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Autore: Yvaine0    26/07/2012    7 recensioni
Ero in treno da un'ora verso il nulla più totale.
Perchè? Probabilmente tutto era iniziato quando mio fratello aveva iniziato a parlare. Fin da subito aveva capito la sua vocazione: sparare stronz-...sciocchezze. E così, litigio dopo litigio, nostra madre era impazzita e aveva deciso di spedirci tutti e due a vivere da qualche parte lontani da loro.

Pan Fletcher, diciottenne, ragazza di città, si ritrova catapultata in un mondo a lei estraneo, caratterizzato da laboriosità, aria pura, e sentimenti sinceri. Armata di mp3, di un bizzarro interesse per le mucche e di un rassicurante manuale di sopravvivenza create da lei stessa, affronta questa avventura che la vita le regala senza ben sapere cosa pensare di tutto ciò che le sta per accadere.
"Che diavolo ci fai qui?"
"Che diavolo ci fai TU qui! Questa è casa di mio nonno!"
"Io qui ci vivo!"
Fissai il ragazzo in cagnesco per qualche istante. "Bè, anche io!"
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cows and jeans'
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34

 

In paradiso. Dovevo essere in paradiso. O magari stavo sognando, non c’era altra spiegazione. Altrimenti come sarebbe stato possibile che fossi stesa sul divano del salotto a leggere un libro in santa pace? Leggere! Un miraggio.
Joshua era andato al saloon con il nonno – evidentemente, a dispetto delle sue aspettative, non era riuscito a ‘rigirarsi il biondo mestruato come voleva’ – e Dean era fuori a lavorare da bravo garzone qual era.
Era una sensazione incredibile. Poter finalmente oziare in santa pace e sprecare il mio tempo come più mi pareva. La mia pigrizia era così felice che si era addormentata.
Immergersi in un mondo alternativo, tra le pagine di un libro. A Betthany Peterson era mancato molto il suo forno a microonde, a me, invece, mancava da morire la sensazione di lasciarsi tutto il mondo alle spalle, dimenticare tutto e tutti e vivere le avventure che qualcunoaveva scritto con passione per evadere, proprio come me, da una realtà che gli stava troppo stretta. Mi mancava dimenticarmi di me stessa e vivere attraverso qualcun altro, mi mancava chiudere il libro e interrogarmi su cosa stava per succedere tra quelle righe fino al momento in cui non potevo riprendere la lettura.
Sfogliavo beatamente le pagine di Mio fratello Simple (*) per ritrovare il punto in cui mi ero fermata l’ultima volta – ovvero svariate settimane prima – , così rilassata da non udire la porta d’ingresso che si apriva e il mio momento di ozio che veniva interrotto.
“Che cavolo stai facendo?”
La mia adorabile cotta era in piedi sulla porta con i capelli biondi spettinati e un’espressione orripilata in volto. Forse avrei dovuto tener d’occhio la mia cara amica Sorte, che sembrava non aver perso l’abitudine di divertirsi alle mie spalle.
“Immagino che tu non abbia molta familiarità con questi strani oggetti, quindi cercherò di aiutarti: questo è un libro e io lo sto leggendo” sillabai, osservandolo di sottecchi, le sopracciglia aggrottate.
Rise sprezzante. “Ah, fammi indovinare, principessa!” Ed ecco che ricominciava... “Per qualche motivo hai pensato che la scuola ti esenti dai lavori domestici?”
Perché, le cose stavano diversamente? Il mio momento di smarrimento durò solo un istante. “Certo che no!” risposi, cercando di suonare convincente. O per lo meno convinta.
“Illuminami, allora: cosa stai facendo?” chiese, profondamente restio a credere alle mie parole. Non sia mai!
“Sto...” Cosa stavo facendo? Dovevo inventarmi qualcosa. “Stavo cercando ispirazione per cucinare qualcosa per cena”.
Dean mi fissò impassibile, mentre lo osservavo per capire se se la fosse bevuta. “Già.”Ovviamente no.
Chiusi di scatto il libro e mi alzai in piedi. “Puoi non crederci, se vuoi”. E, be’ ecco, se non ci credi non è un problema, visto che è una bugia bella e buona.  “Tu che ci fai in casa? Non devi lavorare?”
Mi diressi di filato in cucina dove, dopo aver nascosto il mio libro sulla mensola, fingendo che fosse uno dei ricettari della nonna, ne afferrai un altro e lo aprii su di una pagina a caso.
“Dovevo bere” rispose, seguendomi. Avevo la netta impressione che stesse studiando i miei movimenti. Era chiaro come il sole che non avesse creduto alla mia bugia a proposito della cena.
“Lasagne!” proclamai ad alta voce, leggendo il primo titolo che trovai. Ero decisa a far ciò che avevo detto di star facendo, giusto per non passare per nullafacente o bugiarda. Dal momento in cui presi quella decisione, mi dissi che non potevo essere considerata né l’una né l’altra cosa.
“Sono proprio curioso” commentò con scetticismo, dopo aver bevuto due bicchieri d’acqua del rubinetto.
Lo guardai male. “Non è vero, sei solo ansioso di vedere che casino combinerò” lo contraddissi, sicura.  E in cuor mio, dovevo ammetterlo, anche un po’ offesa. Perché non poteva semplicemente essere gentile, una volta tanto?
Dean scoppiò a ridere fragorosamente. “Bingo! Ma è pur sempre curiosità, no?” concluse, uscendo di nuovo.
“Sei pur sempre uno stronzo!” gli gridai dietro, indispettita.
Ma è pur sempre così carin-... no! No, basta, Pan!
Dovevo concentrarmi. Era necessario smettere di pensare a Dean. Anche se, cavolo, eravamo a casa da soli! La cosa sarebbe stata romantica, se solo io fossi stata il tipo da romanticume e lui non fosse stato l’ottava piaga d’Egitto.
Dovevo concentrarmi perché ero letteralmente negata in cucina e volevo dimostrare a Dean che, al contrario di tutte le aspettative – comprese le mie – , sarei riuscita a fare un buon lavoro con quelle maledette lasagne. E poi, magari, mentre erano in forno sarei riuscita a leggere qualche pagina...
 
Quando aprii il forno il fumo riempì la cucina e i miei polmoni. Tossendo, estrassi la teglia e la posai sui fornelli spenti. Come diavolo ci ero riuscita? Le lasagne erano ridotte ad un mattone color corteccia di pino con spiacevoli sfumature nere. “Ops” sussurrai tra me e me, sventolando il guanto da forno per allontanare il fumo. Ringraziai il cielo che alla fattoria non ci fosse l’allarme anticendio automatico come a casa mia, o sarei stata innaffiata dalla reazione dei sensori di sicurezza. Certo, non era una cosa esattamente sicura, visto che se mai fosse scoppiato un incendio – e sicuramente la colpa sarebbe stata mia – , l’intera casa si sarebbe ridotta come le mie lasagne. Con noi dentro, magari.
“Che puzza!” esordì Joshua, entrando in cucina.
Sobbalzai. “Ah, sei tornato” lo salutai, mesta. Avevo di nuovo fatto un pasticcio. Un pasticcio carbonizzato, per giunta.
“Sì, giusto ora. Cos’hai combinato?”
Osservai la teglia con sommo rammarico. “Lasagne” risposi.
“Stai scherzando?” si avvicinò per vederle meglio. “Sembra uno sformato di...”
“Ehi, lo vedo che fanno schifo!” lo rimproverai con un’occhiataccia, senza riuscire a sentirmi superiore, una volta tanto. “Non l’ho fatto apposta!”
Tornai a osservare sconsolata la mia ultima opera d’arte gastronomica. Avrei potuto comunque farla da mangiare a Dean: chissà, magari si sarebbe beccato un’intossicazione alimentare!
Joshua rise della mia espressione affranta. “Il talento culinario l’hai preso da mamma, non c’è dubbio” commentò.
Ah, fantastico. Grazie mille, Josh. Hai voglia di ficcarmi un coltello nella schiena, già che ci siamo?
Feci una smorfia, costringendomi a distogliere lo sguardo da quel pasticcio. “E tu hai la sua capacità di dire sempre la cosa sbagliata. È un talento anche quello, non c’è che dire” risposi, acida.
Lanciai un’ennessima occhiata a quello schifo informe nella teglia. Nessuno aveva il potere di renderlo commestibile? Oltre ad aver distrutto la mia autostima, avevo sprecato un sacco di ingredienti.
“Hai anche il senso dell’umorismo di papà”. Ecco, bravo, dammi un contentino.
Sospirai. “Non è colpa mia, io ho seguito la ricetta della nonna alla lettera!” ripetei. Mi ero impallata: i miei occhi si erano incollati alle pseudo-lasagne e la mia mente non faceva che ripetere che non era colpa mia. Era la cucina ad avercela con me!
“Non direi” mi prese in giro Joshua. “Guarda che schifo! Io non la mangio quella roba, piuttosto rubo del fieno ai vicini”.
“Bene, fai così: quando avrai trovato dei vicini a cui rubare il fieno trasferisciti a casa loro” sbottai, incrociando le braccia stizzita. “Oh!” realizzai improvvisamente, osservando l’orologio del forno. “Ok, forse ho capito quel è il problema...”
“Ovvero?” domandò, aggrottando le sopracciglia, curioso.
Mi guardai attorno, sperando di trovare qualcosa per distogliere l’attenzione dal mio disastro. Ma ovviamente la cucina non era il posto migliore per trovare distrazioni. “Ho allungato un pochino i tempi di cottura per finir di leggere...” ammisi infine.
Joshua soffiò una risatina e si sedette al tavolo, da dove prese a osservarmi con superiorità. Pensai che probabilmente non lo faceva apposta, ma metteva continuamente su quell’espressione da ‘Ehi, fai schifo, lo sai?’ che mi faceva saltare i nervi.  Sapevo di essere un’incapace, non c’era bisogno che ci si mettesse anche lui a farmelo pesare.
“Come è andata oggi?” gli chiesi, cercando di cambiare argomento e togliergli quell’espressione dalla faccia. La odiavo. Era la stessa espressione che sfoggiava Felicity quando mi rimproverava, la stessa che si stampava in faccia Dean ogni volta che incrociavo il suo sguardo. La stessa che mi faceva venire una gran voglia di prendere a schiaffi qualcuno e dimostrare che, no, non ero un’incapace totale, erano loro a fare schifo dal momento in cui mi facevano sentire tale.
Ma ora volevo sentire come se l’era cavata il principino, già. Era riuscito a reggere i ritmi di Sperdutolandia?
“Mi sono rimesso a letto e ho dormito fino all’ora di pranzo, dopo che sei uscita”.
Lui cosa?! Perché?!
Lo guardai in cagnesco. “Senti, va’ a quel paese”. Anche se ci sei già.
“Tu me l’hai chiesto!” obiettò lui, improvvisamente divertito. Ora indossava la sua solita maschera da ragazzo divertente e divertito.
“Dovevi mentire!”
Mio fratello rise. “Fa male la verità, eh? Tu vai a scuola e io no!” esclamò entusiasta.
Incrociai le braccia. “Vuoi metterti a canticchiare e condire il tutto con un ‘gnègnègnè’?” lo sfidai.
Sogghignò e, ci avrei messo la mano sul fuoco, stava per farlo davvero, quando il nonno irruppe nella cucina. “Che diavolo è successo qui?” chiese, sconvolto. “È di nuovo esploso il forno?”
Io e Joshua ci scambiammo un’occhiata e notai nel luccichio divertito dei suoi occhi la volontà di dire e vedere che succedeva dopo. Mi tornò in mente la volta che avevo quasi investito Kameron, pensando che se fosse successo a mio fratello si sarebbe divertito un sacco. In quel momento ne ebbi la certezza. “No, ho... ho sbagliato la cottura della cena”.
“Di nuovo?” chiese Abe sconcertato. “Ma come diavolo fai?”
“È l’anti-chef” ridacchiò Joshua tra sé.
“Ehi, è successo solo una volta! Con il latte era tutta un’altra storia...”
“Sì, come vuoi” sbuffò il nonno. “Se non sei capace di cucinare, forse dovresti lasciare che siano gli altri a farlo” mi consigliò, sforzandosi di mantenere un tono pacato. Gli fui grato per quel tentativo, anche se non troppo efficace.
“Mi dispiace” sussurrai. “Forse se grattiamo via la parte nera non sarà così male”.
Abraham prese un respiro profondo e rimase in silenzio per qualche istante, durante il quale io e Joshua si scambiammo di nuovo qualche occhiata: le mie dicevano tanto ‘e ora?’, le sue ‘ti sta bene’. Cavolo, non aveva diritto di ritenersi superiore! A lui non era mai successo solo perché non si era mai avvicinato al forno se non per nasconderci dentro i miei libri di Harry Potter.
Brutta storia, quella. Avevamo appena litigato di brutto e lui per vendicarsi aveva nascosto i suddetti libri nel microonde. Solo che in quel periodo avevo l’abitudine di segnalare con delle graffette le pagine delle mie scene preferite. Ed erano tante. Motivo per cui, quando mia madre lo aveva acceso per farlo riscaldare... be’, potete immaginare. Quel giorno era morto  il primo fornetto a microonde di mia madre e con lui i miei adorati libri. Si salvò solo l’Ordine della Fenice, perché era troppo grosso e, a detta di Joshua, non ci era entrato. Mio fratello rischiò di fare la stessa fine del forno, ovviamente, e non gli parlai più finché non ebbi raccimolato abbastanza soldi per ricomprarmeli tutti. Allora lo perdonai, ma solo perché ero riuscita a trovarli tutti nella stessa edizione di cui li avevo comprati la prima volta.
“Forse” Abe mi strappò ai miei pensieri. “se grattassimo via la parte nera non sarebbe così male per i maiali, forse”.
“Mi dispiace”.
“Va’ a passare l’aspirapolvere, mentre io preparo la cena. E tu dalle una mano” bofonchiò, rivolto a mio fratello.
Così, decisamente affranta, mi misi a fare le pulizie assieme alla mia nuova balia mentre il nonno rimediava ai miei danni.
Non fu poi così male. Mentre spolveravo ero così triste che optai per mettermi le cuffie e concentrarmi sulle parole di qualche canzone energica, di quelle in grado di dare la carica giusta in ogni circostanza – o quasi. Joshua si annoiava, per cui ben presto me lo rubò per poi usarlo a sua volta. Come era giusto che fosse, cercai di difendere la proprietà del mio migliore amico in assoluto, nonostante la resistenza di mio fratello. Mi prese in giro tenendolo in alto, sopra la sua testa e fuori dalla mia portata. Finii per saltargli sulla schiena per prenderlo e, com’era ovvio che accadesse, cademmo ben presto stesi per terra a insultarci come ogni santa volta che ne avevamo l’opportunità. Ma quelli non erano insulti volti a offendere, erano quelli più pittoreschi che ci fossero mai venuti in menti, quelli che tenevamo da parte per prenderci in giro reciprocamente, combattuti tra la voglia di ridere e rispondere per le rime.
Era in quei momenti che riconoscevo il fratello con cui giocavo da piccola, lo stesso che mi aveva aiutato a casa degli Hortus e che quella mattina mi aveva augurato buona fortuna prima di andare a scuola. Mi domandai se, forse, non fosse colpa dell’atmosfera di casa nostra se non eravamo mai riusciti ad andare davvero d’accordo. Avevamo sofferto entrambi per la separazione dei nostri genitori. Sebbene io l’avessi dimostrato opponendomi fermamente alla nuova unione di Felicity con George e dichiarando guerra ad una madre con cui non ero mai andata del tutto d’accordo, forse Joshua aveva sofferto più di me per la lontananza della figura paterna. Si era schierato dalla parte degli adulti per paura di venire abbandonato di nuovo? Per paura di essere cacciato a sua volte, com’era successo a papà? Pensai per la prima volta che forse, il fatto che mi avessero mandata a vivere a casa del nonno, lo avesse scosso davvero. Sembrava quasi che a casa mia si cacciassero le persone che non andavano d’accordo con mi madre. Joshua non era più un bambino da un pezzo, anche se, proprio come me, finiva spesso per fare delle sciocchezze. Era troppo grande per pensare che avrebbero buttato fuori chiunque non andasse a genio alla padrona di casa. Pensai che, però, forse, anche lui aveva avuto la stessa impressione, prima di me. Che forse aveva fatto qualche passo di lato e, un po’, ora stava dalla mia parte.
Sarebbe stato molto meglio che non ci fosse stata nessuna parte. Sarebbe stato meglio che mia madre avesse pensato bene a ciò che voleva prima di accettare di sposare papà, che ci avesse pensato un po’ di più prima di chiedere il divorzio. Però forse così sarebbe stato più facile solo per me. Forse per Felicity e Harvey, sarebbe stato molto difficile convivere. Forse. Ma ragionare per ‘se’ e per ‘forse’ non serviva proprio a niente.
“Chi lo dice prima lo è!”
“Joshua!”
“Che ho detto?”
 
La mattina seguente, cercai di convincere Kameron e gli altri ad andare a scuola con la mia auto. La proposta fu accolta con positività, almeno finché i ragazzi non capirono che avevo intenzione di guidare io.
“Cosa? No, non se ne parla nemmeno!” saltò su Kameron con aria decisamente spaventata.
“Donna al volante, pericolo costante” lo appoggiò Terrence, incrociando le braccia e appoggiandosi al pick-up con cui erano arrivati fino alla fattoria.
“Specie quando si tratta di te” li appoggiò Joshua, profondamente divertito dalla situazione. Quando c’era da darmi contro era sempre in prima fila. Alla faccia di quello che stava dalla mia parte!
Agatha fece lo stesso e lo guardò con sufficienza. “Tu cosa c’entri, misogino ragazzo di città?” lo zittì con superiorità.
Mio fratello rise e alzò le mani in segno di resa. “Come non detto!”
Perché lei riusciva a tappargli la bocca e io no? Doveva insegnarmi!
“Non ho intenzione di attentare alla mia vita. Ti sembro un suicida?” domandò Kameron, indeciso se ridere o farsi prendere dal panico.
Incrociai le braccia a mia volta ed ora sembravamo una tribù d’indiani d’america. “Francamente, ora come ora, sembra proprio che tu voglia un bel pugno sui denti” risposi combattiva. La mia macchina aveva l’aria condizionata e non bruciava il sedere e se anche beccavo una buca nessuno rischiava di caderci fuori. Ero decisa a difendere i miei diritti.
Kameron si lasciò sfuggira una risatina. “Ci tengo alla pellaccia io! Se non vuoi lasciarmela guidare, andiamo col pick-up e basta”.
Questa volta fu Agatha ad intervenire. “Siete una banda di misogini palloni confiati! Stupidi maschilisti. Ci siamo fatte tutta l’estate sul cassone di dietro del tuo stupido pickup. Hai una vaga idea di quanto scotti la lamiera in agosto?”
“Non che in luglio sia molto meglio” aggiunsi. “E io ho ancora i lividi di tutte quelle stupide buche che hai preso, Towell. Quindi, se non vuoi che andiamo con due macchine, dovrai proprio adeguarti alle nostre condizioni”.
“Ovvero: io e lei stiamo seduta davanti e voi dietro” concluse Agatha con convinzione.
“Non se ne parla! Da quando gli uomini si fanno scarrozzare dalle donne?” intervenne Terrence, scandalizzato.
“Ehi, tu” gli puntai un dito contro. “esiste una cosa chiamata emancipazione! È giunto il momento che tu apra un maledetto dizionario e scopra il significato di questa bellissima parola!” 
“Quanto sei saccente!” mi prese in giro Joshua, apoggiandosi alla mia macchina. Con quegli stupidi jeans pieni di inutili bottoncini di metallo che sembravano fatti apposta per rigare la vernice delle automobili altrui.
“Chiudi il becco e leva il sedere da lì!” E non sono saccente, sono determinata e ho una cultura alle spalle. Mica per nulla ieri ho ridotto le lasagne ad una teglia di corteccia di albero abbrustolita! Sono cose che capitano. Mai sentito parlare di quel famoso filosofo che cadde nel pozzo mentre osservava il cielo?
“Costringimi” mi sfidò.
Voleva la guerra? L’avrebbe avuta, parola di donna intenta a combattere per i proprio diritti. “Il nonno sarà felice di sapere che ti sei offerto volontario per ripulire il pollaio questa mattina. Vado subito a dirglielo” proclamai con un sorriso a trentadue denti.
“Non oseresti”.
“EHI, NONNO!” strillai, avviandomi a grandi passi verso il pollaio. “Joshua ha avuto una grande idea, sai? Vuole che...” ma la fuorisciuta di parole dalla mia bocca fu arginata da una mano formato padella che la tappò. Quella di Joshua.
“Ricattatrice!”
Scoppiai a ridere, mentre mi lasciava andare e, da brava sorella quale ero, tornavo alle macchine senza portare a termine la mia minaccia. “Alla fine il sedere dalla macchina l’hai tolto, eh?” lo presi in giro.
Kameron e Agatha stavano ancora bisticciando a proposito di misoginia, previdenza, orgoglio e diritti.
“Perché non facciamo a votazioni?” propose infine Kameron, stufo di discutere. Anche perché era matematicamente impossibile che qualcuno potesse vincere uno scontro verbale contro Agatha McDonnel, lei aveva quasi sempre un’ottima argomentazione a portata di mano. Ma anche quando non ne aveva, ne inventava e continuava a difendere le proprie opinioni con tanta convinzione – o meglio testardaggine – che non c’erano speranza di farla franca. Specie quando trovava un coltello da pane e minacciava di tagliare le gomme dell’auto di qualcuno. Kameron era rimasto talmente scioccato da quel tentativo, che aveva optato per le votazioni proprio per evitare di provocare una simile dimostrazione violenta.
“Ottima idea. Chi vota perché le ragazze occupino i sedili davanti?” domandai. La mia mano e quella di Agatha vennero prontamente sparate verso il cielo, in un’orgogliosa dimostrazione femminista. Era ovvio, però, che anche se mio fratello non aveva alcun diritto di rientrare nelle votazioni, saremmo rimasti due contro due e non avremmo risolto nulla. Per cui c’era bisogno di un piccolo aiutino. “Ehi, Terrence, ti ricordo che mi devi un favore, dopo le figuracce che mi hai fatto fare ieri” gli ricordai.
Lui rise con aria colpevole e alla fine alzò il pugno a sua volta. “Scusa, amico, ma sono un uomo d’onore”.
Kameron sbuffò e alzò la mano quando chiesi chi fosse a favore della guida di Kameron, quel giorno. Joshua fu ben felice di fare altrettanto, giusto per essere di conforto al nuovo compagno di giochi. “Io sono con te, fratello” gli assicurò, facendolo ridere.
“Perfetto, tre contro uno” contò Agatha.
“Come uno? E io?”
“Tu non conti” lo freddò lei, senza degnarlo di uno sguardo.
Sogghignai, soddisfatta di aver vinto quella piccola disputa. “Forza, trattore, i sedili posteriori ti aspettano!”
Kameron si sentiva ferito nell’orgoglio, evidentemente, quello stesso orgoglio che gli faceva dire enormi cretinate di tanto in tanto, giusto per farsi grosso agli occhi altrui. Di fatti rise: “Prima o poi mi farai compagnia su quei sedili, se capisci cosa intendo”.
Mi fermai con la mano che stava per aprire la portiera dell’auto e gli rivolsi un’occhiata incredula e un po’ scettica. Sì, ogni tanto la sua sete di virilità diveniva insopportabile e allora lui si beveva il cervello. Complimenti alla sua astuzia!
Per gli altri esemplari maschili quella frase fu il degno riscatto per la sconfitta ricevuta, perché si scambiarono pacche sulle spalle e sorrisi complici. Idioti.
Per qualche assurdo motivo, però, il mio cervello non riuscì ad elaborare una risposta adeguata a quell’insinuazione, per cui mi limitai a ridere forte, scrollando il capo. Forse ero anche arrossita, dannazione. Forse. Ma mi aveva colta di sorpresa, cavolo, non me l’aspettavo una frase del genere proprio da lui! Potevo aspettarmela da Terrence, al limite anche da mio fratello, ma Kameron...! Mi era crollato un mito. E il mio orgoglio con lui. “Come no!” bofonchiai, mentre Agatha borbottava qualche insulto tra i denti e saliva in macchina sbattendo la portiera.
“E si ascolta la musica che decido io” conclusi, salendo a mia volta, giusto per avere l’ultima parola.
 
Eravamo riusciti a non far tardi nonostante la lunga discussione a proposito di chi avrebbe dovuto guidare quella mattina. Io e Kameron stavamo accompagnando Agatha in classe, visto che sembravamo avere abbastanza tempo e che i due si erano immersi in una nuova discussione che durava più o meno da quando anche i ragazzi si erano decisi a salire in macchina. Non c’era un argomento preciso, si stavano più che altro stuzzicando a vicenda, più o meno come facevamo regolarmente io e mio fratello, ma con uno sprint in più. Kameron se la rideva e, ad ogni risposta, Agatha si faceva sempre più acida. Ovviamente non c’era stato modo di ascoltare musica in auto, con tutta la confusione che facevano e le stentate indicazioni di Terrence erano stati necessari tutta la mia concentrazione e un miracolo per non perderci.
In quel momento tenevo il mio fidato mp3 in mano e avevo tutta l’intenzione di ficcarmi gli auricolari nelle orecchie per isolarmi e non dover più sentire quel perenne battibecco, ma, proprio mentre stavo per farlo, Kameron me lo tolse di mano. “Che musica ascolta la gnoma femminista?” domandò, accendendolo.
Rimasi con un palmo di naso per un istante, poi incrociai le braccia con stizza. “Scusa, non stavi avendo una conversazione civile e rispettosa con Agatha tu?” A quel punto lui aveva già inforcato i miei auricolari e stava scorrendo la playlist.
Scambiai un’occhiata esasperata con Aggie, poi bussai col pugno alla sua spalla. “Kam...” lo chiamai, temendo che la campanella sarebbe suonata da un momento all’altro. Non sapevo orientarmi da sola nella scuola e sicuramente non avrei lasciato il mio mp3 nelle mani di quello che, da quella mattina, era regredito da ’amico’ a ‘troglodita’.
“Bleah! Pensavo avessi gusti migliori!”

 

Era appena regredito ulteriormente a ‘stupido troglodita privo di buon gusto’. “Ah, be’, mi dispiace se la mietitrebbia bocciata non ha i miei stessi gusti musicali!” commentai, incrociando le braccia.
Lui rise della mia espressione, mentre anche Agatha si era fermata a qualche passo di distanza per osservare la scena.
“Oh, questa! Questa non è male!” esclamò lui in quel momento, entusiasta.
Lo vidi alzare al massimo il volume e scatenarsi muovendosi al ritmo della musica che sono lui sentiva.
“Sembra un bisonte col morbo di Parkinson” commentò Agatha, inarcando le sopracciglia, divertita.
Kameron le fece l’occhiolino, pur non avendo udito il commento per il quale io stavo invece ridendo. Non aveva tutti i torti, dovevo ammetterlo. Non si poteva definire un grande ballerino... ma chi se ne importava? Si stava divertendo e tanto bastava. E, dovevo ammetterlo, la cosa divertiva molto anche me.
Prima che Aggie potesse lasciarsi andare a qualche altro commento velenoso, lui l’afferrò per i polsi e la coinvolse in una sorta di scoordinato ballo anni ’70 nel bel mezzo del corridoio della scuola.
“Che cavolo fai?” gemette lei, cercando di sottrarsi alla sua presa.
Qualcuno degli altri studenti diretti in classe, passando, osservava la scena e se la rideva. Qualcuno si prese persino il disturbo di dispensare commenti poco carini, proprio del genere che mandavano Aggie – e chiunque, d’altro canto – su tutte le furie.
Mentre lei diventava rossa di rabbia e vergogna, Kameron cantò a squarciagola il titolo della canzone: “CRAZY LITTLE THING CALLED LOVE!”
Agatha riuscì a quel punto a spingerlo via e si allontanò svelta da lui, temendo di venir trascinata di nuovo in quella pazzia. “Towell! Smettila subito!” lo ammonì, ora che non era più nelle sue mani né in preda al panico. Glielo si leggeva in faccia: detestava attirare l’attenzione, specie in quella maniera imbarazzante. Peccato che a Kameron la cosa non desse alcun fastidio e non aveva idea del perché qualcuno avrebbe dovuto vergognarsi di divertirsi in pubblico. Come si poteva non volergli bene?
Me la ridevo sotto i baffi in tutta tranquillità.
“Pan, fallo smettere, ti prego!” mi implorò lei, mentre il ragazzo trotterellava per il corridoio imitando Freddie Mercury e ammiccava alle ragazze di passaggio, che lo liquidavano con un sorriso compassionevole e se ne andavano a passo svelto.
Tornai a bussagli sulla spalla, cercando di farlo ragionare. Anche perché a quel punto doveva mancare davvero poco al suono della campanella. “Avanti, Kam, ridammi quell’affare, da bravo” lo spronai, nonostante fosse chiaro che non sentisse una parola di ciò che stavo dicendo.
Lui ovviamente mi sorrise divertito e trotterellò via.
“Kam!”
Agatha gli rivolse un’occhiata carica di imbarazzo. “Lasciamolo qui e andiamocene, ti prego!” suggerì.
Ridacchiai. Sarebbe stato piuttosto divertente, nel caso lui si fosse voltato e avesse trovato il corridoio completamente vuoto. Tuttavia non potevo abbandonarlo, non l’avrei fatto nemmeno se avessi saputo come tornare in classe. “Tu vai pure, io lo aspetto”.
Lei sospirò, poi mi affiancò e si fermò ad attendere assieme a me che Kameron si ricordasse di non essere Freddie Mercury e di avere delle lezioni da seguire.
Mentre si dimenava senza alcuna vergogna tra gli sconcertati passanti, pensai che potevo capire il suo entusiasmo. Crazy little thing called love era una di quelle canzoni che, non appena uditi i primi accordi, rendevano impossibile premere il pulsante per passare alla traccia successiva. Era ipnotica, magnetica, era piena di vita e metteva energia ogni volta che la si ascoltava. E poi era dei Queen, il che la rendeva una gran canzone.
Agatha batteva insistemente un piede sul pavimento, osservandolo con le braccia incrociate e un’espressione severa che non lasciava presagire nulla di buono. Per lui. Con quell’aria minacciosa mi ricordava un sacco suo fratello Dean. Avevano gli stessi lineamenti un po’ spigolosi e anche caratterialmente un po’ si somigliavano. Ma quello era un pensiero off-limits. Tabù. Non avevo intenzione di entrare in un campo minato.
Mi obbligai a concentrarmi su Kameron giusto in tempo per vedere la sua espressione raggiante smontarsi. Il che annunciava la fine della canzone. Ne approfittai per accorrere e strappargli il mio mp3 dalle mani ed evitare che quella pantomima – poco mima –  ricominciasse. “Ora basta, che ne dici? Hai dato abbastanza spettacolo, trattore” dissi, divertita, mentre arrotolavo i fili degli auricolari.
Kameron rise. “Che è quella faccia, Aggie? Non ti sei divertita?”
Lei gli rispose con un’occhiataccia che avrebbe fatto impallidire persino suo fratello, ma, prima che potesse parlare, qualcuno si intromise ed evitò che quei due ricominciassero a bisticciare come avevano fatto fino a poco prima.
“Avrei dovuto immaginarlo. Chi poteva dare spettacolo al terzo piano se non Towell e company?” se ne uscì una ragazzina di qualche anno più piccola di me, ma che, era evidente, credeva di essere una specie di Jasmine Meaddows in succursale a Sperdutolandia.
Agatha si sistemò lo zaino sulle spalle, con l’aria di chi avrebbe preferito essere interrogata in tutte le materie piuttosto che trovarsi in quel luogo, di fronte a quelle persone.
Kameron le lanciò un’occhiata di scuse, poi lanciò la prima vera occhiataccia che gli avessi mai visto fare alla nuova arrivata, che lo osservava con sufficienza.
Signore e signori, ero di fronte a niente po’ po’ di meno che una pseudo bulletta, in diretta dalla scuola superiore di Sperdutolandia. Incredibile, eh? Trattenni a stento le risate, nel momento in cui lo compresi. Sembrava una brutta coppia della classica cheerleader strafiga dei film americani. Ma, per l’appunto, ne era una brutta copia sbiadita.
“E tu devi essere la nuova!” la ragazzina si esibì in un sorrisone falsissimo, posando lo sguardo su di me.
La nuova. Nessuno mi aveva mai chiamato in quel modo. Ero lì da solo un giorno e pochi minuti, era vero, ma era proprio in quel periodo che, di solito, ci si riferiva ai nuovi arrivati in quel modo. Era un termine così freddo che quasi riusciva a farmi sentire un pezzo di mobilio. “Già. Pan, mi chiamo Pan” sottolineai, leggermente infastidita da quell’appellativo. Mi sforzai di sfoderare un sorriso di circostanza, senza tuttavia porgerle una mano.
“Pam, vuoi dire”.
“No. Pan, con la enne finale”.
“Fai sul serio?”
Se facevo sul serio, diceva? Ma lei, piuttosto, faceva sul serio? Quell’orribile sorriso che ero riuscita a stamparmi in faccia si congelò. Voleva insegnarmi a scrivere il mio nome?Credo proprio che andrò all’anagrafe per farmi cambiare l’ultima lettera, ora.
Lanciai un’occhiata interrogativa ad Agatha, che per tutta risposta, che scosse leggermente il capo e mi fece cenno di andar via. Si lasciava mettere i piedi in testa da quella tizia in minigonna? Non era possibile, non proprio Agatha McDonnel!
Kameron si strinse nelle spalle e sospirò esasperato.
“Sì che faccio sul serio. Mio padre è un appassionato di mitologia greca” spiegai con freddezza. Non che il mio nome mi fosse mai sembrato un’opera d’arte, anzi, ero consapevole che fosse insolito. Sicuramente, però, nessuno aveva mai avuto la faccia tosta di farmelo notare. Anche perché non era per nulla male, per quanto mi riguardava. Harvey aveva ben pensato che ‘Pan’ fosse un nome molto più originale e rispettabile di ‘Pam’. Non avevo mai avuto nulla da obiettare con quel suo pensiero. Era un nome leggermente fuori dal comune, ma andava bene così. Insomma, era il mio nome, ormai!
Lei rise. “Tipo il dio Pan?” Era evidente quanto la cosa le suonasse ridicola.
No, tipo Zeus. Non noti la somiglianza? “Già”.
Inarcò un sopracciglio. “Ma è un nome da maschio, no?”
Va bene, a quel punto era davvero troppo. “Davvero? Cavolo, non lo sapevo. Be’, è un bel problema, ora che me lo fai notare” risposi cercando di essere convincente, nonostante la quantità di sarcasmo che misi in quelle parole. 
Lei sorrise compensiva. “Sta per suonare la campanella. Credi che ti vedrò a mensa?” mi chiese, cambiando prontamente argomento.
Credeva forse che sarebbe venuto a prendermi un elicottero per portarmi a Parigi durante la pausa pranzo? “Ci sono altre possibilità?”
“Sì. Non sei obbligata a sederti con certa gente, tanto per cominciare. Le persone di città non devono necessariamente confondersi con quella di campagna”.
Ah. Ah, quindi lei non era una ragazza di campagna. Lei veniva dalla cittàOvvio
Agatha era livida di rabbia e per un momento pensai che l’avrebbe presa a schiaffi. Tuttavia si limitò a mordersi il labbro inferiore e distogliere lo sguardo.
“No, sta’ tranquilla: eviterò gli sfigati come la peste!” le assicurai, profondamente divertita.
“Spero che tu faccia la scelta giusta”. Dopo quell'ultima frase, girò sui tacchi e si affrettò verso un’aula poco distante.
Scoprirai, Potter, che certe famiglie sono migliori di altre. Mi abbandonai ad una risatina sarcastica. “È una cosa normale?” domandai, incredula. Avevo tutta l’impressione di essere vittima di uno scherzo. Cose del genere non succedevano veramente.
“No, è una ‘cosa’ da murare viva” rispose Agatha, dando finalmente sfogo alla rabbia accumulata durante quei pochi minuti di assurda conversazione.
“Di nome Christine Johnson” aggiunse Kameron, mentre la campanella suonava. “Non è simpatica?”
“Adorabile” commentai.
Agatha sbuffò, avviandosi verso la stessa aula in cui era entrata la suddetta ‘cosa’. “Io vado! Ci vediamo più tardi!” ci salutò.
“Ciao, Aggie” rispondemmo in coro.
“È una stronza” continuò Kameron con un sospiro. “Si crede superiore a tutti noi solo perché abita qui in città. È la figlia della professoressa Pierce”.
“Oh. Sì, Kam, ma questa non è una città. È un buco! Quanti alunni ha questa scuola? Duecento? Quella dove ho studiato io finora ne conta quasi un migliaio!”
“Dillo a lei!”
“E, no, aspetta, hai appena detto una parolaccia?”
“Sì, perché?”
“Cacchio è un mirac-... KAM!” fu in quel momento che realizzai la nostra situazione. Fu un flash: eravamo fermi a chiacchierare nel bel mezzo di un corridoio vuoto, la campanella era appena suonata e l’aula in cui avremmo dovuto già essere si trovava dall’altra parte della scuola. “Siamo in ritardo!”
Lui mi osservò con un sorriso idiota per qualche istante, poi capì il significato delle mie parola. “Ops!” Mi afferrò per un braccio e partì di corsa.
In tutta franchezza, credo che nessuno in tutta la scuola, quella mattina, possa non aver udito il fragore di due bisonti imbufaliti che correvano goffamente attraverso tutta la scuola, inciampando e sbattendo un po’ ovunque. Se qualcuno di voi li ha sentiti e può testimoniare, posso assicurarvi che, sì, erano l’esemplare inspiegabilmente ritenuto sfigato e quello con il nome da maschio proveniente dalla città. Era pur sempre un modo per farsi conoscere da tutta la scuola, no?

DubbiDomandeDelucidazioni:
Mio fratello Simple di Marie-Aude Murail. Un gran bel libro, davvero. Ve lo consiglio. Parla di un ragazzino che si occupa del fratello maggiore ritardato. È estremamente dolce. La Murail è un genio nell’aggiungere tratti comici in quelle che, se non affrontate col sorriso sulle labbra e tanta speranza, sarebbero tragedie. Il tutto senza peccare di superficialità. Vi consiglio anche “Oh, boy!”, sempre della stessa autrice.
Avevo già citato questo libro facendo dire ad uno dei demon- ... dei piccoli Lucas la parola “stopila” (=pistola), mi pare. 

 
In der Ecke – Nell’angolo:
Prima di tutto voglio ringraziare Ginny_99, che si è gentilmente offerta per betare questo capitolo. Grazie, Ginny! :D
Ma andiamo oltre. ^^ 
Chi di voi aveva preso in considerazione la coppia Joshua/Agatha? Scrivendo questo capitolo ci ho fatto un pensierino, sappiatelo. Sarebbe ...curioso. XD
In questo capitolo fa la sua entrata in scena un personaggio discretamente spiacevole - ma dipende dai punti di vista - Christine Johnson. Viene anche introdotta una tematica che aiuta a spiegare, in parte, il motivo per cui Kameron viene mal visto. I ragazzi del paesino di Sperdutolandia, non sono molto apprezzati da quelli della "città". Incredibile ma vero, tra la cittadina e il paese ci sono discriminazioni tra campagnoli e cittadini. Pan è piuttosto scettica a riguardo, visto che, in pratica, quelli del liceo sono tutti campagnoli in confronto a lei. 
Viene anche data una spiegazione al perché del nome di Pan. Perché io ho preso i nomi dei fratelli Fletcher da due diversi anime, ma non era plausibile che Harvey e Felicity avessero fatto lo stesso. XD Tra l'altro, mentre provavo a leggere "Le Metamorfosi" avevo intuito qualcosa che poi oggi, grazie a wikipedia, ho scoperto essere curiosamente azzeccato:
"Il nome Πάν deriva dal greco paein, cioè "pascolare", e infatti Pan era il dio pastore, il dio della campagna, delle selve e deipascoli". Poi naturalmente continua con altre informazioni, ma quelle che ci interessano sono queste. ^^ È probabile che alcuni, se tra voi ci sono dei classicisti, lo sapessero già, ma io da povera linguista ne sono rimasta piacevolmente sorpresa. :D
Be', penso di aver finito per oggi.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto! 

PS: Il progetto del "non più di dieci capitoli" purtroppo credo che salterà. Non voglio tirar via il finale di questa storia, cosa che, concentrandolo in un prefissato numero di capitoli, invece rischierei di fare. Non saranno comunque ancora moltissimi, lo prometto.

 
 
  
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