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Autore: Yvaine0    21/05/2013    6 recensioni
Ero in treno da un'ora verso il nulla più totale.
Perchè? Probabilmente tutto era iniziato quando mio fratello aveva iniziato a parlare. Fin da subito aveva capito la sua vocazione: sparare stronz-...sciocchezze. E così, litigio dopo litigio, nostra madre era impazzita e aveva deciso di spedirci tutti e due a vivere da qualche parte lontani da loro.

Pan Fletcher, diciottenne, ragazza di città, si ritrova catapultata in un mondo a lei estraneo, caratterizzato da laboriosità, aria pura, e sentimenti sinceri. Armata di mp3, di un bizzarro interesse per le mucche e di un rassicurante manuale di sopravvivenza create da lei stessa, affronta questa avventura che la vita le regala senza ben sapere cosa pensare di tutto ciò che le sta per accadere.
"Che diavolo ci fai qui?"
"Che diavolo ci fai TU qui! Questa è casa di mio nonno!"
"Io qui ci vivo!"
Fissai il ragazzo in cagnesco per qualche istante. "Bè, anche io!"
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cows and jeans'
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Dedico questo capitolo alla cugina quattordicenne di Anna, che si è giustamente resa conto di quanto
io sia fissata con quei cinque pulcini che tanta gente osa definire idoli,
fuori di ogni merito (a mio parere).
Lo dedico a lei e a tutti coloro che aspettano gli aggiornamenti e aprendo la mia pagina autore trovano un sacco di sciocchezze sugli One Direction, che ogni volta sono sempre di più.
Questo capitolo è dedicato a voi, che mi sopportate, aspettate e tornate ogni volta,
come ringraziamento e pegno. :)
 
 
 
Cows and jeans

42
 
 
Secondo me dovresti darle una possibilità”.
Se ti dico che va bene, chiudi il becco?”
Andata!”
Oh che bello”.
 
Ho mai parlato di quanto io odi i cambiamenti?
I cambiamenti sono per le persone intelligenti, con la mente così aperta e le vedute così ampie che riescono a intuire che qualcosa sta mutando fin dai primi accenni di novità. Io sono sempre stata il genere di persona che si accorge del primo indizio quando il delitto è già stato compiuto, le indagini svolte e il colpevole incarcerato. Non sono mai stata un tipo da gialli – vogliamo davvero parlare di cluedo? - né da cambiamenti.
Avevo bisogno di sicurezze, di una routine che mi dicesse cosa dovevo fare, ero troppo insicura per potermi inventare scappatoie e soluzioni, avevo bisogno di punti fissi nella mia vita.
E comunque, quando qualcosa cambiava, io rimanevo sempre ed inevitabilmente indietro. Un po' perché ero troppo ottusa per notare le novità e un po' perché mi rifiutavo di crederci finché non era troppo tardi. Questo era uno di quei casi.
I cambiamenti a cui mi ostinavo non far caso si palesarono il pomeriggio del sette gennaio. Ma prima è necessario parlarvi di ciò che successe il tre dello stesso mese.
La neve ormai era in gran parte sciolta e non costituiva più un problema per i trasporti, come testimoniava la costante presenza di Kameron alla fattoria. Sembrava proprio intenzionato a passare meno tempo possibile con suo padre – e a giudicare dai loro ultimi litigi potevo capirlo – e per questo trascorreva interamente la sua giornata alla fattoria Fletcher. Ecco perché ogni mattina lavorava fuori con Dean, a mezzogiorno pranzava con noi e poi al pomeriggio ci prendevamo un po' di tempo per studiare assieme. Fino alle sei di sera a Kameron Towell non passava nemmeno per la testa l'idea di andare a casa, cosa che al nonno sembrava dare fastidio. Il suo disappunto, però, veniva facilmente attenuato dal fatto che lavorasse tanto e aiutasse Dean nei lavori pesanti – a cui altrimenti avrebbe dovuto pensare lui, visto che la mia forza fisica era pari a quella di un canarino.
Nonostante tutto, avere Kameron per casa non esattamente il tipo di cambiamento a cui era difficile abituarsi: al contrario, mi faceva piacere avere qualcuno di amico con cui scambiare qualche chiacchiera. Soprattutto, fu un bene che Kameron fosse in casa quando successe quel che successe.
Era, dicevamo, la tarda mattinata del tre gennaio. Ero in casa per i lavoretti domestici, la pentola dell'acqua era già sul fuoco ed entro un paio di minuti mi sarei dovuta ricordare di buttar giù la pasta. Kameron e Dean erano in cortile che cercavano di riparare la porta del capanno degli attrezzi, sfondata da una retromarcia troppo rapida e imprudente del giovane Towell (con somma gioia del nonno).
Stavo apparecchiando, mentre il nonno era al piano di sotto a cambiarsi dopo un brutto scivolone nella neve. Mi piaceva ascoltare i suoi passi attraverso il pavimento, quando lavoravo, era qualcosa inconsciamente mi fermavo a fare ogni volta che mi trovavo in cucina. Era piacevole sapere di star facendo qualcosa di buono – ecco, magari non in senso culinario del termine – per qualcuno, un qualcuno che nel frattempo stava facendo dell'utile per tutti. In più si trattava di mio nonno, a cui avevo imparato a voler molto bene negli ultimi mesi.
Sorrisi quando sentii i suoi passi uscire dalla camera da letto e dirigersi verso le scale. Il mio sorriso tuttavia scomparve quando quel rumore cadenzato si interruppe e fu sostituito da una serie di tonfi soffocati e dalle imprecazioni sommesse del nonno. Rimase immobile qualche istante – troppo, maledizione, dove diavolo ero io quando Dio distribuiva i riflessi pronti? - poi lasciai cadere la tovaglia per terra e corsi in corridoio.
Nonno!” gridai, sconvolta, accorrendo: era caduto dalle scale. Giaceva seduto su uno degli ultimi scalini con un'espressione dolorante in volto e una mano serrata attorno alla ringhiera, nel tentativo di rialzarsi in piedi. “Nonno, che è successo?” Domanda stupida, ma capitemi, ero sotto shock. Era caduto dalle scale. Che cosa bisognava fare in queste situazioni? E se si fosse fatto male sul serio? Oddio.
Sta' zitta, non urlare” brontolò lui, gli occhi serrati nello sforzo di rimettersi in piedi. “Aiutami ad alzarmi, piuttosto” mi ordinò, quando si accorse che da solo non poteva riuscirci.
Dopotutto, forse, non era così in forma come voleva farmi credere con il suo solito atteggiamento da uomo forte e inscalfibile.
Istintivamente mi avvicinai per aiutarlo, poi però scossi energicamente il capo e alzai le mani come per fargli segno di aspettare, intuendo che non era il casa. “No, no, stai fermo. Ora chiamo i ragazzi, ora chiamo qualcuno” farfugliai, mentre già correvo alla porta.
Non dire sciocchezze, non ho bisogno di essere preso in braccio...” lo sentii a malapena brontolare, ma lo ignorai. Quasi scivolai sullo strato di ghiaccio che comunque si era formato sui gradini, ma con un saltello poco aggraziato riuscii a ristabilire l'equilibrio. “DEAN!” gridai, allarmata, fermandomi dopo qualche passo in direzione del capanno. “Dean, il nonno è caduto, corri!”
Cosa?” domandò voltandosi con un'espressione indecifrabile in volto.
Mi voltai a dare un'occhiata verso la casa, come a controllare che Abe fosse ancora lì. “È caduto dalle scale, non riesce ad alzarsi!” spiegai brevemente, la voce che suonava ancora più isterica del solito per via della preoccupazione.
Un attimo dopo Dean aveva lasciato cadere le viti e il martello al suolo e stava correndo dentro casa, imprecando tra i denti. Lo seguii senza stare ad aspettare Kameron, il quale comunque fece la sua comparsa nell'atrio dopo qualche istante.
Ti avevo detto che avrei fatto da solo!” protestò rabbiosamente il nonno quando mi vide rientrare.
Dean sbuffò e si chinò su di lui perché gli passasse un braccio attorno alle spalle. “Sta' zitto, vecchio” lo invitò, mentre lo aiutava ad alzarsi. “Mettici un po' di forza, però” lo rimproverò, quando si accorse che da solo non ci riusciva.
Ci sto provando, pezzo d'asino” replicò Abraham. Poi cercò di muovere una gamba ma gemette, il volto contratto dal dolore.
Cazzo” sibilò Dean, notando quel gesto. “Kameron, aiutami” ordinò, e un attimo dopo il ragazzo aveva l'altro braccio del nonno attorno al collo. Insieme lo tirarono in piedi, ma era evidente che nonno Abe non potesse reggersi da solo. “Pan, vai a prendere la macchina”.
Macchina?”
Sì, macchina, macchina!” sbottò Dean sbrigativo, accennando alla porta di uscita. “Dobbiamo portarlo in ospedale, potrebbe essersi rotto qualcosa”.
Macchina. Macchina?! Secondo lui avrei dovuto guidare in quella situazione? Scossi leggermente il capo, gli occhi sgranati dalla paura e la tensione. “Non posso guidare” sussurrai.
Non mi dovete portare da nessuna parte, sto benissimo. Fatemi sedere sul divano e datemi del ghiaccio, tra mezz'ora sarò di nuovo in piedi” ringhiò il nonno, cercando di sopportare stoicamente il dolore che continuava a distorcergli la voce e il volto.
Spostai lo sguardo da lui a Dean, quando questo riprese a parlare: “Sì che puoi. Prendi la macchina, dobbiamo portarlo in città”.
Non so se ci riesco, io...”
Dean mi puntò addosso lo sguardo più serio e risoluto che avessi mai visto in volto a qualcuno. “Pan” disse solo, in un tono che non ammetteva repliche.
Istintivamente cercai l'appoggio di Kameron, che boccheggiò un secondo in cerca di una soluzione e poi “Se volete posso guidare io, ho il pick-up” propose.
Dean scosse il capo. “No, non ci stiamo tutti sul pick-up: è troppo freddo per il cassone. E la macchina di Abe è a secco”.
Cosa?” sbottò il vecchio, severo, fulminandolo con un'occhiataccia. Il ragazzo biondo abbozzò un sorriso irriverente: “Non sei nelle condizioni di sgridarmi” gli ricordò. “Non avevo i soldi per la benzina l'ultima volta che sono andato in paese. Andiamo, Kam. Un passo alla volta, piano” spiegò brevemente. “Dai, muoviti Pan!” mi ripeté. E io obbedii: afferrai le chiavi della macchina appese al chiodo nell'entrata, con le mani che tremavano, e corsi fuori in ciabatte.
Mi ci vollero quattro tentativi prima di riuscire a mettere in moto la mia macchina. Ficcai un CD nell'apposita fessura e feci partire la musica, sperando che mi calmasse un poco, poi feci manovra, misi in folle, tirai il freno a mano e corsi ad aprire lo sportello posteriore per permettere ai ragazzi di mettere il nonno – che ancora si ostinava a ripetere di lasciarlo sul divano – sui sedili.
Cos'è 'sta roba?” domandò Kameron, quando sentì la musica. Sì, be', la compilation delle sigle dei pokemon non era esattamente la musica migliore che si potesse trovare, ma al momento non avevo di meglio in macchina. Arrossii, senza sapere cosa rispondere e lanciai un'occhiata per spiare la reazione di Dean, che tuttavia non disse niente. “Sali davanti” ordinò al suo migliore amico.
Posso cambiare CD, però?” domandò Kameron, una volta che tutti prendemmo posto.
Fai quel diavolo che ti pare” tagliò corto Dean, per poi sporgersi in avanti e posare gli avambracci sugli schienali dei nostri sedili. “Ascoltami, okay?” mi disse, dritto in un orecchio – più a causa della vicinanza alla mia testa che non per sua volontà di farlo. E, okay, forse non era sua intenzione farmi arrossire e venire i brividi, ma successe comunque. Non un gran bel modo per infondermi coraggio e tranquillità.
Kameron tolse il CD e aprì il bauletto alla ricerca di qualcuno che gli piacesse di più.
Devi stare calma” disse Dean. “La strada che devi percorrere è la stessa per la scuola. Una volta in città ti diremo noi dove andare. Capito?”
Ca-capito” mormorai. Poi lanciai un'occhiata allo specchietto retrovisore per controllare le condizioni del nonno. Stava stranamente zitto, aveva smesso di lamentarsi dell'inutilità di coinvolgere medici in quella storia. “Stai bene?”
Certo che sto bene, pensa a guidare” brontolò lui a voce bassa, evitando accuratamente il mio sguardo. Il che mi fece sospettare che invece non stesse bene per niente.
Presi un respiro profondo e feci per partire, ma l'auto si spense.
Sentii Dean respirare a fondo a sua volte, mentre Kameron si guardava attorno a disagio. “Rimetti su quel CD, Kam, puoi sopportare i pokemon per un quarto d'ora, no?”
Lui obbedì, mentre io mi sforzavo di stare calma e mettere in moto. “Grazie” sussurrai a voce così bassa che per un attimo sperai che Dean non avesse sentito. Poi però lo vidi annuire nello specchietto e sentii il cuore accelerare il battito. Aveva davvero fatto qualcosa per me?
 
Dopo quella prima difficoltà, eravamo ad arrivare all'ospedale senza intoppi. Il nonno era stato fatto sedere su una sedia a rotelle – e solo il cielo sa quanto si lamentò per questo – in attesa del suo turno per essere visitato. Era strano che anche in una città così piccola il pronto soccorso fosse così affollato; non mancavano bambini frignanti, vecchi brontoloni – Abe in primis – e ragazzi incapaci di sopportare un po' di dolore che si lagnavano a mezza voce come se fosse in bilico tra la vita e la morte. Tra questi spiccavano un paio di studenti dell'ultimo anno della nostra scuola, i quali non risparmiarono occhiate diffidenti in direzione di Kameron e Dean. Mi aspettavo che almeno quest'ultimo ricambiasse con la stessa moneta quelle occhiatacce, ma mi stupì limitandosi a far finta di niente. Si sedette su una sedia come Kameron e me, in attesa che arrivasse il turno di Abe.
Fissavo ostinatamente il muro bianco dall'altra parte del corridoio, chiedendomi cosa sarebbe successo. Mi auguravo che il nonno stesse bene e non si fatto nulla, ma quante probabilità c'erano che un uomo della sua età cadesse per le scale senza essere scalfito? Inoltre era evidente che non riuscisse a stare in piedi da solo, non poteva esserne uscito del tutto indenne. Eppure continuavo a sperarci.
Rivivevo nella mia mente il rumori di quella caduta, la scena del nonno accasciato sulle scale, i suoi vani tentativi di rialzarsi da solo. Nelle mia testa Abe era una persona forte, capace di affrontare indenne qualunque circostanza. Non avevo idea del perché avessi quest'infantile visione di lui, ma la nuova consapevolezza che le cose non stessero così mi turbava. E se un giorno lui non ci fosse stato più? Io cosa avrei fatto? La mia famiglia in quel momento era costituita esclusivamente da lui – perché, sì, ormai consideravo casa mia solo la fattoria, non certo l'abitazione dei miei genitori. Come sarebbe stato vivere lì senza di lui? Non avrei saputo nemmeno fare... be', niente. Non ero in grado di vivere da sola e non lo sarei mai stata. E mi sarebbe mancato, mancato terribilmente. Aveva lentamente sostituito la figura paterna a cui mi ero disperatamente attaccata fino ai miei diciotto anni, ne avevo ottenuta una molto più affidabile e salda, per quanto continuassi ad adorare mio padre. Cosa avrei fatto se questa mi fosse stata strappata?
Di nuovo risentii i passi del nonno, i tonfi sulle scale, i gemiti di dolore e le sommesse imprecazioni. Poi mi ricordai di un piccolo particolare: “Ho lasciato l'acqua sul fuoco” rizzai la testa, sgranando leggermente gli occhi.
Abraham sbuffò sonoramente: “Un motivo in più per tornare a casa” commentò.
Stai scherzando?”
Se era per quello avevo anche lasciato la tovaglia sul pavimento e la porta aperta, ma molto probabilmente questo particolare non era altrettanto grave. Non si poteva dire altrettanto della stufa accesa e incustodita. Strinsi le mani l'una nell'altra, abbassando leggermente la testa. “Non è che io abbia avuto molto tempo per pensare a cosa fare...” risposi, senza il coraggio di guardarlo negli occhi. Era già molto che non mi avesse ancora preso a male parole.
Dean respirò a fondo, poi nascose le mani nelle tasche dei pantaloni, la mandibola contratta, ma non disse nulla – al contrario di Abraham, che non era mai stato lamentoso come quel giorno.
Fu Kameron a risolvere il problema, con una proposta tutt'altro che insensata. “Si può telefonare a Ginger, lei manderà qualcuno alla fattoria”.
Sì” acconsentì Dean, annuendo appena. “Pensateci voi”. E noi obbedimmo.
 
Ci vollero un paio d'ore prima che qualcuno visitasse il nonno. Quando finalmente l'infermiera permise a me e Dean di entrare nella sua stanza, un dottore ci informò della situazione, mentre Abraham borbottava come una caffettiera: cadendo aveva subito una frattura composta del femore, sarebbe stato sottoposto ad un intervento il giorno seguente e, salvo complicazioni, entro tre giorni sarebbe potuto tornare a casa. Il problema di per sé non era grave per la salute del nonno, ma, come ci avvisò il medico dopo averci scortato fuori dalla stanza, era probabile che il nonno subisse ripercussioni psicologiche a seguito di quell'evento.
Perché?” mi venne naturale domandare, mentre mi torturavo le mani per la preoccupazione.
Il dottore si sistemò gli occhiali tondi sul naso e si spiegò meglio, guardandomi dritto negli occhi: “In una persona della sua età è difficile recuperare del tutto la mobilità, dopo una frattura del genere. Con un po' di fortuna potrà ricominciare a camminare sulle proprie gambe, dopo un periodo di fisioterapia e riabilitazione, ma non sarà come prima. Detto fra noi, ai vecchi contadini di quel paesino non è mai andata giù l'idea di non poter più lavorare e me ne sono capitati in cura diversi, da quando lavoro qui. Dovrete tenerlo d'occhio e assicurarvi che non faccia sciocchezze, ragazzi. E incrociate le dita perché non rimanga in sedia a rotelle”.
Non erano esattamente queste le notizie che mi aspettavo di sentire.
 
Tieni, ho preso da mangiare”. Dean si sedette sulla poltroncina di fronte alla mia, dall'altro lato del corridoio, porgendomi un sacchetto di carta bianco. Gli rivolsi un'occhiata interrogativa e lui mi mostrò sbrigativamente che ne aveva uno uguale in mano. “Allora? Non lo vuoi?”
Mi affrettai ad annuire, allungandomi per afferrare il sacchetto. “Sì, sì. Grazie”. Conteneva un panino, come scoprii dopo qualche istante.
Lui scrollò le spalle come a sminuire la sua gentilezza. Che di per sé, solitamente, non era poi così significativa, ma quel giorno si era dimostrato una persona civile in più occasioni.
Erano le sette di sera e si era fatto buio già da un bel po'. Avevamo trascorso l'intera giornata in quell'ospedale, con qualche breve pausa per prendere una boccata d'aria all'esterno. Kameron era tornato a casa nel primo pomeriggio, con la promessa che sarebbe tornato a prenderci alle due del pomeriggio del giorno seguente. Sebbene Dean mi avesse ripetuto svariate volte di tornare alla fattoria, mi ero rifiutata di abbandonare lì il nonno. E così c ritrovavamo entrambi seduti in quel corridoio, in attesa che il tempo passasse. L'orario per le visite era finito, ma le infermiere avevano detto che, in quanto parente più prossima ad Abraham, ero autorizzata ad entrare nella stanza del nonno quando volevo, salvo diverse istruzioni. Al momento, però, ero così giù di corda che non me la sentivo di star lì dentro, sicuramente non sarei stata d'aiuto.
Non fare quella faccia” brontolò ad un tratto Dean. Alzai lo sguardo per incontrare il suo, il quale però era fisso sul proprio panino.
Quale faccia?”
Lui ignorò la mia domanda e scrollò le spalle come se non fosse importante – e in effetti non lo era più di tanto. “Abe è un tipo a posto. È forte” buttò lì quasi con casualità.
Sembrava a me o quello era un goffo tentativo di consolarmi? Senza nemmeno rendermene conto mi ritrovai a reprimere un sorriso. “Lo so” risposi, anche se ciò che avrei davvero voluto dire era “grazie”. Gli ero grata per questi suoi improvvisi moti di solidarietà dei miei confronti, molto. Era evidente, però, che lui non avesse voglia di parlarne o far notare in alcun modo il suo sforzo per essere gentile, ecco perché mi obbligai a far finta che tutto fosse normale.
Senza dire una parola di più, mangiammo i nostri panini, dopodiché io sgattaiolai in camera del nonno.
Lui stava già dormendo quando mi accoccolai sulla poltrona accanto al letto e mi sforzai di chiudere gli occhi. Non era nulla di grave, mi ripetevo, sarebbe andato tutto bene.
La poltrona era scomoda, fuori il vento soffiava forte, sibilava e faceva sbatacchiare le tapparelle. Probabilmente aveva anche ricominciato a nevicare, ma sarebbe andato tutto bene. Non poteva non andare tutto bene. Non poteva, vero?
Quella notte non fu decisamente tra le migliori della mia vita. Ebbi un sonno tormentato, frammentato e popolato da sogni tutt'altro che piacevoli in cui non facevo che piangere, piangere, gridare e percepire l'angoscia strozzarmi la gola.
 
Il giorno dopo, però, tutto andò nel migliore dei modi, più o meno. L'intervento riuscì bene e senza complicazione e nel pomeriggio potemmo riportare Abe a caso, con la condizione che sarebbe tornato in città nei giorni prestabiliti per la terapia di riabilitazione.
Il lato negativo della faccenda era che per ora di camminare sulle proprio, con il nonno non se ne parlava neanche. Era stato difficile convincerlo a sedersi sulla sedia a rotelle, ma alla fine ci eravamo riusciti – Dean ci era riuscito, abbaiandogli senza un minimo di tatto frasi poco carine e decisamente esagerate; aveva attirato gli sguardi sconvolti delle infermiere ma alla fine era risultato un metodo efficace. D'altra parte Abe si era categoricamente rifiutato di farsi spingere da qualcuno: “Finché sono lucido, voglio arrangiarmi” aveva proclamato con stoica ostinazione, le mani già sui sostegni delle ruote. Ed era partito di gran carriera, lasciandoci indietro di diversi metri.
Cavolo, come va!” aveva esclamato Kameron con ammirazione. Avevo annuito, mentre Dean aveva riso: “Voglio proprio vedere come farà quando arriverà alle scale”.
Com'era da aspettarsi, nonno Abe era un uomo dalle mille risorse: quando raggiungemmo le scale, facemmo giusto in tempo a vederlo sparire dietro le porte dell'ascensore. Il che sarebbe stato perfettamente normale se il nonno non fosse stato claustrofobico e sospettoso nei confronti di quasi ogni “trabiccolo tecnologico”, ma di fatti lo era, e il suo comportamento la diceva lunga su quanto fosse orgoglioso.
La parte più difficile della gestione di Abe arrivò, forse, alla fattoria. Su una sedia rotelle non potevamo spingerlo per le scale fino alla sua camera da letto, ma lui non voleva saperne di dormire sul divano. Parlai a vanvera per una buona mezz'ora prima che Dean gli facesse notare che l'alternativa sarebbe stata portarlo su e giù per le scale in braccio. Solo allora Abraham, sconfitto, dichiarò con un filo di voce che il divano non era una soluzione non era un'idea poi così malvagia.
All'inizio fu tutto fuorché facile. Grazie a Dio per quanto riguardava l'igiene personale del nonno, non fui nemmeno presa in considerazione. D'altra parte, ora che il nonno era in quelle condizioni, la mole di lavoro in casa era raddoppiata. Il fatto che Kameron avesse deciso di scegliere la fattoria Fletcher come sua seconda casa risultò una fortuna; fu molto d'aiuto dal momento in cui ora anche i compiti solitamente svolti da Abe si aggiungevano a quelli di cui normalmente ci occupavamo io e Dean. E poi c'erano i compiti scolastici, anche. Trovare il tempo per ogni cosa non era facile, ma dopo un paio di giorni di ritardi e orari un po' sfasati, eravamo riusciti a prendere il ritmo. Si arrivava a sera stravolti dalla fatica e con le orecchie che dolevano per il troppo lamentarsi del nonno, ma si arrivava a sera.
In questa situazione fuori dal comune, anche le relazioni tra gli abitanti della casa erano insolite. Tanto per cominciare dovevo sforzarmi per non essere sempre addosso al nonno, per non chiedergli continuamente se avesse bisogno. A dire il vero ci avevo provato, ma ero stata cacciata in malo modo almeno quindici volte durante i primi due giorni. Meglio evitare, mi ero detta. Avevo inoltre capito quanto fosse difficile per un uomo del tutto abituato ad arrangiarsi ed orgoglioso della sua indipendenza dover appigliarsi a qualcuno per ognuna delle piccole azioni quotidiane che prima faceva senza alcuno sforzo.
Dean doveva averlo capito prima di me, perché invece che essere indifferente come al solito, riversava sul nonno tutta la sua indolenza, senza tuttavia fargli pesare il suo stato di momentanea – si sperava – invalidità; non passava giorno senza che il nonno non si impuntasse a voler far qualcosa a lui inaccessibile e Dean non gli dicesse, non senza una buona dose di sarcasmo, che se avesse voluto farlo avrebbe dovuto tornare indietro nel tempo ed evitare di rotolare giù per le scale. Personalmente al posto del nonno me la sarei presa a morte per il suo comportamento brusco e maleducato, ma Abe sembrava apprezzare. Non voleva essere compatito, aiutato, voleva essere trattato com'era giusto. Quindi rideva quando Dean si lamentava del sovraccarico di lavoro, si impegnava a fargli notare tutti i più piccoli errori che compiva e gli rispondeva a tono quando risultava un po' troppo impertinente. (“Solo perché sono infortunato, non sei autorizzato a bestemmiare in casa mia, ragazzo!”, “Alzati e prendimi a calci nel culo, Abe, avanti!”)
Al contrario, con me si comportava molto meglio del solito. Addirittura avrei potuto dire che mi trattava bene. Nel mezzo di quella difficile situazione, lui mi dava istruzioni su come comportarmi e cosa fare e io, stranamente, non osavo contestare le sue decisioni. Una parte di me diceva che senza di lui la fattoria sarebbe andata a rotoli, era quindi necessario fare come diceva senza lamentarsi. E infatti era così che facevo. Con il nonno in quelle condizioni, il mio impegno in qualunque cosa facessi era doppio, l'unica cosa che finivo per trascurare, con somma gioia di Kameron, erano i compiti scolastici. Ma per quello ci sarebbe stato tempo, al momento era occuparmi della casa ciò che mi premeva.
Quel pomeriggio, tuttavia, era l'ultimo giorno di vacanza e lo studio era appena diventato un'urgente priorità. Kameron era già in cucina che spargeva i libri sul tavolo, mentre Abe gli faceva chissà quale interrogatorio come ormai faceva ogni volta se lo trovava di fronte da solo. Io, invece, ero in camera che raccattavo i libri necessari. Stavo giusto pensando che probabilmente sarebbe servito mettere su carta il programma di studi per il pomeriggio ed era un peccato che non ce ne fosse il tempo, quando la voce di Dean mi fece sussultare. “Kam ti aspetta in cucina”.
Sì, sì, lo so” risposi in breve e, dopo avergli lanciato giusto un'occhiata – che bastò a farmi venire la tachicardia –, tornai a raccogliere volumi e quaderni, con la sua immagine stampata a fuoco in mente. Una parte di me, quella evidentemente più cretina, era felice del cambiamento che il nostro non-rapporto aveva subito. Avevamo finalmente imparato a coesistere, persino a cooperare. Il solo pensare una cosa mi sembrava ancora impossibile. Se avessi dovuto trovare un lato positivo nella situazione causata dall'incidente di Abe, avrei senza dubbio scelto questo: Dean non mi detestava più. O, se ancora lo faceva, era diventato tutto ad un tratto discreto.
Lo sta riempiendo di domande idiota”.
Sembra che il nonno ci stia prendendo gusto, in effetti”.
A metterlo in imbarazzo, dici?”
Quando mi voltai, lui era ancora lì, in piedi sulla soglia della mia camera con le braccia incrociate e si guardava attorno sorridendo divertito. Era maledettamente bello. E tutto ciò era maledettamente strano.
S-sì, metterlo in imbarazzo”. Un po' come lo ero io sotto il suo sguardo, ogni volta che non si rivolgeva a me con disprezzo.
Rise.
La sua risata agitò le farfalle nel mio stomaco. Stronzo.
Dovrà pur fare qualcosa, pover'uomo, no?”
Del tutto indifferente, Pan. Lui ti è del tutto indifferente, ricordi? “Già, prendere in giro il tuo migliore amico”, che poi era anche il mio, in teoria.
Il vecchio crede che tra voi ci sia... del tenero”, sogghignò.
Scrollai le spalle, mentre attraversavo la stanza con una smorfia di disappunto in volto. “Sembra che una ora non possa più avere amici maschi senza che il proprio nonno prepari le nozze...”
Dean rise. “Non credo che sia pronto a cedere la tua mano a Kam, sai?” buttò lì divertito.
Mi ritrovai ad arrossire come una cretina. Da quando scherzava con me?
Abbozzai un sorriso, mentre, in piedi di fronte a lui, speravo che si scansasse. “Poco male” sussurrai, rendendomi conto di quanto la scena fosse patetica: ero paonazza in volto per colpa di un ragazzo che giusto un paio di mesi prima mi aveva detto chiaramente che non sapeva cosa farsene della mia stramaledetta cotta nei suoi confronti. E nonostante mi fossi imposta di dimenticarlo, mi era stato impossibile. Anzi, negli ultimi giorni avevo la triste sensazione che i miei sentimenti non solo fossero tornati a galla, ma si fossero addirittura rafforzati.
Poteva andare peggio di così?
Sì, poteva.
Avrei dovuto smettere di pormi quella domanda, tanto poi era matematico che le cose sarebbero precipitate.
Successe quando alzai lo sguardo per intimare a Dean di lasciarmi passare. In un primo momento pensai ad un giramento di testa, quando vidi Dean muoversi (e non all'indietro). Dovette chinarsi su di me prima che mi rendessi conto che il suo volto si stava davvero avvicinando al mio.
E allora...
Be', allora feci un balzo indietro.
Che diavolo stava succedendo? Avevo il cuore che batteva all'impazzata e, se possibile, ero ancora più rossa in volto di qualche attimo prima. Frastornata. Frastornata era il termine giusto; il sangue pompava forte e ne sentivo il rimbombo nelle orecchie. Mi tremavano le gambe.
Dean era ancora fermo sul posto, leggermente chino in avanti, un'espressione indecifrabile in viso. Si raddrizzò e “Che ti prende?” domandò scocciato. Riecco il vecchio Trenino Thomas.
Cavolo, cavolo, cavolo. Doveva essere stata tutta una mia impressione. Un'epica figura di merda, una di quelle Kameron non avrebbe mai saputo nulla o avrebbe riso di me per l'eternità. Forse nemmeno Emily lo avrebbe saputo. Dovevo proprio essere un'illusa disperata se avevo creduto stesse per baciarmi! Che vergogna.
Boccheggiai, farfugliando qualcosa di sconnesso in risposta, e, quando mi accorsi di non riuscire a mettere in fila una frase di senso compiuto, mi limitai a scuotere leggermente il capo, fissando i suoi all'improvviso interessantissimi piedi. “Niente” riuscii a biascicare.
Lo sentii sbuffare. “Qual è il tuo problema?”
Strinsi le labbra in una smorfia confusa, non sapendo cosa dire. Così lo guardai senza dire niente.
Quelle...” sbuffò. “Erano tutte chiacchiere?”
Eh? Forse avevo perso il filo del discorso. “Cosa?” mi lasciai sfuggire, facendo senza pensarci un altro passo indietro. Il mio gesto sembrò non piacergli, perché arricciò un labbro con fare contrariato e poi spalancò le braccia. “ Si può sapere che ti è preso?”
A me? Non ci stavo capendo più niente. “Un giramento di testa” risposi, pur di dargli una risposta. Non ero sicura che fosse ciò che voleva sapere, ma non avevo idea di dove volesse andare a parare. Non avevo una minima idea di nulla, al momento. La mia mente era nel caos più totale, ogni pensiero era sballottato tra una seria di 'perché?' e 'non essere sciocca' in tutte le loro possibili sfumature.
E allora rise, al di là di ogni aspettativa. “Ti faccio questo effetto?”
Spalancai la bocca per rispondergli male, ma non ci riuscii di fronte al suo sorriso divertito.
Posso chiamare a casa? Altrimenti scelgo l'aiuto del pubblico. Non ci stavo capendo più niente.
Distolsi lo sguardo cercando di recuperare un minimo di lucidità mentale.
Peccato. Pare che io sia un baciatore niente” concluse, soffocando una risata.
Lo guardai, sconvolta da quelle parole, ma lui mi aveva già voltato le spalle e stava scendendo le scale.
Cosa? Cosacosacosa? No, no, no.
Dovevo aver capito male. Tanto per cambiare dovevo aver frainteso tutto, preso fischi per fiaschi.
Sì, doveva essere così. Era ovvio. Perché cioè che la mia testa bacata aveva elaborato suonava proprio come un “Peccato che tu ti sia spostata, avevo intenzione di baciarti” e, no, non era plausibile. Assolutamente. Per niente.
Rimasi impalata sul posto, i libri tra le mani, lo sguardo perso nel vuoto. Il cuore ancora batteva all'impazzata, le guance mi bruciavano e la mia testa era nel bel mezzo di una tempesta.
Carol, piccola peste, placati!
E se invece fosse stato vero? Ero un po' stupida, okay, ma non potevo esserlo così tanto.
Sì, sì, invece. Potevo. Non avevo capito niente, come al solito.
Oh Merlino!
Senza pensarci due volte scaricai tutti i libri sulla scrivania e mi gettai sul letto a pancia in giù, il volto affondato nel cuscino, e strillai. Forte, cercando di sfogare i mille pensieri che mi frullavano nella mente senza riuscire ad uscirne né a riordinarsi.
Perché? Perché tutte a me?
 
In der Ecke – Nell'angolo:
Ed eccomi qui, con l'ormai consueto ritardo. Sono esaltatissima perché ho finalmente deciso un titolo per la mia tesina di maturità e scritto l'introduzione. Venerdì l'insegnante di italiano me la stroncherà, ma almeno ho buttato giù qualcosa.
Non sono molto convinta di come è uscita la parte finale e, lo ammetto, non ho riletto il capitolo. Spero che non ci siano troppi orrori, probabilmente lo farò nei prossimi giorni. Se per caso incorrete in errori gravi come frasi lasciate in sospeso – porca vacca, devo smettere di farlo – fatemelo pure notare. Il correttore automatico non ha riscontrato errori, al di là dei nomi dei personaggi, che proprio non gli piacciono.
Ma ehm... sì, sto volutamente glissando sul contenuto del capitolo. XD Non so se il graduale cambiamento di Dean sia davvero graduale quanto avrei voluto renderlo, l'incidente di Abe ha contribuito a cambiare la cose. Spero soprattutto che il missing moment (che come qualcuno sa ho posticipato a dopo questo capitolo) possa giustificare almeno in parte gli ultimi avvenimenti e comportamenti del biondo mestruato – che sembra aver concluso i suoi interminabili cinque giorni critici. 
Quindi, be', stay tuned per il missing moment!
 
Credo che basti così. Per eventuali domande, sapete come contattarmi: potete trovarmi su facebooktwitterask.fm e naturalmente sul gruppo facebook. E, be', chiaramente qui su EFP.
 
Grazie a tutti voi che siete arrivati fino a qui, grazie a tutti coloro che hanno speso belle parole per me e la mia storia. 
Grazie, grazie, grazie di cuore! ♥
  
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