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Autore: Hoi    21/05/2013    1 recensioni
I fatti narrati si svolgono dopo gli eventi del primo film
“Pronto! Aiuto ho investito una persona. Sono in via...” Dove cazzo ero? Mi guardai attorno nel panico. Non c’era neanche un fottutto cartello. Merda! Ma quella era New York. Una New York mezza distrutta e ancora in piena ricostruzione, ma pur sempre New York. Di certo avrebbero rintracciato la chiamata e sarebbero venuti ad aiutarmi.
“il numero da lei selezionato è inesistente”
“Cosa?!?!?!” Piena di sgomento guardai lo schermo. 118. Idiota! Idiota! Idiota!
Genere: Avventura, Comico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Loki, Nuovo personaggio, Tony Stark/Iron Man, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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                Ci erano voluti due giorni, ma alla fine la fortuna era arrivata. Eccome se era arrivata! Quella giornata era iniziata nel migliore dei modi: mi avevano dimessa dall’ospedale, anche se i medici avrebbero voluto tenermi lì ancora un po’ per studiare il mio caso. Le ferite sul mio viso stavano guarendo con una velocità sorprendente e la cosa li scioccava. Per come la vedevo io, era una gran botta di culo e non l’avrei sprecata standomene lì. Appena fuori, dopo una brevissima pausa a casa, ero andata alla stazione di polizia, che sapevo aver sequestrato la mia roba. Lì un poliziotto aveva minacciato d’arrestarmi per aggressione a pubblico ufficiale. Patetico! E dire che gli agenti di polizia dovrebbero essere delle specie di eroi che combattono per la nostra sicurezza, non ragazzine che si mettono a strillare se gli dai uno spintone. Comunque, dopo quindici minuti di caziata ero stata rilasciata, senza la mia roba. Me ne andai all’ufficio di Stark con un diavolo per capello. Avevo davvero bisogno di parlare con la mia famiglia, il mio ragazzo e Stark, per sbattere fuori dalla torre dei vendicatori quello stupido architetto. Arrivata al grattacielo, che ancora ospitava provvisoriamente, l’ufficio di Stark ebbi un attimo di esitazione. Era strano per me entrare dall’ingresso. Ero sempre passata dai parcheggi e mi trovai un po’ disorientata, non sapendo bene dove fosse l’entrata dell’ascensore. Girai per qualche minuto per la hall, senza un’apparente destinazione, finché Jarvis non mi salvò, indicandomi con la sua voce gentile, la strada. Arrivai senza problemi ai piani distrutti. Quantomeno, quel Jo Bridges aveva fatto tornare la corrente in tutti i piani. Le porte si aprirono davanti a me, il cantiere era stato aperto, anche se da poco. Non pareva essere messo tanto male, al contrario... ma non potevo dare un giudizio chiaro della situazione senza un sopraluogo adeguato. Avrei dovuto addentrarmi in quel caos per accertarmi delle condizioni del cantiere e capire che interventi aveva messo in atto l’architetto. Schiacciai il tasto dell’ultimo piano. Con la mano che ancora tremava mi dissi che la mia priorità non era quella, che prima di tutto dovevo chiamare i miei. L’ascensore si fermò all’ultimo piano ed entrai nell’immenso open space che sarebbe dovuto diventare la sala dei Vendicatori, ma che si ostinava ad essere l’ufficio/stanza dei giochi di Stark. In teoria lui sarebbe dovuto essere lì a lavorare, ma ovviamente era da qualche parte a divertirsi. Meglio per me insomma. Senza troppi complimenti mi sedetti alla scrivania e presi il telefono. Il minimo che poteva fare il signor Stark per risarcirmi, era di pagarmi la chiamata intercontinentale. Fu una delle telefonate più difficili della mia vita. Appena sentì la mia voce, mia madre scoppiò a piangere. Aveva già saputo dell’accaduto dai giornalisti e la cosa l’aveva molto spaventata. Mi aveva chiamata circa cinquanta volte al cellulare, senza che nessuno le rispondesse ovviamente. La parte peggiore fu spiegarle com’era ridotta la mia faccia. Ogni due parole mi ritrovavo a ripeterle che stavo bene, che non avevo problemi, che sarei guarita e cose così. Non si può dire che io sia mai stata leggiadra e questo, com’è ovvio mi ha sempre causato numerosi piccoli incidenti. La maggior parte cavolate certo, ma alcuni anche abbastanza brutti. Come quando mi ruppi un piede, cadendo con la bicicletta nel canale, durante il periodo di secca, o come quando una golf nera mi investì all’uscita da scuola, slogandomi una spalla. Mia madre ormai ci si era relativamente abituata. Vedere la mia faccia al telegiornale delle cinque e scoprire che ero stata attaccata da un alieno, a quello non era abituata. Ero al telefono da circa quaranta minuti quando il Signor Stark entrò dal terrazzo, lasciando che Jarvis gli togliesse l’armatura. Neanche quello faceva da solo! Appena fu dentro mi lanciò un’occhiata accigliata. Certo, avrebbe preferito che io restassi in ospedale, così si sarebbe sentito meno in colpa.
“Sei seduta alla mia scrivania. Nessuno può sedersi alla mai scrivania”
Figlio di... Inspirai profondamente, ignorandolo. Ero totalmente decisa a non dargli retta finché non si fosse dimostrato interessato al mio stato di salute.
“Chi era tesoro?”
Ingoiando la stizza che mi stava divorando tornai ad interessarmi alla povera donna che aveva avuto la sciagura di darmi alla luce.
“Il Signor Stark mamma. Sto telefonando dal suo ufficio ed è appena arrivato...”
“Non mi piace quel signor Stark. Ti mette in situazioni pericolose, avrei preferito che tu avessi accettato quel lavoro in trentino... saresti stata anche molto più vicina a casa...”

Sospirai. Mia madre era una santa donna, ma non perdeva mai occasione di rinfacciarmi qualcosa. Tra l’altro proprio non lo voleva capire che tra la costruzione di una scuola in trentino e la Stark Tower c’era un divario enorme. Comunque, almeno su una cosa aveva ragione, quello Stark non piaceva neanche a me.
“State parlando di me? Certo... chi non parlerebbe di me... cosa state dicendo su di me? è una chiamata intercontinentale quella?”
Lo fulminai con lo sguardo. La chiamata intercontinentale era l’ultimo dei suoi problemi, visto che mi aveva sostituita con un signor architetto-del-cavolo. Se non avessi deciso pochi secondi prima di non parlargli più, mi sarei tolta la soddisfazione di prendere a caci il suo ego e fargli sapere cosa una brava donna come mia madre pensava di uno scapestrato come lui. Al diavolo! Non sono mai stata capace di stare zitta io, perché avrei dovuto iniziare in quel momento?
“Scusa un attimo mamma... Sì, signor Stark, parlavamo di lei. Mia madre dice che lei non le piace, che è troppo borioso e che dovrebbe smetterla di comportarsi come un ventenne, perché non è dignitoso per un uomo della sua età... e sì, signor Stark, è una chiamata intercontinentale”
Ok, forse mi inventai un po’ di cose... Ma fu lo stesso bellissimo. Per qualche momento lo osservai boccheggiare, alla ricerca di qualcosa da dire. Cercando di riordinare il caos che regnava nella sua mente alzò un dito e se lo puntò addosso.
“Per un uomo della mia età? Quanti anni crede che abbia?”
“Aspetti, glielo chiedo... Mamma il signor Sterk vuole sapere quanti anni ha secondo te”
Per un lungo momento mia madre tacque, facendo un rapido calcolo mentale. Tendenzialmente lei era brava in queste cose.
“Non saprei tesoro... che domanda strana da parte sua... trentanove?”
Trentanove? Alzai lo sguardo sul signor Stark, che attendeva la risposta ansioso. Mica potevo dirgli una cosa del genere! Il suo ego era già abbastanza smisurato, rischiavo di farlo diventare un idiota montato... cioè, ancora più di adesso. Non avrei potuto mentirgli comunque... Io ero una pessima bugiarda e lui era il mio capo, se mi avesse beccata a dire balle su una cosa del genere, mi avrebbe di certo licenziata.
“Cinquantadue”
Non fui proprio in grado di resistere. Che mi licenziasse pure, io quella soddisfazione dovevo proprio togliermela. Lo so, sembro perfida e forse un po’ lo fui, ma a mia discolpa posso dire che il signor Stark era il tipo di capo che ti chiama alle tre di notte e pretende che tu lo raggiunga, a prescindere da dove si trovi, per poi chiederti di ridipingergli il garage dello stesso colore della nuova Ferrari che si è comprato, dicendoti che “questo compete a te”. In fondo forse aveva ragione mia madre, il trentino non era poi tanto male.
“Cinquantadue?!”
Lo ripeté quasi gridando. Era visibilmente scioccato. Avrebbe potuto avere un attacco di panico o una roba così. Forse non avevo fatto poi tanto bene a dirglielo. Le mie paure vennero dissipate appena lui riprese il controllo, guardandomi serio come durante il nostro ultimo incontro Alla torre dei Vendicatori.
“Riattacca”
Che permaloso il tipo! Comunque non potei fare a meno di ghignarmela sotto i baffi, mentre prendevo una biro dal portapenne. Non si era accorto della bugia, forse stavo diventando brava!
“Mamma devo andare... non è che prima riesci a dettarmi il numero di Davide?”
“Un attimo, vado a prendere l’agenda”

Il signor Strak mi fissava impaziente, con le braccia incrociate sul petto. Lo irritava sempre molto non essere al centro dell’attenzione, ma fece il bravo ed attese, per ben dodici secondi prima di ripetermi di riattaccare. Dopo la terza volta smisi di rispondergli e mi limitai ad alzare un dito, con fare seccato. Non mi ero mai divertita tanto in vita mia.
“Eccomi! Dunque...”
Senza aspettare che fossi pronta, mia madre si mise a dettare. Peccato che io fossi stata talmente presa dalla stizza di Stark, da non pensare a procurarmi qualcosa su cui scrivere. Allungai la mano verso un foglio, che era abbandonato sulla scrivania, ma appena lo sfiorai gli occhi del mio capo di sgranarono e quindi decisi di lasciar stare. Avevo tirato abbastanza la corda, non era il caso di mettersi pure a pasticciargli i progetti. Sospirando mi arresi all’idea che non mi restava altro che il gesso. Appuntai su lì il numero di Davide, prendendomi pure il tempo di ricontrollarlo e di salutare mia madre con tutta calma. Avrei voluto restare di più al telefono con lei, anche perché non riusciva a ricordarsi una cosa importante che a quanto pareva doveva dirmi. Alla fine però ci salutammo. Avevo stressato abbastanza il mio capo. La mia vendetta poteva dirsi compiuta, ora era il caso di mettersi al lavoro. Appena riagganciai lui mi guardò coi suoi occhi innocenti e gentilmente mi disse:
“Sai, sto pensando di licenziarti come architetto ed assumerti come guardia del corpo. Hai fatto davvero un bel lavoro col chitauro”
Per un interminabile momento lo fissai, zitta. Poi ripresi il telefono e composi il numero del mi ragazzo. Avevo fatto un bel lavoro? AVEVO FATTO UN BEL LAVORO?! Avevo un cazzo di braccio rotto, altro che bel lavoro! Se gli avessi parlato in quel momento, gli avrei lanciato in testa tutto il tavolo, altro che una sveglia. Lui mi osservava contraddetto. Probabilmente il suo sarebbe voluto essere un complimento. Aprì la bocca, ma prima che potesse parlare mi rispose la segreteria telefonica. Maledizione! Avrei dovuto aspettare ancora per parlare con Davide. Bhè... nel frattempo gli avrei lascito n messaggio, che non faceva mai male.
“Ciao amore... Sono Francesca... Bhè, lo sai visto che sono l’unica che ti chiama amore... cioè almeno lo spero... Comunque, io sto bene! mi hanno sequestrato il cellulare, quindi ti richiamo io appena possibile. Ti amo.”
Riattaccai, sospirando. Ero proprio un’imbranata con le segreterie telefoniche. Insomma, era difficile parlare con qualcuno che non ti rispondeva e poi mi prendevano sempre alla sprovvista. Comunque ora che mi ero tolta quel peso, mi sentivo meglio e potevo affrontare Stark.
“Rivoglio il mio lavoro.”
Lui alzò le spalle con aria innocente, mentre prendeva dalla scrivania un inquietante soprammobile di bronzo a forma di fiore... o qualcosa del genere.
“Non hai perso il tuo lavoro... l’ho sempre avuto questo?”
Lo stavo perdendo. Col tempo avevo capito una cosa del signor Stark: il suo livello d’attenzione per le persone che lavoravano per lui, faceva a dir poco schifo. Riusciva a parlarti circa trenta secondi, poi si distraeva e ti liquidava con stupidi pretesti. Quella però era una cosa troppo importante per me. Dovevo mettere le cose in chiaro una volta per tutte.
“Rivoglio il cantiere alla torre dei Vendicatori, quello alla Stark Tower, non voglio mai più sentir parlare di chitauri o alieni o mostri e non ho idea di quando lei abbia comprato quell’aggeggio, ma è orrendo e dovrebbe buttarlo.”
Per un attimo lui mi guardò, sovrappensiero. Chissà come, ero riuscita a riattirare la sua attenzione. Si sedette sulla scrivania e con un movimento secco mi puntò il soprammobile contro, guardandomi negli occhi.
“Controproposta: i cantieri alla Stark Tower e alla torre dei Vendicatori tornano a te, assieme al prossimo lavoro rilevante che mi troverò a dover far fare, ma tu mi racconti ogni dettaglio dell’attacco del chitauro e mi dici quanti anni ho realmente secondo tua madre”
Per un lungo momento ci fissammo negli occhi. Cazzo! Pura questa volta ero stata beccata... Non era male come proposta però. Quel fantomatico lavoro futuro mi ingolosiva da matti. C’era da considerare però che lui pareva molto interessato a quella storia del chitauro (e anche a quella dell’età), quindi probabilmente, sarei riuscita a strappargli un’offerta persino migliore. Dovevo resistere e negoziare.
“Accetto”
Sono sempre stata una pessima negoziatrice, uno dei miei tanti difetti. Se avessi continuato mi sarei solo scavata la fossa da sola e io a quel lavoro futuro proprio non volevo rinunciarci. Senza smettere di fissarmi negli occhi lui annuì.
“Ottimo.”
Con un gesto secco mi diede un buffetto sul petto con il soprammobile e si alzò dalla scrivania di scatto. Senza troppi complimenti mi diede le spalle e cestinò quella specie di fiore, facendo canestro nella spazzatura. Un ottimo canestro, com’era stata un’ottima scelta quella di buttare quel coso. Meno ottima era stata l’idea di darmi le spalle. Senza neanche tentare di fare la cosa di soppiatto, mi lanciai di corsa verso l’ascensore. Lui si voltò contraddetto, lanciandomi un’occhiata infastidita, mentre selezionavo il piano.
“Scusi signor Stark, devo controllare il cantiere al piano di sotto... ne parliamo dopo di quella cosa!”
Arrivai al cinquantaseiesimo piano in pochi istanti. Appena le porte si aprirono, davanti a me comparve il cantiere. Per quanto possa essere ben gestito un cantiere resta un cantiere. Il che significa che anche se erano stati rimossi tutti i detriti c’era comunque molta polvere, per non parlare dei teli di plastica e della roba varia sparsa ovunque. Feci un passo avanti e all’istante un brivido freddo mi percorse la schiena, obbligandomi a fermarmi. Le gambe mi tremavano. Anche se sapevo che era morto, ogni fibra del mio corpo era in allerta, attendeva il mio aggressore. Mi portai una mano al petto, in un gesto insensato, che avrebbe voluto rallentare il mio battito cardiaco, impazzito. Cazzo, perché era così dura tornare lì? Inspirai profondamente chiudendo gli occhi. Li riaprii. Espirai. Feci un passo avanti. Ero dentro. Non era stato così difficile, dai! Una strana allegria mi prese mentre mi guardavo attorno, sfoderando il mio blocco degli appunti. Era come se avessi appena compiuto un’impresa epocale, che avrebbe lasciato i segni nella storia... quantomeno nella mia. Era stato un piccolo passo per il mio corpo, ma un’enorme passo per il mio spirito. Ero sinceramente soddisfatta di me stessa. Iniziai a trotterellare per tutta la stanza, scarabocchiano ogni dettaglio utile del cantiere. Mi rendevo conto di sembrare una bambina delle elementari in gita, ma non me ne fregava nulla. Avevo tutto il diritto di comportarmi da idiota dopo i giorni infernali che avevo passato... e poi tanto non c’era nessuno a guardarmi. Mi fermai soltanto svariati minuti dopo, quando mi ritrovai davanti alla vetrata. Da lì la vista era davvero magnifica. New York era una città bella come poche, ma dimostrava appieno tutto il suo immenso fascino solo se vista dall’alto.  Lo spettacolo dei palazzi che svettavano uno affianco all’altro, ma ognuno ad altezza diversa era come sentirli gridare la loro somiglianza e la loro diversità, all’unisono. Ignorando lo strapiombo che si apriva qualche passo più avanti, mi avvicinai alla vetrata distrutta, per poter immergermi totalmente in quella magnifica foresta d’acciaio e vetro. Alzai il viso, curiosa di vedere quanti palazzi mi superavano in altezza. Quella era un’altra cosa che mi faceva impazzire di New York. Per quanto potessi essere in alto, c’era sempre qualcosa che s’alzava nel cielo, più in su di me. A quell’altezza non erano pochi i palazzi che mi superavano eppure, per la prima volta in vita mia, persi tutto l’interesse che avevo per l’architettura e mi si gelò il sangue nella vene alla vista del cielo. Un’immensa nuvola nera si stava addensando. Per un attimo tentai di convincermi che fosse il preludio di un temporale. Sapevo che non era vero. Era fin troppo ovvio che New York stava bruciando. Istintivamente portai la mano alla borsa. Cazzo! Mi ero ripromessa che mi sarei sempre portata dietro il cellulare, ma era rimasto dalla polizia. Tremante feci qualche passo in dietro. L’incendio era vicino. Troppo vicino. Mentre mi voltavo per tornare all’ascensore mi guardai distrattamente attorno. Il vento che entrava dalla vetrata in frantumi faceva sbattere i teli di plastica, provocando un rumore agghiacciante. Un brivido ci tenne a ricordarmi che eravamo in pieno inverno. Non mi ero accorta che faceva tanto freddo lì. Il tintinnare di qualcosa che cadeva mi tolse un battito. Immobile fissai il punto da cui era provenuto il rumore. Non sarei andata a controllare. Era stato il vento. Non poteva essere nient’altro, visto che io ero sola. Io ero lì, da sola. Qualcosa dentro di me mi spronò a correre, ma mi trattenni e ricominciai a camminare verso l’uscita. Non avevo le scarpe antinfortunistiche, né il caschetto, se fossi caduta mi sarei ammazzata. Come avevo fatto ad essere tanto idiota? Andare in quel posto da sola di nuovo! Stupida! Quando finalmente varcai la sogna dell’ascensore mi lanciai sulla pulsantiera, premendo un numero a caso. Volevo solo andarmene da lì. Non importava dove. Fu così che mi ritrovai di nuovo all’ultimo piano. Di nuovo da sola. Il signor Stark si era volatilizzato. L’dea di andarmene mi passò per la mente, ma in un istante scomparve, scacciata dal possente richiamo dei quel magnifico cordless delle industrie Stark, la cui bolletta non sarei stata io a pagare.
Quattro tentativi di chiamata al mio fidanzato e sessantadue minuti di telefonata con un’amica dopo, il “Supereroe” si decise a tornare. Sfortuna volle che fosse il supereroe sbagliato. Con il suo solito rombo accecante il dio del tuono atterrò sulla terrazza. Sguardo fiero e martello in pugno chiamò con la sua calda e profonda voce il guerriero d’acciaio, talmente forte che avrebbe potuto risvegliare la bella addormentata nel bosco o più semplicemente assordarmi. Indovinate quale si è avverata? Sospirando salutai Anna e mi alzai per andargli a dare un benvenuto degno del dio che era.
“Ma che cazzo fai? Thor, maledizione, te l’ho detto un milione di volte di finirla! Guarda per terra. La vedi la gigante bruciatura nera che hai causato? Quella non va via, cazzo! Bisognerà sostituire di nuovo tutte le piastrelle. Per l’ultima volta. FATTI TRASPORTARE SUL MARCIAPIEDE E ENTRA DALLA PORTA COME LE PERSONE NORMELI!”
Lui mi guardò. Il suo sguardo non era mutato e ancora teneva il martello stretto in pugno. Vagamente seccato abbassò lo sguardo sulle piastrelle carbonizzate. Con un movimento quasi impercettibile sfregò lo stivale sul pavimento, come per saggiare l’entità del danno. Molto meno spavaldo rialzò lo sguardo su di me.
“Sono costernato...”
Lo mugugnò, ma ne fui abbastanza soddisfatta. Era un periodo difficile per lui. Guai in famiglia. Suo fratello era Loki, una specie di galeotto. Uno di quelli pericolosi, braccati dallo Shield. L’artefice della distruzione di New York. Era scappato prima che lui lo mettesse in prigione. La cosa peggiore era però, che nessuno se n’era minimamente accorto, finché non l’avevano riportato in patria. A quanto avevo capito, origliando le loro conversazioni, aveva usato un trucco alla X-men e dopo essersela defilata, aveva lasciato una copia di sé nelle celle dello Shield per prendere tempo. Il duplicato era poi scomparso opportunamente, nell’esatto istante in cui Thor l’aveva consegnato a loro padre. Inutile dire che Odino l’aveva presa malissimo. Da allora il dio faceva la spola tra casa sua e la terra (grazie ai poteri del padre), nel disperato tentativo di riaciuffare Loki. Quindi non era il caso di essere troppo dura. Sorridendo gli feci cenno di entrare e lo avvisai dell’assenza di Stark. Non ne fu affatto sorpreso. D’altronde sarebbe tornato a breve, visto che Jarvis lo stava già avvertendo dell’arrivo dell’ospite.
“Ci sono notizie di mio fratello?”
Mi voltai verso di lui. Con gli occhi sgranati. Lo stava chiedendo a me? Che cavolo potevo saperne io? Ok, suo fratello era un dio... quindi il suo ritrovamento non sarebbe passato inosservato, credo. D’altronde li governo era sempre stato bravo a nascondere segreti ed io non ero la persona più attenta ai telegiornali della terra.
“Non che io sappia...”
Con aria depressa andò a sedersi su una poltrona. Sulla faccia aveva dipinta un’espressione da cucciolo abbandonato che, per qualche strano caso, mi fece venire in mente Scott. Il mio cuore si sciolse come burro sul pane tostato a quella vista. Avrei voluto trovare qualcosa da dirgli per rincorarlo, ma lui mi batté sul tempo.
“Che nemico ai affrontato per ferirti in tal modo?”
Lo fissai sorridendo. Non avevo capito. Come già detto, l’americano non è la mia prima lingua quindi il lessico complicato che lui tendeva ad usare, mi creava non pochi problemi. Comunque avevo capito che c’entravano le mie ferite. Quindi probabilmente mi stava chiedendo che mi ero fatta. Sventolando il gesso, che mi copriva la mano sinistra, risposi con sufficienza:
“Ma nulla... Un chitauro... cose che capitano!”
Gli sorrisi, mentre lui s’alzava in piedi di scatto. I suoi occhi azzurri come il cielo erano sgranati, fissi su di me. Eppure in quello sguardo allucinato vidi una luce strana... forse speranza.
“I chitauri sono nuovamente su questa terra?”
La sua voce rimbombò nella sala. Fece un passo, uno soltanto verso di me, ma bastò a terrorizzarmi. Era un eroe (almeno così si diceva in giro), quindi ero fiduciosa che non mi avrebbe fatto del male. Restava il fatto che era un muro di muscoli alto quasi due metri, con un martello. Un martello enorme. L’immagine del chitauro per un attimo si sovrappose alla sua. Tremante feci un passo indietro. Intimidita non riuscii a spiccicare parola.
“Dimmi dove si trovano!”
Mi spronò gentilmente, afferrandomi un braccio e scuotendomi con dolcezza per farmi riprendere. Non mi aiutò. Thor desiderava disperatamente ritrovare suo fratello e quello, in effetti, era un ottimo indizio. Io avrei voluto dargli una mano, dicendogli tutto ciò che sapevo, la mia voce però non era della stessa opinione. Come congelate, le mie corde vocali non si decisero ad aiutarmi. Così, per quanto io aprissi la bocca con l’intenzione di spiegare tutto l’accaduto, non riusciva ad uscirmi una sola vocale. Aprivo e chiudevo la bocca, senza emettere suono. Un pesce. Dovevo sembrare un pesce. La cosa mi turbò tanto da scacciare l’immagine del chitauro dalla mia mente, ma non abbastanza per farmi tornare la voce.
“Giù le mani dalla mia roba riccioli d’oro, papà orso è tornato”
Entrambi sapevamo bene a chi apparteneva quella voce. Mi voltai comunque verso di lui con l’intento di spaccargli la testa per avermi definita “roba sua”. Il mio intento morì sul nascere ed io tornai in modalità pesce nello stesso istante in cui lo guardai. Li guardai. Avevano fatto il loro grande ingresso dall’ascensore, splendidi nelle loro uniformi da eroi tutte bruciacchiate. Io però non vidi neanche il signor Stark. Ormai mi ero totalmente abituata ad Ironman. Capitan America invece, era la prima volta che lo vedevo. A bocca spalancata restai a fissare Steve Rogers, mentre Thor lo sollevava, con un calorosa abbraccio. Non credo avesse capito cosa gli fosse stato detto con esattezza, ma non pareva importargli molto.
“Amico mio, che gioia rivederti. Cosa vi è accaduto?”
Era da molto che i due non si vedevano. Il capitano Rogers era partito dopo il disastro di New York, per un lungo viaggio ed ora soltanto era di ritorno. Fiero nel suo abito a stelle e strisce il supersoldato gli rispose con voce gentile.
“C’è stato un attacco alla stazione di polizia di questo distretto, ma abbiamo risolto tutto”
Incredibile. Semplicemente incredibile. Per quanto tentassi il mio cervello non voleva riprendersi. Davanti a me c’era l’uomo di cui mio nonno mi aveva raccontato le gesta fin da bambina. I suoi capelli, dello stesso colore del grano e i suoi occhi azzurri, come il cielo in una limpida mattinata, erano esattamente come mi erano stati raccontati. Non riuscivo a crederci. Avrei voluto presentarmi, ma ogni muscolo del mio corpo era bloccato dall’emozione. Sarei rimasta in quella posizione per il resto della mia vita, se non fosse successo l’impensabile. Capitan America, il protagonista di tutte le fiabe che mi erano state raccontate, si voltò verso di me e mi tese una mano.
“Steve Rogers, piacere di conoscerla. Ho sentito molto parlare di te”
Per un lungo istante rimasi zitta a fissarlo. Aveva sentito parlare di me. Lui di me? Era assurdo. Totalmente assurdo. Tremante presi la sua mano e la strinsi. Appena aprii la bocca, la voce mi tornò, anche se tremava come non mai.
“Francesca Recidivo, pia-piacere... D-davvero, lei non può neanche immaginare che onore sia per me. È... è da tutta la vita che mi raccontano di lei...”
Il signor Stark mi lanciò uno sguardo indignato, si era accorto che non ero stata tanto emozionata quando avevo incontrato lui la prima volta. D’altronde, lui non aveva combattuto contro i nazisti. Avrebbe comunque tentato di recuperare il centro della scena, se Thor non gli avesse chiesto notizie del fratello.
“Spiacente, ma del lupo cattivo nessuna notizia... Ma non hai nient’altro di cui preoccuparti? Cacciare? Salvare principesse? Uccidere regine cattive?”
Lasciando timidamente la mano del più grande eroe che potesse esistere, fissai lo sguardo sul signor Stark a bocca spalancata. Il tatto non era mai stata una delle sue qualità, ma stava esagerando e Thor aveva un martello. Almeno la paura della morte avrebbe potuto farlo diventare un po’ meno... sì insomma, un po’ meno stronzo. Nulla invece. Pareva totalmente decisi a restare un egocentrico insensibile a vita. Senza aspettare una risposta né accennare a togliersi l’armatura, Stark riprese a parlare.
“Non importa. Ora ho io del lavoro per te. Jarvis, riunisci la squadra”





Ciance inutili

Ciedo venia per l'enorme attesa, purtroppo maggio è maggio e gli impegni universitari sono quello che sono... spero che questo capitolo sia decente e che le spiegazioni che iniziano a saltar fuori siano chiare e sensate, se così non fosse lamentatevi pure a più non posso.
  
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