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Autore: fiammah_grace    27/06/2012    1 recensioni
Sebbene tutto fosse finito, quell’insopportabile aria pesante circolava ancora negli appartamenti e nell’intero edificio, inglobato tuttora nel mondo creato dall’assassino Walter Sullivan.
Henry era preparato per una nuova vita lontana South Ashfield. Le valige erano pronte già da un pezzo, in verità, poggiate sul ciglio della porta da giorni. Non che avesse granché da portare con sé, in realtà.
Eppure qualcosa ancora lo legava a quell’appartamento oramai inglobato completamente in quel macabro incubo al quale non sapeva dare nemmeno un nome.
Guardandosi in giro, aveva la pessima sensazione che non fosse in grado si lasciare l’appartamento 302...
...o peggio...
....che oramai non potesse essere più capace di farlo.
Come se, a quel punto, anche lui fosse rimasto incatenato nell’incubo che continuava ad apparire ai suoi occhi, divenendo così egli stesso parte di esso...
Genere: Dark, Horror, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Henry Townshend, Un po' tutti, Walter Sullivan
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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NDA: Non è per nulla facile scrivere una fanfiction per una fan come me di Silent Hill. Considero questa saga come una preziosa reliquia.
Ogni aspetto scenografico, le musiche, i personaggi, la trama, i dialoghi…tutto pesa fortemente creando un’atmosfera incredibile che solo questa saga sa dare.
Mi piace molto il quarto capitolo della saga e con questa fanfiction farò del mio meglio per approfondire i suoi personaggi e alcuni aspetti della trama. Purtroppo, Silent Hill IV non è molto apprezzato tra i fan. Dunque mi impegnerò a maggior ragione, alla luce di questa consapevolezza.
In particolar modo, la mia fanfiction si soffermerà su Henry Townshend. Cercherò di mostrarvi quel che vedo in questo personaggio, che secondo me è tutt’ altro che estraneo e privo di ogni emozione.
E' un protagonista che adoro.
Esistono veramente persone come lui, nella realtà, le cui emozioni sono appena percettibili.
Inoltre ci sono diversi riferimenti nel gioco, che ci fanno comprendere egli chi sia e come viva l’incubo nel quale è intrappolato.
Ovviamente, nella vicenda, sarà anche presente il famoso Walter Sullivan.
Walter è un antagonista eccezionale. Un raro caso di antagonista capace di suscitare mille emozioni nell’animo del giocatore. È spietato, eppure in qualche modo rimane un personaggio grandioso generando una profonda empatia e malinconia verso chi conosce la sua triste storia.
Aspetto con ansia le vostre recensioni, mi saranno utili per correggermi e per impegnarmi con il prosieguo della fanfic.
Vi lascio alla lettura, adesso.
Fiammah_Grace


_Introduzione alla lettura_
La fanfiction è ambientata post le vicende di Silent Hill IV.
Seguirò filone del finale “fuga” e del finale “madre”. Henry Townshend ed Eileen Galvin si apprestano per lasciare per sempre gli appartamenti di South Ashfield Heights. Tuttavia, qualcosa alberga ancora nell’aria.
Sebbene sia tutto finito, quell'insopportabile aria pesante circola negli appartamenti e nell’intero edificio, inglobato ancora nel mondo creato dall’assassino Walter Sullivan.
Henry è pronto per una nuova vita lontana South Ashfield. Le valige sono pronte già da un pezzo, in verità, poggiate sul ciglio della porta da giorni. Non che avesse granché da portare con sé.
Eppure qualcosa ancora lo lega a quell’appartamento oramai assorbito completamente in quel macabro incubo a cui non sapeva dare nemmeno un nome.
Guardandosi in giro, ha la pessima sensazione che non sia in grado si lasciare l’appartamento 302, o peggio, che oramai non sia più capace di farlo. Come se, a quel punto, anche lui fosse rimasto incatenato nell’incubo che continua ad apparire ai suoi occhi, divenendo lui stesso parte di esso...






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"don't go out!!"
Walter



(messaggio sulla porta della stanza 302)





CAPITOLO 01
 
 
“...E' importante viaggiare leggeri in quel mondo. Chi trasporta un fardello troppo pesante se ne pentirà...”
                                                                            (messaggio dietro la libreria dell’appartamento 302)
 
 
Quando era calato quel buio, con esattezza? Era difficile stabilirlo. Il tempo, lì, era come se seguisse una logica tutta sua.
Le lancette erano immobili, fisse, indicando un orario privo di alcun significato.
L’ambiente ricordava un salotto. Un tempo doveva essere proprio quello. L’arredo era essenziale, ma considerando le dimensioni ridotte, era abbastanza spazioso e confortevole.
Peccato che la cera delle candele consumate impedisse di apprezzare la semplicità e la freschezza di quell’appartamento.
Le candele erano spente e completamente consumate. Erano davvero tante, troppe, per non pensare a un tipico atteggiamento compulsivo. Chiunque le avesse messe lì, le aveva accese una per una, completamente fuori controllo. Per quale motivo? Nella speranza di ottenere cosa?
Per l’occhio comune erano solo candele. Candele poste ovunque. Candele sciolte sul pavimento, candele invecchiate e consumate dal tempo.
Quelle candele, invece, avevano donato una luce più luminosa e rassicurante della luce stessa. Perché erano state fonte di speranza, anche se temporanea e illusoria. Ma erano state lasciate li spente già da tempo e il buio regnava oramai sovrano.
Solo dalle due finestre filtrava appena una fioca luce che disegnava i contorni del divano, del televisore, dell’ambiente in generale.
A un primo impatto, nel buio, nessuno si sarebbe nemmeno accorto che un giovane sui trent’anni era sdraiato già da diverse ore sul divano.
Il suo sguardo era lontano. Gli occhi verde pallido erano l’unico tratto distinguibile del suo volto, coperto da una frangia disordinata.
Osservava languido verso una direzione apparentemente vaga, ma focalizzando meglio, era ben chiaro che non fosse affatto così e che, in quel posto, non fosse nemmeno da solo.
O forse lo era…? Era una domanda ardua da rispondere.
Era difficile dire se era ancora un qualcuno, colui il quale si scorgeva appena dal soffitto. Un volto dalle sembianze umane, ma oramai privo di alcuna essenza vitale. Oramai solo capace di mormorare, era diventato sempre più indistinguibile in quell’ambiente.
Il ragazzo strinse gli occhi, mentre udiva quel brusio capace di trasmette la disperazione di Joseph Schreiber.
Il volto di Henry era scavato e stanco. Ciò lasciava intuire che fosse li già da un pezzo.
A fare cosa? Ad osservare.
A osservare il destino che aveva segnato l’ex-giornalista, che ora non aveva altro se non delle lacrime nere che scorrevano dal soffitto al pavimento.
Era una visione gelante, frustrante, per chi aveva il terribile presentimento di comprendere tale disperazione.
Il giovane divenne sempre più stanco e gli occhi cominciarono a farsi più spenti. Eppure rimase li ancora e ancora, in quel mondo dove tutto era indefinibile, persino il tempo stesso.
Dei passi poi rimbombarono nel silenzio e si fermarono proprio nelle vicinanze del divano, dove era sdraiato il trent’enne, ma egli non alzò lo sguardo per capire chi fosse e continuò a osservare Schreiber finché il buio non rese tutto nuovamente indistinguibile.
 
***
 
[SOUTH ASHFIELD, mattina.]
[nel centro della cittadina…]
 
Sebbene il negozio fosse aperto fin dal primo mattino, nessuno aveva ancora solcato quella porta.
L’ambiente era sul bianco, così essenziale nell’arredo da essere definibile persino “vuoto”. Una decina di foto erano appese lungo i muri e all’estremo del negozio vi erano una serie di apparecchiature utili per la fotografia. Vi era una vetrina piena di lenti, pile, pannelli, supporti ottici, macchine fotografiche con vari appoggi regolabili…
Dall’altro estremo del locale, invece, c’era una scrivania completamente vuota e appena impolverata, dove vi si poteva scorgere un giovane completamente adagiato su esso.
Esteticamente era un ragazzo sobrio eppure in qualche modo attraente. In compenso, però, il suo look era trascurato e lo sguardo incredibilmente stanco. La barba era leggermente incolta e i capelli spettinati gli davano un’aria decisamente disordinata.
Forse era anche per quello che nessuno era entrato ancora li.
Henry Townshend aveva trent’anni quasi. Aveva da tempo lasciato alle spalle gli studi e da due anni circa viveva in quella cittadina in periferia di Silent Hill.
Aveva gli occhi chiusi e sembrava riposasse già da un po’, sebbene gli occhi scavati facessero intendere chissà da quanto tempo, invece, non si ritagliasse un momento di relax.
In quel negozio, il giovane fotografo era così che passava le sue giornate intere.
Si fece mezzogiorno quando qualcuno solcò quella porta, con passi decisi che volutamente volevano richiamare l’attenzione del ragazzo.
 
“Henry..?”
 
Una voce dolce, ma risoluta, fece il suo nome e velocemente si avvicinò a lui. Henry fece per alzare appena gli occhi e scorgere la figura che aveva dinanzi a sé.
Era una ragazza alta, longilinea, con i capelli tagliati all’altezza delle spalle, castani, che contornavano il viso con una sottile frangia. Aveva due splendidi occhi acquamarina, contornati da un accenno di lentiggini.
Dietro il sorriso cortese che ella aveva stampato sulle labbra, si intravedeva un ghigno con un che di sarcastico. Il tutto era esaltato dalla sua personalità effervescente.
 
“Oh, Eileen…” disse lui con un filo di voce, mentre alzava il capo verso la giovane.
 
Eileen Galvin guardò con enorme disapprovo il ragazzo e non si fece remore nel farglielo notare. Prese a battere nervosamente il piede a terra e portò le mani sui fianchi, infastidita.
 
“Non ci posso credere che è così che ti presenti ai clienti…! Un fotografo non dovrebbe avere uno spiccato gusto per l’estetica o qualcosa del genere?”
 
Scrutò con gli occhi Henry mostrandogli chiaramente che la sua apparenza era fin troppo distratta e trasandata. Eppure Henry non era nemmeno un ragazzo brutto.
Alto, dalle spalle larghe e con gli occhi verde pallido. I capelli, tuttavia, erano disordinati e la lunga frangia pendeva coprendo parte del viso. Sul mento s’intravedeva appena un accenno di barba e i suoi occhi avevano un’espressione così stanca e assente da essere capaci di far scappare chiunque.
Stesso lui se ne rese conto e quando incrociò gli occhi di Eileen, sistemò appena qualche ciuffo di capelli con le mani.
 
“Ah, si dovrebbe…” disse, un po’ incerto.
 
Eileen a quel punto sgranò gli occhi. Al contrario di lui, la giovane aveva un’energia inesauribile in corpo e qualsiasi aspetto di sé esprimeva le sue emozioni in modo chiaro e limpido.
Era un qualcosa che Henry ammirava con incanto, eppure con un po’ di titubanza. La guardava camminare in lungo e in largo, in quel piccolo locale praticamente vuoto. La vedeva scrutare la vetrina datata, le crepe sui muri, e i capelli disordinati di lui.
Si leggeva chiaramente scritto in volto il suo dissenso per come gestiva la sua attività e la sua immagine di fotografo.
 
“Non si capisce nemmeno cosa vendi. Dovresti rimodernare questo posto e mostrare alla gente buone ragioni per entrare, non per fuggire, non credi?”
 
“Eh, già…”
 
All’ennesima risposta data con noncuranza, Eileen lo fulminò con lo sguardo e lui istintivamente calò gli occhi verso il pavimento. Portò una mano dietro al collo e poi fece per alzarsi dalla sedia.
Emise un leggerissimo sbadiglio e socchiuse gli occhi, mentre si avvicinava alla piccola finestrella posta in un angolo. Era l’unica fonte di luce del negozio e contribuiva alla grande nel dare un’immagine ancora più trascurata al posto. 
Sebbene Eileen facesse del suo meglio nel dare critiche costruttive, presto si rese conto che Henry era completamente distratto in quel momento, e sembrava avere tutto per la testa, fuorché il suo negozio.
Quando vide quegli occhi così stanchi, non poté non intuire che Henry fosse nel negozio più per trovare tranquillità che per farlo fruttare.
 
“Non hai chiuso occhio di nuovo?”
 
A quella parole, Henry stropicciò nuovamente gli occhi. Portò le dita all’imboccatura del naso e annuì.
Per quanto ne sapeva Eileen, era da un bel po’ che non dormiva bene e la cosa cominciava a preoccuparla.
Fece per parlare, quando Henry prese la borsa a tracolla e la posizionò sulle spalle.
La guardò e, nonostante la natura introversa, si sforzò di abbozzare un sorriso, cercando di rassicurarla.
 
“Sono cose che capitano. Tu sei appena tornata dall’università, giusto?”
 
Indicò con gli occhi il borsone che aveva lei su una spalla e il libro voluminoso che stringeva al petto. Eileen lo guardò perplessa, poi annuì confermando la cosa.
 
“Sì. Oramai i corsi sono finiti e devo apprestarmi a sostenere gli esami. Per questo sono venuta qui a quest’ora.”
 
Fecero entrambi per uscire. Henry recuperò velocemente i suoi effetti, infilò una giacca leggera color grigio scuro e abbassò la saracinesca del negozio. Cigolante, arrugginita, e piena di graffiti dei ragazzini della zona.
 
“Ti devo un pranzo. Che ne dici, cucino qualcosa con quel po’ che ho in casa?” disse Eileen mentre si incamminavano per le via di Ashfield. Si lasciò scappare un sorriso divertito che incuriosì Henry. “Anche se ti avviso, prepari tutto tu! Altrimenti, potresti essere intossicato dalla mia cucina disastrosa!”
 
Henry sorrise appena nel vedere quanto Eileen fosse ironica e sarcastica con sé stessa.
Henry, bene o male, era capace di metter su un primo e un secondo e questo era sufficiente per essere, agli occhi della ragazza, un cuoco abbastanza capace.
A differenza di lei, Henry abitava da solo già da parecchi anni, era abituato da tempo a badare a sé stesso. Eileen, invece, affermava senza problemi di essere una pessima donna di casa.
 
“Ma no. Devi solo fare pratica.” La rassicurò, ma subito lei rise a tale affermazione.
 
“Ah, ah! Invece no. In proporzione tu sei capace di cucinare, sistemare casa, lavare i panni…sei più tu una donna efficiente che io!”
 
Sebbene Eileen ridesse divertita, Henry si ritrovò ad annuire sarcasticamente, sforzandosi di trovare il lato buffo di ciò che stava dicendo.
In realtà la questione era semplice. Si doveva fare ciò che si doveva fare. E in questo senso, lui aveva dovuto imparare a organizzarsi e a gestire grossomodo tutto per necessità.
 
“…l’unica cosa che mi riesce bene e ciò che metto qui dentro.” Aggiunse lei picchiettandosi con l’indice la fronte. “…lo studio dell’archeologia, la storia, i codici… Ah, se la vita fosse solo questo, sarei la persona più felice e colta del mondo.”
 
Eileen amava studiare e non se ne vergognava affatto. Si era trasferita nell’appartamento 303 apposta. Amava parlare per ore di ciò che imparava, nonché approfondire le materie umanistiche che i suoi corsi proponevano.
Il giovane non era, invece, un grande appassionato di materie filosofiche, né di storia, ma gli piaceva comunque ascoltarla.
Eileen prese a parlare a raffica dei suoi corsi e degli esami che stava preparando e, infatti, lui non accennava ad allontanare i suoi occhi da lei.
Non per cosa diceva effettivamente, ma per l’entusiasmo che ci metteva. Eileen era una ragazza di cuore e sprizzava un’energia positiva molto contagiosa.
I suoi occhi sembravano parlare più delle parole stesse, e Henry stesso si sorprendeva di quanto fosse capace di far pulsare le sue emozioni in maniera così viva.
Lei girava gli occhi di continuo, toccava i capelli, muoveva le mani… manifestando così un completo entusiasmo e coinvolgimento che lo rapiva completamente.
 
Solo dopo qualche minuto, i due giunsero a un bar e la bruna prese velocemente posto in uno dei tavolini ancora liberi.
Henry la seguì e si sedette accanto a lei.
 
“Non ti dispiace se mangiamo qui, ehm, vero?” disse la ragazza, leggermente imbarazzata.
 
Henry sorrise divertito e scosse la testa.
 
Il tempo passò piuttosto velocemente. Eileen non aveva fatto altro che parlare, mentre mangiava un boccone con il suo vicino di appartamento.
E dire che nemmeno un mese fa, i due non avevano mai avuto modo di parlarsi, sebbene fossero vicini già da due anni.
Non avevano mai fatto altro se non scambiarsi dei cortesi saluti quando si incrociavano nel pianerottolo del palazzo.
Invece, in così poco tempo, erano diventati soliti incontrarsi e passare spesso del tempo assieme.
 
Tutto questo, da ‘quel’ giorno…
Sebbene fosse passato del tempo sufficiente, era ancora difficilissimo per entrambi parlare con razionalità di ciò che era accaduto poco meno di un mese fa.
Era accaduto qualcosa di assurdo ed inconcepibile. Per sei giorni interi, Henry era stato assalito da strani e inquietanti incubi e non solo…
Era rimasto intrappolato nel suo stesso appartamento.
 
La televisione era rotta, il telefono staccato, le finestre bloccate e la porta chiusa ermeticamente dall’interno.
Presto, quello si era rivelato essere solo l’inizio di un macabro incubo macchiato di sangue.
Come e perché, ancora oggi era strano dirlo per entrambi.
 
Era stato un accadimento così scioccante e malsano che il solo istinto di sopravvivenza lo aveva aiutato a non cadere in un baratro di disperazione e di follia.
Il passaggio apparso nel bagno era stato l’unico, maledetto ingresso verso un regno umanamente inconcepibile, pur tuttavia, l’unico mezzo che aveva avuto per fuggire da quella trappola claustrofobica, nella speranza di uscire da quell’incubo.

 
***
 
Eileen smise di sorseggiare la sua bevanda e prese a guardare il ragazzo dai capelli castani.
 
“Henry, che ti prende?” disse corrucciando le sopracciglia.
 
Henry non la guardò e le fece velocemente cenno con un leggero movimento della mano.
 
“Ferma, qui è perfetta.” Disse, con uno sguardo più vivace del solito.
 
“C-cosa?” rispose lei, sbandando.
 
Non badando ad Eileen, Henry prese dalla borsa in cuoio scuro una macchina fotografica semi-professionale e la posizionò immediatamente sugli occhi, intento ad immortalare Eileen Galvin che si ritrovò completamente presa alla sfuggita.
La ragazza rimase attonita per qualche attimo e non appena il flash abbagliò i suoi occhi, subito aprì la bocca sorpresa e sconcertata allo stesso tempo.
 
“Ma come ti viene di fare una foto così all’improvviso!?” disse, terribilmente imbarazzata di essere stata fotografata senza preavviso.
 
Henry guardò soddisfatto la sua opera e alzò gli occhi verso di lei. La vide arricciare nervosa le labbra e accavallare le gambe. Assunse dunque un’espressione perplessa e non comprese cosa avesse infastidito la ragazza.
 
“…c’era un’ottima luce.” Disse, abbassando la voce, eppure pienamente convinto delle sue parole.
 
Lei chinò il capo dubbiosa e per qualche attimo strinse gli occhi. Alla fine non resisté e il viso di Henry divenne completamente paonazzo quando lei si lasciò scappare un sorriso. Prese a ridere sinceramente divertita e Henry cominciò ad agitarsi non comprendendo.
 
“Ho fatto qualcosa di male..?” chiese.
 
“Sei così spontaneo, Henry…ah, ah!” disse, poi si calmò nel vedere che lui continuava a non capire. “Lascia perdere, comunque… andiamo?”
 
Il ragazzo annuì ancora sconcertato. Non si era reso conto che, agli occhi di Eileen, Henry appariva così apatico che quando aveva iniziative del genere, era capace di sconvolgerla completamente.
Lui che sembrava così indifferente, invece aveva un piccolo universo dentro di sé, più intenso di come chiunque potesse immaginare.
Non era la prima volta che i due passavo del tempo assieme. In questo modo, più volte Eileen aveva avuto modo di capire che uno dei modi che lui usava per sfogare le sue emozioni era proprio la fotografia.
Henry ne aveva parecchie in giro per casa e spesso capitava che, nel bel mezzo di una passeggiata, cominciasse a scattare anche una cinquantina di foto.
La cosa le faceva molta tenerezza, perché lo vedeva aprirsi a lei sempre un po’ di più. Lo apprezzava molto, specie alla luce della natura timida e introversa del ragazzo.
 
Mentre camminavano, presero a godere di quella brezza tipica dell’inizio dell’estate e Henry non fece nemmeno caso che Eileen si fosse fatta più silenziosa del solito.
Egli ammirò il panorama per buona parte del tragitto e solo quando giunsero nel quartiere vicino al palazzo, le si rivolse cercando di capire se ci fosse qualcosa che non andasse.
Eileen, quando se ne accorse, subito scosse la testa e assieme solcarono il portone del palazzo e si diressero verso il terzo e ultimo piano, dove erano situati gli appartamenti 302 e 303.
 
Eileen percorse le scale tutte d’un fiato e per il giovane Henry fu praticamente impossibile starle dietro. Se solo non avesse avuto quella terribile fiacchezza in corpo. Maledetta quella stanchezza, non ne voleva proprio sapere di abbandonarlo.
Henry seguì Eileen che lo attendeva ogni volta che superava una rampa di scala, provando a motivarlo un po’.
Lui sapeva benissimo di dare un’idea molto fiacca in quel momento, ma era abituato già da tempo a condividere con quella parte di sé. All’improvviso si lasciò scappare uno sbadiglio e, distrutto, chiuse appena gli occhi, coprendo la bocca con una mano.
 
“…scusa.” Disse.
 
Eileen percorse l’ultima rampa di scale e vide Henry poggiarsi appena sul muro del pianerottolo con gli occhi semichiusi.
 
“Mi preoccupi, lo sai? Sembra che non tu non chiuda occhio da giorni. Che cos’hai?” Gli chiese, chinando il capo verso di lui.
 
Henry scosse la testa. Non voleva preoccuparla tanto. Del resto…non era nemmeno un uomo abituato a ricevere tante attenzioni. Massaggiò le tempie e accennò un sorriso.
 
Fece per rivolgersi ad Eileen schiudendo appena gli occhi, ma un brivido, improvviso, lo congelò letteralmente.
Il tutto in maniera così veloce che non ebbe il tempo di capacitarsene.
 
Aprendo gli occhi, ancora calati verso la scalinata, avvertì un terribile odore di chiuso e ruggine. Vide le scale assurdamente incrostate di qualcosa di organico e di metallico allo stesso tempo, e per un attimo gli sembrò persino che il muro…palpitasse?
 
“Ma cos…?” disse, spaesato.
 
Quell’odore insopportabile lo scombussolò molto, nauseandolo, e rimase con gli occhi spalancati, fissi su quella visione.
Le pareti, le scale…
Il rosso era il colore che la faceva da sovrano, lì. La testa girava enormemente e il cuore prese a battere incessante.
Tutto aveva un’aria malsana e tetra.
Un rumore di passi, poi, rimbombò alle sue spalle. Lentamente qualcuno lo stava raggiungendo. O…qualcosa?
I passi erano lenti e pesanti e si facevano sempre più vicini al ragazzo.
Completamente paralizzato, girò appena gli occhi, rendendosi conto che, qualunque cosa stesse accadendo, non aveva alcuna via di scampo…
 
“Henry!”
 
La voce di Eileen lo fece nuovamente sbandare e subito girò gli occhi in sua direzione.
 
“Eileen…?”
 
Tutto d’un tratto, costatò che la visione che aveva avuto fino a qualche attimo prima era sparita. Henry poggiò una mano sulla fronte, completamente disorientato.
Lo…aveva immaginato?
Eppure quegli odori, la ruggine, i passi…
Non sembravano affatto frutto di fantasia. Proprio come quel tempo…lui….
 
“Henry…”
 
“Sto bene. Andiamo.” Tagliò corto.
 
Si avvicinò all’appartamento 303 e guardò Eileen mentre prendeva la chiave e apriva la porta di casa. La casa era buia perché Eileen l’aveva lasciata fin dal primo mattino, ma Henry era comunque in grado di scorgere i molteplici scatoloni di imballaggio presenti un po’ ovunque.
Li guardò perplesso, non sapendo esattamente cosa dire.
 
“Hai già sistemato tutto..?” le chiese.
 
La bruna gli sorrise e fece per addentrarsi per fare un po’ di luce nell’ingresso.
 
“Ovvio. C’è bisogno di cambiare aria, e ci stiamo già prendendo fin troppo tempo…” disse, con tranquillità.
 
Henry annuì, ma i suoi occhi che non facevano che fuggire da quelli di Eileen, lasciando intuire il suo disagio.
Lei, intanto, spalancò la finestra illuminando definitivamente l’ingresso. Era un piccolo salotto con dei divani dal motivo floreale, e affacciava da esso una semplice cucina colorata.
 
“Tu piuttosto. L’ho visto, sai? Non hai ancora sistemato nulla!” lo rimproverò.
 
“Non ho avuto tempo…” bofonchiò Henry, ma Eileen si sentì ferita da quella risposta.
 
Henry non tardò ad accorgersene e infatti aprì la bocca sperando di essere capace di giustificarsi, ma le parole gli si strozzarono in gola e non fu capace di aggiungere altro.
Eileen aveva un’aria sconvolta e non riusciva a comprendere proprio i suoi indugi. Sentiva gli occhi gonfi e si dovette trattenere non poco per non urlare.
 
“Ce lo eravamo promessi, Henry. Una nuova vita lontani da South Ashfield. Io non posso…” deglutì e cercò di controllare la sua voce che prese a tremare. “Non…voglio più vivere qui. Non si può…”
 
Eileen si guardò attorno e strinse le braccia fra loro.
Henry poteva avvertire nitidamente il suo forte disagio e i suoi occhi che avevano ancora davanti a loro i mille orrori legati a South Ashfield…
Vivere in quel posto…dopo gli incubi…
 
Era dura…
 
Inoltre Eileen era tornata da poche settimane a casa dopo essere stata ricoverata, e aveva fin da subito mostrato il suo completo disagio di essere ancora lì, a un mese di distanza da quel macabro massacro.
 
“…dovevamo trasferirci già all’inizio della scorsa settimana e ho dovuto avvisare la ditta di traslochi per due volte di fila. Henry…ti prego, non indugiare ancora. Cos’hai da perdere?”
 
Henry chinò il capo e inarcò le sopracciglia in silenzio, mentre Eileen di li a poco si liquidò lasciandolo sul ciglio del pianerottolo del terzo piano.
 
***
 
Henry Townshend era steso sul divano di casa e aveva gli occhi chiusi. Aveva delle occhiaie terribili e la testa pulsava ferocemente. Sulla fronte aveva poggiato un asciugamano bagnato che copriva gran parte del viso, ma nonostante ciò, non riusciva a sentirsi più rilassato.
Stava riflettendo già da qualche minuto sulla sua vicina di casa Eileen Galvin.
Fino a poche settimane prima, lei era ancora ricoverata all’ospedale di St. Jerome, ed era stata sua abitudine andarla a trovare tutti i giorni.
 
Ricordava ancora perfettamente quel giorno…
Quando l’incubo era finito…
Quando era corso la prima volta da lei, avendo la terribile sensazione di non essere riuscito a fare nulla per salvarla.
 
Dovevano…
…ricominciare una nuova vita lontana da Ashfield…
 
Si erano ripromessi questo. Dopo quel che era accaduto…era impossibile vivere ancora con serenità in quel posto.Qualcosa albergava ancora nell’aria.
Sebbene tutto fosse finito, quell’insopportabile aria pesante circolava ancora negli appartamenti e nell’intero edificio, inglobato tuttora nel mondo creato dall’assassino Walter Sullivan.
 
Henry aveva mentito ad Eileen.
Lui era preparato per una nuova vita lontana South Ashfield. Le valige erano pronte già da un pezzo, in verità, poggiate sul ciglio della porta da giorni. Non che avesse granché da portare con sé, in realtà.
 
Eppure qualcosa ancora lo legava a quell’appartamento oramai ingoblato completamente in quel macabro incubo al quale non sapeva dare nemmeno un nome.
Guardandosi in giro, aveva la pessima sensazione che non fosse in grado si lasciare l’appartamento 302, o peggio, che oramai non potesse essere più capace di farlo.
 
Come se, a quel punto, anche lui fosse rimasto incatenato nell’incubo che continuava ad apparire ai suoi occhi, divenendo così egli stesso parte di esso...
 
Levò via l’asciugamano dal viso e una goccia di sudore scese dalla fronte e raggiunse la guancia. Si guardò in giro e gli occhi pallidi presero a tremare, non comprendendo perché stesse accadendo a lui…
 
I muri increspati, il pavimento rugginoso, l’aria pesante e soffocante…
 
Si guardò attorno.
 
Era tutto ancora esattamente come a quel tempo…
Quando Walter Sullivan era ancora vivo.
 
La casa…era ancora infestata. Henry, aveva il terribile presentimento che l’incubo non fosse affatto finito. Questo perchè lui…era ancora persino capace di percorrere il passaggio che lo conduceva nel mondo alternativo, che inspiegabilmente era ancora aperto.
 
Allungò il braccio verso il tavolino basso di fronte a lui e trascinò verso di sé una cartellina nera piena di ritagli di giornale e appunti di vario genere.
Era da tempo oramai che la situazione era così e non aveva ancora detto nulla alla giovane vicina di casa.
Sfoglio velocemente gli appunti e si soffermò su uno in particolare, sperando di spiegarsi perché tale abominio.
 
Tramite il rito della Sacra Assunzione, lui ha creato un mondo. Questo esiste in uno spazio separato dal mondo di nostro Signore. Più precisamente, è dentro, ma anche senza il mondo di nostro Signore.
A differenza di quello di nostro Signore, questo mondo è altamente instabile. Porte e muri a sorpresa, pavimenti che si muovono, strane creature, un mondo che solo lui controlla...
Chiunque è ingoiato da questo mondo vi rimane per l'eternità, come non morto, come uno spirito in una dimensione da incubo. Come può nostro signore permettere un tale abominio...?

...E' importante viaggiare leggeri in quel mondo. Chi trasporta un fardello troppo pesante se ne pentirà...

 
Quel che non riusciva a spiegarsi non era solo il perché la casa fosse ancora intrappolata nell’ incubo…
…ma perché avesse la terribile sensazione che non fosse solo il suo appartamento ad essere ancora prigioniero.
 
[…]
 
 
  
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