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Autore: ponlovegood    14/05/2012    5 recensioni
La prima volta che si incontrarono, Takanori non lo notò neanche.
La sua presenza semplicemente gli scivolò accanto, silenziosa e senza alcuna sostanza.
Chissà a quante persone, quel giorno, era passato accanto senza neanche rendersene conto, senza sapere che anche loro erano degli esseri viventi che respiravano, ridevano, piangevano, amavano, odiavano, speravano.
Perché lui era diverso? Perché avrebbe dovuto notare proprio lui?
Infondo non era niente per lui, solo una semplice presenza senza alcuna importanza nella sua vita.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Reita, Ruki
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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I used to sit there, with you.

.memory.

 

L’inverno stava raggiungendo il suo apice e la gente, tendenzialmente, preferiva starsene chiusa in casa. Ma ciò probabilmente non valeva per Takanori; quella era la seconda volta in una settimana che si recava in quella fatidica caffetteria, sfidando il freddo di Tokyo. Quando, anche quella volta, se ne andò dopo un paio d’ore si chiese perché mai avesse sprecato il suo tempo per andare in un posto dove nessuno lo stava aspettando e per quale assurdo motivo avesse ordinato due cappuccini, uno dei quali veniva poi, inesorabilmente, gettato via.
 
Non vi ritornò se non dopo diverse settimana, ma quel giorno non ordinò nessuna bevanda calda che potesse ristorarlo; era sera tardi e la caffetteria aveva già chiuso da un pezzo.
Anche gli altri negozi avevano seguito lo stesso esempio del locale e tutte le serrande erano abbassate, persino la via –solitamente molto rumorosa e affollata- era sprofondata nel più totale silenzio.
Quella sera non occupò il suo solito posto sulla panchina, troppo fredda per poter anche solo  pensare di poggiarvi sopra il suo delicato sedere. Così rimase in piedi, dondolando da una gamba all’altra, per sconfiggere –anche se con scarsi risultati- la morsa pungente del freddo. Ma quali altre alternative aveva?
Stare a casa a non fare niente, finendo col passare l’ennesima serata in compagnia del suo cane e del telecomando del televisore?
No, grazie.
Trovava decisamente migliore starsene lì a morire assiderato, il che era tutto dire.
«Buon Natale» disse improvvisamente una voce profonda e roca che sembrava essere spuntata dal nulla alle spalle di Takanori; quel timbro basso risuonò nella sua testa quasi stordendolo, come se si trovasse a pochi centimetri da una grossa campana. Era tutto irreale; pareva quasi che quella voce non provenisse da nessun corpo in particolare, come se essa provenisse dal vento che quella sera soffiava leggero, sollevando piccoli mulinelli di neve.
«E-eh?! Cosa?» farfugliò ancora leggermente stordito. Ancora non si era voltato verso il suo misterioso interlocutore. Chissà da quanto tempo era stato lì senza che lui se ne fosse accorto, si domandò.
«E’ mezzanotte passata, quindi: Buon Natale» la sua voce era piatta, come se fosse stata privata di qualsiasi emozione, ma provocò in Takanori lo stesso effetto di pochi istanti prima.
«A-ah, non lo sapevo» disse distrattamente mentre cercava di far sparire l’eco delle parole dell’altro dalla sua testa; trovava assurdo che stesse succedendo ancora, che di nuovo stesse provando la stessa, fastidiosa sensazione di totale stordimento. Perché sì, era già accaduto e quella non era la prima volta che sentiva quella voce, anche se era passato parecchio tempo. Anche senza il bisogno di voltarsi sapeva perfettamente chi fosse il suo interlocutore e da un lato ne era terrorizzato, ma allo stesso tempo attratto. Alla fine, davanti a lui, si era come materializzato il ‘perché’ di tutte quelle sue soste alla caffetteria. Che fare?
Voltarsi?
No, non ce l’avrebbe fatta; il suo corpo era come inchiodato in quella posizione.
Scappare?
Ma no, che razza di figura ci avrebbe fatto?
E allora?
E allora l’unica cosa che gli sembrò logico fare fu rimanere lì dov’era e aspettare che succedesse qualcosa, chissà poi cosa esattamente.
«Non sei a casa a festeggiare?» domandò l’interlocutore, sprigionando una nuova ondata di parole.
Takanori rabbrividì, forse per il freddo o forse per altri motivi sconosciuti anche a lui, probabilmente.
«Balle» quella parola gli uscì spontanea e diretta, persino un po’ acida.
«Come prego?» anche questa volta nella voce dell’altro non si scorse neanche un minimo cambiamento d’intonazione. Takanori esitò un attimo, aprendo e richiudendo la bocca. «Ho detto: balle. Il Natale è una balla e lo è anche tutto il resto» sentenziò. «Sai, a vederti sembreresti il classico tipo che ama questo genere di cose» disse e la neve crepitò lievemente sotto i suoi stivali mentre mosse qualche passo. «Allora ci vedi male» rispose acido Takanori stringendosi nel suo cappotto. Non avrebbe voluto essere così scortese, ma quella sera non pareva voler essere clemente con nessuno.«Può anche darsi; è parecchio che non vedo un medico» rispose l’altro con estrema naturalezza. Takanori improvvisamente ricordò con chi stesse parlando e si vergognò di essersi lamentato di un argomento tanto futile davanti a uno che, di cose di cui lamentarsi, ne aveva parecchie e dovevano essere anche serie.
Calò il silenzio e per un attimo credette che il suo interlocutore se ne fosse andato, ma quando provò a sbirciare al di là della sua spalla, lo vide lì, in piedi, che lo fissava con i suoi occhi neri. Si voltò di scatto intenzionato a non girare più la testa, anche se non capiva il vero motivo di tanto timore.
«Non capisco davvero come tu possa odiare il Natale» disse il ragazzo grattandosi distrattamente la tempia. Perché continua ad insistere su quell’argomento? Si chiedeva Takanori. «Non ho detto di odiarlo. Nessuno l’ha mai festeggiato con me e con gli anni ho capito che si trattava di una balla bella e buona. Anche gli altri dovrebbero rendersene conto» dichiarò, ma pochi istanti dopo già si pentì. Non era lì per raccontare la storia della sua vita a quel ragazzo, dannazione.
«Peccato» fu l’unico commento dell’altro che si spostò per andarsi ad appoggiare allo schienale ghiacciato della panchina. «Non hai degli amici?» chiese innocentemente.
Normalmente delle domande così private avrebbero infastidito molto Takanori, ma quella volta, in qualche modo, fu diverso. «Certo, ma non vedo l’utilità di disturbare loro e le loro rispettive famiglie» rispose con tono distratto continuando a tormentarsi le labbra screpolate con i denti. «I tuoi pensieri contrastano tra di loro, l’hai mai notato?» osservò il giovane per poi iniziare a fischiettare un noto motivetto natalizio. «Forse» rispose evasivo l’altro. Quel ragazzo stava iniziando a entrare nella sua testa, portando alla luce sentimenti e pensieri che da un po’ teneva per sé e detestava dover ammettere che, effettivamente, la sua testa era il caos, ad un perfetto sconosciuto, come se non bastasse. Per analizzare il suo cervello non sarebbe bastata un equipe di psichiatri, psicologi e psicanalisti, ma quel ragazzo, quel biondo, quel senza tetto, aveva capito tutto di lui nel giro di un quarto d’ora. E tutto ciò lo spaventava a morte.
Per un po’ più nessuno parlò; a tenere lontano il silenzio di quella strana ci pensava la canzone che il giovane fischiettava. Poi improvvisamente, sulle note del ritornello, si interruppe. «Beh, oggi è il giorno di Natale e noi due siamo qui, insieme. In un certo senso significa che lo stiamo festeggiando» nella sua voce fu quasi possibile cogliere una leggera sfumatura divertita, ma Takanori non vi fece caso, spaventato da quelle parole. E da quanto quel ragazzo avesse effetto su di lui, provocando una successione infinita di emozioni contrastanti. In quel momento avrebbe solo voluto andarsene, ma ancora il suo corpo non sembrava volergli dar retta, tenendolo piantato lì, su quella strada innevata. Si strinse nelle spalle e sporse di nuovo la testa oltre le spalle per cercare di capire cosa l’altro stesse facendo, ma quando il suo sguardo si posò sul punto dove immaginava fosse, non vide nessuno, solo la neve smossa dai suoi stivali. Se n’era andato. In silenzio, così com’era arrivato. Tutta quella faccenda lasciò una strana sensazione nel corpo e nell’animo di Takanori, qualcosa di completamente inspiegabile e fuori da ogni logica.
 
Day 1
E’ risaputo che più si cerca di sfuggire a qualcosa, di evitarla –che sia per non ferire se stessi o gli altri- si finisce inesorabilmente travolti da essa e non è quasi più possibile uscirne. Perché, alla fine, ciò di cui siamo più spaventati è ciò che desideriamo più ardentemente di ogni altra cosa.
Più desideri, più forte è la tua passione, più rischi di rimanerne ferito.
Insomma, è un’altra di quelle regole non-scritte che però, sostanzialmente, fanno girare il mondo.
Takanori, però, sembrava vivere senza quelle regole. Non si stava nascondendo, né stava fuggendo perché era sicuro che mai niente sarebbe stato capace di sconvolgere le sue emozioni.
Eppure, se quelle regole stanno alla base del mondo, allora risulta difficile non dovervi ubbidire e prima o poi è inevitabile dover far loro conto. Allora perché Takanori doveva essere diverso?
Infatti non lo era. Era solo un ragazzo molto furbo che era riuscito a raggirarle temporaneamente.
Forse il suo subconscio aveva già capito svariate cose, molte di più di quante potesse anche solo immaginare. La sua mente ci avrebbe messo ancora un po’ di tempo.
Anche quel giorno, quando per l’ennesima volta vi era ritornato, non sembrò interrogarsi sul perché, sempre più spesso, si ritrovasse a passare di . No, proprio non ci pensava. Ma sarebbe di certo meglio dire che Takanori ‘non voleva pensarci’, non voleva pensarci per non arrivare a comprendere i sentimenti che, in segreto, agivano e cospiravano contro di lui.
Eppure prima o poi si sarebbe dovuto trovare a fronteggiare la pura e semplice evidenza dei fatti.
 
Day 2
Era già da un po’ che lui non si faceva vedere.
E per quanto Takanori si sforzasse di ripetersi che non si trovava lì per lui, ogni volta non mancava mai di guardare da ogni parte, ogni angolo, nella speranza di incontrare quel ragazzo che, però, solo lui sembrava vedere veramente. Ed ogni volta faceva sempre più caso al fatto che lui non ci fosse ed ogni volta –segretamente- ne rimaneva sempre più deluso.
Avrebbe rinunciato di lì a breve, se non fosse stato che un giorno, durante il quale il sole aveva deciso di illuminare una Tokyo rimasta grigia e spenta per troppo tempo, ritornò. Sedeva al posto di sempre, come se non se fosse mai andato, ma nessuno sembrava essersi accorto della sua assenza. Ma non è bello ridurre il genere umano a una specie senza cuore e sentimenti, perciò è bene far sapere che almeno qualcuno se ne fosse reso conto: c’erano le ragazze della caffetteria, un cliente abituale che gli lasciava sempre i soldi che riceveva in resto e una studentessa di cui aveva ritrovato il portafoglio perduto. Tuttavia non è possibile dire che si rallegrarono di vederlo nuovamente lì, semplicemente si accorsero che fosse tornato, nulla di più. Quel sentimento di felicità spettava ad una sola persona anche se questa non aveva alcuna idea di come gestirlo. Cos’è la felicità? Le persone come riescono ad essere felici?
Sembrava aver dimenticato le risposte a queste domande, ma qualcosa gli diceva che esse erano solo nascoste da qualche parte nella sua testa; bastava cercarle. Già ora però gli sembrava di essere  a buon punto della ricerca, ma c’era sempre un elemento diverso che pareva ostacolarlo, facendo sì che i dubbi si istaurassero nella sua mente. E in momenti del genere non riusciva davvero a capire come tutti gli altri riuscissero a provare certi sentimenti con così tanta naturalezza.
 
«Fumi ancora? Non fa bene» disse una voce. Takanori non capì subito da quale direzione arrivasse, ma sapeva bene che quella frase era rivolta lui; era la stata la voce stessa a farglielo capire. Si fermò e volse il suo sguardo verso l’interlocutore di cui conosceva perfettamente l’identità. «Io faccio come mi pare» rispose, ma gettò comunque a terra la sigaretta che non era neanche a metà. I due si guardarono per qualche istante poi Takanori distolse lo sguardo, facendo finta di venire distratto da un gruppo di turisti che passava di lì. Gli era davvero impossibile sostenere lo sguardo dell’altro per più di qualche secondo e sentiva che se si fosse soffermato anche solo un momento di più ad osservare quei suoi occhi neri, avrebbe finito col venire assorbito da essi, come se si trattasse di un buco nero. Addirittura aveva paura di quegli occhi. Lui però non sembrava aver smesso di osservarlo; i suoi occhi lo scrutavano, raccogliendo informazioni su informazioni, come se prima d’ora non si fossero mai posati su di un essere umano. Ad un tratto Takanori si chiese come lui vedesse gli altri; per esempio: cosa stava pensando adesso di lui? Quali erano i suoi pensieri, le sue sensazioni? Poteva forse provare indifferenza, odio, sorpresa…
«… felicità. Che cos’è la felicità, eh?» domandò Takanori, senza essersi accorto che i suoi pensieri si fossero involontariamente trasformati in parole. Lui fermò il movimento dei suoi occhi e li fissò su di un punto indefinito del marciapiede, «Felicità» disse ripetendo lentamente quella parola a sé, come a controllare che la pronuncia fosse corretta e che il significato gli fosse chiaro. «Immagino che la felicità possa essere contenuta in qualsiasi cosa, dipende da persona a persona, immagino» rispose, ma non sembrava stare badando particolarmente alle parole che pronunciava. «E tu sai cos’è?» domandò. «Ovviamente non lo so, è per questo che te l’ho chiesto» disse Takanori leggermente stizzito incrociando le braccia la petto. «Dimmi una cosa, tu sei felice?» domandò il ragazzo con naturalezza, ma quella domanda sembrò sorprendere molto Takanori, che rimase diversi minuti in silenzio, senza aprire bocca o cambiare posizione, continuando a rimuginare su quale fosse la risposta più giusta a quella domanda. «Non lo so» ammise infine lui, senza essere riuscito a pensare a niente di meglio. Me, effettivamente, quella era proprio la risposta più corretta.
 
Day 3
Era tornato a sedersi su quella panchina che pareva essere ancora incredibilmente alta, nelle mani stringeva un bicchiere di carta con sopra stampato il nome del caffè e al suo interno del cappuccino schiumoso. Accanto a lui c’era un altri picchiere di carta, identico all’altro e contenente la stessa bevanda. Era di nuovo lì ad aspettare qualcosa, ma era come se lo facesse senza rendersene particolarmente conto: sapeva di essere lì, ma il perché non lo preoccupava molto. L’unica cosa di cui si curava era che il secondo cappuccino non si raffreddasse eccessivamente e continuava a controllarne la temperatura. E intanto aspettava. Aspettava qualcosa che forse sarebbe venuto,  forse no. Cercò di finire in fretta il suo e prese l’altro, stringendolo con molta cure tra le mani avvolte in due grandi guanti di lana, sperando di mantenerne il calore ancora per un po’. Aspetterò ancora un po’, ancora un po’. Si disse.
Lentamente una figura si avvicinò, ma non era un qualcuno qualsiasi; Takanori l’aveva capito subito. Si rizzò a sedere e lo osservò prendere posto nel luogo gli aveva visto sempre occupare; fece tutto lentamente, mettendo nei suoi gesti una strana meticolosità, nonostante i suoi effetti personali fossero davvero pochi. Con tutta la cura che aveva utilizzato per sistemare i suoi averi, si sfilò il giaccone kaki e lo piegò, mostrando un fisico molto magro, ma non esile come ci si sarebbe potuti aspettare. Indossava una felpa che un tempo doveva essere stata di ottima fattura; anche la sciapa blu era sparita, sostituita da un’altra più leggere rossa, ma altrettanto consumata. In quel lasso di tempo non aveva rivolto neanche una volta lo sguardo in direzione di Takanori, che era rimasto immobile ad osservarlo, movimento per movimento, come rapito dal semplice fatto che quel ragazzo fosse vivo come lui. Takanori tossicchiò leggermente cercando di attirare la sua attenzione; il ragazzo rallentò solo un po’ i suoi movimenti, ma non si girò. Il moro però sapeva di essere stato sentito, «Sete?» gli domandò con grande naturalezza. L’altro non rispose subito; sembrava quasi si fosse soffermato a pensare come generalmente la gente risponde a domande del genere. «Veramente no» disse in fine, ma a Takanori non parve importare molto di ciò che aveva detto, come se al sua fosse stata una domande retorica. Scivolò giù dalla panchina e gli si avvicinò porgendogli il bicchiere di carta e l’altro finalmente lo guardò e si alzò per prendere quel cappuccino che Takanori sembrava volergli far bere a ogni costo. Da in piedi superava l’altro di dieci centimetri buoni e il moro si sentì leggermente intimorito da quella figura decisamente più imponente di lui, ma era una cosa che gli accadeva abbastanza spesso, visto il suo metro e sessanta scarso. Il ragazzo sembrò però interpretare male quel suo sguardo intimorito e finì col credere che fosse spaventato all’idea di essersi avvicinato troppo a… uno come lui, così si spostò rapidamente andando ad appoggiarsi al muro e mettendo tra di loro un metro e mezzo di distanza. «Che c’è?» chiede Takanori stupito da quella reazione improvvisa e apparentemente insensata. «Dovrei essere io a chiederlo; mi guardavi strano» sentenziò l’altro, ma il suo tono di voce non si modificò neanche un po’. A quell’affermazione si sentì arrossire ed esitò un attimo, senza saper bene come rispondervi cercando di non risultare ridicolo, «E’ che vederti così alto mi ha sorpreso un po’, ma mi succede sempre: guarda quanto sono minuscolo» ammise infine nascondendo il viso all’interno del collo della giacca. L’altro lo fissò per un breve istante e improvvisamente scoppiò a ridere; in quel momento, per Takanori, il tempo smise di scorrere e la Terra fermò il suo giro continuo. Normalmente si sarebbe sentito offeso e avrebbe iniziato a sbraitare, ma quella risata, quella voce, cancellarono dentro di lui qualsiasi emozione. Solo più avanti, tuttavia, capì quanto quel momento fosse stato speciale e quante poche repliche ci furono, tanto da portarlo a conservare con estrema cura e gelosia il ricordo di ogni sua risata. Tuttavia come quella risata era iniziata così si spense, probabilmente troppo in fretta, secondo Takanori. Il ragazzo tornò a guardarlo e lui accennò un sorriso, ma l’altro non vi rispose e tornò ad occuparsi delle sue cose, nonostante fossero già perfettamente in ordine.
«Grazie del cappuccino» disse l’altro dopo un silenzio che parve interminabile mentre ne sorseggiava un po’, «Forse era un po’ troppo dolce» sentenziò mentre cercava qualcosa dentro lo zaino. Takanori non sapeva cosa dire e lo fissava con la bocca semi aperta, mentre sul suo volto era possibile leggere la delusione per aver sbagliato anche una cavolata del genere, «Mi dispiace» sospirò guardandolo. «Scherzavo» disse l’altro accennando un sorriso, anche se i suoi occhi rimasero spenti come sempre. «Aah, mi fa male la gola. Ho parlato un sacco oggi, non ci sono più abituato» affermò l’altro stiracchiandosi leggermente. «Hai ragione, anche io non parlo mai molto» ammise Takanori facendo qualche passo nella sua direzione.
«Io e te ci assomigliamo molto, eh?»
Day 7
«Ti chiami Takanori, non è vero?» domandò quella voce improvvisamente, facendolo sobbalzare leggermente; proveniva da dietro le sue spalle ed era incredibilmente vicina. Lui annuì con estrema naturalezza e si voltò, ritrovandosi a si e no una spanna di distanza del ragazzo. «Già» confermò per la seconda volta sorridendo, «Ma come fai a saperlo?» chiese con tono pacato, senza preoccuparsi veramente di come mai quel quasi-sconosciuto sapesse il suo nome. Lui non disse nulla, al contrario distolse lo sguardo per cercare qualcosa che teneva nella giacca; pochi istanti dopo ne estrasse un portafoglio nero di vernice. «L’hai perso, non è vero?» chiese porgendoglielo, «Dentro c’era la carta d’identità» spiegò infine. Takanori prese il portafoglio dalle mani dell’altro con naturalezza e gli sorrise nuovamente, «Mh, sì» rispose distrattamente facendo per metterlo nella tasca dei pantaloni. «Aspetta, non vuoi controllare che dentro ci sia tutto? Ti fidi così tanto?» chiese il ragazzo con il suo solito tono estremamente calmo e Takanori si bloccò per un istante fissandolo dubbioso. «Beh, se l’hai trovato subito dopo che l’ho perso, allora non dovrebbe mancare nulla» disse con tutta tranquillità e se lo mise in tasca. Fu ora il turno dell’altro di guardarlo dubbioso, «Davvero ti fidi… di me?» e puntò l’indice verso di sé. «Perché non dovrei?» disse senza pensarci due volte; il quel momento il volto dell’altro ragazzo parve rasserenarsi almeno un po’. Takanori tornò a guardare fisso davanti a sé e sentì l’altro allontanarsi di qualche passo per poi fermarsi; poteva sembrare che il mantenere una certa distanza, fosse una regola –nonostante, poco prima, proprio quella regola fosse stata infranta, anche se per poco-. Ma quel loro strano rapporto era fatto di tante piccole regole invisibili che nessuno dei due pareva aver deciso, ma che ugualmente rispettavano.
 
Ma si sa, le regole sono fatte per essere infrante.
 
Day 13
Per quasi tutta la settimana precedente, per via di una ragione o dell’altra, Takanori non era più tornato e quando, quel giorno, percorse quella strada che conosceva così bene, i suoi passi erano guidati da una sorta di fretta, come se sapesse di essere in ritardo per qualcosa. Camminava nervosamente tra la gente, con le mani in tasca e gli occhi bassi.
Intanto il ragazzo aspettava.
Quando Takanori arrivò non lo vide seduto al suo solito posto e non c’era un singolo elemento che sembrasse indicare il contrario; persino la panchina era occupata.
Intanto il ragazzo aspettava ancora.
Si guardò intorno e sconsolato si appoggiò ad un palo, sospirando. Fu in quel momento che l’occupatore della panchina si voltò nella sua direzione e Takanori non potè non riconoscere quel cappello nero e quella sciarpa rossa. Accennò un breve saluto con la mano, ma non si avvicinò; l’altro si limitò a guardarlo, senza assumere una qualche espressione particolare. Un osservatore esterno avrebbe potuto affermare, senza aver dubbi, che quei due neanche si conoscessero, tanta era l’indifferenza che sembravano mostrare. Eppure, e noi lo sappiamo bene, non era di certo così; per quanto poco si conoscessero, già dal fatto che si fossero incontrati, si era instaurata una relazione. Poteva essere una relazione strana, assurda, distaccata, ma ormai i loro destini si erano incrociati e per un po’, di certo, avrebbero proseguito parallelamente.
Era da un po’ che non ti facevi vedere. Avrebbe voluto dire il ragazzo, ma preferì tacere; c’erano giorni durante i quali non era proprio in vena di parlare e allora non lo faceva, chiudendosi in un silenzio di tomba. Ma quel ragazzo moro sembrava saper rispettare quei suoi silenzi e non sembrava neanche esserne infastidito.
 
Day 25
Takanori era tornato a sedersi sulla panchina; il ragazzo sul marciapiede.
«Non ti interessa sapere come mi chiamo, Takanori?» domandò improvvisamente e il Takanori in questione sentendo il suo nome pronunciato da quella voce rabbrividì; non l’aveva mai chiamato così, anzi, difficilmente lo interpellava in generale. Tuttavia a sorprenderlo maggiormente fu proprio la domanda in sé.
Lui non conosceva il suo nome.
Perché non gliel’aveva mai chiesto?
Non è che lo sapesse bene nemmeno lui, ma di certo non l’aveva fatto per scortesia o per chissà quali altri motivi. A dire il vero non c’era un motivo. Pensandoci, se non fosse stato per la sua carta d’identità, neanche lui sarebbe venuto a conoscenza del suo nome. Era come se, in quella situazione, i nomi fossero passati in secondo piano. «Eh?» disse Takanori guardandolo, senza riuscire a formulare una domanda composta da parole di senso compiuto. L’altro non disse più nulla e neanche lo guardava più; si chiese se per caso fosse rimasto ferito dal suo comportamento, ma non sembrava il tipo che se la prendeva per piccolezze del genere, sperò. «Ehi, mi dispiace» abbozzò Takanori, «Il fatto è che i nomi non mi sono mai sembrati così importati… cioè, lo sono, ma… ma neanche mi è venuto in mente di presentarmi o cose varie. Infondo siamo sempre stati bene anche senza sapere i nostri rispettivi nomi, no?» concluse senza rendersi conto di quanto in fretta avesse parlato e di quanto comica risultasse la voce che aveva assunto. Il ragazzo tornò a guardarlo con un sorrisetto divertito sulle labbra, anche se in parte nascosto dalla sciarpa, «Io mi chiamo Ryo, comunque» disse, come se non avesse prestato minimamente attenzione a tutto ciò che l’altro aveva detto, ma Takanori sapeva che l’aveva ascoltato.
 
Day 37
«Ryo, non era necessario che comprassi da bere. Lascia che ti ripaghi almeno il mio» esclamò Takanori vedendosi accogliere dal ragazzo con in mano due bicchieri di carta d’asporto. Per quanto all’inizio fosse stato strano, ora era riuscito ad abituarsi a chiamarlo per nome, anche se ne sulla voce si sentiva sempre una nota di incertezza. Ma era bello poter dare un nome a quel volto e il fatto che potesse chiamarlo in qualche modo lo faceva sembrare più vivo, più reale. Non era davvero più solo una presenza.
Estrasse dalla tasca il portafoglio, ma quando fece per prenderne i soldi, non trovò neanche una moneta da cento yen, solo uno scontrino che il vento gli strappò di mano. Mentre lo osservava volare via, si rassegnò all’idea di dover accettare quello che il ragazzo gli offriva nonostante si sentisse in colpa nel fargli sprecare i pochi soldi che aveva in quel modo. All’altro però non sembrava pesare particolarmente. Takanori prese il bicchiere e lo alzò in alto, come a simulare un brindisi e ne prese un sorso rischiando, anche quella volta, di rimanere ustionato; Ryo lo guardò divertito e bevve il suo senza però –misteriosamente- bruciarsi. Il moro un po’ stizzito incrociò le braccia al petto –lo faceva spesso- ed improvvisamente si sedette, proprio accanto all’altro.
Una delle loro regole non scritte era appena stata infranta.
Ryo non disse nulla, ma lo si sentì chiaramente deglutire e cambiare impercettibilmente posizione; l’azione di Takanori sembrava averlo sconvolto –si può dire, esagerando un po’ il termine. Dopo aver passato qualche istante in completo silenzio il moro scoppiò a ridere senza alcun motivo apparente e Ryo si voltò su di lui, mentre un sorriso divertito nasceva involontariamente sulle sue labbra. In quel periodo sorrideva troppo, pensò, ma la cosa non gli diede particolare fastidio, solo lo sorprese un po’.
 
Day 49
Non era più successo che Takanori si fosse seduto accanto a Ryo, ma qualcosa nel loro rapporto sembrava essere cambiato o meglio: qualcosa stava iniziando a cambiare lentamente, lentamente. Erano sì passati solo pochi mesi dal loro primo incontro, ma c’era qualcosa di particolare nel loro rapporto: ogni loro giorno passato insieme era diverso dai giorni che la gente normale viveva; il tempo si dilatava e scorreva con maggiore lentezza, tanto che sarebbe stato possibile ricordare gli avvenimenti di quei mesi come cose accaduti nel corso di diversi anni.
Un leggero movimento che colse con la coda dell’occhio, fece capire a Takanori che qualcuno doveva essersi seduto accanto a lui. Si voltò e lì trovò Ryo; il giaccone kaki e la sciarpa rossa erano spariti, accuratamente messi all’interno dello zaino. Ora al collo portava una bandana nera, una di quelle che usano i motociclisti. «Cambio di stile, ne?» disse Takanori senza però voltarsi e continuando a guardare avanti facendo dondolare i piedi. «Non potevo morire di caldo; sta arrivando la primavera» disse l’altro ed anche i suoi piedi presero a dondolare avanti e indietro, ma, essendo più alto dell’altro, i suoi toccavano per terra. Takanori lo notò e imbarazzato attirò le ginocchia al petto sbuffando appena, mentre l’altro non pareva dar segno di voler smettere nonostante i suoi anfibi cozzassero con il marciapiede provocando un suono non granché piacevole. «Ora come farai a nasconderti se non hai più la sciarpa?» ridacchiò il moro, sembrando aver dimenticato di essersi offeso. Takanori era fatto così, o meglio: era sempre stato così; erano poi sopraggiunte circostanze che l’avevano fatto cambiare, ma ora sembrava essere tornato davvero lo stesso di prima. «Posso fare così» ribattè l’altro prendendo la bandana e legandosela all’altezza del naso, «Come sto?».
 
Day 60
Quando quel giorno la pioggia iniziò a cadere, Takanori afferrò di fretta l’ombrello e uscì di corsa. Una volta fuori, sotto quella pioggia torrenziale, neanche lo aprì l’ombrello. N on l’aveva preso per sé. Non gli importava di bagnarsi; la sua priorità era raggiungere quel luogo. Le cause esatte che scatenarono quella sua reazione furono un mistero, ma era risaputo che, ormai, ogni sua azione –in quel periodo- non avesse più alcun fondamento logico. Si era ritrovato a reagire sempre e solo d’impulso, un po’ come farebbe un bambino.
Ormai senza fiato e completamente fradicio arrivò; probabilmente solo in quel momento pensò che forse non l’avrebbe trovato e da un lato lo sperava, ma dall’altro pregò di trovarlo lì, ad aspettare il suo arrivo. Ma quando non lo vide, le sue speranze furono più deluse di quanto si aspettasse; non si disturbò neanche ad aprire l’ombrello e si sedette dove Ryo era solito sistemarsi. La pioggia continuava a cadere, ma ormai era completamente fradicio e di più non avrebbe potuto bagnarsi. Pazienza, pensò.
 
Day 67
Nonostante fosse riuscito a non prendere neanche un raffreddore, per una settimana non si fece vedere nemmeno una volta e se non era colpa di una malattia allora doveva esserci qualcos’altro sotto. Takanori si vergognava da morire e non riusciva a trovare il coraggio di tornare da Ryo e guardarlo in faccia, nonostante sapesse bene che quel giorno lui non l’avesse visto correre come un matto sotto la pioggia per fare l’eroe. Era così, infatti: Takanori avrebbe voluto essere il suo eroe, colui che lo avrebbe salvato, coprendolo con il suo ombrello. Per una volta avrebbe voluto sentirsi importante e indispensabile per qualcuno, per capire come ci si potesse sentire. Solo per quella volta, aveva pensato. Finalmente nella sua vita stava accadendo qualcosa, ma evidentemente Takanori aveva finito con l’affrettare i tempi, arrivando a credere che Ryo se ne sarebbe stato sotto la pioggia ad aspettarlo. Stupido, pensava.
Si vergognava terribilmente di quei suoi pensieri così infantili.
 
Day 72
Da una paio di giorni il sole era tornato a splendere e le nuvole grigie sembrano solo più un lontano ricordo per tutti. Insieme a tutte le persone anche la primavera si era decisa a mettere il naso fuori casa, colorando di rosa e bianco i parchi e le strade [1]; durante quei primi giorni di fioritura sembrava quasi di trovarsi in un manga, tanto era irreale la bellezza di quelle giornate primaverili.
«Non pensi sia fantastico?» chiese Takanori respirando a pieni polmoni l’aria; in fondo era sempre la stessa aria di città ma, quando arrivava la primavera, qualcosa sembrava cambiare in essa. «Non si sta forse benissimo?» continuò, mentre si godeva il piacevole tepore del sole sulla pelle. che era rimasta fin troppo tempo nascosta sotto starti e strati di vestiti per proteggersi dal freddo di Tokyo. Chiuse gli occhi e incrociò le gambe, sempre rimanendo seduto sulla panchina; al suo fianco Koron abbaiò. «Sarebbe la tua risposta, questa? Peccato che io non ti capisca» ridacchiò accarezzando la minuscola testolina del cane. «Io credo sia fantastico» disse una voce facendolo spaventare a morte e portandolo a credere di riuscire finalmente a comprendere quella bestiolina, visto tutto il tempo che trascorrevano insieme. Ma quando percepì una presenza accanto a lui, capì che non poteva essere stato Koron a parlare e, inoltre, il suo cagnolino di certo non poteva avere quella voce.
«C-ciao, Ryo» disse voltandosi verso di lui, cercando di nascondere tutto l’imbarazzo che stava provando in quel momento. «Era da un po’ che non ci vedevamo. Sono stato… impegnato» disse ancora, grattandosi distrattamente la testa mentre un sorriso abbozzato nasceva sulle sue labbra. «Capita» rispose l’altro fissandolo come faceva sempre e mettendolo ancora di più in soggezione.
«Mh già, capita» disse Takanori ormai a corto di risposte.
«Non so come io abbia fatto a resistere tutto questo tempo senza i tuoi cappuccini» ridacchiò Ryo portando le mani dietro la testa mentre si rilassava sulla panchina come se si trattasse di una sedia sdraio.
«Oh» esclamò Takanori sorpreso, «mi spiace».
«Scherzavo!» puntualizzò Ryo vedendo la faccia seriamente preoccupata dell’altro. «Non è che devi sempre prendere per buono tutto quello che la gente ti dice»
«Non lo faccio mai, infatti» ribatté, forse leggermente stizzito e tra di loro calò un improvviso silenzio. «Oggi sei loquace, eh» disse immediatamente, cercando di riparare al tono scortese che aveva usato.
«Può darsi. Sarà la primavera»
 
Day 81
«Non pensi faccia un po’ caldo per bere ancora il cappuccino?» chiese Ryo osservando il bicchiere di carta che stringeva in mano.
«Non credo. Infondo le caffetterie mica chiudono d’estate, quindi significa che qualcuno ancora lo beve il caffè quando fa caldo» puntualizzò Takanori bevendo il suo mentre osservava il cielo seduto per terra, accanto all’altro ragazzo.
«Beh, ma vendono anche i frullati o cose del genere» insistette Ryo.
«Preferiresti un frullato?» chiese voltandosi verso di lui.
«No, no, i tuoi cappuccini vanno più che bene» rispose, mentre un sorriso quasi invisibile nasceva sulle sue labbra sottili.
 
Day 96
Quel giorno faceva davvero caldo, tanto che era quasi preferibile il gelo invernale e l’estate non era neanche ancora iniziata. Takanori sedeva all’ombra di un albero e un po’ rimpiangeva il volo che non aveva preso e il viaggio in Europa che aveva annullato, ma un giorno tutto l’entusiasmo per la partenza era sparito e aveva deciso di non partire più, per rimanere in quella Tokyo che si stava trasformando in una sauna di enormi dimensioni. E poi, probabilmente, da solo in un paese straniero di sarebbe anche potuto annoiare, pensava.
«Ammettilo che saresti voluto partire» sentenziò il ragazzo al suo fianco interrompendo il silenzio che durava ormai da un po’. «No, non è vero» esclamò Takanori distogliendo lo sguardo che teneva fisso al cielo azzurro. «Te lo si legge in faccia» continuò Ryo senza però tradire alcuna emozione attraverso la voce. «Ti sbagli. Io sto molto meglio qui, a casa mia» disse, «e poi l’Europa non se ne va da nessuna parte, tu potresti anche scomparire da un giorno all’altro» esclamò con convinzione senza neanche essere veramente accorto di aver dato voce ai pensieri che teneva sempre e solo per sé. Anche quando si rese conto di ciò che aveva appena detto, non si pentì e guardò l’altro con ancora più convinzione di prima. Sì, forse un po’ gli dispiaceva, ma non voleva perdere qualcosa di più importante partendo. «Guarda che nemmeno io me ne vado» ridacchiò Ryo. «Non voglio correre questo rischio» disse Takanori con un tono fin troppo serio.
Tra loro calò nuovamente il silenzio. Takanori lanciò un breve a sguardo a Ryo, ma come sempre non scorse alcuna emozione particolare; si limitava a fissare davanti a sé, come se stesse osservando qualcosa che solo lui poteva vedere. Guardò le loro mani che quasi si sfioravano e lentamente sue dita si arrampicarono su quelle dell’altro, infine stringendole. Ryo si voltò e lo guardò; a Takanori parve di cogliere una leggera sfumatura di sorpresa nei suoi occhi. «Ehi, guarda che io non vado davvero da nessuna parte»
Ma comunque le loro mani non si separarono.
 
Day 112
Takanori si rendeva conto che il tempo stava passando e sapeva altrettanto bene che le cose non avrebbero potuto andare avanti ancora per molto. C’era inoltre un pensiero corrente che lo tormentava: qualcosa di cui lui era conoscenza, ma –come molte altre cose in quel periodo- non sapeva bene di cosa si trattasse; era qualcosa che pulsava e strepitava dentro di lui, facendogli quasi mancare il respiro. Ma era assolutamente certo che si trattasse di qualcosa che andava assolutamente fatto.
E’ una di quelle sensazioni che non ci sa spiegare, che non ha un vero e proprio fondamento logico, ma che, nella maggior parte dei casi, si rivela essere qualcosa di concreto. Come quando, alzandosi al mattino, si ha la sensazione che pioverà e prima di uscire, non si mai, si prende un ombrello. E puntualmente quel pomeriggio, una dopo l’altra, le gocce inizieranno a cadere, come se si trattasse di una teoria scientifica. Così anche adesso era certo di dover rendere concreta quella sensazione, nonostante non avesse la più pallida idea di cosa si trattasse.
 
Day 125
Erano giorni che si arrovellava sul significato di quella sensazione che lo tormentava, impedendogli quasi do dormire. Aveva trascorso lunghe notti insonni a farsi mille domande, cercando di comprendere quella sensazione che ogni volta gli sfuggiva per un soffio, come quando si ha una parola proprio ‘sulla punta della lingua’, ma non la si riesce a ricordare per quanto uno ci possa pensare su. Dopo tutto quel tempo era arrivato a credere di essere diventato paranoico, ma comunque quella sensazione non voleva sparire e qualcosa ancora gli diceva che si trattava di qualcosa di reale.
 
Day 129
Con un gesto breve della mano salutò il ragazzo che gli stava venendo incontro; sulle spalle portava il solito zaino, un po’ più pieno in quel periodo visto che doveva contenere gli indumenti invernali che non usava più. Indossa una maglietta nera, i soliti pantaloni e i soliti anfibi. Al collo, quella volta, non portava nulla, solo una catenina argentata. Tutto sembrava immutato, ma in verità tutto stava per cambiare.
Osservandolo, improvvisamente, Takanori si bloccò con il braccio a mezz’aria e uno strano sentimento sembrò impossessarsi del suo corpo, dandogli una forte scarica elettrica lungo tutta la colonna vertebrale. Con gli occhi sbarrati e il braccio fermo in segno di saluto, doveva apparire parecchio strano agli occhi dell’altro, ma neanche ci pensò. In quel momento c’era qualcosa di molto più importante a cui volgere la sua attenzione.
«Ciao, Takanori» lo salutò con il suo solito tono di voce.
Tuttavia non lo ascoltò molto attentamente e non ricambiò il saluto. La sua sensazione era diventata realtà e per essere precisi, in quell’esatto momento, si trovava proprio di fronte a lui, in carne ed ossa.
«Vieni a vivere con me» disse semplice, racchiudendo nella sua voce tutta la purezza e le semplicità di questo mondo.
La sua sensazione era diventata realtà.
 

Ripetizione dei comportamenti cercando di unirci l'uno all'altro.
Non più solo abbracciare e venire abbracciato - Spero per niente.

 

pons chat
Non riesco davvero a credere di aver finito questo capitolo e che sia così lungo. Miseriaccia.
Che dire? che dire?
Sono fierissima della mia storia e ci tengo davvero molto nonostante, ovviamente, certe cose non sono venute come vorrei, ma amen. Devo ammettere che l'inizio del capitolo mi piace molto, la fine... ni. Ho l'impressione di averla scritta troppo di fretta, ma avevo davvero bisogno di finire questo capitolo. Sono felice di essere riuscita a sviluppare il rapporto tra loro due come volevo, ma certi passaggi mi convincono molto poco D: Care lettrici, se ci sono parti davvero pessime fatemelo sapere, please. Mh, non ho più molto da dire... Spero vi sia piaciuto e spero avrete un altro po' di a santa pazienza pera spettare l'ultimo capitolo. Tuttavia non ho la più pallida idea di quando uscirà nè di quanto sarà lungo lol 
Grazie mille per essere ancora qua  a stostenermi!
Un abbraccio,
pon ♥

PS: Tanto lo so di aver dimenticato delle cose importanti.

  
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