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Autore: MaTiSsE    10/06/2012    2 recensioni
"Mi voltai di colpo, scombussolata. Qualcosa era tornato a fare male.
Me lo ritrovai faccia a faccia, il fotografo: Andrea detto Zeno detto Genio.
Andrea era un bel nome, perché storpiarlo?
Non lo riconobbi dal viso ma dai suoi tatuaggi: Medea mi occhieggiava con tutte le serpi dalla sua spalla, tra rose, teschi e scritte in lingue sconosciute.
Balbettai qualcosa, i denti stridevano e la lingua non era in grado di articolare una parola. Erano tornati i miei momenti scuri, quel capogiro, la confusione, l'irrazionale sensazione di non saper dove mi trovavo e perché. Ero convinta di essere guarita, quella foto invece mi aveva riportato indietro. Cento passi indietro, tutti gli sforzi dei miei diciotto anni buttati via per una foto."
Un centro sociale, due giovani che non si conoscono e forse si conoscono da sempre: questa è la storia di Meg e Andrea, il Genio.
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Buonasera a tutte :)
Immagino stiate guardando la partita... beh, se non lo state facendo mi auguro vi faccia piacere quest'aggiornamento di Piovre! Allora, qualche appunto: la parte in corsivo con cui comincio il capitolo è un insieme di ricordi/sensazioni di Margherita. E' possibile che inserisca spesso questa specie di "prologo" (passatemi il termine) da cui potrete trarre un po' di dettagli del suo passato.

La canzone che fa da colonna sonora al capitolo è questa:
http://www.youtube.com/watch?v=rDOmXKZ-EdI

E' una canzone dub che amo tanto, spero possa piacervi. Sicuramente combacia molto con l'argomento trattato! ;)

Se manca qualche "enne" nel capitolo vi prego, non fateci caso. Ho seri problemi di tastiera.
Grazie per le recensioni al precedente capitolo, spero mi lasciate il vostro parere anche per questo nuovo :)
Vi lascio con un banner creato da me. Non è un granché, avviso! ;)
Buona lettura!
Matisse


 











Mio padre pensava che il rigore fosse alla base di tutto e non lo dimostrava a parole, ma con i fatti. D’altronde non amava troppo chiacchierare con la gente, neppure con mia madre: dovevo aver ereditato da lui quella mia particolare tendenza al silenzio con gli estranei.

Ciò che contava davvero per lui era lavorare sodo e al meglio, per il bene della famiglia, per se stessi e per dar modo agli altri di parlare. Sì, esattamente: parlare. A suo dire, gli estranei avrebbero dovuto spiare i nostri lussi, commentarli e invidiarli, sempre. Questo, per lui, ci rendeva persone di livello superiore: più soldi, più studio, più salute. Grandezza mentale e fisica, in altre parole, e mille diritti in più rispetto al resto del mondo. Ecco perché ringraziavo sempre chi, nell’alto dei cieli, ci aveva permesso di non diventare straricchi come Berlusconi: se avessimo avuto ancora più soldi e potere mio padre sarebbe stato incontrollabile. In queste condizioni, invece, riuscivamo ancora a gestire la sua mente malata.
Il suo tarlo fisso riguardava i particolar modo noi figli: avremmo dovuto studiare, mantenerci ligi al dovere in ogni occasione e seguire, possibilmente, le orme paterne. Quelle materne no, giacché mamma si era autorelegata sin da subito nel semplice ruolo di padrona di casa. La invidiavo quasi, per questa sua presunta scelta.
Mio fratello Ludovico, comunque, aveva seguito per davvero gli insegnamenti di mio padre: più grande di me di sette anni, si era laureato in economia e adesso gestiva gli affari di famiglia assieme a papà, zio Aurelio e Riccardo, fratello della sempre compianta e ormai famosa zia Carolina.
Io, viceversa, mi ero rivelata la pecora nera. Ero una delusione per la famiglia Gherardi. La più grande delusione per mio padre, soprattutto.
Questo perché, in primo luogo, avevo abbandonato il prestigioso istituto superiore di suore dove ero stata iscritta dai miei geitori, in favore di una normale scuola pubblica in città, la stessa dove avevo poi conosciuto Romina, compagna di banco e amica fidata. Certamente si era trattato di un grosso colpo per papà: anche lui aveva studiato in quella scuola e pure Ludovico, la riteneva tappa fondamentale di un percorso di studi serio e completo. Tuttavia aveva ingoiato il boccone senza obiettare troppo mentre io mi sfregavo le mani di nascosto, fiera di quella prima conquista. Due anni dopo questo primo colpo, gli avevo poi comunicato – con tanto di tachicardia, sudando e balbettando – che non mi sarei mai iscritta a economia come lui desiderava: volevo insegnare. Mi piaceva leggere, adoravo scrivere e anche disegnare a dirla tutta. Avrei studiato alla facoltà di Lettere e nessun rimprovero mi avrebbe dissuasa. Lui non aveva ribattuto ancora una volta e io sapevo perfettamente perché: non poteva, temeva le mie reazioni e temeva per la mia salute. Se avessi avuto l’ennesima crisi a causa di un suo rifiuto, mamma non l’avrebbe mai perdonato. Lui stesso non si sarebbe dato pace. Cosicché aveva acconsentito ma io sapevo che, in cuor suo, sperava di farmi cambiare idea negli anni con la diplomazia. A distanza di tempo non c’era riuscito; ormai alle soglie della maturità, il mio desiderio era rimasto immutato: avrei studiato alla facoltà di Lettere.

 
A volte, di notte, ringraziavo la mia buona stella, nonostante tutto: se non avessi mai battuto la testa sul pesante marmo delle scale che conducevano al piano inferiore nell’azienda di famiglia, tante cose non mi sarebbero state permesse. Men che meno i corsi della facoltà di Lettere.




***
 


Il mattino seguente alla sfortunata cena, lasciai la mia stanza in tutta fretta ma stando bene attenta a non far rumore. Sapevo di per certo che mio padre non fosse in casa – a quell’ora era già affaccendato nel suo ufficio – e così, ridacchiando, me l’immaginai mentre cercava di scusarsi con zio Aurelio per l’accaduto. Me lo immaginavo mentre parlava di me come di una malata di mente, per giustificarsi. Margherita la pazza, avrebbero potuto ribattezzarmi.
Allo stesso modo Joan, il povero cristo filippino che ci puliva le tapparelle, non era in casa poiché di sabato aveva giorno libero. Avrei potuto incontrare mia madre, tuttavia, per cui feci bene attenzione a evitarla benché fossi convinta che a quell’ora poltrisse ancora nel letto.
Come immaginato, schivai ogni pericolo e corsi a scuola con il cuore più leggero. Dopotutto ero felice.
 

Chissà perché.
 

Incontrai Romina sulle scale dell’ingresso, mentre ascoltava musica dal suo iPod standosene seduta in disparte.
 

“Ohi, Romy? Che hai? Perché stai qui da sola?”
Le strappai letteralmente le cuffie, preoccupata; Romina mi guardò sorpresa. Voleva dirmi “ma sei scema?” eppure si trattenne e mugolò un semplice “tutto okay?”.

“Sì, scusa… solo che ti ho vista qui in un angolino, normalmente sei così chiacchierona e socievole. Pensavo ti fosse accaduto qualcosa, mi hai fatto preoccupare.”
 
Romina spense l’iPod e mi rivolse un sorrisetto furbo.

“Io sto benissimo, ti ringrazio. Sto soltanto facendo una full immersion nel fantastico mondo del reggae.”
“Prego?”
“Stasera c’è la festa a La Piovra, te lo sei scordato?”
 
Ah sì. Sabato sera.
Me l’aveva detto Stena: “c’è un graaaaaaaaaandioso reggae party!
 

Yeah.
 

“Vieni anche tu? Tanto è sabato, puoi uscire.”
“Mmh. Penso di no.”
“Perché?”
“Probabilmente sono in punizione fino a nuovo ordine.”
“Che hai fatto?”
“Ho risposto male alla nonna ieri sera, a cena.”
Mi grattai la testa e feci una linguaccia.
“Ulla – là!” mugolò Romina, sorpresa, e nel farlo ripose alla rinfusa libri, iPod e quaderni nello zaino.
 
Uno zaino nero e borchiato?
E da quando?
E che c’entra col reggae, Romy?!

 
“Ti stai ribellando al potere?”
“Ho cominciato anni fa, a essere sincera.”
“Stai migliorando. Brava. Che è successo stavolta?”
“Ha ricominciato con la storia di farmi iscrivere a Economia, come hanno fatto Ludovico e Florinda. Mi hanno stufato… Che si fottano tutti!”
Romina alzò le spalle, in faccia un’espressione indecifrabile.
“Tesoro, cosa ti aspettavi? Sei una Gherardi, ti stanno concedendo fin troppo. Queste cose succedono alla gente comune, figurati ai…”
“…ricchi come me? Lo so. Ma non ricordarmelo, per favore.”
“Cosa?”
“Che sono ricca.”
“E’ inutile che fingi o ti nascondi, Meg. Guarda che la gente farebbe carte false per stare al posto tuo.”
“Se lo prendessero questo posto mio, allora! I soldi non li voglio, non la voglio la mia casa a due piani e l’azienda di famiglia può pure bruciare! Io … io ho sentito …”
 


Ho sentito le parole di mio padre.
Ricordo quello che ha detto.
Sì, purtroppo lo ricordo.
Da quel giorno non è stato più mio padre, per me.

 


Gli occhi di Romina si dilatarono per lo spavento. Forse temeva un mio possibile quanto comune attacco di panico perché si affrettò a tranquillizzarmi:
“Sssh, tesoro! Basta adesso, non pensarci più. Non ci andrai a Economia, non farai quello che ti dicono così come non l’hai fatto finora.”
Mi afferrò i polsi con le sue mani bianchissime e delicate. Mi strinse senza farmi male.
“Non l’ho fatto finora soltanto perché sono un’inferma e loro mi hanno accontentato.”
“Ma sta’ zitta che stai meglio di me! Idiota!” mi lasciò un buffetto leggero sulla guancia e rise. Ecco perché le volevo così bene: le sue parole non mi facevano mai sentire diversa dagli altri.
“E stasera vieni al centro sociale con me, non accetto rifiuti. Parlo io con tua madre.”
“Al massimo dovresti parlare con mio padre. O farci parlare tua madre e comunque non sono certa ti direbbe di sì.”
“Mia madre e mio padre sono andati a trovare mia sorella Claudia, tornano domenica pomeriggio. In casa ci siamo solo io e Lorenzo e dubito che tuo padre voglia parlare con mio fratello Lorenzo.”
“Mmh … se è sempre quello che ha fatto quasi saltare in aria il laboratorio di chimica della scuola due anni fa, no. Non credo voglia parlarci.”
“Oddio, ma perché, lo sa anche tuo papà della storia di Lore!?”
“Ma no, ovvio che no! E non dovrà mai saperlo.”
“Mi hai fatto prendere un colpo, cretina! In ogni caso affidati a me: dirò a tua mamma che lunedì abbiamo un compito importante di… di…”
“…latino. Abbiamo davvero il compito di latino lunedì, Romy!”
“Ah già! Cazzo, me l’ero scordato…” fece una faccia perplessa. Quasi certamente non era preparata. “In ogni caso abbiamo la scusa servita su di un piatto d’argento: dobbiamo studiare insieme per lunedì!”
“Mia madre ti dirà che puoi stare tu da noi…”
“E io le dirò che dobbiamo stare da me perché c’è anche mia cugina che è un fenomeno in latino!”
“Davvero?”
“Ma no! Non ho neanche una cazzo di cugina, sveglia!”
“Oh… e che ne so. Non me lo ricordavo.”
“Senti, è tutto deciso allora!” commentò fiera, alzandosi di botto. Aveva proprio la faccia trionfante e il pugno chiuso in stile eroina dei fumetti. Sembrava un Super Sayan.

In realtà non c’era proprio niente di deciso ma dopo l’ennesimo putiferio scatenato in famiglia non mi dispiaceva pensare di poter staccare la spina e allontanarmi, anche per una sera soltanto. E non m’importava che fosse a La Piovra, non m’importava non avere nulla a che fare con quel centro sociale: era qualcosa di totalmente diverso dal mio ambiente casalingo e per una volta questa cosa mi stava bene.
Dovevo soltanto incrociare le dita e sperare nella benedizione materna.
 



***
 



“Ehm… Romy?”
“Sì?”
“Recentemente sei stata al circo Orfei?”
“No, perché?”
“Allora dove hai pescato la roba che ti sei infilata addosso?”

Romina smise di contemplare compiaciuta la propria figura allo specchio e mi lanciò rapida un paio di maglie colorate in faccia, tirando fuori la lingua. A me venne da ridere e mi distesi più comodamente sul suo letto. Indossava una gonna a balze, non troppo gonfia, di un’ orribile tonalità di … giallo; i bordi della sua maglia nera erano decorati con i colori della bandiera giamaicana. Mi chiedevo cosa ne avesse fatto della ragazza pseudo metallara – cyberpunk con cui avevo parlato quel mattino.


“Lo sai che se pensi di aver adottato un determinato stile dovresti mantenerlo sempre?”
“Che intendi?”
“Beh, se ti vesti in un determinato modo lo fai per esternare quel che hai dentro e non lo cambi così facilmente solo perché cambia il contesto dove ti trovi. Se pensi di essere sufficientemente tosta e oscura per indossare borchie e minigonne nere dovresti farlo anche se vai a una serata di musica reggae, no?”

Romina ci pensò un po’ su, le mani sui fianchi e la testa inclinata su di un lato mentre mi guardava. Poi sorrise convinta.

“Oooh ma chi se ne frega! Mica posso andarci con le borchie stasera!” e così riprese ad armeggiare intorno ai capelli.
“Li lascio sciolti?”
“Romina!” ero esasperata.
“Che c’è?!”
“Ma mi ascolti quando parlo?”
Sospirò comicamente, prima di lanciarsi sul letto accanto a me. I suoi capelli mossi mi solleticarono il braccio.

“Sei pesante.”
“Si chiama coerenza.”
“E se per una volta la lasciassi da parte? E poi, anziché rimproverarmi, perché non mi ringrazi? Ti ho parato il culo, oggi!”
 
Sì, era vero. Romina mi aveva parato il culo, dovevo rendergliene atto.
Ripensai alla conversazione telefonica di quel pomeriggio tra Romina e mia madre; subito dopo scuola ero corsa a casa sua e avevamo organizzato al dettaglio la storia che avremmo rifilato a mamma: ci attendeva un sabato di studio. Lunedì c’era compito, non potevamo permetterci di sbagliare. Romina aveva ripetuto il discorso più volte, con convinzione, alla fine c’avevo creduto quasi pure io: aveva la stoffa dell’avvocato. Comunque a mamma non erano serviti tanti giri di parole: per magia aveva detto subito di sì, senza neanche interpellare papà. La mia amica aveva esultato per la vittoria facile, io invece ero ancora perplessa e dietro mi trascinavo la sgradevole sensazione che i miei genitori avessero voluto soltanto sbarazzarsi di me per qualche ora. Praticamente, avevo fornito loro l’occasione su di un piatto d’argento. Non mi sembrava possibile che continuassero a darmi permesso per ogni cosa soltanto perché di tanto in tanto soffrivo ancora di mal di testa o capogiri. Era passato troppo tempo.

Romina mi sventolò la mano davanti agli occhi.

“Terra chiama Margherita. Sei tra noi, Margherita?”
“Sì, sì…” risposi a stento, scuotendo il capo per riprendermi.
“Bene. Sto aspettando allora…”
“Cosa?”
“Un grazie, no? Guarda che è merito mio se stasera rivedi Zeno…”
“Grazie.”
“Tutto qui?”
“Oh Gesù, Romina, che devo fare? Ballare il Can-can come gesto di gratitudine? E poi che devo farci io con Zeno?”
Romina occhieggiò, ironica.
“Ma finiscila! Dimmi che non ti frega una cippa di Zeno e giuro che alla festa ci vado vestita di piume fucsia!”
“Okay, è interessante. Ti basta?”
“Non è solo questo, non dire bugie.”
Alzai gli occhi al cielo.
Facevo soltanto finta di essere spazientita.

“Ha un’aria familiare. Mi piace questa cosa.”
“Oh ma bene!” Romina si sfregò le mani, aveva l’aria esaltata. “Ti piace…”
“Ho detto che mi piace questa cosa, non che mi piace lui! La finisci di rigirarti le cose a modo tuo?!”
“Sì, sì ti credo. La tua faccia comunque, quando prima ti ho raccontato di come ti cercava a La Piovra, ha parlato chiaro. Ma la finisco qui altrimenti mi meni. A meno che tu non voglia sapere di nuovo ogni dettaglio di quando me lo sono ritrovato alle spalle e mi ha chiesto se Margherita era ancora in giro …”
“No, non lo voglio sapere.”
Okay, caso chiuso.”


Romina alzò le mani, in segno di resa. Io sprofondai di nuovo tra i suoi cuscini che sapevano di lavanda e che non avevano davvero nulla a che fare né con La Piovra, né col reggae, né con i Metallica, e sospirai. Sapeva essere davvero assillante sì… ma era la mia tortura preferita quella ragazzina. E okay, non volevo dargliela vinta soltanto per evitare di finire di nuovo sotto interrogatorio. Per dirle cosa, poi? Di Zeno io davvero non sapevo nulla se non che era un bel ragazzo pieno di tatuaggi, dall’aria lontana, lo sguardo sicuro ma nostalgico e gli occhi grigi e terribilmente familiari, per l’appunto. Ah sì, sapevo anche che gli piaceva scattare fotografie e in tutto questo l’avevo visto solo una volta nella mia vita. E poi?
No, sarebbe stato inutile davvero proseguire quella conversazione: non sarebbe arrivata a nessun punto di svolta e noi non avevamo troppo tempo da perdere.
 
“Allora?”
“Che c’è?”

La guardai sorpresa, ancora una volta.

“Hai intenzione di venirci vestita così alla festa?”

Guardai perplessa il mio jeans scuro e la camicia di cotone blu dalle maniche arrotolate. Feci spallucce.
“Perché, che ho che non va?”
Romina si coprì il viso con entrambe le mani.
“Sei un caso disperato. Vieni qua che ti sistemo io.”
 
Rabbrividii.
Sapevo che quando Romina si metteva in testa qualcosa era difficile anche per me dissuaderla. E adesso, a guardarla con quell’aria afflitta che riservava al mio semplice abbigliamento, ero certa che avesse in mente qualcosa per me: ero troppo “normale” per La Piovra. Non andavo bene. Dovevo essere di più: più eccentrica, più stravagante, più alterativa, più colorata.
Non andavo bene per nessuno, era ovvio, però, almeno in questo caso, c’avrebbe pensato la mia migliore amica a sistemarmi.
 


Chi me l’aveva fatto fare di accettare l’invito per quella festa?
 
 


***
 


“Mi spieghi perché hai sentito la necessità di strapparmi i jeans?” domandai mentre mi facevo strada a fatica tra il casino di punkabbestia dai vestiti colorati e sudaticci che già riempivano La Piovra; i loro dreadlocks mi solleticavano la faccia mentre tentavo di schivarli. Pensavo agli squarci sfilacciati da cui venivano fuori le mie ginocchia e ancora mi rammaricavo: ero riuscita a limitare le intenzioni di Romina ma non ero stata in grado di fermarla con quelle cavolo di forbici.
“Non lamentarti, ti stanno un amore. E quella canotta nera tienitela, fa più figura su di te.”

Non me la sentii di ribattere: troppa calca, troppo caldo. E la canotta, oltretutto, mi andava più che bene considerando che già solo all’entrata del centro sociale mancava l’aria. Più che altro mi faceva ridere l’anello munito di teschio che Romina mi aveva infilato al medio (il mio anulare era troppo sottile per trattenerlo) e ancora mi domandavo come fosse possibile che mischiasse tutti quegli stili con tanta nonchalance.
 
Non ribattei comunque, e piuttosto continuai a tenere gli occhi fissi sulla chioma gonfia della mia amica che mi camminava avanti di qualche passo, stando bene a non perderla di vista.
Il locale che ospitava il centro sociale era sovraffollato quella sera. Più del giorno della mostra, molto di più. Le luci erano basse e dalle casse pompavano i bassi, così forte che mi pareva che qualcosa mi si spaccasse nel petto. I riverberi della musica sgusciavano nelle orecchie, creavano un’atmosfera irreale; i ragazzi che si agitavano intorno a me, ballando sinuosi con i loro vestiti un po’ etnici e i capelli in disordine, ne erano rapiti, sembravano in trance. Tuttavia, quando l’odore arrivò anche alle mie narici compresi meglio: non era per la musica. In molti dovevano aver fumato ed erano semplicemente andati un po’ fuori di testa.
Dopotutto mi venne da sorridere. Li invidiavo, per me non era altrettanto facile perdere il controllo.
Vibronics, Alborosie, la stirpe dei Marley al completo. Conoscevo buona parte della musica che stavano passando: mi piaceva informarmi su tutto e trovavo paradossalmente affascinante il reggae. A vedermi dall’esterno si sarebbe detto che il massimo dell’alternativo per me era Mozart e invece … potevo riservare qualche sorpresa anche io.
Qualcosa sott’occhio richiamò la mia attenzione: dal soffitto pendevano un’enorme bandiera con i colori della Giamaica e poco più avanti una della pace. Qualcuno aveva provveduto a illuminarle sufficientemente cosicché era facile distinguere la frase “non ci avrete mai come volete voi”che una mano decisa aveva riportato con la bomboletta nera sulla seconda bandiera. Non comprendevo che c’entrasse con la festa ma nel vederla e, soprattutto, nel rapportarla a tutta quella gente intorno a me che sembrava essersi scordata dei propri guai così facilmente, mi sentii liberata. Compresa.  
Anche io non ero come mi voleva lui, come mi voleva papà. O almeno ci provavo.
Per la prima volta, quindi, sentii che anche io potevo combaciare un po’ con quelle persone che mi vorticavano intorno, muovendosi in modo affascinante e fingendosi dei rasta veri e vissuti.

Magari La Piovra non era così male come sembrava, no?
 
In ogni caso, ero tanto impegnata nel fantasticare sul mondo attorno a me, che persi di vista Romina. Me ne accorsi per caso quando, cercando il suo profilo tra la folla, mi resi conto che non c’era. Né davanti a me né al mio fianco.
Non c’era, punto.


Ops.


Un pochino mi lasciai cogliere dal panico: per quanto affascinata potessi essere dall’ambiente, non conoscevo nessuno e l’ultimo dei miei desideri era quello di confinarmi tra un mucchio di gente di cui l’unica cosa che conoscevo era il grado di sudore della pelle. Okay, era vero, quella sera avevo voglia di staccare la spina e perdere il controllo ma non in quel modo o non completamente. Ecco, non ero in grado mai di tagliare del tutto i legami con il mio selfcontrol, era quella la verità e forse il mio difetto maggiore.
Provai a pescare il cellulare dalla tasca dei miei jeans ma non trovandolo ricordai che l’avevo lasciato a casa, sul comò della cameretta di Romina, proprio per evitare di perderlo. Poca pena: dubitavo che avrebbe preso campo comunque.

Cominciai a respirare con più fatica - ero proprio una preda facile per l’ansia – quando tentai di darmi una regolata e mi decisi sul da farsi.
Avevo due possibili scelte: o continuare a smanettare tra la gente fino a trovare la mia amica, ovunque si fosse cacciata, o faticare in senso inverso, tornandomene all’ingresso e sperare che si decidesse ad uscire anche lei. In effetti scelsi la seconda opzione, poiché sentivo che l’aria cominciava a venirmi meno, come spesso mi accadeva in situazioni di panico. Per cui, girai rapida sui miei tacchi e tentai subito di farmi largo tra la folla, quando due mani grandi si adagiarono delicate sulle mie esili spalle.
Faticai un po’ prima di riconoscere il viso di Zeno tra le ombre e le luci de La Piovra: con quei colori più cupi neanche la sua Medea sembrava la stessa.
 
“Che stai facendo?” mi chiese, come se fosse stata la cosa più ovvia. Come se ci fossimo conosciuti da sempre e si fosse sentito in diritto di farmi quella domanda banale.
“Torno indietro, non trovo più Romina.” gridai per farmi sentire ma la musica era assordante, i bassi continuavano a picchiare e vibrare nel petto, non avevo aria a sufficienza nei polmoni e la mia voce era troppo sottile per superarli. Zeno mi fece segno di non aver capito e si sporse in avanti per permettermi di parlargli all’orecchio.
“Ho perso la mia amica” ripetei mentre aspiravo il suo profumo. Un misto di tabacco e canne che nascondeva la scia quasi evaporata di un bagnoschiuma forte, qualcosa tipo Pino Silvestre. Mi sembrava strano, quello doveva essere un sapone adatto a mio padre, non a un tipo come Zeno; la sorpresa per quella scoperta cancellò un po’ l’imbarazzo di saperlo così vicino.
“Stavi uscendo?”

Annuii.
“Mi manca un po’ l’aria, in effetti.”
“Vieni con me” gridò al mio orecchio, di nuovo “fuori c’è troppa gente, di sopra starai più tranquilla.”
 
Ora, se in quel posto con me e Zeno fosse stata presente anche mia madre, avrebbe aperto bocca per dire due semplici cose:

1) che La Piovra era un posto lercio e schifoso, pieno di gente sporca da cui dovevo scappare.
2) che Zeno era un malintenzionato che cercava di adescarmi e violentarmi da cui dovevo scappare.


In conclusione, avrei dovuto scappare. Fortunatamente per me, mamma Carlotta non era presente e non poteva parlarmi. Allo stesso modo, e chissà per quale magia, la vocina della coscienza che aveva instillato dentro di me sin da bambina decise di tacere per cui, in maniera del tutto avventata e senza pensarci troppo, afferrai la mano che Andrea mi porgeva e lo seguii tra la gente.
Qualcuno l’avrebbe chiamato istinto, qualcun altro ingenuità. Per altri avrei potuto essere nient’altro che una ragazzina impulsiva e sconsiderata ma a me non importava: Andrea era troppo stranamente familiare, la sua stretta di mano calda e accogliente. Non provavo timore nel seguirlo: in  cuor mio era come se l’avessi seguito tante altre volte prima di allora.
Mi condusse tra la gente, aprendosi facilmente un varco, alto com’era. In molti lo salutarono, tanti conoscevano il suo nome e gli sorridevano mentre li superava. In pochi mi notarono alle sue spalle, notarono la presenza di quella piccola ragazzina sconosciuta che Andrea teneva per mano.
Arrivammo a lato del locale, in prossimità di una porticina di ferro seminascosta da un muro. Andrea mi lasciò la mano, armeggiò in tasca e ne tirò fuori una piccola chiave. Si guardò alle spalle prima di infilarla nella serratura e aprire la porta ma nessuno stava badando a noi e poteva star tranquillo.


“Sali, svelta” mi disse prima di lasciarmi passare.
Guardai i gradini traballanti con sospetto, poi gli rivolsi un’occhiata un po’ perplessa. Infine mi decisi a salire, non volevo farlo aspettare.
Quando raggiunsi la cima di quelle due lunghe rampe di scala, mi accolse un cielo stellato e l’aria pulita.
 
“Siamo sul tetto” spiegò Andrea quando mi voltai estasiata, per ringraziarlo. Forse era di quello che avevo bisogno: di un cielo stellato e nient’altro.


O forse no?


Lui mi sorrise incerto e io ricambiai, quasi senza motivo. L’osservai meglio e ancora una volta mi sorpresi di quanto fosse bello con quella barba un po’ cresciuta, i tatuaggi che sbucavano da una maglia bianca slargata e i jeans stretti infilati in un paio di anfibi troppo scuri. Mi sorpresi di come potesse piacermi un tipo come lui.
 
“Hai … hai le chiavi?” domandai un po’ ingenuamente.
“Ho occupato questo posto con Polska, un anno fa. Polska è un mio caro amico, ho le chiavi di quasi tutti i laboratori. E del tetto, sì.”
“Non lo sapevo.”
“Neanche io sapevo che frequentassi La Piovra.”
“Non la frequento infatti” sorrisi allargando le braccia “stasera mi ci ha portato Romina.”
Andrea mi guardò per qualche secondo. Poi, si decise a sedersi per terra invitandomi a fare lo stesso. Lo imitai standomene a due metri da lui: eravamo un po’ surreali in quella scena in cui ci mostravamo vicini senza esserlo abbastanza. Nessuno dei due atteggiamenti era comprensibile.
“Non dovresti fare cose che non vuoi. Mi sei sembrata spaventata, giù, quando ti ho trovata.”
“Ci sono venuta di spontanea volontà qui. Solo che poi ho perso di vista Romina, non conosco nessuno e allora mi è presa l’ansia. Mi prende facilmente.”


Perché gli davo tutte quelle spiegazioni?


“Non è vero che non conosci nessuno. Conosci me.”
“Non sapevo se c’eri. E poi non ti conosco mica, Andrea.”
“Beh, conosci le mie foto.”
“Non sono l’unica a conoscerle. E poi non è abbastanza.”
“Per me lo è, nessuno le ha viste veramente. Neanche Polska, non completamente almeno. Soltanto tu.”

“Perché mi sembri legato a me in qualche modo, Andrea?”

Lo dissi d’improvviso, tutto d’un fiato. Sapevo che quella domanda premeva per uscire dalle mie labbra fin dal primo momento in cui avevo incontrato gli occhi grigi di Andrea e li avevo trovato quotidiani e familiari come il libro delle favole di Andersen sulla mia scrivania. Tuttavia, non sapevo perché avesse deciso di venir fuori senza controllo o preavviso proprio in quel momento. Dubitavo che la persona che aveva parlato così, senza paure, fossi proprio io.

“E perché tu pure sembri legata a me?”



Già. Perché tu pure, Margherita?
Bella domanda.
 

Se non avessi sentito l’eco fastidiosa di una sirena poca lontana, il risuonare della musica dal basso e le voci in strada dei ragazzi del centro che ridevano ubriachi, avrei dato per scontato di stare sognando. Mi diedi perfino un pizzicotto per realizzare ma percepii il dolore e mi resi conto che tutto era vero. C’era qualcosa di così surreale in quei due estranei che eravamo io e Andrea, nel nostro starcene a distanza di sicurezza, nel nostro conversare usando un codice che non comprendevo appieno che… sì, sembrava davvero tutto un sogno.
Eppure non era brutto, né spaventoso. Soltanto un po’ strano.


 
“Non lo so.” risposi sincera.

Andrea sorrise, un sorriso caldo e luminoso nella brezza primaverile di quella notte.

“Posso avvicinarmi?”
“Se prometti di non mangiarmi, sì…” ridacchiai e lui con me.
“Io no. Tu, invece?”
Scossi la testa serena, mentre Zeno veniva a sedersi un po’ più vicino a me.

“Sono un po’ tocca ma ancora non pratico cannibalismo.”
“E’ un buon inizio.”
“Direi di sì, Genio.”
“Per favore, non chiamarmi così. È un nomignolo stupido. Non sono un genio, non sono meglio di nessuno.”
“Ma tutti hanno una grande considerazione di te.”
“Soltanto perché i ragazzi che sono qui dentro non si prodigano per fare qualcosa per sé non vuol dire che io sia meglio di loro. Ognuno dovrebbe fare quello che lo rende soddisfatto di se stesso. A me piace soltanto fare delle foto.”
“Beh, le fai bene.” commentai arricciando una ciocca sottile di capelli sfuggita alla coda.
“Grazie…” mi parve compiaciuto.
“E fai… soltanto foto?”
“Nella vita, intendi? No, non solo quello. Le foto non mi fanno mangiare. Beh, lavoro nel retrobottega di un supermercato, scarico le consegne, metto a posto le cose.”
“Mmh. Non so se crederti, non hai il fisico per i lavori pesanti.” Scherzai.
“Ehi… guarda che quelli muscolosi sono solo gonfiati. La vera forza è fatta di nervi e astuzia, ricordatelo.”
“Va bene, lo terrò a mente” risi, picchiando la mano sulla ruvida pietra sotto di me. I realtà non avevo compreso bene il suo discorso.

“E tu, invece? Che fai di bello?”

Alzai le spalle.

“Studio. Ultimo anno di liceo classico. Mi piace leggere e scrivere, anche disegnare. L’anno prossimo spero di frequentare Lettere.”
“Speri?”
“Non si sa mai nella vita. Potrei cambiare idea, no?”

Andrea sorrise, guardando lontano.

“No. Non mi sembri una che cambia idea.”
“No?”
“No. Però… non mi sembri neppure una che indossa jeans strappati.”commentò guardando al mio ginocchio che sbucava da uno squarcio sfilacciato.
“Vero? Allora hai notato anche tu il mio stile da collegiale scema? In effetti questa è opera di Romina, non sono riuscita a frenarla.”
“Non hai uno stile da collegiale scema. Hai il tuo stile, ti sta bene.”
“Per questo posto non è okay.”

Mi guardò scioccato mentre si accendeva una sigaretta. Doveva fumare molto.

“Guarda che puoi essere chi ti pare, anche qui. A me piacciono tatuaggi e piercing, per questo ne sono pieno, ma se mi apprezzassi uno stile più… elegante beh, verrei qua dentro anche vestito in giacca e cravatta. Non farti problemi.”

Alzai di nuovo le spalle, ero un po’ imbarazzata. Mi piaceva come mi parlava Zeno; la sua voce era calma e pacata, più che chiacchierare sembrava intonasse una nenia. E poi aveva quello strano modo di fare, come di qualcuno che non avesse altro desiderio che quello di mettermi a mio agio, e ne ero contenta poiché raramente le persone erano così attente e sensibili. Specie gli sconosciuti. Specie con me.
Per un po’ mi cullai nel silenzio. Andrea aveva smesso di farmi domande e io avevo smesso di farne a lui; stavamo bene così, accucciati l’uno accanto a l’altra, con lui che aspirava grandi boccate dalla sua sigaretta mentre le nuvolette di fumo mi passavano quiete davanti. La Medea tatuata sul suo braccio sinistro sfiorava quasi la mia pelle e pensai che fosse la più bella opera d’arte che avessi mai visto: era perfetta. Qualcuno dalla strada rideva, un gatto miagolò lontano, il rumore assordante di una Vespa truccata  giunse fino alle nostre orecchie, delizioso nella sua invadenza Coprì perfino l’eco della musica di sotto.
Respirai forte e chiusi gli occhi: tutto di quella notte sapeva di vita vissuta, di giorni passati, di una Smemoranda dalle pagine sgualcite e gonfia di cartoline, di strade piene di gente nel sole del pomeriggio di un giorno qualsiasi.

Era un momento così bello che avrei pianto per l’emozione se soltanto…
 
… se soltanto il pensiero di Romina non fosse venuto a farmi visita.
 
“Andrea, da quanto tempo siamo quassù?”domandai improvvisamente perplessa.
Alzò le spalle.
“Un quarto d’ora, venti minuti. Non so, non porto mai l’orologio.”
“Devo andare. Romina mi starà cercando.”

Me la immaginai morta di paura: nonostante volesse apparire un tipo abbastanza soft, sapevo che parecchie cose la mandavano in tilt. Io ero una di quelle cose. Pensava sempre di avere un certo grado di responsabilità nei miei confronti e perdermi di vista non rientrava nell’elenco delle sue attività intelligenti. Per quanto fosse una ragazza deliziosamente svampita, una mia coetanea e la mia più grande amica, in certe occasioni – quando si riferiva a me – sembrava quasi una mamma. Mi pregava di vivermi la vita alla grande, uscire e divertirmi, nello stesso modo in cui si raccomandava di fare sempre attenzione; ero certa che in quel momento si stava torcendo le mani per la disperazione di sapermi sola. Conosceva i miei attacchi di panico, i mal di testa ingestibili, le strane vertigini che a volte mi prendevano ancora e li temeva.
Non avrei dovuto farla spaventare soltanto per godermi la compagnia di Zeno.

“Sei sicura di voler tornare di sotto?” rispose lui a quel punto. Mi parve un po’ dispiaciuto.
 
Lo ero anche io.
 
“Sì, devo.”
“D’accordo.” allungò una mano, di nuovo. L’afferrai prontamente. “Non mi lasciare, però” mi ammonì prima di tornare per le scale.

Annuii e obbediente gli tenni la mano. Non mi costava fatica stringere il suo palmo caldo al mio, dopotutto.

Quando riaprimmo la porticina di ferro del piano di sotto, il mondo meraviglioso e colorato della Piovra era un poco cambiato: le luci erano più forti, rosse e verdi, e tanta gente saltellava e sgomitava ridendo.
“Vorrei sapere adesso che c’entrano gli Ska – P” dichiarò Zeno guardando la folla pogare, con sguardo rassegnato e sempre tenendomi per mano. Cercai subito di rispondergli alzando la voce per farmi sentire quando qualcuno mi afferrò tenacemente per le spalle. Mi voltai subito spaventata e così incontrai la faccia stravolta di Romina.
Per un attimo stentai a riconoscerla. Tremai.
Anche con tutta quella musica assordante e il casino della gente che ballava attorno, riuscii distintamente a sentirla gridare:


“Dove cazzo stavi, Margherita?!”









 
 
 








N.B: "Non ci avrete mai come volete noi", l'ho riadattata da "non mi avrete mai come volete voi" frase tratta da L'Anguilla dei 99 Posse. Non è un caso che il soprannome di Margherita sia Meg, come la ex cantante di questo gruppo ;)

   
 
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