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Autore: MrEvilside    15/08/2012    6 recensioni
[ CONCLUSA ]
Dopo la cattura di Loki, il suo scettro è stato affidato a Tony Stark, l'unico che abbia resistito alla sua magia soggiogatrice, e Loki consegnato ad Asgard, dove viene detenuto in attesa di giudizio. Quando fugge, i Vendicatori si preparano ad affrontarlo, convinti che il suo primo obiettivo sarà senza dubbio riappropriarsi dello scettro sconfiggendo Tony, ma quest'ultimo scoprirà che per una volta è Loki ad aver bisogno d'aiuto. Il semidio lo porrà di fronte a più di una scelta: vita o morte, verità o menzogna, amore o qualcos'altro, sullo sfondo di una guerra per garantire la pace sulla Terra.
Non sempre è tutto bianco o nero.
[ IronFrost ]
Genere: Azione, Dark, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Loki, Tony Stark/Iron Man, Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Stavolta vi ho fatto aspettare parecchio, lo so, ma sono stata in vacanza, come avevo anticipato, e sfortunatamente non ho potuto aggiornare prima perché ho dimenticato il mio portatile (con KompoZer e OpenOffice dentro per l'editing degli aggiornamenti <__<) e ho dovuto usarne uno di fortuna nelle ultime due settimane <__<' Ho penato un po', ma alla fine sono riuscita a inserire anche la solita icon, una consuetudine cui mi sono affezionata <3 C'è anche il capitolo per fortuna (LOL), ed è pure bello lungo come sempre XD
Vorrei ringraziarvi per il supporto, ormai siamo arrivati a metà fanfiction (in tutto avrà otto, massimo nove capitoli), ma spero che continuerete a seguirmi tutti fino alla fine! <3




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#04: Smashed
 
And if you wanna get out of here
(Wanna get out of here)
Save yourself
But you never get anywhere
(Never get anywhere)
Not without my help
-I’m alive, Shinedown
 
Quando Stark fece il suo ingresso in cucina, la mattina dopo, Loki era seduto a gambe incrociate sul sofà, concentrato sul libro che giaceva nel suo grembo. Il semidio lo intravvide con la coda dell’occhio, ma non si diede la pena di sollevare la testa.
L’espressione del mortale nel vederlo intento in qualcosa di così umano era impagabile.
«Cosa stai facendo?»
Loki si limitò ad alzare il volume perché potesse vederne la copertina. «Studio».
Se possibile, Stark apparve ancora più sconcertato. Delizioso, considerò tra sé il semidio. «Il vocabolario?»
«Non fai altro che accusarmi di usare una dialettica obsoleta…» Loki abbassò nuovamente il dizionario, ne riprese la lettura. «Ho ritenuto opportuno sforzarmi di abbassarmi al misero livello oratorio di voi midgardiani».
L’uomo inarcò le sopracciglia in una manifestazione di scherno e il semidio si rese conto del proprio errore con una smorfia. Riuscire a parlare come i terrestri, però, si stava rivelando molto più complicato del previsto: adoperavano un gergo talmente ridicolo che il suo orgoglio si rifiutava di imitarli.
«Voglio dire,» si corresse con un sospiro «ehi, se voglio mantenere la copertura, mi tocca comportarmi come voi mid- della Terra».
Stark indietreggiò di un passo, gli occhi spalancati, inorriditi. «Okay, okay, è stato terrificante. Non rifarlo mai più. E comunque, la tua dialettica obsoleta va bene negli incontri di lavoro. Cioè, mi fa fare bella figura, quindi è okay». Si passò una mano sulla nuca e scoccò un’occhiata alla cucina. «Niente colazione, questa mattina?»
«Jarvis mi ha avvisato che hai scaricato tutto il lavoro sulle spalle di miss Potts per rinchiuderti in laboratorio» ribatté Loki con una scrollata di spalle, senza distogliere l’attenzione dal dizionario inglese-slang, slang-inglese. «E che hai una macchinetta per il caffè anche lì».
Naturalmente l’umano non poteva cogliere l’invito sottinteso a mettersi subito all’opera sulla sua tecnologia anti magia, era troppo ottuso, considerò tra sé, irritato, quando Stark si avvicinò al divano e si piegò a raccogliere uno dei libri impilati sul tavolino. Possibile che l’esercito dei chitauri stesse arrivando, che lui stesse arrivando, e il midgardiano si preoccupasse dei suoi gusti letterari?
«Hai letto anche questi?»
Loki annuì, nella speranza che la mancanza di una replica verbale gli ricordasse l’urgenza del suo compito.
«Tutti questi?» insistette Stark, sbigottito. «Hai letto tutti i miei libri sulla meccanica in una notte?» Ammiccò in direzione della decina di volumi accatastati in ordine alfabetico, il semidio assentì un’altra volta.
«I principi base sono piuttosto semplici e nel complesso questa scienza midgardiana non è molto diversa dalle tecnologie degli altri reami» minimizzò con un gesto svogliato della mano, sebbene intimamente fosse compiaciuto dell’espressione meravigliata – e, in piccola parte, persino ammirata – del suo interlocutore. Non che avesse intenzione di lasciarglielo intendere, chiaro. Non accennò neppure a voler alzare gli occhi dal libro. «Anche se devo ammettere di essere impressionato: per essere una razza tanto giovane, vi siete evoluti più in fretta di molti altri popoli».
Non c’era sarcasmo nella sua voce.
Fin da quando era bambino, era sempre stato affascinato dai terrestri: non erano niente più che scarafaggi, deboli e poco longevi, eppure nel giro di pochi millenni erano già al passo con gli altri reami – reami di cui, ironicamente, non conoscevano nemmeno l’esistenza. Li trovava divertenti; i loro sforzi erano inutili, ma pur sempre divertenti.
«Mi inchino alla tua munificenza, mio signore» commentò Stark, mordace, ma era ancora troppo stupefatto. «No, davvero… cioè, non mi stai prendendo in giro? Li hai capiti sul serio?»
«Hai la mia parola». Loki roteò gli occhi al soffitto. «Ma ricorda che sono il Dio dell’Inganno, non so quanto possa valere la mia parola. Ora, se non ti dispiace, gradirei riprendere la lettura, mentre tu hai del lavoro da svolgere in laboratorio – o mi sbaglio?»
Il mortale parve riscuotersi dai suoi pensieri – sempre che pensasse davvero, rettificò tra sé il semidio – e ripose il libro in cima alla pila. «Hai ragione, hai ragione. Okay. Non disturbarmi, a meno che non sia un’emergenza. Ah, Fury che chiede di parlare urgentemente con me non è da considerarsi un’emergenza. Mai».
Loki sollevò le sopracciglia, ma non espresse nessuna delle domande che gli salirono alle labbra. Si limitò a seguirlo con lo sguardo mentre lasciava l’attico, per sincerarsi che non oziasse oltre.
Nonostante l’iniziale pigrizia, Stark non mosse un passo fuori dal laboratorio. Grazie a Jarvis – di cui si fidava molto di più di quanto non si fidasse del midgardiano – il semidio poteva anche assicurarsi che non indulgesse in attività futili e al tempo stesso portare avanti il proprio studio.
Non era sicuro di avere compiuto la scelta giusta, materializzandosi nella Stark Tower.
Non aveva bisogno che Stark lo facesse notare per sapere di non avere un piano funzionale, di non avere ogni cosa sotto controllo com’era sua abitudine: il suo destino era appeso a un filo, al filo di quell’idea che aveva maturato chiuso nelle prigioni di Asgard, ed era un filo sottile, molto sottile, un filo di cui Loki non poteva garantire la resistenza. Un filo che portava il nome di Anthony Stark, forse l’ultima persona nei nove reami a cui il semidio avrebbe mai creduto si sarebbe ritrovato, un giorno, a domandare aiuto.
Sfogliò svogliatamente una delle ultime pagine del vocabolario, il volto sorretto dal pugno chiuso, il gomito premuto contro la coscia.
Mettere la propria vita nelle mani degli Avengers non gli piaceva, ma erano l’unica parvenza di esercito che avesse già sconfitto i chitauri una volta: se Thanos fosse sceso in battaglia al fianco del suo popolo non poteva stimare le probabilità di sopravvivenza, ma quando il generale era stato lui – per quanto bruciasse ammetterlo – ne erano stati capaci.
Dovevano riuscirci. Stark doveva riuscirci.
Per la verità non si aspettava che il mortale rimanesse concentrato troppo a lungo e, quando alla fine udì la sua voce risuonare attraverso gli altoparlanti dell’AI, si sorprese che non si fosse distratto prima.
«Ehi, Loki?»
Il semidio mise da parte il libro che aveva cominciato, dopo aver terminato di memorizzare il dizionario, ed esalò un sospiro paziente. «Non dovresti essere al lavoro, Stark? O forse hai bisogno di me?»
«Lo so». Suonava esitante; incuriosito, Loki gli concesse la propria piena attenzione. «Pensavo… ah, lascia perdere».
«Pensavi?» gli fece eco, fingendosi incredulo. «Ti prego, mettimi a parte di questo miracolo. A che cosa pensavi, di preciso?» In realtà aveva dei sospetti circa quello che Stark avrebbe potuto domandargli, dei sospetti che provocarono lo sbocciare di un sogghigno sulla sua bocca al ricordo degli avvenimenti della sera prima.
Dal momento che il mortale era perfettamente sobrio, non avrebbe potuto tentare un’altra volta la menzogna dei postumi della sbornia. E Anthony Stark era semplice troppo Anthony Stark per non rimuginare su qualcosa che concernesse il sesso.
«Beh, lo sai a che cosa pensavo. A ieri sera».
La sua assenza cancellò un frammento di sorriso dal volto del semidio; non poterlo vedere toglieva gran parte del divertimento, ma era certo che, piuttosto che affrontarlo, il mortale avrebbe tirato avanti a fare finta di nulla al punto da diventare noioso.
Non replicò e lo sbuffo che provenne dagli altoparlanti gli rese chiaro che Stark aveva inteso cosa significasse quel silenzio. Continua a parlare.
«Mi chiedevo» pausa, Loki si aprì in un sogghigno nell’immaginare la sua espressione a metà tra la curiosità morbosa di conoscere e la consapevolezza di stare ponendo quesiti di natura sessuale proprio a lui, che avrebbe dovuto essere il suo nemico «perché tu abbia cercato di, beh, molestarmi, in questi ultimi due giorni».
Il semidio picchiettò la punta dell’indice sul mento glabro, valutando come rispondere a quella domanda.
Mai prima d’allora aveva incontrato qualcuno così sfacciato, che non si sforzasse neppure di sfidarlo ed eludere le sue argomentazioni, ma rispondesse in modo tanto diretto. Sfacciato, oppure semplicemente consapevole più di chiunque altro che Loki non poteva essere sconfitto.
Non al suo stesso gioco.
«Perché sei un umano estremamente singolare, Stark» lo canzonò con la sua stessa sfrontatezza, quando ritenne di averlo lasciato in sospeso abbastanza a lungo.
Sapeva che il midgardiano ricordava bene quanto lui il loro incontro sull’Elivelivolo. Sapeva che ne era rimasto colpito, lo aveva scorto in fondo ai suoi occhi, in fondo alla sua anima, la notte in cui gli aveva detto che sarebbe stato troppo facile. Sapeva che era forse l’unico ad aver realizzato appieno la vastità dei suoi poteri – e che non aveva raccontato a nessuno di quella notte, per una ragione che però persino per lui era inspiegabile.
Forse era per questo – perché non conosceva quel solo pezzo del puzzle – che lo trovava così interessante.
«Mi aspetto una spiegazione un po’ più dettagliata» berciò Stark in tono lamentoso.
Loki scoprì i denti bianchi in un ghigno ferino e gustò le parole con la lingua prima di scandirle con estrema chiarezza. «Allora abbi il coraggio di parlarmene faccia a faccia».
Si crogiolò nel silenzio che seguì la sua richiesta tanto schietta e rimase onestamente sbigottito quando, dopo un assordante sferragliare che gli giunse crepitando attraverso il microfono, il mortale annunciò: «Okay, arrivo tra due minuti».
Prima che il semidio potesse ribattere alcunché o anche solo aggrottare la fronte, il midgardiano interruppe la comunicazione e alla sua si sostituì la voce metallica di Jarvis, che comunicò in tono neutro: «Il signor Stark sta lasciando il laboratorio».
Loki si volse verso la porta, un riflesso puramente istintivo, conscio com’era che, prima di qualche minuto, nessuno avrebbe varcato quella soglia.
A poco a poco, lo sgomento lasciò il posto a un nuovo sorriso, di cui tracciò distrattamente il profilo con la lingua mentre riponeva il libro sulla catasta che ingombrava il tavolino e si alzava con grazia dal sofà.
Di solito non amava le sorprese, non amava non essere in grado di prevedere le mosse dell’avversario. Non era come gli sciocchi terrestri, che al contrario sembravano apprezzare tanto il brivido – così lo definivano – dell’ignoranza; lui aveva sempre ricercato la verità, la conoscenza, la sapienza suprema in ogni cosa.
Eppure doveva ammettere che, quando Stark riusciva a coglierlo alla sprovvista, avvertiva quello stesso brivido di cui i midgardiani tanto decantavano le lodi, e gli piaceva.
Quando Jarvis lo informò che il mortale aveva raggiunto l’ultimo piano, il semidio si dispose ad accoglierlo, la schiena adagiata pigramente contro un fianco del divano, le braccia conserte e quello stesso sorriso curioso che non accennava a sbiadire sotto gli occhi sfolgoranti d’impazienza.
Stark aveva indosso un’aderente canotta bianca, un paio di jeans vecchi e sformati, serrati in vita da una cintura nera, e degli occhiali da saldatura che ciondolavano intorno al collo. Gli indumenti erano macchiati d’olio e grasso in più punti e i muscoli delle braccia erano gonfi e sporgenti, entrambi segni che non aveva sottovalutato il suo compito, ma le mani erano pulite, dettaglio che Loki attribuì a dei guanti che doveva essersi sfilato.
«Sono venuto come richiesto, Vostra Altezza» si presentò, inscenando un mezzo inchino teatrale. «Se voleste essere così gentile da spiegarvi, ora, così che possa tornare subito al mio lavo-».
Il semidio sorrise del suo sconcerto, apparso di colpo di fronte a lui, i polsi incrociati dietro la schiena, il busto leggermente piegato in avanti, vicino ma non abbastanza per sfiorare davvero il suo torace muscoloso. «Non impari mai?» lo stuzzicò a bassa voce.
Lo sguardo del midgardiano scese sui loro petti così prossimi l’uno all’altro, poi scattò all’insù, ma Loki aveva ormai intercettato il movimento.
«Scusa se il teletrasporto non è così normale per me» grugnì con una nota di fastidio nel tono sarcastico. «Allora?» Fece un cauto passo indietro per mettere tra loro una certa distanza, ma non cercò di scappare dai suoi occhi penetranti. «Credevo avessi detto che mi avresti dato delle spiegazioni».
«Ma naturalmente» acconsentì il semidio, divertito dal disagio che vedeva serpeggiare dentro di lui ogniqualvolta gli si accostava troppo.
Era affascinante come Anthony Stark combatteva il desiderio. Correva, si nascondeva, oppure fingeva che non esistesse; sembrava una lepre, una lepre ingenua che, avvistata la lince, si convinceva di potersi salvare rifugiandosi nella propria tana – il primo posto dove il predatore sarebbe andato a cercarla.
Era una caccia che era destinato a perdere in partenza, perché un frammento di lui a cui si ostinava a non dare ascolto bramava la sconfitta, la cattura, eppure fuggiva, testardo.
A Loki piacevano le caccie. Gli piaceva vincere.
Allungò un braccio con studiata lentezza, ben consapevole dell’attenzione con cui Stark seguiva i suoi movimenti, e premette la punta dell’indice contro il reattore arc.
Il suo padrone si irrigidì di colpo, quasi che il semidio l’avesse ustionato, ma non si spostò. Qualcosa passò nei suoi occhi, qualcosa di terribile e oscuro che a Loki ricordò con terrificante chiarezza Jotunheim, qualcosa che scomparve nel giro di un battito di ciglia.
Il semidio avvertì il congegno pulsare ritmicamente sotto il suo polpastrello e quasi cedette all’istinto che gli suggeriva di strapparlo da dove si trovava e studiarlo finché non avesse avuto più segreti per lui, ma poi si riscosse e si rammentò di dover avere pazienza. Pazienza in cambio di conoscenza, impulsività in cambio di ignoranza e pericolo.
Un vero peccato che tu non abbia appreso questa legge così elementare, Stark.
Quel triangolo intrecciato di metallo ed energia blu in cui batteva il cuore del mortale era l’unico esempio di tecnologia midgardiana che non avesse mai visto nemmeno una volta nei suoi libri. Non ne conosceva neppure le funzioni più basilari, poteva solo intuire che si trattasse di qualcosa di fondamentale per la sopravvivenza di Stark; di conseguenza, lui non avrebbe mai acconsentito a parlargliene e Loki era divorato dalla curiosità come mai gli era capitato.
Voleva, voleva, voleva. Pazienza.
«Per la verità è molto semplice». Pronunciò con calma ogni parola, avido di cogliere ogni singola alterazione nell’espressione del terrestre. «Desidero solo scoprire fino a che punto posso spingermi, solo divertirmi un po’».
Sorrise del fremito che Stark non poté reprimere e si portò di mezzo passo più vicino, ma questa volta il mortale non si ritrasse. Rimase immobile, senza incoraggiarlo né fermarlo.
«E fino a che punto credi che ti permetterò di spingerti?»
Loki fece scorrere il dito dal reattore arc lungo un’immaginaria linea verticale che correva fin quasi all’orlo dei suoi pantaloni. Si premurò tuttavia di non andare mai oltre il semplice sfiorare il tessuto della canotta e solo a tratti la pelle al di sotto.
Il suo sguardo sagace, invece, non abbandonò quello di Stark nemmeno per un secondo. «Fino a dove sarò io a volerlo. Non riesco a immaginare che proprio tu, Stark, abbia una morale a riguardo».
«Signore, chiamata urgente dal direttore Fury, codice rosso».
Quell’affermazione parve frustare il midgardiano, che sgranò gli occhi e indietreggiò di colpo, non un rimasuglio della sfida di poc’anzi nell’espressione, solo ansia. Gli scoccò un’occhiata che poteva significare solo una cosa – scoperti – e il semidio comprese e rimase immobile, come pietrificato. «Passami la chiamata sul cellulare» ordinò Stark, lento e a voce bassa, dopo un lungo secondo di silenzio.
Prese il telefono dalla tasca e lo portò all’orecchio; Loki riconobbe nel ringhiare attutito che proveniva dall’apparecchio la voce di Nicholas Fury e si limitò a fissare il mortale, in attesa di una qualunque reazione che gli chiarisse di cosa stessero discutendo.
Osservando il suo profilo, il corpo contratto dal nervosismo, la fronte aggrottata, gli occhi concentrati su un punto lontano, per la prima volta Loki si domandò cosa avrebbe fatto Stark, se Fury avesse davvero saputo ogni cosa. Era plausibile che lo consegnasse nelle mani dei suoi stolti alleati e lasciasse a loro la responsabilità di combattere quella guerra, meditò con una smorfia. Si trattava di Stark, dopotutto, un umano dall’animo sperduto, patetico, infantile.
Chiuse con lentezza le mani a pugno, pronto a combattere per la propria libertà, se necessario, ma proprio allora la tensione nelle spalle del terrestre si sciolse e un angolo della sua bocca si sollevò appena mentre le sue labbra si allungavano con sollievo intorno a un nome. «Doom?»
I loro sguardi si incrociarono un secondo dopo che il semidio aveva rilassato i muscoli tesi, ma Stark doveva aver colto le sue intenzioni, anche se non ne diede alcun segno. Fiducia, ricordò Loki.
«Okay, ma cosa faccio con lo scettro? E se Loki arriva mentre…?»
Fury lo interruppe bruscamente e sillabò con tanta cura le parole che anche il semidio riuscì a distinguerle. «La gente rischia di morire perché ci sono dei fottuti Doombots a spasso per New York, quindi fai partire il tuo dannato allarme e metti il culo nell’armatura, ora».
«Come siamo scurrili, Monocolo» sbuffò il midgardiano, più a se stesso che a Fury, perché aveva già terminato la telefonata a metà de “nell’armatura”. «Rimani qui e fai il bravo, okay? Torno presto. E non fare niente di insensato. Mi è quasi venuto un infarto per quel fottuto codice rosso» borbottò, di nuovo senza fare parola dell’attacco che Loki era stato sul punto di sferrare quando aveva temuto che Fury avesse scoperto il loro sotterfugio.
Si rivolgeva a lui, ma non lo stava guardando: la sua attenzione era dedicata esclusivamente ai bracciali di metallo che indossava sempre, anche sotto le maniche della camicia, l’espressione concentrata e le labbra strette mentre ordinava a Jarvis di aprire la portafinestra da cui il semidio lo aveva scaraventato, una volta.
Si era salvato da quella caduta proprio grazie a quei bracciali – la parola fiducia echeggiò ancora una volta nella sua mente nel guardarli, nel pensare che fino a quel momento, a partire dal suo arrivo, non li aveva mai tolti.
Il pannello di vetro della finestra scivolò di lato e Stark mise piede sulla piattaforma lunga e sottile di cui faceva uso per indossare e spogliarsi dell’armatura; quella volta, però, le braccia meccaniche che avrebbero dovuto occuparsene erano spente e l’umano si limitò a pronunciare un comando a voce alta perché i bracciali si attivassero.
Nel giro di pochi secondi, sotto gli occhi attenti di Loki c’era Iron Man.
L’uomo sventagliò un braccio verso di lui, poi si lasciò cadere teatralmente all’indietro, nel vuoto, e sfrecciò via, i propulsori degli stivali alla piena potenza, eppure silenziosi – una delle migliorie che doveva aver apportato durante la sua prigionia, considerò tra sé il semidio, scrutandolo allontanarsi con un sopracciglio inarcato.
Loki non aveva risposto al suo saluto, ma Tony non si aspettava che lo facesse, al contrario, se fosse accaduto si sarebbe preoccupato che fosse stato sostituito da un suo sosia più socievole.
Si sforzò di scacciare il pensiero di quello che era quasi successo tra loro concentrandosi sulle coordinate che Jarvis gli aveva fornito, ma non poteva fare a meno di chiedersi se la chiamata di Fury fosse stata un colpo di fortuna.
L’intento del semidio era stato piuttosto evidente, mentre ancora adesso Tony dubitava delle proprie intenzioni.
Una delle prime regole del suo personale Manuale di Sopravvivenza – una delle poche su cui persino Steve si trovava d’accordo – recitava “mai fraternizzare con il nemico” e quello sarebbe stato molto più che un banale fraternizzare, tuttavia non riusciva del tutto a rimproverarsi per non aver respinto Loki – anche se tecnicamente non l’aveva neppure incoraggiato.
Forse che fossero stati interrotti era stato meglio per tutti: nessuno sarebbe stato deluso dalla sua reazione come al solito. Nessuno l’avrebbe definita ridicola o immatura. Nessuno avrebbe potuto rimpiangere, “mi aspettavo grandi cose da te, Iron Man”.
Si collegò al canale radio riservato agli Avengers e allo S.H.I.E.L.D. e Steve lo informò che lui, Natasha e Clint erano già sul posto, Bruce, invece, atterrato poco prima, stava arrivando.
«La situazione non è critica, per il momento» illustrò Steve, conciso e semplice, un soldato, uno su cui tutti potevano contare, non riuscì a fare a meno di commentare tra sé Tony. Quella riflessione meschina lo fece sentire ancora peggio, perché Steve non aveva alcuna colpa se non quella di essere perfetto e non era giusto – era patetico e immaturo – nutrire rancore nei suoi confronti. «Ci sono cinque Doombots, sembrano nuovi, hanno qualche laser in più… Niente di troppo preoccupante. Non ce ne sono altri in arrivo, per quello che ne sappiamo. Ma sta’ attento, Tony».
Tony strinse le labbra in una smorfia a quelle parole.
Ovviamente Steve si stava solo preoccupando per il bene della squadra e della Terra, dal momento che era a capo del gruppo e doveva rispondere delle loro vittorie come delle loro sconfitte, delle vite salvate come di quelle perdute, ma lui non fu in grado di reprimere un moto d’irritazione. “Sta’ attento, Tony”, “Sii prudente, Tony” – quante volte aveva sentito quelle raccomandazioni, fin da quando era bambino? Quante volte le persone avevano davvero avuto fiducia in lui?
E con che sfacciataggine aveva potuto, lui, parlare a cuor leggero con Loki di fiducia?
Le coordinate corrispondevano, prevedibilmente, a Central Park: quando agiva, Doom si premurava sempre di avere il pubblico più numeroso possibile – e il maggior numero di vittime possibile, il bastardo. Fortunatamente i suoi compagni, accorsi prima di lui, avevano già fatto sgombrare l’area e il parco si aprì davanti a lui deserto e immacolato. Niente sangue, niente corpi: gli altri avevano fatto in tempo.
Planando, Tony individuò Clint e Natasha che tenevano a bada due Doombots e Steve, poco lontano, che da solo ne affrontava altri due.
Puntò in quella direzione, mirò alla giuntura del collo di metallo di uno degli automi: non riuscì a decapitarlo, ma lo fece precipitare di diversi metri e destabilizzò i suoi sensori abbastanza a lungo perché Steve potesse terminare l’opera con un fendente del suo scudo.
Con il missile successivo Tony fece saltare la testa del secondo Doombot e corrugò la fronte nel vederlo crollare al suolo come una bambola rotta.
Troppo facile. Dov’erano finiti gli automi – quasi – indistruttibili e dannatamente testardi di Doom?
La voce di Steve echeggiò sorpresa negli altoparlanti. «È stato…»
«Banale?» l’interruppe Tony, prendendo quota per avere una prospettiva più ampia. «Lo so. In confronto ai soliti Doombots, questi qui erano dei fottuti giocattolin-» grugnì, ma le parole gli si strozzarono in gola quando i sensori di Jarvis individuarono qualcosa che si avvicinava al punto in cui si trovavano gli altri Avengers. «Oh, merda».
«Cosa vedi, Stark?» si informò Clint in tono spazientito.
Qualcosa di grosso, metallico e molto, molto pericoloso.
Da quello che Tony poteva vedere si trattava di un automa – non che Doom fosse originale – alto almeno il doppio di un Doombot comune. Se di solito Doom li costruiva perché gli assomigliassero, di modo da trarre in inganno i nemici, quella volta, al di là delle dimensioni assurde, il robot non aveva niente in comune con il suo creatore, non pareva neppure umano.
Il volto non aveva fattezze umanoidi, era in realtà una scatola tonda munita di due fori luminosi all’altezza degli occhi, e il corpo liscio, privo d’imperfezioni, luccicava argenteo alla luce del sole, privo del caratteristico mantello verde di Doom.
«Robot gigante in arrivo alla tua sinistra, Legolas» istruì con una smorfia, poi realizzò come mai le braccia, le mani e il petto dell’automa scintillassero più del resto. «Robot gigante e molto incazzato, quel bastardo ha un arsenale, state at-!»
Prima che potesse terminare la frase, una gragnola di laser lo costrinse a schizzare di lato.
«L’armatura può sostenere la temperatura di quei laser, signore, ma non il suo corpo. Se dovessero colpirla, morirebbe nel giro di pochi secondi» annunciò Jarvis.
Era stato Tony a progettare la sua voce perché suonasse così impersonale, ma quando gli comunicava informazioni tanto orribili circa la sua vita – come il fatto che rischiava di finire arso vivo nella sua stessa armatura, per esempio – non gli sarebbe dispiaciuto un tantino di partecipazione in più.
«Fantastico» sbuffò a denti stretti, allungando ambo le braccia davanti a sé, i palmi aperti, per sparare una scarica di laser in direzione del robot.
Un sorriso feroce gli piegò le labbra quando l’automa non riuscì a evitare il colpo, ma appassì quasi subito nel rendersi conto che l’impatto non aveva avuto alcun effetto sul nemico, che continuava la propria marcia inesorabile verso i suoi compagni.
Oh, merda.
«Questo affare non reagisce ai miei laser» sibilò nel microfono, scese di quota e si riunì agli altri, che si aprirono a ventaglio intorno a lui.
Ormai il robot era a non più di venti metri da loro; dal suo petto partì un missile che avrebbe distrutto mezzo Central Park se Tony non avesse avuto la presenza di spirito di contrastarlo con uno dei propri. I due razzi si scontrarono a mezz’aria, abbastanza in alto da non creare danni, in un’esplosione la cui onda d’urto investì sia loro che l’avversario e sollevò un velo di polvere che soltanto Tony riusciva a penetrare, grazie ai dispositivi di controllo visivo dell’armatura.
«Ne ha un altro?» volle sapere Steve con urgenza. «Ha un altro missile?»
Se non altro, l’onda d’urto pareva aver messo in difficoltà l’automa, che si stava rimettendo in piedi. Si muoveva a scatti – dieci punti per l’autostima di Tony, che invece aveva creato l’armatura di Iron Man agile come e più di un uomo – ma con determinazione; fortunatamente, sembrava gli fossero rimasti solo laser e missili più piccoli, di portata molto meno distruttiva, utili per uccidere, non per distruggere.
«No» sospirò, sollevato. «A ore dodici, comunque. Legolas, se tu potessi…»
Non aveva ancora finito di parlare che una freccia tagliò l’aria e il muro di polvere e si conficcò con estrema precisione nella giuntura del braccio destro del robot. Tony sogghignò, contò fra sé.
Uno, due, e il dardo esplose con fragore.
Tony si aspettava che il braccio andasse distrutto, che finisse scaraventato dall’altra parte del parco, che succedesse qualcosa, non che l’automa incassasse il colpo senza difficoltà e l’unico segno dell’esplosione fosse una striatura nera sulla sua corazza argentea.
«Di che cazzo è fatto quell’affare?»
Ignorando il ringhio frustrato di Clint, il cui digrignare i denti produceva uno sgradevole ronzare negli altoparlanti, Natasha intervenne in tono pratico e conciso: «Mi serve un passaggio, Stark».
Tony arricciò le labbra in un ghigno ferino la cui eco era evidente nel suo tono. «Con estremo piacere».
Si librò a qualche metro da terra e si avvicinò con cautela al robot, attento a non fermarsi mai troppo a lungo nella stessa posizione onde evitare di essere preso di mira; Natasha si staccò dal gruppo e, imbracciata una pistola con ciascuna mano, prese la rincorsa nella sua direzione. Una volta sotto di lui, spiccò un salto elegante e atterrò con un piede sulle mani a coppa di Tony, che le diede la spinta sufficiente a finire a cavalcioni delle spalle dell’automa.
Da quella posizione puntò la canna delle armi ai lati del capo dell’avversario e lo tempestò di proiettili contro il cranio e le giunture del collo, alla ricerca di un qualsiasi punto debole in quella che somigliava pericolosamente a un’armatura indistruttibile.
Clint e Steve si unirono a lei da terra, lo scudo che roteava con terribile precisione, le frecce che sibilavano nel tagliare l’atmosfera. Tony lo impegnava dall’alto secondo le direttive di Jarvis, che faceva ipotesi sulle sue possibili debolezze.
Il robot però non dava alcun segnale di cedimento; nulla pareva in grado di scalfirlo, se non in maniera superficiale, troppo superficiale, e i suoi colpi erano precisi e letali, inarrestabili.
Loro, invece, prima o dopo si sarebbero inevitabilmente stancati.
«Possibile che tu non ne venga ancora a capo, Jarvis?» ringhiò, spazientito, dopo che poco mancò che una scarica di laser lo colpisse dritto in faccia. «Sarà un’ora che combattiamo contro questo figlio di puttana e ancora non sai dirmi di che cazzo sia fatto?»
«Mi dispiace, signore» replicò l’AI con quanto di più vicino alla mortificazione fossero capaci i suoi circuiti vocali. «Non ho mai visto niente del genere. In sé si tratta di strati di acciaio e titanio sovrapposti, ma sembra rinforzato da qualcosa la cui composizione è molto simile a quella del potere magico di Loki».
Un automa potenziato dalla magia. Oh, fantastico, sbuffò tra sé Tony, convogliando una buona quantità di energia in un colpo che stava preparando a sferrare con la mano sinistra. Ma dove l’avrà presa Doom? Il suo potere non può essere uguale a quello di Loki, altrimenti l’avrebbe già usato in passato per altri robot… Che sia stato aiutato da qualcuno?
La sola idea era inquietante: Doom era un avversario scaltro e potente e più di una volta li aveva messi in difficoltà; Doom in collaborazione con qualcun altro avrebbe potuto distruggere mezza New York – e mietere un numero di vittime troppo impressionante per essere anche soltanto ipotizzato.
«Signori, avete sentito Jarvis?» chiese mentre prendeva la mira, ma non aspettò né diede ascolto alle risposte, concentrato com’era sul proprio obiettivo. Se fosse riuscito a fargli a pezzi le gambe, l’automa avrebbe perso la capacità di deambulazione. «Voglio l’ottanta percento della potenza di fuoco» sussurrò a fior di labbra, bene attento a puntare il palmo aperto verso il ginocchio del nemico. «Mi sono stancato di giocare, bastardo».
Proprio nel momento in cui era sul punto di sparare, l’automa si mosse con un’agilità straordinaria e lo colse in pieno petto con due scariche laser che lo scaraventarono a una buona decina di metri di distanza, se non di più.
Gli schermi olografici ebbero un guizzo, poi si spensero e Tony perse il controllo dell’armatura, che precipitò al suolo e si schiantò con un tonfo assordante. Intervallando un ordine a un’imprecazione, cercò di riattivare l’AI con i comandi vocali di emergenza, incapace di spostarsi a causa della pesantezza della corazza.
Per lunghi, infiniti istanti d’orrore Jarvis non reagì, ma alla fine gli schermi si riaccesero e la voce familiare dall’accento londinese riempì l’elmo: «Scudo al venticinque percento. Energia al quindici percento. Potenza di fuoco al trenta percento».
Il colpo lo aveva indebolito molto, dal momento che aveva centrato proprio il reattore arc, la sorgente non solo della sua vita, ma anche della forza dell’armatura. Essa non sarebbe stata in grado di reggere il combattimento ancora a lungo, realizzò mentre si alzava in piedi a fatica e si informava sul funzionamento di ciascuna applicazione. I propulsori erano a posto e così anche gran parte delle armi, ma il laser aveva bruciato i circuiti del mirino e dei lanciamissili.
«Tony?» Steve lo apostrofò con fare angosciato. «Stai bene?»
«Più o meno» mugugnò e si morse un labbro per evitare di prendere il super soldato a male parole. Quel coso di latta gli stava facendo ampiamente girare i coglioni. «Non so quanto potrò essere d’aiuto, ho la mira compromessa e i lanciamissili fuori uso».
E, se il reattore arc non fosse diverso da ogni altra tecnologia al mondo, il laser l’avrebbe fuso e io sarei finito arso vivo. Carino, eh?
Ma non lo disse, non voleva innervosirli più di quanto già non fossero.
«Dove cazzo è finito Banner?» ruggì Clint dopo aver evitato una gragnola di proiettili diretta alla sua testa. Scoccò l’ennesima freccia, ma il robot la deviò con il palmo della mano metallica e il dardo esplose a metà strada tra Hawkeye e Natasha, che trovarono riparo appena in tempo grazie alla prontezza di riflessi maturata come agenti segreti.
Allora l’automa rivolse la propria attenzione a Steve che, rimasto solo, schivò per un soffio un pugno e indietreggiò di scatto, ma l’avversario poteva fare affidamento su almeno trenta secondi prima di doversi preoccupare di nuovo di Clint e Black Widow e ne approfittò per seguirlo e concentrare su di lui la propria piena potenza di fuoco.
Il super soldato non poteva che evitare i colpi e sforzarsi di scalfirlo con lo scudo, anche se si era già rivelata una linea d’azione inutile.
Tony infuse tutta l’energia rimasta ai propulsori e schizzò tra Steve e il robot a una velocità maggiore di quanto lui stesso si aspettasse un secondo prima che quest’ultimo sparasse una scarica laser che il super soldato non sarebbe riuscito a schivare. Una scarica che, però, non avrebbe colpito il reattore, ma il ventre della corazza.
Sarebbe bruciato vivo, Tony lo sapeva. Morto nel tentativo di salvare Steve Rogers, amato da tutto il mondo. Perlomeno sarebbe stato ricordato per qualcosa di buono come aver difeso l’eroe nazionale a prezzo della propria vita, e non perché beveva troppo ed era il peggior supereroe su cui New York avesse mai potuto – dovuto – contare.
Chiuse gli occhi e si preparò all’impatto fatale.
Quando però giunse, era molto diverso da come l’aveva immaginato: niente dolore, niente scariche elettriche, solo una spinta che gli mozzò il fiato e lo scagliò all’indietro, oltre Steve, contro quello che doveva essere un petto, ma era robusto come un muro di mattoni.
A una manciata di centimetri sopra di lui udì un latrato animalesco che riconobbe come quello di Hulk e si ritrovò inerte tra le sue possenti braccia verdi, spossato dallo sforzo cui il reattore arc era sottoposto nel tentativo di sostenere l’armatura. Hulk lo depose a terra con delicatezza – per quanto Hulk potesse essere delicato – e raggiunse l’automa con un solo balzo.
Pochi istanti più tardi Tony registrò un tonfo sordo di metallo che cozza contro il suolo e indovinò che l’avversario era stato abbattuto.
Bruce era davvero incazzato questa volta…
Girato su un fianco, fece perno sul terreno con il gomito per sollevarsi e osservare la scena.
Con sua grande sorpresa, Hulk non stava facendo a pezzi il robot. Nessuno degli Avengers, per la verità, si stava muovendo: fianco a fianco, disegnavano un semicerchio intorno all’avversario, chi con le armi imbracciate, chi in posizione di combattimento, ma nessuno osava attaccare.
Spostando l’attenzione oltre le loro figure rigide, Tony capì perché e sgranò gli occhi in un misto di stupore e sgomento.
Oltre il circolo dei suoi compagni, l’automa era a terra, immobile, squarciato in due da un taglio obliquo che si apriva dalla spalla destra al fianco sinistro e ne mostrava l’interno gremito di fili spezzati e grondante d’olio per motori. In piedi sopra la carcassa, Loki si ergeva maestoso nell’armatura in filigrana verde e oro, l’elmo che rifletteva il lucore adamantino dei raggi solari.
Quando Tony lo vide, il semidio esaminava il nemico abbattuto a testa bassa, il volto nascosto dall’elmo, la posizione rigida, cauta, di un guerriero che esiti ad abbassare la guardia. Non sembrava affatto preoccupato dalla presenza degli Avengers; stabilito che il robot non era più fonte di pericolo, alzò il capo, ma non li degnò di un solo sguardo: i suoi occhi vagarono oltre loro, quasi che non esistessero, e si affissero in quelli di Tony.
Trascorsero alcuni momenti di totale immobilità di spazio e tempo in cui si guardarono, poi, di colpo, il mondo riprese vita e Loki si ritrovò le armi degli Avengers puntate addosso, Hulk che lo immobilizzava e Steve che esclamava qualcosa in tono autoritario. Gli altoparlanti però dovevano essere andati distrutti, perché Tony non riuscì a distinguere le parole. In un moto di stizza si sfilò il casco inservibile e, trovato a tastoni il pulsante che avrebbe attivato il ripiegamento automatico dell’armatura, lo premette, nella speranza che funzionasse ancora.
Fu con un affaticato sospiro di sollievo che accolse la rapida efficienza con cui la corazza si smontò pezzo per pezzo e ritirò su se stessa nella forma di una semplice valigia in metallo grigio.
Liberato dal fardello dell’armatura mal funzionante, si passò una mano sul reattore arc e inspirò profondamente, incurante della polvere che ancora contaminava l’atmosfera a causa delle numerose esplosioni.
A stento rimaneva cosciente – il reattore aveva subito molti danni, avrebbe dovuto ripararlo appena fosse tornato alla Stark Tower – ma stava bene, quando invece avrebbe dovuto essere morto.
Per straordinario che fosse, Loki gli aveva salvato la vita.
Incapace di sostenersi ancora in quella posizione, si lasciò rotolare supino, ansante, e portò entrambe le mani a stringere il congegno che portava incastonato nel petto, come se temesse che qualcosa potesse strapparglielo via.
L’oscurità si addensava nel suo campo visivo, ma riuscì ugualmente a riconoscere l’ombra che torreggiò su di lui e la voce che gli parlò, resa roca dalla stanchezza e dall’angoscia.
«Tony? Come ti senti?»
Tony stirò le labbra in un sorriso sforzato e quasi non fu in grado di udire se stesso rispondere prima di perdere i sensi e crollare inerte sulla nuda terra. «Niente panico, Cap. Pare che mi abbiano steso».
 
 
Nel riaversi, Tony non aprì subito gli occhi: prima verificò lo stato delle proprie funzioni vitali principali – respiro e battito cardiaco – quindi valutò la condizione del reattore arc e solo allora, solo dopo aver diagnosticato di stare piuttosto bene, per uno che era stato fulminato da un laser, socchiuse le palpebre e si guardò intorno.
Prevedibilmente, non era stato riportato alla torre; si trovava invece in una camera asettica, grande a malapena a sufficienza per contenere un letto e un comodino. Somigliava a una stanza d’ospedale, non fosse stato per l’assenza di finestre e per la telecamera che fronteggiava il letto.
S.H.I.E.L.D., intuì Tony, nient’affatto sorpreso.
In realtà era stupito che non l’avessero buttato in qualche cella prima di farlo interrogare: dopotutto, Loki era apparso all’improvviso, aveva sconfitto il robot di Doom e gli aveva salvato la vita. Non dubitava che Fury avrebbe avuto più di qualche domanda da porgli.
Giaceva supino sul materasso e non osava muoversi dalla posizione in cui si trovava, terribilmente consapevole del dolore che gli provocava anche il più piccolo spostamento. Se non altro, la sua iniziale analisi del reattore arc si stava rivelando sbagliata e forse non avrebbe avuto bisogno di ripararlo, dal momento che era stato sufficiente un po’ di riposo a rimetterlo in sesto.
Quel pensiero lo condusse a una domanda: per quanto tempo era rimasto incosciente? Dubbio che ne trascinò con sé infiniti altri, per i quali non aveva alcuna risposta.
Doom aveva sferrato un altro attacco, oppure erano riusciti a sconfiggerlo? Gli altri stavano bene? Avevano scoperto qualcosa di più sul connubio di metallo e magia che animava l’automa? Un quesito in particolare lo tormentava più degli altri, come una pioggia d’aghi sottopelle: che cosa ne avevano fatto di Loki?
Non riusciva a fare a meno di chiederselo, dal momento che era in debito con lui.
L’ultima cosa che si sarebbe aspettato, una settimana prima, sarebbe stata finire con l’essere in debito con lo stesso semidio che l’aveva scaraventato fuori da una finestra. Naturalmente non dubitava che Loki l’avesse fatto solo perché Tony stava costruendo l’arma che l’avrebbe salvato dai chitauri, tuttavia l’aveva fatto, anche a costo di rivelare la propria presenza agli Avengers e allo S.H.I.E.L.D.
Di colpo la porta della stanza si aprì, strappandolo alle sue riflessioni. Pepper lo fissò dalla soglia con quel suo sguardo che significava “Non prendermi in giro, Tony, perché io so” che sostenne con una certa inquietudine sospettosa, poi richiuse il battente e si sedette sul bordo del letto.
La sua espressione si addolcì nell’accarezzargli i capelli, lasciò spazio all’angoscia che la stava consumando da quando aveva saputo cosa fosse accaduto.
«Ehi, Pep» mugolò Tony, più debolmente di quanto avrebbe voluto. La sua voce suonò estranea alle sue stesse orecchie, roca e affaticata. La lingua raschiò contro il palato nel tentativo di spingere fuori le parole e la gola rispose con una fitta dolorosa a quello sforzo, per quanto insignificante.
«Non parlare» ribatté la donna con il sorriso rassicurante più falso che Tony le avesse mai visto. «Dio, Tony, un giorno di questi mi manderai in manicomio» sussurrò, la preoccupazione e la paura che si insinuavano nel suo tono pacato, un angolo della bocca che si tendeva a sottolineare che non avrebbe voluto manifestargli quei sentimenti. «So che sei Iron Man e tutto il resto, ma… non potresti cercare di non farti uccidere, qualche volta? Non sempre. Solo qualche volta».
Tony tacque, come lei stessa gli aveva suggerito di fare, si limitò a piegare la testa di lato per premere la guancia contro la mano che lo sfiorava.
Pepper era quella che pagava il prezzo più alto per la sua decisione di unirsi agli Avengers, sebbene lei non lo desse mai a vedere e al contrario lo incoraggiasse e lo affiancasse in qualsiasi circostanza, senza mai fare un passo indietro, senza mai tremare. Era Pepper la vera eroina, non lui.
«Guarda, ti ho portato questo». La donna infilò una mano in tasca e ne trasse fuori una busta; nel seguire il movimento con lo sguardo, Tony si rese conto che, per un istante, con l’indice aveva indicato qualcosa alle proprie spalle – qualcosa che si rivelò essere la telecamera, puntata contro la schiena dell’amministratore delegato. «Pensavo di lasciarlo sul comodino, ma dal momento che sei sveglio…»
Quando dalla busta Pepper trasse un biglietto e glielo porse, Tony comprese che cosa avesse voluto comunicargli. Non farglielo leggere.
Bene attento a dispiegare il foglio di carta senza che il lato scritto finisse alla portata dell’occhio della telecamera, ne lesse con attenzione il contenuto e distese i lineamenti in un’espressione rilassata e compiaciuta che si addicesse a chi stesse leggendo un augurio di pronta guarigione.
Il tuo segretario misteriosamente scomparso è chi credo che sia, vero? Lo tengono rinchiuso, hanno intenzione di interrogarvi entrambi. Mi devi parecchie spiegazioni.
L’ultima frase era sottolineata due volte.
Era in momenti come quelli che Tony ricordava il motivo per cui aveva assunto Pepper come sua assistente e l’aveva poi messa a capo delle Stark Industries. Un tempo sarebbe stato lo stesso motivo per cui si era innamorato di lei, o credeva di esserne innamorato, pensò con una fitta di senso di colpa.
«Grazie, Pep». Alzò lo sguardo e incrociò quello verde chiaro della donna – per un istante si ritrovò a confrontarlo con quello di Loki, le cui iridi possedevano una sfumatura di verde molto più scura e intensa – poi annuì una sola volta, come a darle ragione circa l’identità di Damian Millark e a ringraziarla insieme. «Sei un tesoro, te l’ho già detto che ti sposerei, vero?» scherzò, incurante della propria voce da oltretomba.
«Tre volte, per la precisione. Quando eri molto ubriaco. Ora riposati, tra poco il direttore Fury verrà a farti qualche domanda. Non fare niente di stupido, okay?»
Così lei sarebbe la calma illusoria prima della tempesta, che dovrebbe tranquillizzarmi e farmi abbassare la guardia? Tony incurvò un angolo della bocca in un sogghigno divertito. Peccato che Pepper sia sveglia, e che non le piaccia essere usata.
L’amministratore delegato sorrise di rimando e si chinò per baciarlo sulla guancia – non sulle labbra; fu colpito da un’altra stilettata di nostalgia ma, notò Tony, non d’amore: senso di colpa e nostalgia, ma non amore – prima di rialzarsi e tornare alla porta. Giunta sull’uscio, gli indirizzò un ultimo cenno della mano e lo lasciò solo.
Tony si rigirò il biglietto tra le dita, l’attenzione che si alternava tra le parole impresse sulla carta e la telecamera che lo monitorava.
Distruggere il foglio sarebbe stato troppo sospetto: se si fosse trattato di un semplice messaggio affettuoso, sarebbe stato molto più plausibile poggiarlo sul comodino, anche se molto rischioso. Nessuno però avrebbe pensato di dargli un’occhiata per verificare che fosse davvero innocuo, dopotutto lui era pur sempre Iron Man, l’eroe della nazione, non c’era ragione per cui lo S.H.I.E.L.D. dovesse dubitare di lui, non più del solito – perché Fury dubitava sempre, avrebbe dubitato anche della sua stessa madre.
Messo in allerta dagli avvertimenti di Pepper, Tony trascorse le due ore successive a contemplare il soffitto, in attesa che succedesse qualcosa.
L’unica sua visitatrice fu un’infermiera che si informò se avesse bisogno di qualcosa. L’immobilità e il silenzio cui era costretto minacciavano di mandarlo fuori di testa – abbastanza per abbandonare la camera e andare in cerca di Fury per i fatti propri – quando finalmente la porta si riaprì e il direttore fece il suo ingresso a grandi falcate.
«Monocolo» lo salutò brevemente Tony. Aveva ancora qualche difficoltà ad articolare le parole, ma se non altro con il trascorrere del tempo il dolore dovuto al conversare era diminuito fino a dissolversi. «È un piacere vedere che ti preoccupi per me. Mai pensato di fare la crocerossina?»
«Come ti senti, Stark?» ribatté Fury, fermandosi presso il suo letto, le mani severamente incrociate dietro la schiena, l’occhio serio che lo scrutava dall’alto in basso.
Nessun senso dell’umorismo.
«Sai, in un certo qual modo è rassicurante. Svegliarsi dopo essere quasi finito ammazzato e scoprire che il mondo non ha smesso di girare e che tu continui a essere deliziosamente noioso». Era un piacere riuscire di nuovo a elargire all’universo il munifico dono del suo spirito. «Mi fai sentire a casa, davvero. Dovrei-».
«Non m’interessa» tagliò corto acidamente Fury, asciutto e austero. Era scattato con tanta gravità nello sguardo che per una volta Tony non ribatté. «Quello che m’interessa – e che mi aspetto che tu mi dica – è perché Loki ti ha salvato la vita e ci ha aiutato a sventare un attacco di Doom. Pare che il tuo amico in verde non abbia alcuna intenzione di essere collaborativo, e sai qual è l’unica cosa che abbia detto da quando l’abbiamo portato qui?» Tony non voleva saperlo, dal momento che sospettava che sarebbe stata poco positiva per lui, ma il direttore doveva provare un certo morboso divertimento nel torturarlo, perché gliela disse in ogni caso: «Ha detto che non risponderà a nessuna delle nostre domande, a meno che non sia tu a porgliele, da solo, senza telecamere che registrino l’interrogatorio».
Fury gli rifilò un’occhiata penetrante, ma Tony fece in modo che la propria espressione fosse innocua e indecifrabile. Soppesò con cura la possibile risposta da dare senza esporsi a troppi rischi e alla fine decise di controbattere con una domanda: «Quanto tempo sono rimasto incosciente?»
La piega che prese la bocca del direttore lasciava a intendere senza adito a dubbi che non era soddisfatto, ma era una piega piuttosto frequente, quando c’era di mezzo Tony. «Trentasei ore. Non avevi subito alcun danno visibile, ma la luce del reattore era debole e non riuscivi a respirare correttamente». Corrugò la fronte, come sempre gli accadeva quando doveva comunicare qualcosa che non aveva compreso del tutto. «Banner ha sostituito alcuni circuiti e ti sei ripreso. Quando credi di poter tornare a essere operativo?»
Così è stato Bruce.
Tony percepì un sorriso prendere forma sulle sue labbra.
Aveva deciso di rivelare a Bruce la funzione del reattore e i fondamenti su come aggiustarlo in caso di emergenza qualche mese prima, prevedendo che sarebbe stato difficile per lui sopravvivere se il congegno fosse stato compromesso e nessun altro avesse avuto idea di come rimetterlo in sesto.
Banner era l’unico tra i suoi compagni di cui si fidasse a tal punto – e che avesse le competenze necessarie per farsi carico di un compito del genere – e ora appariva chiaro che avesse fatto la scelta giusta. Come sempre, del resto, non esitò ad aggiungere tra sé.
«Ringrazia Doc da parte mia» lo ammonì, quindi rifletté sulla sua domanda e approssimò un calcolo con una scrollata di spalle. «Se Banner mi ha riparato come si deve, entro domani dovrei essere okay». Un secondo più tardi realizzò appieno che cosa la richiesta di Fury significasse di preciso e gli rifilò uno sguardo sorpreso, le sopracciglia sollevate, la mascella irrigidita dal sospetto. «Vuoi che io parli con Loki?»
Il direttore annuì, un veloce cenno essenziale. «Chiaramente è l’unico modo per convincerlo a scucirsi la bocca. Prima, però, voglio che tu mi dica cosa c’entri tu con Loki. Perché ha chiesto di vedere te?»
Tony sapeva di quale natura sarebbero stati i dubbi di Fury, ma non era riuscito a elaborare una spiegazione convincente per quel punto particolare – che segretamente sperava il direttore non avrebbe messo in luce troppo presto. Dopo un istante d’indugio, decise di essere onesto e scosse il capo. «Giuro che non ne ho idea. Perché io?» Emise un sospiro d’esasperazione. «Ne so quanto te».
Sì, uhm… me l’hanno detto in tanti. Non proprio in questi termini, ma il concetto era lo stesso”.
Non erano le più brillanti ultime parole che avrebbe potuto inventarsi, ma quel giorno, mentre Loki torreggiava su di lui e gli sorrideva, la consapevolezza di stare per finire brutalmente ammazzato gli aveva annodato la lingua e gli intestini.
Il semidio avrebbe potuto fare di lui ciò che voleva, ne era perfettamente conscio, così come era conscio del magazzino dimenticato da Dio in cui si trovava la sua armatura. Troppo lontano.
Eppure, anziché illustrargli – o mettere direttamente in pratica – il modo in cui aveva deciso di ucciderlo, Loki aveva esalato una risatina che gli aveva fatto accapponare la pelle e si era chinato su di lui, spogliandolo di uno strato di pelle dopo l’altro con quel suo magnetico sguardo di smeraldo. “Cerca di rimanere vivo, Stark. Magari potrei anche decidere di risparmiarti la vita e tenerti come giullare, una volta che avrò conquistato il vostro insulso pianeta”.
Poi si era materializzato al di là del vetro della sua cella e un agente era sopraggiunto per avvisare Tony che Fury chiedeva di lui.
Perché il semidio gli avesse risparmiato la vita, quella volta, Tony non avrebbe saputo dirlo persino ora, a distanza di un anno. Perché gli avesse salvato la vita, il giorno prima, era completamente fuori dalla sua portata.
Il direttore lo studiò per un lungo momento, presumibilmente intento a interrogarsi se dargli fiducia o meno, poi concesse: «Ti voglio credere, Stark, anche perché non vedo per quale motivo dovresti essere in combutta con un alieno che ha più volte tentato di ucciderti. Mi aspetto che tu segua con precisione le mie istruzioni, però, quando andrai a parlare con lui. Altrimenti ti considererò compromesso, e sarai fuori dall’operazione. Sono stato chiaro?»
Tony sostenne la solenne gravità nell’occhio di Fury; sotto le lenzuola, la sua mano scivolò furtiva fino a coprire il reattore arc. «Cristallino».
Il direttore lo inchiodò con quella sua occhiata penetrante tanto a lungo che Tony avrebbe potuto provare disagio, se non avesse fatto l’abitudine allo sguardo di Loki, poi annuì e annunciò in tono di commiato: «Ti lascio riposare, allora. Domani mattina un’infermiera verrà a controllare le tue condizioni. Ti manderò a chiamare quando avrò deciso di accogliere la richiesta di Loki. Fino ad allora, vedi di riprenderti in fretta».
Era ormai sulla soglia della stanza e Tony si accingeva a scivolare di nuovo nel torpore rilassato da cui si era lasciato travolgere nelle due ore precedenti a quell’incontro, quando Fury parve ricordarsi di qualcosa e si volse a guardarlo con un’espressione molto simile al divertimento – non fosse stato che nel DNA del direttore non esisteva nulla di simile al senso dell’umorismo; in realtà sarebbe stato più preciso definire quel qualcosa come sadismo maniacale.
«A proposito, dodici ore fa Thor è arrivato attraverso un portale dimensionale. Per ora l’ho convinto ad aspettare, ma prima o dopo anche lui vorrà chiederti perché il fratello che lo vuole morto ha deciso di salvarti la vita».
Tony sgranò gli occhi e annaspò come un pesce fuor d’acqua in cerca di una replica pungente che non trovò mai.
Nella sua mente una sola parola lampeggiava a caratteri cubitali.
Merda.
  
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