Capitolo
I
La
Maturità di Calibano
Chi ti vuole bene conosce quattro
cose di te:
il dolore dietro al tuo sorriso, l’amore
dietro alla tua rabbia,
le ragioni del tuo silenzio… E dove soffri il
solletico.
Penauts
// Snoopy
Maturità.
C’era stato un tempo, non troppi
anni addietro, in cui aveva attribuito alla parola maturità il significato di
terrore, abbinandola quasi
meccanicamente alla parola “classica”. Quando poi, il fatidico quinto anno del
liceo era passato senza intoppi se non un’eccezionale perdita di peso nella
settimana degli esami, aveva sempre cercato di tirarla fuori in ogni discorso.
Lei, che aveva conseguito la
maturità classica, era ormai una persona matura.
E, come tale, aveva condotto gli
anni all’università, laureandosi nei tempi prestabiliti, cercando di dare
sempre il massimo come ci si aspettava che una persona matura e adulta come lei facesse. E sempre da persona matura aveva
accettato di buon grado di non poter avere il lavoro per cui aveva sfacchinato
giorno e notte sui libri per anni a causa della crisi; aveva ringraziato di
avere venticinque anni e un lavoro come traduttrice che le permetteva, alle
soglie del suo compleanno, di poter vivere in un appartamento relativamente
lontano dalla famiglia e ancor più relativamente in pace.
Per questo, quando si sentì
rivolgere per l’ennesima volta quell’accusa, le venne naturale storcere il
naso.
“Sei immatura”
Adorava il suo migliore amico,
anche se certe volte gli avrebbe
volentieri tirato una scarpa in testa.
“E la cosa peggiore è che sai di
essere immatura e non ti importa un cavolo”.
Una di quelle con tanto di tacchi
spropositatamente alti e le borchie, giusto per essere chiari.
“Stai lì, a piangerti addosso
come le ragazzine lagnose”.
Chissà se uccidere qualcuno con
una scarpa era punibile dalla legge o sarebbe riuscita ad uscirne indenne
mostrando le sue doti seduttive magari camminando sull’arma del delitto davanti
alla giuria. Possibilmente senza cadere o rischiare di rompersi una caviglia…
“Lucy, Lucy, cosa devo fare con
te? Ricordi il buon proposito di quest’anno? ‘Essere coraggiosa’ avevi detto. Invece
ti stai comportando come una bambinetta che resta attaccata alle gonne della
mamma per paura… di cosa?”
“Io non ho paura”.
Replicare al resto avrebbe
significato ammettere che aveva dimenticato deliberatamente il suo buon
proposito per quell’anno che ormai volgeva al termine e che effettivamente si
stava comportando in modo sciocco e infantile. Avrebbe preferito amputarsi un
braccio piuttosto che dargli ragione.
“Lucy” la chiamò gentilmente,
sorridendole in modo rassicurante.
Si sarebbe gettata volentieri addosso
al petto del ragazzo, scolpito dagli anni di pesi in palestra combinata a
quelli di danza, ma si trattenne cercando di ricacciare indietro le lacrime che
rischiavano di bagnarle le guance da un momento all’altro.
“Lollo, sto bene. È solo un
momento, passerà.”
Passerà.
Se l’era ripetuto troppe volte
anche se alla fine non era mai passato.
Lui se ne sarebbe andato e l’avrebbe lasciata a
sprofondare nel suo più grande incubo: una vita da sola.
Una vita in cui lui sarebbe stato felice senza di lei,
più sereno e spensierato e dove non avrebbe sofferto di emicranie per il suo
continuo chiacchiericcio.
Lollo le credé o per lo meno
finse di farlo, annuì e le sfiorò con le dita la spalla in una carezza
rassicurante che le fece venir voglia di gettarsi al suo collo e di sfogare il
pianto a stento trattenuto.
“Come vuoi tu. Io faccio un
centrifugato di sedano, carote e pompelmo rosa. Ne vuoi un po’?”
“Preferisco morire di sete che
bere un’altra volta una delle tue schifezze e stare poi male per giorni e
giorni.”
“Esagerata. Solo perché quella
volta non ho fatto caso ad un numeretto!” si giustificò roteando gli occhi al
soffitto.
“La ricetta diceva tre gocce di
tabasco. Tu ne hai messe trenta.”
“Capirai, quante storie per due
gocce in più. Era un concentrato di cetriolo solo un po’ più saporito, senza
contare che il piccante è un potente afrodisiaco.”
“Sì, quando non rischia di farti
secco o di lasciarti con il sedere rosso come quello di un babbuino per una
settimana…”
Ricordava la sgradevole
sensazione di non riuscire più a mettersi seduta e le risate sguaiate di
Lorenzo, abituato da sempre al piccante, che la guardava come se fosse
veramente un animale da circo. Ci mancava solo che le tirasse le banane...
“Se ti consola, non camminavi in
modo diverso rispetto a quando indossi un perizoma.”
Lo strillo indignato che fece
probabilmente gli comunicò che no, la cosa non la consolava affatto. Anzi, ben
lungi dal rassicurarla, le fece venire ulteriori paturnie.
“Pensi che anche gli altri si
accorgano di quando ne indosso uno?”
“Se per altri intendi lui, no. È più cieco di una talpa quando
si tratta di certe cose.”
“O quando si tratta di me…”
Capì di aver fatto centro quando
lui non replicò nulla ma le diede le spalle per inserire i pezzetti di sedano
nella centrifuga e ottenerne il succo.
Lorenzo era così: la persona
migliore che conoscesse, però non sapeva dare brutte notizie. Si era laureato
dopo di lei pur di non dover affrontare le bocciature agli esami, e quelli che
aveva dato, nel corso della sua carriera universitaria, aveva finito a
superarli quasi sempre per il rotto della cuffia. Tranne quello di linguistica
italiana e pochi altri, quando lei gli aveva fatto una testa così che, per
disperazione, doveva aver immagazzinato tutto fino a prendere un trenta,
facendo rimanere tutti stupefatti.
“Bea?” la stava guardando con il
bicchiere pieno di un liquido dalla dubbia commestibilità in mano. Doveva
averla già chiamata e dal tono si disse che probabilmente l’aveva fatto più di
una volta.
“Mi sono incantata un attimo. Che
c’è?”
La risata che gli gorgogliò in
gola era calda come le sue mani che le sere di tristezza l’abbracciavano
accogliendola nel suo letto per non farle soffrire la solitudine del proprio.
“Se non ti ‘incantassi un attimo’
non saresti Beatrice, credimi, e se non ti irritassi e offendessi per ogni
minima sciocchezza, proprio come stai facendo ora, non ti saresti guadagnata il
soprannome di ‘Lucy’”.
“Sì, però il mio Schroeder non è
innamorato del suo pianoforte, ma di una ragazza in carne ed ossa e con tanto
di capelli rossi. E poi non capisco perché chiami me Lucy quando sei tu che
dispensi consigli spesso non richiesti…”
“Non è ovvio? Perché tu sei
bisbetica e antipatica proprio come Lucille van Pelt! E ora capisco la tua
mania di voler accentuare i riflessi rossicci che hai ai capelli. Non è voglia
di piacerti, ma voglia di vincere! Se le cose stanno così, approvo in pieno!”
Si sarebbe aspettata di tutto da
Lorenzo, eccetto questo. Come amico avrebbe dovuto dirle che era una stupida
perché tentava di rivaleggiare a causa di un ragazzo come le ochette del liceo
che aveva sempre sbeffeggiato con crudeltà, ed era finita a comportarsi proprio
come loro, se non peggio.
Come ragazzo avrebbe dovuto
ammonirla su come si sarebbe resa ridicola ai suoi occhi, mettendosi in mostra cercando di combattere una
battaglia in una guerra che era già persa in partenza.
Infine, come uomo, avrebbe dovuto
metterla in guarda dall’idea che, sempre lui,
si sarebbe fatto di lei vedendola giocare le sue carte in modo così disperato e
affannoso.
Come disperati e affannosi erano stati i suoi
respiri ogni volta che c’era lui nei paraggi, che le si avvicinava troppo
stordendola con il profumo aromatico della sua pelle calda.
Invece, non le disse niente di
tutto ciò. Scrollò le spalle, scosse il capo e mosse il braccio come a
scacciare una mosca e il risultato che ne uscì fuori fu la parodia di uno
strano tic.
“Io ovviamente sono Snoopy. Ha
classe ed è più famoso di Linus, Lucy e compagnia bella. E poi, come lui,
capisco al volo sempre tutto.”
Evidentemente doveva esserci un
fondo di verità in tutto ciò, si disse Beatrice. Altrimenti non si sarebbe
alzato dal divanetto per sparire in camera, evitando così di prendere in testa
la famosa scarpa col tacco.
Avrebbero dovuto chiarirsi, pensò
con amarezza, mentre infilava la chiave di casa nella serratura difettosa del
vecchio portone d’ingresso del palazzo, in cui abitava da quasi quattro anni.
Il portachiavi a ciondolo dei
Findus, quello con Carletto, tintinnò, facendolo sorridere. Glielo aveva
regalato Beatrice dicendo che lui non poteva non portare con sé il suo omonimo,
unendo in una botta sola, in una parodia di un matrimonio, due finti
addormentati e due finti magri: lui e la famosa mascotte dei Sofficini. Lei,
ovviamente, aveva fatto la parte del prete.
“Toh, chi si vede. È tornato il
grande attore!” lo accolse con un tono ironico Lorenzo non appena varcò la
porta di casa.
“Charlie! Sei a casa!”
Beatrice era seduta sul divano e lo
guardava stupita, le gambe allungate sui cuscini e i piedi fasciati in ridicoli
calzettoni a fiorellini rosa. Doveva sicuramente sentire freddo, con solo
addosso una maglietta a mezze maniche e dei pantacollant; tuttavia se anche
fosse così, sembrava indifferente o troppo presa dai suoi pensieri per
accorgersi della temperatura. Non che questa fosse tanto bassa, ma per lei,
abituata a stare con le felpe fino a primavera inoltrata e a girare per casa
con addosso una coperta di pile, essere a ottobre così scoperta doveva significare
sfidare il gelo Polare.
“Non senti freddo?” le chiese,
ignorando la sua esclamazione sorpresa e vedendola rabbrividire alla sua
domanda. Ora che lui le aveva fatto notare quanta pelle scoperta avesse,
sarebbe congelata in meno di un minuto.
Si sfilò la felpa con un
movimento deciso e, prima di rendersi conto delle proprie azioni, già gliela
aveva poggiata sulle spalle.
“Grazie.”
Non lo guardava. Brutto segno.
“Vado a farmi una doccia, sono
sfinito.”
Sarebbe stato da sciocchi
continuare a farsi del male. Magari una doccia calda l’avrebbe aiutato a
prendere di petto l’intera situazione e a comportarsi da uomo.
“Troppo stress tornare a casa o è
una reazione al troppo sesso?”
“Lorenzo!” Strillò indignata Bea.
“Beatrice. Charlie.” Chinò la
testa verso di lui in un inchino strafottente e derisorio. “Ora che ci siamo
presentati è cambiato qualcosa? Tanto per sapere, non è che ci chiederai di
stenderti il tappeto rosso ogni volta che torni, eh? E magari fingerai di non
conoscerci, eh Charlie?” sibilò furioso Lorenzo uscendo di casa e sbattendosi
dietro la porta.
Lui rimase immobile, a sentire
l’eco dei passi attenuarsi man mano che l’amico scendeva i gradini, finché non
risuonò il suono secco del portone d’ingresso che veniva chiuso con forza.
Beatrice lo stava fissando, la
coda sfatta e gli occhi marroni spalancati.
“Direi che non ha preso molto
bene il mio trasferimento” le mormorò Charlie e la vide annuire
impercettibilmente, prima di voltarsi per andare finalmente a rilassarsi sotto
la tanto agognata doccia bollente.
Aveva fatto domanda senza pensare
che avrebbero davvero potuto accettarlo a quella tanto prestigiosa scuola di recitazione e aveva accolto la notizia della sua ammissione troppo incredulo per
condividerla con qualcuno.
Era nato tutto così, dalla
perplessità che fosse tutto vero e non solo un sogno. Poi per forza di cose
l’aveva detto a Georgina, la sua fidanzata e lei, chissà come, se l’era fatto
scappare con la cassiera del supermercato che, guarda caso, aveva spifferato
tutto alla madre di Lorenzo o a Lorenzo stesso - ancora non aveva ben chiaro
quel passaggio - che si era tenuto tutto per sé lasciando all’oscuro Beatrice con
l’intento più che evidente di far fare tutto il lavoro sporco a lui. Charlie
avrebbe voluto che lei, che l’aveva sempre supportato a fare domanda, fosse
stata la prima a saperlo, avrebbe voluto vedere la gioia e l’orgoglio nei suoi
occhi, invece da giorni ci leggeva delusione e tristezza.
Lui l’aveva delusa e vivere con
quel peso sullo stomaco si stava rivelando davvero troppo pesante.
Alla fine, anche lei doveva
essere venuta a sapere della novità da qualcuno; Lorenzo gli aveva assicurato
di non averle né detto né lasciato intendere nulla, fatto sta che quando lui però
le aveva scritto un sms, troppo codardo per comunicarle di persona la novità,
lei si era mostrata contenta ed esuberante. Esageratamente, tanto che lui,
conoscendola meglio delle proprie tasche, non aveva impiegato molto tempo a
capire il perché.
Era delusa. Forse di non essere
stata la prima a saperlo o forse di averlo saputo tramite un impersonale
messaggio; in quella decina di giorni in cui la notizia si era diffusa a
macchia d’olio l’aveva vista così diversa che era arrivato ad uscire ancor
prima del solito la mattina e tornare il più tardi possibile a casa, sfruttando
alcune notti l’appartamento di Giorgina, pur non dover affrontare i silenzi che
fino a poco prima erano riempiti dal cicaleccio di Beatrice.
Uscì dal box pensando alle parole
da dire e si ritrovò poco dopo vestito a fissarsi allo specchio, ancora in
cerca dell’ispirazione. Era un pessimo oratore, non sarebbe mai stato il Marco
Antonio della situazione. Era lei che, se si gettava anima e corpo in una
causa, era la vera attrice, capace di risplendere anche in silenzio. Le bastava
un palco e un ruolo e smetteva di essere la sua Bea: diventava una Lady
Macbeth, una Medea, una Giulietta, persino un magnifico Shylock e un
mirabolante Calibano, la parte che lui l’aveva vista provare più volte e quella
che portava fuori una Beatrice diversa da tutte le altre. Era il personaggio per
il quale era costretta a giocare col dolore, affrontandolo e accogliendolo in
sé, in quella parte maledetta che le si era appiccicata addosso e alla quale,
volente o nolente, si era ritrovata a dare voce sul palco del teatro, prima di
mettere da parte i sogni per anteporre la vita vera fatta di bollette da
pagare, di un lavoro precario e di un futuro da costruire.
Sicurezza, certezza,
consapevolezza. Grazie a lei, lui era riuscito a dare un calcio a tutte quelle
parole astratte e aveva deciso di inseguire il suo sogno prima che fosse troppo
tardi. Prima di arrendersi anche lui al suo Calibano.
Il faretto sopra lo specchio
evidenziava le occhiaie nere sotto gli occhi e il viso leggermente più scarno
rispetto ai giorni precedenti.
Così non andava, si ripeté
Charlie mentre apriva la porta ed usciva dal bagno.
Dovevano assolutamente chiarirsi.
Lollo aveva ragione, ammise tra
sé e sé Beatrice. E quando aveva deciso di chiamarla Lucy probabilmente aveva
avuto un’illuminazione, perché lei era davvero antipatica e scorbutica e si
pentì subito per come doveva essere apparsa agli occhi infossati di Charlie,
scavati dall’insonnia e dalle preoccupazioni: una ragazzina che decideva di
voler giocare a fare l’adulta ma, nel momento di dimostrare la sua effettiva
maturità, si era messa a fare i capricci perché non poteva avere quello che
voleva.
Che poi, aveva nuovamente ragione
Lollo: che cosa voleva?
Se l’avesse saputo, se avesse
avuto un Godot da aspettare, un obiettivo da raggiungere, una meta per cui
combattere, sarebbe stato tutto mille volte più facile.
Aveva studiato Lingue certa che
sarebbe diventata una professoressa di Inglese tuttavia la crisi e il taglio ai
fondi del sistema scolastico l’avevano obbligata a ripiegare come traduttrice per
studenti americani e a fare, di tanto in tanto, da interprete a conferenze che
trattavano i temi più disparati: dalla medicina al futuro dei giovani,
dall’economia all’ecologia passando per la meccanica e la letteratura.
Aveva finito per smettere di fare
teatro, un po’ a cause della pigrizia un po’ nel tentativo di risparmiare pur
di non dover chiedere nulla ai genitori, e aveva rinunciato anche ai vari corsi
di dizione e di movimento scenico che tanto aveva elogiato nel corso degli anni
e che aveva frequentato fin dal primo anno di università.
Così si era spenta, rinunciando
all’unica migliore amica femmina che aveva per non doversi più mordere la lingua
di fronte ai maltrattamenti che il fidanzato - un pallone gonfiato che lei
stessa aveva visto poche volte che tuttavia le erano bastate per inquadrarlo -
le riservava, trattandola come una ruota di scorta e dandola ogni volta per
scontata, e rompendo una relazione fatta di alti e bassi con Nick,un ragazzo
americano conosciuto nei primi anni della triennale che aveva continuato a
sentire, costruendo un rapporto altalenante che le aveva provocato un dannoso
bisogno di essere rassicurata su tutto, tanto lui l’aveva annientata.
Perdere Charlie adesso le avrebbe
dato la botta definitiva.
“Bea.”
Il suo nome, sussurrato, la fece
sobbalzare e si accorse di avere davanti il suo amico, uscito dal bagno e con i
capelli ancora umidi per la doccia, che la fissava con uno sguardo penetrante.
“Io… credo che dovremmo parlare”.
Una supplica che suonò alle sue orecchie come una bestemmia.
Parlare di cosa? Del fatto che la
stava abbandonando come aveva promesso, giurato e spergiurato che non avrebbe
mai fatto?
“Parla. Ti sto ascoltando.”
“Bea… per favore. Non è facile.
Parliamo.” Ripeté, passandosi una mano nei capelli e scompigliandoseli con un
gesto esasperato.
“Parla tu. Io non ho niente da
dirti.”
Si stava comportando come una
vera stronza e se Lorenzo non fosse uscito glielo avrebbe sicuramente fatto
notare.
“Bea. Sei la mia migliore amica,
lo sai…”
“Davvero? E dovrei saperlo?
Perché io invece non ne sono certa, Charlie. Con gli amici si condividono gioie
e dolori, ai migliori amici solitamente non si nasconde nulla, figuriamoci se
si arriva a non parlarsi per giorni interi!”
“Sei arrabbiata, lo capisco.
Posso solo dirti che mi dispiace. Tanto.”
“Lo so.” Distaccata, doveva
rimanere impassibile e pensare a cose particolarmente tristi per impedire al
sorriso di nascerle sulle labbra.
Era una cosa spontanea: lui le
faceva gli occhi da cucciolo bastonato e lei non riusciva a impedirsi di
sorridergli.
“E mi dispiace di aver rovinato
la nostra amicizia. Davvero.”
“Lo so.”
Non le avrebbero mai dato la
parte principale in uno spettacolo, sarebbe sempre stata quella con una o due
battutine e nessuno si sarebbe mai ricordato il suo nome.
Non avrebbe più baciato Nick,
assaporato quelle labbra morbide e sentito la sua barba pizzicarle la pelle.
Non avrebbe mai insegnato,
sarebbe stata una precaria a vita, sempre a preoccuparsi di bollette e
a cercare coinquilini con cui dividere le spese.
Maledizione, non stava
funzionando! Non serviva a niente pensare tutte quelle cose, non sarebbe
servito a niente! Le sembrò di vedersi dall’esterno: i capelli spettinati, la
felpa di Charlie sopra ai pantaloni grigi che usava quando stava in casa, gli
occhi lucidi e gonfi dopo giorni e giorni di pianti, Charlie seduto accanto a
lei sul divano e lei con le labbra che si stavano per stirare in un sorriso
solo per lui.
Così arrivò IL pensiero. Quello
che le fece morire il sorriso prima ancora che spuntasse e che illuminasse il
viso stanco del suo amico.
Lui avrebbe baciato un’altra.
Quella sera e tutti i giorni a venire.
NOTE:
Questa storia avrà un
aggiornamento circa ogni 20 giorni: non posso aggiornare di più perché per
me questo è un periodo pieno e perché sto aggiornando anche
l'altra originale, 'All Summer Long'
Grazie alla fantastica Alice che
mantiene sempre le promesse; a Stefania che ha la pazienza di una santa e a
Mimmi, che mi lascia blaterare per ore e si emoziona quando le dedico un
capitolo.