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Autore: Hoi    21/04/2013    1 recensioni
I fatti narrati si svolgono dopo gli eventi del primo film
“Pronto! Aiuto ho investito una persona. Sono in via...” Dove cazzo ero? Mi guardai attorno nel panico. Non c’era neanche un fottutto cartello. Merda! Ma quella era New York. Una New York mezza distrutta e ancora in piena ricostruzione, ma pur sempre New York. Di certo avrebbero rintracciato la chiamata e sarebbero venuti ad aiutarmi.
“il numero da lei selezionato è inesistente”
“Cosa?!?!?!” Piena di sgomento guardai lo schermo. 118. Idiota! Idiota! Idiota!
Genere: Avventura, Comico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Loki, Nuovo personaggio, Tony Stark/Iron Man, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Impiegai quindici minuti a parcheggiare l’auto. Non capirò mia che genere di persona usi la macchina a New York! Insomma ci sono mezzi pubblici e taxi praticamente ovunque, perché qualcuno sano di mente deciderebbe di imbottigliarsi nel traffico infernale della grande mela, avendo tante alternative decisamente migliori? Ok... so che è un po’ ipocrita da parte mia essendo una di quei dementi che contribuiscono al surriscaldamento globale usando l’auto a caso, ma io ho un ottimo motivo! Cioè... forse ottimo è un’esagerazione... Decente ecco. Sono in questa città da un paio di mesi. Mesi che ho passato rigorosamente in un albergo pagato dal mio capo. Un capo che mi stressa a tal punto che rifletto seriamente sul licenziamento un giorno sì e l’altro pure... domenica inclusa... Avere qualcosa che sia di mia esclusiva proprietà, in cui mi potrei rifugiare in caso di flop totale. Nel caso in cui decidessi davvero di andarmene quantomeno potrei dormire in auto in attesa del volo... Ok forse non ha molto senso, visto che New York è piena di alberghi, ma io mi sentivo più tranquilla così. Una cosa che invece mi metteva sempre, esageratamente, in agitazione era quella di parcheggiare la suddetta auto nella torre dei Vendicatori. Ogni volta che la chiudevo, andando verso l’ascensore, per un istante mi voltavo a guardarla. Come per dirle addio. Solo la voce gentile di Jarvis riusciva sempre a distrarmi dalla possibile morte della mia amata auto. Non quel giorno però. Era impossibile che quel giorno mi rilassassi.

“Buongiorno Miss Recidivo, a che piano si ferma?”
Sospirai, consapevole che il mio interlocutore non era altro che una macchina. A prescindere da questo però, sarei stata gentile con l’unico essere (Pepper e il mio amore esclusi), che non tentasse costantemente di incasinarmi la vita.
“Buongiorno Jarvis. Quello distrutto andrà benissimo, grazie”
Per un lungo, interminabile momento il mio interlocutore tacque.
“Al cinquantacinquesimo e al cinquantaseiesimo non è possibile signorina, le precauzioni antincendio sono ancora in funzione”
Già, l’avevo quasi dimenticato. Il sistema antincendio doveva aver disattivato automaticamente il collegamento elettrico ai piani distrutti. Che stress... Non mi andava affatto di fare le scale. Per di più quei bambocci in spandex erano riusciti a demolire non uno, ma ben due piani. Chiusi gli occhi inspirando profondamente. Possibile che non avessero di meglio da fare, che inzigare quel sant’uomo di Bruce? Espirai profondamente, riaprendo gli occhi.
“Al cinquantaquattresimo allora... meglio iniziare da lì”
Arrivammo al piano in un batter d’occhio. Prima di uscire dall’ascensore mi infilai il caschetto giallo da cantiere e cliccai la penna, sfoderando il blocco degli appunti. Quello era uno degli otto piani in cui erano installati i laboratori ad uso esclusivo del dottor Banner, quindi fui immensamente felice di non sentire sirene di allarme o luci rosse lampeggianti. Almeno non c’erano state perdite di radiazioni o roba simile. In effetti quella sarebbe stata una cosa da chiedere PRIMA di entrare e non da constatare sul luogo... Massì! Tanto era tutto perfettamente in ordine. Immenso imbarcamento di uno del solai superiori escluso. Una brutta crepa era apparsa su una delle pareti esterne, ma non era certo un muro portante quello, non avrebbe costituito un gran problema sistemarlo. Mi dilungai molto ad esaminare quel piano, segnando ogni elemento danneggiato. Era importante che avessi un’idea precisa di quanto erano influenti i danni del piano di sopra sulla struttura. Soprattutto perché almeno avrei evitato un collasso mentale vedendo il caos che di certo vi regnava. Quando finalmente mi decisi a salire, non posso negare che quasi svenni. Non era rimasto un solo divisorio in condizioni sufficientemente decenti da non costringerne la sostituzione. La struttura portante pareva non essere stata particolarmente danneggiata, anche se di certo un paio di travi sarebbero state da puntellare. Poi alzai la testa e mi fu subito chiaro perché lì i danni non fossero tanto gravi. Lo scontro doveva essere certamente iniziato al piano superiore. O quantomeno questo era quello che suggeriva l’enorme buco nel soffitto. C’era un termine tecnico preciso per lo stato in cui si trovavano le due travi di metallo dilaniate... una cosa tipo: rottura plastica causata dal superamento del carico di snervamento... in quel momento riuscii solo a pensare: hanno squartato il mio povero piccolo! Una fitta mi trapassò il cuore. Avrei voluto piangere, ma sentivo di dover essere forte in quel momento. Quando misi piede al piano superiore, non potei fare a meno di ringraziare me stessa per aver avuto l’intelligenza di mettere delle scarpe anti-infortunistiche. Nell’immenso open space che un tempo ospitava il fulcro dei laboratori non  vi era altro che devastazione. Il grande tavolo digitalizzato che era stato al centro della stanza si era frantumato e le schegge cristalline del touch screen coprivano ora l’intera superficie calpestabile, andando a mischiarsi coi frammenti di vetro e metallo dell’immensa vetrata ormai inesistente. Una folata di vento mi fece rabbrividire ed istintivamente mi strinsi la sciarpa addosso. Era straordinario, quanto fosse caldo quello straccetto tanto sottile. In mezzo alla sala distrutta, scoppiai a ridere. Quantomeno la “bella avventura” della serata precedente era servita a qualcosa. Ricominciai il mio lavoro o almeno lo avrei fatto se quell’idiota del mio capo non avesse frantumato quel poco che era rimasto della vetrata, irrompendo nella stanza. Guardai a bocca aperta gli ultimi frammenti di vetro andare in pezzi. Lentamente alzai lo sguardo su di lui. Ero furibonda. Indossava una nuova armatura placcata d’oro con piccole pietre azzurre incastonate sull’elmo e nei bracciali. Sembrava decisamente più alto. Vanitoso fino al midollo com’era, non mi sorprese che si fosse messo dei tacchi sull’armatura. Senza dire nulla mi fissava coi suoi occhi color ghiaccio. La cosa mi irritò terribilmente.
“Con tutto il rispetto, non le pare che questo grattacielo abbia sofferto abbastanza? Vada a provale i suoi giocattoli da un’altra parte!”
Senza dire una parola il signor Stark tese una mano aperta verso di me. Nelle tre dita dell’arto comparve una flebile luce azzurra, che sul momento non mi parve molto minacciosa, ma contribuì lo stesso ad aumentare la mia ira. Con un gesto seccato gli feci cenno con la mano di smetterla. Lo sentii ghignare mentre la luce nella sua mano diventava accecante. Solo allora realizzai.
“Tu non sei Stark”
Un’armatura con tre dita, più alta del solito e quegli inquietanti occhi azzurri potevano anche essere nella norma, ma mai avevo sentito il signor Stark tacere per più di quindici secondi. Senza esitare un istante lasciai cadere la borsa, il blocco e mi lanciai verso le scale. Per un lungo momento mi lasciai lo sconosciuto alle spalle, arrivando indenne alla rampa. Lui fu più veloce. Con un’esplosione vidi i gradini che portavano al piano di sotto andare in mille pezzi. La rampa fu invasa da detriti e polvere. Fantastico! Ci mancavano solo le scale nella lista delle cose da aggiustare. La polvere aveva invaso le rampe rendendo difficile vedere in che condizioni fossero. Non ebbi dubbi sulla strada da prendere. Con un salto mi lanciai verso la scala inferiore. Che fosse a pezzi oppure no, polvere o non polvere, non sarei corsa sul tetto per trovarmi senza vie di fuga. Avevo preso per il culo troppo spesso i personaggi dei film per ridurmi come loro. Atterrai rovinosamente appena prima del pianerottolo, rotolando giù per qualche gradino. Se non mi storsi una caviglia o spaccai la testa fu solo grazie all’equipaggiamento antinfortunistico. Sempre sia lodato. Reduce di quella piccola “vittoria” mi rimisi in piedi e ricominciai a correre giù per le scale. Con tutto il fiato che avevo gridai a Jarvis di dare l’allarme, senza ottenere risposta. A denti stretti, maledissi il signor Stark per aver ideato quel dannato impianto antincendio. Conscia dell’inutilità della cosa, continuai a gridare arrivando al piano di sotto. Mi mancava poco, poi mi avrebbe sentita, mi sarei salvata. Il cozzare del metallo alle mie spalle mi fece voltare. Come diavolo aveva fatto a raggiungermi così rapidamente? Prima che potessi tornare a correre mia afferrò un polso. Lo strattonai, per liberarmi. Inutile. Ero come chiusa in una pressa idraulica ed istante dopo istante mi stritolava più duramente, come se volesse staccarmelo. Tentai di rompere quella presa di nuovo, con più forza. Con uno scricchiolio il dolore esplose nel mio braccio. Il suono successivo fu un grido e a stento in quel suono inarticolato riconobbi la mia voce. Raccolsi le forze, e lo presi a calci, ignorando l’armatura. Non riuscii nemmeno a scalfirlo. Ritentai, alzando la mira. Non avrebbe avuto figli quel maledetto. Inutile. Per quanto mi agitassi quella bestia non sentiva nemmeno i miei colpi. La mano aveva iniziato a pulsarmi dal dolore. Mentre ancora mi dibattevo mi sollevò di peso, ridacchiando. Lacrime di frustrazione iniziarono a bruciarmi gli occhi. Cercai di rimandarle giù, ma era tardi ormai, una era riuscita a sfuggire al mio controllo, rigandomi il viso. Prima che potesse cadere, la bestia mi afferrò il volto con la sua mano deforme. Il dolore mi strappò un grido. Lentamente, stava facendo affondare le placche metalliche del guanto nelle mie guance. Altre lacrime mi caddero, andando a bagnargli la mano. Per un momento ne parve confuso e mi liberò la faccia, per guardare il liquido rosso che la macchiava. Rosso. Sangue. Mi aveva sfregiata. La disperazione mi trapassò l’anima, ma fu lui a gridare. Non c’era una nota d’umanità nell’urlo d’ira che mi rivolse. In un moto d’odio dimenticai il dolore e alzai gli occhi nei suoi. Li vedevo a stento in fondo alle feritoie che spezzavano la monotonia dell’elmo d’oro. Non c’era nulla di umano in quelle profonde pozze di ghiaccio ricolme di disgusto. Il mio sangue lo repelleva. Non potei sopportare oltre quella vista. Il desiderio di liberarmi mi aveva ormai abbandonata. Affondai le dita nei suoi occhi, con l’unico scopo di fargli male. E gliene fece. Un nuovo urlo trapassò l’elmo, riempiendo la stanza. Questa volta fu un suono diverso, acuto, spezzato, meraviglioso. Mi lanciò via, strappandomi la presa dalla sua carne gelida. Fu il pavimento a distruggere quel momento di gloria. Fitte di dolore mi pervasero il corpo, ma il peggio era il polso sinistro. Ancora riversa a terra lo guardai, la mano era livida, a stento muovevo le dita. Tremante mi rimisi in piedi. La belva stava ancora gridando. Ceca si agitava, afferrando l’aria alla mia ricerca. Dall’elmo colavano copiosi rigagnoli neri che inquinavano l’oro della sua armatura. Si era spostato quel maledetto, ora la mia unica speranza, si trovava dietro le sue spalle. Mi alzai cercando di soffocare i singhiozzi. Con le spalle appoggiate al muro striscia verso le scale, tentando di evitare le macerie per non far rumore. La belva smise improvvisamente di gridare. Nel silenzio il mio respiro divenne assordante. Lentamente l’elmo ruotò verso di me, mostrandomi la carne dilaniata. Per un momento infinito rimase immobile a fissarmi senza vista. Un rantolo simile ad una risata si alzò piano da dietro la maschera. Allungò un braccio verso di me. Per quanto fosse distante, potei sentire la forza della sua stretta attanagliarmi il polso e dilaniarmi il viso. L’unica cosa a cui pensai fu che dovevo liberarmi. Afferrai uno dei gradini della rampa crollata e senza pensare glielo scagliai addosso. Il granito crepato lo colpì sull’elmo, spaccandosi. Indietreggiando, la belva lanciò un nuovo grido, afferrandosi l’elmo, mentre gettava la testa indietro. Il passo sicuro affondò nel vuoto, perdendo l’equilibrio. Le sue braccia annasparono nell’aria alla ricerca di un appiglio, che non trovò. Assurdamente la belva cadde, rotolando malamente per la rampa. Il corpo possente andò a sbattere contro al muro ma non cessò la caduta, continuò a precipitare per un tempo infinito, che però terminò. Il suo corpo rimase riverso sul ventre col collo in una posizione del tutto innaturale, mentre una pozza nera si allargava sotto la sua testa. Non ce la feci. Non riuscii a restare oltre, né a superare quel corpo. Gli diedi le spalle e tornai su, trovandomi davanti alla rampa che la belva aveva fatto esplodere. Cinque o sei gradini mancavano all’appello. Troppi perché riuscissi a saltarli, come avessi fatto per la discesa l’avevo dimenticato. Fortunatamente però una buona porzione attaccata al muro era rimasta integra. Con le spalle contro la parete striscia su per la scala. Il mozzicone del gradino scricchiolò immediatamente sotto al mio peso. Con un profondo respiro ricordai a me stessa in che modo stessero su e mi mentii, dicendomi che non potevano cadere. Superai il varco arrivando al piano superiore dalla mia borsa. Presi il cellulare ripromettendomi di non abbandonarlo mai più anche se a fatica riuscivo a tenerlo tra le mani. L’unica che riuscivo ad usare mi tremava ed il liquido nero che la impregnava rendeva viscidi i tasti. ci volle un po’ perché riuscissi a trovare il numero in rubrica.
“Risponde la segreteria telefo...”
“Vieni alla torre dei vendicatori immediatamente.”
Senza dire nient’altro riattaccai. Non avevo dubbi che fosse lui, rispondeva sempre così quell’idiota... ma se non fosse stato? Sentii un suono sottile provenire da giù. Non volevo restare sola ancora. La mia voce non aveva tremato, ero stata forte e pregai che restasse così mentre componevo il numero successivo. Sarebbe stato il primo che avrei dovuto chiamare, ma in effetti l’unico che potesse darmi sicurezza in quel momento era Stark.
“911, qual è l’emergenza?”
Già, come facevo a spiegargli quello che era successo?
“Sono alla torre dei vendicatori... e-ecco... c’era...”
No, non ero forte affatto. Scoppia in lacrime di nuovo. Dall’altra parte della cornetta la voce gentile della signorina mi chiese di calmarmi, coprendomi di domande. Risposi, risposi a tutte, anche se persino io credevo a stento alle mie parole. Quando quella chiamata interminabile fu finita infilai il cellulare in tasca ed iniziai a ravanare in borsa alla ricerca di un pacchetto di fazzoletti. Non volevo che Stark mi vedesse piangere. C’era troppa confusione in quella borsa, era impossibile trovarli. Iniziai a svuotarla, lentamente. C’era davvero di tutto lì dentro, persino una sveglia. Nella confusione del mio risveglio dovevo averla infilata lì per sbaglio. La lascia a terra e tornai a cercare. Finalmente lo trovai. Strinsi i denti per sopportare il dolore, mentre usavo la mano ferita per pulirmi dal sangue di quella bestia. Mi sentii meglio quando me ne fui liberata. Solo allora mi pulii la faccia dalle lacrime e dal mio stesso sangue, per poi soffiarmi rumorosamente il naso.
“Ti sono mancato così tanto?”
Gettai il fazzoletto a terra ed estrassi un altro fazzoletto. Non alzai il volto per vederlo. Sapevo che era lui, che era entrato con la sua armatura volante attraverso la vetrata e non mi andava di dargli corda, anche se era bello sentire la sua voce. Quel suono fastidioso che apparteneva solo a lui. Per la prima volta ero felice che ci fosse Stark, non avrei potuto restare sola ancora. Sentii il suo passo pesante girare a zonozo per la sala. Come sempre, mi aveva dedicato poco meno di due secondi della sua attenzione, prima di passare a fissarla su qualche oggetto inanimato.
“Uhm... La ricordavo messa peggio. Puoi farcela per domani. Bella sveglia! Capisco l’attaccamento al lavoro, ma dormire addirittura qui...”
Non ebbi bisogno di alzare lo sguardo per sapere che mi stava guardando, scuotendo la testa come per rimproverarmi. Strak che rimproverava ME. LUI che mi aveva trascinato in quel casino. Come osava. Afferrai la sveglia un po’ imbarazzata, per rimetterla in borsa. Dormire lì... Non ci sarei riuscita neanche se l’avessi voluto. Non più ora che mi ero resa conto di quanto, persino quel posto, non fosse sicuro. Con ancora la sveglia tra le mani sospirai. Volente o no, probabilmente avrei dovuto davvero passare la notte lì nel vano tentativo di rendere la torre agibile per l’indomani. Domani? Alzai la testa di scatto e in un raptus d’ira scagliai contro Stark la sveglia, mancandolo di un metro e mezzo abbondante.
“Domani? Come diavolo credi che possa fare a rendere agibile sto casino per domani!? Forse ti è sfuggito il microscopico dettaglio dell’enorme voragine nel solaio. Lo vedi? ....Che c’è?”
Era strano il modo in cui il mio capo mi stava guardando attraverso l’elmo aperto. Ok, gli avevo appena gridato in faccia, era ovvio che fosse incazzato... ma quella non sembrava un’espressione arrabbiata, più che altro era seria. Quasi non riuscivo a credere hai miei occhi. Stark serio. Assurdo, semplicemente assurdo. Doveva essere successo qualcosa di gravissimo per farlo diventare così.
“Jarvis, chiama un’ambulanza.”
Il tono duro nella sua voce mi fece tremare. Ero davvero così grave? Mi guardai il polso che la bestia mi aveva afferrato. Non aveva smesso per un istante di farmi male e si stava lentamente gonfiando. Per un braccio rotto però, non era mai morto nessuno. Alzai lo sguardo verso il mio capo, pronta a rassicurarlo prima di procedere a raccontargli tutto l’accaduto. Si era avvicinato, ormai era ad un passo da me. Reduce dallo scontro con Hulk lo smalto dell’armatura era saltato in alcune parti e graffiato in molte altre. Nonostante questo però, era ancora lucido come uno specchio, tanto che il mio viso riusciva a riflettersi nella sua piastra pettorale. No, non poteva. Non potevo essere io. Mi portai una mano tremante al volto, ed un’esplosione di dolore infiammò il mio fiso quando sfiorai uno dei solchi rossi che mi sfregiavano. Aprii la bocca, ma prima che potessi parlare il mondo si tinse di nero e persi coscienza.

  
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