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Autore: Annika Mitchell    25/05/2012    2 recensioni
Una storia d'amore, forse. Una storia che parla di chi resta e perde tutto, di un Jimmy che fugge lasciandosi alle spalle la vita di Meredith Adler, un'incauta fotografa che, per qualche strana legge cosmica, crede di essere davvero importante per gli sfuggenti occhi blu di un batterista, che in realtà è un pianista, un cantante, un filosofo, un fratello e una stella in picchiata libera.
La storia di una delle tante, che si è sentita l'unica tra le braccia dell'Imprescindibile.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, The Rev, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Sono pienamente consapevole che tu ami Jimmy come si amano le cose sante, i CD preferiti e i libri belli regalati dalle persone giuste.”
- piuma_rosaEbianca




Qualche vita precedente.

Me ne stavo lì, stesa sotto la luna, gli occhi persi nel vuoto, a riflettere come uno specchio rotto.
A riflettere sulla vita, la morte e le sottili linee, quasi impercettibili, che le separavano dalla pura sopravvivenza.
Mi dondolavo goffamente sull’amaca che la zia Willow aveva fatto mettere in giardino, convinta che fosse un elemento indispensabile per la vita di ogni artista che si rispetti. Io mi limitavo a farla contenta scattando qualche fotografia random, che lei, prontamente, conservava con cura in un album infinito intitolato “Quand Meddie sera célèbre”, titolo che univa la sua passione per la poesia francese a quella per i soldi. Era convinta che un giorno sarebbe divenuta ricchissima, vendendole.
 Io stavo sempre lì, a dondolarmi, fotografandomi i lacci delle scarpe coi piedi all’aria, ridendo per ciò che avrebbe potuto pensare chicchessia assistendo alla scena, quando mi arrivò un messaggio.
Sorrisi come una bambina che sa già quale sarà il suo regalo di compleanno.

Jimmy, 05/08, 22:34
Sto arrivando, piccola.

e dopo pochi secondi

Jimmy, 05/08, 22:34
Stasera birra all’O’Malley Inn. Niente ma.

Sorrisi nuovamente, un po’ contrariata.
Andare all’O’ Malley Inn significava incontrare quella ragazzina sensibilmente più bassa di Johnny che aveva una cotta per Jimmy dai tempi  in cui si era messo in testa di diventare qualcuno, vale a dire da sempre. Si chiamava Leana, aveva i capelli biondi tinti e le extensions, gli occhioni languidi da cerbiatto in pericolo e il sorriso dolce di chi sa conquistarsi un uomo.
Non la sopportavo perché la temevo, principalmente, e perché non sarei mai stata come lei, secondariamente. Io non ero in grado né di conquistare un uomo, né di tenermelo stretto.
Anche se poi nessuno era in grado di conquistare Jimmy e di tenerselo stretto, perché lui  era una di quelle persone che non appartengono a nessuno, ma a cui tutti vorrebbero appartenere. Era fatto così.

Scesi dall’amaca barcollando, rischiando di cadere in terra e di rompermi sia la noce del collo, che la mia bellissima Canon eos 40d.
Mentre valutavo l’idea di rientrare a sistemarmi un attimo, dati i capelli neri scarmigliati dopo la lotta corpo a corpo con l’amaca assassina,  un Jimny nero con tanto di teschi mi abbagliò, sgommando nel vialetto.
Andai incontro alla ridicola accoppiata Jimmy-Jimny, con un sorriso che andava da orecchio a orecchio.
«Che cazzo ti sei messo in testa?» lo salutai, indicando la bandana con i teschi, che faceva pendent con la macchina sulla quale ero appena salita.
«L’ho fottuta a Syn. Perché, non ti piace?» mi rispose, facendo retromarcia.
«Credevo che le bandane si mettessero quando il sole è troppo forte e si rischia un’insolazione.» precisai.
«Eh, credevi male.» concluse con un sorrisetto, mentre fumava uno di quegli schifosissimi sigari Montecristo, che già il nome la dice lunga.
Mi accesi una Lucky Strike rossa, ammirando il lungo mare californiano.

Feci per parlare, ma Mister Plague mi batté sul tempo, con quel suo timbro di voce irriproducibile che nessun altro al mondo aveva: «Andiamo all’O’ Malley punto, lo sai che lì ti regalano un’Heineken ogni tre cocktail che prendi, e io ho intenzione di prenderne decisamente di più.».
Gli sorrisi scuotendo la testa e lui mi rispose con un occhiolino malizioso.
«Hai intenzione di darmelo, un bacio, visto che dopo non potremo più?» mi chiese poi.
«Ci sono anche gli altri?» sbuffai, gettando dal finestrino il filtro dell’ormai non più sigaretta.
«Ovvio.» chiarì.
«E non hai ancora intenzione di dirglielo?»
«Ma di dire cosa, esattamente?» mi ammutolì.

Il punto era che gli altri non sapevano niente della nostra relazione, che, di fatto, relazione non era.
Io ero semplicemente la fotografa degli Avenged Sevenfold, per uno scherzo del destino, il quale volle che, quella mattinata di luglio del 2001, la mia datrice di lavoro - Alicia Harris - si ammalasse di qualcosa di talmente imbarazzante da rimanere tutt’oggi un punto interrogativo. Così, anziché ritrovarsi davanti quella burbera e grassottella fotografa dai capelli cotonati di Alicia, si ritrovarono me: una ragazzina impacciata e timida, dalla maglietta troppo larga e dai capelli troppo lunghi sul viso, con un sorriso troppo timido, alle prese con il primo servizio fotografico della sua vita.
Fu così che li incontrai: cinque satanisti megalomani, pronti a partire per il loro primo tour negli Stati Uniti.
Uno, che si chiamava Ash, come il protagonista dei Pokèmon – ma che non avrei più rivisto, dopo quella volta – e un altro, alto sicuramente due metri e mezzo, dai capelli e dal pizzetto improponibili, con gli occhi più belli che avessi mai visto in un intera esistenza passata e futura,  che mi disse di chiamarsi James, Jimbo, The Rev, Mr. Plague e Rathead e che io decisi di chiamare semplicemente Jimmy, mi chiesero di uscire, quella sera, per una birra.
«A stasera, Londra.» mi sorrise James, alludendo alle mie origini inglesi e al mio accento britannico.
«Porta un’amica!» si preoccupò, poi, di salutarmi Ash.
Io un’amica gliela portai, ma la poveretta dovette chiamare un taxi e tornarsene a Fountain Valley, un paese non troppo lontano da Huntington Beach, perché del suo cavaliere non si vide nemmeno l’ombra.
Quello fu il nostro primo appuntamento e, per la prima volta in vita mia, mi sentii davvero speciale. Era quello il suo più grande dono, più grande del talento che aveva, della sua simpatia sarcastica e pungente, della sua risata contagiosa, del suo essere essenzialmente un coglione con un gran cuore: far sentire uniche, speciali e amate le persone che lo circondavano. Una dote assolutamente naturale, unica nel suo genere.

«A che pensi?» mi chiese, interrompendo il flusso di ricordi.
«A tutto e a niente.» risposi sinceramente, perché non potevo definire in altro modo l’assoluto, ovvero tutto ciò che, nella mia vita, aveva a che fare con lui.
Rimase in silenzio, lo sguardo assorto e fisso sulla strada costeggiata da palme e villette a schiera.
Aveva lo sguardo di chi, per disgrazia o per fortuna, in questa vita ci vede poco e nulla, ma ha gli occhi per vedere lontano, là dove nessuno ha mai pensato di guardare.
Io, invece, rimasi a guardarmi le unghie mangiucchiate, con lo stesso sguardo un po’ deluso da sé che è proprio di un fumatore, in quell’attimo in cui si rende conto che potrebbe morire da un giorno o l’altro, a causa di quella piccola compagna di una vita, che comunque non abbandonerebbe mai. Non mi ricordai, però, che sarebbe stato meglio smettere. Pensai, anzi, di accendermi una sigaretta, ma dovetti rinunciarvi, perché eravamo ormai arrivati al bar irlandese che, da sempre, era lo sfondo delle nostre serate.

«Med.» disse, dopo che ebbi sbattuto la portiera.
«Sì?» chiesi senza guardarlo, sistemandomi la canotta degli Iron Maiden stropicciata e gli short che forse erano un po’ troppo short.
Mi guardò, soppesando il da farsi, poi scosse la testa e mi sorrise in un modo che, chiunque conoscesse Jimmy Sullivan, avrebbe definito sospetto.
Entrammo nel locale, che poteva definirsi un’osteria medievale dei giorni nostri, con tanto di tavoli in legno, lampade in ferro battuto, archi ovunque e finestre gotiche. Un bijou.
Avvistammo i ragazzi al nostro solito tavolo, abbastanza vicino al bancone per un servizio più rapido, ma sufficientemente appartato e lontano dal resto della clientela, soprattutto da quelle ragazzine moleste delle loro fan.

Feci per salutare tutti con quella che era la nostra stretta di mano da tempi ormai immemorabili, quando successe l’inimmaginabile, ma ciò per cui ero pronta da praticamente sempre, forse l’utopia che avevo covato morbosamente per tutti quegli anni. Un’utopia che si realizzò.
In quel momento Jimmy mi accarezzò una spalla e mi baciò, appassionato come sempre e delicato come non mai, sotto gli occhi di tutti: Zacky, che ci guardava ammirato, avrebbe volentieri fatto partire un applauso generale con tanto di urla e schiamazzi eccitati, Brian, che se ne stava con la bocca aperta farfugliando nulla di fatto, aveva appena disimparato a parlare, Matthew ci sorrideva gongolante dietro i suoi occhiali a specchio che no, non levava nemmeno per andare a dormire, e Leana, che aveva appena fracassato in terra almeno cinque boccali di birra, ci fissava con una faccia disgustata e smarrita al tempo stesso. L’unico che rimase impassibile fu Johnny, che parve addirittura non accorgersi della nostra esistenza, assorto com’era a bersi il suo gin lemon in grazia di Dio.

Tutto in pieno stile Sullivan, in linea con il suo essere costantemente agli estremi delle cose, senza vie di mezzo e sfumature. O tutti o nessuno, punto. Sceglieva sempre il modo più plateale possibile per rendere partecipi gli altri della sua vita, e se così non poteva essere, allora preferiva semplicemente tenersi tutto per sé.
Jimmy era il risultato stesso della passione dalla quale si era lasciato guidare per tutte le decisioni della sua vita, da quelle più irrilevanti a quelle che l’avrebbero drasticamente cambiata, quella stessa passione che l’aveva portato a farsi arrestare più di dieci volte in diversi stati del mondo, quasi sempre per rissa, e che ora l’aveva spinto a rendermi una donna un po’ più speciale rispetto alle tante altre che avevano fatto, e facevano, parte della sua realtà. 



   
 
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