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Autore: Aelle Amazon    18/07/2013    6 recensioni
Evangeline Smith ha diciassette anni e pensa che la sua vita sia una vera merda. Odia tutti, odia anche se stessa.
Quando scoppia un improvviso temporale le cose cominciano a cambiare. Scopre che gli dèi Olimpi esistono e che sono stati imprigionati dai terribili Titani. Gettati in gabbie sporche, gli dèi hanno deciso di privarsi dei loro poteri per darli ad un mortale prescelto. I Discendenti- così sono chiamati i mortali prescelti- devono risvegliarsi e salvare gli dèi, altrimenti per il mondo sarà la fine.
Ed Evangeline è una di loro.
[STORIA MOMENTANEAMENTE SOSPESA]
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Buongiorno! C’è nessuno? C’è ancora qualcuno che mi segue?

Mi dispiace, e questa volta sono serissima. Faccio veramente fatica a scrivere negli ultimi tempi. Devo avere un blocco o qualcosa, perché per mettere insieme un capitolo sta diventando un’impresa titanica. Spero sia una situazione passeggera, perché se non piace a voi, non piace nemmeno a me.

Ho postato oggi, tagliando in due un capitolo, perché domani parto e non volevo lasciarvi senza ancora per tanto tempo. Visto che vi voglio bene? Per favore, non abbandonatemi.

Sono di fretta, quindi passo subito a ringraziarvi. Grazie a chi ha recensito lo scorso capitolo: thunders_lightnings, AleJackson, Dafne Rheb Ariadne, FherEyala, Ailea Elisewin, La sposa di Ade e Ryo13. Grazie a chi ha messo la storia tra le preferite/ seguite/ ricordate. Siete fantastici!

Concludo dicendo un’ultima cosa: questa storia è frutto della mia fantasia, è stata scritta da me e viene pubblicata solamente su EFP. Pertanto se la vedete pubblicata da qualche altra parte, avvisatemi e prenderò i giusti provvedimenti. 
Al prossimo aggiornamento! Spero presto!

Baci,

Aelle

 

 

 

 

Volcano

 

 

 

Capitolo 14

 

 

 

 

 

Fu il ticchettio di un orologio a destarlo dall’incoscienza. Era un rumore di sottofondo, l’unico, oltre al suo respiro, che riusciva a udire. La sua ripetitività lo calmava, gli rendeva facile credere di essere un adolescente normale, e non un ragazzo che, vittima di pesanti allucinazioni, si immaginava di essere attaccato da mostri altrimenti inesistenti.

Provò a muoversi, ma un dolore lancinante gli attraversò la spalla, impedendogli di fare qualsiasi cosa che non fosse stare sdraiato. Così rimase disteso in quel letto che non conosceva, il fiato grosso e un’unica domanda a ronzargli in testa. Cosa diavolo era successo?

Aprì gli occhi, richiudendoli all’istante. La luce era troppo intensa perché potesse sopportarla. Decise, allora, di sollevare le palpebre un poco per volta, in modo tale da potersi abituare. Non fu semplice, ma alla fine vinse la sua lotta contro il sole, il volto rigato da alcune lacrime. E giacque lì, immobile, guardandosi intorno con curiosità.

Era in una stanza completamente bianca. Una camera d’ospedale, senza dubbio. Perché si trovasse lì, però, ancora non riusciva a capirlo. Era troppo poco lucido per potersi ricordare le cose con sicurezza.

Era come se nella sua testa ci fosse uno strato fitto di nebbia. Vedeva sprazzi confusi di avvenimenti, ma altro non scorgeva. Magari entro qualche ora la nebbia sarebbe scomparsa e lui sarebbe stato in grado di capire ogni cosa. Forse, invece, non si sarebbe mai spostata. Perché, per quanto ne sapeva lui, poteva essere accaduto di tutto.

Un incidente d’auto pareva la soluzione più probabile. Eppure Zach conosceva troppo bene i suoi difetti per poter eliminare quell’opzione. In fondo, bere tanto era un vizio che mai era stato capace di eliminare. Molto probabilmente si era spinto troppo oltre i suoi limiti e si era ridotto in quel modo prima di accorgersene e poter smettere. Neanche le allucinazioni sembravano così improbabili se si accostava a quell’idea. I mostri nella sua mente non erano più tanto strani, ma solo un effetto della sua stoltezza.

Non ci mise molto a darsi dell’idiota. Anzi, si insultò con le parole peggiori che la sua mente fu in grado di elaborare. Doveva cambiare, si disse. Non solo per lui, ma anche e soprattutto per Ariadne. Per quanto tempo ancora lo avrebbe sopportato se fosse andato avanti a comportarsi in quel modo? Molto poco, si rispose. Ariadne era troppo buona per lui.

La porta si aprì con un cigolio quasi sinistro, che lo strappò bruscamente dai propri pensieri. La figura che si stagliò sulla soglia lo allarmò e Zach si ritrovò a pregare, a sperare con tutto il cuore, che non fosse uno di quei mostri che infestavano i suoi incubi.

Era invece una donna. O meglio, una ragazza. Gracile, non altissima, tanto che pareva sul punto di doversi spezzare da un momento all’altro. Eppure, il suo sguardo era quello di una vecchia, di qualcuno che aveva visto molte cose che la loro malvagità l’avevano fatta maturare troppo velocemente, che l’avevano costretta ad abbandonare la fanciullezza prima che potesse rendersi conto che quel pezzo della sua vita non le sarebbe stato mai più restituito.

La osservò avvicinarsi al suo letto e sistemare alcuni oggetti sul tavolino lì accanto. Medicine, sicuramente. Quindi lei doveva essere un’infermiera. Sì, il camice bianco che indossava non lasciava alcun spazio a dubbi.

Era così presa dal suo lavoro che non si era accorta che lui si fosse svegliato. Allora si schiarì la gola, tentando di attirare la sua attenzione. Ci riuscì. La ragazza si voltò di scatto a guardarlo e rimase a fissarlo per qualche istante prima di rilassarsi e sorridergli.

‘Ti sei svegliato, finalmente’ disse in un cinguettio musicale. ‘Come ti senti?’

Recuperare la voce fu la parte più difficile. Gli servirono molteplici tentativi prima che gli uscisse di bocca qualcosa di più coerente di un rantolo. ‘Mi fa male la spalla. Anche il braccio. E il petto mi prude.’ Rispose, scandendo bene ogni parola. ‘Cosa è successo?’

Lei non perse il sorriso. Forse si affievolì, ma non si spense. ‘E’ normale non ricordarsi. Stai tranquillo.’ Lo rassicurò. ‘Dai tempo al tempo e vedrai che ogni cosa si sistemerà. Sei sveglio, questo è l’importante.’

‘Da quanto … quanto tempo …?’

‘Da quanto sei qui? Diciannove ore’ Rispose.

Cadde un silenzio pesante. Per qualche minuto né lui né la piccola donna dissero nulla, ma rimasero a fissarsi a vicenda. Lui pensieroso, forse spaventato. Lei paziente. Lo osservava con quegli occhi gentili, quasi aspettandosi che Zach si lasciasse andare ad una crisi di panico, ma così non fu. Gli si appannò la vista, ma nient’altro accadde.

‘Nessuno è venuto a farti visita.’ Lo informò con cautela. Era sicura che prima o poi sarebbe scattato qualcosa che lo avrebbe fatto agitare.

Zach sospirò. ‘E nessuno verrà. Sono da solo.’

‘Cosa stai dicendo?’ lo rimbeccò lei. ‘Tutti hanno qualcuno.’

‘Non io. Ariadne mi odierà, per colpa mia ha passato un sacco di guai. Ma, poi, perché glielo sto dicendo?’

‘Sì, giusto. Perché lo stai dicendo a me? In fondo, sono solo un’infermiera che non sa nulla di te, ma che nonostante questo continua a curarti.’ Gli rispose, una punta di sarcasmo ad incendiarle la voce. Con un sorriso divertito premette un dito sulla spalla ferita di Zach, facendolo sobbalzare per il dolore acuto.

‘Mi scusi. Non avrei dovuto trattarla con così poco rispetto.’ Sospirò Zach. ‘E’ che a volte non mi accorgo, sa? Sono fatto così, il mio carattere è un po’ burrascoso.’

L’infermiera scosse piano la testa. ‘Non preoccuparti. Non sei il primo paziente a dirmelo.’ Si lasciò sfuggire una risata leggera. ‘E poi io sono molto impicciona, mi piace sapere le cose. Mi è sempre piaciuto. Fai bene a rimproverarmi!’

‘E’ un’infermiera strana lei, lo sa?’

‘Me l’hanno detto spesso in passato, sì. Ma ai tempi era un insulto.’

Zach rimase spiazzato dalla risposta. Certamente quella che si trovava davanti era donna di spirito, abituata ad andare avanti sebbene la strada fosse piena di ostacoli, di pericoli. Ma che quell’infermiera riuscisse a sopportare il suo temperamento senza esserne soffocata era qualcosa di diverso. Gli teneva testa, lo punzecchiava. Fino a quel momento solo Ariadne ne era stata in grado. Senza accorgersene, arrossì fino alla punta dei capelli.

‘Che c’è? Ti sei fatto silenzioso.’ Gli domandò lei. ‘Ti ripeto che non mi sono offesa. Non ti preoccupare!’

Il ragazzo girò la testa, imbarazzato. ‘Ha ragione, scusi.’

‘Ancora con queste scuse? Guarda che me ne vado, eh!’ lo prese in giro la donna con il camice bianco. ‘Scherzi a parte, Zachary. Non sentirti dispiaciuto per una piccolezza del genere. Ho passato situazioni peggiori negli Asfodeli, quando ero … ’ si ammutolì.

‘Quando era cosa?’ Zach aggrottò la fronte, curioso di sapere. ‘E cosa sono gli Asfodeli?’

Lei parve spiazzata e al tempo stesso spaventata dalla domanda. Le mani iniziarono a tremarle, così come anche le gambe. Cadde in ginocchio in un attimo, gli occhi spalancati e il respiro accelerato. Si dondolò avanti e indietro, mormorando sottovoce quella che poteva essere solo una ninnananna. Pareva che quella semplice e piccola canzone riuscisse ad alleviare le sue pene.

‘Ehi! Ehi, ti senti bene?’ Zach abbandonò il tono formale che fino a quel momento aveva assunto. Ora non c’era altro che paura. ‘Devo chiamare qualcuno, aspetta … ’ allungò a fatica un braccio verso il telecomando di emergenza sopra il suo letto.

‘NO! FERMO!’ gridò l’infermiera, quasi istericamente. Prese un respiro profondo e lo supplicò con gli occhi inondati di lacrime. ‘Per favore, non chiamare nessuno. Va tutto bene … sì, va tutto bene.’

Zach non si lasciò convincere. ‘No, per nulla. Tu stai male e ti serve un dottore, e anche abbastanza in fretta.’ Le sue dita entrarono in contatto con la plastica del telecomando. Gli mancava poco e poi avrebbe raggiunto quel maledetto pulsante rosso.

Lei si alzò, veloce, e gli afferrò il polso con fermezza, trattenendolo anche quando lui cercò di ribellarsi. Fece lentamente scivolare il palmo nel suo e strinse la sua mano, fissandolo con quegli occhi rossi e appannati dalle lacrime che ancora le scivolavano copiose sulle guance. Il suo aspetto distrutto non riuscì, però, ad offuscare la determinazione. C’era una volontà di ferro nel suo sguardo, nel suo corpo. Zach, tramite quel contatto, la percepiva chiaramente. Ma sotto di essa si nascondeva anche qualcosa di più.

Una profonda tristezza.

‘Per favore, non farlo. Io sto bene, è solo che … ’

‘Cosa?’ Zach non riusciva a crederle. Era strano, perché desiderava tanto poterlo fare. Era come se qualcosa glielo impedisse. ‘Come faccio a esserne sicuro? Scusa se te lo dico, ma a me non sembravi per nulla in salute, eh.’

Lei distolse lo sguardo, osservando un punto indefinito sul muro, e per un momento non gli parve più così tanto sicura di sé. Era più fragile, più piccola. Finalmente sembrava avere gli anni che il suo corpo minuto dimostrava. Ma fu un attimo passeggero. Rapida come quando, poco prima, gli aveva bloccato il polso, alzò le loro mani intrecciate e se le posò sul collo bianco, rabbrividendo impercettibilmente. ‘Ecco, ascolta.’

Zach fece per togliere la mano –non gli piaceva per nulla quella vicinanza, era sbagliata- ma l’infermiera gliela riacciuffò, combattendo contro la sua resistenza e premendogli poi due dita poco sotto l’orecchio.

‘Ascolta.’ Gli ripeté.

Dapprima non udì nulla, poi, pian piano un suono ritmico e costante rimbombò contro la pelle delle sue dita. Ci mise un po’ a capire di cosa si trattasse, ma quando infine ci arrivò non poté fare altro che rimanere a bocca aperta. Stava ascoltando il battito del cuore dell’infermiera. Ma la cosa che lo stupì di più fu che il suo battito non era singhiozzante, non era veloce, non era lento. Era fin troppo regolare. Era un suono calmo e tranquillo, rassicurante come poteva esserlo quello della pioggia che sbatteva contro i vetri di una finestra. E tutto era tranne che il battito di una persona malata o distrutta. No, era certamente il battito di qualcuno in piena salute.

La guardò, allarmato. ‘Non è possibile!’

‘Come vedi, Zachary, io sto benissimo.’ Gli sorrise, asciugandosi un’ultima lacrima ribelle dalla guancia.

Il ragazzo provò a ribattere, aprì la bocca, ma poi la richiuse. Non aveva parole per descrivere quello che gli passava per la mente in quell’istante. La sua testa era un uragano di pensieri confusi, e mettere ordine in quel disordine era un’impresa pressoché impossibile. Doveva provarci, però. Perché lui voleva comprendere, voleva sapere la verità.

‘Spiegami.’ La pregò. ‘Non capisco nulla.’

Lei gli si avvicinò, sedendosi accanto a lui sul letto. Gli sorrise, timida, e gli spostò una ciocca di capelli scuri dalla fronte, sussultando quando le loro pelli entrarono in contatto, quasi come se avesse preso la scossa. Zach non la cacciò come avrebbe dovuto fare, anzi si rilassò e attese.

‘Sei sicuro di voler sapere?’ gli chiese. ‘Non potrai più fuggire, dopo.’

Annuì. ‘Sono sicuro. Non voglio essere etichettato come una persona che vede cose inesistenti. Non voglio essere un pazzo.’

‘Oh, ma tu sei pazzo. Solo, non nel modo che credi.’ Gli assicurò con una risata lei. ‘E non guardarmi in quel modo. Lo sai che è la verità.’

Sì, lo sapeva. Zach non riusciva a capacitarsi del come e del perché, ma sapeva di essere un folle. Del resto, non ci si poteva immaginare tutte quelle cose mostruose e pensare che fossero solo menzogne. Un fondo di verità doveva pur esserci.

‘Ma perché sono così?’ le domandò. ‘Quella cosa non poteva essere reale. Era orribile, pareva uscita dall’inferno!’

L’infermiera lo guardò, comprensiva. ‘Non esiste l’inferno, Zachary. Almeno, non quello che conosci tu. C’è il Tartaro, che è qualcosa di molto simile, anche se non totalmente identico.’

Zach deglutì. Ricordava qualcosa. ‘Non … non capisco, davvero. Cos’è il Tartaro? Mi sembra di averlo già sentito da qualche parte. A scuola, forse. Sì, deve essere stato lì.’

‘E’ stato prima, molto prima. Lo conosci perché lui lo conosce.’ Gli spiegò. ‘E non provare a mentire con me, non funziona.’

C’era qualcosa che gli sfuggiva, ne era sicuro. Quella donna era animata dalle più buone intenzioni, ma dava per scontato qualcosa che per lui non lo era affatto. Chi era lui? Non poteva scoprirlo da solo, non ce l’avrebbe fatta. Aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse.

‘Chi? Chi è questo lui?’

‘Dioniso.’ Inclinò da un lato la testa. ‘Pensavo lo sapessi, visto quello che hai fatto.’

Dioniso?’ esclamò, incredulo. ‘Il tizio grasso e ubriaco della mitologia greca?’

‘Non ho mai detto che fosse mitologia, Zachary Winehouse.’ Lo riprese lei, con una punta di nervosismo nella voce altrimenti dolce. ‘E non insultare gli dèi, mai.’

Zach scoppiò a ridere. Gli doleva il petto, ma non gli importò. Gli venne naturale ridere, alleviava il peso che si sentiva addosso e che lo opprimeva, schiacciandolo sotto una mole soffocante. E non riusciva a smettere di farlo. Era come uno sfogo. Gli faceva male, ma non poteva farne a meno.

‘Oh, andiamo. Adesso la pazza sei tu!’ disse tra una risata e l’altra, le parole quasi incomprensibili. ‘Non esistono gli dèi!’

Lei gli tolse la mano delicata dalla fronte, dove l’aveva lasciata fino a quel momento. ‘Sì, invece. Devi credermi … ’

‘Se gli dèi esistono sul serio, allora tu cosa sei, una ninfa?’ rise sempre più forte. Davvero, non era assolutamente possibile. Darle retta era stata la scelta peggiore che avesse mai fatto.

La ragazza prese un bel respiro e gli afferrò il mento con una mano, costringendolo a fissarla negli occhi. Zachary doveva ascoltarla, era stufa di non essere creduta. Non voleva più vivere sotto quella maledizione tremenda.

‘No, non sono una ninfa. Sono Cassandra, figlia di Priamo, re di Troia.’ Disse con quanta più convinzione possedesse. ‘E sono morta.’

 

  
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