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Autore: margheritanikolaevna    20/09/2012    6 recensioni
Da tempo avevo voglia di scrivere una fic "classica" su White Collar, concentrata sui personaggi principali e sui rapporti tra loro, ma che fosse anche ricca di azione e suspance e allo stesso tempo affrontasse qualcosa che nella serie viene solo sfiorato alla lontana.
Un indizio: qualcuno di voi si ricorda chi era Pamela Smith?
Dal secondo capitolo: "Senza dire una parola Pamela girò dietro a una delle casse, scavalcò la commessa stesa bocconi, che trattenne visibilmente il fiato mentre lei le si avvicinava, e premette il bottone rosso dell’allarme che sapeva trovarsi proprio sotto la scrivania.
Poi afferrò il telefono più vicino, sistemò la cornetta tra il viso e la spalla e con la sinistra compose il numero che aveva imparato a memoria a forza di ripeterselo nella mente un’infinità di volte.
Non appena dall’altra parte udì le parole “F.B.I., desidera?” disse con voce chiara e senza alcuna esitazione: “Voglio parlare con Neal Caffrey”.
Buona lettura e... preparate i fazzoletti!
Fanfiction seconda classificata al contest "La cognizione del rancore", indetto da darllenwr su efp.
Fanfiction prima classificata al contest "Spargilacrime" indetto da Lady Eloise su efp.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
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Questa storia è dedicata a meiousetsuna che, oltre a essere una fantastica autrice, è anche - cosa questa persino più importante - una persona deliziosa, che ho conosciuto grazie a efp e che continuo ad apprezzare sempre di più ogni giorno che passa. Una cosa che lei mi ha raccontato sulla sua vita mi ha fatto venire in mente la soluzione per un intoppo narrativo sul quale mi ero bloccata: setsuna, il riferimento è nell’epilogo e sono certa che lo troverai senza fatica.
Il racconto si sviluppa come un what if? molto drammatico, partendo da un episodio della seconda stagione di WC e portando alle conseguenze estreme ciò che si è fugacemente visto nelle scene iniziali della puntata; è costruito come se fosse un film, con brevi flash che disegnano le singole scene, e non ha un andamento temporale lineare dato che - dopo il prologo - la prima scena è cronologicamente tra le ultime e la narrazione procede “per salti” avanti e indietro.
Ovviamente è stato scritto senza fini di lucro e i personaggi rappresentati non mi appartengono, fatta eccezione per quelli frutto della mia insana immaginazione.
 
 
 
 
 
La donna invisibile
 
PROLOGO
 
Questa è la storia più triste che io abbia mai sentito!
E se ve lo dico io che di tristezza me ne intendo dovete credermi: mi chiamo Sean O’Hearne - ma tutti mi chiamano semplicemente Red per via del colore mei miei capelli - e per quarant’anni ho fatto il secondino a Rikers, trascorrendo la mia vita chiuso in gabbia, innocente in mezzo ai criminali, fianco a fianco con ladri, stupratori e assassini.
Uomini spesso malvagi, a volte sfortunati; sempre e comunque vinti.
Me la raccontò il detenuto della cella numero 21 poco prima di morire, accoltellato nel corso di una rissa furibonda scoppiata durante l’ora d’aria e che - si disse - aveva lui stesso provocato, andando a stuzzicare due tagliagole di origine russa provvisoriamente appoggiati qui in attesa di processo.
Lo ricordo come fosse ieri, disteso sul lettuccio di ferro dell’infermeria e coperto completamente da un semplice lenzuolo bianco macchiato di rosso in più punti; lo conoscevo da anni, gli ero in qualche modo affezionato, eppure non ebbi il coraggio di scoprirgli la faccia, né tanto meno di toccarlo. Era immobile, già freddo.
E totalmente, disperatamente solo: mi venne in mente che in tutto il tempo che aveva passato a Rikers nessuno mai gli aveva scritto una lettera, né era venuto a trovarlo. Nessuno: né una donna, né un amico e neppure un parente.
Solo una volta si era presentato a colloquio un tipo bassino, pelato, con l’aria sfuggente: aveva chiesto di vederlo, ma lui si era rifiutato senza spiegarne il motivo.
Qualche mese più tardi mi confidò che quello era stato il suo socio, il suo migliore amico, l’unico che dopo quel che era successo non gli aveva voltato le spalle; il solo che non gli avesse gridato in faccia che era stato un vigliacco. O che, se pure lo avesse pensato, non aveva avuto il cuore di dirglielo apertamente.
Nonostante ciò lo aveva mandato via senza una parola, un abbraccio, un sorriso: la verità era che la loro amicizia ormai apparteneva a un mondo finito per sempre e parlare con lui sarebbe servito solo a ricordargli ciò che era stato, ciò che aveva avuto e irrimediabilmente perso.  
E questo era - all’evidenza - troppo doloroso per lui, oltre che del tutto inutile.
La sua esistenza, accartocciatasi su se stessa, si era poi frantumata in schegge di dolore che alla fine lo avevano trafitto.
Rimasi accanto a lui, in silenzio, fino a che non arrivò il medico legale.
Era stato trasferito qui dopo avere passato gli ultimi anni della sua vita entrando e uscendo dal carcere: non appena finiva di espiare la pena e rimetteva piede fuori, subito faceva tutto il possibile per rientrarvi di nuovo.
Il suo certificato penale era quasi un’enciclopedia del crimine: violazione di domicilio, falsificazione di banconote, ricettazione e poi truffe di ogni genere.
Da ultimo non era stato più capace nemmeno di quelle e si era dato ai furti nei negozi; i quattro soldi che riusciva a mettere insieme così se li beveva avidamente e il giorno dopo era punto e a capo. Di denti in bocca gliene erano rimasti pochi, ma che importava? Mangiare non era indispensabile e per bere i denti non servivano…
Era passato molto tempo da quando aveva avuto un tetto sopra la testa: quando non era dentro viveva per strada, con le ossa inzuppate dalla pioggia d’inverno e calcinate dal sole in estate.
Immagino ci fossero alcuni negozianti che, spinti dalla compassione, gli consentivano di dormire nel retrobottega, salvo perquisirlo quando al mattino se ne andava perché era logico che tentasse di rubare qualcosa.
Magari a volte qualcuno si impietosiva vedendolo così malridotto e gli allungava un biglietto da dieci dollari; altre i derubati preferivano non denunciarlo, ma il giorno dopo lui ci riprovava, come spinto da un demone che gli divorava l’anima.
Come se l’unico posto in cui volesse vivere fosse la prigione: sì, proprio così, quell’uomo voleva concludere i suoi giorni in galera e - buon Dio!- alla fine ci riuscì.
Diceva che da giovane era stato un artista, che c’erano musei che ancora esponevano copie di quadri famosi rifatte da lui talmente bene che nemmeno quei tronfi parrucconi dei cosiddetti esperti d’arte se n’erano accorti!
Beh, se anche fosse stato vero, quel tempo doveva comunque essere passato da un pezzo, giacché quando lo conobbi le mani gli tremavano talmente tanto che a stento riusciva a mangiare da solo.
Prima di arrivare qui aveva trascorso alcuni anni ad Auburn, dove - me lo disse tempo dopo un collega che lavorava lì all’epoca - gli altri detenuti lo avevano preso in odio per la sua collaborazione con l’F.B.I., rendendo la sua vita lì un vero inferno.
Il dottor Di Maio, che lo visitò per i controlli di routine al suo ingresso a Rikers, mi raccontò che il suo corpo era uno spaventoso reticolo di cicatrici: di una in particolare - un orrendo taglio lungo oltre dieci centimetri che gli deturpava l’anca sinistra - si meravigliò che la ferita non l’avesse ucciso. Se la sua pelle era martoriata, la sua anima non stava certo meglio; solo che quelle cicatrici erano esteriormente invisibili e quelle ferite potevano essere curate con ancora maggiore difficoltà.    
Ho fatto per tanto tempo la guardia carceraria e ne ho viste di tutti i colori: non mi è difficile immaginare cosa abbia passato in quel periodo, quando la sua scelta era tra il subire l’ennesimo stupro oppure il ritrovarsi un’altra volta con una costola fratturata o le labbra spaccate.
Lo so: i detenuti diventano delle bestie con quelli che considerano infami o, peggio ancora, spie e sono certo che nulla gli sia stato risparmiato.
Nonostante tutto, però, pareva che per lui la prigione fosse un’esperienza meno terrificante della libertà che l’attendeva fuori: almeno dietro le sbarre c’erano regole, orari, gerarchie precise. In galera non era costretto a pensare al futuro, a scegliere come vivere; no, la libertà non faceva più per uno come lui, divorato dalla paura e dal rimorso.
Dentro non sei tu che vivi la vita, è lei che vive te e tu non puoi fare altro che subirla: mi sono fatto l’idea che questo fosse tutto ciò che la sua anima vinta era in grado di sopportare.
Ricordo un uomo scarno, curvo, più vecchio dei suoi anni: uno sul quale la sorte si era abbattuta come un uragano, spezzandone la fibra.
Eppure qualcosa in quel miserando ubriacone ancora tradiva ciò che un tempo doveva essere stato: dietro quegli occhi blu acquosi, assenti, talvolta avevo scorto un brillio che era ancora giovane e vivo e affascinante, sebbene sepolto dentro a un corpo che ormai era poco più che un rottame.
Ultima flebile traccia di passata bellezza, di un fascino che il dolore aveva quasi completamente cancellato.
Mi raccontò cosa accadde una notte che io ero di servizio e lui non riusciva a dormire a causa del caldo e delle zanzare: da allora non l’ho mai dimenticato, come non sono riuscito a scordare la sua faccia mentre parlava con me, i suoi occhi gonfi e le palpebre macchiate di rosso conficcate nel volto grigio… vi è mai capitato di vedere quello sguardo assente e disperato?
E la sua voce a tratti stridula, a tratti incrinata, eppure carica di dolcezza in alcuni momenti; un paio di volte, quando tutto si faceva insopportabilmente vivo nel suo ricordo, si fermò e pianse un poco, quieto, senza singhiozzare.
Poi ricominciò.
Sono passati anni da allora, adesso sono vecchio anch’io e la memoria è il mio mondo: ogni tanto ripenso a lui, al vecchio ladro di Rikers e alla sua vita spezzata.
C’era stata un’epoca in cui lui era stato giovane, bello e felice.
Un tempo lontano in cui aveva il mondo ai suoi piedi: una bellissima casa, vestiti eleganti, un lavoro rispettabile e soprattutto degli amici che gli volevano bene e lo avevano aiutato a cambiare, diventando una persona migliore.
Non posso rammentare tutti i loro nomi, ma due… sì, mi sono rimasti in mente, perché erano quelli che ripeteva più spesso e che pronunciava con maggiore rimpianto: si chiamavano Peter ed Elizabeth e questa è la loro storia.
 

  
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