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Autore: AlBer    13/05/2013    1 recensioni
Cosa succede se la direttrice di un carcere dà inizio ad un gioco molto pericoloso? Cosa accade se le pedine del suo gioco sono criminali e nobildonne senza pudore? Che dire poi se nelle regole di questo gioco finiscono per impigliarsi anche uomini e donne innocenti?
Genere: Sentimentale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Due mesi dopo

 
Cosa avrebbe fatto tra meno di una settimana Edoardo Whitman? Come avrebbe impiegato tutto quel tempo precipitatogli addosso come una nevicata in piena estate? A quale occupazioni si sarebbe dedicato nella sua prima giornata libera dopo quarant’anni di servizio?  E il giorno successivo? E quello ancora dopo?
Non riusciva ancora a capacitarsi che sarebbe toccato proprio a lui. Andare in pensione.
Aver sessantaquattro anni non vuol dire per forza di cose sentirseli proprio tutti. Edoardo però li sentiva, e ne portava clandestini sulle spalle almeno una decina in più.
Era colpa dell’ansia. Se la trascinava dietro sin da quando era bambino e aggiungeva un’eccedenza di vecchiaia alla catasta degli anni già accumulati.
E’ sempre così con l’ansia: a forza di arrivare in anticipo a tutti gli appuntamenti della vita, quei minuti, invece di vederseli meritatamente scalati, si sommano e diventano a tutti gli effetti come tempo trascorso in più.
Gli anni di lavoro, almeno quelli, erano giusti, ma non ci sarebbe andato lo stesso in pensione se non fosse stato per lei. Per sua figlia Penny.
L’uomo trascinava il suo corpo minuscolo per corridoi infiniti. Chiuso in un consunto trench scuro, dello stesso colore con cui si tingeva capelli e baffi, scendeva la rampa delle scale del padiglione “D” ricordando con malinconia il suo primo giorno di lavoro.
Il primo giorno nella biblioteca del carcere Chateau Colmòn era una fotografia nitida, per niente sbiadita dal tempo. Aveva ventiquattro anni, proprio come la sua Penny, il vestito della domenica e la prospettiva non molto invitante di passare gran parte della propria vita in una gabbia per criminali.
A quella gabbia ci mise davvero poco ad affezionarsi. Perché ci si affezionò, eccome se lo fece!
Sin dai primi giorni aveva capito che non sarebbe più andato via da lì, come quei pericolosi assassini che là dentro ci scontano l’ergastolo.
La meravigliosa scoperta, però, fu quella di sorprendersi nel constatare quanto era stimolante discutere di libri con i delinquenti.
Si scoprì a riflettere sul fatto che molti di questi non li avrebbe mai immaginati tali se li avesse incontrati in un bar della città.
Non avrebbe mai sospettato che, per un amante delle letteratura come lui, quello era il posto ideale. Il luogo dove poter vivere appieno quella che riteneva essere la sua missione: aiutare il mondo a essere migliore grazie alle parole scritte in un libro.
C’era un altro punto che lo lasciò sbalordito, ed era quello che ben presto ritenne molte delle persone chiuse lì dentro di gran lunga migliori della maggior parte di quelle si possono incontrare nella società definita normale.
Edoardo Whitman era ormai convinto che i criminali fossero quelli fuori. Quelli rinchiusi nello Chateau Colmòn, invece, erano dei rifugiati sociali, vittime di una società ipocrita e meschina e quella sì, che gli creava gravi sensazioni di disagio.
E pensare che, quando aveva iniziato quel lavoro, sperava proprio che si trattasse di un’esperienza temporanea. Aveva altre ambizioni il giovane Edoardo: professore di letteratura, scrittore, responsabile della Biblioteca Nazionale…
Non fu così. Dopo appena una settimana era già assorto nell’opera immane di riorganizzare l’intero archivio dei libri del carcere. Dopo qualche mese passava i fine settimana a cercarne di nuovi nelle vecchie soffitte dei quartieri di tutta la città.
Ora che attraversava la silenziosa sala mensa immersa in una rassicurante semioscurità, iniziò a realizzare seriamente che avrebbe dovuto rinunciare a quel posto. Andarci ogni mattina per aprire la sua biblioteca, per poi chiuderla regolarmente alle ore 17 in punto, proprio come aveva fatto pochi istanti prima, quando decise che era giunto il momento di avviarsi verso lo studio del responsabile dell’ufficio amministrazione.
L'incedere strascinante era peggiorato dall’azione della nostalgia che a ogni passo si faceva più forte, costringendolo coi suoi subdoli tentacoli.
Nonostante quella stretta agrodolce continuava imperterrito a inanellare un passo dopo l’altro nella lunga e ampia galleria di passaggio che costeggiava il cortile interno del carcere.
La luce di un tardo pomeriggio di inizio estate filtrava dalle grandi vetrate e illuminava con un tenue chiarore i dipinti e le sculture che scorrevano dietro al profilo del vecchio bibliotecario.
I corridoi da percorrere per raggiungere lo studio del direttore erano molti e conoscendo il valore che il dottor Milàn Fodor dava alla capacità di essere puntuali, Edoardo Whitman fece qualcosa che nei suoi quarant’anni di servizio si verificò rarissime volte.
Quel giorno chiuse la biblioteca con cinque minuti di anticipo.
La certezza di trovarsi alle 17:10 di fronte alla scrivania del dottor Fodor, presupponeva una chiusura anticipata di cinque minuti.
Un evento simile accadde per la prima volta circa ventiquattro anni prima, quando per la nascita della sua unica figlia, Penelope, avvenuta alle ore 12:48, l’uomo chiuse la biblioteca alle 14:39 impossibilitato a prolungare oltremodo quell’ansiosa attesa che lo divorava. In quelle quasi due ore, consumò le suole delle scarpe con l’incessante andirivieni dei suoi passi che serpeggiavano lungo i corridoi disegnati dalle librerie.
In quell’occasione Edoardo Whitman lasciò un cartello sulla porta della biblioteca. Riportava il seguente messaggio:
Amici, sono desolato di non poter rimanere aperto fino all’orario stabilito, ma la mia Penelope è arrivata e non riesco ad aspettar oltre. Perdonatemi. Domani alle 8 come sempre sarò aperto.
E così fu.
Accadde ancora, per l’esattezza otto anni prima, che Edoardo si ammalò di una brutta influenza. Più brutta delle solite, perché questa riuscì nell’intento in cui avevano fallito tutte le altre: quello di costringerlo a letto. Quella volta la biblioteca non aprì proprio, ma fu per un solo giorno, perché la mattina successiva, Edoardo, alle 8 puntuale come sempre, girò la chiave nel grande portone che dava accesso alla biblioteca.
Quando un sabato morì Gretha, sua moglie, Penelope aveva appena undici anni. I funerali furono celebrati il giorno dopo: domenica, e Il lunedì alle 8 la biblioteca aprì.
Per un uomo solo crescere una bambina di undici anni non fu affatto facile, soprattutto per una persona tanto ligia al dovere professionale. Per fortuna ci pensarono le vicine ad aiutarlo. Bastarono quei due anni che Penelope si fece sufficientemente matura. Infatti un giorno, aveva tredici anni e all’improvviso, iniziò lei a accudire il padre.
Mentre percorreva la passatoia che lo immetteva nel padiglione “C” gli venne in mente il giorno che gli fu chiesto di scegliere un nome per la biblioteca. Un onore fin troppo grande per uno che in fondo lavorava lì da soli dieci anni nel carcere. Fece un elenco di più di cento possibili nomi e ci mise un mese per decidere. Un mese in cui il sonno fu divorato dall’insopportabile angoscia di dover scartare tutti gli altri nomi. Era devastante il pensiero di escluderli da una sua inevitabile scelta definitiva.
Alla fine la biblioteca fu intitolata ad Alexandre Dumas. Inutile dire che i dirigenti del carcere ebbero a che ridire su quel nome, per alcuni non proprio adeguato per via del fuggiasco Conte di Montecristo, ma tant’è: la biblioteca si chiama ancora così.
Nel frattempo Edoardo arrivò alla porta del dottor Fodor. Una porta di legno lucido lavorata con disegni geometrici in rilievo. Erano le 17:09 e la sua mano alzata aspettava sospesa il trascorrere di quel minuto prima di poter bussare.
E il pensiero volò ancora lì... Non ci sarebbe voluto andare in pensione, perché quella era casa sua. Si faceva una violenza inaudita e si imponeva una decisione che mai avrebbe voluto prendere.
Gli piaceva quel posto, ci aveva passato la vita in quel carcere e non lo avrebbe mai voluto abbandonare. Forse si era addirittura immaginato di morirci tra i libri della sua biblioteca. Gli sarebbe bastato morire su una panchina del cortile interno, magari mentre leggeva un romanzo storico, durante la pausa di mezza giornata, volesse il cielo in una piacevole giornata di inizio estate.
Ma ancora un mese e quelle mura le avrebbe potute rivedere solo in saltuarie visite.
Cosa avrebbe fatto Edoardo Whitman del resto della sua vita?
Ore 17:10. La mano di Edoardo colpì per tre volte la porta, proprio sotto la targhetta che avvertiva di chi sarebbe stata la voce che avrebbe risposto, la stessa targhetta che recitava:
RESPONSABILE UFFICIO AMMINISTRAZIONE.
 

***

«Avanti» disse il dottor Milàn Fodor, mentre il vecchio bibliotecario bisbigliava flebili convenevoli con un fil di voce.
«Avanti, signor Edorardo! Venga, venga. Si accomodi pure… Mi dia ancora qualche secondo e poi sarò da lei»
Edoardo si fece ancor più piccolo, più esile, più curvo di quel che già era. Si avvicinò alla magnifica scrivania del direttore sedendosi sulla sedia più scialba tra le tre presenti. Si rattrappì in quella posizione: con le braccia arricciate e poggiate sull’addome. Nel silenzio più fragoroso, riuscì a rilassare un pochino i muscoli tesi solo alla vista dei libri che facevano bella mostra dietro alle spalle del direttore.
Non riusciva a leggerne i titoli e non avrebbe mai inforcato gli occhiali proprio in quel momento. Ma a lui bastava la loro presenza. Non contavano i contenuti. l’importante era confidare sulla presenza dei suoi alleati di sempre.
Il direttore era apparentemente assorto in questioni di estrema importanza sul suo personal computer.
Poi, con ogni probabilità, chiuse la chat e si decise a posare gli occhi su Edoardo.
«Eccolo qui il nostro monumento vivente. Eccola qui la storia di questo carcere…» Un sorriso smagliante accompagnò quelle parole adulanti.
«Allora, finalmente ci siamo decisi. Ci andiamo a godere un meritato riposo.»
«Sembrerebbe proprio di sì, dottor Fodor»
«Bravo, bravo, bravo signor Whitman, se lo lasci dire. Bravo!»
«Grazie, dottore»
Mentre tirava fuori montagne di fogli che disponeva davanti al vecchio bibliotecario, Milan Fodor infieriva sull’ometto rannicchiato che gli stava di fronte.«E cosa farà, cosa farà? Ancora non ha nemmeno un nipotino… cosa farà? Si è trovato un hobby? »
«Non ci ho ancora pensato…»
«Eh ma è importante, ci pensi. Il cervello deve restare attivo, soprattutto alla sua età… ci pensi… ci pensi…»
Edoardo ci pensò. Gli vennero in mente quelle parole: “soprattutto alla sua età”. Ma che significa? Anche il dottor Fodor aveva passato i sessant’anni. Forse voleva dire alla nostra età!?
Ma il pensiero era stato già sommerso dalle parole del dottor Fodor.
«E mi raccomando, ci venga a trovare» poi iniziò a indicare sui fogli dove doveva firmare «Ecco firmi qui e poi qui e poi ancora qui…»
«A trovarvi? Senz’altro. Verrò senz’altro»
«Poi firmi qui, poi qui e ancora qui»
«Si»
Terminate le ultime pratiche burocratiche il dottor Fodor chiuse il fascicolo Whitman. Poggiò le braccia conserte sulla cartella e fissò dritto negli occhi il vecchio bibliotecario.
«Signor Whitman…»
«Si dottore.»
«Questa la dia a sua figlia Penelope.» gli porse una busta da lettera chiusa con il timbro del carcere Chateau Colmòn.
«Signor Whitman…»
«Si dottore.»
«E’ stato un vero onore averla con noi. Le faccio i miei migliori auguri per tutto quanto verrà…»
Calò il silenzio. Edoardo non si mosse. Il dottor Fodor continuava a fissarlo fin quando lentamente il bibliotecario si alzò.
«Dottor Fodor?»
«Dica pure signor Whitman»
«Mi scusi. Sono un po’ confuso. Quale sarà il mio ultimo giorno lavorativo di preciso…»
«Venerdì. Ancora quattro giorni e potrà godersi il meritato riposo…. Beato lei! »
Beato lei pensò Edoardo Whitman.
  
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