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Autore: Guitarist_Inside    18/12/2012    1 recensioni
Eccomi.
Here I am.
Finalmente, potrei aggiungere.
Finalmente posso lasciarmi alle spalle un uragano di fottutissime bugie a cui non appartengo.
Finalmente posso prendere in mano la mia vita.
[...] E quindi, eccomi qui, che non ne posso più, e che cerco di lasciarmi alle spalle tutto ciò, questa terra di false credenze che non crede in me e in cui nemmeno io credo. Anzi, me ne frego altamente, o almeno così tento di fare.
Eccomi qui, dunque, che cerco di scappare da tutto questo, diventato fin troppo opprimente, per provare a trovare quello in cui IO credo.
...Direte che ho fatto una scelta fin troppo drastica, che ho esagerato, che sono pazza, o altre cazzate del genere. Ma voi non siete me. Voi non abitate nei contorti meandri della mia mente. Voi non avete vissuto quello che ho vissuto io. Voi non potete capire assolutamente niente di tutto ciò, quindi non fate i finti saccenti che si prodigano a dire le solite, ennesime, boiate. [...]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Salve gente! *fa ciao ciao con la manina, affacciandosi per vedere com’è la situazione*
Uhm, sembrerebbe che in giro non ci siano forconi, tonfa o altri attrezzi per pestarmi… uhm, bene! *sospira sollevata*
Scusatemi davvero, non sono riuscita a tenere lo standard decente di aggiornamento che ero riuscita ad avere per lo scorso capitolo… anche se, beh, di sicuro è meglio di quelli passati! *fa un sorriso a trenta-e-quanti-denti-ha*
In ogni caso, dato che non aggiorno da circa un paio di mesi (chezz, sono volati! Anche se allo stesso tempo sembravano non passare mai, dannata sQQuola ç_ç), mi accingo a rimediare ^^”
Rimediare nel senso che questo capitolo è una specie di doppio capitolo! Così “recupero” il tempo perduto, no? xD
A dir la verità, all’inizio la prima parte non c’era. Poi però l’ispirazione si è fatta strada nella mia mente, urlando nel mio cervello finché non ho deciso di lasciar perdere il mattone di scienze e di latino che dovevo studiare per darle retta… e, invece di due righe, già solo quella parte avrebbe la lunghezza sufficiente per essere considerata un capitolo a sé. Però… Però mi sono detta: è da due mesi che non aggiorno, per di più siamo sotto Natale e tutti sono più buoni (o almeno così dicono… *muahahah* però, no, dai, per questa volta non costituirò io l’eccezione, non in questo caso almeno)… quindi, perché non fare una specie di regalo (?) e pubblicare un capitolo con entrambe le parti?
Anche perché, altrimenti, se avessi terminato il capitolo solo dopo la prima parte, una certa Sadako Kurokawa mi avrebbe gentilmente ucciso, dopo i bellissimi spoiler che le avevo fatto (chiedendole pure un parere per vedere se potessero starci certe cose oppure no), se avesse scoperto che tali parti in realtà non erano più in questo settimo capitolo ma avrebbero costituito l’ottavo (ovvero, altro tempo da aspettare…)! X’D Quindi beh, ringraziate pure lei per questa mia decisione ;)

Ma ora passiamo al capitolo.
Alcuni pezzi della seconda parte (che poi fino a pochi giorni fa era il nucleo unico ed essenziale del capitolo) erano già pronti nella mia mente da moltissimo tempo, così come erano già anche abbozzate su Word xD Però, erano solo abbozzate, appunto.
Ci ho lavorato su soprattutto durante il mese di Novembre, ed essendo io oltremodo esaltata per il concerto dei Papa Roach a cui sarei andata il 26 Novembre (e sul quale ho anche scritto una fic-tributo, se a qualcuno interessasse ^^) (aaaaawwww…26Novembre2012 adsjuefwudgf *___* okay, mi riprendo, perdonate il momento di sclero xD), è inutile dire che la colonna sonora del capitolo non potesse che essere loro!
La canzone principale che accompagna il capitolo è Scars (dei PRoach, appunto), ma qua e là sono disseminate parti, frasi e riflessioni, che mi sono state ispirate sia da altre canzoni dei Papa Roach (che sono stati la colonna sonora predominante di Novembre -e anche Dicembre-, per ovvi motivi xD), sia dei Linkin Park (grande amore della mia vita *-* xD), e anche qualcosina dei Green Day. Okay, chiudiamo la parentesi colonna sonora, che non so neppure perché ho aperto. Ah, sì, forse per via del concerto (*W*) x’D
Successivamente, ho voluto aggiungere un’altra parte, prima di ciò che avevo già scritto. Come ho già accennato, l’idea era di scrivere una paginetta, ma alla fine, prima che potessi rendermene conto le paginette erano già diventate ben 5 intere! X’D
L’idea è nata soprattutto per mettere a confronto i risvegli e le riflessioni dei due eroi(?), Amy e il “Demone Oscuro” (prendo in prestito il soprannome che gli ha dato sempre la cara Sadako) -di cui finalmente(?) verrà svelato il nome-.
Okay, vi avviso in anticipo che questa prima parte, dal punto di vista del “Demone Oscuro”(?), non adotta un linguaggio proprio fine e pulito. Al contrario, è immediato, quasi rude, non fa giri di parole e non si scandalizza certo nel mettere una quantità impressionante di parolacce per rafforzare quello che dice o pensa. Diciamo che il ragazzo si è svegliato un po’ di merda e ciò non fa altro che aumentare il suo vocabolario già stracolmo di termini per lui “caratteristici”, come “fottuto”, “cazzo” e cose così. No, non è il re della finezza x’D
Alla fine, diciamo che il linguaggio va anche di pari passo con come si sentono i personaggi narranti!
La seconda parte invece adotterà il punto di vista di Amy e… va beh, non voglio fare spoiler.
È la prima volta che inserisco in questa storia un capitolo diviso in due parti e col punto di vista alternato… Fatemi sapere se anche per voi è una buona idea o è meglio separarle, in futuro, in due capitoli diversi.
In ogni caso, il capitolo è soprattutto riflessivo, sia nella prima che nella seconda parte, anche se qualcosa accade x’D
Okay, ho già scritto troppo, sorry ^^”
Ringrazio ancora sentitamente tutte(/i?) coloro che seguono questa storia e soprattutto chi prenderà il tempo per recensire e farmi sapere che ne pensa!
E un caro grazie a Sadako Kurokawa, come sempre, per le recensioni, il suo compito di correttrice di bozze, l’aiuto, il sostegno, le risate e le nostre belle chiacchierate :3 Spero tu sia contenta di questo doppio capitolo e che valga il tempo dell’attesa! xD
Okay, la smetto di blaterare (dato che ho già scritto una pagina di cazzate varie o.O) e vi lascio al capitolo vero e proprio che è meglio.
Alla prossima, see ya! :D







Soundtrack: Scars (Papa Roach)

“I tear my heart open, I sew myself shut
My weakness is that I care too much
And our scars remind us that the past is real
I tear my heart open just to feel.
I tried to help you once
Against my own advice
I saw you going down
But you never realized
That you're drowning in the water
So I offered you my hand
Compassion’s in my nature…”
[ Scars – Papa Roach ]


CAPITOLO 7
My weakness is that I care too much


Una luce fottutamente fastidiosa mi investì in pieno volto, risvegliandomi in un tiepido tepore che ben poco rispecchiava come mi sentivo.
Mi sentivo esattamente di merda, ecco come mi sentivo.
Avevo mal di schiena; anzi, no, avevo male in ogni fottutissima parte del mio corpo, senza contare il fatto che sentissi la testa così pesante, ma allo stesso tempo così leggera.
E questo era solo come mi sentivo fisicamente, perché dentro di me stavo mille volte peggio.
Borbottai parole senza senso, sperando di poter ricacciare indietro quella dannata luce, ma, cazzo, non se ne voleva proprio andare.
Con un ringhio soffocato, mi decisi ad aprire gli occhi, che appena vennero a contatto con la luce del giorno bruciarono da maledetti.
Ecco qua, un’altra bellissima giornata che per me non sarebbe stata altro che un’altra bellissima giornata di merda.
E che altro poteva essere?
C’erano già tutte le fottute premesse perché fosse uno schifo.
Mi alzai e mi guardai intorno, per cercare almeno di capire dove cazzo mi trovavo.
Strizzai gli occhi, cercando di mettere a fuoco le immagini attorno a me, e soprattutto di sopportare quella luce che certo non aiutava a concentrarmi. Anzi, non faceva altro che accecarmi e aumentare quel fottuto mal di testa e quel senso di nausea che avevo.
Okay, a quanto pareva mi ero addormentato per terra, ai piedi di un albero, che però non mi aveva neppure fatto il favore di ripararmi a sufficienza dalla fottuta luce solare. Anche l’ombra mi schifava, probabilmente.
In ogni caso, ieri sera, o notte che fosse, dovevo essere stato proprio messo male, per non trovare neppure la forza di tornare in quelle quattro mura che osavo chiamare casa.
Che diavolo era successo di così sconvolgente?
Cercai di mettere a fuoco qualche ricordo sfocato e disperso nei meandri della mia mente.
Ero uscito verso il tramonto, di questo ero certo. Così come ero certo di essere andato alla Baia, sul mio scoglio, nel mio posto.
Sì, ero andato lì, avevo fatto sloggiare quei fottuti fighetti di merda che osavano profanarlo e deturparlo, e poi mi ero perso ancora una volta nei miei pensieri.
Dannazione a me, che non riuscivo a fare a meno di cercare un posto tranquillo e appartato per pensare alla mia vita. Non potevo semplicemente non pensare? Perché dovevo sempre complicarmi ulteriormente l’esistenza? Cazzo, tutte quelle riflessioni mi avevano sempre portato, in qualche modo, sofferenza. Sempre e solo fottuta sofferenza, fin quando ricordavo.
E non sempre, nonostante tutto, ero pronto ad affrontarla.
Non volevo ammetterlo, volevo illudermi di essere forte, illudermi di non essere più vittima del mio passato, illudermi che non me ne fregasse più di nulla… ma in realtà, sotto quella dura corazza che mi ero costruito, ero sempre me stesso, sempre quel dannato ragazzo che non riesce a fregarsene come si deve.
Mi ero illuso più volte di aver imparato a contrastare i miei demoni e non cadere più vittima sotto il peso di quegli scheletri mai morti. Mi ero addirittura illuso di poter cancellarli, se avessi voluto.
Ma sotto quella fottuta corazza, le cicatrici c’erano sempre, vive, a farmi presente il mio fottuto passato e la merda che mi circondava.
Mi diedi una sberla. Non so perché lo feci, ma sentii l’impulso di farlo.
Coglione.
Sì, mi sentivo decisamente un coglione.
Cercai di sforzare la memoria, per ricordare cosa era successo dopo.
Avevo cercato ancora una volta di affrontare i demoni del mio passato. Mi tornarono alla mente squarci di dolorosi pensieri e ricordi.
Ancora una volta avevo cercato di combatterli, ma ancora una volta alla fine ne ero stato vittima.
Nonostante i miei propositi, le mie convinzioni, ancora una volta ero crollato, mi ero ritrovato in pezzi, e non ero stato capace di trovare la forza necessaria per ricomporre la mia anima.
E non avevo neppure il mio basso o i miei tonfa con me, per poter sfogare quell’energia distruttrice e quella disperata sofferenza che si erano fatte strada in me sempre più a fondo, rompendo il mio spirito.
Sospirai, chiudendo gli occhi e stringendomi le tempie tra le mani, cercando invano di contenere quel dolore pulsante, dovuto al fottuto dopo-sbornia e alimentato ulteriormente da quei fottuti ricordi.
Pensare era sempre più difficile, ma volevo capire perché diavolo mi trovassi lì, perché diavolo mi fossi risvegliato in quel cazzo di parchetto dimenticato da Dio.
Sì, ieri sera ero stato sopraffatto per l’ennesima volta da quegli scheletri che parevano così fottutamente immortali; poi, ero scappato. Mi ero messo a correre, come se fuggendo da quel luogo con cui avevo condiviso quei ricordi, avessi anche potuto fuggire da me stesso. Come se ciò fosse possibile.
Abbozzai un sorriso amaramente ironico, dandomi dell’idiota.
Ero il mio peggior fottuto nemico, e non c’era via di scampo.
Un giorno, forse, avrei saputo gestire tutto ciò. Un giorno, forse, tutto ciò mi avrebbe fatto diventare me stesso.
Ma per ora tutto ciò non faceva altro che spingermi e farmi affondare sempre più nella merda.
E così, ieri sera ancora una volta avevo provato a scappare. Avevo pensato che correre fosse più semplice che affrontare ancora quel dolore; avevo pensato che inebetendomi avrei potuto annullarmi almeno in parte, sostituendo il dolore con un’ovattata nuvola di nulla.
Ma, alla fine, ancora una volta quei demoni erano maledettamente forti. Troppo forti.
E così, come un’idiota, mi ero rifugiato nell’alcool.
Beh, almeno non ero stato così scemo da cedere nuovamente alla tentazione della droga. Con quella merda avevo chiuso definitivamente, ormai. Dopo certe cose, dopo quello che aveva fatto a me e a… No, non volevo neppure ricordare, in quel momento non mi avrebbe certo aiutato. In ogni caso, dopo tutto ciò che era successo, non potevo essere così coglione da finirci dentro ancora.
Continuai a sforzare le mie povere meningi, che chiedevano inutilmente tregua.
Aumentando lo sforzo, vidi un’immagine di me stesso su una panchina di un altro fottutissimo parchetto desolato, attorniato dai cocci di qualche bottiglia di birra che avevo ormai scolato, ma che non mi avevano aiutato più di tanto a sentirmi meglio, o anzi, a non sentirmi più.
Mi ero alzato per andare da qualche parte… ma dove?
Uhm, conoscendomi, escludendo la Baia, dato che ero scappato proprio da lì, avrei potuto sentire il bisogno della musica. Sì, era molto probabile. Quindi, facendo due più due, con molta probabilità ero andato al Gilman.
Premetti la mano sulla testa, cercando qualche ricordo che potesse confermare ciò. Non dovevo essere così ubriaco da permettere a quel fottuto alcool di cancellarmi la memoria, non ancora!
E infatti, dopo un po’, eccole, quelle immagini che arrivavano alla spicciolata.
Ma, a differenza di ciò che mi aspettavo, questa volta non erano suoni e immagini di un concerto, di gente che suona, gente che canta, gente che salta, urla e balla in un mare di sudore, mentre il volume della musica riusciva a coprire quello dei miei fottuti pensieri.
No. Quelle che il cervello mi mostrò erano immagini di una ragazza.
Ma chi cazzo era? E che cazzo c’entrava con me?
Cazzo, era sempre più difficile ricordare. Fanculo.
Cercai di concentrarmi meglio, ma era così fottutamente difficile, con la testa che non collaborava affatto.
Dopo un po’, però, iniziai a ricordare qualcosa.
Le ero caduto addosso, o qualcosa del genere. Sì, ricordo l’asfalto così dannatamente vicino alla mia faccia.
Lei si era incazzata, probabilmente. Sì, era così. Mi aveva urlato contro qualcosa, e io le avevo gridato qualcos’altro. E… cazzo, era tutto così annebbiato.
Dopo un po’ se ne era andata incazzata come una iena, se non la memoria non mi ingannava pur di accontentarmi e farmi smettere di tormentarla.
Dal suo volto, non sembrava solo incazzata per la caduta. No, era qualcosa di più. Sembrava piuttosto ferita. Sì, ecco, ferita. Avevo detto qualcosa, qualcosa a proposito delle origini… Oh cazzo. Allora ricordai.
Ricordai come, accecato dall’alcool ma soprattutto dal dolore e dalla rabbia, non avessi potuto impedire ai fottuti demoni del mio passato di impadronirsi della mia lingua.
Ricordai la sua reazione.
Ricordai come vidi nel suo sguardo furioso il mio, come mi fece tornare alla mente ancora una volta le mie fottute cicatrici, e come mi sentii un idiota.
Era una cosa stranissima, ma era successa.
Così strana che se me l’avesse raccontata qualcun altro, avrei giurato che fosse solo una fottuta balla colossale. Io che mi sento quasi colpevole per far soffrire qualcuno? Mi veniva quasi da ridere.
Dopo tutto quello che questo mondo di stronzi mi aveva fatto, dopo quanto gli altri mi avevano fatto soffrire, era davvero raro e oltremodo strano che io potessi sentirmi un coglione per aver fatto soffrire qualcun altro.
Ad ogni azione ne corrisponde una uguale e contraria, è una legge fisica.
Così, io ero diventato il frutto di ciò che mi era stato fatto. Quindi, a tutto il dolore che mi era stato inflitto, corrispondeva da parte mia una facciata da stronzo che se ne fotte di come possono stare gli altri.
Eppure mi era capitato, mi ero sentito un idiota per avere riaperto ferite del suo passato e averla fatta soffrire. Certo, lei mica me l’aveva detto, ma ormai avevo il fottuto callo per queste cose. Le capivo, non c’era mica bisogno di dirmelo. C’ero passato anch’io per quella merda, c’ero ancora dentro, quindi lo capivo quando qualcuno tirava fuori rabbia per nascondere dolore.
In ogni caso, avevo quasi riacquistato lucidità per un dannato secondo, con la consapevolezza che, seppure fosse fottutamente strano, mi fossi sentito un idiota a causa sua, che per una volta qualcosa avesse vinto sulla mia generale indifferenza nei confronti altrui.
Ma perché me ne era importato?
Riflettendoci (seppure fosse così maledettamente difficile, in quello stato di merda in cui mi ritrovavo), avevo anche capito cosa fosse quel qualcosa che non mi aveva permesso di fregarmene: era quella cazzo di sfumatura che avevo visto nel suo sguardo, che mi aveva fatto ricordare fin troppo bene alcuni tra i momenti più bui della mia fottuta vita.
Probabilmente mi era successo solo perché stavo fottutamente male e avevo proiettato le mie sofferenze su di lei; per quello mi ero sentito una merda.
Poi, probabilmente, aveva influito anche il fatto che non ero riuscito a controllarmi e a essere padrone dei miei pensieri, ma avevo invece agito, ancora una volta, in maniera impulsiva, nonostante tutti i miei sforzi e le mie convinzioni sul mio self-control, che invece era andato a puttane. Questo mi aveva fatto sentire debole. E sentendomi debole, avevo perso ancor di più il controllo, sotto l’aiuto dell’alcool e dei miei fottuti demoni.
Ecco quindi spiegato perché avessi reagito in quel modo, perché avessi ancora una volta attaccato per difendermi. E il fatto che avessi sputato quelle cose con odio non era dovuto ad altro che al fatto che stavo sprofondando sempre più nel baratro del dolore causatomi dai miei ricordi di merda.
Ovviamente non potevo sapere che quelle parole avrebbero avuto quell’effetto su di lei; non potevo certo aspettarmi che nascondesse anche lei cicatrici, e soprattutto cicatrici che potessero essere riaperte proprio da quelle parole. Perché non era semplice risentimento quello con cui mi aveva fulminato; la sua non era stata una semplice risposta a un insulto. Non me l’aspettavo, cazzo. Mi aveva sconvolto.
In quel modo avevo capito, avevo visto il dolore e il rancore nel suo sguardo e mi ero sentito una merda pensando al mio dolore, al mio rancore.
Non riuscivo a trovare altra spiegazione. Più che altro, dovrei dire che, trovata quella, che mi sembrava parecchio verosimile, mi rifiutai di cercarne un’altra, non volendo affaticare invano la mia mente già provata.
Ah, che fottuto mal di testa. Più pensavo e più aumentava… Beh, che cazzo mi aspettavo? Che diminuisse?
Sospirai.
In ogni caso, quel mal di testa mi spinse a pensare ancora (tanto ormai era già a livelli indecenti, un po’ più o meno male non mi avrebbe cambiato la vita).
Di certo non potevo trovarmi vittima di quel fottuto dopo-sbornia di merda solo per due cazzo di birre. E allora, che diamine avevo fatto dopo?
Le immagini e i ricordi erano sempre più confusi, annebbiati.
Pur sforzandomi, non riuscii a recuperare più di qualche flash qua e là.
Per qualche strana ragione, avevo rinunciato ad andare al Gilman, e, sempre più preda di quei fottuti demoni, sentendomi veramente di merda, me ne ero tornato indietro, camminando alla deriva.
Poi in qualche modo mi ero procurato altri alcolici, della vodka credo. Probabilmente avevo ritenuto che la birra fosse troppo leggera.
I ricordi erano sempre più vaghi, confusi, era come se girassero a velocità impressionante su una cazzo di giostra immersa nella nebbia; era sempre più difficile capirci qualcosa.
Dopo aver camminato e camminato senza una cazzo di meta, mi ero ritrovato in quello squallido parchetto, con un senso di nausea assurdo, la testa e lo stomaco sconvolti come se si trovassero sulle fottute montagne russe. Avevo vomitato, poi mi ero spostato di una decina di metri, o qualcosa del genere. In fondo, quella macchia schifosa non troppo lontana da me poteva confermarlo.
Mi ero lasciato cadere ai piedi di quell’albero, e dopo aver bevuto qualche altro sorso dalla bottiglia, probabilmente ero finalmente crollato, dimenticando ogni cosa e annullandomi in un sonno profondo senza sogni né incubi.
Che cosa deprimente.
Non potevo andare avanti a ridurmi così, cazzo.
Mi voltai e notai che accanto a me c’era ancora una bottiglia di vodka non finita; a dir la verità, conteneva ancora un buon terzo di liquido alcolico.
La raccolsi, con l’alibi che sarebbe stato uno spreco lasciarla lì.
Poi la guardai. Mi stava tornando la depressione, pensando a ieri sera, o notte o quel cazzo che fosse… e quel goccio di alcool magari poteva affogarla sul nascere, quella merda di depressione, bruciandola assieme alla mia gola per poi mischiarsi al mio fottuto sangue, annebbiando di nuovo ogni cosa.
No, non potevo alzarmi vittima di un dopo-sbronza e subito bere ancora, era indecente, cazzo.
Dovevo darmi un contegno.
Però tanto ormai stavo già di merda, cosa avrebbe cambiato un po’ d’alcool in più o un po’ in meno?
Continuai a fissare il liquido dentro alla bottiglia trasparente.
No, cazzo, già facevo fatica a guardarmi intorno in quello stato, non potevo bere ancora. Avrei dovuto smaltire un po’, prima di finire quella bottiglia.
Dovevo farmi forza.
E soprattutto non potevo fuggire ancora da me, non potevo fuggire in eterno.
Non ero un fottuto coniglio.
No, non ero un codardo, altrimenti l’avrei già fatta finita in qualche modo, buttandomi giù da un palazzo o cose così.
Rimasi ancora un po’ seduto, lì ai piedi di quell’albero, intorpidito, con un mal di testa indecente e un maledetto senso di nausea e vuoto allo stesso tempo, pensando a tutto e a nulla allo stesso tempo.
Non mi resi conto di quanto tempo passai così; di sicuro un bel po’.
Rimasi lì finché la testa iniziò ad essere più sopportabile e la nausea era quasi sparita, tanto non avevo nient’altro di meglio da fare.
A giudicare dalla posizione assunta dal sole, doveva essere ormai quasi mezzogiorno quando infine mi decisi a farmi forza, alzare il culo da lì e dirigere qualche passo verso un posto qualsiasi. Non avevo idea di dove andare, non me ne fregava poi tanto; l’importante era alzare il culo e muovermi da lì.

***


Per essere quasi l’una e mezza del primo pomeriggio di una giornata di metà giugno, dovevo ammettere che faceva abbastanza fresco. Cioè, non che facesse fresco in sé, ma rapportando il clima a quello cui ero abituata, dovevo ammettere che quel giorno era assai più mite del solito.
Da una buona mezz’ora il sole era velato a tratti da qualche candida nuvola il cui tragitto passava per qualche secondo davanti all’astro luminoso, per poi lasciare che i raggi potessero nuovamente irradiare il proprio calore sulla superficie terrestre, senza tuttavia arderla gettando su di essa una temperatura eccessiva.
Fortunatamente, infatti, non si moriva di caldo. Anzi, dovevo ammettere che stavo benissimo com’ero, in maglietta e jeans (seppure quest’ultimi erano corti e quindi, in ogni caso, non avrebbero tenuto chissà quale caldo). Era fantastico poter camminare tranquillamente, inspirando a pieni polmoni quell’aria di libertà, godendomi quei miti raggi, senza ritrovarmi due fottute chiazze di sudore sotto le ascelle, né tantomeno essere costretta a boccheggiare per l’afa.
Una gradevolissima brezza soffiava, alleggerendo ulteriormente il caldo estivo, insinuandosi in ogni via e accompagnando i miei passi.
Mi guardai intorno, cercando di ricordare quale fosse la strada che mi aveva indicato Alex la sera prima. Cazzo, di giorno certe vie avevano un aspetto completamente diverso!
Fortunatamente dopo un po’ riconobbi una panchina solitaria, posta sotto un albero accanto ad un incrocio; perfetto, ora mi ricordavo: dovevo girare a sinistra e poi andare dritto fino al terzo incrocio.
Continuai per la mia strada, sicura e serena, finché a un tratto vidi una figura che sostava imperterrita all’angolo di una via.
La cosa che mi colpì fu il fatto che non osava muovere un muscolo; stava semplicemente lì, come abbandonata su se stessa, senza sapere che fare o dove andare, fissando il nulla.
Non saprei dire perché, ma qualcosa non mi convinceva in quella persona che, ora che l’osservavo meglio, pareva un ragazzo.
Avvicinandomi aguzzai la vista, incuriosita.
E improvvisamente, mi parve di riconoscere quella capigliatura di quella colorazione peculiare.
Dov’è che avevo già visto quella chioma appuntita, sulla quale il blu notte e qualche ciuffo rosso nascondevano una colorazione corvina?
Feci un altro passo in avanti, osservandolo meglio.
Sì, era lui.
Lui, quello della sera prima fuori dal Gilman, quel dannatissimo… ragazzo, che inspiegabilmente non sapevo come definire.
Da una parte volevo odiarlo, dall’altra non riuscivo a farlo completamente.
Da una parte mi pareva distante anni luce da me, dall’altra mi pareva più vicino di quanto non potessi credere, nonostante non riuscissi a spiegarmi il motivo di tale sensazione.
Non avevo certamente dimenticato il modo in cui si era rivolto a me la sera prima, come aveva osato, con quell’atteggiamento strafottente che mi faceva prudere la mani al solo ricordo, riaprire cicatrici che nessuno avrebbe mai dovuto azzardarsi a far sanguinare ancora, ricordandomi quanto reale e dolorosamente vicino fosse il passato.
Eppure, qualcosa in me, una volta sbollito il furore che mi aveva provocato, nella calma più assoluta mi aveva portato a compiere ragionamenti che mi avevano stupito parecchio.
Quel dannato ragazzo si era intrufolato nei miei pensieri senza bussare né chiedermi il permesso, tormentando il mio sonno finché non acconsentii a lasciare che la mia mente tornasse su quei ricordi che lo vedevano coinvolto. Sarebbe stato inutile tentare di ignorare quei pensieri ulteriormente: non sarei comunque riuscita a condurre un sonno tranquillo.
E così, mi ero ritrovata a riflettere su quella figura, sulla disperazione celata da un fiume di rabbia, sul dolore profondo che a tratti riuscivo a percepire nel suo sguardo che per qualche secondo perdeva la sua imperscrutabilità, nei suoi occhi arrossati, o proprio nell’odiosa ira di quelle parole vomitate.
Era per colpa di quei particolari che non riuscivo ad odiarlo come avrei dovuto.
Che cazzo mi stava succedendo? Ah, dannazione alla mia compassione innata e mai completamente assopita, che mi portava a provare empatia per quel disgraziato.
Mi interessavo troppo, non riuscivo a fregarmene: quella era la mia debolezza.
Perché?
Perché non potevo ignorarlo come facevo sempre con il mondo che mi circondava ostile, o almeno con una buona parte di esso?
Che diamine c’era di diverso, questa volta?
Cosa diamine aveva di fottutamente diverso, quel ragazzo?
Tutto, tutto ciò che era successo e tutto ciò che aveva detto, nessuna parola esclusa, avrebbe dovuto portarmi a odiarlo con tutta me stessa, eppure… Eppure, provavo una sorta di compassione nei suoi confronti, non ostile disprezzo, non odio cieco, come sarebbe stato più ragionevole dedurre.
Forse tutto ciò era dovuto al fatto che mi era parso di intravedere, per un attimo, il suo sguardo velarsi di profonda sofferenza e pentimento, dopo aver pronunciato quelle dannate parole.
Ma bastava davvero così poco per scombussolare i miei pensieri e i miei sentimenti al punto da non riuscire a comprendere se lo odiassi o se volessi aiutarlo?
Da una parte qualcosa mi infastidiva e mi spingeva a repellerlo, ma dall’altra parte era come se qualcosa, incomprensibilmente, temerariamente, mi incuriosisse ed in un certo senso mi attraesse verso la mia disgrazia. Volevo comprendere. Non sapevo bene cosa, ma sentivo che c’era qualcosa da comprendere.
Ma che cazzo mi stava succedendo? Quel bastardo mi aveva ferita e io mi preoccupavo per lui? Non ero mai stata né scema né masochista; allora perché?
Stupida me; io, la mia mente contorta e la mia fottutissima compassione.

Non ne avevo parlato con Alex, stranamente, perché una volta rientrata nel Gilman la musica e l’atmosfera avevano preso il sopravvento, facendomi quasi dimenticare dell’incidente.
Poi, passato un certo lasso di tempo abbastanza lungo, avevo creduto che la faccenda non fosse così rilevante da doverne parlare.
Solamente la notte la vicenda mi era tornata alla mente, nelle sue mille sfaccettature, imponendomi di non fermarmi ad un superficiale guardare le cose, ma a vederle più in profondità… Del perché di tali riflessione, però, non avevo la benché minima idea. Perché non potevo fregarmene come sempre?
Forse era per colpa di quelle maledette cicatrici, di quei fottutissimi demoni del mio passato che aveva fatto tornare più vivi del solito. Tuttavia, ciò poteva spiegare solamente il motivo per cui quell’incidente avesse tormentato i miei sogni, o meglio, i miei incubi. Riguardo al motivo che mi spingeva a guardare come stessero le cose in realtà per cercare di capire qualcosa di più, facendomi provare quei sentimenti così contrastanti… beh, a quello non riuscivo a dare spiegazione, a parte quel mio fottutissimo senso di compassione, che aveva deciso di risvegliarsi proprio quel giorno.
Quella mattina, quando la sveglia di Alex ci aveva richiamato dal mondo onirico con una delle nostre canzoni preferite, la musica e il buffo volto assonnato del mio migliore amico accanto a me mi avevano fatto dimenticare di tutti quei maledetti pensieri.
Avevo focalizzato la mia attenzione solamente sul mio primo risveglio californiano, sul tiepido sole che filtrava dalla finestra illuminando un nuovo giorno, nonché sul sorriso che mi rivolgeva Alex, salutandomi affettuosamente e chiedendomi allo stesso tempo se avessi dormito bene, se fossi contenta del mio primo giorno della mia nuova vita lì e cosa volessi per colazione. Tutto questo non aveva potuto far altro se non suscitare un sincero sorriso che si era dipinto anche sul mio volto, donandomi una sensazione di pura felicità.
Mi ero guardata intorno con un’espressione quasi trasognata, spontaneamente felice di quel risveglio così diverso da quelli freddi che mi avevano aspettato così tante fottute volte nella vita che mi imprigionava prima.
Quando poi, non appena mi ero alzata mezza rincoglionita dal buonumore, Alex mi aveva abbracciato di slancio, facendoci cadere nuovamente sul materasso, ridendo, per restare lì ancora un po’ a fare i coglioni, ogni residuo di quei ricordi sgradevoli che avevano tormentato il mio sonno era magicamente sparito dalla mia mente.
Tutti quei pensieri intricati erano scomparsi, fino a pochi minuti prima, quando lo avevo rivisto.

Mi prese una sensazione strana. Un miscuglio di irritazione, turbamento, ma anche preoccupazione e interesse nei suoi confronti, che mi percepii come particolarmente strano e indefinibile.
Nel frattempo, quel dannatissimo ragazzo stava ancora lì, all’angolo della strada, a una decina di metri di distanza da me. Era fermo e, dato che mi dava le spalle, non riuscivo bene a capirne il motivo.
Mi parve di intravvedere qualcosa nella sua mano sinistra, che ciondolava abbandonata lungo il suo fianco; poteva trattarsi di una bottiglia, data la forma, che rifletteva la luce solare. Aguzzai per un attimo la vista, cercando di capire di cosa si trattasse, per poi darmi dell’idiota: che diamine me ne fregava? Erano cazzi suoi, era la sua fottuta vita, non la mia. Perché mi interessavo alla sua incolumità?
Forse perché quella figura, lì, sola, che pareva abbandonata perfino da se stessa, mi suscitava un irrazionale moto di compassione.
Forse perché quella figura sembrava emanare un muto urlo di disperazione, come quello di un naufrago in balia della tempesta che, con le ultime forze, cerca un cavo a cui aggrapparsi per non affogare e sprofondare nel buio di un oceano di dolore.
Forse perché pensare a tutto ciò mi riempiva di profonda tristezza e non potevo fare a meno di ammorbidirmi, nonostante tutto.
Nonostante le mie esperienze mi ammonissero, urlandomi a gran voce di fregarmene, voltare le spalle e lasciarlo lì solo nella sua disgraziata miseria, come avrebbe meritato, nonostante il mio cervello desse implicitamente ragione ai loro argomenti, qualcosa di oscuro mi spingeva a restare.
Qualcosa di misterioso, riconducibile probabilmente a quella mia dannata natura compassionevole mai completamente assopita, che ora stava emergendo, mi spingeva a porgergli la mia mano, per tentare di tirarlo fuori da quelle gelide acque in cui, prima che se ne potesse rendere conto, probabilmente sarebbe sprofondato completamente.
Contrariamente, qualcos’altro di più razionale, in me, mi spingeva a fregarmene o, anzi, quasi a rallegrarmi sadicamente della sua sofferenza: alla fine se la meritava, dopo quello che aveva osato dirmi, no?
Eppure, non riuscivo davvero a persuadermene.
Sì, la mia debolezza consisteva proprio nel fatto che mi interessavo troppo; nonostante tutto il dolore subìto, tutte le scottature che mi ero procurata, tutte le cicatrici lasciatemi dal passato, non riuscivo davvero a chiudere completamente il mio cuore e fregarmene.
Qualcosa in me rimaneva troppo buono per tutto ciò.
Certo, mi ero chiusa in me, avevo eretto muri attorno alla mia anima ed al mio cuore per proteggermi da tutto e da tutti, per sembrare impassibile, ma non potevo fare a meno di provare comunque qualcosa quando vedevo qualcuno, come quel ragazzo, che riuscisse a suscitare in me quella dannata compassione, probabilmente perché riusciva a ricordarmi me stessa a causa di qualche motivo che al momento era, per me, incomprensibile, dai contorni più che mai indefiniti.
L’amore e la rabbia avevano sempre pervaso la storia della mia vita, alternandosi e spesso mischiandosi in connubi indefinibili; quel momento, in cui in me continuavano ad alternarsi, lottando tra loro, odio e compassione, non era che un’ulteriore conferma di questa peculiare composizione della mia anima, che mi procurava soltanto confusione e dissidio interiore.
Così rimasi lì, immobile, fissando l’angolo di strada in cui quel demente si ostinava a stare senza muovere un muscolo.
Perché non se ne andava?
Non sarei più stata vittima di quell’indecisione, sarebbe stato tutto più semplice, se se ne fosse semplicemente andato.
Invece no, il bastardo se ne stava lì, immobile, come se non avesse neppure la forza per muovere un passo.
Perché?
Più lo guardavo e meno capivo.
Più lo fissavo e meno comprendevo ciò che dovevo o volevo fare.
Quello che avvertii con sicurezza, invece, fu la presenza di una robusta signora affacciata a un balcone del quarto piano del palazzo che incombeva sopra di lui, e il fatto che quella signora stesse trafficando molto goffamente con dei grossi vasi e della terra. Poi, notai con la coda dell’occhio un vaso pericolosamente sporgente, e la posizione della donna, che lo aveva alle spalle.
La mia mente fu attraversata da una visione rapida, ma al tempo stesso messa in scena nel mio cervello al rallentatore, su ciò che sarebbe potuto accadere di lì a pochi secondi. Come in un flash, vidi quella signora girarsi nuovamente, urtare e far precipitare il vaso, che si sarebbe schiantato esattamente sulla testa di quello stupido tipo che sostava proprio lì sotto, che ovviamente non si era accorto di nulla!
Non saprei dire perché, ma qualcosa di quel flash mi turbò, e mi spinse a fare quel che feci.
Qualcosa mi spinse a salvargli la vita; a non lasciare che affogasse, metaforicamente parlando.
Mentalmente, cercai di giustificare il fatto dicendomi che lo stavo facendo solo per non permettere ad uno stupido vaso di togliermi il gusto di potergliela spaccare io la faccia, tirandogli un bel calcio tra i denti.
Non ero troppo convinta di tale giustificazione, qualcosa mi diceva che per qualche strano motivo non l’avrei fatto, ma almeno avevo un alibi.

– Ma che cazz…?! – urlò, come risvegliato da una sottospecie di coma, cadendo.
Ma non fece in tempo a terminare la frase, che il vaso si schiantò a pochi centimetri dalla sua testa. Avevo visto bene: se non fossi intervenuta io, quell’oggetto avrebbe finito la sua corsa proprio sulla zucca di quel ragazzo, in un incontro ravvicinato non proprio piacevole.
Quando realizzò tutto ciò, spalancò gli occhi e mi fissò stupito.
Rimase così qualche secondo, senza fiatare. Forse perché non sapeva cosa dire, anche se non avrei potuto affermarlo con certezza, in quanto lui e quel suo dannatissimo sguardo continuavano ad avere qualcosa di misterioso ed imperscrutabile.
E questo mi lasciava perplessa. Da un lato mi infastidiva, ma dall’altro mi incuriosiva; potrei forse dire che, in un certo senso, continuava ad attrarmi come una fottuta calamita, facendomi desiderare di capire non so bene cosa, per quanto insensato tutto ciò potesse essere.
Forse era la prima volta che provavo qualcosa del genere, ma anche di questo non potevo essere certa.
Dannazione a me e al casino che in me albergava.
Mi sentivo un’idiota, nella cui mente ci sono non due, ma mille voci che litigano tra loro, dandosele di santa ragione e cercando di sovrastare in ogni modo le avversarie per farsi dar retta, senza arrivare mai a una conclusione, ma formando soltanto una mischia aggrovigliata.
Tutto a un tratto, la sua voce giunse a interrompere quei miei bizzarri dialoghi mentali.
– Beh… G-Grazie. – balbettò.
La sua voce suonò assolutamente diversa da quella scortese e velenosa della sera precedente: in quel momento pareva quasi timida, schiva ed insicura, poco più che un sussurro.
Dopo aver detto quelle poche parole, imitandomi, si alzò da terra, si pulì velocemente i jeans dalla polvere e mi guardò, con ancora una leggera nota di spaesamento negli occhi.
Io, per tutta risposta, mi limitai ad alzare le spalle, con finta non-chalance.
– Non volevo averti sulla coscienza, tutto qui. –
Ci guardammo, o meglio, ci squadrammo, per qualche secondo interminabile, senza dire più nulla.
Ray Shinobu, nice to meet you. – disse poi, rompendo nuovamente il silenzio che era calato tra noi, tendendo una mano nella mia direzione.
La voce con cui aveva parlato era ora più decisa; il tono, tuttavia, non lasciava trasparire alcun’emozione, parendo pressoché indecifrabile.
Lo scrutai; osservai la sua mano tesa, in un misto tra lo stupito e lo schifato, poi fissai ancora il suo volto, puntando il mio sguardo dritto nel suo, in una silenziosa sfida.
Soltanto dopo un po’ allungai la mano verso la sua, ancora tesa, e gliela strinsi, con una presa veloce e vigorosa.
– Amy. – dissi soltanto.
La voce ferma, risoluta.
Nemmeno io volevo far trasparire alcunché.
Anche perché non avrei saputo bene neanch’io che intonazione avrei dovuto dare altrimenti.
Restammo così qualche secondo, scrutandoci senza dire niente.
Fui io a rompere il silenzio, questa volta.
– Beh, – dissi – io devo andare. Ho già perso troppo tempo per salvarti la vita, e non ho intenzione di arrivare ulteriormente in ritardo per colpa tua. Bye.
Parlai con tono duro, distaccato.
Non erano rare le occasioni in cui mi capitava di assumere un tono simile, ma in quel momento qualcosa mi pareva differente: non sapevo dire, infatti, se il motivo per cui l’avessi fatto fosse una forma di attacco… o di difesa.
E, per la prima volta, mi sentivo quasi a disagio a usare quell’intonazione. Il perché, però, non riuscivo ancora a capirlo, in tutta quella confusione che avevo in testa.
Comunque, prima che lui potesse dire una parola, mi voltai e iniziai ad allontanarmi.
– Hey! – la sua voce mi raggiunse pochi istanti dopo – Aspetta! –
Mi fermai di scatto, voltandomi a guardarlo.
– Che c’è? – chiesi, bruscamente.
Il mio tono, freddo, lontano, secco, lo lasciò come attonito per una manciata di secondi.
Continuò a fissarmi, dritto negli occhi.
Lo sguardo fiero, forse leggermente sbigottito dal mio comportamento, che si rispecchiava nel mio.
Ci fissavamo, ci squadravamo, senza però riuscire apparentemente a cogliere alcunché che trasparisse dalle iridi dell’altro: un velo impenetrabile continuava a celare i nostri pensieri.
Continuammo a osservarci per un’altra manciata di secondi. Nessuno dei due sembrava intenzionato a cedere.
Poi, a un tratto, abbassò lo sguardo. Ma fu questione di un attimo, un istante così breve da farmi domandare se l’avesse fatto realmente o l’avessi soltanto immaginato.
– Niente. – rispose infine, con un tono di voce che mi parve sensibilmente più sommesso; sembrava quasi che provenisse dai meandri di qualche pensiero nascosto in profondità nella sua testa.
Mi voltai di nuovo, e ripresi ad allontanarmi, con passo fermo, deciso.
Ma, nonostante quella coltre d’imperturbabilità che mi avvolgeva e mi proteggeva, qualcosa continuava a ronzarmi nella testa.
Mi sentivo ancora il suo sguardo addosso.
Riuscivo quasi a vederli, quei due dannatissimi occhi, quel suo profondo sguardo imperscrutabile che pareva così distante ma così vicino a me. Mi pareva quasi di poter percepire ancora quella sorta di magnetismo che emanavano.
Tirai un calcio ad un sasso davanti a me, con rabbia.
Rabbia per non riuscire bene nemmeno a capire cosa provassi e pensassi esattamente.
Rabbia per non riuscire a cancellare dalla mente quel suo sguardo, così maledettamente irritante, misterioso, che, in un certo senso, forse, anche se non avrei mai voluto ammetterlo, continuava a suo modo ad incuriosirmi, attraendomi come un protone che esercita il suo influsso su un elettrone.
Sì, un protone e un elettrone, ugualmente opposti, similmente diversi, ma facenti entrambi parte di qualcosa di superiore che comprendesse tutti e due, unendoli in sé.
Sospirai, esasperata. Perché diavolo ora andavo perfino a cercare metafore fisiche?
Che cazzo mi stava prendendo?
La pietra finì la sua corsa, fermandosi, dopo qualche balzo dal rumore rotolante, a qualche metro da me.
Le lanciai uno sguardo veloce, per poi cercare nella tasca dei jeans iPod e cuffie, miei cari compagni di vita. Trovato ciò che desideravo, premetti il tasto Play e alzai il volume, sperando invano di riuscire a cancellare dalla mia mente quei due fottutissimi occhi verdi e dai tratti leggermente a mandorla, quasi un ossimoro vivente.
   
 
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