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Autore: Yvaine0    03/09/2012    10 recensioni
Ero in treno da un'ora verso il nulla più totale.
Perchè? Probabilmente tutto era iniziato quando mio fratello aveva iniziato a parlare. Fin da subito aveva capito la sua vocazione: sparare stronz-...sciocchezze. E così, litigio dopo litigio, nostra madre era impazzita e aveva deciso di spedirci tutti e due a vivere da qualche parte lontani da loro.

Pan Fletcher, diciottenne, ragazza di città, si ritrova catapultata in un mondo a lei estraneo, caratterizzato da laboriosità, aria pura, e sentimenti sinceri. Armata di mp3, di un bizzarro interesse per le mucche e di un rassicurante manuale di sopravvivenza create da lei stessa, affronta questa avventura che la vita le regala senza ben sapere cosa pensare di tutto ciò che le sta per accadere.
"Che diavolo ci fai qui?"
"Che diavolo ci fai TU qui! Questa è casa di mio nonno!"
"Io qui ci vivo!"
Fissai il ragazzo in cagnesco per qualche istante. "Bè, anche io!"
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cows and jeans'
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Cows and jeans
36

 
Matthew McDonnel era il mio nuovo insegnante di spagnolo. La mia cara amica Sorte non si era dimenticata di me, evidentemente. Anzi, continuava a giocarmi i suoi scherzetti – forse era davvero amica di quel burlone di Terrence. Come avrei potuto dimenticare la mia cotta per Dean, con suo fratello a insegnare la mia materia preferita? Al solo veder quel ragazzo era evidente quanto si somigliassero. Forse, oggettivamente parlando, Matthew era addirittura più bello. Era un peccato che la mia oggettività fosse andata a farsi friggere nel momento stesso in cui mi ero accorta di essermi presa una cotta per il fratello di mezzo. Diavolo!
“Ma guarda chi c’è!” salutò Matthew rivolgendo un sorriso allegro a Kameron. “Il migliore amico di mio fratello. Come mai ancora qui? Non dirmi che ti hanno bocciato!”
Kameron ridacchiò, dondolando sui talloni, in imbarazzo. “Proprio così. Troppi pomeriggi passati a far nulla”.
“Ma Kameron!” lo rimproverò lui, in tono palesemente divertito. “Non puoi permettertelo di nuovo. Quest’anno devi farcela. È l’ultimo anno, devi darti fare e tirarti fuori da questo scandaloso luogo chiamato liceo”.
Aggrottai le sopracciglia, osservandolo di sottecchi. Uh, ma come siamo poetici.
Kameron rise forte. “No, non ci saranno problemi quest’anno. Tanto c’è Pan!”
Cosa? “E io che c’entro?” domandai, realmente sorpresa. Di certo non mi aspettavo di essere tirata in ballo in una conversazione tra gente che si conosceva da sempre e parlava di Dean. Io non dovevo – non potevo – parlare di Dean, no? Meno pensavo a lui, meglio era.
Kam mi diede una pacca incoraggiante sulla spalla. “Mi aiuterai a studiare, no?”
Misi su un’espressione scettica. “Io?”
“E chi altri, altrimenti?”
“Be’, che ne so” presi tempo, guardandomi intorno alla ricerca di una risposta corretta. “Mark, magari” proposi, palesemente divertita. “ha l’aria simpatica e disponibile”.
“Ma smettila con questo Mark!”Kameron mi diede una gomitata, a cui risposi con un’occhiata divertita.
Matthew rise. “Ma guardatevi. Mi sembra di vedere te e mio fratello” commentò allegramente, rivolgendosi a Kameron. “Prima che diventasse insopportabile, intendo. Questo non dite che l’ho detto, però” aggiunse a mezza voce. “Tu sei la nipote di Abe Fletcher, vero? Vi ho sentiti cantare ieri pomeriggio”.
“Oh” arrossii, presa in contropiede. Non mi era nemmeno passato per la testa che dal piano di sotto potessero sentirci, quando il giorno precedente io e Joshua avevamo improvvisato un concerto proprio per lasciare un po’ di privacy ai fratelli McDonnel. Mi schiarii la gola, imbarazzata. “Mi dispiace. Non volevamo disturbare. Anzi, l’intento era proprio l’opposto”. Ottimo modo per presentarsi al nuovo professore, davvero. Avrei dovuto complimentarmi con me stessa, ma ero troppo impegnata a sperare che il pavimento mi inghiottisse.
Avevo studiato canto per anni, era vero. Felicity mi aveva iscritta ad un corso solo ed esclusivamente perché facessi qualcosa di produttivo e socialmente utile. Un po’ come nell’Ottocento, quando insegnavano alle ragazze a suonare il pianoforte per poter intrattenere gli ospiti e ammaliare qualche promettente giovane, no? Nonostante ciò, però, mi ero affezionata a quell’attività. Forse obbligarmi a frequentare quel corso era stata una delle cose migliori che mia madre avesse mai fatto per me. Mi aggrappavo alla musica per entrare in un mondo parallelo e cantando sfogavo tutti i miei sentimenti. Ero gelosa di questa attività. Era mia, non mi piaceva che orecchie indiscrete la profanassero rubando le note delle mie corde vocali. Forse era un po’ egoistico da parte mia ma, a parte che si viveva anche meglio senza sentirmi, non potevo far nulla per evitarlo. Mi sentivo a disagio a cantare di fronte ad altre persone. Avevo odiato dal profondo mia madre quando mi aveva costretta a farlo a casa degli Hortus, avevo adorato mio fratello quando mi aveva aiutata a superare il momento di blocco. Ma era stata comunque un’esperienza un po’ trumatica. Ero il tipo di persona che studia come una dannata per tutto il corso, poi si rifiuta di partecipare al saggio.
Matthew rise. “Non preoccuparti, Pan. Pan, giusto? Mio fratello si è lamentato un po’ per il vostro baccano, ma poi si è ricordato di dover sfogare la sua ira repressa su di me e...”
“Repressa?!” mi lasciai sfuggire in tono incredulo.
Questo zittì Matthew, provocandogli poi un’attacco di spontanee risate. “Vedo che lo conosci bene! E io che cercavo di difenderlo”.
Abbozzai un sorriso. “Si difende abbastanza bene da solo” commentai, lanciando un’occhiata a Kameron, che aveva l’aria leggermente mortificata. “Non è così male” lo giustificò. “È solo un ragazzo un po’ difficile”.
“Sì, certo”. Io ero una ragazza difficile. Dean era un cubo di rubik!
Matthew rise di nuovo. “Bella voce e umorismo pungente” osservò, una volta smesso di ridere. Poi lanciò un’occhiata all’aula ormai piena e sorrise, indossando la veste da insegnante: “Ora andate a posto, su. Non è molto divertente, ma dobbiamo pur sempre far lezione. Oggi si farannno tante chiacchiere” annunciò alla classe. “In spagnolo, ovviamente” aggiunse, divertito, causando qualche leggero brontolio scontento.
La lezione non fu per niente male. Parlava in uno spagnolo fluente e corretto – ovviamente, insomma – e correggeva le scorrettezze altrui in modo paziente e gentile. Faceva battute, spingeva la conversazione verso gli argomenti più disparati e, quando giunse a me, mi chiese di raccontare qualcosa del luogo da cui provenivo. Questo fece calare un po’ la mia stima nei suoi confronti, ma non ebbi modo per tirarmi indietro. Incespicando tra le mie stesse parole, ma sforzandomi di non sfigurare, raccontai a grandi linee di palazzi, negozi, traffico, grandi magazzini, amiche dai capelli azzurri innamorate di commessi simpatici, ragazze sottovalutate e pregiudicate, altre decisamente sopravvalutate e stronze. Evitai accuratamente di parlare della mia famiglia, ma il professor McDonnel era estremamente interessato a questo aspetto. Così mentii. O meglio, non raccontai proprio tutto. Glissai totalmente su George e sul secondo matrimonio di mia madre, parlai del nonno e di nonna Margareth. E di Joshua, ovviamente.
“Finalmente una presentazione decente” fu il gentile commento di Mark. Non fu facile trattenersi dal rispondergli male, fu uno sforzo enorme sporgermi al di là di Kameron, guardarlo negli occhi e sorridere. Il trucco era stato ridere di lui mentalmente, mentre lo facevo. Rendeva il tutto molto più allegro e spontaneo.
 
Ero sul cassone del pick up, al ritorno da scuola, e osservavo di sottecchi Agatha. Quel giorno sembrava particolarmente pensierosa e non potevo fare a meno di pensare che fosse per via del litigio tra i suoi fratelli. Aveva l’aria decisamente mesta e vederla in quel modo mi faceva star male. Dove si era mai vista un’Agatha McDonnel triste e silenziosa? Non parlava molto, è vero, ma sicuramente non mandava a dire ciò che pensava, sapeva usare fin troppo bene la lingua biforcuta di cui sembravano essere forniti tutti i membri della sua famiglia. Agatha non era il tipo da lasciarsi sopraffare dalle persone, tantomeno dalle situazioni. Non poteva buttarsi giù, non lei. Forse non ero la persona con cui lei avrebbe voluto parlarne, ma era altrettanto probabile che io potessi capirla. Almeno un po’. Io, in fondo, c’ero già passata.
Guardai il cielo. Era sempre di quel colore azzurro e allegro, indipendentemente da come noi, là sotto, stessimo. Potevamo piangere tutti, ma lui sarebbe sempre rimasto azzurro e allegro. Poi, magari, quando noi eravamo di ottimo umore, gli venivano i cinque minuti e mandava giù un diluvio universale. Aggie era sempre stata un po’ così, da che la conoscevo: al di sopra di tutto e tutti. Proprio come un gatto, che non si fa tangere da nulla, a meno che non scelga di lasciarsi coinvolgere. Aggie, i gatti e il cielo vivevano sulla stessa lunghezza d’onda. Variabili, irraggiungibili, umorali e puntigliosi.
Presi coraggio. “Ehm... Agatha?”
Lei alzò lo sguardo interrogativo su di me. “Mh?”
“Senti, uhm...io... ehm.” incespicai prima ancora di aver pronunciato una frase di senso compiuto.
“Cosa c’è?” ripeté lei, inarcando le sopracciglia.
Presi un respiro profondo e mi diedi una spinta mentale. “Senti, mi dispiace per quello che è succeso ieri” dissi infine.
Sgranò leggermente gli occhi, poi si rabbuiò. “Ah”.
“So come ci si sente”.
“Non è nulla” si schernì.
Risi amaramente. “Non lo è? Sono anni che ripeto a tutti che non mi importa che i miei abbiano divorziato, Agatha. Non è vero. Puoi continuare a ripeterlo tutte le volte che vuoi, ma non è vero”.
Mi rivolse un’occhiata truce. “I miei non divorzieranno”.
“Solo perché si tratta di fratelli”.
Lanciò un’occhiata verso l’abitacolo, per accertarsi che i ragazzi non la potessero sentire. Non c’era pericolo, ovviamente: stavano ridendo come due disperati di chissà quale battuta squallida di Terrence. “Vuoi forse girare il dito nella piaga? La cosa ti diverte?” mi domandò, irritata.
Forse non avevo iniziato molto bene. “No, al contrario. Mi dispiace vederti così”.
“Così come? Non sono in nessun modo”.
“Triste”.
“Non...”
“Te l’ho detto: so cosa vuol dire quando due persone a cui tieni litigano furiosamente. Per motivi futili, magari. Sai che non potrai mai concepire che si facciano delle sfuriate del genere per qualcosa di così sciocco, ma non ti ascoltano. Puoi urlare, piangere, lanciare loro le tue scarpe, ma non smetteranno”.
Mi guardò intensamente per qualche istante, tanto che mi sentii denudata, scoperta, fragile.
Fui la prima a distogliere lo sguardo.
Agatha era forte. Non aveva bisogno del mio sostegno. Forse ero io ad avere bisogno del suo, dopotutto. Decisi, però, di non fermarmi: forse quella conversazione avrebbe fatto bene ad entrambe.
“Fa schifo, vero?” commentò, gettando indietro la testa per guardare il cielo proprio come avevo fatto io poco prima.
Soffiai una risatina amara, imitando la sua postura. “Tanto. Ma cosa puoi farci? Nulla. Non è una nostra scelta, non è una nostra competenza. Ne soffriamo, ma almeno non è colpa nostra”.
“Chi se ne frega di chi è la colpa!” sbuffò lei. “Sono due imbecilli! Due egoisti...”
“Vedo che la pensiamo allo stesso modo, sorella” approvai.
Se i miei genitori avessero pensato a noi figli, se Dean e Matthew avessero pensato ad Agatha, prima di litigare, avremmo evitato tante sofferenze. Era anche vero che, forse, arriva il momento nella vita in cui non puoi pensare agli altri e devi pensare a te stesso. Forse era questo che aveva fatto mia madre: pensare a se stessa. Non ce la faceva più, aveva avuto bisogno di lasciarsi alle spalle quell’Harvey Fletcher che proprio non riusciva più a sopportare. Era semplice, comprensibile, chiaro, ma non riuscivo comunque a perdonarla.
“Però, vedi, quello è un problema loro, Aggie” continuai, cercando di sorridere. “Se potessimo aiutarli a smettere di litigare sarebbe un conto, ma tutto il resto non conta. Noi non c’entriamo. Il loro rapporto con te non cambierà, se non sarai tu a volerlo”. Pensai a mia madre. Pensai che ero in grado di dare buoni consigli, forse, ma totalmente incapace di metterli in pratica. Lasciai ricadere la testa in avanti, sorridendo della mia stupidità. “Tu sei più intelligente e più forte di me” le assicurai. “non lasciare che la tua rabbia rovini il rapporto tra te e i tuoi fratelli. Non saranno i loro litigi a farlo, solo tu puoi rovinarlo”.
Rimanemmo in silenzio per un po’, guardando una il cielo e l’altra la campagna che ci circondava. Incredibile come, fino a qualche tempo prima, quella visione non mi trasmettesse assolutamente niente, mentre in quel momento, abituatami, la cosa quasi mi rilassasse. Essere così piccola mi avrebbe impedito di fare casini troppo grandi, no? Era rassicurante, in quel senso. Finalmente, inoltre, tutto stava andando per il verso giusto. La presenza di Joshua non aveva dato grossi problemi, non avevo combinato grandi disastri a scuola e probabilmente solamente Mark, in classe, mi detestava. Una buona media, considerato che erano trascorsi solo un paio di giorni.
“Sai, Pan” Agatha prese un respiro profondo e interruppe il silenzio, attirando il mio sguardo curioso. Aveva tutta l’aria di star per dire qualcosa di importante. “qualche anno fa abbiamo avuto un bel po’ di problemi tutti in una volta. Mio padre si ruppe una gamba e mia madre lo costrinse a rimanere a riposo per più di un mese, finché non avesse tolto il gesso. Lui non ne voleva sapere, quindi mamma perdeva un sacco di tempo per controllare che non facesse sforzi eccessivi e aiutarlo quando si stancava troppo. Passava più tempo a controllarlo che non a lavorare. Mamma è una sarta, quindi può lavorare a casa, ma ha bisogno di tempo e concentrazione per essere efficiente. Aveva sempre la testa altrove, perché era preoccupata per papà. Nello stesso periodo, una volpe si intrufolò nel pollaio e fece fuori tutte le galline. Tutte! Non le mangiò, le uccise e basta. Ne portò via una sola. Non è perverso?” domandò, guardandomi negli occhi.
Più che perverso, mi pareva crudele. Gli animali non potevano essere perversi, quella era una caratteristica umana. Ma non era il momento per le riflessioni filosofiche. Annuii, in attesa che continuasse.
“Con quel fatto, non eravamo più autosufficienti per il cibo. Insomma, in un periodo di crisi ci si arrangia come si può e con le uova si possono fare un sacco di cose. Solo che a quel punto dovevamo acquistarle da qualcuno e non potevamo permetterci una spesa continua di quel genere, non mentre papà non poteva lavorare. Inoltre Matthew stava per partire per l’università e quella era un’altra grossa spesa a cui far fronte. Dean si rimoccò le maniche subito, appena capì che le cose si stavano complicando sul serio. Iniziò a lavorare nella fattoria, poi un giorno andò da tuo nonno a comprare dei polli. Ci servivano e lui era l’unico a venderli. Avremmo potuto barattarli con qualcosa, forse, ma Dean non ne volle sapere. Chiese che ci fossero accreditati, gli spiegò la situazione e disse che appena avremmo avuto i soldi, glieli avremmo pagati” a questo punto sorrise sorniona. “Abe rifiutò”.
“COSA?!” sgranai gli occhi, incredula. Tutta quella storia della solidarietà e della fiducia dov’era finita? Valeva solo per me? Era uno scherzo? Vecchio ipocrita!
Agatha riprese. “Rifiutò di accreditarci quel piccolo debito. Assunse Dean a lavorare alla fattoria, tutti i pomeriggi, per poter pagare i polli. Continuò a lavorare lì anche una volta estinto il debito. Quando finì la scuola si trasferì per poter lavorare e far compagnia a Abe. Dean non ha mai perdonato a Matthew il fatto di essere comunque partito per l’università. Gli sarebbe bastato rimandare la partenza di un anno, prendersi un anno sabbatico e lavorare per aiutare la famiglia. Mamma e papà non gli avrebbero mai chiesto una cosa del genere e lui non se l’è sentita di rimanere, questo posto gli è sempre stato stretto. È per questo che Dean non lo sopporta” concluse, distogliendo nuovamente lo sguardo dal mio. Lo rivolse verso il paesaggio alle mie spalle, mentre nella mia testa si agitavano le parole da lei appena pronunciate. Avevo un bel po’ di cose su cui ragione, a quel punto. Avevo appena scoperto che Dean non odiava le persone a caso, bensì, per quanto riguardava suo fratello, aveva un motivo. Un buon motivo, aggiungerei.  Questo non spiegava il suo rancore nei miei confronti, ma era comunque un inizio.
“Tu cosa ne pensi?” chiesi.
Agatha si strinse nelle spalle e lanciò un’occhiata alla fattoria Fletcher, che si stagliava qualche decina di metri avanti a noi. “Dean ha ragione, ma lui avrebbe fatto lo stesso al posto di Matthew”.
 
Nel pomeriggio mio fratello fece le valigie. Riempì il borsone del tennis e si preparò per andarsene. La mattina successiva, più o meno intorno alle nove, avrebbe preso il treno per tornare a casa. Per quanto da un lato fossi sollevata dal non dover più pensare almeno a lui, un po’ mi dispiaceva il fatto che se ne andasse. Specialmente perché non sarei stata lì a salutarlo al momento della partenza.
“Domani mattina ti voglio in piedi quando la mia sveglia suonerà” gli dissi, mentre io apparecchiavo e lui preparava la cena – aveva capito che non era saggio lasciare che fossi io a cucinare.
“Non sarà mica sentimentalismo questo, eh?” mi prese in giro lui, armeggiando con la forchetta nella pentola.
“Guarda che così rischi di rigarla” lo avvisai, sistemando i bicchieri. “E, no, si chiama ‘salutare le persone’, tu l’hai mai fatto? Può essere divertente a volte!”
“Simpaticissima”.
Gli feci una linguaccia e andai a prendere i piatti nella credenza.
In fondo mi sarebbe mancato. Negli ultimi tempi eravamo arrivati ad essere quasi ...complici.  “Josh, ehm... nella città in cui vado a scuola, c’è campo” buttai lì, come se nulla fosse.
Lui mi lanciò un’occhiata di sottecchi, che evitai accuratamente. “Vuoi che lo dica ad Emily in caso volesse chiamarti?”
Be’, non era una cattiva idea. “Sì. Cioè no. Be’, anche”.
“La chiarezza non è il tuo forte, sai?”, rise.
Gli feci una seconda linguaccia e ridacchiai a mia volta. “Se glielo dicessi, mi faresti un piacere. Ma non era questo il mio fine. Voglio dire, l’ho detto a te per un motivo”. Insomma, era eloquente, no? Perché voleva che lo dicessi apertamente? Era già perfettamente chiaro.
“Ovvero?”
Sadico! “Insomma, se avessi bisogno di qualcosa – qualunque cosa – puoi chiamarmi. Possibilmente durante la mia pausa pranzo oppure prima delle lezioni. Va bene?”
Mi guardò per qualche istante, con un’espressione indecifrabile, poi annuì e tornò a studiare la sua padella. “Ricevuto”.
Risi per smorzare l’atmosfera leggermente impacciata che era calata sulla cucina. “Bravo fratellino!”
Lui soffiò una risatina. “Fratellino. Pff! Ma se sono alto molto più di te?”
“Di nuovo con questa storia? Vogliamo confrontare la carte di identità? O la patente? Oh, ops, dimenticavo: tu non ce l’hai!”
Joshua mi lanciò un’occhiataccia. “Guarda che sei stronza a volte!”
“A volte?” si intromise una voce estranea alla nostra famiglia.
Dean fece la sua comparsa in cucina con l’aria di Fred Flinstones a fine giornata, desideroso di papparsi una bistecca e gettarsi sotto le coperte senza che Dino gli leccasse la faccia. In quel momento desiderai un cane che potesse sbavarlo. Joshua avrebbe dovuto portare con sé Roastbeef!
“Wilma, dammi la clava!” gli risposi con un sorriso a trentadue denti, come se fosse la risposta più logica del mondo.
“Si è bevuta il cervello?” domandò a mio fratello, gettandosi a sedere.
Joshua scrollò il capo, si strinse nelle spalle e non rispose.
“No, scusa, stravaccati pure sulla sedia, tanto noi non stiamo lavorando anche per te” lo rimproverai, posizionando i piatti in tavola.
Dean inarcò un sopracciglio. “Credi forse che io non abbia lavorato oggi?”
Aha! Ce l’avevo in pugno questa volta! “Credi forse che io non abbia trascorso la mattina e mezzo pomeriggio a scuola? Eppure eccomi qui a lavorare”.
“Hai finito di dire sciocchezze, principessa?” mi freddò senza nemmeno guardarmi. Si versò anzi un bicchier d’acqua.
Sbuffai. “Sì, signore” brontolai, riprendendo ad apparecchiare.
Poi una domanda mi sovvenne e per qualche motivo non riuscii a trattanermi. Avevo l’assurda sensazione di essere più in confidenza con Dean, dopo ciò che mi aveva raccontato Agatha, e volevo sapere la sua versione dei fatti. Mi sentivo autorizzata a chiedere.
Pessima mossa.
“È vera la storia dei polli?”
“Quali polli?” chiese Joshua, lanciandomi un’occhiata stranita.
Scrollai il capo. “Non dico a te”.
Dean mi lanciò un’occhiata attraverso il fondo del bicchiere, poi lo posò e deglutì. “Ce l’hai con me?”
Alzai gli occhi al soffitto, armeggiando con il cassetto delle posate, che aveva una fastidiosa tendenza ad incepparsi. “C’è altra gente qui dentro?”
“Di cosa diavolo stai parlando, allora?”
“Dei polli che avresti dovuto farti accreditare da Abe, qualche anno fa”. Lo guardai di sottecchi e dal suo sguardo compresi di essere stata un po’ troppo invadente. Avevo appena verificato – per l’ennesima volta – che non bastava essere gentili con Dean McDonnel per ottenere cortesia in cambio.
“Non sono fatti tuoi”.
“Era solo una domanda” mi giustificai.
Si alzò in piedi e si avviò verso la porta. “Chi te l’ha detto?”
Sì, certo, solo tu puoi avere risposte. “Non è importante” risposi.
“Sono fatti miei, principessa, decido io se è importante o no. Chi te l’ha detto?”
Diedi uno scrollone al cassetto, sbloccandolo. La presenza di Joshua mi trasmetteva sicurezza, decisi quindi di fare la cosa giusta e non tradire chi si era confidato con me. “Qualcuno che aveva il diritto di farlo. Non ci vedo nulla di male, comunque”.
“Quel pezzente di Matthew, ovviamente. Non sa tenere la bocca chiusa, ha bisogno di raccontare a cani e porci i fatti nostri” bofonchiò, fermandosi sulla porta.
Cani e porci. Ero parte di ‘cani e porci’. Speravo di essere compresa nella prima categoria, almeno. “Non ho detto che è stato lui, ma dovresti imparare un po’ della sua cortesia, sai? A volte sarebbe carino sentirsi rivolgere la parola con tranquillità, senza che le tue occhiatacce ribadiscano quanto tutti tranne te facciano schifo”.
“Io non sono lui” scandì, guardandomi con aria seria e sicura di sé.
Peccato che uno sguardo feroce non bastasse a farmi paura. Per lo meno non quando il mio caro fratellino era proprio accanto a me. “Su questo non c’è alcun dubbio” ribadii.
 
Quella sera stessa, mentre controllavamo che in giro per la casa non fosse rimasto nulla di appartenente a Joshua, lui si fermò ad osservare il paesaggio fuori dalla finestra del salotto. “La sera qui è silenziosa” disse, lo sguardo perso davanti a sé.
“Già. E le stelle? Le hai viste? Non ne ho mai viste così tante tutte in una volta” osservai, affiancandolo alla finestra. “Sono bellissime”.
Lui sorrise ed espirò dal naso contemporaneamente. “Qui non è poi così male”.
“No. Molto più tranquillo che a casa”.
“Se ti prendi una cotta per quello stronzo ti disconosco!”
Arrossii violentemente a quelle parole. “E questo che c’entra?!”
“Niente, era solo per puntualizzare”.
Incrociai le braccia e lo guardai male. “Sì, be’, smettila con questa storia, Joshua” lo ammonii.
Lui rise. “Dimmi che non è troppo tardi”.
Sbuffai. “Ma quale troppo tardi! Smetti di dire sciocchezze!” replicai a voce leggermente più alta. “Cosa sono tutte queste storie a riguardo?”
“Niente, era per dire”.
“Non sai che dire, quindi dici sciocchezze? Astuto da parte tua” commentai sarcastica.
Rise. “Non si sa mai con te, diventi ogni giorno più stupida!”
“Non così tanto!” sputai, guardandolo in cagnesco. Stupida? Io? Ma si era visto ultimamente? “Non mi faccio dare della stupida da uno che non si taglia i capelli da quando ha iniziato il liceo, grazie” lo presi in giro. “E ti sei mai sentito parlare con Agatha? Come sorella maggiore mi sento in dovere di dirtelo: se parli così a tutte le ragazze, farai meglio a passare dall’altra sponda, perché non abboccheranno mai!”, sghignazzai.
Soffiò una risatina. “Quando avrò bisogno di consigli verrò sicuramente a chiederlo a te, visto che hai tanta esperienza. Ah, ops, è vero, non ne hai!”
“...Poi sono io quella stronza”.
“Indiscutibilmente”.
“È discutibilissimo invece!”
“Ah sì? Provalo”.
“Be’, tanto per cominciare sei tu quello che sbava dietro alla ragazza della pizza, non io. E sei tu quello che ordina una pizza dietro l’altra solo per vederla, ben sapendo che lei non ti si fila per niente. E sei tu quello che... va bene, sto parlando da stronza, uno a zero per te.” Quando non hai buone argomentazioni per provare la tua tesi, la cosa migliore e lasciare la ragione agli altri.
Joshua rise, soddisfatto. “Uno a zero? Quattro come minimo”.
“Non esagerare, ora. Solo perché ti ho dato ragione una volta non significa che tu ce l’abbia sempre”.
“Ma io ce l’ho!”
“Un ego gigantesco, sì, ce l’hai”.
“Stai cercando di offendermi?”
“No, di avere ragione”.
“Non ce l’hai”.
“Forse questa volta, ma la prossima...”.
“Nemmeno la prossima. Non ne hai praticamente mai, in realtà”.
“Non – tirare – troppo – la corda”.
“Come si sta nell’essere dalla parte del torto?”
“Come si sta con una gomitata nello stomaco?”
“Come sei suscettibile!”
“Non sono suscettibile!”
“Sì, invece!”
“Sai che vuol dire, almeno?”
“Sì che lo so! Saccente”.
Risi. “Ricordati quello che ti ho detto prima, Josh. Per qualcunque cosa, chiamami”. Mi sarebbe mancato. Sì. 


In der Ecke - Nell'angolo:
Buongiorno a tutti! :D
Parto con il ringraziare la mia amica Maria, che dopo aver intasato il GRUPPO con dei post a proposito della mia cattiveria e del mio usare il lavandino al posto degli appositi sanitari (???) (usando il mio account, ovviamente), mi ha gentilmente fatto il favore di betare questo capitolo. (Come se non avesse fatto i capricci perché glielo lasciassi fare *coffcoff*).
Ergo, GRAAAAAZIE, MERI-CHAN! :D
Inoltre ringrazio tutte le ragazze che negli ultimi giorni hanno sopportato i miei scleri, sempre sul gruppo (pubblicità occulta? Nàà!), a proposito della mia entrata e uscita nel tunnel delle fanfiction, che mi hanno rubato un sacco di tempo e sensi di colpa. ^^
In particolare Marta, che sto facendo impazzire con dei falsi allarme da ormai mezzora, nonostante lei mi abbia impedito di rituffarmi nella lettura di una fanfiction prima di postare.
Grazie a te, quindi, e grazie a chi mi ha scritto il suo minaccioso "MICH! SMETTI DI LEGGERE STUPIDE FANFICTION E SCRIVI!" quando glielo ho chiesto. :D
Bene, basta, vi lascio o finisco per diventare sentimentale e se divento sentimentale scrivo un papiro e posto il mese prossimo. 
Un grandissimo in bocca al lupo a chi deve affrontare gli esami di riparazione! 
In particolare alla mia Moppi (anche se non credo leggerà questo capitolo) e a Sofia. :)

No, un attimo, prima devo manifestare il mio stupore... dieci recensioni! Dieci recensioni allo scorso capitolo! *_* Siamo a 153 recensioni! *O* Vi adoro, davvero. :)

E BENTORNATA MARY! :D

 
  
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