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Autore: Opalix    20/04/2007    11 recensioni
“Ai miei tempi sono stata chiamata in molti modi: sorella, amante, sacerdotessa, maga, regina. Ora in verità sono una maga e forse verrà un giorno in cui queste cose dovranno essere conosciute. Ma credo che saranno i cristiani a narrare l’ultima storia…” Marion Zimmer Bradley – “Le nebbie di Avalon”.
Genere: Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Draco/Ginny
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da VI libro alternativo
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una dedica speciale alla beta di questa storia, la mia breda! Un bacio!

CAPITOLO 2: DOOMED

La storia che racconto è quella di Ginny Weasley, non la mia. La mia parte in questa storia non è che una parte da comparsa… ma, del resto, siamo tutti comparse in questo mondo: per alcuni il destino si limita a decidere che devono comparire più di altri.
Non è la mia storia e posso solo ripetere fedelmente ciò che ho visto e ciò che ho sentito raccontare da Ginevra stessa, tante volte prima d’ora.
C’erano state tante notti e tante mattine come quelle che ho raccontato, così tante da non poterle contare: notti e giorni che si susseguivano, ripetitivi e angoscianti, marcati solo dall’inesorabile fiorire ed appassire dei fiori sulle colline.
Anche io avevo smesso di combattere: Harry aveva l’intero Ordine accanto a sé, Ron aveva solo me. Non potevo permettermi di stargli lontano, sebbene le speranze di sentire ancora la sua voce divenissero più tenui ogni giorno che passava. Sentivo il peso dei vent’anni che avevo triplicarsi sulle mie spalle, vedevo me stessa trasformarsi lentamente nell’oscura e remota figura di un oracolo da interpellare nel momento del bisogno. Mi ritrovavo ad attendere nel mio sacrario, aspettavo che il viso di Harry comparisse alla mia soglia per parlare, raccontare e chiedere consiglio… e aspettavo sveglia nell’oscurità della notte che i passi leggeri di Ginny risuonassero nel silenzio, rassicuranti quanto il mormorio indistinto della sua voce che raccontava al fratello addormentato sogni e scoperte di una serata in solitudine. A lui, che non era mai stato capace di ascoltare
. Eppure questa non è la storia del Cavaliere Prescelto, non è quella dello Scudiero Fedele, e non è quella della Strega Sapiente. È la storia della Principessa Triste e di un mago rinnegato che arrivò da lontano. Ed è una storia che inizia in una notte di primavera, quando un grido risuonò nella torre per annunciare a tutti che il destino stava per compiersi.

“It is impossible to say when the hands of the gods intervene in the affairs of mortals and to what purpose, but of a surety, there are times when they do.”
Jaqueline Carey
“Kushiel’s Chosen”

Luna andò a chiamarla alle due del mattino.
Vedere Luna saltare giù da una scopa e spalancare la porta d’ingresso, trafelata, con gli occhioni azzurri sbarrati per l’ansia, non era stato un rassicurante risveglio per Hermione. Sentire poi la ragazza strillarle di venire subito perché Calì era impazzita e stava per morire… beh, non aveva migliorato la situazione. Così Hermione aveva ingoiato il proprio odio per il volo, era salita sulla scopa dietro a Luna e si era lasciata catapultare nella stanza che le ragazze occupavano, al penultimo piano della torretta est.
Ma Calì, per la cronaca, non stava affatto per morire.

Erano in molti a dire che, dopo la morte di Lavanda, Calì non era più se stessa. Solitaria e pensierosa, come se avesse perso la parte raggiante di sè, portava avanti la sua vita senza far rumore, senza parlare se non quando era strettamente necessario. Al contrario di Ginny, portava la sua amara disillusione dipinta sul viso dai tratti esotici e scostanti, resi ancora più gravi dai lucidi capelli neri tirati all’indietro nell’acconciatura tipica del paese dei suoi padri.
Con aria assente, apriva bocca solo per consigliare agli altri ragazzi di stare lontani dalle finestre, di non maneggiare oggetti scottanti o di non uscire in una particolare giornata di pioggia. All’inizio tutti avevano considerato quella mania come un retaggio dell’infantile passione per la divinazione, che aveva condiviso con l’amica del cuore… ma la morte di Lavanda, il sacrificio di Dean che aveva l’aveva protetta, e l’abbandono della sorella che era tornata in oriente con la famiglia, dovevano aver risvegliato un talento latente della magia della piccola indiana, che si era rivelata una veggente utile e veritiera. Pacata e silenziosa durante le riunioni dell’Ordine, lasciava cadere spietati consigli con quella voce rauca e assente che pareva provenire dall’oscuro regno delle ombre; consigli che venivano accolti con sbalordimento e inquietudine, spesso troppo incoerenti per poter essere discussi, ma quasi sempre così lineari e inoppugnabili da non poter essere ignorati.
Eppure… eppure, centinaia di piccole profezie azzeccate non avrebbero potuto preparare Hermione per ciò che si era trovata davanti su quel letto disfatto di lenzuola sudate, in quegli occhi neri spalancati verso una scena orribile dalla quale non sembravano riuscire a staccarsi. La trance di una vera veggente, qualcosa che nessun libro poteva preparare ad affrontare.

Calì tremava, seduta rigida sul letto, lo sguardo perso in un punto indefinito a mezz’aria, tra il baldacchino e il soffitto, dove scorrevano immagini così tremende da far sbiancare la sua pelle olivastra; con le unghie si graffiava convulsamente la pelle dei polsi, come se il suo stesso corpo stesse cercando in qualche modo di risvegliarla. Quando le mani salirono al viso, Luna scattò a bloccargliele, per evitare che si facesse male.
“Sangue sulle pietre… sangue…” mormorava, con la voce rauca per la gola troppo secca. “Merlino, no! No!!”
Hermione si avvicinò e cercò di tranquillizzarla con il proprio tocco, cercò di prenderle le mani, ma non ottenne nulla, se non di rendere ancora più acuti gli strilli della ragazza.
“Brilla! Non posso guardarlo, il sangue brilla!!” strillava Calì, cercando di coprirsi gli occhi.
“Calì…” iniziò Hermione, con voce sommessa, “Calì, piccola…”
“La luce di cento stelle brilla in quel sangue!” gridò la ragazza, senza ascoltarla, “fa rivivere le fondamenta del mondo!”
“Quale sangue, Calì?” chiese Hermione, arrendendosi al suo ruolo: se profezia doveva essere, tanto valeva che fosse più comprensibile.
“Sangue…” continuava a mormorare Calì.
“Calì, ascoltami…” mormorò Hermione, inesorabile. “Continua a parlare, Calì: di chi è il sangue?”
“Il sangue brilla!”
“Perché brilla, Calì…?”
Calì si irrigidì e gli strilli si fermarono per alcuni lunghissimi secondi; l’indiana girò la testa verso l’arco buio dell’ingresso della stanza.
“Sei tu che porti la luce…” disse, senza più urlare, sebbene gli occhi rimanessero sbarrati nel terrore.
Luna ed Hermione seguirono il suo sguardo, ammutolite. Nello specchio della porta era apparsa Ginny, pallida come un fantasma, che osservava la scena con le mani premute sulla bocca. La voce di Calì riprese, grave e remota quanto la maschera dorata degli antichi sacerdoti dell’oracolo.
“Tu porterai la luce per la vita del Prescelto, e l’ombra nera della morte che spegnerà la luce splendente. Tu sei la chiave di entrambi i lati della porta. Ma prima che il destino si compia il rinnegato dovrà tornare, nella notte insanguinata… uno straniero rinnegato…”
La profezia si spense in un mormorio, e Calì si afflosciò esausta tra le braccia di Hermione.
Gli occhi di Hermione e Luna erano fissi su Ginny, immobile come una statua sullo sfondo buio del corridoio. Ignorandole, la rossa fece qualche passo indietro, incespicò sulle pietre sconnesse, e corse via.
“Chiudi quella bocca, Luna” mormorò Hermione, con una freddezza esausta che rendeva l’ordine impartito ancora più perentorio, “e va a svegliare la McGrannitt.”
Guardò i capelli biondi e svolazzanti di Luna sparire nello stesso corridoio che aveva inghiottito Ginny, poi stese Calì sul letto con delicatezza e rincalzò le coperte. Sembrava piccola e indifesa come una bambina troppo magra, ora… non si rendeva conto del peso che aveva appena lasciato cadere sulle spalle già provate di Ginny. Che il destino non avesse ancora finito con lei? Che il destino non avesse ancora finito con tutti loro?

“It's only forever
Not long at all,
Lost and lonely!
No one can blame you
For walking away,
Too much rejection
No love injection.
Life can be easy
It's not always swell.
Don't tell me truth hurts, little girl,
'Cause it hurts like hell.”
“Underground” from “Labyrinth” (film, 1986)

Ginny fermò la sua corsa soltanto un istante prima di finire nel lago, piatto come uno specchio alla base della collina. Si lasciò cadere sull’erba e gettò indietro la testa fissando, attraverso il velo di lacrime, gli arabeschi disegnati dalle stelle nel cielo. Il profumo dell’erica si levava dal prato, intenso nell’aria della notte tersa come il cristallo.
Difficile fare ordine tra i pensieri convulsi che ribollivano sotto quelle lacrime amare. Forse, era difficile anche pensare qualcosa.
Perché?
Anche il trillo dell’usignolo sembrava una domanda posta al vento, limpido quasi quanto l’aria stessa, mentre si levava nel cielo.
Ginny immerse le dita nello specchio di acqua e le gocce che sollevò brillarono per pochi istanti alla luce della luna. Cancellò con la mano il riflesso del proprio viso sull’acqua, ma quello riapparve quasi subito, distorto dalle onde circolari che aveva provocato: una macchia bianca opalescente contro il blu scurissimo della notte. Petali rosa galleggiavano pacifici sull’acqua, piovuti dai peschi in fioritura tardiva, i cui rami si protendevano sulla riva ovest del lago.
“Portami con te…” mormorò la ragazza ad un petalo che scivolava alla deriva, verso il centro oscuro del lago, al di sotto del quale anche le sirene, probabilmente, stavano riposando tranquille.
L’usignolo trillò di nuovo, e Ginny alzò la testa, cercandolo con lo sguardo; proprio in quel momento, l’uccellino si alzò in volo dal ramo fiorito di pesco, passando sopra di lei, diretto ai giardini del castello.
Ginny si alzò e si incamminò tristemente nella stessa direzione, risalendo il pendio della collina. Mentre si avvicinava ai giardini e alle serre, altri profumi si mescolavano a quello delicato e selvatico dell’erica, altri colori erano nascosti oltre i vetri e le siepi… Ginny conosceva bene il contenuto di ogni serra, nelle quali si allevavano le piante necessarie ad ogni tipo di pozione medicinale, ma il labirinto di alberi e siepi nascondeva angoli inesplorati, enormi rosai selvatici dal profumo inebriante e siepi incolte dalle coloratissime bacche. Muri ricoperti di edera delimitavano i sentieri, alcuni dei quali portavano agli ingressi delle serre, mentre altri parevano non portare da nessuna parte, e si perdevano in mezzo agli sterpi o tra le pietre di alti muri diroccati.
Una statua di marmo bianco, raffigurante un unicorno rampante, brillava alla luce della luna, emergendo dal groviglio spinoso di un roseto in boccio; in equilibrio sull’unico corno della statua, l’usignolo si pavoneggiava, riprendendo la sua serenata. Ginny sorrise, fermandosi a guardarlo.
Le piume argentee del dorso dell’uccellino scintillarono mentre questi riprendeva allegramente il volo con un ultimo, melodioso trillo, e spariva al di là di un muro di cinta, da quale spiovevano i rami di una pianta rampicante, carichi di foglie a forma di cuore e fiori scuri a campana, grandi quasi quanto il viso della ragazza. Avvicinandosi al muro, Ginny notò che il colore dei fiori era il realtà un rosso molto scuro, il colore che si immagina abbia il sangue alla luce della luna.
Il trillo dell’usignolo giunse ancora, levandosi oltre il muro.
“Non posso seguirti…” disse la ragazza, parlando all’aria.
Cominciò a percorrere il perimetro del muro alla ricerca di un’entrata o un cancello, ascoltando il canto dell’usignolo come se nascondesse l’indizio o l’indicazione per ciò che stava cercando. Il muro terminava contro una colonna screpolata e ricoperta di rami di edera secca; sulla cima della colonna, un vecchio gargoyle di ossidiana levigata osservava minaccioso il vagabondare della ragazza. A poco più di un metro di distanza, una colonna sormontata da un identico guardiano nero sbucava dall’erba alta e incolta; poi il muro riprendeva il suo cammino, altrettanto alto e ricoperto di foglie. L’entrata doveva essere dunque tra le due colonne… eppure lo stesso rampicante carico di fiori sembrava cresciuto, sostenendosi magicamente, fino a bloccare la soglia con un fogliame così fitto da non permettere neppure allo sguardo di oltrepassarlo.
I fiori purpurei emanavano un aroma dolciastro, e i lunghi stami che uscivano dalla corolla erano ricoperti di un polline rosso, luminescente come polvere di rubini. Ginny li sfiorò con la mano e quelli si mossero, come leggere campane al soffio del vento, emettendo un fruscio lieve ed armonioso.
“Immagino non mi lascerete passare, vero…?” sussurrò Ginny.
Quasi in risposta alla sua domanda, il mormorio dei fiori si fece più frizzante e derisorio, spegnendosi nella notte come una risata lontana.
“Già…” sospirò la rossa, voltando le spalle al muro e ai suoi segreti, “…perché dovreste?”

“Oh Harriet, ho avuto un incubo tremendo. Ed è stato terribile quando mi sono svegliata e tu non c’eri. Tu lo sai che la mamma ti vuol bene, vero Harriet?”
Harriet esitò a rispondere. Si sentiva leggermente intontita, come se fosse sott’acqua: le lunghe ombre, la luce verdastra e inquietante della lampada, il vento che muoveva le tende.
“Lo sai quanto ti voglio bene, vero?”
“Si” disse Harriet, ma la voce uscì fioca e lontana come se arrivasse da una grande distanza, o appartenesse a qualcun altro.
Donna Tartt
“Il piccolo amico”

“Minerva vuole vederti, tesoro.”
Ginny alzò gli occhi al soffittò, mentre si asciugava il sudore dal viso con una manica: cominciava ad essere un po’ troppo caldo per lavorare sulle pozioni per una giornata intera, ma la scelta era tra quello e medicare Seamus che era riuscito a farsi mordere da un thestral. Gli ululati strazianti di Seamus nell’altra stanza e i borbottii esasperati di madama Chips, le facevano capire di aver scelto il male minore.
“Mi vedrà stasera a cena”, rispose distrattamente, senza nemmeno voltarsi a guardare la madre.
“Ah, hai intenzione di cenare stasera? Così, per fare qualcosa di diverso?”
L’ironia preoccupata nel tono di Molly era come il fetore di salamandra putrefatta che usciva dal calderone: nauseante.
“Mamma, ti prego…”
“No, Gin, IO ti prego! Questa storia deve finire! Non mangi, non vuoi parlare con nessuno, nessuno sa dove diavolo passi le notti e se anche parli lo fai con l’unico dei tuoi fratelli che non può…”
Molly si interruppe bruscamente, portandosi la mano alla bocca, come se avesse appena detto una cattiveria imperdonabile.
“...che non può urlarmi addosso?” terminò Ginny sottovoce, la bocca storta in una smorfia disgustata.
“Smettila.”
La ragazza si rivoltò come una vipera.
“Smettila tu! Smettetela tutti, dannazione! Faccio il mio lavoro e lo faccio con impegno. Ho vent’anni, mamma: se parlo e con chi parlo sono soltanto affari miei!”
Molly ripartì all’attacco: “Parlare al corpo di Ron non ti servirà a nulla! Nessun consiglio, nessun aiuto… e adesso con questa storia della profezia…”
“Non ne voglio parlare!” strillò Ginny, interrompendola; poi si tolse il grembiule e lo scagliò sul letto più vicino. “Vado dalla McGrannitt…” borbottò, correndo via.

Lo studio della Preside, nonché comandante in carica di ciò che restava dell’Ordine della Fenice, era lo stesso del vecchio Preside e Comandante. Il gargoyle sorrideva sinistro mentre la accoglieva tra le sue ali e la trasportava nello studio; il sole primaverile, entrando dalle ampie finestre, mostrava le anticagli ammucchiate sugli scaffali in tutto il loro polveroso splendore.
La vista dalle finestre, in compenso, era incantevole quanto Ginny la ricordava.
Alla luce del giorno, i giardini si mostravano dall’alto nel loro colorato e selvatico rigoglio, e il sole quasi estivo si rifletteva sui vetri delle serre con l’arroganza gioiosa che la luce della luna non avrebbe mai posseduto. Le rose erano in piena fioritura e tutta la gamma di rossi, rosa e gialli punteggiava il gioco di luci e di ombre sul verde delle piante; l’unicorno di marmo spiccava, così bianco da dolere gli occhi, al centro del rosaio in fiore.
Ginny seguì con lo sguardo il percorso della notte precedente, partendo dalla statua: cercò il muro ricoperto di fiori color sangue, ma al suo posto trovò soltanto verde fogliame senza una sola macchia di colore… eppure eccoli, nerissimi e stonati in quell’esplosione di colori, i due gargoyle di ossidiana, ritti sulle loro colonne a sorvegliare quello che si mostrava dall’alto come un giardino circolare chiuso. All’interno del muro la vegetazione era così fitta che nulla era visibile al di sotto della chioma degli alberi: il giardino chiuso era una macchia di verde che la primavera sembrava non aver toccato, negandogli i suoi colori vivaci.
“Ginevra.”
Ginny represse una smorfia di fastidio alla voce della vecchia professoressa e continuò a guardare fuori, accarezzando con gli occhi il pendio rosato per i fiori dell’erica che si tuffava nelle acque calme del lago.
“Mi hanno detto che voleva parlarmi”, disse.
Minerva McGrannitt sospirò, accomodandosi sulla sedia che era stata di uno tra i più grandi maghi di tutti i tempi. Chi l’aveva conosciuta soltanto tre anni prima avrebbe detto che era una donna diversa: pareva invecchiata di dieci anni in una notte… la notte che si era portata via Silente. E Severus. E tutti quelli di cui non si era saputo più nulla: figli di genitori sbagliati, ai quali era stato chiesto troppo presto di scegliere da che parte stare in una guerra che non avrebbe dovuto riguardarli… c’era chi era stato ucciso per aver rifiutato di seguire le orme di un padre degenere in mantello nero e maschera d’argento, c’era chi aveva chinato la testa per debolezza o per convenienza, o chi non aveva retto la responsabilità e si era suicidato, come il giovane Nott. C’era chi era scappato, forse perchè aveva una famiglia di seconda scelta, come Zabini, o perché intendeva crearsela con le proprie mani. C’erano quelli che erano spariti nel nulla: il figlio di Malfoy, la giovane Miss Parkinson, Anthony Goldstain… quanti ne aveva persi! Quanti non era riuscita a rendere uomini, o donne… quanto era grande il numero di vite contro il cui destino non aveva tentato abbastanza di combattere.
E poi c’erano quelli che erano rimasti.
Ed erano morti.
Oppure erano vivi… ma per quanto ancora? Per quanto, se il fato continuava ad accanirsi in quel modo, rigirando coltelli affilati in ferite che ragazzi di vent’anni non avrebbero mai e poi mai dovuto subire?
“Tu non desideri dirmi nulla Ginny?” chiese, pregando in cuor suo l’anima di Silente, dovunque diamine si fosse cacciata, di decidersi a darle una mano. “So che hai sentito la profezia… non voglio che tu senta il peso della guerra sulle tue spalle più di quanto sia necessario: siamo tutti insieme, ti aiuteremo in ogni modo quando – se – ci sarà una parte che ti è riservata, in questa situazione. Così come siamo tutti vicini ad Harry…”
Ginny la interruppe con un gesto della mano, come a scacciare una mosca fastidiosa.
“Non ho niente di cui parlare” snocciolò velocemente, “e comunque non servirebbe a nulla. Immagino che, se Calì ha ragione, non avrò modo di scansarmi quando il bolide deciderà di colpirmi in testa.”
Minerva sorrise brevemente al paragone con il quidditch.
“Nessuno di noi ne ha la possibilità, bambina: quando si deve giocare, si gioca.”
Probabilmente era la prima volta che Minerva McGrannitt chiamava una studentessa “bambina”; ma la voce, che si era ammorbidito appena, riprese immediatamente l’intonazione severa da professoressa: “Hermione ed io abbiamo analizzato la profezia… è molto criptica, devo ammetterlo, ma se hai qualche idea o se c’è qualcosa che vuoi chiedere…”
“Voglio sapere cos’è quel giardino rotondo” fece Ginny, indicando con la mano tesa un punto al di fuori della finestra.
La professoressa rimase per un attimo interdetta e si avvicinò alla finestra per vedere di che cosa stesse parlando la Weasley; seguì con gli occhi la direzione della sua mano e le labbra sottili si piegarono in un sorriso amaro.
“Il giardino dei fiori notturni…” disse, con voce morbida, addolcendo le parole che erano musicali come i versi di una poesia. “Chi te ne ha parlato?”
“Nessuno” rispose la ragazza, “altrimenti non avrei chiesto.”
“C’è una leggenda su quel giardino: si dice che fosse il giardino privato di Isanhild, una strega straniera che Salazar Serpeverde portò ad Hogwarts dopo un viaggio in Irlanda. Sembra che Isanhild fosse un’erborista e pozionista dal talento eccezionale, altri dicono anche…” il tono della professoressa si raffreddò di un paio di gradi, “che fosse una donna di rara bellezza e addirittura l’amante di Salazar stesso. Nulla è provato ovviamente. E del resto nessuno, a memoria d’uomo, è mai riuscito ad oltrepassare il muro del giardino.”
“Perché?”
Minerva la guardò con aria sospettosa.
“Come mai ti interessa tanto?”
“è qualcosa che sono troppo giovane o troppo stupida per sapere?” ritorse Ginny, con freddo sarcasmo.
La professoressa scosse la testa.
“Assolutamente no! Mi pareva solo strano che con tutto quello che ti succede, tu stessi pensando ad un giardino in cui nessuno entra da almeno mille anni.” Si strofinò la fronte, prima di riprendere a parlare: aveva l’aria stanca e sbattuta. “Beh… tu sai che Salazar lasciò la scuola di Hogwarts, dopo aver discusso con gli altri Fondatori per i criteri di ammissione degli studenti, giusto? Secondo la leggenda, andandosene lasciò anche la bella Isanhild che, impazzita per l’abbandono del suo grande amore, si suicidò nel giardino che adorava, chiudendolo alle proprie spalle con un incantesimo sconosciuto, appreso forse dai druidi della sua madre patria. E le campanule rosso intenso che fioriscono soltanto di notte sul muro di cinta, sarebbero nate magicamente dal sangue versato della padrona del giardino.”
Ginny ascoltava il racconto bevendo ogni parola con gli occhi lucenti di emozione. Ma la professoressa McGrannitt scrollò le spalle, sdegnata da quel romanticismo.
“Le versioni meno fantasiose della storia dicono che Isanhild seguì Salazar nella sua fuga, e sigillò il Giardino dei Fiori Notturni così come il compagno aveva sigillato la sua Camera dei Segreti. E il giardino sarebbe ancora chiuso perché nessuna erede della bella irlandese è mai passata di qui per aprirlo.” Minerva scoccò a Ginny un’occhiata severa. “Non perderci il sonno, Ginevra. Sono solo vecchie sciocchezze. Può anche darsi che il giardino sia chiuso perché un Tranello del Diavolo è cresciuto così tanto da bloccare ogni accesso. Chi può dire cosa coltivassero la dentro mille anni fa...”
Ginny arricciò il naso a tale mancanza di sensibilità, e si allontanò dalla finestra.
“Grazie professoressa…”mormorò, senza convinzione. “Posso andare ora?”
Minerva alzò le mani, sconfitta.
“Come vuoi Ginny… se mai avessi qualche idea, o qualche pensiero a riguardo, ti prego: vieni a parlarne, o vai da Hermione se ti senti più a tuo agio, ma non pensare di essere sola.”
“Si, va bene” concesse Ginny mentre già correva via, quasi che il pavimento dello studio le bruciasse sotto i piedi.

“La verità può essere cattiva e menzognera in molti casi. Per esempio se la si dice soltanto a metà. Se si dice che non si ha voglia di parlare e non si spiega il perché.”
Sergej Luk’janenko
“I guardiani della notte”

Minerva rimase immobile a guardare lo specchio della finestra inondato di sole: pochi istanti prima l’ombra della ragazza combattiva ed esuberante che aveva conosciuto una volta era appoggiata a quel davanzale, pallida e remota come se la luce del giorno rimbalzasse sulla sua pelle che era in attesa soltanto di quella più delicata della luna.
Da un angolo d’ombra alle sue spalle emerse la figura di una donna che era rimasta in disparte durante il colloquio. Morbidi boccoli castani ricadevano sulle spalle, non più crespi come quelli che portava da bambina, le maniche di una camicia maschile blu violacea erano arrotolate sopra al gomito… pochi avrebbero riconosciuto in quella donna alta e seria, la ragazzina che fino a pochi anni prima era stata la compagna, a tratti materna, a tratti nelle vesti della sorellina da proteggere, del Prescelto. Hermione, le mani cacciate nelle tasche dei jeans sdruciti, mosse qualche passo nella direzione della professoressa.
“Immaginavo che non le avremmo cavato niente” disse.
Minerva si girò, sospirando.
“Avresti fatto meglio a parlarle tu.”
“No, sarebbe stata la stessa cosa. In più mi conosce troppo bene: avrebbe capito che non abbiamo cavato un ragno dal buco da quella profezia…”
La professoressa si lasciò cadere di nuovo sulla sedia e prese la testa tra le mani.
“Cosa sarà mai la “luce” che Ginny dovrebbe portare? E chi è questo rinnegato? Chi è che abbiamo lasciato indietro?!?”
“Non lo so.” rispose Hermione per l’ennesima volta. Severus Piton sarebbe stato la loro prima scelta, certo, il rinnegato per eccellenza… peccato che fosse stato ucciso dal Signore Oscuro un anno e mezzo prima. E comunque non vedeva come Piton potesse avere qualcosa a che fare con il destino di Ginevra. “Ci mancava solo l’attesa di un principe azzurro per allontanare di più Ginny” riprese amaramente, “come mai le hai raccontato la storia di quel giardino?”
“Che differenza può fare? Era curiosa.”
Tu sei la chiave di entrambi i lati della porta… e il giardino non è mai stato aperto a memoria d’uomo. Mi chiedo se ci sia un nesso, o se sia solo una coincidenza.”
Minerva scosse la testa.
“Non sognare, Hermione. Se anche Ginny potesse aprirlo, cosa ci può essere di utile per noi in un giardino chiuso mille anni fa da una donna innamorata?”
Hermione annuì in silenzio osservando dalla finestra la macchia verde scuro del giardino privo di fiori.
“Già… che cosa?”

****************

NdA: qui cominciano i riferimenti più evidenti: quello al “Giardino Segreto” di Burnett è abbastanza palese, sebbene come potete immaginare non sarà una comune chiave ad aprire l’ingresso del giardino… siamo nel mondo della magia in fondo! Concedendomi un po’ di romanticismo classico, ho pensato di dare ad un usignolo il ruolo che nel libro è svolto dal pettirosso di Ben.
Per quanto riguarda Isanhild, l’amante del vecchio Salazar (che mi sono inventata di sana pianta), il suo nome è l’antica versione germanica del nome “Isotta” che, come molti ricorderanno, nella leggenda di Tristano e Isotta era una principessa irlandese..

Devo ringraziare tanto le mie “fedelissime” che non mi fanno mai mancare il loro appoggio… ormai conosco i vostri nomi e sapere che la mia firma sotto un nuovo titolo vi fa venir voglia di leggere non può che riempirmi di gioia e soddisfazione.
Sono sempre molto insicura all’inizio di una nuova storia (Savannah, Chiarotta ed Euridice lo possono confermare: strepito e blatero, mi lamento e mi riempio di dubbi… poi chino la testa e scrivo, non c’è altro da fare), quindi mi rincuora tantissimo vedere già tanto interesse al primo capitolo.
Comunque grazie a Aurora (la tua fiducia non sarà mal riposta, spero… sono contenta che i riferimenti che uso siano intriganti), Thaiassa (grazie! Fammi sapere se continua a piacerti!), Klaretta (la signora dei gelsomini avrà un ruolo chiave, direi… quindi non preoccuparti, la conoscerai! Hermione ha un ruolo particolare in questa storia, ma spero di fartela piacere comunque, un bacio!), Cl@u (grazie davvero! Spero che continui a piacerti!), Seiryu (grazie cara! Il riferimento al giardino segreto qui è ancora più palese, spero che ti sia piaciuto!), GIU (! ^__^), fiubi (grazie davvero, una recensione bellissima! Per quanto riguarda il film… beh, lo scoprirai molto più avanti, ma tutto dipende anche dal fatto che tu sia o meno abbastanza “grande” per ricordarlo! ^__^ Spero che ti sia piaciuto anche questo! Baci!)
Un ringraziamento speciale alla cara Saty: con te le parole si sprecano! Pensare che sono anni che mi conosci attraverso ciò che scrivo mi fa sentire molto vicina a te, e il tuo sostegno è molto più importante di quello che pensi per questo mio “hobby”. Hermione avrà una parte particolare, ma molto intensa, in questa storia e spero, sul serio, di fartela amare. Sono contenta che tu abbia apprezzato il cambio di narrazione tra le scene con Hermione e quelle magiche e sognanti in cui Ginny è da sola. A presto, non vedo l’ora di sapere cosa ne pensi! Un bacio!!!!

   
 
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