Cows and jeans
37
Era
uno di quei giorni in cui il buongiorno non si vedeva per niente dal
mattino. Il sole splendeva, la colazione era già pronta,
Kameron,
Agatha e Terrence mi aspettavano chiacchierando allegramente
nell’aia, ma il mio umore era nero.
Avevo
sognato male. Non ricordavo cosa avessi sognato, ma mi ero svegliata
di pessimo umore e la colpa doveva necessariamente essere del sogno.
A meno che io non fossi sonnambula e non avessi avuto una brutta
avventura notturna a mia insaputa.
Siccome
ero piuttosto sicura di non essere sonnambula, il mio malumore doveva
essere dovuto al sogno. O all’imminente partenza di mio
fratello.
Per
qualche motivo, Joshua capì prima di me che il motivo della
mia
negatività era proprio lui stesso. “E smettila di
fare quella
faccia” mi disse, mentre passavo per la quarta volta dal
bagno alla
mia camera, incapace di connettere il cervello e quindi di non
dimenticare qualcosa in giro.
Lo
guardai senza capire. Era seduto sul nostro – di nuovo mio,
da quel
momento - letto e mi guardava con quell’espressione arrogante
che
mi aveva sempre dato sui nervi. Quella volta non fu diverso, ma
questo mi aiutò a desiderare che se ne andasse al
più presto. “Che
faccia?” sbottai, incrociando le braccia.
“Sembra
che ti sia morto il cane”.
“Non
ho cani”.
“Il
gatto, allora”.
“Facciamo
che ora uccido mio fratello e non ci pensiamo
più?” proposi. Ero
acida, schifosamente acida. Ma ero di pessimo umore e le due cose
andavano a braccetto. Non potevo farci nulla.
Joshua
inarcò le sopracciglia. “E ora dimmi che sei di
buon umore, dai”
mi sfidò.
Sbuffai
e iniziai a cercare nell’armadio i miei jeans.
“Sono di buon
umore” risposi come se niente fosse.
“Si
nota. Sei di buon umore come Malcom dopo che l’ho stracciato
per
cinque volte consecutive a Tekken”.
Sì,
certo, doveva anche paragonarmi a quel decerebrato del suo amico.
“Vedo che sei in vena di complimenti stamattina”
brontolai,
riemergendo dall’armadio. “Lì
dentro c’è ancora della tua roba” lo
informai.
Joshua
si accigliò. “Ma se io non ho tirato fuori nulla
dal borsone?”
domandò.
...ops.
Avete
presente il sangue freddo? Ovvero quando una persona anche in un
momento disastroso riesce a mantenere i nervi saldi e a rimanere
razionale? Ovviamente io non avevo la minia idea di come ci si
sentisse a essere razionali, figurarsi in un momento allarmante come
quello. Non potevo definirmi una con il sangre caliente,
perché a
quel punto cambiava totalmente significato e non mi si addiceva per
niente.
“No,
stavo scherzando!” esclamai, scoppiando in una risata fin
troppo
rumorosa e vagamente isterica. La verità era che avevo la
–
secondo lui fastidiosa – abitudine
di impadronirmi dei suoi vestiti una volta che gli diventavano
piccoli. Lui li dava a Felicity con l’intenzione di buttarli
via,
lei li infilava in un sacco nero e io rubacchiavo di nascosto quelli
che potevano piacermi.
Josh
non sopportava che io indossassi i suoi vestiti, eppure io non
riuscivo a farne a meno.
Raccontando
i fatti in questo modo, sembra quasi che io fossi una barbona. In
realtà era tutta questione di affetto. Mi piaceva
l’idea di avere
qualcosa di suo, inoltre riciclavo dei vestiti che molto
probabilmente sarebbero finiti nella spazzatura molto prima che mia
madre si ricordasse di portarli a qualche associazione per
beneficenza. In fondo si trattava comunque di riciclaggio, no?
Il
paio di pantaloni da calcio che lui usava all’inizio del
liceo
erano diventati i miei preferiti; da quando ero riuscita a
impossessarmene li avevo indossati milioni di volte – quando
lui
non poteva vedermi.
La
condizione più importante per il rinnovamento del mio
guardaroba
tramite quello di Josh era la segretezza. Joshua odiava
l’idea che
indossassi i suoi vestiti, per cui avevo sempre cercato di tenerlo
nascosto. Ed era stato facile, visto che lui non usava curiosare nel
mio armadio. Fino a quel momento, almeno, quando proprio io mi ero
messa i bastoni tra le ruote. Ero praticamente inciampata nei miei
stessi piedi. Cose che nemmeno Bella Swan di Twilight riusciva a
fare.
Joshua
saltò sull’attenti e mi guardò male.
“Pan, che cosa...?”
Risi
un po’ più forte e gli gettai affettuosamente le
braccia al collo,
per evitare che si avvicinasse all’armadio. “Mi
mancherai un
sacco, fratellino!” trillai con ostentata emozione.
Lui
si irrigidì. “Buon Dio! Cosa hai nascosto
lì dentro, un
cadavere?” domandò, divertito.
Ottime
reazioni all’affetto fraterno. Dov’era finito il
classico ‘chi
sei tu e cosa hai fatto di mia sorella?’?
“Ma
quale cadavere! Il biondo mestruato è ancora in
circolazione... chi
altri avrei potuto far fuori, secondo te? No, è semplice
affetto
fraterno. Non mi credi?”
“Per
niente” rispose, facendo un passo indietro.
In
effetti non ci avrei creduto neanche io. “Uomo di
malafede!”
“Uomo?
Ok, se non c’è un cadavere, almeno devi avere un
gatto”.
“Un
gatto?” domandai, incredula. Cosa c’entravano i
gatti?
Lui
ridacchiò, scansandomi del tutto. “Sei il tipo di
persona che fa
cose del genere: adottare un gatto e nasconderlo nell’armadio
perché il nonno e lo spaventapasseri non lo
vogliono”.
Un
momento! Lo spaventapasseri era Dean?
Scoppiai
a ridere, spontaneamente questa volta. “No, niente
gatti” gli
assicurai. “Non c’è proprio nulla da
vedere. Joshua, ho detto
nulla! Ehi, fermo dove sei!” tentai invano di fermarlo, ma
lui era
già all’armadio e aveva spalancato le ante.
Chiusi
gli occhi e sorrisi con aria colpevole attendendo la sua
sfuriata.
“Ma
questa è la mia felpa del Blues Brother!”
esclamò, sconcertato.
“Che cosa ci fa nel tuo armadio?”
Aveva
l’espressione costernata e un tono di voce da grande uomo
maturo
che ha beccato la figlioletta in flagrante mentre cercava di
pitturare il gatto con la vernice verde, acquistata per ridipingere
le persiane. Sì, è successo, ma questa volta
dovete rivolgervi a
Emily, non era stata una mia trovata.
“Ma
quale felpa! Il cadavere, ricordi? Stavi cercando un cadavere.
Cercalo, su!” delirai nella speranza di distrarlo.
Joshua
mi guardò male. “Perché è
tra la tua roba?”
Sospirai.
La scusa del cadavere non reggeva, dopo essere stata smentita. Avrei
dovuto sostenerla prima, diavolo! “L’avevi buttata
nel sacco
dell’immondizia”.
“E
lì doveva restare”.
Mi
accigliai. “No! Voglio dire, è uno spreco. Non
è rovinata e... e
poi lo sai quanto mi piace!”
“Al
punto da rovistare nella spazzatura per riprenderla. Che
schifo”.
“Era
vuoto!” mi indignai. “Considerala
un’opera di beneficenza, se
vuoi sentirti tanto superiore. Non trovi ridicolo che io debba
prendere i tuoi abiti vecchi di nascosto? Egoista!”
“Egoista?”
espirò bruscamente. “L’ultima volta che
ti sei messa una mia
maglietta i miei compagni di classe mi hanno preso in giro un
mese!”
Mi
accigliai, presa in contropiede. “E perché
mai?” Che senso aveva
prendere in giro qualcuno perché sua sorella indossava i
suoi
vestiti usati? “Non sarà di nuovo la storia degli
straccioni, eh?”
C’era stato un periodo, al mio primo anno al liceo, in cui il
primo
pensiero delle mie compagne di classe, vedendomi così...
mmm...
sciatta, a detta loro, era stato che fossi povera. Non avevo i soldi
per vestirmi ‘bene’, secondo loro. Era
così complicato capire
che i vestiti firmati erano l’ultimo dei miei interessi?
L’ultimo.
Perfino i tentativi di Malcom e Joshua di spiegarmi cosa diavolo
fosse un fuorigioco, calcisticamente parlando, erano più
entusiasmanti. E chi come me non ha idea di cosa diavolo sia un
fuorigioco, sempre calcisticamente parlando, sa che non
c’è nulla
di interessante negli sbuffi, nei sospiri e nei caotici tentativi di
un ragazzo di spiegarlo.
La
cosa aveva coinvolto anche Joshua, non appena la voce si era sparsa
dalle sorelle maggiori alle minori.
Lui
sbuffò e incrociò le braccia. “No, che
c’entra” bofonchiò,
con una smorfia al ricordo. “Se ti metti i miei vestiti
sembra che
io mi vesta da femmina, no?”
Lo
guardai per qualche istante, impassibile. “No”
risposi poi,
convinta.
“Dillo
agli altri...”
Risi.
“Ah, certo! Fammi capire bene” ricominciai.
“I tuoi amici sono
dei cretini, io uso i vestiti da maschio e prendono in giro
te?”
Strinse
le labbra e mi guardò male. ‘Detta così
sembra una cosa stupida’.
L’
aveva
scritto in fronte. Forza, dillo. Dai, avanti, scatena la mia ira,
troglodita! Era il giorno giusto. Ero di nuovo di cattivo umore, per
cui sarebbe bastato davvero poco per mandarmi fuori di testa. Ed era
tutta colpa sua. Anche il mio malumore lo era.
Era
la cosa più stupida che avessi mai sentito. E tra Kameron e
Terrence
ne avevo sentite a palate di cose stupide, da quanto mi ero
trasferita. Per non parlare di tutte le fesserie dette da Asja alla
festa di Mariah Thompson e, ancora, tutte le enormi idiozie uscite
dalla mia boccaccia.
“Be’,
resta il fatto che è roba mia e non hai il diritto di
prenderla”
sputò infine, non trovando nulla di meglio da dire.
Il
suono insistente di un clacson interruppe la conversazione prima che
potesse degenerare. Be’, degenerare troppo.
“Ti
dai una mossa? Stiamo facendo tardi!” Riconobbi la voce della
cara,
dolce e paziente Agatha. Non che fosse facile confondere la sua voce
con quella dei ragazzi, intendiamoci. Ci sarebbe voluto impegno e un
talento innato, che io - fortunatamente- non avevo.
“Arrivo!”
gridai in risposta, affacciandomi in fretta alla finestra. Tornai a
guardare mio fratello. “Ora devo proprio andare”
dissi, mentre il
mio stomaco si accartocciava un po’ al solo pensiero che al
mio
ritorno lui non ci sarebbe stato.
“Che
peccato, eh? Era una così bella conversazione...”
Lo
guardai male. “Non è che l’idea di
andare a scuola mi
entusiasmi, in effetti” replicai, recuperando il mio zaino.
“Già”
tagliò corto. “Buona giornata, allora”.
Lo
guardai di nuovo. Sarebbe stata l’ultima volta che lo avrei
per
chissà quanto tempo. Era probabile che io sarei tornata a
casa per
le vacanze di Natale, quindi probabilmente per soli due mesi. E poi?
Poi magari ne sarebbero passati di più, prima che lo
incontrassi di
nuovo. “Josh...” Mi dispiaceva che se ne andasse.
Mi ero abituata
alla sua presenza a Sperdutolandia e, per qualche motivo, era stata
proprio questa a incutermi sicurezza durante quei giorni.
Perché,
incredibile ma vero, erano passati solamente pochi giorni da quando
ero tornata a Sperdutolandia e pochi di meno da quando aveva fatto la
sua comparsa mio fratello.
Non
sapevo cosa dire. Cosa si dice a un fratello in una situazione del
genere? Qualche smanceria, forse, ma né io né lui
eravamo tipi da
cose del genere, sarebbe stato imbarazzante per entrambi.
“Fai...
fai buon viaggio”.
“Ehm”
si grattò il mento, impacciato. “Grazie”
rispose.
“E
salutami tutti. Anche il gatto di Malcom. E Roastbeef”.
Rise.
“Lo farò” mi assicurò.
“E
scrivimi un messaggio quando arrivi” continuai, lasciandomi
prendere la mano dai saluti.
Joshua
inarcò le sopracciglia. “Sei matta? Non lo faccio
con mamma,
figurati se scrivo SMS a te!”
In
effetti, era probabile che avessi esagerato un pochino. “E va
bene,
ma ricordati quello che ti ho detto ieri sera” conclusi,
puntandogli contro il dito indice. Così sì che
ero una persona
matura e severa.
“Sì,
sì, come vuoi” concluse lui. Lanciata la sua ex
felpa dei Blues
Brothers sul letto, si avviò verso la porta. “Vado
a salutare gli
altri, tu datti una mossa!”
“Sì,
signore!”
Quando
lo sentii scendere le scale, infilai in fretta quella felpa dentro lo
zaino e poi corsi giù a mia volta.
Mentre
il pickup si allontanava dalla fattoria, la mia mente ripercorreva
quei giorni passati in compagnia di mio fratello a Sperdutolandia, la
sera della cena a casa degli Hortus, la sua comparsa sulla strada che
portava in paese, i suoi commenti su Dean.
I
nostri rapporti erano davvero molto migliorati da quando mi ero
trasferita in campagna. Ora ero consapevole di volergli bene e quella
mattina ero stata sul punto di dirglielo. Fortunatamente ero troppo
emotivamente stitica per farlo e ci eravamo evitati un bel
po’ di
imbarazzo.
Fui
di umore malinconico per tutta la giornata e i tentativi di Kameron
di tirarmi su il morale furono utili solo in parte. Ci fu un solo
momento – che io ora ricordi – in cui mi sentii un
po’ meglio:
uscendo da scuola, il mio cellulare vibrò. Avevo un nuovo
SMS.
“L’aria
qui fa molto più schifo.
–J.”
Come
mi resi conto nei giorni seguenti, durante le lezioni di spagnolo i
posti in ultima fila erano sempre incredibilmente liberi. Era quindi
semplice per me e Kameron accaparrarci un posto in fondo
all’aula e
scambiarci bigliettini. Non che Matthew McDonnel fosse un insegnante
noioso, ma la tentazione di non far nulla, quando ne avevamo la
possibilità, era troppo forte perché noi, poveri
e inguaribili
pigroni, potessimo resisterle.
Come
ebbi modo di verificare, il maggiore dei McDonnel era un ragazzo
equilibrato e amichevole, anche abbastanza simpatico in effetti.
Aveva
i capelli un po’ troppo lunghi per un insegnante, ma questo
non
faceva che aumentare il suo fascino da uomo vissuto e consapevole,
che colpiva un po’ tutte le ragazze della scuola, insegnanti
comprese. Gli piaceva fermarsi a chiacchierare con gli studenti nei
corridoi, ma senza mai tardare troppo a lezione, da bravo docente
responsabile – che non si era preso la briga di presentarsi
fin dal
primo giorno, però. Si abbandonava spesso a racconti sulla
vita di
città, riferendo aneddoti sul posto in cui si era trasferito
per
studiare e aveva lavorato prima di allora. Era evidente che,
comunque, in città lui avesse lasciato il cuore. Sembrava
letteralmente innamorato della caotica atmosfera che aveva incontrato
in quel luogo, motivo per cui si sentiva in confidenza con me.
Quel
venerdì, mentre aspettavo Kameron fuori dal bagno dei
ragazzi
all’intervallo, Matthew uscì dalla classe di
fronte e, dopo avermi
quasi uccisa con un “Salve, principessa!”
pronunciato dalla sua
voce così simile a quella di Dean, si fermò a
fare due chiacchiere.
Mi raccontò che dopo l’università aveva
iniziato a lavorare in
una grande città, che probabilmente non era molto distante
dalla
mia. Era stato assunto come supplente in un liceo e aveva insegnato
per un po’, poi però il professore di ruolo era
tornato dalla
malattia e lui era stato cacciato. Da quel momento aveva avuto un
periodo di crisi in cui non riusciva più a trovare lavoro.
Era stato
a quel punto che aveva ricevuto la chiamata del preside Dewey, il
quale gli aveva proposto di tornare al liceo che aveva frequentato da
ragazzo in qualità di insegnante.Matthew non aveva proprio
potuto
rifiutare quell’offerta provvidenziale. Era lampante che la
città
gli mancasse, ascoltandolo parlare. Mi riempì di domande a
proposito
della mia esperienza nei due diversi ambienti in cui avevo abitato ed
era evidente che la sua preferenza, al contrario della mia, fosse per
la caotica e movimentata atmosfera cittadina. Il paese gli stava
stretto, il suo sogno sarebbe stato quello di vivere in una
metropoli, di poter lavorare e avere successo.
Gli
chiesi come faceva a sopportare la falsità della gente di
città. Mi
rispose che le persone false erano in ogni luogo, non di meno
lì in
campagna.
Conoscere
meglio Matthew mi portò a pensare che, forse, non era poi
così
male. Mi convinsi addirittura di poter scoraggiare ulteriormente la
mia cotta per... la mia cotta, insomma, concentrandomi su tutti i
pregi di Matthew che al fratello invece mancavano. La gentilezza, per
esempio, l’affabilità, la simpatia e la
disponibilità. Era
educato e paziente, brillante e indubbiamente era anche molto
bello.
Durante
una delle sue ore di spagnolo, al di fuori di ogni logica, mi
sorpresi a immaginare una scena da cartone animato di serie B.
Immaginai una me molto sciocca intenta a civettare spudoratamente
–
in maniera piuttosto imbarazzante - con Matthew. Qualcosa stonava in
quell’immagine, ma mi dissi che doveva necessariamente essere
quella strana me stessa con gli occhi vitrei, il sorriso ebete e una
ciocca di capelli attorcigliata al dito indice. Sicuramente non era
il colore di capelli del McDonnel a cui facevo gli occhi
dolci.
Prendermi
una cotta per qualcun altro, comunque, sarebbe stato un buon modo per
togliersi Dean dalla testa. Trattandosi di suo fratello, visto e
considerato quanto si somigliavano esteticamente, sarebbe stato
più
facile invaghirsi di lui. Lo trovavo un ottimo piano, ignorando
totalmente il razionale pensiero che molto probabilmente non avrei
fatto altro che cercare in Matthew le somiglianze con Dean.
Matthew
era, in ogni caso, una persona decisamente migliore di Dean, su tutti
i fronti. Se non fosse stato per i miei pregiudizi a quel punto sarei
stata a cavallo.
“Ma
si può sapere di che cosa stai parlando?”
domandò Emily
spazientita.
Era
la pausa a pranzo e io e Kameron ce ne stavamo spaparanzati nel
cortile, sfruttando le ultime giornate di bel tempo, prima che
l’autunno venisse a rovinare tutto. Era il periodo migliore,
in cui
ancora il sole splendeva ma le temperature si abbassavano e le foglie
degli alberi iniziavano a sfumare verso il giallo.
Joshua
aveva davvero avvisato Emily a proposito della presenza di campo e
dei miei orari di ricreazione, motivo per cui quel giorno aveva
deciso di chiamarmi. Nel vecchio liceo era molto più
semplice
eludere la sorveglianza – ai bidelli non interessava molto
quel che
facevano gli studenti – al contrario della scuola di
Sperdutolandia. Qui, Eric, il bidello dello sgabuzzino, sembrava
essere a conoscenza di mille passaggi segreti, visto che entrambe le
volte che ero uscita durante una lezione per vagabondare nei
corridoi, lui mi aveva sorpresa e rispedita in classe nel giro di un
minuto e mezzo. A quanto ne sapevo, non era solo per via della sorte
che mi giocava i suoi scherzetti, era un problema che avevano tutti
gli studenti. Eric era un segugio, non c’era modo di
sfuggirgli.
In
quel momento Emily si trovava acciambellata sull’amaca del
suo
giardino e ascoltava i miei deliri al telefono. Molto probabilmente,
a partire dal lunedì seguente, avrebbe fatto lo stesso, ma
seduta
sulla ciambella chiusa del water, nel bagno delle ragazze del
liceo.
“Dei
miei pregiudizi” risposi con naturalezza, mettendo in bocca
una
forchettata di maccheroni al formaggio.
“Ma
quali pregiudizi?!” domandò esasperata.
Deglutii.
“Come, quali pregiudizi?” chiesi senza capire.
“Sono
dieci minuti che parli di pregiudizi senza i quali quel professore
potrebbe piacerti” spiegò con un sospiro.
“Oh,
ti riferisci a quello. Lo sai come la penso a proposito delle persone
che piacciono a tutti: devono essere necessariamente sopravvalutate.
Non si può piacere a tutti!”
Kameron
sbuffò e mi lanciò un’occhiata di
sottecchi, che intercettai.
“Stai dicendo un sacco di cavolate”
bofonchiò, mentre masticava
il suo panino imbottito.
“Taci,
tu!” lo rimproverai.
Emily
rise. “Io sono d’accordo col tipo mezzo
dislessico!”
“Non
è mezzo dislessico: ha la bocca piena! E comunque vi sarei
grata se
non vi coalizzaste, grazie” la corressi, brandendo la
forchetta a
mo’ di spada, in difesa di messer Mietitrebbia e del suo
offeso
onore.
Un
Trenino e una Mietitrebbia. Lui e Dean erano proprio una bella
accoppiata. Ma, ripensandoci, a Dean non avrei dovuto proprio
pensare. Tracciai una riga su quel pensiero,
mentalmente.
“Coalizzarci?”
si informò Kameron, improvvisamente interessato.
“Perché, che ha
detto?”
“Che
sei dislessico”.
“Pan!”
mi richiamò all’ordine Emily.
“Ok,
ha detto che sei mezzo dislessico” precisai alzando gli occhi
al
cielo.
“Dislessico?”
“Non
è questo che voleva sapere!” continuò
imperterrita la mia
migliore amica. Perché doveva disturbarmi mentre mettevo a
cuccia
l’ego di Kameron? Non capiva quanto fosse importante la
questione?
“Ah,
e va bene” sbuffai, indicandolo con la forchetta di plastica.
“Ha
detto che hai ragione, d’accordo? Se volete vi metto in
vivavoce
così potete conversare liberamente” buttai
lì, sarcastica.
“Mi
sembra un’ottima idea”.
“Fico!
Conoscerò Emily!”
No,
cosa?! “Ehi!” protestai al loro entusiasmo.
“Era sarcasmo!
Avete presente? Lo uso più spesso del phon!”
“Ovvio,
quello non ce l’hai” rispose Lily.
“Allora, il
vivavoce?”
“Manipolatori”
accusai entrambi, finendo per obbedire e schiacciare quel dannato
tasto.
Risero,
e udirono l’una le risate dell’altro.
“Sai
qual è il tuo problema, Pan?” esordì
Emily. “Pensi troppo e
pensi male”.
“In
altre parole, sarei una cretina?”
“A
volte sì”.
“Grazie,
fa piacere essere stimati”.
Kameron
rise. Gli rivolsi un’occhiata divertita e presi
un’altra
forchettata di pasta.
Sentii
Lily sospirare. “Kam, dalle un pugno da parte mia”.
“Che?”
guardai allucinata Kameron, che stava già alzando una mano
sorridendo sornione. “Non ti azzardare,
microcefalo!” lo
minacciai con la forchetta.
Risero
entrambi, mentre mi ficcavo in bocca i maccheroni con una smorfia
imbronciata. Si divertivano alle mie spalle? Bravi, che amici! E dire
che avevo chiesto loro di non coalizzarsi.
“Come
sei suscettibile”.
“Sì,
lo diceva anche Sid dell’Era Glaciale” bofonchiai a
denti
stretti.
“Pan,
ascoltami, zuccona”. Era sempre così gentile la
mia migliore
amica! “Pensi
troppo e pensi male. Concentrati su questo. Che pensi troppo
è un
dato di fatto. Che pensi male significa che fai dei ragionamenti
contorti e sbagliati. Non puoi scegliere di chi innamorarti, succede
e basta”.
Ma
quale originalità! Cose dette e ridette, trite e ritrite.
Quasi
banali. Il discorso mi metteva parecchio a disagio, non mi piaceva la
piega che la conversazione stava prendendo. Kameron non sapeva della
mia cotta per il suo migliore amico. E non doveva saperlo, visto che
io stessa me ne sarei presto dimenticata.
“Ma
che problema c’è?” farfugliai,
masticando. “Io non sono
innamorata di nessuno!”
“Già”
fece Kameron poco convinto.
Lo
guardai male, allarmandomi leggermente. “Ma tu cosa ne sai,
scusa?”
domandai, aggrottando le sopracciglia. Di discorsi sentimentali, con
lui, non ne avevo mai presi. Un po’ perché mi
faceva comodo, un
po’ perché sarebbe stato imbarazzante parlarne con
chiunque non
fosse Emily. Raccontarlo al migliore amico del colpevole, inoltre,
sarebbe stato un suicidio.
Si
strinse nelle spalle e rimase sul vago. “Tutte le ragazze
sono
innamorate”.
Assottigliai
gli occhi. “Non io” risposi con convinzione.
“E poi è una
cretinata bella e buona, questa!”
“Non
ci giurerei”.
Mi
stava sfidando? Da quel momento diventò questione di
principio, per
me, mantenere il segreto. “Io sì”. Non
incrociai le dita,
sebbene per un momento avessi davvero pensato di farlo. Io non ero
innamorata. Leggermente invaghita, forse, ma si trattava soltanto una
cosa passeggera.
Misi
in bocca l’ennesima forchettata, per dare un tocco di
naturalezza
in più alla mia farsa.
Kameron
si gonfiò come un pavone, aprì la ruota e
rizzò le spalle,
ergendosi in tutta la sua grandezza, nonostante fosse seduto. Sorrise
sornione, sganciando poi la bomba: “Che mi dici di
Dean?”
Il
cibo mi andò di traverso. Sgranai gli occhi, cominciai a
tossire e,
mentre Emily non sapeva se ridere o preoccuparsi, Kameron
scattò
prontamente e mi prese a manate la schiena, ottenendo l’unico
risultato di farmi mancare il fiato per via dei colpi.
“Ehi!
Devo chiamare qualcuno? Sei viva!”
Lo
guardai male tra un colpo di tosse e l’altro. Gli avrei anche
risposto male, se solo non stessi rischiando la vita. Per lo meno
l'ultima cosa che avrei visto sarebbe stato un volto
amico.
Finalmente
riuscii a liberare le vie respiratorie e mi gettai lunga e stesa
sull’erba, respirando a fondo.
“Non
la sento più. Sta bene?” udii Lily domandare.
Nel
panico da rischio di soffocamento avevo lanciato via il telefono, che
ora era da qualche parte in mezzo all’erba, e rovesciato
tutto il
mio pranzo a terra. Un disastro degno di un uragano, ma niente di
particolarmente virtuoso o stupefacente per una che come me aveva la
sorte costantemente contraria.
Kameron
recuperò il telefono e tornò a sedersi accanto a
me. “Sì, ora
sta contemplando il paradiso dalla prospettiva terrena. Credo proprio
che qualche istante fa l’abbia visto
dall’alto”.
Soffiai
una risatina esausta. “Puoi giurarci” confermai.
Emily
sospirò di sollievo e rise. “A questo punto puoi
intuire la
risposta alla tua domanda, Kameron”.
Ma
perché mi faceva questo? Perché riprendeva il
discorso? Avevo –
involontariamente – trovato un così bel diversivo!
Lui
sogghignò. “È evidente” le
rispose lui. “Lo sapevo già”.
Ma
sentitelo, il grande veggente ha parlato. Lo sapeva già,
lui. ‘Tutte
le ragazze sono innamorate, gnè, gnè,
gnè’. Cretino!
“Lo
immagino. Chissà com’è vederli litigare
dal vivo!”
“A
volte è quasi comico” rispose lui, sogghignando.
Sembrava
parlassero di una telenovela. La loro amica non aveva appena
rischiato di soffocare, non avevano giustamente nulla di cui
preoccuparsi. Che insensibili.
“Pan
è un fenomeno quando si mette a sparare insulti, quindi
posso
immaginare. A quanto ne so io, lui è particolarmente sagace.
È
vero?”
“Qualunque
cosa significhi, se te l’ha detto lei, allora è
vero” rise lui,
un po’ imbarazzato per la propria ignoranza.
Fai
bene! Vergognati! E dopo me la paghi!
Anche
Emily ridacchiò allegramente. Sembrava così
contenta di poter
parlare di me come se non ci fossi.“È evidente che
le piaccia,
vero? Credo che anche Joshua abbia intuito qualcosa”.
“Perché,
che ti ha detto?” saltai su, improvvisamente terrorizzata.
Non
poteva essersene accorto anche lui. Passava che lo avesse intuito
Emily, che essendo la mia migliore amica da sempre, mi conosceva come
le sue tasche e anche meglio. Kam poteva aver imparato a
interpretarmi, forse, ma in tutta probabilità aveva tirato a
caso e
il mio principio di soffocamento non aveva fatto che confermare la
sua supposizione – quindi era tutta colpa mia se ora lo
sapeva. Ma
Joshua? Joshua doveva averlo capito dai miei atteggiamenti quando
Dean era presente e questo avrebbe potuto significare che persino il
diretto interessato... impossibile. Impossibile perché a me
non
piaceva più. O comunque sarebbe successo presto, ecco.
“Non
mi ha detto nulla, sei tu ad avermi raccontato di quelle
domande”
rettificò Emily. “Senti, non credi di essere un
po’ troppo
paranoica, Pan?”
Guardai
Kameron, che annuì appoggiando il pensiero della mia amica.
Sospirai. “Hai
perfettamente ragione”.
Era
stata proprio la paranoia a fregarmi con Kam, ma ormai il danno era
fatto.
In
der Ecke – Nell’angolo:
Buonsalve!
Una
sola precisazione – in realtà ne avrei due, ma
della seconda mi
piacerebbe che vi accorgeste da sole ^^ -, in città, la
scuola non è
ancora iniziata. A questo punto della storia, quando Kameron scopre
la cotta di Pan, è ancora la prima settimana di scuola,
più
precisamente il venerdì 17. Oh, fico, venerdì 17!
*se ne accorge
solo ora* Il ‘segreto’ di Pan viene scoperto di
Venerdì 17. LOL,
l’ho sempre detto che è una data fortunata! ^3^
Passiamo ad una grande novità! (?)
Sul gruppo
*click*
l'idea è stata accolta positivamente, ne approfitto dunque
per pubblicizzare l'iniziativa anche quaggiù in fondo, nella
speranza che interessi a qualcun altro: UN
CONTEST! *click* "MEGALOMANIA MOMENTANEA - Coppie? Quali
coppie?" Si tratta di un contest basato su questa
storia, Cows and Jeans. Tutto ciò che dovete fare, se volete
partecipare, è cliccare 'partecipa' nell'evento facebook (o
farmelo sapere per MP, se non avete facebook), scegliere una coppia
(una qualsiasi a vostra scelta!) e scriverci su! :D In palio ci son
banner un po' scrausi, perché sono pessima con la grafica -
so usare solo paint -, qualche spoiler e delle risposte alle vostre
curiosità su trama e personaggi.
Ho pasticciato con NVU per la prima volta, quindi non so che casino io
abbia combinato con l'html. XD
Spero che il capitolo vi sia piaciuto! ^^
PS. Quello che vedete ora è ciò che ho scritto ieri sera, quando EFP non funzionava e non potevo postare. Ora sono le quattro e quaranta e sono tornata a casa da tipo venti minuti dopo essere stata a scuola fino alle due e a scuola guida fino alle quattro. T.T (E questo ve lo dico giusto per lamentarmi un po', in fondo lo sapete che è una cosa che mi diverte. :)Vi ricordo che se vi iscrivete al gruppo facebook 'Per la barba di Merlino, Pan!' (non ho voglia di inserire di nuovo il link, per trovarlo basta cliccare du 'gruppo' nei pragrafi sopra o sull'icona con i due omini sul mio profilo) potete essere aggiornati ogni qual volta vogliate sullo stato del capitolo 'seguente', fare quattro chiacchiere con me e il resto del 'popolo di Sperdutolandia' (e non parlo dei personaggi, ma di quelle meravigliose ragazze iscrittesi! :D) e soprattutto vedere tutti i bellissimi disgeni di Mary_ - e credo sia uno dei motivi più validi per iscriversi. :)
Buon proseguimento di giornata! :3