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Autore: _Woodhouse_    13/08/2012    1 recensioni
Cosa sarebbe successo se Jane Eyre non avesse mai ricevuto la sua eredità? Se fosse rimasta tristemente lontana da Thornfield per anni, senza conoscere le sorti degli abitanti dell'amata tenuta? Che ne sarebbe stato di Mr. Rochester? La rassegnazione e il sacrificio avrebbero continuato ad avere la meglio sulla loro passione?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: Incompiuta
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Nell’oscurità della stanza, Mr. Rochester reggeva in una mano la coppa di un calice di porto, più per abitudine che per voglia. Dalle tende color vinaccio filtrava un fiotto di luce azzurra, palesando all’interno della stanza l’atmosfera uggiosa che stava al di fuori.
Grazie a quel po’ di luce riuscì a fissare con occhi vitrei il contenuto della coppa e le dita affusolate ma consumate che la stringevano.
Sebbene cercasse di distinguere sempre più nitidamente i particolari sul tappeto o gli oggetti posizionati sul tavolinetto di quercia, la vista si offuscava completamente e improvvisamente, cosicché tutti i suoi sforzi si rivelavano vani. Doveva limitarsi a qualche ombra e a momenti di meravigliosa lucidità, momenti che gli venivano regalati in special modo all’aperto, nelle giornate di sole.
A volte, però, quando gli pareva di vedere troppo bene e di riuscire a distinguere perfettamente il ponticello, l’ippocastano, la panchina di legno sottostante all’albero e il colore delle foglie, la mente cominciava a prendersi gioco di lui, collocando il suo angelo nei posti in cui il suo ricordo si faceva più vivido. Allora, ogni volta, egli era costretto ad indietreggiare, a picchiare con forza il bastone contro la corteccia dell’ippocastano, a sbraitare, ad accasciarsi.
Jane.
Quel pomeriggio aveva pensato di uscire a fare una passeggiata, ma l’odore della pioggia lo aveva trattenuto dall’incamminarsi, provocandogli un nuova fruizione di rabbia che gli pervase l’itero costato e lo immobilizzò alla poltrona.
Era ormai diventato estremamente irritabile e scostante, molto più di quel che era mai stato in precedenza, molto più di qualsiasi altro uomo vivente, poiché aveva coltivato, giorno dopo giorno, un odio profondo per la vita. Non desiderava altro che liberare la sua anima da quella carne di uomo morto e storpio. Tante volte era stato sul punto di farla finita, di espiare peccati e colpe a suon di rivoltella, eppure non lo aveva fatto; e non perché fosse in qualche modo attaccato alla vita, no, bensì perché in cuor suo custodiva la segreta speranza di rivederla, di ritrovarla o semplicemente di avere sue notizie.
Non poteva continuare a vivere per molto senza il suo angelo, eppure non poteva morire senza nemmeno vederla un’ultima, agognata, volta.

- Signore, vi ho portato il tè. – annunciò con voce gentile Mrs Fairfax, evidentemente provata da quegli anni drammatici.
- Non mi pare di averlo chiesto. Portatelo via. – ribatté secco, senza nemmeno indirizzarle un’occhiata.
- Ma signore, non avete neppure fatto colazione quest’oggi. – fece la donna con un tono vibrante di preoccupazione.
- Al diavolo la colazione. Al diavolo il vostro tè. Andate via! – ordinò il padrone con ferocia.
A quelle parole, l’anziana signorotta non poté far altro che indietreggiare timidamente e abbandonare la stanza. Si diresse verso la sprovvista cucina e si concesse il tè che sarebbe spettato al padrone. In quel mentre rifletté molto sulla triste situazione in cui vivevano e sebbene lei riuscisse a vivere dignitosamente, sopportando le controversie, il povero Mr. Rochester, nonostante il suo polso, era sprofondato nelle fiamme dell’inferno. Niente più lo divertiva, il lento ma significativo riaffiorare della vista lo aveva lasciato indifferente. Nulla era più importante. Mangiava solo quando riusciva a ricordarsene,  parlava solo per imprecare, viveva ma era come se si limitasse ad esistere. Tutto questo, per quanto comprensibile, rattristava parecchio la povera Mrs. Fairfax, la quale avrebbe tanto voluto essergli d’ausilio, proteggerlo, trovare una soluzione a quella lente e logorante distruzione.
Mentre sorseggiava quel tè ormai tiepido, la povera donna scoppiò in lacrime calde e si andò a sedere dinnanzi alla finestra, aspettando che piovesse e sperando che la pioggia riuscisse a pulir via tutto quel dolore.
Poche stanze più in là, Mr. Rochester aveva terminato di scolare interamente il calice di porto, si morse le labbra per inumidirle ulteriormente e si liberò della coppa gettandola all’interno del caminetto acceso.
Batté con forza un pugno sulla stoffa ruvida di uno dei braccioli della poltrona e si portò col busto in avanti, poggiando i gomiti sulle ginocchia e mettendosi la testa tra le mani.
Le dita tormentavano i capelli scuri e arruffati e le mascelle gli si contraevano come ad esternare l’amarezza incubataglisi persino nelle ossa.
Ripensò al suo volto, come faceva sempre, ripensò al volto di Bertha mentre si concedeva alle fiamme e con una cattiveria che lo disgustò, si ritrovò a desiderare che le fosse morta prima, molto prima di distruggerlo, di impedirgli di sposare la sola donna che mai gli avesse trasmesso gioia.
Adesso, però, era tardi anche per sperare. Jane, probabilmente, aveva fatto della sua vita qualcosa di meraviglioso, perché lei poteva ancora farlo e sicuramente ci sarebbe riuscita, avrebbe ancora amato e sarebbe stata una donna più felice di quella che sarebbe mai potuta essere con lui.
Quella era l’unica consolazione che gli rimaneva, l’unico appiglio in un’esistenza tetra, l’unico motivo per rimanere vivo, poiché non si sarebbe mai arreso all’idea di non poter guardare e constatare con occhi terreni il nuovo mondo di Jane, un giorno o l’altro.
Ma cosa gli faceva pensare che si sarebbe ritrovati? La vita gli aveva forse concesso di poter essere tanto fiducioso? Non gli era sempre stata terribilmente avversa? Non lo aveva sempre ucciso di tante e minuscole morti?
Stordito, si gettò nuovamente all’indietro e si lasciò avvolgere da una sensazione d’improvviso torpore.
Sperò per un attimo che quello annunciasse il sopraggiungere della morte, quindi si stiracchiò meglio e attese. Attese. La morte non arrivava, il sonno nemmeno. Le ore e i minuti e i secondi continuarono a trascorrere con devastante lentezza, tutt’intorno gli sembrava di vedere spettri, esseri sudici, ratti, sozzeria. Si sollevò di nuovo, si mise in piedi e arrancò disperatamente verso un mobiletto alla sinistra del camino.
Quando lo raggiunse, vi si poggiò con tutta la pesantezza della sua stazza e si curvò, aprì uno dei cassetti e ne rimescolò l’interno con mani tremanti. Poi, finalmente,  trovò quel che cercava, se ne somministrò il più possibile e dopo poco cadde a terra con un tonfo sordo.





Quella sera stessa, in un altro angolo d’Inghilterra, Jane Eyre condivideva un umile pasto caldo con i suoi amici di Moor House. Era una di quelle sere piene d’allegria, in cui il vocio di Mary e Diana bastava per riempire l’intera casa.
- Jane! Allora? Diteci cosa ne pensate! Credete che siano stati degli acquisti avventati? – chiese con euforia Diana.
- Oh, io… - prese del tempo per riflettere sulla cosa giacché la moda costituiva un vero enigma per la sua mente semplice. – Oh, credo che il vostro giudizio basti. Aggiungendo il mio contribuirei solo a condurvi al cattivo gusto. Sapete che non ho spiccate qualità in materia.
- Suvvia! – gridarono in sincrono le due sorelle. – Noi ci fidiamo di te, di qualsiasi cosa si tratti. E poi hai tanto buon gusto, Jane, non essere modesta. – aggiunse con garbo Diana.
- Non crederò nemmeno per un istante a queste adulazioni. – rispose con un sorriso ironico sulle labbra- Ma dato che vi farebbe così piacere conoscere la mia opinione e io odio non soddisfarvi, vi dirò che trovo i vostri abiti davvero deliziosi.
- Grazie, Jane. – fecero di nuovo in coro. – Non lo dici per compiacerci,  vero?
- Non vi direi mai qualcosa che non penso solo per compiacervi. – rispose risoluta ma con garbo.
- Oh, non vedo l’ora di indossarlo! – sospirò Mary.
- A chi lo dici! Non siamo per niente abituate a ricevere persone importanti o ad andare alle feste, quindi la visita di Sir. Watson è motivo di grande entusiasmo per noi. – aggiunse con aria sognante Diana.
- Ragazze, contegno. – intimò loro la voce glaciale di St. John.
Le due ragazze, constatando la reazione del fratello, decisero di zittirsi e limitarsi ad abbandonarsi a frivole conversazione solo nella loro mente. Nel frattempo, Jane rivolse uno sguardo di malcelato disappunto a St. John, il quale lo ricevette in silenzio senza chiedere spiegazioni di sorta. Continuarono a cenare, tutti e quattro in perfetto silenzio e solo ogni tanto vi era uno scambio fugace di sguardi tra le due sorelle, che non riuscivano a colpevolizzarsi per la loro euforia giacché provarne era sempre stato un evento piuttosto raro.
-Quando arriverà il vostro ospite? – domandò Jane per armonizzare nuovamente la tavola.
Le due ragazze quasi risposero, ma si scambiarono un breve sguardo di intesa e ritornarono con la testa sul piatto, aspettando che fosse St. John a rispondere alla domanda.
- Domani, nel pomeriggio. Spero che voi, Jane, abbiate il piacere di presenziare. Fate parte della nostra famiglia, d’altronde.
- Siete certo che la mia presenza non risulti di troppo? – chiese improvvisamente preoccupata.
- Niente affatto! Sono certo che farà piacere anche a Sir. Watson conoscervi e so che lui vi piacerebbe, perché nonostante sia un uomo di una certa elevatura sociale ha sempre conservato una straordinaria bontà d’animo. Non scorderò mai come lo conobbi. Credo che gli fui amico dal momento stesso in cui lo vidi. – spiegò St. John, addolcendo i toni.
- Cosa gli garantì la vostra immediata amicizia? – domandò incuriosita, mentre Diana e Mary ascoltavano con gli occhi strabuzzati e delle arie profondamente interessate.
- Ve l’ho detto. La sua bontà d’animo. Lo conobbi durante uno dei miei viaggi in Irlanda, anni addietro. In quel periodo nel piccolo villaggio in cui mi ero sistemato si era da poco diffusa una crudele epidemia di tifo.
Molte persone disagiate persero la vita e noi, con i nostri mezzi, riuscivamo a dare una mano d’aiuto solo ad una piccola percentuale. Quando l’epidemia si estinse, rimasero in canonica una mezza dozzina di bambini, ormai tutti orfani e ancora completamente ignari delle sorti delle loro famiglie. I mezzi di sostentamento di cui disponevo erano ben miseri e presto diffusi un’accorata richiesta d’aiuto.
I gentiluomini delle vicinanze non mossero un dito e i bambini, indeboliti dalla scampata malattia, esigevano sempre maggiori cure; cure che io potevo limitatamente assicurar loro.
Proprio quando credei di essere perduto venne a farmi visita un gentiluomo ospite in una delle grandi case dei dintorni, un amico stretto del più importante possidente della zona. L’uomo capì subito le terribili condizioni in cui riversavano i bambini e senza spendersi in troppe parole mi assicurò che si sarebbe preso cura di loro finché Dio glielo avesse permesso. Il giorno dopo caricò in una carrozza tutti e sei bambini e li portò con sé nella sua tenuta di Dublino. Per finire, mi lasciò una generosa somma di denaro per aiutarmi a risollevare le mie condizioni e da quel momento cominciammo una strenua e amichevole corrispondenza.
Dopo dieci anni ha finalmente accettato il mio invito ed io non potrei essere più soddisfatto. Uomini così si incontrano invero di rado. – concluse il racconto e un sorriso gli rigò il volto.
Le donne della tavola ascoltarono la storia con molto trasporto e quando fu terminata si scambiarono dei sorrisi. Anche Jane sorrise e desiderò conoscere presto un uomo di tal fatta, il quale sarebbe stato di certo un esempio per tutti loro.
Ad un tratto, però, il sorriso le morì sulle labbra e lasciò cadere la posata sul piatto creando un leggero tramestio che bastò a scuotere tutti i convitati. Si sentì improvvisamente pervasa da un malessere, da un’aurea lugubre, come se un presentimento le stesse aleggiando sulla nuca, un presentimento di morte, un presagio oscuro. Si curvò sulla tavolo e si portò le mani sul viso  tentando di scacciar via quella sensazione. St. John scattò in piedi e le si avvicinò affettuosamente per sincerarsi delle sue condizioni fisiche. Le due ragazze rimasero immobili temendo una qualche disgrazia, e solo quando le udirono pronunciare quelle parole trassero un sospiro di sollievo e le carezzarono le braccia da entrambi i lati.
- Scusatemi.  – fece sollevandosi e cercando di rassicurare tutti con uno sguardo.
- Non vorrete tornare a casa vostra in queste condizioni? – domandò perentorio St. John.
- Vi assicuro che sto bene. – ribatté lei ancora stordita, mentre barcollava verso l’appendiabiti per poi indossare il suo soprabito.
- Permettetemi di accompagnarvi, almeno. – continuò con premura l’amico.
- Davvero, posso farcela. Una breve passeggiata non mi arrecherà alcun danno, anzi, forse mi aiuterà a riavermi del tutto. – concluse risoluta.
- Come volete. – l’assecondò St. John con aria un po’ contrariata, poi la seguì fino all’uscio e le baciò una guancia prima di lasciarla andare.


 
Durante tutto il tragitto Jane non smise di avvertire quella terribile sensazione e nella mente continuava a vorticarle un solo nome, un solo volto. Poi, improvvisamente, sentì delle forti fitte allo stomaco e un pensiero tremendo le ferì la mente come un’accetta: Edward. Il laccio.
Era come se potesse sentire il lento e invisibile logorio del laccio che li univa, come se dall’altra parte stesse tirando con un vigore spropositato. Cosa stava succedendo? E se lui stesse morendo?
Cominciò a tormentarsi con ancora più lena e quando giunse all’interno della proprio casa si lasciò andare rigidamente sulla poltrona. Vide la piccola fiammella che rimaneva del fuoco del pomeriggio ardere nel camino ed in quel momento il laccio parve irrigidirsi di più e tirare, tirare vigorosamente.
Fissò quel che rimaneva del fuocherello con occhi vacui, mentre una lacrima, scivolandole silenziosa sul viso, mutò il suo presagio in certezza.
Questo, però, non cambiava le cose. Qualsiasi stesse accadendo a Thornfield lei sarebbe dovuto restare al suo posto e aspettare lentamente la fine di quel supplizio.
Avrebbe ritrovato il suo Edward in un po’ posto che non è fatto né di materia né d’aria.
Si sarebbero ritrovati, lo sapeva, come anime affini fatte di fiato e nulla più.
   
 
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