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Autore: Opalix    27/04/2007    11 recensioni
“Ai miei tempi sono stata chiamata in molti modi: sorella, amante, sacerdotessa, maga, regina. Ora in verità sono una maga e forse verrà un giorno in cui queste cose dovranno essere conosciute. Ma credo che saranno i cristiani a narrare l’ultima storia…” Marion Zimmer Bradley – “Le nebbie di Avalon”.
Genere: Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Draco/Ginny
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da VI libro alternativo
Capitoli:
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CAPITOLO 3: BLOODY FLOWERS

I giorni scorrevano lenti e frustranti, per Ginny: tra un’occhiata incuriosita e una preoccupata, tutti mostravano di sapere della profezia e nessuno osava parlarne. Non con lei, per lo meno… che era passata dal penoso ruolo di “ragazza scaricata da Potter” a quello di oscura protagonista del prossimo futuro e di una guerra che, in realtà, le aveva già strappato fin troppo.
Per una volta, due ragazze erano riuscite ad eclissare il Prescelto nella top ten del gossip: l’ombra di un destino infausto aleggiava su Ginny – e di conseguenza su Calì – come l’artiglio nero di un mostro a sette teste, calamitando l’attenzione e la curiosità morbosa di chiunque. Per quanto riguarda noi – gli amici, ciò che restava della sua famiglia e dell’Ordine – alla preoccupazione per il suo atteggiamento schivo e solitario, si aggiungeva l’angoscia di non poter dare un senso a nessuna delle parole che Calì aveva pronunciato… Calì che, convinta di aver condannato Ginny ad un destino di guerra e dolore, si era chiusa in un silenzio ostinato, colpevolizzando se stessa per le parole che nemmeno riusciva a ricordare.
Non avevamo la più pallida idea di cosa fosse quella luce splendente che Ginny doveva portare (Dove? Da dove?), o del perché quel sangue (il sangue di chi?) brillasse “più di cento stelle”. Non sapevamo chi fosse il rinnegato che il destino avrebbe fatto tornare da noi. E non sapevamo quel’era la “porta” di cui Ginny avrebbe dovuto essere la chiave… né, tanto meno, se l’espressione dovesse essere interpretata nel senso più letterale del termine.
Il collegamento tra il giardino notturno il cui ingresso era bloccato da più di mille anni, e il ruolo di Ginny negli avvenimenti che seguirono, era stato più azzeccato di quanto, a quel tempo, avrei mai potuto supporre… ma, in quei giorni più che mai, tutti noi non facevamo che brancolare nel buio.
Probabilmente Ginny aveva le idee molto meno confuse di me e Minerva. Lei aveva un vantaggio, del resto: lei, Isanhild, la conosceva.

“Reach out for the light
far beyond confines.
You have read the magic lines
leading to the light in your mind...”
“Reach for the light” from “Avantasia – The Metal Opera, Part I” (2001)

Merlino solo sapeva perché se ne stava lì sul pavimento, invece di varcare la solita soglia e trovare le comode poltrone, i libri che amava, il centauro ricamato sull’arazzo che tante volte le aveva tenuto compagnia nelle notti d’inverno.
Le ossa si lamentavano della durezza delle pietre, al di sotto della poca carne che ancora le copriva. Eppure Ginny non sembrava farci caso.
Gli occhi turchini della strega del vecchissimo dipinto la guardavano con il consueto, rammaricato, sorriso… quasi un dirle “vorrei parlarti, vorrei raccontarti la mia storia, non sai quanto vorrei consigliarti ed ascoltarti”. Ma Ginny avrebbe dovuto vivere, e scoprire da sola che il mondo non si inventa mai nulla di nuovo e la storia non fa che ripetersi, non importa quanto tempo sia necessario perchè il cerchio si richiuda.
“Isanhild.”
Scandì il nome con voce chiara, pronunciandolo con il corretto accento nell’antica lingua. La Signora del Gelsomino incurvò lievemente le labbra, la testa inclinata in una specie di silenzioso assenso.
“Dunque anche il tuo destino era legato a quello di un rinnegato…” sospirò Ginny. Nella sua mente prese forma la domanda che da giorni ricacciava indietro, come un pensiero maligno, un rovescio di bile amara di cui non voleva sentir il sapore: chi? Chi era questo rinnegato che doveva tornare da chissà dove, chi era e cosa aveva a che fare con lei? In che modo i loro destini si sarebbero intrecciati? Cosa avrebbe significato quel ritorno per lei?
La ragazza sorrise ad Isanhild, rispecchiandone l’espressione con una fedeltà impressionante quanto involontaria.
“Ci mancava solo questa…” mormorò al nulla.
L’usignolo trillava ancora, gioioso, accogliendo con una serenata l’estate in arrivo. Ginny si addormentò sul pavimento, cullata da quel suono intermittente che richiamava sogni agitati in cui le persone non avevano volti e qualcosa emanava una luce talmente accecante da impedirle di vedere cosa fosse.

Fu probabilmente la luce flebile dell’alba a svegliarla, insieme all’aria frizzante che entrava da ogni spiffero: rabbrividì, mentre sbatteva le palpebre per orientarsi. Raggi di luce entravano dalle finestre alte e illuminavano il ritratto antico di Isanhild, come Ginny non l’aveva mai visto: alla luce del sole, la “Signora del Gelsomino” era soltanto una vecchissima tela strappata, sulla quale si intravedevano macchie di colore a delineare una figura umana appena distinguibile. Il verde sbiadito di quello che Ginny sapeva essere l’abito della donna, si confondeva con il blu-verde dello sfondo, interrotto solo dalla macchia chiara del viso e dei capelli.
La ragazza sfiorò la tela con le dita, gli occhi assonnati spalancati per lo stupore; il sole aveva rivelato la vera età del quadro e, certamente, della donna che vi era ritratta… non vi erano dubbi che fosse lei, la bionda Isanhild ritratta nel suo giardino notturno: una donna che aveva vissuto all’ombra di un mago potente ma rinnegato dai grandi del suo tempo, che aveva scelto di restare con lui lontana dalla fulgida luce di quelli che il mondo chiamava buoni e coraggiosi e che, anche dopo la morte, si mostrava soltanto al riflesso delicato ed ingannevole della luna.
“Dormi bene, amica mia…” sussurrò Ginny, prima di andarsene.

Scese in infermeria e si concesse di lavarsi il viso nel piccolo bagno bianco che profumava di disinfettante: lo specchio rifletteva il bianco della sua pelle, così uguale al colore della parete dietro di lei, e Ginny si chiese distrattamente da quanto tempo non volava con la scopa nella luce calda del sole, da quanto non sentiva la libertà di ridere e stringere gli occhi per guardare il cielo sereno… anche le sue famose lentiggini erano diventate talmente diafane da risultare invisibili.
Madama Chips dormiva ancora nella stanza adiacente l’infermeria e Ginny cercò di fare meno rumore possibile.
In uno dei letti dell’infermeria dormiva un piccoletto bruno, studente del primo anno, caduto dalla scopa alla prima lezione di volo. Un classico. Le ossa di entrambi i polsi si sarebbero saldate perfettamente nel giro della nottata.
Due letti più in là, Seamus russava sonoramente, la spalla destra immobilizzata da bende bianche e strette: il morso del Thestral aveva fatto infezione, quei dannati bestioni che mangiavano carogne non dovevano avere i denti tanto puliti… solo dal giorno prima la ferita profonda aveva iniziato ad avere un aspetto pulito ed in via di guarigione. E pensare che era stato solo il risultato di un infantile gioco acrobatico per far sorridere Calì.
Che Seamus fosse innamorato della bella indiana non era certo un mistero, persino i fantasmi e i ritratti del castello sghignazzavano alle spalle dell’irlandese ex-Gryffindor. Il suo fare il pagliaccio in continuazione per cercare di farla ridere, specialmente dopo l’ultima terribile profezia, richiamavano sorrisi di compatimento da parte di chiunque, ma Calì non sembrava ritenerlo degno nemmeno di quelli: dall’alto della sua scostante tristezza, ignorava ogni tentativo di strapparle un sorriso. Certo, a Seamus bisognava almeno riconoscere il dono della costanza.
Senza svegliarlo, Ginny controllò rapidamente che sotto le bende l’infezione non avesse ripreso a divorare la ferita: era pulita, per fortuna… ma una bella cicatrice di guerra non gliel’avrebbe levata nessuno.
Prese dall’armadietto due bottiglie di pozione ricostituente e si avviò con passo silenzioso fuori dall’infermeria, verso l’esterno del castello.

Silenziosa, nella nebbiolina che si levava dalla terra riflettendo la luce rosata dell’alba, Ginny corse verso la casetta di Hermione e ne aprì piano la porta, attenta a non farla cigolare. Attraversò l’ingresso e controllò che nessun suono venisse dalla stanzetta in cui Herm dormiva, prima di dirigersi verso la stanza, il sacrario protetto da incantesimi in cui Ron riposava e avrebbe riposato per sempre a meno di non trovare il modo di invertire quella fattura misteriosa.
Appoggiò le bottiglie sul comodino e controllò, con sensibilità esperta, che gli incantesimi in grado di mantenerlo congelato in quella parvenza di vita fossero tutti al loro posto, rilucendo come una cascata di polvere azzurrognola sospesa nell’aria sul corpo del fratello. Con la bacchetta sollevata al di fuori di quella luminescenza, mormorò un incantesimo che rese visibile, come se il corpo di Ron si fosse trasformato all’improvviso in un involucro di cristallo, il cuore che si contraeva ritmicamente, lento ma regolare.
“Chissà se il tuo cuore accelera ancora i battiti quando c’è Hermione qui accanto…” mormorò, riabbassando la bacchetta.
Sorridendo alla romantica idea che il fratello, in qualche modo, potesse ancora sentire la vicinanza dell’amore della sua vita, cambiò la bottiglia ormai vuota della pozione, e controllò lo stato dell’ago che portava il liquido dai riflessi verdastri dentro la vena del braccio di Ron.
Soltanto la notte prima, gli aveva raccontato sottovoce della profezia di Calì… e di ciò che sentiva, o meglio non sentiva, a riguardo. Gli raccontava sempre ciò che le succedeva, ciò che pensava: la aiutava a capire. Ron era stato l’unico a cui aveva confidato, in lacrime quanto si fosse sentita tradita da Harry e Luna. Peccato che il fratello non potesse confortarla in alcun modo… ma la luce celeste che irradiava dal suo corpo pallido e immobile le donava quel briciolo di pace senza la quale, dopo la morte del padre avrebbe, probabilmente, rischiato di impazzire.
Svanito il panico del momento, si era accorta che ciò che aveva risposto alla professoressa McGrannitt quando avevano parlato della profezia, non era poi così lontano dalla verità: se quella era la strada che doveva percorrere, non ci sarebbe stato un bivio o un incrocio al quale scegliere la direzione; se nelle stelle era scritto che lei avrebbe avuto una parte nel definire il futuro del mondo, dunque quelle stesse stelle avrebbero illuminato per lei il solo cammino possibile… non restava che aspettare. Non aveva paura. Era soltanto stanca… stanca degli sguardi, stanca dei sussurri. Stanca.
Ciò di cui si era resa conto, parlando sottovoce, con la mano di Ron inerte tra le proprie, era di essere… curiosa. Per quanto sapesse che con ogni probabilità le parole senza senso di quella profezia le avrebbero portato altro dolore, voleva vedere cosa sarebbe successo: aveva di nuovo un motivo per guardare in avanti piuttosto che indietro. Con un desiderio fremente, così infantile da non riconoscersi nemmeno, voleva esserci, partecipare, voleva essere là a vedere ciò che sarebbe accaduto e poter dire “ecco, era questo il significato!”... e, forse più di ogni cosa, voleva che quella guerra, un volta per tutte, finisse.
“Ho conosciuto Isanhild, lo sai?” sussurrò al fratello, sedendosi sul bordo del letto, “in realtà la conosco da tanto… ma adesso posso chiamarla per nome. Vorrei entrare nel suo giardino, non sai quanto! Forse… credo che sarebbe un po’ come poterle parlare. Quel luogo era suo, un posto che le apparteneva, che aveva costruito lei in modo che fosse come lo desiderava… non puoi non lasciare un pezzo di te stesso quando crei un posto perché sia tuo, vero?”
Quel giardino era chiuso da mille anni: che diritto aveva lei di irrompere in esso e turbarne il sonno che avrebbe dovuto essere eterno? E, d’altra parte, se non voleva essere disturbato, perché sentiva la chiamata di quel luogo così intensa da farle dolere il cuore? Perché aveva quella certezza assoluta che Isanhild volesse dirle qualcosa?
Chiuse gli occhi e rivide il viso della donna, con la sua quieta tristezza, con quei luminosi occhi turchini appena velati dall’amarezza rassegnata e silenziosa di chi ha già visto quanto la vita possa farti del male, e ha capito che in fondo, vale la pena viverla lo stesso.
“Buona giornata, fratello…” sussurrò prima di andarsene.

Risalì il pendio della collina ma non varcò l’enorme portone che segnava l’ingresso nella scuola; aggirò invece il perimetro del muro e si ritrovò nei giardini, tra i vetri delle serre su cui danzavano le fiamme rossastre della luce dell’alba.
Saltando sterpaglia e aggirando muri e siepi, si ritrovò sotto l’alta colonna, al di sopra della quale il gargoyle di ossidiana sembrava squadrarla, quel mattino, con sufficienza.
“Antipatico…” gli lanciò la ragazza, con un mezzo sorriso.
Le grandi foglie cuoriformi che bloccavano l’entrata come sospese nel nulla a creare un muro incantato, sembravano più folte che mai. I fiori purpurei erano richiusi saldamente in boccioli verdi dalle sfumature rossastre, grossi come il pugno chiuso di Ginny.
La voce di Calì le risuonò, senza spiegazione apparente, nella testa.
Tu sei la chiave di entrambi i lati della porta.
Forse era qualcosa nel tono con cui le profezie venivano pronunciate, a renderle così facili da ricordare, a farle risuonare nella mente di chi le aveva ascoltate come se ci fossero sempre state, come canzoni perdute nei meandri della memoria le cui parole salgono alle labbra all’improvviso, senza motivo, solo per essere cantate.
Se era la chiave, tanto valeva cercare la toppa.
Prima di farsi prendere dal terrore di un tranello del diavolo pronto a trascinarla tra gli sterpi e strangolarla, infilò la mano tra le foglie con un gesto risoluto.
Per un istante non accadde nulla.
Poi il polso cominciò a bruciare come per mille punture di insetto, mentre i grossi boccioli avevano preso a vibrare e ronzare, una nota stonata nell’aria che sapeva di crudele sarcasmo; la melodia sommessa fu interrotta dallo strillo di Ginny che ritrasse immediatamente la mano. Nulla la trattenne. Ma ora sul polso iniziavano a gonfiarsi centinaia di piccole vescicole rossastre, che bruciavano come l’inferno.
Ginny legò un fazzoletto attorno al polso, in attesa di tornare in infermeria e rimediare qualcosa di meglio. Alzò lo sguardo verso il gargoyle nero e gli scoccò un’occhiata stizzita.
“Se tu potessi parlare, immagino che un ti-avevo-avvertito non me lo toglierebbe nessuno, vero?”
Delusa, la ragazza trascinò i propri passi verso il castello e un’altra giornata di lavoro.

“Never had a very real dream before.
Now I got a vision of an open door.
Guiding me home, where I belong,
dreamland I have come.
Oh where do I go?”
“The Tower” from “Avantasia – The Metal Opera, Part I” (2001)

Di nuovo ferma, in piedi davanti a quel portone a battenti che non aveva alcuna voglia di varcare, con quel sapore amaro in bocca che toglieva ogni desiderio di ingoiare un boccone. Quell’amarezza che si era intensificata, quella morsa allo stomaco che si era fatta soffocante, ora che tutti la guardavano come se da un momento all’altro dovesse far apparire dal nulla la mitica Excalibur, scintillante nella luce rossa del tramonto, e consegnarla al novello Difensore della Britannia… ora che non c’era più solo compassione nei loro occhi, ma anche timore. Ora che non poteva più sopportarlo.
E di nuovo voltò le spalle ai battenti, correndo sulle scale con passo leggero, quasi silenzioso.

Due figure comparvero sul pianerottolo bloccando la sua corsa: rallentò e si spostò di lato per lasciarli passare, pregando le ombre della sera di avvolgerla e nasconderla, nella vana speranza che quei due le usassero la cortesia di tirare avanti senza rivolgerle la parola.
“Gin…”
Gli dei non avevano ascoltato.
Harry staccò frettolosamente la mano da quella di Luna, come facevano sempre quando la incontravano. Come se la loro fosse una storia clandestina, come se si sentissero in colpa di averla fatta soffrire, come se non aspettassero altro di vederla strillare che “potevano farci un pensierino un po’ prima, grazie”.
Ginny sospirò. Era doloroso il modo in cui Harry, per lei, sembrasse brillare sempre di luce propria… e per la sua luce riflessa anche Luna brillava, ora, in accordo con quel nome che era quasi una condanna. Sul viso di Harry, quegli smeraldi pieni di pietà che scintillavano, così trasparenti e grandi, cercarono gli occhi di Gin, che fuggirono, rapidi – angoli d’ombra in cui la luce non riesce ad arrivare.
“Ginny, stai bene?”
Luna non fiatò, come sempre, come per un patto non scritto, ma la stessa compassione riempiva anche quei due spicchi di cielo d’estate, che i capelli biondi troppo cresciuti non riuscivano a celare.
Una spina dolorosa tra una costola e l’altra, là, dove ormai avrebbe dovuto esserci solo la cicatrice appena visibile dei sogni spezzati di bambina … una bambina che aveva fatto solo finta di crescere.
Ma era cresciuta adesso la piccola Ginny Weasley, l’eterna innamorata del grande Potter… oh, se era cresciuta! Abbastanza per capire che era finita, abbastanza per lasciar andare qualcosa che, in realtà, non aveva mai tenuto stretto, abbastanza per rendersi conto di non essere stata… abbastanza.
Ed era cresciuta abbastanza per capire che nonostante cercasse di allontanarsi, nonostante tutto ciò che volesse era vivere e lasciarlo vivere, dannazione… nonostante tutto era di nuovo legata a lui, legata con un nodo strano e misterioso che un maledetto destino marinaio si era divertito a forgiare. Lo stesso destino che gli aveva tolto dal cuore ciò che provava per lei, ora tornava a tessere dall’esterno una trama che li avrebbe di nuovo uniti, personaggi imprigionati tra i fili della tela, protagonisti involontari ricamati su un arazzo dai colori violenti della guerra…
“Certo che sto bene” mormorò la rossa, concisa, facendo per andarsene. Teneva prudentemente nascosto tra le pieghe della gonna il polso coperto di bende candide, al di sotto delle quali le vescicole gonfie pulsavano, brucianti.
“Gin, la profezia… Calì sta malissimo, crede che tu…”
“Harry…” lo interruppe, sollevando finalmente lo sguardo esasperato su di lui. “Non voglio parlarne, non con te. Lasciami in pace, non l’ho cercata io questa cosa…”
“Ginny, non è colpa di nessuno! E non sarai da sola… è questo che volevo dire!”
Ginny salì qualche gradino all’indietro, portandosi idealmente in una posizione di vantaggio. Abbastanza lontano.
“Sì che sarò da sola, Harry” mormorò, pacata e tranquilla.
Un dato di fatto che aleggiava nell’aria, parole velenose che nessuno voleva pronunciare, per le quali non esisteva antidoto se non la rassegnazione… parole che incolpavano chi era già stato più volte condannato in silenzio. Azkaban per chi ha tolto una vita, si, ma nessuna pena esisteva per chi era colpevole di aver calpestato un’anima.
Senza aspettare una risposta che non c’era, Ginny volò su per le scale.
Il tempo avrebbe assolto Harry da tutte le accuse, è vero, ma a quel tempo scappare era l’unica soluzione possibile.

“You have brought me to that moment
where words run dry,
to that moment where speech
disappears into silence.”
“The Point of No Return” from “The Phantom of the Opera” (musical, 1986)

Dormiva così raramente su quel letto che ogni volta stava a rigirarsi per ore, annodando le coperte tra loro, come per abituarsi ad un materasso troppo duro per lei. Buffo: sul pavimento, o sulle poltrone polverose della stanza che ormai considerava ben più sua del piccolo dormitorio della torre, aveva dormito molto più comodamente di così.
Calì dormiva dietro tende tirate nell’alcova dall’altro lato della sala, il suo respiro era corto ed inquieto. Il letto di Luna era vuoto e, per quel che Ginny ne sapeva, su quel copriletto si era posato ormai un discreto strato di polvere… dove Luna avesse passato le notti nell’ultimo anno era abbastanza ovvio. Il pensiero distorse il viso di Ginny in una smorfia involontaria e la ragazza imprecò sottovoce.
Il grottesco gargoyle continuava a deriderla nella sua mente, una risata senza suono ma non per questo meno inquietante su quel grugno deforme di pietra lucente. Come con un tarlo che le rodeva il cervello, Ginny non riusciva a togliersi dalla testa di aver trascurato qualcosa di talmente stupido e fondamentale che il dannato bestione nero avrebbe avuto tutte le ragioni di riderle in faccia sonoramente. E il bruciore intenso attorno al polso destro era lì, pulsante, a ricordarle la sua avventatezza.
Il viso quieto di Isanhild balenò davanti ai suoi occhi chiusi, su quello specchio dietro le palpebre in grado di riflettere pensieri e paure della mente umana che altrimenti non avrebbe potuto dar loro forma; la bellezza remota e distante dell’irlandese si dissolse in una macchia di sole lasciando solo i contorni sfocati che aveva visto apparire sull’antichissima tela, quella stessa mattina. Relegata al chiarore di astri lontani, Isanhild rifuggiva lo splendore arrogante del giorno, condannata a mostrarsi solo alle creature insonni della notte… e se quella maledizione non fosse stata circoscritta al ritratto dell’antica incantatrice? E se anche in vita, centinaia di anni prima, la donna avesse giocato le sue partite su un tavolo differente dagli altri… gli altri, per i quali la notte non era che il regno oscuro dei sogni? E se il luogo che aveva creato, il Giardino dei Fiori Notturni, fosse stato creato fin dall’inizio per non essere mai visto alla luce del sole?
Ginny si sollevò a sedere sul letto. La luce azzurra che filtrava dalla tenda disegnava giochi di ombre danzanti sulla coperta.
Forse Isanhild stessa era stata uno dei Fiori Notturni del giardino…
In silenzio, come ormai aveva imparato a muoversi alla perfezione, Ginny si vestì e uscì dalla stanza, respirando quell’odore tipico dei corridoio bui: profumo di vita e di inquietudine, con una nota sfuggente di anticipazione. L’eco dei propri passi creava l’angosciante illusione di non camminare da sola… ma sapeva che nessuno era in giro a quell’ora: il mondo dormiva.
E forse il giardino si sarebbe aperto per gli insonni.

L’aria fresca della notte disperdeva al vento i petali dei fiorellini appassiti dell’erica, che si sollevavano come maree di finissimi coriandoli rosa dal pendio della collina. I piedi affondavano nell’erba umida fin quasi alla caviglia, eppure Ginny procedeva sicura nel buio, con un senso dell’orientamento tipico degli animali notturni. L’unicorno bianco era una macchia chiara, rassicurante tra il verde scuro della vegetazione e il rosso delle rose… ma non era quello il rosso che Ginny cercava. Pochi passi e si trovò ai piedi delle colonne sormontate dai neri gargoyle e le grandi campanule del rampicante si mostravano ora in tutto il loro sanguigno splendore; i fiori si mossero nel vento e nuvole impalpabili di polline rosso brillante si levarono attorno ad essi, con un brusio armonioso, una cantilena di incomprensibili suoni che sembrava scaturire da un mondo di sogni e leggende.
“Come vorrei che questo fosse un benvenuto…” bisbigliò Ginny, passando le dita sul bordo vellutato di una campana, che si inclinò impercettibilmente sotto la sua carezza. Anche le foglie e i flessibili rami sottili parvero muoversi al lento procedere della sua mano che li sfiorava.
Bastò un istante. Ma il dolore improvviso fu un’esplosione di punti di luce accecante nella mente di Ginny, che ritrasse la mano, strappandosi la pelle su un ricurvo pungiglione nascosto. Con uno strillo, la ragazza portò la mano al petto, stringendola con l’altra e aspettò che il bruciore si quietasse assieme ai battiti del cuore. Quando avvicinò la mano al viso per osservare il danno, una puntura regolare e profonda faceva mostra di se al centro del palmo, come inferta da un grosso spillone per lumache. Una goccia di sangue brillava al centro della ferita perfettamente rotonda.
“A quanto pare, non era un benvenuto”, concluse a voce alta.
“Da quando parli con i fiori Weasley?”

Il cuore di Ginny perse ancora qualche battito, mentre si voltava di scatto e si schiacciava contro la colonna, impaurita. La voce strisciante e gelida era scaturita dal buio alle sue spalle, come a dar voce ad incubi che non era in grado di ricordare al mattino: incubi pieni di fantasmi che infestavano gli angoli remoti della sua mente, quelli in cui si accantonano i ricordi privi di gioia… fantasmi come quello che appariva ora, bianco e ghignante contro le ombre scure della notte.
I capelli biondi e spettinati erano lunghi oltre le spalle e spiovevano su un viso magro e sporco, così bianco da non sembrare neppure reale. Gli occhi… quelli si, erano vivi: chiari e lucenti quanto un cristallo di ghiaccio alla luce della luna, evidenziati da occhiaie scure e da un livido, tumefatto e violaceo, che scendeva dalla tempia alla zigomo. Il mantello strappato si agitava nel vento leggero rendendo la figura ancora più spettrale.
Ginny portò una mano alla gola e con l’altra, quella ferita, cercò invano un appiglio dietro di sé, quasi che lo stupore l’avesse scossa al punto da farle mancare l’equilibrio. Il pugno si chiuse sull’aria, sfiorando le foglie cuoriformi del rampicante e, nel movimento, la goccia di sangue cadde dal palmo bagnando uno dei grandi fiori. Scarlatto su scarlatto, il sangue si perse sul velluto della corolla, indistinguibile come se, un tempo, mille anni prima, essi fossero stati dipinti dallo stesso pittore.
In quell’istante eterno, l’attenzione della ragazza ritornò alla pianta e dovette spalancare gli occhi, stupefatta, davanti allo spettacolo irreale delle liane cariche di fiori e foglie che si ritraevano con un mormorio armonioso, come i lembi di una pesante cortina floreale. Il polline color rubino scintillava tra le foglie, emanando un aroma dolciastro e inebriante.
Il rumore ritmato delle ali di un thestral che battevano l’aria, volando basso sulle cime degli alberi, ruppe l’incantesimo… se di incantesimo si trattava. Ginny si guardò intorno, sconvolta e sull’orlo del panico, ed incontrò gli occhi dello spettro della sua infanzia, stupefatti e sospettosi allo stesso tempo.
Senza pensare, come aveva infilato la mano tra le foglie, prima di poter assaporare la paura, Ginny afferrò lo spettro per un braccio e lo trascinò all’interno del Giardino dei Fiori Notturni.

“Tutto tace! Chi s’appressa? D’ateniese egli ha la vesta!”
Shakespeare
“Sogno di una notte di mezza estate”, atto secondo, scena seconda

**********

E con le enigmatiche parole di Puck, il folletto più burino della storia della letteratura, concludiamo anche questo capitolo un po’ in sospeso… ma non troppo, è già abbastanza chiaro di chi si sta parlando! Grazie come sempre per le recensioni e la vostra gentilezza! Da un sacco di tempo non ricevevo così tanti pareri positivi! Rigorosamente in ordine di tempo, grazie a:
Avril: se ami la saga di Avalon forse avrai riconosciuto in Hermioe e Calì i personaggi di Viaviana e Raven… spero che la cosa continui ad intrigarti! Grazie!
ansia: (curiosissimo nickname…) della tua recensione mi ha colpito l’aggettivo “innovativa”, quando non c’è nulla in questa storia che non sia già stato scritto o visto in un film… forse so copiare bene! :P Grazie mille, davvero!
maecla: ciao cara! Spero che continui a piacerti!
Aurora: “sognante” è proprio l’idea che volevo dare, specialmente per quel pezzo! Sono contenta di esserci riuscita! Baci!
leeva: mah… chi sarà….?Beh, non era poi così difficile da indovinare! Grazie mille!!!
Sally90: Eccoti ritrovata, stavo quasi pensando che mi avessi abbandonata! Scherzo! Come sempre le tue recensioni fanno un immenso piacere, sei molto attenta ai miei dettagli. Sono felice che il tono sia quello leggendario, proprio quello che volevo! Un bacio, carissima!!
Seiryu: Ginny è uno dei personaggi della saga che lascia più spazio alle interpretazioni, credo. Ed è un grande divertimento per me reinventarla ogni volta! (quando riesco a fare a meno di ammazzarla, mi dicono dalla regia…) Personalmente quella che più ho amato è la Sonja di Trapped, ma anche questa mi sta riuscendo intrigante, e un po’ meno angosciante! Spero che tu continui a divertirti a leggere Legend! Ciao!
Thaiassa: conosci il libro? Che te ne pare? Ti sembra che richiami quell’atmosfera? Grazie per aver commentato, ciao!!!
Saty: la tua recensione così lunga e bella mi ha riportato un po’ ai tempi di Trapped o di DF, quando tu ti facevi delle seghe mentali e io ti dicevo se avevi ragione o meno… hai afferrato proprio bene il personaggio di Hermione e il suo rapporto con Ginny, credo. Ma questo diventerà molto più evidente in una scena del prossimo capitolo. Il fatto che Hermione dia del “tu” a Minerva era voluto: Herm è sempre stata la più adulta del gruppo, quella che riesce a vedere oltre il momento presente, mi sembrava naturale che dopo la fine della scuola tra lei e il suo “idolo” McGrannitt si approfondisse la confidenza. Per quanto riguarda la profezia… ovvio che non posso dirti tutto, la notte insanguinata si riferisce in realtà ad una cosa molto più semplice (se non l’hai capito stavolta, lo capirai nel prossimo). Per la questione della luce, vedi l’ultimo capitolo, temo… eh eh. Sono contenta che le citazioni ti piacciano (Kushiel’s Chose è una di quelle idiozie fantasy che leggo ogni tanto… dopo Anita Blake posso citare di tutto)! Un bacio cara!!!!
GIU: ciao goldielocks!!!
ramona55: ti ho già ringraziata tantissimo per la profondità della tua recensione, sei davvero sensibile e vedere che cogli tanti dettagli in quello che scrivo è una gran soddisfazione per me! Lo so, lo so… quello di Ron in “coma” è un basso espediente. Più che alla bella addormentata mi sono ispirata alla sorte di Diotima Ridenow in “The shadow matrix” (MZB, saga di Darkover), ma pensa questo: è tecnicamente vivo, si trova da questa parte dell’oceano, è praticamente incapace di combinare disastri, e hai la certezza che si risveglierà... è molto più di quanto avessi nelle altre mie fanfiction. Effettivamente anche io immagino di Ron quella camicia maschile, era proprio l’idea che volevo dare. Come sempre la psicologia delle mie protagoniste ha pochi misteri per te, e sono contenta che la cosa riesca comunque ad affascinarti! Si, l’affinità tra Isanhild e Ginny è forte, così come tra Draco e Salazar… ma lo vedrai nel dettaglio nel prossimo capitolo. E si, l’usignolo che guida Ginny al giardino è lo stesso uccellino ritratto nel dipinto: non ti sfugge proprio nulla! Grazie per i complimenti sulle descrizioni e per apprezzare i personaggi secondari che sono una delle mie passioni! Per quanto riguarda Calì, io avevo pensato più alla Raven de “Le nebbie di Avalon” (sempre MZB), ma ammetto che sentirla chiamare “novella Cassandra” non mi dispiace. Tra quelli nominati dalla McGrannitt te n’è sfuggito uno di cui saprai di più in seguito, e sono contenta di poterti fare una sorpresa! Grazie ancora e correrò ai ripari per quanto riguarda l’ortografia (che umiliazione!). Un bacio!!!!!!
Meggie: Ciao carissima, quanto tempo! Hai già fatto una carrellata dei personaggi, che però spero di farti conoscere meglio in seguito! Sono contenta che Ginny abbia già il suo spessore. Sedersi sugli allori mi sembra un po’ eccessivo: in fondo non siamo mica scrittori! È divertente cambiare stile e vedere cosa si riesce a fare con qualcosa di nuovo! Un bacio e grazie!!!!
Sendy Malfoy: Grazie!!!! Eccoci qui! Fammi sapere se continua a piacerti!
WithoutEstel: Noti spesso le mie citazioni e ciò mi fa piacere! Ma i complimenti che mi hai fatto alla fine della recensione sono davvero fantastici: è bellissimo sapere di riuscire ad appassionare. Grazie davvero, cara!!!
Harianne: Grazie carissima! Spero di continuare a intrigarti!

   
 
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