Prologo –
Parte seconda
E’ passato
poco più di un mese e ancora durante la notte rivivo quel pomeriggio. Le grida,
la paura, il sangue. Ero così tanto confusa e impaurita da non capire cos’era
successo. Eppure era così evidente. L’ha uccisa. L’ha picchiata fino a
ucciderla. Ed io, nascosta nell’armadio, continuavo a illudermi che tutto
sarebbe tornato a posto, anche se quella sera mio padre era più ubriaco del
solito.
E’ stata la
donna dagli occhi tristi a portarmi in questo piccolo orfanotrofio. Sulle pareti
rosa di questo stanzone dove mi hanno sistemato ci sono tanti coniglietti dalle
espressioni sorridenti, eppure mi sembrano così tristi. Ci sono più di dieci
bambine chiuse insieme a me in questa stanza, sempre a sperare che arrivi
qualcuno e le porti via.
Ogni giorno
va sempre peggio. Tento di dimenticare, ma ricordo sempre più particolari. Di
giorno e di notte continuo a sentirla. Le sue grida ancora mi uccidono. E’ anche
colpa mia se è morta. Non so perché. Per qualche motivo. Non so farmene una
ragione. So solo che lei non c’è più. Non verrà mai a prendermi e portarmi via
da qui. Mi ha lasciato. Ed io non l’ho neanche salutata. Quante cose vorrei
dirle, e adesso non posso più. Adesso ho davvero paura, perché sono sola. Non
c’è più nessuno che si occupi di me. Che mi abbracci, mi rassicuri. Sono sola. E
distrutta. Non riesco a mangiare. Non dormo più. Solo lacrime, solitudine e
dolore.
Stamattina
la direttrice ci ha svegliato presto, io e altre due bambine della mia età. Ci
hanno lavate e ci hanno fatto indossare vestiti nuovi e puliti. La direttrice
non ha detto nulla, ma sia io e le altre abbiamo intuito il perché. Sta
arrivando una famiglia che vuole adottare una bambina che corrisponde alla
nostra descrizione. Le altre sembrano sorridere: sono fiduciose e non vedono
l’ora di andare via da qui. Io non sento cambiamenti. La stessa malinconia di
ieri sera e di un mese fa. Non so, forse ho perso la speranza o forse non voglio
andar via, ho paura di ritrovarmi ancora sola o di rivivere la paura di quella
sera. Ho paura di finire in un’altra casa piena di odio e violenza. Preferisco
quasi la stanza ricoperta di coniglietti malinconici.
Incontriamo
la coppia poche ore dopo, nell’ufficio pieno di merletti della direttrice.
Quando noi arriviamo, loro sono già lì. Sembrano la classica famiglia felice e
perfetta: lui, altro moro e con ampie spalle rassicuranti, sembra un uomo di
successo, per quanto se ne possa intendere una bambina di 10 anni; lei sembra
quasi un angelo: dai lunghi capelli biondi e occhi chiari, un angelo pieno
d’amore da poter donare a una di noi. Ci sediamo su comode poltrone con disegni
floreali e rispondiamo cortesemente alle domande che la coppia ci porge. Anche
se sono rimasta affascinata dal loro alone di perfezione e sicurezza, al
contrario delle mie compagne non mi sento ancora sicura. Sono ancora diffidente.
Chi mi assicura che sotto quest’alone di dolcezza non si nascondano due persone
violente?!
La
conversazione va avanti per più di mezzora e a parlare sono stati soprattutto
gli adulti. La coppia si scambia uno sguardo con sintonia e annuiscono alla
direttrice. La donna si alza e si dirige verso la porta della sala, per poi
aprirla e far entrare qualcuno. In quest’istante sono incuriosita, ma non avrei
mai potuto immaginare quanto questo fatto, in apparenza insignificante, abbia
influito nella mia vita.
Entra nella
stanza un ragazzo, 15 anni e capelli castani. Si avvicina a noi, tre bambine in
attesa, e dopo aver guardato verso i genitori, si sofferma per qualche secondo
su ciascuna delle mie due compagne. Quando i suoi splendidi occhi azzurri si
fermano nei miei, capisco che la mia vita è cambiata. Per sempre. I suoi occhi
m’infondono così tanta fiducia e dolcezza. Credo di non aver mai provato in vita
mia una sensazione così forte. Un brivido mi corre lungo la schiena e
improvvisamente non ho più paura. Perché lui è qui, vicino a me, e non smette di
guardarmi.
Lui è Faron,
Mio Fratello.