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Autore: miss potter    14/06/2013    1 recensioni
Vale la pena di lottare solo per le cose senza le quali non vale la pena di vivere.
Ernesto Che Guevara
Genere: Guerra, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
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Dovrò decidermi a ripulirlo questo posto, un giorno.

È un minuscolo ambulatorio medico ricavato da quella che una volta era la stanza delle caldaie, poco più che uno sgabuzzino dall’intonaco scrostato intriso del puzzo delle feci di ratto e della muffa agli angoli del soffitto. Giusto lo spazio per un piccolo armadio per l’attrezzatura, una barella di fortuna e una poltroncina, sfondata.

L’ho rimesso un po’ in ordine da quando mi hanno trasferito qui, ed è anche un po’ il mio rifugio.

Non sarei mai stato capace ad abbandonare del tutto la professione medica, già acquisita con somma fatica e sacrifici inenarrabili in un tempo in cui trovare un’università aperta era come passeggiare nel deserto di Aral sperando di scorgere un pozzo come si fa in città con un negozio di tabacchi, o coi bambini randagi.

Non ci sono nato per fare il soldato, eppure… eppure eccomi qui, le braccia conserte e lo sguardo e il cuore vuoti che man mano sento riempirsi e liberarsi allo stesso tempo dell’immagine opalescente di questo esserino tutto pelle e ossa, e capelli bruni e labbra secche, mentre penso che in realtà avrei fatto davvero meglio a gettarlo nel bosco e lasciare che le bestie affamate là fuori facessero il proprio lavoro invece che starmene qui imbambolato permettendo che suddetta immagine mi invada il cervello e lasci fuori tutto il resto.

Non ci sono nato per uccidere persone perché il mio lavoro è guardare mentre muoiono, come adesso, mentre senza anestetici né antibiotici credo di poter salvare loro la vita quando me lo si ordina, armato di un ago da cucito storto, un filo strappato da una vecchia giacca appartenuta a chissà chi e un po’ di ghiaccio per lavare via il sangue incrostato e sgonfiare gli ematomi.

Più muoiono, più noi falliamo. E non ci è permesso soffocare, non qui.

Devono lavorare per guadagnarsi il pane e noi dobbiamo farli lavorare per guadagnarci un posto al mondo.

«Malchik [1]…» lo chiamo, e così due, tre volte, e penso che quasi quasi mi sento in colpa, non so perché, non so come, ma forse è solo perché è giovane, troppo tenero per starsene come sta, ancora acerbo per cadere ed essere raccolto, per marcire, o che sono io quello che si fa troppe domande o che sono semplicemente troppo vecchio per sopportarne il peso su un’anima in pensione, ma certe sensazioni ti colpiscono con la forza di un mattone scagliato in piena faccia indipendentemente dall’età che hai e che non dimostri, e tu non puoi far altro se non porgere l’altra guancia.

Com’è messo male…

Ma chi è messo peggio?

Te lo meriti, un po’ di sano senso di colpa, e lo sai. Oh sì, è propedeutico per andare avanti. La chiamano catarsi e tu, eretico, ti ostini a chiamarla semplicemente merda. Ma questo è anche un po’ l’esistenza, l’eterna prigione che si sconta vivendo per i propri peccati.

Avanti, ne hai visti tanti come lui se non di più piccoli, se non di messi peggio. E non sarà diverso, questa volta, no.

Perché dovrebbe esserlo, maledizione?

Approfitto dell’unico anestetico che circola detassato ultimamente, e che è anche il migliore e il più efficace, la sua incoscienza, per scoprirgli le dita ed appoggiarmele sui palmi: probabilmente, se non gliele raddrizzo, quel suo violino non potrà più tornare a suonarlo. E ora che ci penso il grammofono si è rotto la settimana scorsa e mi farebbe piacere sentire un po’ di buona musica…

Perché no?

Non è difficile. Non sente nulla. Io, invece, rabbrividisco un po’ perché dovrei essere abituato al rumore cartilagineo delle ossa che scivolano di nuovo dentro alle loro articolazioni, ai legamenti e ai tendini che tornano sui loro binari, e invece è così fottutamente eccitante, come alla prima volta, questo suono di materia che si accartoccia e stride e langue sotto una carne particolarmente levigata e giovane, e sai che non hai perso la manualità di un tempo per le cose vive oltre che per i meccanismi del fucile.

Soprattutto se sono queste mani a produrre il concerto organico di cui hai disperatamente bisogno adesso, tu, medico militare che, Cristo Santo, sei una contraddizione vivente e l’unico calore di cui disponi e nel quale affonderesti piacevolmente il naso è quello del sangue che ti scorre tra le dita, che ti macchia la giacca da ufficiale pluripremiato, e tu non dici niente.

È un attimo. Poi, qualche goccia di mercurio cromo, ovatta e benda. Come nuovo.

Come un moccioso a cui piace rompere i propri giocattoli per avere la soddisfazione di saperli poi riaggiustare.

Sarà una lunga giornata, questa, su questa mia poltrona e vita sfondate, le gambe e i sentimenti accavallati mentre lo guardo dormire a labbra sbocciate e respirare piano, tranquillo, come se, per un attimo, avesse il potere di infondermi la pace che non merito e a tendermi la mano verso una luce che non vedo, contagioso come la più desiderabile delle epidemie che passano e vanno, facendoti solo che un favore.

Mi chiedo come debba apparire dopo un bagno, liberato di tutto il sudiciume che gli imbratta i tratti evidentemente armoniosi.

Mi chiedo cosa penserà quando riuscirà ad aprire gli occhi e vedrà il mondo che lo circonda, e cosa dirà quando si deciderà a far parlare quelle labbra.

Io, intanto, mordo le mie forte tra i denti, perché non è possibile che questa volta sia davvero diverso, o almeno così diverso.


 
Com’è possibile? Com’è possibile che mi sia addormentato?

Da quanto era che non dormivo così? Su una poltrona sfondata poi, in questo buco in cui sono costretto a lavorare?

E cos’è questo strano bagliore che mi acceca e mi sveglia dal torpore che da tempo non mi cullava?

Sobbalzo al ritmo del mio cuore che perde un battito quando me ne rendo conto appieno, del fatto che qualcuno mi sta fissando da vicino, a pochi centimetri dal naso, curioso come un cucciolo di lince che ha perso la madre e che sta imparando suo malgrado a cacciare in solitudine, guidato dall’istinto e dalla fame che gli scava i lombi e gli annerisce i pensieri.

Questo qualcuno ce l’ha lo sguardo, della lince, e, quando da stravaccato con un colpo di reni mi metto dritto, questi fa un balzo indietro inciampando sui lacci sciolti delle sue stesse scarpe, e cade a terra.

«Che cazzo stavi facendo?!» esclamo, e so che non dovrei prendermela, che dovrei riderci su e prenderlo semplicemente a calci per essersi mosso, per averci anche solo provato a fare qualsiasi cosa avesse in mente di fare, perché chi non sa stare al proprio posto qui viene preso a bastonate, come un cane disubbidiente, a ceffoni come un bambino ribelle, e solitamente le botte bastano per rimetterli in riga.

Qui sono capaci di tutto. Di soffocarti nel sonno, di rubare… ed è nostro compito impedire che tali nefandezze vengano compiute facendo immediatamente rapporto ai primi segnali d’inquietudine.

Ma quest’individuo, più che un banale assassino o ladruncolo, sembra una minuscola margherita appena fiorita, che trema e impallidisce considerevolmente nella sua gracile corolla quando alzo la voce, indietreggiando sul pavimento facendo leva sui polsi martoriati e sui talloni e andando infine a sbattere con la schiena contro il muro alle sue spalle.

Ha i pantaloni strappati e le ginocchia sbucciate e, quando mi alzo, non ha nemmeno la forza di proteggersi dallo scatto della mia mano sulla sua gola.

«Dimmi» sussurro, ma è quasi un ringhio il mio. Deve sapere chi è che comanda qui. «Perché mi stavi fissando?»

Subisce passivo la mia stretta, come io il suo sguardo che mi annienta pezzo dopo pezzo ma questo, lui, non lo sa.

Non può vedere la rabbia, l’arroganza, la brama di sottomissione che lentamente si sgretolano, dentro di me, per quanto mi sia vicino ed io così scontroso, l’uomo che subordina per una volta il soldato e il cuore che cola.

Ma questo è tutto quello che conosco, tutto ciò che mi è stato insegnato e per cui ho fatto giuramento, e non posso calare la guardia.

«Parla, dannazione!»

Stringe gli occhi e ha paura e no, no!

Aprili, ti prego. Aprimeli, perché nei tuoi riesco a vedere il buono che ci potrebbe essere in me.

Questa volta il passo indietro lo faccio io, scostandomi repentinamente da quel mostro in cui mi sto trasformando, e allontano la mano.

Il blu incastonato nel verde e nell’ambra della lince torna per divorarmi, ancora e ancora, frammento dopo frammento mi cerca e mi lascio trovare.

Si passa la lingua sul labbro inferiore, spaccato, e io ne seguo i movimenti fluidi.

Dio, sì.

«Parli russo?» gli chiedo accucciato di fronte a lui, ancora le spalle al muro.

Mi guarda serio e sembra non capire, che è l’unica spiegazione per questo silenzio che mi fa bollire il sangue nelle vene. Ma c’è quella sottile scia di saliva che abbraccia un angolo e l’altro della bocca che ben presto arriva in soccorso per raggelarmelo, e ho i brividi.

«Deutsch? Français?» e nemmeno con finlandese, polacco, armeno funziona.

Mi sta prendendo in giro. Evidentemente pensa che basti quel suo sguardo limpido da agnellino braccato e il voto al silenzio per farmi desistere.

Ma un soldato che desiste non è un soldato e non sono io, che di pazienza ne ho da vendere ma che i ragazzini indisciplinati li sopporto poco e dei cuccioli di lince, lui non lo sa, ma io di solito mi ci faccio un colbacco.

Sospiro. Così non si può andare avanti.

«Alzati» dico fermo, e lo tiro su per un braccio perché tanto so già che questo qui è stupido e che non farà mai niente che non derivi dalla sua più spontanea volontà. «Mettiti seduto e stai fermo.»

Rigido come un pezzo di legno, nonostante tutto ubbidisce e si appollaia sulla barella dalla quale fa penzolare le gambe magre, e un’espressione amareggiata gli segna il volto mentre riunisce le mani fasciate sul grembo e le osserva, in silenzio.

«Ti hanno quasi rotto le dita. Ho dovuto raddrizzarle, sai… perché so che suoni il violino. L’ho fatto quando eri svenuto, così non hai sentito niente.»

Quante lingue possono parlare, gli occhi? I suoi più di quelle umane, soprattutto quando sembra domandare ma al contempo non chiedere nulla, solo… osservare, e ricoprire di bellezza tutto ciò su cui posa lo sguardo, annientandolo.

«Ovviamente non sei ancora in grado di lavorare con le mani in queste condizioni. E non parli, dunque non puoi renderti utile in alcun modo. Sai cosa significa questo, hm?»

Osserva. Osserva tutto, e mi sento spogliare sempre di più ad ogni battito di quelle lunghe ciglia nere.

«Significa che la tua presenza qui non vale niente, se non come cibo per i maiali. Mi capisci?»

Come si fa a spiegare la morte a qualcuno che ha tutta la vita davanti a sé?

«Tuttavia, non credo che qualcuno farà problemi se ti porto negli alloggi degli ufficiali a lucidare stivali. Non è complicato né così faticoso. Poi, ti verrà dato un violino se il tuo è stato perso o distrutto e suonerai per me, almeno finché non ti sarai rimesso del tutto e non sarai in grado di guadagnarti da vivere come tutti gli altri. Siamo intesi?»

E decido di prendere l’ennesimo battito di ciglia come un sì. 

















Note:

[1] in russo, ragazzo/ragazzino.




Author's Corner:

Ce la farà la nostra Johnlockiana ora che ha dato tutti gli esami che doveva dare *parte un concertone di trombe reali* a terminare l'ultimo capitolo di Dancing Star? Abbiate fiducia, sono ufficialmente entrata in travaglio XD

miss potter (che vi adora)
  
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