Restava
seduto con la faccia tra le mani, su una sedia di legno. L’unico rumore erano i
gemiti della bambina che se ne stava seduta in quel seggiolino, l’unico che
erano riusciti a comprare. Era tanto che non scriveva ormai, non ci riusciva.
Ogni volta che si metteva davanti a un foglio di carta la sua mente vagava e
tornava li, in quella città che fu per lui la fine e l’inizio. E allora prendeva
a guardare di nuovo la bambina, che restituiva lo sguardo con i suoi occhi
chiari. Quanti giorni aveva? Non lo avrebbe potuto dire, ne erano passati più
dieci da quando era comparsa nel mondo, ma forse nascita e comparsa non
coincidevano, e forse era più grande, o più piccola…
Bah,
forse gli occhi si sarebbero scuriti con il tempo…aveva sentito dire che i
neonati hanno sempre gli occhi chiari, e il colore si definisce dopo un po’ di
tempo.
Alzò
anche quella volta lo sguardo, puntandolo sulla piccola. Come sempre la bambina
lo guardò a sua volta, e così rimasero qualche secondo. I pensieri si
accavallavano nella sua mente, in una danza pericolosa di ipotesi e macabre
soluzioni, ma dall’esterno si vide solo un uomo che si alzava in piedi e diceva
a sé stesso, più che alla bambina, che era ora di andare.
Aveva
noleggiato un auto per arrivare a Portland, e con sé aveva pochi
bagagli.
Cybil
era uscita la mattina invece. Credeva che chiunque la stesse seguendo non era a
conoscenza di Harry e della piccola Cheryl, e sembrava seguisse solo lei. Il
piano quindi era semplice: lei usciva e attirava l’attenzione su di sé, mentre
Harry si metteva al sicuro. In seguito li avrebbe raggiunti. Quando quella
mattina Cybil era uscita di casa, sorrise dicendo “Mi dispiace non poterti dare
una mano con i bagagli!”. Harry sorrise, ma con un’espressione amara in viso. Le
disse di stare attenta.
Cybil
era forse anche più preoccupata di Harry, ma non voleva darlo a vedere. Non
poteva trasmettere altra angoscia a quell’uomo, così continuò a sorridere senza
rispondere; poi si avviò verso la porta. Fuori nel corridoio del palazzo non
c’era nessuno. Si guardò intorno più volte, prima di richiudere la porta alle
spalle. Chiunque la stesse seguendo evidentemente non doveva avvicinarsi più di
tanto. O non voleva. Così quando scese in strada, lo trovò ancora in quell’auto,
parcheggiata poco distante, abbastanza da confondersi con le altre ma non tanto
da impedire alla vista di fare il suo lavoro. Non c’era molta gente che
camminava da quelle parti, era una zona residenziale, e la mattina quasi tutti
erano a lavoro, o a dormire, e comunque anche chi usciva tendeva ad andare in
altri posti, nei parchi, nelle zone commerciali, quelle più
frequentate.
La
ragazza montò la sella della sua moto. Sarebbe stato l’ultimo giro in moto.
Meglio così, l’estate volgeva al termine, e lei odiava prendere l’autobus! Per
cui avrebbero preso una macchina, insieme, lei ed Harry. Arrossì in volto a
pensarci. Per cui si mise il casco velocemente, e sistemò meglio lo zaino che
teneva sulle spalle, facendo attenzione che fosse ben chiuso.
Forse
fu l’occasione, forse il fatto che era più facile destare sospetti, forse perché
Portland era più vicina, o forse era solo un’altra enorme scusa, ma anche quella
volta, si avviò verso Silent Hill. La seconda volta in pochi giorni. Aveva
memorizzato quasi del tutto la strada, tanto da non aver più bisogno di guardare
i cartelli per svoltare. Tutto il viaggio lo passò spostando gli occhi dalla
strada allo specchietto, assicurandosi che l’auto fosse sempre dietro di lei.
Addirittura qualche volta rallentò perché dopo una curva la macchina non
compariva alle sue spalle.
Ben
presto comparve il cartello che segnava l’ingresso in città. A quel punto Cybil
proseguì incerta sul da farsi. In effetti non aveva assolutamente pensato a dove
andare. C’era quell’edicola, certo. Ma non voleva che il suo inseguitore potesse
collegarla a lei, e quell’uomo, quel David Hunter, sembrava molto interessato
alle vicende di quel posto, e, soprattutto, molto informato. Quindi quello era
il posto da evitare, e in fondo sarebbe stato meglio cercare un luogo pubblico,
affollato, in cui poteva mischiarsi alle persone e sfuggire alla vista
dell’inesperto inseguitore.
Fu
un caso: passò di fronte a un enorme portone, con un’insegna in pietra davanti.
Era la biblioteca principale.
“Perfetto!”
si lasciò sfuggire la bionda mentre accostava la motocicletta al marciapiede.
Mise il cavalletto e scese togliendosi il casco dalla testa. Lo fermò bene,
incastrando il laccio nella chiusura del sellino, e bloccò lo sterzo prima di
sfilare la chiave. Se qualcuno avesse fatto attenzione, avrebbe potuto vederla
mentre carezzava la carrozzeria argentea prima di
voltarsi…
L’auto
l’aveva superata durante il parcheggio. Aveva svoltato il successivo angolo, e
probabilmente era lì che si era fermato. Comunque sembrava che tutto andasse
secondo i piani. E senza volerlo, avrebbe potuto continuare a indagare su quella
setta, quell’Ordine, di cui aveva sentito parlare.
Entrò
nella struttura. Il soffitto alto e gli scaffali zeppi di libri sembravano quasi
metterla a disagio. Doveva ammettere che anche se era una persona che aveva
sempre un libro sul comodino, entrava di rado nelle biblioteche, e ogni volta si
sentiva minuscola di fronte all’enormità di parole che venivano mescolate,
intrecciate in opere d’arte, in conoscenza pura o immaginazione sfrenata, alle
miriadi di possibilità, e alle moltitudini di storie da ascoltare, da vivere
attraverso quelle parole. L’architettura, poi, aumentava quel senso di
imbarazzo, con quegli scaffali alti, ricolmi di pagine e copertine sporgenti,
con le scale scorrevoli dal legno incerto, con la moquette che assorbiva ogni
piccolo suono, amplificando il silenzio che si spandeva in tutte le sale. I
tavoli ampi, poche sedie, distanti l’una dall’altra in modo da sviluppare un
senso di solitudine e di fusione con le storie che i libri raccontavano. Anche
l’odore aveva un che di caratteristico. Non avrebbe saputo spiegarlo, ma sentiva
che non avrebbe potuto sentire odore simile in un luogo diverso da quello. Forse
era l’odore della carta, o della polvere, o un misto, o anche del legno e
dell’umidità…
Si
guardò le spalle, ma nessuno entrò insieme a lei, e anche all’esterno la
situazione era normale, almeno da quello che poteva vedere dall’anta ancora
aperta. Poi la porta si richiuse, e le ultime voci provenienti dalla strada
scomparvero. Il silenzio si impossessò della stanza, e nel voltarsi nuovamente
incrociò lo sguardo di una donna di mezza età, vestita di rosso, con i capelli
castani raccolti da un elastico e gli occhialetti appoggiati sul naso appuntito.
Sorrise di un sorriso forzato, di circostanza, come se il suo lavoro fosse
sorridere, e con voce bassa e composta chiese: “Posso
aiutarla?!”
“C’è
una sezione di storia locale?”
“Certamente.
Le serve un libro in particolare?”
“Qualcosa
sulla religione del posto”
A
questo punto la donna si aggiustò gli occhiali con un dito, poi cominciò a
battere i tasti di un computer, sicura, veloce, senza preoccuparsi del rumore
prodotto o altro. Sembrava che ogni pressione fosse una martellata, ma Cybil
decise di non immischiarsi, e restare in silenzio. Dopo aver premuto con maggior
decisione il pulsante dell’invio, in breve il silenzio fu spezzato nuovamente
dalla voce frettolosa della donna: “Sezione 7, terzo corridoio sulla sinistra,
libro A709.”
“Molto
bene, la ringrazio” disse Cybil congedandosi. Ma la donna non era dello stesso
avviso…
“Mi
scusi!” disse con disappunto quando Cybil fu di spalle. La ragazza si girò
sorpresa.
“Le
devo chiedere di lasciare lo zaino qui”
La
donna indicò degli armadietti in ferro, proprio vicini alla suo postazione, o
probabilmente indicò il cartello appeso ad essi:
“Vietato
portare borse e zaini in sala
Depositare
negli appositi armadietti”
Cybil
nel leggere il cartello sorrise imbarazzata, e, scusandosi più volte, lasciò lo
zainetto che teneva in spalla in uno di quegli armadietti, chiudendolo e
portando con sé la chiave. Poi si incamminò seguendo le indicazioni di quella
donna. Il libro che le aveva suggerito era sul settimo scaffale, partendo da
terra, probabilmente perché si trattava di argomenti ignorati per lo più da
tutti. Dovette perciò servirsi di una scala per raggiungerlo. Una volta tirato
fuori ne lesse la copertina.
“Circa
le religioni sincretiche”
Restò
qualche secondo a osservare le lettere scritte con una perfetta calligrafia
dorata. Poi sorrise nervosamente. “Ci credo che non lo legge nessuno…”
sussurrò.
Scese
piolo dopo piolo facendo attenzione a non inciampare dato l’ingombro che il
libro rappresentava in quel momento, e si diresse verso uno dei tavoli più
isolati della sala. Nessuno vi era seduto, e anche agli altri tavoli le persone
erano poche.
Aprì
le prime pagine, ne lesse l’introduzione, qualcosa che aveva a che fare con
l’importanza della ricerca storica, e di come la donna che scrisse quel libro
era riuscita a reperire quelle informazioni che altrimenti sarebbero andate
perdute nel tempo. Poi, dopo l’indice dei capitoli e alcune pagine lasciate
bianche, o meglio, ingiallite dal tempo, trovò una piccola iscrizione al centro
di una pagina:
“Affido
a te incondizionatamente il mio corpo e la mia anima
eterna
Anche
se dovessi sprofondare nelle tenebre, con te al mio fianco
resisterò”
La
ragazza strinse gli occhi, sospettosa, e girò pagina con calma, limitando i
fruscii. Cominciò a leggere, e per ore continuò, senza una sosta, senza bere o
mangiare, raramente sgranchendo il collo e le braccia. Lesse dei nativi, della
loro capacità di parlare con i defunti attraverso quel luogo, delle due pietre,
le Nahkeeona. Lesse di come gli indigeni assumessero allucinogeni prodotti da
una pianta del luogo per i loro rituali, e come riuscissero a prevedere alcuni
eventi, e, stando ai diari degli inglesi, sembrava avessero previsto anche il
loro arrivo…due capitoli lesse sui nativi e sulla religione indiana basata su
questo “luogo degli spiriti silenziosi”, su come il suolo su cui ora sorgeva la
città era ritenuto sacro. Sembrava quasi che fosse una porta dimensionale, un
modo per accedere a un luogo privo di ordine spazio-temporale, in cui i defunti
potevano essere contattati passando dal passato al futuro e in ogni dove. Si
parlava di strane creature che veneravano come divinità, con una specifica
gerarchia, in cui la punta massima era un essere con caratteristiche
ermafrodite, a cui venivano dedicate strutture dalla forma piramidale che furono
trovate nei boschi poco distanti dalla città. La particolarità di queste
“piramidi” era che, a differenza delle strutture azteche o egiziane, queste
erano a base triangolare, e formavano dei tetraedri perfetti, geometrie molto
difficili da ottenere con la muratura antica. Difatti la resistenza di questi
edifici non era comparabile a quella delle piramidi classiche, e rimanevano
pochi ruderi e l’assoluta incertezza di quello che potevano
contenere.
Questa
divinità massima era descritta come un essere con poteri particolari, che fermò
per sempre l’eternità creando il tempo e lo spazio, donandolo agli esseri umani,
costretti in un mondo infinito privo di luce e morte. Aveva seni abbondanti, a
sottolineare la fertilità, e allo stesso tempo possedeva entrambi gli organi
genitali, unione di virilità e maternità, e in ogni immagine rinvenuta il sesso
maschile era raffigurato eretto e questo, si suppose, per due motivi: il primo
puramente estetico, in modo da rendere possibile la raffigurazione contemporanea
del sesso femminile, il secondo per rendere la figura potente e donarle la forza
tipicamente maschile. Come molte religioni antiche, infine, la testa apparteneva
ad un animale, in questo caso ad una capra, animale considerato per questo
motivo sacro.
Il
terzo capitolo cominciava in questo modo:
“Nessuna
religione è mai rimasta immutata dal momento della sua creazione. E questa non
fa eccezione.
Quando
di questa religione si appropriarono gli immigrati, essa venne profondamente
influenzata dalle loro credenze cristiane. Ad esempio i nomi e le descrizioni
dei rappresentanti tradizionali di queste divinità primarie potrebbero essere
quelle degli angeli cristiani.
Il
cambiamento maggiore lo subì proprio la divinità massima, che assunse a poco a
poco dei tratti sempre più femminili fino agli inizi dell’ottocento, quando
nelle preghiere e nei testi sacri si cominciò a riferirsi a questo essere con
l’appellativo “Lei”. Nelle immagini appariva vestita spesso di rosso, più di
rado in bianco o in nero, coprendo in questo modo le nudità, e rendendo quindi
più evidenti le forme femminili, e sparirono le sembianze caprine, dapprima nel
viso – alcune immagini infatti presentano una creatura con un viso femminile
ricoperta di pitture facciali che ne marcavano lo sguardo rendendola più
temibile, con delle corna che spuntavano dai capelli vermigli – poi in tutta la
sua figura, fino ad arrivare a raffigurarla come una donna a tutti gli effetti,
dallo sguardo rassicurante, vestita rigorosamente di rosso con capelli
neri.”
Cybil
deglutì. Si accorse di avere sete, ma non voleva interrompere assolutamente la
lettura. Continuò, leggendo le descrizioni degli altri angeli, e le
trasformazioni subite all’arrivo dei coloni. La religione sembrò prendere veste
ufficiale solo nel 1621 quando Jennifer Carrol, anglosassone nativa, e
protestante, chiamò per la prima volta il culto, a cui lei stessa aderì,
L’Ordine.
Era
sorprendente scoprire come quello fu uno dei pochissimi culti in cui le donne
venivano tenute in considerazione più degli uomini, e le figure gerarchiche
prevedevano quasi sempre una donna al vertice.
Erano
passate delle ore, Cybil aveva un orario da rispettare. E poi cominciava anche
ad avere fame. Così chiuse il libro, e si arrampicò nuovamente sulla libreria
per posarlo. Poi come destata da un sogno cominciò a guardarsi intorno. Si era
completamente dimenticata di controllare l’entrata, e adesso sarebbe stato quasi
impossibile riconoscere il suo inseguitore. Si maledisse per non aver prestato
attenzione, ma senza perdersi d’animo si avviò all’ingresso, recuperando lo
zaino. La donna era ancora la, intenta a fissare lo schermo del computer e a
colpire con decisione i tasti.
“Chiedo
scusa”
Il
suono della voce di Cybil sembrò arrecarle fastidio, ma, con falsa cortesia, si
voltò a fissarla negli occhi, aspettando di sentire il
resto.
“Potrei
usare un bagno?”
“Certamente,
è all’ingresso, sulla destra!” e si immerse nuovamente nella luce artificiale
del computer.
Cybil
salutò cortesemente, ma senza ricevere risposta. Così entrò nel bagno
guardandosi ben attorno prima di chiudere la porta. Aprì lo zaino, svelandone il
contenuto. Ben piegato c’era un giubbino di Jeans e un cappellino, e un
contenitore per occhiali da sole. Indossò ogni cosa, con un po’ di riluttanza
dato l’alta temperatura che l’aspettava all’esterno dell’edificio. Quando uscì
dal bagno diede un’ultima occhiata alla signora. La trovò intenta a parlare a
telefono, a bassa voce. Probabilmente per non disturbare. Comunque era un
sollievo, visto che era l’unica che avrebbe potuto riconoscerla all’istante,
perciò sgattaiolò all’esterno senza esitazione.
Il
caldo era asfissiante con quel giubbino addosso, ma cercò di stringere i denti e
sopportare. Notò che l’auto blu era a pochi metri da lei, ma dentro non c’era
nessuno. Puntò lo sguardo verso la moto poco lontana, ma neanche nei pressi del
veicolo c’era qualcuno di sospetto. Molti passanti data l’ora, ma nessuno
d’interesse. Forse era meglio così…
Si
allontanò a piedi. Per arrivare alla fermata del pullman ci sarebbe voluta una
mezz’oretta buona di cammino. Ripensò a quanto aveva appreso…non molto in
realtà. Era strano, nel leggere sapeva bene che le informazioni che stava
apprendendo non erano utili per le sue ricerche, eppure non era riuscita a
passare avanti. Sentiva quasi il bisogno di avere quella descrizione così
dettagliata del loro dio, come se fosse un’attrazione irrefrenabile verso quella
figura. Però aveva un nome: Jennifer Carrol, fondatrice effettiva dell’Ordine.
Sarebbe stata di sicuro molto utile.
In
perfetto orario, il pullman sarebbe partito a breve. Ce n’erano molti che
passavano per Portland, qualcuno anche più conveniente in termini di tempo, ma
quello lo aveva scelto perché faceva stazionamento li. Per cui non avrebbe
dovuto chiedere niente a nessuno, nessun contatto con l’autista per sapere
quando sarebbe dovuta scendere, nulla di nulla. Una volta a bordo si sarebbe
seduta su uno dei sediolini in coda, e avrebbe mangiato il suo
panino.
A
bordo c’erano molte persone, ma nel tragitto il mezzo si sarebbe fermato più
volte, perciò evidentemente non tutti andavano a Portland. Cybil sedette al
penultimo posto, vicino al finestrino, anche se dopo poco tempo un uomo con una
camicia a righe l’affiancò. Nessuno disse una parola, e anzi entrambi si
posizionarono meglio per stare il più comodi possibili.
Il
pullman partì
“…Mh…”
La
testa le pesava e faceva fatica a respirare. Sentiva l’acqua bagnarla ovunque,
entrare nel naso e in bocca, appiccicarle i vestiti addosso, facendoli aderire
perfettamente alla pelle. Era pioggia, cadeva incessante. Cercò di muoversi, ma
qualcosa la costringeva a tenere le braccia alzate, giunte sopra la testa, e le
impediva di alzarsi in piedi o altro. Era legata, forse con una
catena.
Prese
a muoversi freneticamente, ma senza nessun risultato se non quello di produrre
un rumore metallico che unito alla pioggia dava fastidio all’udito. Cominciò a
gridare, a chiedere aiuto, ma sembrava essere sola. Guardandosi attorno si rese
conto di essere su un pavimento liscio, come fossero mattonelle, o linoleum.
L’oscurità che c’era tutt’attorno non le permetteva di riconoscere nulla, e
l’acqua che colava negli occhi ostacolavano ancor più la sua
vista.
Poi
il bagliore.
Sembrava
avvicinarsi con calma e garbo, e a provocarlo era una figura umana. Una donna.
Si avvicinava sinuosa, e sembrava non accusare la
pioggia.
“Ehi!
Aiutami! Ti prego!”
La
donna non rispose. Continuò il suo lento cammino, fino ad illuminare
completamente il suo corpo bagnato. I drappi di stoffa ricadevano completamente
asciutti, a dispetto del clima, e sembravano svolazzare attorno a quella figura.
Si inginocchiò al suo fianco.
“Ti
scongiuro! Liberami!”
Ma
quella continuava a non parlare. In cambio però le sorrise. Oh, che sorriso che
le rivolse! Poteva sentire le lacrime, distinte dalla pioggia per la
temperatura. Il suo sorriso le scaldava il cuore, le dava anche un po’ di
sicurezza, e cercava di mettere a tacere la sua ragione. Lentamente avvicinò una
mano al suo volto, fino a sfiorarle una guancia. Il tocco era caldo, e sembrava
quasi che li dove la stava accarezzando con quella dolcezza smisurata, lì
l’acqua evaporasse all’istante, lasciando la pelle completamente asciutta e
calda.
Si
sporse ancora di più, scese verso di lei, avvicinandosi al suo volto. Le loro
labbra si sfiorarono, e un brivido percorse tutta la schiena, dal collo fino a
giù, verso le gambe che persero ogni tensione muscolare. Sentì il petto
gonfiarsi per un sospiro, l’aria invaderle i polmoni gonfiandoli, e poi passare
di nuovo per la bocca schiusa e accaldata.
“…Ai…aiu…ta…a…mi…”
Le
parole si spezzettavano anche nella sua mente, che lentamente andava perdendosi.
Gli occhi socchiusi ora le permisero di vedere la donna posizionarsi su entrambe
le ginocchia, di fianco a lei. Il vestito in quella posizione prendeva una
strana piega. Allora la donna lo scostò lentamente, fino a mostrare un enorme
membro eretto e pulsante. Ce l’aveva davanti agli occhi, e in un attimo ogni suo
stato d’animo cambiò. Il battito cardiaco accelerò vertiginosamente, la
pressione aumentò, e poteva sentire il pulsare nelle tempie, cercò di scostarsi
come poteva, ma a nulla valevano gli sforzi.
Tutto
ciò che poté fare fu urlare…
“Ah!”
Con
uno sforzo del collo mise la testa diritta, e spalancò gli occhi. La vista
annebbiata non le impedì di riconoscere il sellino del pullman in cui era. Voltò
la testa verso l’interno. L’uomo che si era seduto al suo fianco era sparito. Fissò un
punto indefinito.
“Era
solo un…sogno…”
Tirò
un sospiro di sollievo. Poi si accorse che il pullman era fermo. Forse erano
arrivati.
Non
solo erano arrivati, ma non c’era più nessuno sul pullman a parte lei. Se ne
accorse quando si affacciò nel corridoio.
Le
girava la testa, e sentiva ancora i brividi sulla pelle per il sogno fatto. Di
solito non era mai stata così impressionabile, eppure sapeva che si trattava di
quella descrizione che aveva letto sul libro nella biblioteca. Sentiva emozioni
contrastanti fra di loro, e perciò uscì velocemente con l’istinto di respirare
aria fresca. Purtroppo fuori l’aspettava invece l’arsura del primo pomeriggio
estivo, il che rese ancor più difficile l’ulteriore camminata che l’avrebbe
portata finalmente nel suo nuovo appartamento.
La centrale era quasi
deserta, e comunque il silenzio regnava sovrano.
L’unica luce accesa sul
piano era quella di un ufficio. Dentro un uomo teneva la cornetta di un telefono
ben aderente al suo orecchio. Parlava piano, per non turbare la pace che
raramente si poteva avere in quel posto, o più probabilmente per non essere
sentito da nessuno.
“Si, sono
io.
È scappata.
Evidentemente si era accorta di essere seguita.
No, non so dove possa
essere andata, ma le garantisco che riuscirò a ritrovarla.
Si…è stata a Silent
Hill. L’ultimo posto dove è stata vista è la biblioteca. Poi è scappata,
lasciando anche la moto lì.
No, da casa sua non è
mai uscito nessuno in questi giorni.
No, non si è mai
avvicinato. Temevo potesse scoprirlo…
Le ho già detto, non ho
idea di dove possa essere andata! Ovviamente ho minacciato quell’idiota; la
ritroverà, e quando lo farà troverà anche quell’altro…
Come?
Che significa che non
servono più i miei servizi?
Noi avevamo un
accordo…le ho detto che riuscirò a trovarla!
…
Va
bene…
Ma vi prego…non fatele
del male…
Sono pronto a tutto per
lei…”
Bene, finalmente sono riuscito a scrivere il quinto capitolo.
Chiedo scusa per i tempi così dilatati, ma come tutti sono molto impegnato,
soprattutto in questo periodo, e per di più i capitoli che scrivo sono sempre
abbastanza lunghi. E a questo proposito vi domando: credete sia il caso di
renderli più corti?
Ringrazio ancora chi legge, a presto.