Era la finale del Campionato Nazionale di pattinaggio
artistico.
“Quanta gente! Quasi come a vedere una partita!”
“Sorpreso,
Wakabayashi?”
“Beh, si, abbastanza!” il giovane portiere si guardava
intorno sorpreso. Effettivamente il palazzetto del ghiaccio era stracolmo di
gente!
“Sai, questa finale è piuttosto importante! Ci sono i
selezionatori della squadra nazionale e, inoltre, quest’anno c’è pure in palio una borsa
di studio!” la piccola Melody aveva parlato con gli occhi che luccicavano. Lei
non poteva ancora gareggiare in gare di quel livello, qualcun’altra
sì!
“Tanto sono sicura che vincerà Lena! Quella smorfiosa di Monaco non
vale neppure la metà di lei!” e così dicendo, intrecciò le braccia, portando in
fuori il mento.
“Certo, certo, sorellina!”
La gara ebbe finalmente inizio.
Erano iscritte trentasei concorrenti.
Lena era la penultima, dopo di lei,
la sua diretta rivale, la stella del Monaco Ice Skate…
Vestiva un abito nero,
a tuta, decorato con una fascia larga di brillantini che ne sottolineavano i
lineamenti del corpo acerbo da ragazzina, ma elegante e sinuoso. Non era
altissima, ma prometteva di diventare una splendida donna.
Si concentrò ad
osservarla. L’esercizio era lo stesso che le aveva visto provare qualche mese
prima…
Uno cosa lo turbò: il viso pallido, le occhiaie nascoste dal trucco e
gli occhi un poco lucidi.
La vide mettersi in posizione, e subito il viso di
lei mutò: se prima v’era incertezza, ora in quegli occhi nocciola si leggeva una
fortissima determinazione.
Era fantastica: leggiadra, elegante, armoniosa. Da
lei sprigionava una sensazione di benessere e levità che non aveva mai provato.
La seconda parte dell’esercizio era la più difficile. Una sequenza di salti
interrotta dalla serpentina ad angelo.
I pattini graffiarono il ghiaccio,
l’esecuzione pareva perfetta, invece…
Si rialzò subito, solo per un
attimo la disperazione passò in quegli occhi.
Un angelo perfetto, poi l’Axel.
E di nuovo una caduta. Il pubblico era esterrefatto.
La musica si spense, e
così la luce nei suoi occhi. Raccolse velocemente e con un sorriso triste
i pupazzi che le amiche le lanciavano, poi si diresse mestamente verso
l’istruttrice, che l’accolse con un abbraccio.
Dopo di lei, una ragazza rossa
dagli occhi freddi come il ghiaccio che calcava. La sua esibizione,
perfetta.
Sul podio, sul gradino più alto, la rossa di Monaco. Appena sotto,
la ragazzina di Amburgo. Teneva stretta la coppa, lo sguardo perso davanti a se,
il sorriso triste, assente.
Non aveva pianto.
Il monitor lampeggiò e si spense.
Tutt’intorno il
buio dell’enorme ufficio era rotto solo dalla fioca luce di una piccola lampada
da studio.
Si lasciò andare pesantemente sulla sedia, per poi appoggiarsi coi
gomiti alla scrivania, il capo reclinato in avanti, gli occhi chiusi dietro le
spesse lenti.
Con un gesto morbido sfilò lo spillone che tratteneva i lunghi
capelli che si posarono morbidi e disordinati sulle spalle. Tolse gli occhiali,
rialzando la testa e massaggiando le palpebre affaticate. Dalle labbra sfuggì un
sospiro triste mentre lo sguardo nocciola si soffermava sulla cartelletta rossa
posata sul tavolo dinnanzi a lei. Ne sfiorò la copertina, e per la millesima
volta in quel giorno, l’aprì. Un’espressione quasi disperata, la mano destra tra
i capelli, la bocca serrata a trattenere il pianto. Quella mattina il mondo le
era crollato addosso, tutti i piani progettati la notte precedente, spazzati via
da quella notizia.
“Fiori, ristorante, lista degli invitati, sartoria…”
scorse meccanicamente quella lista di cose da fare col cuore che le rimbombava
nelle orecchie.
“Ma perché?...” si chiese.
Poco più di dodici ore prima,
Angela Weiss era entrata in quell’ufficio spumeggiante di gioia e l’aveva
chiamata intimandole di lasciar perdere qualsiasi altra cosa stesse
facendo.
Aveva sospirato, rimettendo a posto gli occhiali con due dita e
serrando la cartelletta degli appuntamenti fra le braccia, pronta a soddisfare
l’ennesimo capriccio del suo capo.
Ma tutto si sarebbe aspettato, tranne
quello…
Angela le dava le spalle mentre osservava Monaco dalla grande vetrata
del suo ufficio. Quando si era voltata, un sorriso radioso aveva illuminato gli
splendidi occhi azzurri ma le parole che erano fuoriuscite dalle labbra
perfettamente truccate le avevano gelato il sangue, mentre il cuore smetteva per
un attimo di battere. Aveva trattenuto le lacrime, continuando a recitare il
ruolo della segretaria perfetta, fingendosi felice per quella notizia.
Si
sposavano…
Tutta la sua giornata era stata spesa nella compilazione di quella
lista di impegni e compiti da svolgere per i preparativi del grande evento.
Aveva svolto il suo lavoro meccanicamente ma con la solita precisione e
professionalità, senza farsi sfuggire nulla. Nessuno si era accorto del dolore
che le straziava il cuore, non aveva lasciato trasparire nulla. Pochi in
redazione erano a conoscenza degli altarini del loro capo, e chi sapeva evitava
di fare qualsiasi battuta di qualsiasi genere. In ogni modo, anche il ben chè
minimo accenno veniva prontamente stroncato da un’occhiata severa
dell’impeccabile segretaria privata.
Già…
Si sentiva un cane da
guardia…
Era un cane da guardia.
Rabbia le montò dentro e lacrime amare
riempirono gli occhi da cerbiatto, ma di nuovo vennero ricacciate indietro,
appena in tempo…
Aprì silenziosamente la porta e si trovò immerso in un buio
profondo, rotto solo dalla luce fioca di una lampada da tavolo
seminascosta dal monitor di un pc.
Si soffermò un istante ad osservare la
piccola figura seduta alla scrivania e per un istante il ricordo di una
ragazzina dal sorriso dolce gli riempì il cuore e la mente. I lunghi capelli
castani erano finalmente liberi dalla rigida acconciatura che li costringeva
durante il giorno e sfioravano i fogli sparsi sul tavolo mentre una mano
sorreggeva delicatamente il mento. Lo sguardo nocciola era concentrato nella
lettura, gli occhiali posati accanto al computer.
“Buona sera!” esordì,
facendo sobbalzare la ragazza. Una piccola rivincita, in un certo senso.
Gli
occhi castani si spalancarono sorpresi per poi socchiudersi nel tentativo di
metterlo a fuoco, la mano corse automaticamente agli occhiali e li posò al loro
posto.
Il cuore perse un battito, forse anche due…
Cosa ci faceva lui lì,
a quell’ora!?
Un sorriso divertito piegò le labbra del portiere “ Lena
Miller… Quando Melody me l’ha detto quasi non ci potevo credere…” la guardò,
squadrandola ed appoggiandosi allo stipite a braccia conserte. Lei sostenne lo
sguardo, sorridendo appena, le braccia incrociate sulla scrivania.
“Già...”
le uscì in un sospiro.
Gli occhi neri si socchiusero mentre
scuoteva lentamente il capo allontanandosi dalla porta per andarsi ad
appoggiare con entrambe le mani pesantemente sul tavolo “Perché?…”
Si
strinse nelle spalle, sorridendo appena “Perché non ti ho detto chi sono?
Francamente dubitavo perfino ti ricordassi di me...” una strana emozione l’assalì,
partendo dallo stomaco e la rese come molle, incapace di muoversi, stroncandole
il respiro, anche se il suo ormai collaudatissimo autocontrollo le impedì di
farsi scoprire. Lui era lì, davanti a lei, il suo sogno di ragazzina. La luce
morbida della lampada disegnava i tratti decisi di quel viso addolcito da un
leggero sorriso che piegava appena le labbra carnose. Gli occhi scuri, profondi,
lampeggiavano nella semioscurità.
E lui si ricordava ancora di lei, dopo tutti
quegli anni... Lasciò che il profumo del suo dopobarba le riempisse le narici, che
quella sensazione di tempo sospeso la coccolasse ancora un poco, mentre si
godeva quei pochi, brevi attimi di solitudine con il suo sogno
impossibile.
“Si, mi ricordavo di te… ma non mi aspettavo di trovarti
tanto lontana da Amburgo e dopo tanto tempo! E con un altro cognome…” un sospetto,
un’occhiata fugace alla mano sinistra di lei che non le sfuggì.
“No… è
il cognome di mia madre…” rispose al sottinteso alzandosi ed afferrando la borsa
lì accanto, senza terminare la frase.
“Suppongo avessi bisogno di me,
visto che sei in redazione ad un orario improbabile ed Angela non è qui…” già, non
era lì, pensò con una stretta al petto. Era da Lukas… forse per dirgli del
matrimonio, o forse per fare di nuovo l’amore con lui…
Non ascoltò la
risposta che il portiere le stava dando, travolta da mille pensieri, dal
desiderio di rivelargli tutto ma anche attanagliata dal dubbio che, se Angela
aveva accettato di sposare lui dopo che altri sei uomini le avevano fatto la
stessa richiesta e si erano visti rifiutare, forse, dopo tutto, ne era
davvero innamorata.
“Lena, tutto bene?” la voce profonda del giovane la
risvegliò. Le aveva posato delicatamente una mano sulla spalla, avvolgendola con
un caldo sguardo preoccupato nel quale si perse per una frazione di secondo,
riprendendosi quasi subito e rendendosi conto di essere avvampata.
“Scusa… è che oggi è stata una giornata particolarmente pesante!” rispose, massaggiando le palpebre al di sotto
degli occhiali, sperando di dissimulare il rossore.
“Immagino… e credo sia anche un poco
colpa mia.” e sorrise, spezzandole definitivamente il cuore.
“Già...” seppe
solo replicare.
“Angela mi ha detto che ti avrei trovata ancora qui.
Dovevo farle avere alcuni documenti e la lista dei miei invitati. Domani,
dopo l’allenamento, partirò per il Giappone e mancherò almeno una settimana…” disse
porgendole dei fogli che la ragazza scorse velocemente per poi riporli
ordinatamente nella cartelletta.
“Grazie. Con questi domattina potrò
cominciare le pratiche burocratiche…”
“Ma c’è qualcosa qui dentro di cui
non ti occupi tu?” le chiese con un sorriso divertito.
“Mmmm… No, direi di
no!” rispose, sorridendo a sua volta e scuotendo il capo. Per un istante gli
apparve dinnanzi il viso di una ragazzina timida e gentile, i capelli raccolti
in una lunga treccia ed un sorriso dolce ad illuminare il viso.
“Ti spiace
se andiamo?” lo riscosse dai ricordi, facendo il gesto di spegnere la
lampada.
“Certo…”
Uscirono dall’enorme palazzo a vetri e l’aria gelida e
tagliente di fine ottobre li investì, costringendo la ragazza ad alzare il
bavero del cappotto.
“E ora, a casa?” era un invito? O una semplice domanda?
La stava fissando con curiosità, le mani in tasca del giaccone di pelle,
i capelli neri, un poco lunghi, mossi leggermente dal vento freddo, aspettando
una risposta.
“No” scosse il capo “oggi il palazzetto chiude alle
undici…”
“Ti accompagno” le parole gli sfuggirono prima ancora che potesse
accorgersene, e lasciarono interdetti entrambi. Ma ormai erano state pronunciate
e non poteva più tirarsi indietro…
La pista non era molto affollata e vi
s’immerse con piacere, lasciandosi il portiere alle spalle. Avevano
chiacchierato del più e del meno, senza parlare del suo passato e di questo
gliene era grata.
Volteggiò, libera come ogni volta che indossava i pattini, leggera,
senza pensieri… no, non senza pensieri, non quella sera. Sentiva lo
sguardo profondo di lui puntato addosso e il suo cuore batteva
accelerato.
“Sei sempre molto brava…”
“Grazie” rispose con un
sorriso “In realtà non ho mai smesso di pattinare…” non ebbe la forza di
sostenere ancora il suo sguardo, il suo sorriso. Scivolò via, eseguì una esse
perfetta sulla pista, caricò il salto e si librò con potenza e leggerezza in
aria, ricadendo con precisione ed eleganza sul ghiaccio.
Le sorrise,
scuotendo divertito il capo. Accelerò, caricò il salto e…
Se
la trovò accanto, una risata trattenuta e la sottile mano tesa verso di lui
“Il ghiaccio non è esattamente morbido come l’erba dei campi da calcio!” un
luccichio divertito negli occhi nocciola.
“Ho notato…” rispose ridendo
ed afferrando la mano che gli veniva tesa “Credo, tutto sommato, di essere un
po’ arrugginito. Tu sei davvero brava come una volta.” la fissò, rimettendosi in
piedi.
“No... Il tempo passa e non ho certo più l’agilità di una ragazzina.
Ma i salti sono sempre stati la mia specialità!” sorrise, reclinando il capo da
una parte e pattinando a ritroso.
“Lena Miller… Eleonor Schumacher… continuo
a non credere che siate la stessa persona…” si fermò alla balaustra, fissandola
intensamente.
Voleva sapere.
Si strinse nelle
spalle, accennando un sorriso “A scuola nessuno, neppure i professori mi chiamavano col mio
nome, eravate tutti abituati a chiamarmi Lena.” ricambiò lo sguardo, e lui vi trovò
qualcosa di profondamente diverso da allora. Non era più la ragazzina timida e
semplice di quando avevano quattordici anni. In fondo a quegli occhi nocciola si
leggevano una determinazione ed una forza che mettevano quasi soggezione. Era
cambiata, era molto cambiata.
“Mio padre se ne andò che avevo tredici
anni. Mia madre fece di tutto per farmi continuare a studiare e pattinare, ma
l’anno seguente le diagnosticarono una malattia che la rese inabile al lavoro e per
la quale sono necessarie cure costosissime…” sospirò, stingendo le labbra.
“Se non vuoi parlarne...” lo interruppe, facendo segno di diniego e zittendolo con gesto
secco della mano.
“Sai come finì la finale del Campionato… Quella era la
mia ultima speranza di continuare a pattinare a livello agonistico senza pesare
su mia madre. Ci trasferimmo qui a Monaco, da mio nonno, che venne a mancare
due anni dopo. Studiavo, lavoravo, e nel tempo che mi rimaneva venivo qui
a pattinare.” c’era tristezza in quello sguardo, ma anche un coraggio
invidiabile.
“E il cognome?”
Sospirò, appoggiandosi pesantemente al bordo
pista con le braccia conserte, senza più guardarlo “A diciott’anni rinnegai il nome
di mio padre e presi quello di mia madre… Ci aveva lasciate sole, e non era
tornato sui suoi passi neppure quando aveva saputo della malattia di
lei.”
“Mi spiace…”
“Non importa, acqua passata…”
Le si
affiancò, sfiorandole la spalla con la sua, osservandone il profilo delicato del viso
“Come sei finita a lavorare per Angela?”
Un sorriso amaro piegò le labbra
morbide dalle quali uscì un sospiro rassegnato.
Avrebbe voluto dirgli tutto.
Tutto... Ma…
“Prima di finire l’Università spedii dei curriculum.
Angela era già lanciata nel mondo del giornalismo, ed in più gestiva l’ingente
patrimonio dei genitori che, come saprai, sono molto anziani. Lei aveva bisogno
di una segretaria tutto fare, io di un lavoro ben remunerato… E così,
eccomi qui.” si voltò a guardarlo, il viso più sereno, come si fosse tolta un peso.
“Mi ero sempre chiesto che fine
avessi fatto…”
Rientrò in casa cercando di fare meno rumore possibile.
Qualcosa di morbido le sfiorò le gambe e fù lesta ad acchiappare il gatto
prima che fuggisse giù per le scale.
“Ehi, tu! Dove credi di andartene,
Matisse?!”
Il batuffolo peloso le si sistemò istantaneamente in braccio,
cominciando a fare le fusa allegramente.
Chiuse piano la porta dietro di sé
ed avvicinò il viso alla testolina morbida, parlando adagio.
Si sentiva
leggera come non le capitava da tempo immemorabile. Eppure un peso enorme le
gravava in fondo al cuore.
“Oh, Matisse! E’ stata la serata più bella
della mia vita!” la passeggiata sul ghiaccio, la cena veloce in un piccolo kebab lì
vicino. Chiacchiere, ricordi… Non si capacitava ancora di quello che era
successo. Ai tempi delle medie non aveva mai avuto né l’occasione né tanto meno
il coraggio di parlargli, mentre quella sera….
“Ben tornata!” la
voce gentile della madre la fece sobbalzare, riportandola alla realtà “Hai
mangiato?”
“S-si…” rispose trasognata.
“Lena, cos'è successo? Hai la febbre?
Sei così strana…”
“No… no mamma, non è niente!” rispose con
un sorriso, cercando di non far preoccupare la madre “Tu, piuttosto, cosa ci fai ancora
in piedi? A letto, su!” liberò il micio dall’abbraccio e costrinse la donna a
tornare a riposare.
Era felice. Sapeva di stare godendo di una felicità
effimera e transitoria, sapeva che l’indomani la vita sarebbe ricominciata come
sempre, anzi, forse peggio, ma voleva godere di quei pochi attimi fino in fondo.
Si addormentò ripensando ad un paio d’occhi scuri che la osservavano mentre si
accingeva ad incominciare il suo esercizio in mezzo alla pista
gelata.