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Autore: MrEvilside    09/09/2012    8 recensioni
[ CONCLUSA ]
Dopo la cattura di Loki, il suo scettro è stato affidato a Tony Stark, l'unico che abbia resistito alla sua magia soggiogatrice, e Loki consegnato ad Asgard, dove viene detenuto in attesa di giudizio. Quando fugge, i Vendicatori si preparano ad affrontarlo, convinti che il suo primo obiettivo sarà senza dubbio riappropriarsi dello scettro sconfiggendo Tony, ma quest'ultimo scoprirà che per una volta è Loki ad aver bisogno d'aiuto. Il semidio lo porrà di fronte a più di una scelta: vita o morte, verità o menzogna, amore o qualcos'altro, sullo sfondo di una guerra per garantire la pace sulla Terra.
Non sempre è tutto bianco o nero.
[ IronFrost ]
Genere: Azione, Dark, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Loki, Tony Stark/Iron Man, Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ehilà! <3 Vi sono mancata? No, cambio domanda. XD Vi è mancata "Save your enemy"? Mi auguro di sì, almeno un pochino :D Con il ritmo che ho preso adesso, direi che riuscirò a postare almeno un capitolo ogni due settimane (come questa volta) e, per un totale di otto capitoli in tutto, direi che la storia si concluderà entro ottobre. Mi mancherà, perché ho adorato scriverla, ma soprattutto mi ha fatto tanto piacere che voi l'abbiate letta e commentata con tanto entusiasmo (e spero continuerete, il vostro appoggio è un balsamo per me, ma credo di averlo già detto più volte XD<3 E' che siete fantastici, ragazzi <3), e ho un bel po' di progetti IronFrost in serbo per voi dopo questo, perciò restate sintonizzati col mio account anche dopo il completamento di "Save your enemy" <3 Già ora uno dei progetti ha preso il via, cominciando con la one-shot "Somewhere far along this road": si tratta di un progetto AU, per ora Pepperony (con varie altre coppie), ma che finirà col diventare IronFrost. Se un Tony che beve troppo e un Loki complessato sotto un ombrello rosa shocking (non scherzo XD) potessero interessarvi, mi farebbe piacere se la leggeste :3
Fine del messaggio pubblicitario, giuro CX E' che non so mai di che parlare, perché vorrei parlare del capitolo nuovo ma naturalmente vi farei spoiler, perciò mi riservo tutti i commenti per le risposte alle recensioni... Sappiate comunque che l'idea dietro questo capitolo è gloriosa, non so se l'ho stesa nel modo adatto o se a voi piacerà allo stesso modo, ma io lo spero, perché credo che questo sia il mio capitolo preferito finora *__*
Grazie a tutti di esserci!

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#06: Born to be king
 
Your fight for power, for memories
Answers and signs
Will bring you through the dark to light
Clear and redefined
-Kingdom Of Welcome Addiction, IAMX
 
Loki aspettava.
Seduto presso il tavolo, unica forma di mobilio presente nella cella, aspettava. Aveva aspettato per due settimane che Fury accogliesse la sua richiesta, avrebbe aspettato un’altra manciata di ore per rivedere Stark.
D’altra parte aveva alle spalle innumerevoli secoli di vita, aveva padroneggiato l’arte della pazienza da molti anni.
Sapeva che spesso comportava molti più cambiamenti limitarsi ad attendere, piuttosto che agire, ma aveva capito che l’età non era garanzia di tale saggezza – Thor ne era l’esempio lampante.
Malgrado la minaccia che gravava su di lui e la proposta di Stark da prendere in considerazione, chiuse gli occhi e si concentrò, alla ricerca del centro della propria magia. La droga gli impediva di orientarsi nella propria mente: percepiva il potere così vicino da lambirgli le estremità della coscienza, eppure non riusciva ad afferrarlo, a farlo scorrere nelle proprie vene.
Mentre accarezzava l’energia magica, incapace di stringerla come avrebbe desiderato, il suo corpo si rilassò completamente, per impensabile che potesse apparire: le mani persero la tensione che le faceva quasi serrare in pugni, le spalle si abbassarono, non più dritte e rigide come un’armatura, e le increspature sulla sua fronte si dissolsero. La magia, la più importante parte di lui, era a un passo di distanza – nient’altro aveva importanza.
Di colpo la porta della sua prigione si aprì e la figura familiare di Stark fece il suo ingresso in fretta, i movimenti imprecisi, febbrili, resi goffi da un nervosismo che prima mancava; il semidio sollevò le palpebre e aspettò che l’uomo si sedesse per prendere la parola, anche se le sue dita ebbero uno spasmo involontario al pensiero delle spiacevoli notizie che stava per ricevere. «Allora, Stark?»
«Non posso rimanere a lungo». Mai nella voce di Tony Stark c’era stata una simile nota di apprensione. L’uomo appoggiò sul tavolo un congegno rettangolare che Loki aveva appreso si chiamava tablet e gli indicò lo schermo, che riportava quella che il semidio giudicò essere una registrazione. «Riconosci qualcuno?»
Loki socchiuse gli occhi, poi li sgranò e rimase senza fiato, come se qualcosa gli avesse annodato i polmoni. C’erano quattro persone sul monitor, ma il suo sguardo era fisso su una in particolare, qualche passo più avanti rispetto alle altre, a evidenziarne la superiorità.
«Thanos» esalò, posando l’indice in corrispondenza della creatura alta e dinoccolata avvolta in un mantello nero.
Inconfondibilmente disumano, era impossibile mancare di notare la statura, la pelle violacea e la robusta mascella quadrata. Il ghigno serafico che gli aveva promesso un dolore peggiore di qualsiasi altro avesse mai sperimentato.
Il semidio lanciò un’occhiata agli altri due uomini, che però non riconobbe, e si posò infine sull’unica donna. «E l’Incantatrice, Amora. Un’Æsir. Dove si trovano?»
Stark sbuffò. «Immaginavo che fossero amici tuoi» commentò, sarcasticamente acido. «A meno di due miglia da New York. Non vogliono distruggere la città».
Fece un cenno verso lo sfondo e Loki distinse le ombre brulicanti alle spalle dei quattro come chitauri, più di quanti ne avesse mai visti, così tanti e compatti che all’inizio li aveva scambiati per parte del paesaggio.
«Sono arrivati per la guerra, Loki. Sono venuto solo per sapere se sono chi temevamo fossero e per conoscere la tua decisione. Poi andrò a combattere. Fury» increspò un angolo della bocca in una smorfia per sottolineare il proprio dissenso «ha ordinato che tu rimanga qui».
Il semidio scrutò il tablet, accigliato, poi levò il capo verso di lui e strinse le labbra.
«Il tuo è un progetto folle, Stark,» esordì, misurando le parole con cura «ma sembra che non mi rimanga altra scelta».
Bastò allargare le braccia per esercitare una pressione sufficiente a frantumare i ceppi che lo tenevano immobilizzato. Strofinò i polsi, laddove si erano strette le manette e la pelle aveva perso colore, e il volto di Stark, dapprima perplesso, si aprì in un sorriso di feroce soddisfazione.
«Fa’ buon viaggio allora» gli augurò con la consueta ironia, ma c’era un retrogusto di serietà nella sua voce e nella sua espressione. «E vedi di tornare, prima che quelli ci facciano il culo».
Loki aggrottò la fronte e tese dita immaginarie verso la fonte della sua magia.
Si contorceva e sfuggiva alla sua presa come un serpente, ma era pur sempre sua, gli apparteneva come mai nulla avrebbe potuto appartenere a un midgardiano e, se in quelle settimane aveva permesso alla droga di prendere il controllo, ora non aveva più bisogno di concedere agli umani di trattenerlo e di gloriarsi di quel dominio illusorio che credevano di avere su di lui.
Alla fine afferrò ciò che cercava e lo plasmò secondo il proprio volere, immediatamente rinvigorito dalla sensazione della magia che si piegava alla propria volontà.
Obbediente, l’energia magica lo ammantò di un alone verdastro e d’istinto Stark si alzò e fece un passo indietro, turbato e affascinato insieme, e il semidio sogghignò nel vedere sul suo viso la consapevolezza che fino ad allora lui non era mai stato davvero nelle loro mani.
«Sappi che non è mia abitudine lasciare qualcosa in sospeso, Stark» lo avvertì con calma. «Se al mio ritorno ti sarai fatto uccidere, verrò a cercarti nel regno di Hel. E sarò molto, molto irritato».
L’uomo indovinò il significato della sua allusione e rise di quella sua risata roca che gli faceva vibrare la trachea, così vulnerabile, così tenera. «Non puoi farlo» osservò, in parte divertito, in parte inquietato.
«Hela, la regina di quel luogo, è mia figlia». L’oscurità lo stava già inghiottendo, lo trascinava via, verso una destinazione a molti mondi di distanza. «Posso, Stark».
Era quanto di più vicino a una promessa potesse fargli.
Poi l’ultima immagine dell’uomo si dissolse del tutto, come cancellata dalla mano di un pittore invisibile, e venne sostituita dal paesaggio bianco e grigio di Jotunheim.
Tra le distese infinite di neve, la capitale si ergeva enorme e maestosa, un rudere dell’antico splendore eppure ancora magnifica, con le guglie di pietra nera che si stagliavano contro il cielo in cui si addensavano nubi candide. L’assenza del sole gettava su quel mondo una luce dai riflessi blu, bianchi e neri, emblema dell’eterno inverno in cui dimoravano gli jotun.
Prima di incamminarsi, Loki contemplò la terra che una volta aveva cercato di distruggere, il popolo che aveva tentato di sterminare perché il suo valore venisse riconosciuto da Odino, perché le sue doti non dovessero più essere messe in ombra da quelle di Thor.
Com’ero sciocco, ammise tra sé, procedendo con calma nella neve.
Quel poco di Æsir che il suo aspetto ancora conservava sparì, lasciò il posto al blu della carnagione e al rosso degli occhi tipici degli jotun.
Era stato uno sciocco a credere che il genocidio avrebbe cambiato la propria discendenza e l’avrebbe posto su un piedistallo; agli occhi di Odino, lui sarebbe rimasto il figlio bastardo di un re traditore, raccolto nella speranza di sottomettere quel sovrano all’obbedienza incondizionata che l’All-Father aveva ipocritamente definito pace.
Mentre passava, percepiva su di sé le occhiate dei suoi simili, alcune ostili, altre solo curiose, ma non distolse lo sguardo dal sentiero che conduceva ai resti del palazzo reale e nessuno ebbe la malaugurata idea di mettersi sulla sua strada – in realtà, nessuno si fece vedere: oltre ad avvertire i loro occhi addosso, alla periferia del proprio campo visivo Loki non vedeva altro che neve e macerie.
Quando giunse dinanzi al trono di marmo nero su cui, un giorno che pareva appartenere a un’altra vita, era stato seduto Laufey, quando Thor l’aveva sfidato e lui aveva tentato invano di fermarlo.
Il giorno in cui per la prima volta la sua pelle aveva assunto la sua sfumatura originaria.
Fermo presso lo scranno vuoto, Loki gli diede le spalle e si rivolse a voce alta, limpida e decisa alla popolazione che ancora esitava a mostrarsi. «Chiedo udienza al vostro re».
Un mormorio attraversò la distesa di neve, ma a rispondergli fu qualcuno dietro di lui: «Chi la chiede?»
Voltandosi di scatto, il semidio scorse con la coda dell’occhio i giganti che infine lasciavano i loro nascondigli e si facevano avanti per attorniare il trono, ma si mantenevano a una rispettosa distanza di circa cinque metri da dove si trovava e sei dallo scranno, sul quale era apparso uno jotun piuttosto alto e robusto anche per la sua razza, i cui lineamenti però tradivano una certa giovinezza e anche una somiglianza con quelli di Laufey.
Loki batté le palpebre, sorpreso da quella similarità che non si aspettava. Aveva immaginato che i giganti si fossero trovati un altro re, dopo la morte di Laufey, ma che avesse un erede, che lui potesse avere un ennesimo fratellastro?
«Loki» si presentò e si erse nella propria altezza, considerevole per un midgardiano ma irrisoria per uno jotun, ancora più insignificante dal momento che il trono si trovava su una piattaforma sopraelevata a cui si accedeva tramite un complesso di scalini e di conseguenza Loki era costretto a guardare il suo interlocutore dal basso verso l’alto.
Questi doveva meditare sulla stessa cosa, perché torse la bocca in un ghigno divertito; allora, punto nell’orgoglio, il semidio raddrizzò le spalle con fiera determinazione e riprese: «Loki di Jotunheim. Giungo con l’intenzione di sfidare il sovrano per riprendermi il trono che mi spetta di diritto».
Il gigante ebbe un istante d’esitazione provocato dallo stupore, che suscitò l’affiorare di un sorriso soddisfatto alle labbra di Loki, poi lo jotun lo scrutò con maggiore attenzione e disse: «E così tu sei colui che ha ucciso mio padre, Laufey?»
Una pausa per prendere nota del suo aspetto da capo a piedi con uno sguardo indecifrabile. «E sia» accettò infine, si alzò dallo scranno e scese i pochi scalini che lo separavano da dove si trovava Loki. «Poiché ti proponi secondo le sacre leggi di Jotunheim, che stabiliscono che il regno vada a chiunque lo vinca in un combattimento leale, sarà un privilegio per me affrontarti in battaglia e ucciderti».
Personalmente il semidio considerava la legislatura jotun barbara e primitiva, poiché era fondata perlopiù sul duello come mezzo di prevaricazione degli altri, persino dello stesso sovrano, ma in quel caso rendeva più semplice il raggiungimento del suo scopo.
Dopotutto, per quanto alto e forte potesse essere il suo ritrovato fratellastro, lui era pur sempre uno dei più potenti maghi dei Nove Reami.
Lo jotun stese un braccio e congiurò una lunga lancia che apparve accompagnata da una fiamma azzurra. Loki inarcò le sopracciglia. Un altro stregone? Esaminò la fattura dell’arma e sorrise appena. Piuttosto potente, pare. Interessante.
Ma giovane. Adesso che erano così vicini, il semidio non gli avrebbe dato più di qualche centinaio d’anni, forse persino un millennio, ma non di più.
Troppo giovane per aver padroneggiato le arti magiche bene quanto lui.
Ai margini del cerchio di roccia nera dove si fronteggiavano, gli abitanti di Jotunheim osservavano in silenzio, oppure sussurrando tra loro. Nessuno avrebbe osato intervenire in difesa del suo re: nonostante ritenesse le loro leggi selvagge, Loki doveva riconoscere che non mancavano mai di rispettarle.
Al contrario del suo avversario, il semidio non evocò alcuna arma, né si mosse quando il gigante cominciò a girargli intorno a passo lento e guardingo.
La schiena o i fianchi.
Come aveva supposto, lo jotun puntò al suo fianco destro, ma Loki fu più svelto, si spostò di lato e strinse le dita intorno alla lancia, immobilizzandola. Contro le sue aspettative, l’avversario lasciò andare l’arma e gli rivolse contro i palmi aperti da cui fiottò una scarica di energia blu che lo colpì in pieno petto.
Barcollò all’indietro, ma riuscì a non cadere, si passò il dorso di una mano sulla bocca e trovò una striscia di sangue sulle nocche. A quella vista fu attraversato da una scarica di adrenalina animalesca.
Una battaglia, una vera battaglia dopo tanto tempo.
All’epoca in cui combatteva al fianco di Thor non vi faceva caso, tante erano le schermaglie cui prendeva parte, ma adesso si rendeva conto di quanto avesse sentito la mancanza del clangore delle armi, dell’odore del sangue e del sudore, del timore di non rivedere l’alba misto all’eccitazione di provare a se stesso la propria forza.
Entusiasmato dal piccolo vantaggio ottenuto, il gigante recuperò la lancia, sfuggita di mano al semidio mentre si sforzava di rimanere in piedi, lo raggiunse in poche ampie falcate, disegnò un arco nell’aria con il braccio e si preparò ad affondare.
Loki riuscì a recuperare l’equilibrio appena in tempo per allontanarsi, ma non tentò di farlo: tese invece le braccia e afferrò il collo della lancia con ambo le mani, fermando la lama appuntita a pochi centimetri dal proprio naso.
Sotto lo sguardo incredulo dello jotun, il semidio strinse fin quando le sue mani non presero a tremare, ma all’improvviso la lancia si spezzò con uno schiocco secco e miriadi di frammenti azzurri esplosero in ogni direzione.
Il suo avversario era forte e lui era più vulnerabile del solito, ancora assoggettato all’effetto residuo della droga, ma Thor era più forte. E lui aveva sconfitto Thor più di una volta.
Per un lungo istante, i due non fecero altro che guardarsi, conoscersi, in un certo senso.
Loki seppe che avrebbe vinto, il gigante seppe che sarebbe morto e lo accettò con un cenno del capo che, malgrado la giovane età, apparve estremamente saggio e maestoso. Il semidio si scoprì ad apprezzarlo per questo, poi di colpo erano di nuovo lontani diversi passi, entrambi in posizione di difesa, l’uno in attesa della prossima mossa dell’altro.
Lo jotun era destinato a perdere, ma non si sarebbe arreso senza combattere. Ottimo.
Quanto a lungo durò il duello, Loki non avrebbe saputo dirlo, troppo preso dal rapido susseguirsi di eventi, gli incantesimi scagliati da ambo le parti, i danni ricevuti, ogni singolo movimento, troppo veloce per un occhio che non fosse immortale.
Non aveva importanza: il suo corpo, il suo spirito gioiva di ciascun istante di quel combattimento, la sua anima beveva ogni goccia di sudore, di sangue, di stanchezza e adrenalina ed eccitazione.
Loki era nato come combattente.
Aveva votato la sua vita all’apprendimento e alla magia, ma era stato cresciuto nella casa di Odino – di origini jotun, di animo Æsir.
Dopotutto, rifletté, mentre lo scettro che infine aveva congiurato roteava con eleganza nell’aria e la sua estremità arrotondata affondava nel petto del suo avversario, lo dicesti tu stesso, All-Father: sono nato per essere re. Forse il trono di Jotunheim – il trono del popolo che venera la guerra – mi si addice di più, in fin dei conti.
Costrinse il gigante in ginocchio e appoggiò la lama dello scettro dorato sulla sua gola, tenera e vulnerabile, in quella posizione, come quella di Stark quando rideva.
Intorno a lui, gli jotun trattenevano il fiato.
Il fratellastro lo guardava, aspettava quieto, ma Loki, anziché finirlo, squarciò il silenzio con la voce spezzata dalla fatica: «Qual è il tuo nome?»
Il re vinto esitò, poi rispose: «Helblindi».
Il semidio si accigliò, domandandosi perché gliel’avesse chiesto. Non aveva mai conosciuto Laufey, non rappresentava che un altro nemico sconfitto: non avevano nulla in comune, e nulla avrebbe potuto avere in comune con un altro suo figlio, se non il sangue.
Prevedibilmente, il nome del fratellastro non gli diceva niente.
Eppure, in un certo senso, sentiva che fosse necessario sapere, perché quel ragazzo stava per spegnersi – lasciarlo in vita sarebbe stato pari al considerarlo indegno di una morte da guerriero, secondo le usanze di Jotunheim – e di lui non sarebbe rimasto altro che quello – il nome. Helblindi.
«Muori da fiero soldato, dunque, Helblindi» recitò in tono solenne, poi gli tagliò la gola con un unico, fluido movimento del braccio.
Il cadavere del gigante si afflosciò a terra sotto una pozza di sangue scuro che faceva luccicare il marmo nero. Passarono alcuni secondi di gelido silenzio, quindi una figura piuttosto minuta e snella si staccò dalla folla immobile, una femmina di jotun che accorse verso Helblindi, lanciò un’occhiata guardinga a Loki e si inginocchiò accanto al corpo, posandosi la testa senza vita in grembo.
A giudicare dalla profondità delle linee blu scuro che si intrecciavano sulla sua pelle azzurra, il semidio intuì che doveva essere molto più anziana del sovrano caduto. Sua madre.
Diede loro la schiena, allargò le braccia verso i giganti e restituì lo scettro al luogo da cui l’aveva richiamato, laddove conservava le proprie armi quando non doveva combattere. «Popolo di Jotunheim» esordì, ma scoprì di non avere grandi discorsi da offrire loro. L’adrenalina stava scemando, sostituita da una sorda sensazione di spossatezza. «Salutate il vostro re».
Il primo ad accettarlo fu un soldato: levò in aria la sua spada ed emise un latrato roco che Loki interpretò come un segno di benvenuto, perché anche gli altri gli fecero eco e alzarono un braccio verso l’alto, chi per giurargli obbedienza sull’arma che stringeva, chi con il semplice pugno chiuso.
La testa orgogliosamente alta, il corpo ben diritto nonostante la stanchezza e i palmi aperti, rivolti verso di loro, il semidio fissò la folla che accoglieva la sua autorità e attese che l’acclamazione venisse meno, poi avvicinò le mani l’una all’altra davanti al petto ed evocò un altro oggetto, che si materializzò nel giro di pochi secondi.
«Che Jotunheim torni al suo antico splendore» profetizzò.
Tra le sue dita, lo Scrigno degli Antichi Inverni sfolgorava della luce blu di Jotunheim, finalmente riportato al posto cui apparteneva.
Fu allora che Loki realizzò che quanto stava accadendo era giusto.
Profondamente, inspiegabilmente giusto.
Siete nati per essere re,” aveva vaticinato Odino per lui e Thor, un giorno, quando erano ancora troppo piccoli per capire il significato di quelle parole – o immaginarne un altro, più oscuro, più terribile, che affondava le sue radici nella guerra tra jotun e Æsir.
Allora Loki aveva immaginato che si riferisse alla loro discendenza reale, ma ora credeva di comprendere ciò che l’All-Father aveva potuto soltanto scorgere per mezzo del suo occhio onnisciente.
Ed era straordinario, ridicolo, persino, che a spingerlo tra le braccia di un destino da cui per anni era ostinatamente fuggito fosse stato un mortale.
La nuova ovazione che si aspettava non giunse; invece, gli jotun si mossero con la fluidità e il sincronismo di un unico organismo e si piegarono su un ginocchio, il capo chino in segno di rispetto, un braccio piegato in orizzontale sul petto, il pugno chiuso.
Loki capì il motivo del loro gesto tanto solenne: non solo aveva sconfitto in battaglia il loro precedente sovrano, concedendogli l’onore di morire secondo il loro costume, ma aveva anche riportato l’emblema del loro potere, restituendo loro l’identità di popolo.
Dacché lo Scrigno era stato sottratto, quella gente aveva provato la schiacciante sensazione di essere straniera nella sua stessa terra, e adesso in lui aveva ritrovato la speranza.
Dietro di lui, la madre di Helblindi, preso il figlio tra le braccia, incurante del suo peso, che tuttavia doveva essere notevole, era in ginocchio a sua volta. Si alzò prima degli altri e si allontanò in silenzio, presumibilmente per dare sepoltura al caro caduto; il semidio la seguì con lo sguardo, suo malgrado alla ricerca di qualche particolare in comune anche con lei.
Già da tempo, però, aveva maturato la consapevolezza di essere con ogni probabilità il risultato di uno stupro da parte di Laufey ai danni di una asgardiana – questo avrebbe spiegato la sua stazza e l’alterazione del colore della sua carnagione a contatto con un altro Æsir.
Non poté comunque fare a meno di osservare quella donna e domandarsi come sarebbe stato se anche lui, anziché essere portato via come una reliquia, fosse stato cresciuto tra gli jotun.
Potevano avere una tradizione severa e a tratti persino crudele, ma era indubbio che anche loro amassero.
Quando infine anche gli altri giganti si rialzarono, uno di essi fece un passo avanti dalla neve sulla pietra color petrolio, gli rivolse un gesto del capo e parlò in tono deferente, senza incrociare i suoi occhi: «Sono il capitano delle guardie personali del re, signore, il mio nome è Skurt». Loki prese nota della sua presentazione con un cenno e lo jotun riprese: «Se desiderate procedere con la cerimonia d’incoronazione e affidarmi lo Scrigno, potrei collocarlo nel santuario, nel posto che gli spetta».
«Non abbiamo il tempo per l’incoronazione, capitano Skurt» rispose con gravità il semidio. «Non sono venuto solo a reclamare il mio trono, oggi, ma anche a guidare il mio esercito in guerra».
La notizia serpeggiò tra le fila dei giganti, accese di eccitazione guerriera innumerevoli sguardi cremisi, disegnò ghigni selvaggi, eppure a loro modo nobili, sui volti del suo popolo. «Una guerra?» disse qualcuno, raccolto il coraggio, ma subito venne messo a tacere.
Facendosi portavoce di tutti, Skurt domandò: «Contro chi, mio signore, se è lecito domandare?»
«I chitauri, comandati dal titano Thanos» replicò Loki, lapidario. La sua voce si tinse di una sfumatura oscura, sanguinaria, molto simile alla fiamma che animava gli occhi degli jotun, ma più terribile, più minacciosa ancora. «Un esercito che mi ha voltato le spalle e un condottiero che vuole la mia testa. Accetterete di combattere per me?»
Skurt non esitò. «Voi avete sconfitto Helblindi. Come ha detto lui stesso, lo avete sfidato secondo le leggi del nostro popolo. Inoltre, ci avete riportato qualcosa di valore inestimabile. Come potremmo rifiutare di cavalcare al vostro fianco?»
Alle sue spalle, la folla annuì. Se prima del combattimento contro Helblindi si era guadagnato molte occhiate ostili, ora non vi era più traccia di quell’animosità nei suoi confronti, solo reverenza.
Il semidio assentì con la testa a sua volta e disse: «Sarete i benvenuti, dunque. Che i soldati si preparino. Nel mentre, vorrei essere io stesso a riportare lo Scrigno nel santuario,» fece una pausa e rettificò «se vorrete concedermelo».
Per quanta approvazione potesse aver guadagnato, se anche non erano a conoscenza dell’inganno ai loro danni da lui ordito in passato, dovevano sapere chi era, sapere che era stato allevato nel regno che una volta li aveva assoggettati al suo potere, e non voleva forzare loro la mano con richieste troppo arroganti, dopo aver ottenuto il loro aiuto più in fretta di quanto avesse sperato.
Questa volta Skurt si prese del tempo per ponderare la domanda: in quanto capitano della guardia, la sua autorità veniva immediatamente dopo il sovrano e nessuno, nemmeno un re, poteva discutere le sue decisioni, non ora, non appena salito al trono, quando aveva ancora bisogno dell’approvazione di Skurt perché gli altri giganti gli obbedissero.
«Voi ci avete restituito non solo la fonte della nostra forza, ma la nostra dignità» osservò infine il capitano della guardia. «Permettetemi di scortarvi».
Loki lo seguì fino a un’alta torre di pietra che incombeva su tutta la città, magnifica e minacciosa, simile a una sentinella scolpita nella roccia. Quella torre era il primo monumento che si poteva scorgere di Jotunheim da lontano e, una volta giunto ai suoi piedi, il semidio non poté fare a meno di tentare di catturarla nella sua interezza con lo sguardo, ma era impossibile.
Oltre la porta d’ingresso si apriva una stanza lunga e stretta, piuttosto modesta, con un semplice piedistallo in fondo. Skurt gli fece cenno di procedere e rimase fuori, dietro il battente chiuso.
Rimasto solo, Loki camminò con lentezza fino al basamento e sollevò lo Scrigno a mezz’aria sopra l’incavo che gli spettava. Poi, con gesti calmi e solenni, conscio dell’importanza di quell’atto, lo pose al suo posto.
Per un istante, il cuore dello Scrigno irradiò un raggio di luce blu tutt’attorno, ma quasi subito tornò al consueto, morbido lucore. Qualcosa, però, era cambiato: il semidio poteva avvertirlo nella corrente di energia magica che animava Jotunheim, nell’aria, nella terra, negli esseri viventi che la popolavano.
Nel momento stesso in cui percepì quel guizzo di potere emanare dallo Scrigno, un’altra forza, potente ma circoscritta entro confini ben meno estesi di Jotunheim, si scatenò di fronte a lui.
Dapprima niente più che un bagliore dorato, a poco a poco prese forma, si ingrandì, si contorse e divenne reale, tangibile. Irrigidito dal miscuglio di emozioni che lo aveva stretto in una morsa gelida dinanzi a quell’apparizione – tradimento, collera, sdegno, sete di vendetta –, Loki non si mosse mentre Odino si ergeva davanti a lui avvolto nell’armatura scintillante, lo scettro di Asgard in pugno e l’elmo a incorniciargli il volto in una maschera intimidatoria.
«All-Father» lo salutò il semidio, senza alcuna inflessione nella voce. Bastavano gli occhi, occhi di fuoco che indagarono con cura la figura del sovrano di Asgard. Sembrava più vecchio, più stanco, piegato sullo scettro come per sostenersi. «Che cosa ti porta qui?»
Odino affisse lo sguardo su di lui con l’avidità di un affamato, lo stesso desiderio disperato che aveva già scorto negli occhi di Thor, stemperato però da una consapevolezza che il Dio del Tuono, invece, si ostinava a ignorare: Loki non sarebbe mai tornato come prima.
«Loki» lo chiamò. Non aggiunse altro per un momento interminabile, come se stesse assaporando quel nome che non aveva avuto la possibilità di pronunciare per tanto, troppo tempo. «Ero certo che si trattasse di te».
Il semidio non rispose subito, reso dubbioso dall’assenza di ostilità nella voce dell’All-Father.
Alla fine, pur non osando abbassare la guardia, intrecciò le mani dietro la schiena e gli lanciò un’occhiata grave e sprezzante insieme. «Non sei felice, Odino?»
Quasi sputò il suo nome di battesimo, quando una volta l’avrebbe chiamato padre. Un sorriso di feroce compiacimento gli deformò la bocca al vederlo tendersi e curvarsi ancora di più sullo scettro, come se fosse stato frustato.
«A tuo tempo, mi portasti via da Jotunheim per fare di me il ponte tra i due regni» riprese con grande calma. Provava una strana sensazione di leggerezza nel rievocare quell’argomento, dacché ne aveva parlato con Stark. Non avrebbe mai perdonato l’accaduto, né tantomeno il confronto con l’umano l’aveva consolato: piuttosto, aveva imparato come trarre vantaggio anche da quella parte così dolorosa del suo passato. «Tu stesso dicesti a me e Thor che eravamo nati per essere re. Guardami, All-Father. Alla fine sono diventato re».
Allargò le braccia per mostrarsi in tutto il proprio splendore, la pelle blu e gli occhi rossi e i capelli neri e i denti candidi, e per una volta non pensò di essere orribile.
Per la prima volta, di fronte a Odino, pensò di essere davvero un re.
Un re legittimo, a cui l’All-Father non poteva strappare l’autorità.
«Ma dimmi, per quale motivo hai varcato i confini del mio regno?» aggiunse, l’espressione che si induriva, le dita che pizzicavano nel concentrare la magia nei polpastrelli.
«Ho saputo della guerra, Loki» rispose Odino, senza neppure menzionare la sua fuga dalle prigioni di Asgard. Il semidio inarcò le sopracciglia, ma tacque e ascoltò. «Ho saputo che vi prenderai parte».
Loki non aveva bisogno di sentire altro, aveva vissuto abbastanza con l’All-Father per intuire dove volesse andare a parare e lo interruppe in tono brusco: «Lo farò, e lo farò al fianco degli jotun. Non osare intervenire con l’esercito di Asgard, All-Father, non ne hai alcun diritto. Questa è la mia guerra, non la tua».
«I giganti di ghiaccio non sono affidabili, Loki» ribatté Odino, aggrottando la fronte in quell’espressione che il semidio conosceva bene, quell’espressione che l’All-Father aveva assunto sempre e soltanto con lui, perché Thor era perfetto e non lo deludeva mai, non come l’altro figlio. «Se hanno accettato di seguirti è solo a causa della loro brama di sangue, mentre i guerrieri di Asgard-».
«I guerrieri di Asgard» sibilò Loki «non sono meno assetati di sangue degli jotun, dovresti saperlo. Quante persone ha ucciso Thor per ottenere la gloria? Quante ne hai uccise tu stesso? Io andrò in guerra con il mio popolo, e il mio popolo è quello di Jotunheim».
L’ultima affermazione fu come una staffilata che fece apparire Odino come un vecchio esausto, spogliato di ogni energia. Il semidio non era sicuro di essere compiaciuto o disgustato.
Era evidente che l’All-Father non era d’accordo con lui, ma, stranamente, anziché discutere ancora si strinse nelle spalle e chinò il capo in segno di resa. «Come vuoi, dunque. Non interverrò e nessun asgardiano si metterà sul tuo cammino. L’unico per cui non posso garantire è Thor: i midgardiani, dopotutto, sono sotto la sua protezione».
Loki sbuffò sonoramente. «Che Thor faccia come vuole. Ma sappi che, se vedrò anche solo un altro asgardiano sul suolo di Midgard, i chitauri non saranno gli unici con cui considererò Jotunheim in guerra. Ora, se non hai altro da dire, vattene».
Odino non si mosse per un lungo momento, come se fosse incerto tra l’aggiungere qualcos’altro e il tacere, ma lui non era Thor, da tempo si era fatto una ragione di quello che era accaduto, perciò alla fine afferrò lo scettro con entrambe le mani e ne picchiò l’estremità inferiore al suolo.
Le sue ultime parole parvero rimanere sospese nell’aria anche dopo che se n’era andato. «Spero che le responsabilità di un re ti rendano saggio, figlio mio».
Il semidio fissò il punto in cui l’All-Father si trovava solo pochi secondi prima e le sue mani, strette a pugno, le dita dolorosamente affondate nei palmi, si aprirono con lentezza.
Odino aveva accettato la sua sovranità e la sua presa di posizione.
Rilasciò tutta l’aria che non si era reso conto di aver trattenuto nei polmoni e, a un suo gesto, le porte della torre si spalancarono. Quando Skurt si fece avanti per rispondere al suo appello silenzioso, scoprì un sorriso trionfante e minaccioso sulle sue labbra color notte. Il sorriso di chi sia perfettamente consapevole della propria identità, del proprio posto nell’universo.
«Dove sono le insegne del re, capitano Skurt?»
 
 
Quando anche l’ultimo scorcio di Loki gli sfuggì come sabbia tra le dita, Tony osservò la sedia rimasta vuota per un attimo, poi atteggiò il volto alla sua miglior espressione incredula e irritata e si affrettò fuori dalla cella con il tablet sottobraccio.
Come prevedeva, proprio oltre la soglia s’imbatté in Fury e, gesticolando nervosamente verso la prigione, sbottò: «Ehi, Monocolo, ti consiglierei di rivedere il sistema di sicurezza di quell’affare, perché Loki è appena scappato senza nessun problema, il figlio di puttana…»
Non aveva neppure terminato di formulare l’insulto che Nicholas, le labbra strette, una vena pulsante sulla tempia, lo scostò poco cerimoniosamente e lo oltrepassò per controllare di persona.
Tony lo aspettò a braccia conserte, pronto a rinnovare le proprie critiche, ma, quando il direttore riemerse dalla semioscurità della cella, teso e furioso, la battuta gli morì in gola di fronte all’occhiata che gli lanciò.
Traditore, diceva quell’occhio, proprio mentre la voce decisa di Fury esclamava: «Arrestatelo».
Oh, merda.
Tony spalancò gli occhi, incredulo, quando alle sue spalle apparvero due energumeni in uniforme che gli assicurarono un paio di manette ai polsi – non robuste come quelle che avevano trattenuto Loki, ma dure a sufficienza per immobilizzare lui. «Ehi, ehi, ehi» obiettò, sdegnato, nel tono più calmo che gli riuscì di trovare. «Che storia è questa? Perché arresti me?»
Uno dei due agenti gli strappò il tablet e lo consegnò a Nicholas, che gli scoccò a malapena uno sguardo prima di restituire la propria completa attenzione al prigioniero. «Il più pericoloso criminale intergalattico che la Terra abbia mai affrontato ti ha salvato la vita, Stark, all’apparenza senza alcun motivo, stando a quanto tu stesso hai affermato. Lo stesso criminale pretende di avere degli interrogatori privati solo con te e, guarda caso, durante uno di questi interrogatori riesce a scappare». Fece una pausa e ammiccò all’espressione consapevole che ridipinse i tratti di Tony. «Vedo che capisci dove voglio arrivare».
Era assurdo. Fino a quel momento si era premurato di non lasciar trapelare nulla sul suo coinvolgimento con Loki, senza accorgersi che ogni suo sforzo non aveva fatto altro che condurre sulla medesima strada.
«Se mi sto sbagliando,» proseguì il direttore «se c’è un’altra spiegazione, sei libero di darmela. Ti ascolterò».
Fu allora che lo trafisse con un’occhiata che significava sei un eroe e mi fido di te, questa è la tua ultima possibilità, e Tony lo guardò e di colpo seppe che non avrebbe ribattuto.
Lo seppe nel momento in cui Nicholas si rifiutò di ammettere ad alta voce che non avrebbe voluto sbatterlo in cella come un criminale qualsiasi, perché aveva e aveva sempre avuto fiducia in lui e nel Progetto Avengers; lo seppe nel momento in cui all’improvviso si trovò privo d’inventiva, spogliato di ogni desiderio di ribellione, vuoto.
«Non ho un’altra spiegazione».
Non abbassò gli occhi, fronteggiò l’espressione del direttore e soggiunse: «È vero, sono stato io a lasciare libero Loki, ma l’ho fatto per un motivo valido: lui tornerà, Fury, e se io non mi fossi fidato di lui non avremmo uno straccio di possibilità. Loro sono troppi, lo sai».
Ingoiò la bile che minacciava di invadergli la bocca al ricordo: file e file senza fine di chitauri che impedivano di distinguere l’orizzonte e, in prima linea, Osborn, Doom e quelli che Loki aveva chiamato Amora e Thanos.
Tanti. Sono un’infinità, cazzo, non tanti.
Quanta gente sarebbe morta per tentare di fermarli?
Oltre agli Avengers, sarebbero scesi in battaglia anche gli agenti dello S.H.I.E.L.D., ma pochi di loro avevano qualche probabilità di sopravvivenza: erano soltanto umani e non potevano neppure vantare un’armatura come quella di Tony – e questa volta il conflitto era troppo serio perché gli Avengers potessero preoccuparsi sia di combattere che di difenderli.
Quanta gente sarebbe rimasta, al tramonto?
«Loki tornerà, ma dobbiamo dargli un po’ di tempo. Va’ nel mio laboratorio e chiedi a Jarvis del Progetto Winx. Sono armi e, se ho fatto bene i calcoli, dovrebbero respingere la magia». Gli elencò in fretta una lista di codici per accedere ai documenti cifrati; Fury li annotò sul suo stesso tablet dopo un secondo di incertezza. «Fidati di me, Fury, non sono così idiota da aiutare il Dio dell’Inganno se non per una buona causa».
«Ti darò una possibilità, Stark, ma solo perché non ti ho ancora ricambiato il favore per quella volta che hai impedito a un missile di schiantarsi su Manhattan» ribatté Nicholas, asciutto. «Ma giuro che se stai mentendo o Loki ti ha fatto un fottuto incantesimo, ti ammazzo con le mie mani».
Tony avrebbe voluto opporsi quando il direttore fece cenno ai due agenti di portarlo via, avrebbe voluto indossare l’armatura e unirsi agli altri dove avrebbe dovuto essere, sul campo di battaglia, al fianco di quelli che aveva imparato a considerare compagni.
Il Tony Stark di due anni prima avrebbe strepitato e battuto i piedi come un bambino, armandosi della propria ricchezza, finché qualcuno non l’avesse accontentato.
Il Tony Stark dell’anno precedente avrebbe ricordato a tutti di aver salvato il mondo e di meritare di avere voce in capitolo.
Il Tony Stark di adesso, con il peso della fiducia mercanteggiata con il Dio dell’Inganno e delle Menzogne sulle spalle e la consapevolezza che forse quella sera non avrebbe rivisto molti dei suoi amici, si limitò a occhieggiare il taser di uno degli agenti e a commentare: «Ehi, gorilla, ti seguo, non c’è bisogno di minacciarmi».
Posso, Stark”.
Seduto su una delle due sedie che circondavano il tavolo presente nella sua cella – il riflesso allo specchio del momento successivo alla scomparsa di Loki – Tony tamburellò le dita sul legno e si augurò che qualcuno avesse la buona volontà di portargli una telecamera o un qualsiasi mezzo per seguire lo scontro.
Poi si augurò che nessuno lo facesse, perché starsene seduto a guardare i suoi amici morire l’avrebbe fatto impazzire, e per passare il tempo inventò modi sempre più creativi di prendere a calci in culo i nemici.
Spero davvero che tu possa, Loki, altrimenti siamo proprio fottuti.
 
 
«Capitano,» chiamò Hawkeye attraverso la ricetrasmittente, la voce relativamente calma, per quello che permettevano le circostanze «questi figli di puttana non finiscono mai».
Steve scrutò la distesa di chitauri che si parava di fronte a loro, alle spalle dei quattro comandanti in prima linea, e aggrottò la fronte, domandandosi che cosa vedesse Clint con i suoi occhi straordinari. «Sei preoccupato, agente Barton?»
Dal compagno provenne un crepitio che Steve interpretò come uno sbuffo sonoro. «Brulicano come formiche, sarà uno scherzo abbatterli».
Un leggero sorriso gli deturpò il viso, cancellato quasi subito dalla voce seria di Natasha: «Dov’è Stark?»
Steve voltò la testa a destra e a sinistra, i suoi occhi scivolarono sui compagni che lo affiancavano, a destra Natasha e Bruce, a sinistra Clint e Thor, scivolarono sulle loro espressioni concentrate, fredde, distaccate da tutto ciò che non era la battaglia imminente, scivolarono sulla forza con cui stringevano le armi – o i pugni, nel caso di Banner – tanto che le nocche erano sbiancate.
Era diverso dalla guerra che avevano affrontato l’anno precedente, quando Clint e Natasha erano solo due spie, Bruce e Tony erano più esperti di raggi gamma e fisica e altri argomenti complicati che di strategia militare e Thor tentennava di fronte a suo fratello.
Ora avevano alle spalle l’esperienza di quello scontro e nessuno doveva trattenersi perché il nemico aveva dei legami con loro.
Con la coda dell’occhio, Steve intravvide Thor digrignare i denti ed estrarre Mjolnir dalla cintura.
Oggi erano pronti.
Prima che potesse cercare una risposta per il quesito posto da Natasha, dall’altra parte del campo di battaglia Thanos si fece avanti a grandi passi e si fermò in mezzo ai due eserciti – sempre che un manipolo di agenti dello S.H.I.E.L.D. rientrasse nella categoria esercito, sospirò tra sé Steve –, sollevando le braccia per attirare l’attenzione.
Era un mostro dalla stazza enorme, alto quanto Thor e forse persino più robusto, vestito di una lunga tunica nera con il cappuccio calato sulla testa. Solo le mani, enormi mani rossastre, e la mascella sporgente, squadrata, sfuggivano al nascondiglio offerto dal tessuto scuro.
«Umani».
Fino ad allora non aveva mai parlato; nel momento in cui aprì bocca e la voce si levò sopra il clamore delle due armate, quell’unica parola ebbe il potere di scuotere la terra e investire le prime linee dell’esercito terrestre di una folata d’aria gelida, carica di morte, distruzione ed elettricità, come nell’istante subito precedente allo schianto del fulmine.
Steve impallidì: persino lui, un semplice essere umano che ancora faticava a credere alla magia, percepiva distintamente la potenza di quell’entità.
Intorno a lui, i suoi compagni erano confusi e smarriti quanto lui dinanzi a quella dimostrazione di forza; Thanos scoprì la dentatura in un ibrido tra un ringhio ferino e un sorriso soddisfatto e riprese: «Sapete già quale sarà il vostro destino, se combatterete: la morte. Io vi offro un’ultima occasione: arrendetevi a noi, piegatevi alla volontà della Cabala, e sarete salvi. Queste sono le mie condizioni».
Poi tacque e il suo sguardo bluastro sondò la prima linea, in cerca di colui o colei che si sarebbe presentato come comandante degli esseri umani. Quando quegli occhi innaturali si soffermarono su di lui – non più di un secondo – Steve gli lanciò un’occhiata gravida di disprezzo ed ebbe l’impressione che il sorriso spietato del titano si allargasse.
«Capitano Rogers» fu la voce mite di Bruce a distogliere la sua attenzione dal nemico. Bastò una rapida occhiata all’intorno perché Steve realizzasse che tutti lo stavano guardando. «Vada».
Si limitò a un brusco cenno soldatesco e ruppe le righe per fermarsi a pochi passi da Thanos.
Non parlò subito, né il titano lo esortò a farlo: trascorsero la prima manciata di momenti a studiarsi in silenzio, a valutare ognuno le armi e la potenza dell’altro, a chiedersi chi dei due avrebbe avuto i riflessi migliori, chi dei due sarebbe stato il primo a mettere a segno un colpo.
Steve serrò con decisione le dita sul manico dello scudo, fletté le ginocchia in posizione di difesa e lasciò fluttuare le dita sopra l’arma che portava alla cintura.
Scoccò uno sguardo, bruciante quanto una lama arroventata, sui tre alleati di Thanos – il titano li aveva presentati come “la Cabala” –, poi incrociò ancora una volontà gli occhi di quest’ultimo e non abbassò i propri nemmeno per un attimo mentre replicava con fermezza: «Condizioni respinte».
Fu allora che si scatenò il caos.
Le occhiate affilate che stava scambiando con Thanos assunsero una sfumatura spaesata che a poco a poco divenne sorpresa.
Alle rispettive spalle, nessuno dei due eserciti si muoveva, eppure stava succedendo qualcosa.
D’un tratto le fila di chitauri si spezzarono e un corpo finì ai piedi di Amora e Doom. Thanos si voltò di scatto e Steve si sporse per vedere dietro di lui, ma non riuscì a credere a quello che registrò la sua mente.
Ormai senza vita, davanti a lui c’era la carcassa di quello che, dopo aver letto il fascicolo su Asgard, Steve riconobbe quasi subito come un gigante di ghiaccio, uno jotun.
Fissò affascinato quella figura aliena ricoperta di ferite finché Thanos non si girò di nuovo verso di lui, ringhiante, la furia che esplodeva in lui, attorno a lui, con il ruggito roboante del tuono. Steve comprese quello che il titano stava pensando – avevano organizzato un attacco a sorpresa – e si affrettò a sollevare lo scudo, che scricchiolò quando il pugno possente di Thanos vi si abbatté sopra.
«Attaccate!» latrò nella ricetrasmittente, prima che il clangore della battaglia che si stava scatenando nelle ultime file dello schieramento di chitauri soffocasse tutto il resto. «Adesso!»
Qualcuno era giunto in loro soccorso.
Qualcuno alla guida di un esercito di giganti di ghiaccio.
«Rogers?»
Steve si allontanò dall’avversario con una capriola e grugnì nel microfono: «Sì, direttore?»
«È in arrivo un camion con delle armi. Stark dice che respingono la magia». Una pausa, non più lunga di un istante, ma a Steve parve durare settant’anni – e lui sapeva bene quale breve intervallo di tempo potessero sembrare. «È già cominciata?»
Al di là della sua stessa comprensione, Steve si ritrovò a sorridere mentre si scostava per evitare la mole del titano. «Sì, signore. È cominciata».
Per la prima volta, però, pensava che avessero una possibilità.

  
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