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Autore: bimbarossa    19/06/2013    0 recensioni
Sono passati molti anni dalla battaglia con Galaxia e tanto è cambiato. Le guerriere Sailor non sono più così unite dopo il personale confronto con l'oscurità dell'assenza del loro seme di stella, oscurità che condividono con Mamoru, il quale ancora non ha superato la questione di Seiya e dei sentimenti di Usagi. In più un ritorno inaspettato lo sconvolgerà e lo tenterà, mentre sulla Luna una presenza, risvegliatasi per sbaglio metterà in pericolo il futuro della Terra.
Genere: Dark, Drammatico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Haruka/Michiru, Mamoru/Usagi
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Dopo la fine
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18 Marzo 2015


Città del Capo, Sudafrica,ore 16,15




Il mare quel pomeriggio era leggermente agitato ma nonostante questo, e nonostante già si alzasse da sud un vento freddo e autunnale la spiaggia era ancora piena di gente.

Forse la strana calca di persone era dovuta al sole splendente che emanava gli ultimi tepori di quella lunga e calda estate africana, oppure perché l'attenzione di tutti era calamitata dall'enorme yacht di un bianco immacolato che beccheggiava pigramente seguendo il rollio delle onde, che sembravano cullarlo con una dolce ninnananna.

Ma almeno un'occupante della barca non la pensava allo stesso modo. Anzi, la nausea che invadeva Haruka la stava snervando.

Non aveva mai sofferto il mal di mare e non era proprio sicura che la causa potesse essere imputata a questo.

A dire la verità era dalla notte prima che non si sentiva bene. A dire la verità era da parecchi giorni che non si sentiva bene. Che non si sentiva se stessa.

Era sempre inquieta, distante, nervosa e irascibile. Sembrava davvero l'adolescente che era stata 21 anni prima invece che la donna di 39 anni di successo che era adesso, l'immagine perfetta che mostrava al resto del mondo.

Infatti la persona che stava osservando davanti allo specchio della cabina della Warrior Princess non era la proprietaria della scuderia automobilistica Young Talents, la famosa manager che appariva su tutte le riviste patinate inseme alla sua compagna, Michiru Kaiō celebre violinista; no, quella era una sconosciuta, anzi neanche. Era la troppo conosciuta se stessa che aveva ritrovato, nemmeno senza tanti complimenti o scrupoli 21 anni fa, quando aveva smesso di fare la guerriera.

Ed era stata felice di questo.

Perché era potuta ritornare quella persona che era prima di Michiru ma con Michiru, stavolta.

Un rimpianto magnifico che sapeva di libertà. Niente guerre, niente mostri, niente ricerche impossibili e dolorose. Niente sacrifici e lotte contro il mondo per il mondo.

Solo amore, e il piacevole e indolente lasciarsi andare alla deriva sull'oceano. L'oceano che era la sua Michiru-chan.

Ma adesso tutto si era capovolto di nuovo. Di nuovo sogni che la tormentavano. Ma se quelli di una volta erano stati incubi di Apocalisse e distruzione questi erano ancora peggiori.

Erano peggiori perché non c'erano creature maligne da sconfiggere, nessuna presenza fisica, o perlomeno la promessa/minaccia di un nemico fisico da combattere.

Il sogno, sempre lo stesso, che la ossessionava da qualche mese riguardava se stessa. E Michiru.


La violinista faticò non poco ad indossare il bikini giallo, il suo preferito, quel pomeriggio.

Di solito era sempre Haruka che glielo allacciava da dietro ma era inspiegabilmente sparita sopraccoperta senza dire una parola.

Quella vacanza in Sudafrica che aveva programmato prima dell'inizio del campionato automobilistico si stava rivelando un disastro.

Il tremore delle mani le rese più difficile allacciare il pezzo sopra del costume e ogni volta che pensava di rinunciare e sceglierne uno meno complicato richiamava alla memoria l'espressione di Haruka quando glielo vedeva addosso e ritentava.

Doveva mettersi quel bikini. Doveva farlo a tutti i costi.

Quando si era svegliata quella mattina, tra le braccia magre di Haruka si era accorta di quanto lo fossero magre. Erano così esili, così trasparenti. Come se la loro proprietaria stesse per sparire. O stesse per diventare invisibile, come il vento.

Lo spettacolo dell'alba sudafricana, ricordava, l'aveva distolta per un attimo dai suoi pensieri. C'erano talmente tanti colori, tutti quei gialli e bianchi. Era si una pittrice di talento ma non aveva immaginato che ci fossero così tante sfumature di bianco. Avrebbe voluto imprimersele per poterle poi riportarle sulla tela; avrebbe voluto imprimersi il volto di Haruka che dormiva, per una volta dopo mesi, serenamente, senza quegli incubi che la tormentavano, di notte, e di cui non faceva parola, con lei, al mattino.

Se avesse voluto confidarsi, dopo tutto quel tempo sicuramente Haruka lo avrebbe fatto. Il problema era che la sua compagna, la sua metà, la persona con cui divideva l'esistenza e il cuore, per la prima volta le aveva sbattuto la porta in faccia. L'aveva, pezzo dopo pezzo, notte dopo notte, incubo dopo incubo, allontanata, sputata fuori da se stessa, come si fa con qualcosa che ci può danneggiare, con qualcosa che ci fa paura, con qualcosa contro cui abbiamo lottato e che ha perso mentre noi abbiamo vinto. Ma Haruka non si stava comportando come una vincente, mentre Michiru era sicura di avere perso.


Mosca,ore 18,15


Aveva perso. Rei si sentiva una vera perdente. Certo, il bilancio di 21 anni di vita passati nella carriera diplomatica era sicuramente ottimo, almeno così l'avrebbe vista suo padre. E doveva ammettere anche lei che era diventata una delle più influenti donne di Mosca. Eppure aveva perso. Aveva perso tempo.

Quella sera, mentre fuori dall'ambasciata la tempesta di neve infuriava e bloccava quasi tutte le strade, Rei Hino si guardava allo specchio e sentiva il tempo scivolarle tra le dita affusolate e ben curate, dita che tremavano leggermente mentre cercava di mettersi il rossetto che avrebbe completato la sua mise per l'uscita a teatro.

Aveva perso tempo perché l'obbiettivo che si era data quando aveva lasciato il Giappone non lo aveva raggiunto, ne tanto meno sfiorato.

Non aveva dimenticato. Non era stata dimenticata.

Il pensiero andò alle lettere che invadevano la sua scrivania, lettere scritte in caratteri hiragana, non nell'alfabeto cirillico che ormai le era diventato famigliare. Lettere di Usagi, e di Setsuna e Hotaru, lettere e disegnini di una ChibiUsa che ogni mese la invitava a venirla a trovare, magari portandole anche tanti regali. Mamoru no. Mamoru non le aveva mai scritto, non le chiedeva mai di tornare. Perché lui sapeva e capiva.

Pensò all'ultima volta che era stata a Tokyo. Ormai erano passati due anni, e non ne prevedeva altre a breve termine. Si rendevano conto di quello che le chiedevano? Si rendevano conto della sofferenza di quelle sporadiche visite?

All'improvviso un rumore soldo la fece trasalire. Il rossetto era caduto nel lavabo di porcellana, lasciando sbavature rosse come scie di sangue dopo un crimine, e provocando un'eco assordante nel bagno immacolato.

Il rumore del sangue.

Il rumore del sangue che poteva sentire pulsare in testa mentre si appoggiava pesantemente nel lavabo freddo e liscio.

Non voglio ricordare! Non devo ricordare!

Ma i pensieri, come traccie di sangue dopo un crimine la portavano invariabilmente al sangue versato e al crimine compiuto, da lei, su di lei.

Un rumore dabbasso la riscosse. Non era mai stata così grata e così felice di rivedere suo padre.

Scese di sotto dopo avere pulito il lavabo in modo maniacale per non fare rimanere più nessuna macchia di quello che era successo. Se fosse stato così facile anche per i ricordi!

Suo padre, ormai settantenne, era rimasto comunque un bell'uomo, giovanile e piuttosto mondano; ma questa volta aveva esagerato. Questa volta ne aveva scelta una più giovane di lei di dieci anni.

Sarebbe stata Svetlana o Nadja?

No, quella biondona che se lo teneva stretto al braccio nel suo vestito rosso così scollato da far temere che si sarebbe congelata all'istante non appena uscita nel clima impietoso di Mosca si chiamava Olga. Non appena li raggiunse l'ultima amichetta di Takashi Hino la squadro dalla punta delle scarpe di velluto viola all'acconciatura semplice che Rei preferiva sempre per andare a teatro. Uno sguardo gelido, e di pura invidia.

Perché Rei, benché avesse ormai 37 anni non li dimostrava affatto.

Da quella strana e misteriosa sera dell'incoronazione, avvenuta nel balcone di Usagi e Mamoru sotto la Luna, tutte loro avevano smesso di invecchiare. Quindi, nonostante alla sua età si fosse considerate non più delle ragazze ormai, la sua carnagione perfetta, la lucentezza dei capelli e il viso privo di rughe sconcertavano e affascinavano in molti, tanto che dàma Hino era divenuta la più corteggiata di Mosca.

Di conseguenza, ogni amichetta sempre più giovane che suo padre si era fatto, confidando nel facile confronto che doveva risolversi a suo vantaggio con l'unica donna di casa, si ritrovava invece spiazzata dalla situazione; e tutti i regali, tutte le feste, tutti i vantaggi che una relazione con uno degli ambasciatori più in vista della capitale potevano dare, non rivaleggiavano con il portamento, con la classe, con l'eleganza di quella figlia che le metteva in ombra e che le surclassava con una facilità disarmante.

Perciò prima o poi, al massimo reggevano qualche mese, ognuna di loro spariva, magari seducendo un diplomatico con una moglie vecchia e flaccida, lasciando il sempre più acido e collerico Takashi Hino di nuovo a caccia di prede, il cui numero si assottigliava ogni volta di più.

E Rei ne gioiva. Perché quando era fuggita dal Giappone aveva preventivato anche questo. Aveva già programmato la sua ritorsione.

Tanto tempo fa, al tempo di Usagi, al tempo delle fuku e dei mostri, non avrebbe mai pensato di avere un lato così vendicativo.

Ci pensava spesso nelle lunghe notti russe, insieme ai ricordi, meravigliosi e orribili che la visitavano spesso.

Olga comunque, doveva essere poco più che ventenne. Dio mio, fino a dove voleva spingersi suo padre?

Rei non stette a chiederselo, li salutò con un cenno, si fece aiutare ad indossare da Sergey il pesante cappotto viola in tinta con il suo abito e il manicotto per proteggersi dal freddo e uscì fuori con un sospiro che subito si trasformò in una nuvola di vapore argentea.

L'ambasciata giapponese era molto vicino al teatro Bol'shoi, quindi decise di andarci a piedi vedendo che la tempesta di poche ore prima si era ridotta notevolmente.

Che cavolo! Si era scordata che le strade di Mosca a marzo dopo il disgelo diventavano un pantano. I primi tempi, non essendo abituata ad un fenomeno simile,aveva trovato difficile destreggiarsi e doveva portare sempre un cambio perché ogni volta si trovava con le scarpe e i pantaloni sempre pieni di fango.

Quella sera però, con l'imprevista tempesta proveniente da nord scesa nella capitale a disgelo già iniziato, anche quella viscida fanghiglia marrone si era congelata e Rei, la cui tranquillità era stata messa a dura prova con la scena nel bagno e dal suo odiato genitore con la sua ultima amante fu contenta che altro sudiciume non si fosse aggiunto alla sua anima già lordata da altri errori, suoi e di altri.

Appena arrivata al Bol'shoi scortata dal fidato Sergey, fu subito condotta al suo palco privato dove prese posto su una delle tre poltrone che dovevano ospitare lei, suo padre e la sgualdrina Olga.

Vuole qualcosa da mangiare, o da bere, dàma?” Sergey con il suo accento russo-giapponese rivolse un'occhiata al carrello che se ne stava in un angolo poco illuminato del palchetto. Lei non lo aveva neanche notato. Era proprio distratta quel pomeriggio!

No, niente da bere ma prendo un pezzo di kalech, se non ti dispiace!”

Non aveva molto fame. Si sentiva lo stomaco in una morsa, in un grumo spiraliforme di tensione e sentimenti repressi per troppo tempo. In più c'era qualcos'altro che non riusciva a identificare. O meglio che non riusciva più ad identificare.

Un' altro favore Sergey.....”, la preoccupazione e l'ansia sostituiti dall'amarezza, ”togli ogni traccia di wodka per mio padre!”


Chissà perché ogni volta che sentiva le Danze Polovesiane provava un senso di pace e calma. L'opera di quella sera era tratta dal Principe Igor ma si era focalizzata sulle figure delle danzatrici polovesiane piuttosto che sull'intera storia. Certo, i puristi della musica classica avrebbero storto un po' il naso e infatti, oltre all'orario e al clima l'originalità dell'autrice, una kazaka che aveva conosciuto anni prima, avevano impedito al teatro di riempirsi completamente.

Suo padre, che era uno di quelli, inaspettatamente aveva voluto accompagnarla, insieme alla sua amichetta.

Sicuramente per metterla di pessimo umore, e ci era riuscito! Ma il merito non andava solo a lui e alla biondina che si tirava dietro ovunque.

Aveva una strana sensazione, una strana inquietudine. Anni prima, in una vita precedente, avrebbe interpellato il Sacro Fuoco; però ora sembrava che tutto il freddo e il gelo russo avessero coperto con la sua coltre di neve mista a fango non solo i suoi peccati e i suoi rimpianti del passato, ma anche il suo ancor più antico potere divinatorio.

Quel potere che in un giorno d'estate giapponese di tanti anni prima le era stato rivelato da due neri corvi dalle penne lucide e puntute come stiletto. Le due piccole guerriere di Koronis apparse in un momento di profonda crisi mistica adesso erano sparite, portate via dal vento del Nord, cacciate via, proprio così, da dàma Rei Hino. Per sopravvivere. Per sopravvivere senza calore. Per ottenere, nonostante il senso di perdita, un'effimera vittoria.


Los Angeles,ore 06,15


Tutte le sue vittorie poteva vederle ogni volta che apriva gli occhi.

Minako si svegliò di soprassalto, sudata e ansimante. Le luci dell'alba e gli uccellini che cantavano fuori, nel gigantesco patio della sua villa, cozzarono talmente tanto con l'incubo da cui era appena uscita che si chiese quale fosse la vera realtà, e in quale le convenisse restare.

Non appena riuscì a focalizzare la parete che le stava di fronte vide la sua gigantografia e con un sorriso amaro si rese conto che la sua fuga dalla realtà, non si sa quale, era avvenuta molto tempo prima.

Un movimento debole e chiaro, come la luce che proveniva dalla finestra, scosse il letto.

La donna si girò velocemente; una figura maschile, abbronzata, muscolosa, profondamente addormentata le si parò davanti, riempiendole la visuale.

Dovette fare un immenso sforzo per non urlare e non alzarsi di scatto.

Per un attimo, solo per un attimo quella pelle scura, che emanava lo stesso calore, l'aveva confusa, colpita dritta al cuore.

Ma non poteva essere lui! Non sarebbe potuto essere lui neanche se lo avesse voluto. E lei non lo voleva, vero?

Doveva essere così, poteva essere così.

Lei poteva tutto. Minako Aino era una grande star del cinema, conosciuta in tutto il mondo. Poteva permettersi tutti gli amanti che voleva, senza neanche ricordarsi del loro volto e del loro nome.

Per esempio, questo chi era?

Si ricordava solo che lo aveva abbordato in una delle numerose feste che si tenevano nelle serate di Los Angeles, uno dei tanti che facevano parte del solito codazzo sulla scia delle grandi star del panorama di Hollywood. Non era il primo e non sarebbe stato l'ultimo.

David? Marcus? Roberto? Si, Roberto de Vega. Ecco come si chiamava l'uomo. Era un regista alle prime armi che pretendeva la grande Minako Aino nel ruolo della protagonista nella sua opera prima. Che illuso!

Osservandolo per la prima volta poté notare che la pelle scura, i lineamenti del viso, marcati e larghi, il tatuaggio in spagnolo, lo potevano catalogare come di origine messicana, o comunque latina.

Invece l'altro, che per un momento si era sovrapposto a questo nella sua mente confusa dal sonno e dai postumi della festa, anche se avesse passato il suo viso al setaccio non avrebbe mai potuto delinearne un profilo geografico.

L'altro, l'innominabile uomo che nonostante i millenni continuava ad amare, sembrava essere stato senza provenienza, senza genealogia. Nessun accento, nessun carattere fisico o comportamentale che ne potesse indicarne il passato. E il futuro, pensò con rimpianto.

Chissà dov'era adesso. L'ultima volta lo aveva visto su quel balcone illuminato dalla Luna, con Usagi incoronata e Minako dilaniata, dal ritorno di Lui, dal fatto che il legame con la sua migliore amica fosse cambiato, mutato, senza spiegazioni che potessero andare bene o che fossero semplici da digerire.

E con altrettante spiegazioni negate se ne era andata via da lì, per cambiare, per non essere più la sosia di Usagi, la sua controparte quasi identica da usare nei casi di emergenza. Per non essere più Sailor Venus, l'eterno giustiziere che da Londra a Tokyo non aveva fatto altro che combattere contro tutto e tutti. Ora l'unico ruolo che recitava, l'unica parte che accettava, era quella estemporanea e fugace del personaggio di turno, l'unica finzione che era in grado di sopportare.

Una metamorfosi che si sarebbe dovuta compiere a qualsiasi prezzo.

Pensò con sarcastico disprezzo all'uomo che dormiva di sopra mentre con passo strascicante e stanco si dirigeva nel salotto mega tecnologico al piano inferiore.

Sul tavolino davanti allo schermo gigante si potevano ancora notare bicchieri e bottiglie mezze vuote, macchie che si allargavano sul suo prezioso tappeto che proveniva da un posto sperduto in Medio Oriente,per finire con la carrellata dei peggiori vizi hollywoodiani, i resti polverosi e bianchicci di varie sniffate, di Roberto e sue. Non indugiava molto in quella pratica, eppure questo non poteva certo discolparla.

Piegandosi per pulire, il suo riflesso le si palesò molesto davanti.

Maledizione! Era sempre lei, ancora identica alla ragazza che era in Giappone, era ancora identica a se stessa.

Non un solo mutamento, un segno che il tempo fosse passato, che le azioni che aveva messo in pratica contro se stessa per se stessa avessero lasciato un'impronta, un orma, un ringraziamento, una punizione.

Si buttò sfinita sul divano. Una volta aveva letto un libro, Il ritratto di Dorian Gray. Beh, quel tizio era stato dannatamente fortunato. Non perché il suo alter-ego nel dipinto assorbiva le sue nefandezze e scelleratezze, ma perché almeno quel dipinto era la prova della sua trasformazione, della sua evoluzione, anzi involuzione, che nel bene o nel male voleva dire che era vivo, che agiva attivamente sul proprio destino. Lei non aveva nemmeno questo. Non le era stata inflitta neanche quella penitenza.

I secoli sarebbero passati e lei sarebbe rimasta sempre giovane e bella. Fuori.

C'era un senso di ingiustizia in tutto quanto, l'ombra scura di una di quelle creature che aveva eliminato per anni. In questo caso però era dentro di lei. Era lei. Minako Aino la super diva.

Si passò la mano sui capelli sciolti. Da quando non metteva più il nastro rosso di una volta?

Frugò freneticamente nel suo armadio disturbando il sonno del regista cocainomane nel suo letto.

Lo trovò in fondo, nella zona più sperduta di quello che sarebbe potuto essere un piccolo salottino se non avesse ospitato tutti i suoi vestiti.

Se lo rigirò tra le mani, quasi estasiata di quanto fosse ancora morbido al tocco. Neppure questo era cambiato come la sua proprietaria, sebbene, e fortunatamente, la sua essenza, a differenza di lei che si sentiva marcia e corrotta dentro, fosse splendidamente intatta.

Ora più che mai, con quel brandello color sangue tra le mani si sentiva vulnerabile, in balia della nostalgia del passato. Come un acrobata che si affanna a non cadere nel vuoto e con gli occhi puntati verso l'altra sponda, che lui crede la salvezza, aveva anche lei barcollato per 21 anni, sospesa e tesa verso un obbiettivo che adesso, alla luce dell'alba di quel giorno speciale, sembrava così effimero, fallace, ingannevole, simile ad un paesaggio maestoso e senza limiti che poi si rivela uno scenario di cartone.

Se allora la sua meta, la sua sponda, la sua ancora era illusoria, che cosa era reale? Cadere nel vuoto?

E una sensazione di voragine e di panico si spalancò davvero in lei quando due braccia muscolose la avvolsero e sentì un sonoro bacio schioccante sulla guancia.

Buongiorno Minacio, come stai amore mio?”

Come si permetteva quel balordo? Che cosa stava facendo? E per il sacro monte Fuji che cosa stai facendo lei?

All'improvviso, una rabbia cieca si snodò e si annodò contemporaneamente in lei, come se un fiocco rosso interiore che non sapeva di avere la stesse strozzando in una stretta di dolore e piacere.

Io mi chiamo Minako! Hai sentito pezzo di idiota? Mi-na-ko, e sono ancora qui, dopotutto.”

Con una forza che non sapeva di avere e che avrebbe suscitato l'approvazione di Makoto, lo spinse fino alla porta, ancora mezzo nudo, che protestava in inglese e spagnolo.

Dopo che ebbe buttato fuori tutto di lui, dai vestiti spiegazzati ai rimasugli sul e dentro il suo corpo con una doccia, si diresse verso lo specchio.

Era vero, era ancora lì. In tutta la sua stupefacente e giovanile bellezza fisica. Eppure un luccichio negli occhi azzurro chiaro brillava, ostinato e caparbio. Una luce che rifiutava di corrompersi, per quante cazzate lei decidesse di fare.

Cominciò ad applicarsi la maschera come ogni mattina.

E in quel momento tutto, fuori e dentro di lei, tremò.

  
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