al prossimo Festival del Cinema, e lei è emozionatissima. Mi ha chiesto di andare con lei, io non so che dirle, ho sempre questa paura folle che tu tornerai e io non sarò a casa ad aspettarti.
Leonor forse è la più felice tra tutti noi, lei che non si aspettava niente dalla vita ha trovato un posto da segretaria in uno studio di avvocato, e guadagna più di me e Ada insieme.
Torna, te l’ho già detto? Torna, Enea, mi sento così sola.
Tua, Vera
 
Tornai a casa dall’ospedale come mi aveva chiesto – ordinato – Ada, sarei poi tornata a prenderla nel pomeriggio in macchina. Cominciai a mettere a posto e pensai a come sarebbe cambiata la vita mia e di Ada ora che avremmo avuto un piccolo ospite.
Quando il campanello suonò, alzai gli occhi al cielo e pensai che avrei davvero ucciso Ada: testarda com’era, era sicuramente tornata a casa dall’ospedale coi mezzi, senza aspettare che io la andassi a prendere.
“Ada, santo cielo, hai appena partorito...”.
Enea portava uno zaino sulle spalle e un borsone di libri tra le mani. Si era abbronzato un po’ e i capelli neri gli erano cresciuti.
Avevamo quindici anni e lui mi rivolgeva un saluto in cortile, forse Ada ci presentava.
Avevamo sedici anni e parlavamo senza troppa convinzione di politica e manifestazioni.
Avevamo diciassette anni e ci raccontavamo cose di noi che nessun altro sapeva.
Avevamo diciotto anni e la nostra prima volta era una sera, a casa mia, e lui continuava a chiedermi: “Sei sicura? Sei sicura?”.
Avevamo diciannove anni e studiavamo per la maturità, baciandoci tra Greco e Filosofia.
Avevamo vent’anni, una paura folle di fare le scelte sbagliate e una speranza che ci cresceva rigogliosa nel petto.
Adesso di anni ne avevamo ventidue e sembrava che avessimo vissuto una vita insieme, una vita che si concentrava nelle sue mani, nel suo zaino e nel suo borsone, nella sue pelle scottata da un sole straniero, nei suoi occhi che tante volte s’erano specchiati nei miei.
Rimasi a bocca aperta davanti a lui.
Enea mi si avvicinò.
“Mi dispiace, Vera, ho fatto una cazzata, e sarei dovuto tornare a casa prima e...”.
“Puzzi di sudore”, lo interruppi, prendendolo per mano, “Entra, fatti una doccia, e poi ne parliamo”.
La porta si richiuse alle nostre spalle.







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Ecco che questa storia giunge alla fine :) Ringrazio di cuore tutti coloro che l'hanno letta, seguita e recensita, grazie davvero.
Alla prossima, spero!
Un bacio,
Lu.

   
 
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