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Autore: SAranel    16/09/2012    8 recensioni
Sherlock e John, in una rara serata tranquilla nel loro appartamento, decidono di guardare i Bafta Awards alla TV. Peccato che la serata non sia destinata a rimanere tranquilla come John sperava. Cosa succederà?
"Cosa dovremo sorbirci, stasera?" sbuffò Sherlock spazientito. "Altri episodi di Doctor Who? Altre interminabili repliche di Top Gear o i tuoi adorati polizieschi?".
John ebbe una mezza idea di fulminare il detective con un'occhiatina glaciale ma abbandonò quasi immediatamente l'intenzione quando Sherlock, deliberatamente e perfettamente conscio della reazione che avrebbe provocato, strofinò il naso contro la pelle morbida del suo collo.
“Per tua informazione” disse, meno autoritario di come si fosse imposto di sembrare. “Stasera ci sono i Bafta. E ho tutta l’intenzione di guardarli fino alla fine”.
Sherlock, che aveva cominciato a lambire con le labbra il percorso dal suo collo al lobo dell’orecchio, si scostò da lui come se avesse appena preso una scossa improvvisa, con uno sguardo atterrito in viso, come se John avesse appena minacciato di infilargli una mano nel tritarifiuti."[...]
Genere: Avventura, Commedia, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: Cross-over, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Buonasera fandom del mio cuore!
Sono consapevole dei secoli passati dall’ultimo capitolo e mi scuso prostrandomi ai vostri piedi! Non accadrà mai più! Un enorme grazie a ognuno di voi!
Sperando, al solito, di non aver fatto troppo male, buona lettura!

S.

 

 

*

 


"Chi siete? Cosa fate qui? Come siete entrati?" Martin li guardò sospettoso, gli occhi che vagavano da Sherlock a John, a turno.

Sherlock esibì uno dei suoi migliori sorrisi sarcastici.

"Strano che lei ponga a noi questa domanda" lo punzecchiò. "Lei è colpevole quanto noi".

Per un secondo, il povero Martin sembrò spiazzato, arrossendo fino alla punta delle orecchie. Guardò il pavimento, non riuscendo a sostenere lo sguardo accusatore di Sherlock.

"Io ho detto... io volevo fare una sorpresa a Benedict, in verità" ammise, strofinandosi i capelli come distrazione dallo sguardo penetrante e indagatore di Sherlock. “Io, insomma…è mio amico! E’ mio diritto!” gridò, come se fosse una giustificazione ovvia e inconfutabile.

Sherlock ridacchiò e John cercò con tutte le forze di imporgli una certa moderazione nel fiume di deduzioni e saccenti arzigogoli che era certamente sul punto di prorompere dalle labbra del detective, e gli si parò davanti, guardando sottecchi Martin sempre più rosso in viso.

“Ascolta, non è il caso…insomma, è comprensibile che il Signor Freeman abbia voluto fare un’improvvisata…” tentò in tutti i modi di placarlo, ma Sherlock non gli diede minimamente retta.
Il detective girò intorno al povero uomo in accappatoio, agitandolo anche più di quanto già non fosse e si portò un dito alle labbra, picchiettandoselo pensosamente. John scosse la testa, conoscendo perfettamente a cosa quel gesto faceva da preludio. Contemplò l’idea di fuggire, lasciandoli soli, frenata solo dalla solidarietà verso il pensiero del povero Martin in balia del suo amante spaventoso. Rimase fermo, immobile.

“La stanza di sua moglie è soltanto ad un piano più in alto, il buon senso suggerirebbe che per una doccia lei avrebbe sicuramente dovuto recarsi lì, come prima scelta” Sherlock gli si avvicinò, scrutandolo ad occhi socchiusi. “Invece lei è venuto qui, da un suo collega, diciamo anche un suo amico per dirla con parole sue. Questo a cosa ci porta?”.

John sospirò, avvicinandosi a Martin e cercando di trasmettergli quanto più appoggio morale possibile attraverso lo sguardo. Gli occhi di Martin vagarono da lui a Sherlock, osservandoli con attenzione nella cupa luce della stanza, con un luccichio consapevole che andava man mano intensificandosi.

“Ci porta a pensare che sia già successo. Che sia per il lui una sorta di routine, un qualcosa che il qui presente Signor Freeman è pienamente consapevole non sconvolgerà il suo amico. Perché è già accaduto? Perché accade…frequentemente?” insinuò e John desiderò di poter sprofondare nel pavimento seduta stante. Tastò il marmo sotto di lui per costatare che ci fosse anche solo una remota possibilità che il desiderio potesse avverarsi. Magari avrebbe trovato il modo di portare anche il povero imbarazzatissimo Martin con lui. Purtroppo, a un primo controllo la fredda pietra sembrò assolutamente stabile. John mugolò.

“Senta, io non so come lei sappia tutto questo, ma…” Martin tentò di giustificarsi, come se il tipo di fronte a lui non si trovasse anche lui in difetto, essendo entrato in quella stanza senza alcun permesso. Era incredibile come Sherlock tendesse a colpevolizzare gli altri quando lui si cacciava in situazioni ben più gravose.
“Ti prego, smettila, lo stai mettendo in imbarazzo…” John cercò di mitigare la foga deduttiva del suo compagno, che però sembrava tutt’altro che intenzionato a mettere fine allo sproloquio.

“Io sono propenso a credere di sì. Insomma John, a parte nella tua carriera militare e la nostra vita insieme quando ti è capitato che un amico venisse nel tuo appartamento e si comportasse come se fosse a casa sua? Oltretutto con la possibilità di poter tranquillamente farlo nella stanza della sua legittima consorte come alternativa?”.

John sobbalzò a sentirsi chiamato in causa. Cercò disperatamente qualcosa di abbastanza intelligente da dire.
“E’ tornato da un viaggio lungo, insomma, poteva…averne bisogno!” disse, ma un lampo negli occhi di Sherlock lo avvisò che avrebbe fatto meglio a rimanere in silenzio.

“Il problema rimane lo stesso, infatti. Sarebbe dovuto correre da lei, anche se il loro ultimo incontro risale a pochissimo tempo fa rispetto all’ultima volta che ha avuto occasione di vedere Benedict, ma rimane il fatto che si parla di sua moglie e di un suo amico. E questo è il punto principale della faccenda. Perché lui è qui?” concluse Sherlock con la voce pomposa e supponente che accompagnava ogni suo brillante discorso. John aveva solo sempre più voglia di abbracciare Martin e portarlo via da quell’interrogatorio.

Martin non rispose, rimanendo per un minuto buono in un silenzio imbarazzato, giocherellando nervosamente con la cintura dell’accappatoio spostando freneticamente lo sguardo da John a Sherlock e viceversa. John poteva quasi vedere gli ingranaggi del suo cervello arrovellarsi alla ricerca di una scappatoia. Poi, improvvisamente, spalancò gli occhi come colto da una rivelazione.

“Dio mio, sì, sì sì!” gridò, improvvisamente. “Siete voi, davvero. Ci stavo pensando, ma…” sussurrò poi, con voce roca, e John poté quasi definirla leggermente emozionata. Si voltò verso Sherlock, ancora con espressione scioccata. “Sapevo che non potevi ricordarmi così tanto lui senza che…Dio, sei…Sherlock” aggiunse ancora. Si voltò verso John con lo stesso identico sguardo. “E tu…Oh mio Dio, carriera militare, John, vita insieme….” balbettò l’uomo, passandosi una mano tra i capelli. “sei tu, proprio tu! John!” quell’ultimo nome fu pronunciato con una nota di riverente orgoglio.

John sorrise, annuendo, felice che Martin avesse trovato un momentaneo diversivo per eludere la conversazione. Il suo entusiasmo però, sembrava totalmente sincero, come se la realizzazione di trovarsi davanti a loro due avesse oscurato tutte le insinuazioni del detective.

“Sì, siamo noi” rispose timidamente il dottore, con un sorriso imbarazzato. “Ci sarebbe piaciuto incontrarti in altre situazioni ma con Sherlock… non si sa mai cosa aspettarsi”. Martin sembrava indeciso tra il mostrarsi ammirato, sconvolto, o ancora terrorizzato dalla domanda in sospeso. Il suo viso era un variopinto cocktail di emozioni contrastanti.

Sherlock sbuffò.
“John, sta palesemente cercando di scavalcare una domanda scomoda. E per quanto anch’io sia felice di conoscerlo sono ancor di più curioso di svelare quest’altarino”.

“Io non sto cercando di eludere niente, Sherlock! Io sono davvero felice di vedervi, di…conoscervi! E…sono venuto qui perché… perché…Benedict è un mio amico, e ho pensato fosse molto deluso ed io volevo…” guardò in basso, abbandonando la cintura e strofinandosi nervosamente le mani. “Beh, non avrebbe molto senso negare qualcosa a te, vero?”.

Sul viso di Sherlock si dipinse un ghignetto soddisfatto.
“Ovviamente no” rispose, supponente.

John gli diede una pacca d’avvertimento sulla spalla.

Martin tirò un sospiro di rassegnazione.

“Ecco, io sono venuto qui dopo aver seguito la diretta” ammise, le guance di un rosso quasi fosforescente nella penombra. “Insomma ero già qui per fare una sorpresa alla mia famiglia ma ho pensato che sarebbe stato un bel pensiero passare da Benedict per…per esprimergli la mia solidarietà”.

Sherlock annuì.

“Ed era necessario essere mezzo nudo per farlo?” insinuò, non riuscendo davvero a stare in silenzio. John gli strinse il polso in una morsa d’acciaio.

“Sherlock, sta zitto” sibilò.

“Ecco io…io pensavo che magari io e lui avremmo potuto…” cominciò, boccheggiando come un pesce fuor d’acqua. “Ragazzi, insomma, lo avete visto. Io non ci posso fare veramente niente”.

“Abbiamo visto cosa?” rincarò Sherlock, che aveva capito benissimo ma che si divertiva a prendere pesantemente in giro il poveretto di fronte a lui. John trovò l’appiglio giusto per una sottile vendetta.

“Sai benissimo cosa Sherlock. Insomma, non fare il finto tonto” John sottolineò tagliente, guadagnandosi un’occhiata glaciale da parte del suo compagno. “Non hai idea dei commenti che sono costretto ad ascoltare quando compare in televisione” si rivolse poi a Martin.

Martin sorrise, conscio di aver trovato una spalla e un complice in John.

Sherlock, dal canto suo, sembrava totalmente sconcertato dalla piega che gli eventi stavano prendendo.

“John, sta zitto” sibilò, cercando di minacciare il dottore col solo ausilio dello sguardo. John, per nulla impaurito, si sentì spronato a dare il meglio di sé.

“Guarda, non fa altro che parlare dei suoi occhi. E’ ossessionato. ‘Guarda lì John, che meraviglia’, ’Guarda lì che bella sfumatura di azzurro assumono quando è accigliato’, ‘Dio John, perché non hai degli occhi così’?”.

Sherlock sembrava scioccato. Le mani erano contratte lungo i fianchi come fosse pietrificato e le labbra paffute erano strette in una linea sottile e corrucciata come se si stesse preparando ad esplodere. Cosa altamente probabile, a guardarlo bene.

“John” disse, seccamente, gli occhi che lanciavano dardi infuocati. “Sei un uomo morto”.

John sembrò cadere dalle nuvole mentre Martin li guardava ancora entrambi, decisamente più sollevato e in fondo abbastanza divertito dall’intera faccenda.

“Ma è la verità, Sherlock. Perché non dovrei dirla? Martin qui ha tutto il diritto di…apprezzare la bellezza esteriore e interiore del suo amico quanto te”.

Sherlock sbuffò, scuotendo la testa.

“John, il punto qui è che lui non ha affatto intenzione di…apprezzare solamente. E’ nudo lì sotto per l’amor del cielo!”.

“Sherlock…”

“Ha chiari intenti…di un certo tipo, John! Vuole consolarlo mediante vie traverse, vuole rinfrancarlo…orizzontalmente”.

Martin mugolò, frustrato.

“Mi accontenterei anche verticalmente” aggiunse, senza nemmeno più preoccuparsi.

Sherlock saltellò sul posto.

“Sentito, John?” Sherlock indicò Martin, battendo le mani. “Lo ha ammesso! E adesso…”.

“Sherlock…”.

“Adesso finalmente…”.

“Sherlock, falla finita o racconterò dettagliatamente a Martin di quella volta che ti sei chiuso venti minuti in bagno con la copia del RadioTimes”.

Il detective raggelò mentre Martin scoppiò a ridere, come se non ci fosse un domani.

“Tu non oseresti”.

“Eccome se oserei”, lo sfidò il dottore, incrociando le braccia. “E oltretutto stiamo perdendo tempo. Tempo che non abbiamo”.

“Che razza di compagno sei, John?” lo rimbrottò Sherlock, con sguardo da amante tradito.

John non fu colto impreparato.

“Uno che ha imparato qualche trucchetto”.

Sherlock alzò gli occhi al cielo.

Martin si schiarì la gola, mettendo fine al battibecco tra i due in modo gentile.

“Ecco, proprio di tempo volevo parlare. A parte farmi prendere uno spavento incredibile, a parte ammettere una cosa che non avrei detto nemmeno al mio miglior confidente, e a parte avermi fatto quasi desiderare di liquefarmi dall’imbarazzo” tossicchiò. “come diamine avete fatto ad entrare qui e soprattutto…perché?”.

Sherlock gettò gli occhi al cielo e poi si guardò intorno, adocchiando di tanto in tanto John con un’espressione che sembrava quasi gridare ‘infido traditore’ ad ogni sguardo, e infine tirò fuori dalla veste la tanto sudata statuetta.

Martin strabuzzò gli occhi.

“Quello è un Bafta?” domandò, nonostante conoscesse benissimo la risposta.

“Esattamente. Dovresti conoscerlo” lo illuminò Sherlock, soppesando l’oggetto con una mano. “Esattamente, il Bafta del Signor Dominic West”.

Martin non riuscì a non gemere dalla sorpresa all’udire quel nome. A bocca aperta, lo guardò sbigottito, come se stesse riflettendo sulla possibilità di aver interpretato male quello che Sherlock aveva appena detto.

“Voi due…siete venuti qui per rubare la statuetta al suo vincitore?” scandì le parole ad alta voce, così che non potessero esserci fraintendimenti. Sherlock annuì, solenne.

“Precisamente”.

“Avete fatto irruzione anche nella sua stanza allora? E poi…siete venuti qui?”.

“Certo che ne fai di domande. Sembri davvero John. Comunque, giusto anche questo”.

“Per portarlo…a Benedict”.

Sherlock sembrò compiaciuto, quella volta, come se Martin gli avesse appena regalato un’impagabile soddisfazione.

“Oh finalmente. Martin ci è arrivato prima di te, John”.

John sbuffò, contrito e Martin invece ridacchiò, superato l’imbarazzo, terribilmente divertito da tutta la situazione.

“Mio Dio, è folle!” ammise con uno strano tono, come se si stesse crucciando sul gioire effettivamente di una cosa abbastanza grave come un furto. “Però, da tutto quello che so di te, una cosa del genere è perfettamente nel tuo personaggio”.

Sherlock rise.

“Oh, quest’uomo è sprecato come spalla, John. Sarebbe stato un fenomenale me, se Benedict non fosse già assolutamente perfetto”.

John emise un versetto sarcastico, incrociando le braccia.

“Oh grazie Sherlock. I tuoi complimenti sono sempre commoventi”.

“Figurati, John” stette al gioco Sherlock con un sorrisetto furbo in viso. “Comunque, il tempo stringe, signori” annunciò poggiando la statuetta sul tavolino di vetro accanto alla finestra.

“Torneranno a momenti” esclamò Martin, improvvisamente teso, realizzando anche lui che ora fosse. “Alla reception hanno detto che le auto sarebbero tornate tra un paio d’ore. Questo quasi due ore fa”.

John si sentì improvvisamente sotto pressione. Guardò l’elegante orologio a parete sopra il grande letto matrimoniale e si trovò a pensare alla calma e la tranquillità del loro appartamento. Anche se però, se fossero rimasti in casa, non avrebbero avuto l’opportunità di incontrare almeno Martin, che a parte l’imbarazzantissima figuraccia iniziale da parte di Sherlock, si stava rivelando entusiasta di loro e della loro missione molto più di quanto si sarebbe aspettato.

Sherlock lo distrasse dai suoi pensieri con un tic tic tic fastidioso e monotono.

Il detective stava tastando incessantemente il davanti della sua divisa, ricordandosi soltanto all’ultimo momento che quella che indossava non era la sua solita giacca.

“Dannazione” sibilò, indispettito. Poi si voltò freneticamente verso i due uomini poco lontani e il luccichio negli occhi del detective inquietò John più del normale. Martin incrociò il suo sguardo con il suo stesso pensiero in mente.

“Ditemi che avete qualcosa con cui scrivere. Un pennarello, un…qualunque cosa. Qui c’è il nome sbagliato” disse, preso da una sorta di folle frenesia.

“Sherlock calmati…” John cercò di placare la furia, guardandosi intorno in cerca di qualunque cosa servisse al detective. “Non importa del nome, Sherlock, è il…il gesto che conta”.

Sherlock rise ironico e prese ad agitarsi sul posto come una marionetta impazzita.

“Sì certo, il pensiero! E’ sempre la stessa questione di principio, John! Non posso dare a Benedict una statuetta con un altro nome! Sembrerebbe un vile furto!”.

Martin ridacchiò.

E’ un vile furto” specificò l’uomo, tentando di non ridere dell’espressione terribilmente seria del detective. Sherlock lo fulminò con lo sguardo.

“La vicinanza di John ti fa male, Martin. Cerca di uscire dal personaggio, qualche volta” ribatté, acido.

Martin arricciò il naso, contrito, e John guardò Sherlock esasperato, quasi leggendo nella mente del povero Martin.

"Sì, lo so cosa stai pensando. Sono un santo. Non chiedermi come io faccia, non lo so nemmeno io".

Sherlock, nel frattempo, prese a rivoltare con foga l'intero contenuto dei cassetti della scrivania.

"Forza, forza, forza" bisbigliò tra sé e sé, osservando oggetti e oggettini atterrare sul materasso dietro di lui. Ad un certo punto poi si fermò, alzando al cielo un cilindro lungo e sottile di colore scuro con un verso soddisfatto e vittorioso. Lo sguardo sul suo viso era quello di un qualunque atleta olimpionico dopo aver vinto dieci medaglie d'oro.

"Oh finalmente!" gridò, esultante. "Doveva essercene uno!".

John mugolò, un verso tra il sollevato e il frustrato. Martin annuì, dandogli una pacca sulla spalla.

"Guarda il lato positivo, John. Avrebbe potuto chiederti di cercargli un orafo per scrivere il nome di Benedict su una placca d'oro. Si è accontentato di un pennarello" cercò di rinfrancarlo. Mentre Sherlock agitava la penna per dargli carica d'inchiostro, John rise alle parole di Martin.

"Oh quanto hai ragione. Vorrei che venissi tu a vivere con me. Sarebbe tutto più facile" esclamò John, grato, sicuro di punzecchiare l'orgoglio dell'indaffarato detective. Sherlock bloccò il pennarello a mezz'aria e fissò gli occhi in quelli di John, con espressione inquietante.

"Oh oh" sussurrò Martin, preoccupato.

"Oh, se Martin prenderà il mio posto, io sarò più che felice di prendere Benedict con me" rispose acido Sherlock, fingendo di essere offeso nel profondo. "Almeno con lui non ci saranno quei problemini... logistici che ci sono con te in certi... momenti".

John spalancò la bocca, scioccato.

"Guarda un po’ chi parla! E' lui il problema! Non so mai dove metterle quelle gambe chilometriche".

Martin rise e annuì.

"Ti capisco, amico".

Sherlock sbuffò.

"Nessuno si è mai lamentato della mia altezza".

"Nemmeno della mia, se è per questo".

"Oh mio Dio, come siamo finiti a parlare di questo?"

"Io non lo so davvero".

"Tu smettila di provocarmi facendo proposte ad estranei" lo minacciò Sherlock, e tornò a occuparsi della statuetta. La tenne con la mano sinistra e prese a scarabocchiare un qualcosa sopra il nome elegantemente inciso, con spessi tratti d'inchiostro nero.

John scosse la testa, decisamente senza nessuna voglia di alimentare ulteriormente quella polemica effimera e senza voler gettare ancora più onta sulla sua ormai perduta dignità davanti a Martin.

"Hai ragione tu, come al solito" chiuse, avvicinandosi a Sherlock alla ricerca di qualcosa da fare per aiutarlo a sbrigare in fretta quella faccenda. Non aveva nessun’intenzione di concludere la nottata alla centrale di Polizia a spiegare i veri motivi di un paio di scassi e del furto di una statuetta. Martin lo seguì e arrivato vicino a Sherlock, si sporse sulla sua spalla per leggere quello che il detective stava scrivendo con tanto sentimento. Sorrise.

"Oh, questo lo apprezzerà sicuramente" si complimentò. "Ma credo non ti rimanga spazio per il nome adesso". Sherlock storse il naso, rimirando la sua opera da ogni angolazione.

"Lo stavo giusto notando" ammise, irritato. Anche John si sporse per dare un'occhiata al problema.

Ghignò, con tutta l'intenzione di prendere in giro il suo compagno, quando lesse le parole che aveva scribacchiato sulla targhetta.

" 'All'unico e solo vincitore e all'attore più credibile, serio e affascinante che l'Inghilterra abbia mai visto.'" lesse John cercando di mantenersi dallo scoppiare a ridere. "Bello, Sherlock. Anche perché non è che tu conosca questo gran numero di attori".

Sherlock lo ignorò e continuò ad osservare la statuetta alla ricerca di una soluzione alla mancanza di spazio. John ringraziò che non avesse intavolato un altro acido battibecco.

"Ha un nome troppo lungo. Non ci entrerà qui sotto" asserì mesto, con voce oltremodo indispettita. "Perché non si trova un nome d'arte?".

Martin e John si mossero allo stesso momento nello stesso identico gesto scandalizzato, come fossero una coppia di strane bambole meccaniche gemelle.

"A me piace così. E' bello. Originale" esclamò John, sicuro di sé. John annuì energicamente, totalmente d'accordo.

"Non avrei saputo dirlo meglio" Martin sorrise, radioso. Sherlock scosse la testa, come disgustato da tanto sentimentalismo.

"Rimane il problema del nome. Non posso scriverlo dietro, non sarebbe la stessa cosa".

John saltellò sul posto, drizzando le orecchie per captare eventuali suoni dall'esterno. Anche la tranquillità assoluta che regnava fuori lo metteva in agitazione. La quiete prima della tempesta.

"Sherlock dobbiamo muoverci. Non c'é più tempo, dobbiamo andarcene" lo esortò il dottore, senza smettere di lanciare occhiate alla porta. A un certo punto poi, mentre Sherlock ancora meditava con il pennarello a mezz'aria, il silenzio fu infranto da un vociare insistente e allegro proveniente da non molto lontano. Martin guardò John, allarmato, e corse alla finestra. La smorfia sul suo viso dopo aver scrutato di sotto, valse per John e Sherlock più di mille parole.

"Sono qui. Tutti" annunciò, teso. Il detective si voltò di scatto verso Martin, guardandolo fisso come se qualcuno lo avesse appena pietrificato.

"Tutti quanti?" domandò teso, prendendo a lanciare sguardi preoccupati alla statua e alla finestra, a turno. "Questa puntualità è oltremodo fastidiosa. Pensavo che le star dovessero farsi aspettare" si lamentò, petulante.

John, adesso ufficialmente molto preoccupato di uscire da quella stanza il più velocemente possibile, decise di agire: Sherlock sembrava non prenderla sul serio, data la lentezza disarmante con cui sembrava agire, negli ultimi tre quarti d’ora. In quel momento, per esempio, più che concentrato ad elaborare un piano di fuga sembrava soltanto profondamente contrariato dalla scarsa tendenza al ritardo degli ospiti di quell’albergo.

John, senza pensarci ancora due volte, afferrò il pennarello dalle mani di Sherlock con una mano e sfilò la statuetta dalla sua presa con un gesto veloce dell’altra.

“John!” gridò Sherlock, scioccato, allungando le mani per cercare di riprenderla. John si scansò e senza indugio prese a scribacchiare velocemente sulla parte posteriore in legno della statuetta.

“Sherlock, ha dovuto. Non c’è tempo, Benedict e tutto il resto degli ospiti del piano sarà qui a momenti. E’ bellissimo, apprezzerà comunque, sarà sicuramente lusingato del tuo…ehm…gesto. Gli dirò quanto impegno ci hai messo”.

“Ovvio. E’ sicuramente il primo ad aver rubato qualcosa per lui” lo schernì John, annuendo e rimirando la sua opera e trovandola soddisfacente abbastanza, per il momento. Nel frattempo, il chiasso al di fuori aumentava ogni secondo di più.

Sherlock batté un pugno sul tavolo, per nulla rinfrancato dagli inutili tentativi di consolazione dei due poveri compagni d’avventura. La sua espressione era corrucciata, concentrata, come se ancora non volesse arrendersi all’evidenza di non aver potuto portare a termine quel lavoro esattamente secondo le sue previsioni. John cominciò a prepararsi psicologicamente ai capricci e alle lamentele che si sarebbe dovuto sorbire nei giorni a seguire.

“Che vergogna” borbottò poi il detective, sistemandosi la giacca.“Non è giusto”.

Martin nel frattempo, si era appostato, chino, di fronte alla serratura della porta, per scorgere l’eventuale arrivo di qualcuno. John si domandò se sarebbero riusciti a uscire senza incappare in qualche curioso, o peggio, nei loro inseguitori spariti nel nulla. Era sicuro, sicurissimo che sarebbero ricomparsi nell’esatto momento in cui avrebbero messo piede fuori dall’uscio.

“Via libera. Potreste usare la scala anti-incendio qui fuori, ma dareste nell’occhio. C’è qualcuno in fondo al corridoio a destra ma se uscite di corsa potete andare nell’ala sinistra e prendere la scalinata da lì” li avvisò Martin, sollevandosi per un secondo dalla sua postazione di sentinella.

John osservò fuori dalla finestra, notando il metallo rosso di una scala di ferro. Non riuscì a trattenere lo sconcerto dello scoprire che avrebbero potuto tranquillamente evitare quell’odissea di scale e scalinate e passepartout se solo avessero controllato ogni lato dell’albergo.

“Grazie mille Martin” lo ringraziò John, tenendo per una manica Sherlock che ancora borbottava, fastidiosamente. “Non so dirti quanto mi abbia fatto piacere conoscerti e quanto ti sia grato per esserti trattenuto dal prenderlo a pugni, all’inizio. Sei un uomo d’oro”.

Martin ridacchiò, facendo un gesto con la mano come a dirgli di non pensarci.

“E’ stato un piacere anche per me. E’ stata la notte più folle e inverosimile della mia vita e non sono ancora del tutto convinto che non sia tutta una sorta di proiezione della mia mente.” sollevò un secondo lo sguardo, meditabondo. “E…se possibile, cerca di evitare che Sherlock…dica in giro…ehm…” arrossì nuovamente e fece un gesto eloquente con la mano, indicandosi. “Insomma, sai”.

John si mise una mano sul cuore, scuotendo nuovamente Sherlock per farlo stare zitto, e sorrise.

“Non una parola uscirà da noi. E se gli verrà la tentazione, conosco metodi abbastanza persuasivi per farlo tacere” confessò e Sherlock sembrò improvvisamente interessato. “E non persuasivi nel senso che lui sta sperando”.

“Oh, ci conto” rise Martin, salutandoli con un cenno della mano. Quando poi John allungò la mano alla maniglia, abbassandola per aprire la porta, quasi andò a sbattere contro la figura alta e solida di un uomo in piedi davanti alla soglia.

E quando alzò lo sguardo per incrociare quello dello sconosciuto, pregando mentalmente nella frenesia del momento che non fosse chi temeva che fosse, represse a stento un verso a metà tra lo sconvolto e lo scioccato.

“Oh mio Dio” sentì esclamare Sherlock, percependo la sua voce come se fosse un eco in una stanza vuota. “E’ anche meglio di come sembra in televisione”.

“Oh Benedict” John sussurrò, mordendosi la lingua. “Tempismo eccellente” bisbigliò ancora, più a se stesso che all’uomo sulla porta.

Impeccabile nel suo abito nero e nei suoi capelli perfettamente impomatati ma leggermente scompigliati rispetto a qualche ora prima, Benedict guardò i presenti con sguardo sbigottito e sorpreso, osservando i loro visi con attenzione e circospezione, come se non riuscisse a spiegarsi quella folla nella sua stanza. Cosa, pertanto, giustissima. Quando poi intravide Martin, dietro i due davanti alla porta, trattenne il respiro e si decise a parlare.

“Sono due, le ipotesi” scandì poi, cogliendoli alla sprovvista. “Ho bevuto troppo stasera, o il mio…ehm…migliore amico in accappatoio, Sherlock Holmes e John Watson sono nella mia stanza vestiti in maniera stramba per motivi a me totalmente ignoti”.

“Lui formula ipotesi” esordì poi Sherlock con lo sguardo orgoglioso di una mamma di uno scolaro modello. “Potrei abbracciarlo, John”.

“Sherlock ti prego sta zitto” sibilò tagliente John, cercando una scappatoia abbastanza convincente.

“Penso che la seconda si avvicini di più alla verità” intervenne Martin, spingendo Benedict dentro e chiudendogli la porta alle spalle, per evitare che la gente li vedesse. “E’ una lunghissima storia”.

Benedict passò in rassegna, nuovamente, per essere davvero certo di essere lì e non in qualche assurdo sogno, i volti dei presenti e tirò un sospiro rassegnato, cercando di mettere in ordine i suoi pensieri.

“Non credo di avere particolarmente fretta, stanotte” disse, senza alcuna voglia di abbandonare l’argomento e del tutto interessato alla faccenda. “Ho davvero voglia di una storia emozionante” disse, battendo le mani e strofinandole tra loro, impaziente.

Martin si grattò la testa, mordendosi il labbro inferiore, indeciso su come introdurre l’argomento. Sherlock, tossicchiando, decise di facilitargli il lavoro.

“Io e il Dottor Watson qui presente ci troviamo nella tua stanza per compiere il nostro dovere di buoni cittadini e amanti della giustizia” Sherlock spiegò con particolare cura delle parole e con una voce profonda e convincente, come fosse un membro della Camera dei Lords durante un discorso al Parlamento. “Questa sera è stato compiuto un vile crimine, di cui milioni di persone sono testimoni”.

Benedict sbarrò gli occhi, la bocca a cuore leggermente socchiusa, palesemente incapace di trattenere la sua sorpresa davanti a una tale dichiarazione.

“Wow” disse soltanto, probabilmente troppo ammirato e sconvolto per pronunciare qualcosa di più elaborato. “Mi…mi dispiace” provò a dire, diplomatico e sinceramente preoccupato.

Sherlock ridacchiò, con l’espressione di chi la sa lunga.

“Sei l’ultimo che dovrebbe dispiacersi di qualcosa, Benedict” gli disse, sventolando eloquentemente una mano. “E noi siamo qui per far si che la giustizia faccia il suo corso”.

L’uomo boccheggiò, senza parole.

“Io…io non so cosa dire” bisbigliò Benedict, interdetto.  Il suo sguardo si posò su Martin, poco lontano, che gli sorrise incoraggiante. “E… la mia stanza per esattamente quale parte del vostro piano è stata così... utile?” domandò, curioso.

John affondò il volto nelle mani, rosso come raramente era mai stato, anche a causa di Sherlock.

Sherlock rise, compiaciuto.

“Per quella principale, Per la consegna della refurtiva al suo vero padrone, a colui che deve possederla, a colui che la merita”.

“Oh. La faccenda è serissima allora” Benedict corrugò la fronte e si scompigliò i capelli, lasciando che ciuffi scuri gli ricadessero distrattamente sugli occhi. “E questo ‘colui’… sarebbe?” chiese ancora, volendo venire a capo di quella faccenda, pendendo dalle labbra del detective.

Martin, coprendosi la mano con la bocca, tossicchiò. John desiderò scomparire in quel momento come non mai.

“Tu, mio caro” rispose semplicemente Sherlock, con il tono di voce serio di chi rivela una verità chiara e sconvolgente. A John quella scena ricordò un qualche personaggio di Agatha Christie, mentre rivelava agli ospiti di un elegante salotto inglese la vera identità di un assassino.

Benedict aprì la bocca come per parlare, ma non ne uscì nessun suono se non un versetto rauco, indecifrabile. Scosse la testa e si sfilò la giacca, portandosi una mano alla fronte come per aiutarsi a riflettere su cosa effettivamente gli fosse stato rubato quella sera.

“Io non capisco, Sherlock” ammise poi, le mani sui fianchi. “Di che cosa sarei stato privato a mia insaputa, di grazia?”.

Il detective si spostò dalla sua precedente posizione, accanto al letto, affrettandosi a raggiungere la scrivania con sopra la statuetta. Una volta lì, si lisciò la camicia e si sistemò la giacca, come se necessitasse di sembrare elegante e composto per la sua presentazione.

“Oh, sei troppo modesto amico mio. Rifletti su cosa è accaduto stasera” lo canzonò Sherlock con voce dolce, come quello di una madre che incoraggia un bambino alle prese con un problema di matematica fin troppo ostico. “Cerca di inquadrare il momento esatto del delitto! Tu eri presente!”.
Benedict lo squadrò, cominciando a credere che il non aver cacciato via immediatamente quell’uomo dalla stanza non fosse stata una così brillante idea. I suoi occhi incontrarono quelli di Martin, che volse lo sguardo alla scrivania con circospezione, in un tacito aiuto.
Benedict guardò immediatamente nella direzione suggeritagli e, ovviamente, non poté non notare la lucida e linda statuetta che adesso brillava sotto la luce calda della lampada come una primadonna sotto le luci dei riflettori.
“Oh mio Dio” esclamò l’uomo, senza riuscire a staccare gli occhi dalla statuetta. “Quello è ciò che penso?” domandò, senza aspettare risposta e avvicinandosi. Sfiorò la superficie lucida dell’oggetto e sorrise, tornando a guardare il gruppetto poco lontano.
“Intendevi…con furto tu intendevi…” Benedict scoppiò a ridere di gusto, lusingato e divertito allo stesso tempo. Sherlock lo guardò con circospezione, come se non comprendesse il motivo di tanto divertimento. John prese un appunto mentale sul fare una lunga lezioncina a Sherlock su prendere certe fissazioni troppo sul serio.
“E’ stato molto carino da parte vostra” bisbigliò con un sorriso radioso in viso “molto…dolce, in verità” ammise e rivolse ai tre un’occhiata sinceramente grata. “Non sapevo che fossero in commercio certi fac-simile, comunque”.
John sbiancò, davanti a quella frase. Era probabile che Benedict non ancora scorgesse la targhetta malamente rovinata dal pennarello, ed era altrettanto probabile che la sua reazione davanti alla scoperta non fosse esattamente rosea come Sherlock sembrava aspettarsi. Il dottore si rannicchiò contro la parete, preparandosi all’esplosione.
“Infatti non lo è”, lo esortò il detective, osservando avido la scena.
Benedict esitò. John rimase al suo posto.
“Che…cosa?” il tono era preoccupato.
“Guarda meglio” lo spronò ancora il detective.
“Pensaci bene prima” John sussurrò, coprendosi il volto con una mano. “Potresti pentirtene”.
Benedict, interdetto dai consigli contrastanti, sollevò la statuetta tra le mani, e la guardò con più attenzione, stavolta leggendo sicuramente la posizione dei suoi occhi era inequivocabile- quello che vi era scritto in basso.
E oltre ogni previsione, oltre ogni più rosea e meravigliosa aspettativa, Benedict non li guardò con aria sconvolta, non li minacciò minimamente di restituire tutto al legittimo proprietario o di parlare con chi di dovere per sistemare quella faccenda. Rimase immobile in un primo momento, e guardò Sherlock e John negli occhi, a turno, con un lampo indecifrabile nei suoi bellissimi occhi chiari. Poi, senza che nessuno dei due –nemmeno Sherlock con la sua proverbiale capacità di anticipare le mosse di chiunque- potesse rendersi conto di quello che stava accadendo, Benedict li abbracciò stretti a sé, cingendo John con il braccio destro e Sherlock con il sinistro, stringendoli con affetto in una morsa stritolante.

“Io non ci posso credere” sussurrò poi, trattenendosi dallo scoppiare in una risata divertita e allo stesso tempo incredula. “E’ la cosa più strana che qualcuno abbia mai fatto per me”.

Sherlock lanciò un’occhiatina eloquente verso John come a dirgli ‘te l’avevo detto’. John sbuffò, accarezzando la schiena di Benedict con una mano, ancora stentando a credere che fosse veramente stretto nell’abbraccio di quell’uomo, che fino a due ore prima era soltanto qualcuno dietro lo schermo di un televisore.

“Lo avevo detto, io” Martin ridacchiò, osservando allegro il quadretto di fronte a lui.

“Insomma, lo so che dovrei dire che…che è sbagliato, che non è mio, e che…entrare di soppiatto in un hotel e scassinare due stanze non è certo il massimo della legalità, ma dopotutto chi meglio di me può comprendere il tuo modo di ragionare?” squillò Benedict, sorridente e radioso, con fare entusiasta. “A parte John, ovviamente. E…insomma, so che da parte tua un gesto del genere è da considerare come uno spettacolare gesto… d’amicizia. E mi lusinga. Davvero”.

Sherlock sembrava volare due metri sopra il pavimento. Da quando c’era John nella sua vita ormai aveva fatto l’abitudine alle lodi e ai complimenti, ma in quel momento, dopo il discorso di Benedict, lo sguardo di Sherlock assomigliava terribilmente a quello di un gattino reduce da una seduta intensiva di coccole e grattini. Sognante, stralunato, e assolutamente euforico.

“E’ stato un piacere, Benedict, un piacere” si esibì in un piccolo elegante inchino. “Sono felice che la nostra missione abbia portato a un risultato tanto soddisfacente e apprezzato” s’interruppe per guardare John. “Nonostante qualcuno abbia dubitato della buona riuscita per tutto il tempo”.

John arrossì, cercando di camuffarlo in ogni maniera possibile. Guardò altrove per non incrociare gli occhi di Sherlock o peggio quelli di Benedict e si limitò a un sospiro rassegnato.

“Sei odioso, Sherlock”.

“E tu un uomo di poca fede”.

“E tu un pazzo”.

“Pensavo che mi amassi per questo”.

John, se possibile, diventò quasi fosforescente dall’imbarazzo.

Benedict e Martin però sembrarono trovare quello scambio di frecciatine tremendamente suggestivo a giudicare dagli sguardi sui loro volti. Benedict ridacchiò.

“Beh, John non ha tutti i torti in fondo. Sei pazzo” spiegò e John tirò un sospiro sollevato. “Però fa parte del tuo fascino. Tu non hai idea di quanto Martin ed io abbiamo fatto pressione su chiunque per incontrare te e John. Solo che ci hanno sempre riferito di impossibilità varie, di una sorta di…clausola di contratto. C’entrava addirittura il governo, credo” Benedict fece una smorfia che palesò tutto il suo disappunto. “Questa sera è stato…strano e fantastico incontrarvi. Stento ancora a credere che tutto questo stia realmente accadendo, comunque”.

Martin annuì, dandogli appoggio.

“Io sono ancora propenso a credere che fra un’ora mi sveglierò nella mia stanza a Wellington”.

“La mia stessa sensazione. Rapportata a Londra, ovviamente” concordò Ben, con voce allegra. Poi, come se colto all’improvviso da un’illuminazione, tornò a guardare Martin, squadrandolo da capo a piedi. “A proposito, tu…tu cosa ci fai qui, esattamente?”.
Il biondo non rispose, preso alla sprovvista, e come un bambino colto in fallo durante una marachella, abbassò lo sguardo al pavimento, con fare colpevole.
“Ecco, io… avevamo parlato di quella…cosa che avresti voluto provare, al telefono” bisbigliò Martin, ancora guardando a terra. “E oggi sapevo delle premiazioni, e ho avuto qualche giorno libero dalla produzione e…ho pensato di fare un’improvvisata. Che ha subito un piccolo cambio di programma”.

Benedict avvampò, probabilmente ricordando più che bene la cosa cui Martin si stava riferendo. Sherlock li guardò con fare interessato, sicuramente intenzionato a scoprire di cosa si trattasse. John gli pestò deliberatamente un piede.

“Beh, adesso che abbiamo chiarito tutto, possiamo anche lasciare Benedict e Martin da soli, cosa ne dici Sherlock?” John esclamò ad alta voce, così che tutti, e soprattutto Sherlock, in assetto da deduzione, potesse sentire. Il detective sembrò indispettito dalla sola proposta.

“Perché così presto, John?” domandò, con tutta la semplicità del mondo. “Adesso che sappiamo che Benedict approva, possiamo…”.

La frase fu bruscamente troncata a metà da un rumore simile a un’esplosione, proveniente dalla porta d’ingresso.

Due uomini vestiti di scuro, quegli uomini vestiti di scuro da cui erano sfuggiti dopo mille peripezie, erano in piedi a meno di due metri da loro col fiatone e uno sguardo assassino sul viso.

“Siete voi!” sbraitò il più alto. “Eccovi, maledetti! Lo avevo detto, che erano le loro voci!” gridò ancora, con foga.

“Scusate l’irruzione signori, ma quei due sono pericolosi!” quello più basso indicò Sherlock e John, con sguardo fiammeggiante.

“Ma cosa…?” bisbigliò a sua volta Benedict, sbigottito.

John afferrò la manica di Sherlock, tenendola salda e guardandolo, complice.

“E’ davvero giunto il momento dei saluti, ragazzi! C’è stata solo una piccola…incomprensione” gridò poi Sherlock, d’improvviso. Fece un cenno con il capo a John, quasi impercettibile per gli altri, che il dottore comprese al volo. Prese fiato, più che poteva dato che ne avrebbe avuto bisogno, e si precipitò verso la finestra aperta, spalancandola completamente e saltando fuori con un balzo mirato.
“Arrivederci, signori!” esclamò un’ultima volta Sherlock, teatrale, ricevendo in risposta un applauso scherzoso, prima di seguire John sulla –John ringraziò Dio- scala antincendio con un cigolio assordante.

“Corri, corri corri!” Sherlock spinse John in avanti, ridendo, senza che il dottore riuscisse a evitare di imitarlo.
“Corro, corro, non preoccuparti!” gli assicurò, muovendosi più velocemente possibile lungo le scale di ferro, preoccupato e allo stesso tempo sollevato di non sentire i rumori di passi degli inseguitori. In un momento di follia, il detective guardò in alto, senza scorgere nessuno alle loro calcagna. John, con il fiatone, si fermò accanto a lui.

“Ma cosa…?” chiese, interdetto. Poi, come un segno del destino, udirono chiaramente una voce familiare, quella di Benedict, parlare in maniera curiosamente alta.

“Cielo, mi dispiace tantissimo signore! Non so come sia potuto succedere!” si scusò. “E’ colpa delle mie gambe lunghe, giuro che quello sgambetto non è stato affatto intenzionale” il tono di voce si alzò ulteriormente e Sherlock e John non poterono fare a meno di erompere in una fragorosa e rinfrancante risata.

“Abbiamo dei complici, Sherlock. Abbiamo trasformato quei due in criminali” John lo accusò, puntandogli contro il dito. “Hai traviato due povere menti e le hai portate sulla via della perdizione”.

Sherlock continuò a ridere mentre ripresero a scendere le scale, non volendo approfittare troppo della tregua concessagli dai loro due nuovi compari.

“Può sempre far comodo avere due complici così ben inseriti in società, sai?” spiegò Sherlock, con tono improvvisamente serio, tradito però dalla sua espressione ilare. “In certi posti non posso certo contare sulla rete dei senzatetto, non credi?”.

“Una logica disarmante” convenne John, atterrando –finalmente- di nuovo sull’asfalto del parcheggio, realtà che gli sembrò un traguardo sudato e quasi insperato.

“Come sempre” convenne Sherlock, modesto come al solito. Prima che John potesse rispondere con una replica acida e sardonica, fu interrotto dal vociare concitato di un gruppetto sostanzioso di ragazze poco più avanti, pressoché lo stesso, con qualche aggiunta, che aveva visto parlare con Sherlock davanti alla Festival Hall nel loro scambio d’informazioni.

“Oh, eccole lì” sussurrò Sherlock, scompigliandosi i capelli e allungando il passo, dirigendosi verso di loro. John lo seguì, chiedendosi quali fossero le sue intenzioni. Forse…ringraziarle?

Il gruppetto, vedendoli arrivare, cominciò a parlottare ancora più animatamente, John giurò anche di aver visto una di loro reggersi ad altre due, come se le gambe gli fossero diventate improvvisamente gelatina. John si crogiolò nella convinzione di essere almeno in parte causa di quella reazione.

“Buonasera signore” Sherlock le salutò, fermandosi davanti a loro, causando un immediato silenzio. Una ragazza dai capelli rossi e il viso spruzzato di lentiggini tirò un sospiro profondo, come a infondersi coraggio, e parlò con un sorriso esitante.

“Buo-buonasera Signor Holmes” la ragazza esclamò timidamente. “La…la missione è andata a buon fine?”.

Sherlock batté le mani, con sguardo estremamente soddisfatto e gratificato, come se intendesse esprimere quanto fosse deliziato dalla buona riuscita della serata anche senza l’ausilio delle parole.

“Più che bene, mia cara. E questo anche grazie al vostro prezioso aiuto” Sherlock annunciò, e John poté scorgere una nota sincera nella sua voce. Accennò un sorriso.
“Oh…bene” rispose la ragazza illuminandosi. “Siamo felici di aver potuto aiutarvi, moltissimo in verità” continuò, diventando rossa come i suoi capelli.

“E noi siamo felici di aver potuto contare sul vostro aiuto” aggiunse John, sporgendosi dalla spalla di Sherlock. La ragazza di poco prima emise un gridolino, come se l’intervento di John l’avesse quasi spaventata.

“Esatto” convenne Sherlock, annuendo. “E per questo voglio darvi un piccolo consiglio”.

Si voltò verso l’albergo, anche per cercare di scorgere l’eventuale presenza dei due inseguitori, e puntò il dito verso la struttura, più precisamente verso le scale.

“Quelle scale laggiù sono collegate alla finestra della stanza di Benedict” annunciò e uno sguardo glaciale bloccò sul nascere la puntuale protesta di John. “Un paio di rampe, la finestra a destra. Avrete di che riempire Tumblr, domani”.

Sherlock non fece in tempo nemmeno a concludere le sue precise indicazioni che il gruppo si mosse quasi simultaneamente, riversandosi verso la scala come un fiume umano in pieno straripamento dagli argini.
“Grazie mille!” urlò una ragazza dal fondo, salutandoli con una mano e correndo a perdifiato per raggiungere le altre.

Sherlock rise, scuotendo la testa, e facendo cenno a John di seguirlo per la strada principale gremita di taxi in attesa.

John non aveva parole. Aveva promesso a Martin di non dire niente a nessuno, aveva detto che il segreto era al sicuro, che avrebbe ricattato Sherlock pur di farlo tacere ma probabilmente aveva sottovalutato l’interesse effettivo di Sherlock che certi suoi segreti fossero sparsi ai quattro venti.

Si morse il labbro inferiore fin quasi a farlo sanguinare, preoccupato, teso e desolato dall’aver tradito la fiducia di quell’uomo ed entrò in un taxi subito dopo Sherlock, guardandolo con espressione furiosa. Quando Sherlock se ne accorse, tutto quello che fece fu sbuffare, annoiato.

“Oh John smettila. Dovevo ringraziarle in qualche modo” fu la sua giustificazione. “E quello era proprio ciò di cui avevano bisogno”.

John gli diede una pacca abbastanza veemente sulla spalla, cogliendo il detective di sorpresa. Sherlock mugolò, aprendo e chiudendo la bocca incredulo.
“Sei crudele” lo accusò, massaggiandosi la parte dolente. “Io ho solo fatto loro un favore”.
John fece un versetto sarcastico.
“Oh certo. Un favore”.

Il detective sembrò indispettito dalla reazione di John e tossicchiò, preparandosi alla sua brillante esposizione.
“Non sarebbero venuti mai allo scoperto senza un’adeguata…spintarella. Io gli ho solo fornito l’aiuto di cui avevano bisogno”.

“Aiuto?”.
“Aiuto, John! Adesso potranno uscire alla luce del sole” spiegò, con naturalezza. “Sono un vero amico” concluse.

John si voltò a guardarlo con tale velocità da provocarsi un pungente torcicollo, ma non ci badò, impegnato com’era a notare quanto Sherlock fosse veramente convinto di quello che aveva appena detto. Desiderò avere una risposta abbastanza sagace e brillante per lasciarlo senza parole e impossibilitato a trovare un’altra giustificazione, ma sospirò, avvilito dalla sua incapacità di rimanere ancora arrabbiato con lui anche dopo quella folle confessione.

Certe volte era impossibile far desistere Sherlock dal reputare verità assolute alcuni dei suoi discorsi surreali, lui in fondo non voleva far male a nessuno, e decise di troncare la faccenda, pregando che Martin e Benedict non li querelassero, o peggio, aspettassero davanti alla porta di casa loro con in mano spranghe di ferro.

“Sì sì, va bene” sbuffò John, contrito. “Non so come io faccia a lasciar passare tutto quando si tratta di te. Per esempio, adesso dovrei essere furioso di aver perso i miei vestiti a causa tua e di ritrovarmi invece con questa roba puzzolente e orribile”.

Sherlock si morse un labbro per non ridere, osservando John da capo a piedi.

“Beh, penso che tu ci abbia guadagnato” sussurrò, ben conscio però che John potesse sentirlo.

“Spiritoso” sibilò il dottore.

Il detective lo guardò e gli posò una mano sulla gamba, pensieroso, come se stesse venendo a patti con una difficile decisione nella sua mente. Dopo qualche secondo, con quello che sembrò uno sforzo sovrumano, parlò.
“E va bene” alzò gli occhi al cielo, come per non guardare John mentre lo diceva. “Per farmi perdonare di qualunque cosa meschina tu reputi io abbia fatto, ti concedo il permesso di pubblicare il resoconto della missione sul tuo blog, contento?”.

John storse il naso.

“Oh, felicissimo” magari così avrebbe avuto occasione di togliersi qualche sfizio, pubblicamente e con il suo benestare, prendendo un po’ in giro Sherlock davanti al mondo.

“Omettendo nomi e situazioni, è chiaro” specificò poi il detective.

John camuffò una risatina di scherno.

“Oh, ed io che pensavo andassi fiero del tuo successo” lo canzonò. “Codardo”.

Sherlock inarcò un sopracciglio.

“Non sono codardo. Tutelo la privacy di due brave persone” spiegò, cristallino. John rise, sarcastico.
“Oh certo! Soprattutto dopo lo scherzetto che hai fatto loro per ringraziarli”.

Il detective sbuffò, creando un alone opaco sul vetro del finestrino.

“Te lo ripeto per l’ultima volta. Li ho solo aiutati, facendo quello che ho fatto”.

“Certo”.

“Mi ringrazieranno”.

“Ovvio. Magari dopo averti fatto un occhio nero”.

Sherlock si voltò a guardarlo, gli occhi ridotti a fessure.
“Non è bello augurare una cosa del genere al tuo compagno”.

“Beh, non è bello nemmeno far rischiare la vita al proprio compagno un giorno sì e uno no, ma tu continui a farlo lo stesso” sussurrò John, ironico.

“Ma a te piace”.

“E dovresti ringraziarmi ogni giorno, per questo”.

Sherlock si voltò nuovamente verso il finestrino ma John vide chiaramente il bordo del suo labbro piegarsi in un ghigno divertito.

“Comunque, magari un giorno Ben o Martin approderanno agli Oscar” affermò poi, rompendo il silenzio di poco prima. “Noi dovremo farci trovare preparati”.
John lo fissò negli occhi, preoccupato.

“Intendi nel caso non vincano?” chiese, esitante. Non era sicuro di volerlo sapere.

“Ovvio” rispose Sherlock, mordendosi il labbro inferiore, pensieroso.

John chiuse gli occhi e s’immaginò in un albergo gigantesco, quasi tre volte quello di quella sera e con il doppio delle scalinate e delle stanze, braccato da una ventina di agenti in borghese, seguendo Sherlock che correva con una statuetta in mano e blaterando indicazioni. Rabbrividì.

“Peccato che in quell’ambiente la sicurezza sia dieci volte più rigida, gli alberghi cento volte più blindati, e le statuette mille volte più…sorvegliate” puntualizzò il dottore.

Sherlock sbuffò, agitando una mano come a dirgli di smettere di fare sempre il guastafeste.

“Questa sera è stata una prova. Adesso sappiamo che nel caso ci trovassimo davanti ad un’altra…missione di giustizia come questa, saremmo pienamente in grado di affrontarla”.

Il taxi imboccò Marylebone con lentezza, fermandosi a un semaforo e senza che il rumore delle ruote e del motore potesse coprire la risposta acida che John aveva in mente.

Colpì Sherlock alla spalla con un pugno leggero, d’avvertimento.

“Oh sì” concordò poi, sardonico. “Bisognerebbe specificare però se riusciremo a uscirne con tutte le braccia, la testa, la fedina penale pulita e soprattutto vivi”.

Sherlock sorrise e rivolse a John uno sguardo allegro e allo stesso tempo serio, sicuro. Come se quell’affermazione non lo preoccupasse, come se fosse certo, per un motivo o per l’altro che tutto sarebbe andato sempre per il meglio. Il taxi ripartì.

“Ma il mio medico militare è qui per proteggermi” esclamò, volendo sembrare serioso ma risultando alle orecchie del dottore solo estremamente dolce. “Non è così?”.

John finse di sembrare pensoso, come se non fosse del tutto sicuro di quello che avrebbe fatto nel caso la situazione si fosse presentata. A dirla tutta non era proprio sicuro che avrebbe fatto qualcosa per difenderlo, Sherlock avrebbe meritato una lezioncina, ma nella realtà, come al solito, avrebbe messo da parte le loro incomprensioni e sarebbe corso da lui a salvarlo da qualunque pericolo.

Nonostante lo facesse seriamente dannare a volte, Sherlock era l’unica persona alla quale John non era mai riuscito a portare rancore per troppo tempo.

John gli sorrise, prima di dare qualunque risposta, e allungò la mano sul sedile per stringere quella di Sherlock in una stretta calda, confortante, amorevole. Sherlock ricambiò con fervore e i suoi occhi sembrarono quasi illuminarsi.

“Io non lo darei per scontato. Qualche volta meriteresti una lezione. Sei impossibile” lo minacciò, ma conscio di non sembrare credibile in quella situazione, così vicino a lui, reprimendo quell’incredibile voglia di baciare il suo compagno.

“Impossibile, pazzo e squilibrato” aggiunse.

Sherlock ridacchiò della risposta e avvicinò il suo viso a quello del dottore, attento a non farsi scorgere dal tassista di fronte a loro.

“Ma tu mi ami per questo, non è così?” lo punzecchiò il detective, nello stesso modo di poco prima all’albergo, cogliendo come sempre nel segno. John si avvicinò ancora di più al viso del detective, appoggiandosi al bordo del suo sedile e godendosi il solletico piacevole del suo respiro sulle labbra, e sospirò, rassegnato. Davanti a quella domanda, non poteva né scherzare, né mentire.

“Che Dio mi salvi, ma sì” sussurrò e Sherlock sorrise, allungandosi a baciare le labbra di John con dolcezza, lentamente, godendosi quell’intimità rubata, soltanto loro, dolce ricompensa di quella notte avventurosa.

Il 221B di Baker Street fece capolino dal fondo della strada, caldo e familiare, le lettere in ottone che brillavano alla luce della strada, quasi salutando i due inquilini ancora stretti nel loro abbraccio.

 

 

 


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