Stava in
silenzio da qualche minuto, ormai. All’improvviso le si era rotta la voce, era
uscito un suono strozzato, poi più niente. Portò la mano alla bocca tenendo
l’indice sotto le narici, che cacciavano aria con ritmo irregolare, in un gesto
istintuale. Costringeva il suo corpo a trattenere le lacrime, ma gli occhi
lucidi tradivano il suo tentativo di nascondere delle emozioni
forti.
Cheryl la
guardava in silenzio. Di quelle emozioni riusciva a coglierne solo una eco
distorta, eppure bastava a farle capire quanto a fondo quella donna era legata
al suo defunto padre. Quanto gli voleva bene.
Cybil prese un
respiro profondo, ricacciando dentro ossigeno e lacrime, come se dall’aria fosse
in grado di recuperare autocontrollo, calma e coraggio. Riaprì gli occhi,
puntandoli direttamente verso la sua interlocutrice, fissandola a fondo, quasi a
cercare qualcosa che potesse interessarle, o che potesse aiutarla, non sarebbe
stata in grado di spiegarlo.
“Scusa”
Esordì con
quella parola. Come se fosse un errore banale, come se fosse una cosa che non
andava fatta. Come se non avesse diritto a provare quelle
emozioni.
Cheryl non
rispose. Non si mosse affatto, non ebbe reazioni apparenti. Si limitò a
ricambiare quello sguardo con la stessa intensità. Sembrava volesse lasciar
correre completamente quel momento, senza dargli importanza. Ma il suo cuore non
era dello stesso avviso, e prese a battere freneticamente, ingrossandole il
respiro e facendole provare delle strane sensazioni, come se improvvisamente il
suo costato fosse divenuto completamente vuoto e la pelle elettrizzata, ruvida,
fredda.
“…quando
tornai a casa quel giorno trovai tutto ordinato. Tutto troppo ordinato. Nella
stanza in cui dormivamo tutti e tre l’armadio era aperto, e tutto ciò che era
rimasto erano i miei vestiti. Nelle altre stanze invece nulla era stato toccato,
o forse fui io a non accorgermi di nulla, non saprei dirlo. Dopo qualche secondo
da quando ero entrata in casa avevo già capito tutto, ma ci volle molto più
tempo a convincermi che eravate andati via.”
Cheryl rimase
interdetta.
“Quanto
tempo?”
Che domanda
stupida. Come l’era venuto in mente di chiedere una cosa
simile?!
Stava
seduta sul letto, completamente vestita, con le ginocchia raccolte sul petto.
Erano già tre ore che non si muoveva e non parlava e non faceva niente se non
stare ferma, seduta al centro del letto. Involontariamente le lacrime avevano
rigato il suo volto scendendo fino agli angoli della bocca e al mento, bagnando
anche il pantalone e la maglietta che aveva indosso. Ma non stava piangendo. Non
nel senso comune almeno. Aveva solo lasciato che il suo corpo reagisse come
meglio riteneva opportuno il cervello, centro di controllo di ogni molecola che
circolava nelle vene, nei polmoni, nel cuore, nel fegato, nella trachea, ovunque
nel suo corpo. E gli occhi arrossati avevano un evidente bisogno di idratazione.
Ma Cybil non pensava affatto alle lacrime o al fatto che le sue braccia
tremassero. Si era messa lì, ad aspettare. Non avrebbe cenato senza Harry e la
piccola Cheryl. Quindi avrebbe atteso il loro ritorno. Perché era così, erano
solo usciti a fare un giro. Già, Harry era chiuso in casa da troppo tempo per
potersi rimettere in fretta, e aveva bisogno di aria fresca. Quindi era sceso
portando con se la piccola per non lasciarla sola in casa. E i vestiti…non gli
piacevano più, voleva comprare altri vestiti. Voleva rinnovare il suo
guardaroba, si!
Era
così. Se aspettava un altro po’ li avrebbe sentiti presto
rientrare.
Forse
era passato davanti al ristorante cinese e voleva prendere la cena da
asporto.
Voleva
farle una sorpresa così che non avrebbe dovuto cucinare anche quella
sera.
Che
stupido che era. A lei piaceva cucinare per lui e per quella piccola creatura.
Faceva del suo meglio, anche se doveva ammettere che non sempre riusciva a
preparare dei piatti prelibati.
Era
così. Doveva essere così.
Per
cui avrebbe aspettato. Avrebbe aspettato tutto il tempo, finché non avesse
sentito la porta d’ingresso aprirsi con rumore sordo. Aspettò su quel letto
tutta la notte. Invano.
Alle
tre del mattino il suo cuore cominciò a sussultare più forte. I raggi lunari
illuminavano a mala pena la stanza che si era tinta di un blu innaturale. Il
buio permetteva agli oggetti di restituire solo quel colore. Il viso di Cybil
era rimasto nell’ombra più totale, e tutta la sua figura si stagliava sul muro
di fronte a lei, nitida in una zona chiara di luce che proveniva dalla finestra
alle sue spalle.
La
porta era rimasta aperta, ma tutto quello che entrava era il silenzio assoluto,
rotto solo da un orologio che la ragazza non ricordava nemmeno di
avere.
Gli
occhi erano rimasti spalancati per tutto il tempo, non avrebbe saputo dire se
aveva battuto le palpebre in tutto quel tempo o no. Ma avevano smesso di
lacrimare e ora che il volto si era asciugato avvertiva fastidio alle guance,
nei punti in cui le lacrime erano passate ed era rimasto solo il sale sulla
pelle. Tirò su con il naso, sentendolo fastidiosamente ingombrato dai muchi, ma
non fece altro. Continuò ad attendere, ad attendere che la sua mente accettasse
la realtà. Si domandava perché, pensò a tutte le possibili risposte che le
vorticavano in testa; molte di queste la vedevano come un ingombro, come un
fastidio, come un qualcosa da cui scappare. Pensò che forse era andato via
perché non era stato in grado di proteggerlo, e che quindi avrebbe continuato da
solo. O forse che avrebbe dovuto stargli più vicino all’ospedale, invece di
cercare informazioni sul colpevole, e di cercare un avvocato per il
processo.
Pensò
a lungo, e si rese quindi conto che la sua mente non era più sotto shock. A quel
punto, presa di nuovo coscienza di sé stessa, sentì la debolezza assalirle la
schiena, e si abbandonò completamente distesa sul letto. Chiuse gli
occhi…
Quando
li riaprì la luce nella stanza era strana, innaturale. Tutto era tinto di rosso,
le pareti, il pavimento, il soffitto, come se fosse coperto di sangue. Si alzò a
sedere sul letto, sentendo un fastidioso cigolare; anche le lenzuola erano
bagnate dallo stesso colore, e le ombre, che prima apparivano come delle macchie
blu su uno sfondo chiaro, ora si stagliavano nere sul muro e sul pavimento, ben
definite, come se un’unica luce rossa puntasse insistentemente in una sola
direzione.
Si
voltò in ogni direzione. Notò che l’armadio era chiuso…eppure avrebbe giurato di
averlo lasciato aperto.
Si
alzò, e sentì la sua testa pesante, che le impediva di stare in piedi senza
sentirsi girare come in una grossa centrifuga. Per questo si appoggiò al
comodino.
…che
strano! Sul comodino c’era la pistola!
Il
cuore prese a batterle velocemente. Non le piaceva affatto ciò che stava
vedendo. Costrinse sé stessa a riprendersi velocemente, e, con sforzo attutito
dall’adrenalina, si rimise in piedi dirigendosi verso la porta
aperta.
L’altra
stanza era in condizioni peggiori.
Il
sangue era schizzato ovunque, e tutti i mobili erano impregnati. Le pareti erano
imbrattate e forate in alcuni punti, come se fosse avvenuta una
sparatoria.
In
un angolo vide un cavallo. Era uno di quei cavalli di plastica per le giostre,
con tanto di asta che fuoriusciva dalla sella e dalla pancia. Ma coperto di
sangue in quel modo sembrava vero. Ne scorse altri due poco lontani, uno al
bordo di uno strano cerchio che sembrava fatto con un gesso nero, e che scorreva
perfettamente circolare su tutta la stanza, incrociando il divano e il mobiletto
con i liquori, di cui rimanevano solo cocci di vetro vuoti. Al centro del
cerchio e della stanza, giaceva esanime un corpo. Il corpo di una donna,
crivellato di colpi di pistola, riversa supina sul pavimento. Dalla sua bocca il
liquido denso colava copiosamente, e i suoi occhi rossi erano rimasti aperti.
Non riusciva a distinguere il colore dei capelli, ma la sua camicia doveva
essere originariamente azzurra, nonostante le macchie e gli strappi
distorcessero la visione.
C’era
troppo sangue per essere quello di una persona sola.
Quel
liquido aveva vestito completamente il corpo della donna, ed era colato lungo le
gambe e sul pavimento come la stoffa di una gonna che si sparge candida al
suolo.
D’un
tratto sentì un suono. Il pianto sommesso di qualcuno. Dapprima era come un
rumore debole, che si confondeva con il suo affanno, poi si era fatto sempre più
intenso, e ora poteva sentirlo nitidamente. Era il pianto di un uomo, ma in
quella stanza non c’era nessuno, a parte la figura pietrificata di Cybil e il
cadavere sanguinolento.
Respirava
a fatica ormai, e sentiva l’aria tutt’attorno farsi sempre più pesante da
respirare. Quel pianto non accennava a diminuire, sembrava che la disperazione
di quell’uomo non avesse più un limite. Come se gli fosse successo qualcosa di
tremendo, o come se avesse fatto qualcosa di imperdonabile. Il lamento penetrava
le sue orecchie con forza, ma per quanto si sforzasse di cercare, non ne trovava
l’origine.
Poi,
all’improvviso, tutto sparì ai suoi occhi. Il corpo, i cavalli di plastica, il
sangue, il lamento, tutto sparì e lei rimase come appena risvegliata da un
sogno.
Le
pareti di quella stanza erano ancora tinte di rosso, ma si capiva che era
l’effetto di un’alba particolarmente intensa.
Si
guardò attorno ancora stupita. Ogni traccia di quell’incubo era sparita
completamente…
“All’inizio
non capivo quei sogni, quelle visioni. Erano scollegate in tutto, nelle ore, nei
giorni, negli stati d’animo. L’unica cosa che le collegava sembrava essere
Silent Hill e tutto ciò che avevamo vissuto in quell’inferno, ma Harry non mi
aveva mai parlato di incubi simili. Solo più avanti ipotizzai
che…”
Ma non finì la
frase. I tonfi alla porta l’avevano interrotta, e avevano catturato l’attenzione
delle due ragazze. Così Cheryl, svogliatamente, si alzò dalla sedia e andò ad
aprire la porta.
Sulla soglia
si presentò Douglas, con il suo impermeabile e un bastone su cui si appoggiava
per non sforzare troppo la sua gamba malridotta.
Stava meglio,
si vedeva dal viso e dal fatto che aveva ripreso a sorridere. Salutò Cheryl
facendo attenzione a chiamarla col suo vero nome, e poi diresse lo sguardo in
direzione di Cybil. Lei rispose sorridendo.
“Sono passato
a vedere come state” disse con la sua voce roca ma meno strascicata di quando
lui e Cybil si erano incontrati per la prima volta la
mattina.
Cheryl
aggrottò le sopracciglia.
“Cybil mi
stava raccontando di quando io e papà ci siamo trasferiti” disse senza mezzi
termini, con un tono di voce che trasmetteva quasi il fastidio per
l’interruzione, nonostante le facesse piacere rivederlo.
Douglas sembrò
quasi stupito. Con un gesto eloquente, guardò l’orologio che teneva al
polso.
“Ma avete
mangiato almeno?! Sono quasi le nove!”
“Le nove?!”
Cybil fu stupita di sentire quelle parole. Tra una pausa e un’altra, e con tutto
quello che c’era da dire l’intera giornata era passata. Non avvertiva la fame,
nonostante non avesse mangiato nulla dalla mattina.
Si voltò a
guardare fuori dalla finestra. Solo allora si accorse del leggero imbrunire, che
d’estate era talmente lento da passare quasi inosservato. Un rossore pallido si
intravedeva dietro ai palazzi che fronteggiavano l’edificio e la luna, piena per
tre quarti, si affacciava timidamente dietro una piccola nuvola di
passaggio.
“Accidenti,
non mi ero resa conto che fosse passato tutto questo tempo. Mi meraviglio che tu
non ti sia stancata a sentirmi parlare così a lungo!”
Improvvisamente,
sembrava più allegra e spensierata. Il ché sembrava strano per una donna che
fino a pochi secondi fa stava raccontando degli incubi che la tormentano e che
le impedivano di dormire sonni tranquilli. Cheryl ne fu quasi
irritata.
“Agente
Car…oh, scusi! Douglas. Le andrebbe di scendere con Cheryl per prendere qualcosa
da mangiare, mentre io metto un po’ in ordine?”
Quelle parole
stupirono entrambi gli ascoltatori; forse per motivi differenti, ma entrambi
furono colti di sorpresa. Ma prima che qualcuno potesse dire qualcosa, Cybil
riprese a parlare.
“La prego
Douglas…vorrei mettere a posto qui dentro…mi basterebbe
mezz’ora”
Cheryl non
seguì il discorso e pensava solo alla storia interrotta e al fatto che avrebbe
dovuto lasciare una persona in casa sua a mettere a posto la stanza in cui suo
padre era morto qualche giorno prima, ma Douglas riuscì a capire la sua vera
richiesta. Così prese delicatamente per un braccio Cheryl e cercando di usare un
tono rassicurante, tono non usato da troppo tempo, le
disse:
“Ha ragione
Cheryl. Non possiamo mangiare nel disordine, e mi aiuterai a portare le buste
così eviterò di farle cadere.” e tirandola leggermente verso l’esterno
dell’appartamento, nonostante la resistenza della ragazza, continuò “Potremmo
mangiare italiano! C’è un posto a pochi isolati da qui, non c’è nemmeno bisogno
di prendere l’auto!”
Lanciò un
ultimo sguardo all’interno della stanza, mentre tirava a sé la porta. Poté
intravedere Cybil che sorrideva con uno sguardo riconoscente, ma più
malinconico. Poi il rumore sordo della serratura fece sparire
tutto.
Cheryl tirò
con forza il braccio costringendo Douglas a lasciarla.
“Ma che ti sei
messo in testa?! Perché mi hai trascinato fuori? Io voglio sentire il resto
della storia! Il cibo lo puoi portare da solo, tanto non ho
fame!”
Cercò di
sorpassarlo, ma Douglas rimase
davanti a lei.
“Cheryl” Tirò
fuori una dolcezza nel tono di voce che non pensava di avere. “Lasciamola
sola per un
po’.”
Cybil vide la
porta chiudersi. Solo allora si accorse di quanto spesse erano le pareti. Non un
suono giungeva alle sue orecchie, e sembrava che in quella casa tutto fosse
completamente immobile, privo di vita. C’era talmente tanto silenzio che poteva
sentire i battiti del suo cuore che aumentavano leggermente. Solo il rumore del
vento giungeva alle sue orecchie dalla finestra aperta. L’ora era tarda, e tutti
erano nelle proprie abitazioni a mangiare, guardare la televisione, giocare,
studiare, fare cose normali.
La donna volse
la testa. Cercò un punto specifico. Seguì nuovamente le gocce rossastre sul
pavimento che percorrevano la stanza dal balcone alla
poltrona.
Gli occhi le
tremavano vistosamente, ma non c’era più nessuno che poteva vederli. Lasciò
quindi che la tristezza coprisse il suo volto, aggrottandone la fronte e
inumidendone gli occhi. Mosse qualche passo incerto. Poteva sentire l’odore del
ferro aumentare man mano che si avvicinava.
Pose una mano
sulla stoffa ruvida, e lentamente si affacciò oltre la spalliera. Quando
l’azzurro delle sue iridi incrociò la crosta marrone maleodorante sul cuscino,
le lacrime cominciarono a scendere copiosamente sul viso, e si abbandonò al
pianto.
Non aveva
avuto l’occasione per piangere, secondo lei. Stupido orgoglio! Non davanti agli
altri. Così, anche quando aveva visto la terra calare sul suo corpo, si era
trattenuta, e non aveva pianto l’uomo che le aveva salvato la vita. L’uomo di
cui si era innamorata…
Si inginocchiò
poggiando la testa sul bracciolo e continuando a
singhiozzare.
Nella testa
giravano tanti pensieri e ricordi, tanti “e se”, tanti progetti traditi, tante
immagini, così tanto da darle l’impressione di avere la mente completamente
svuotata. Sembrava che fossero rimasti solo lei e quella macchia di sangue
putrefatto incrostata sul cuscino di una poltrona. Quell’ultimo odore pungente
che era appartenuto a quell’uomo, che ora, semplicemente, non era
più.
Poi sentì di
nuovo il brivido alla schiena. Aveva imparato a
riconoscerlo.
Così si
asciugò le lacrime: neanche lei doveva vederla piangere
Avvertì il
cambiamento nell’aria
Sorrise con
rabbia