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Autore: Seehl    19/08/2013    0 recensioni
René ha tutto quello che una persona può desiderare. Un marito che lo ama, un figlio splendido, degli amici secolari che non lo lasceranno mai. La sua vita è felice. Lui vive, felice.
Finché non sopraggiunge la morte.
Non è un diario, quanto più una lettera, o un semplice sfogo, di un ragazzo nel fiore dell'età che affronta una malattia terminale che lo ucciderà in tre mesi. Un ragazzo che decide di farsi beffe della morte, e che vive fino all'ultimo attimo che gli è concesso dal suo Dio col sorriso sulle labbra e la determinazione a non far soffrire nessuno.
D'altronde, è solo un'arrivederci.
Questa storia è nata come un regalo di compleanno alla mia LoLe, e quindi la dedica è giustamente a lei. René non esisterebbe senza il suo Dani, e il René che è raccontato qui è con tutti suoi personaggi. E' qualcosa a metà, che abbiamo ruolato e scritto insieme, io ho solo allungato il brodo.
Enjoy~
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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2. Intermezzo~



 

Per il resto del mondo a me conosciuto erano giorni tranquilli, quelli del mio secondo mese. Dennis spesso portava i membri della band a casa nostra per la ‘merenda’, e poi passavano le ore a comporre in camera sua. Dani non intuiva niente, e continuava a vivere come se niente fosse. Canticchiava mentre rimetteva a posto la libreria, mi osservava mentre cucinavo e cercava di imitarmi, si sedeva in poltrona e scriveva, o leggeva, o suonava il violino.

Io passavo le ore a guardare fuori dalla finestra. Contemplavo la bellezza della vita, cercando di nascondere il pensiero della paura della morte. Nessuno se ne accorgeva, comunque, ero solo con le mie paure. Mi guardavo le mani, aspettandomi da un momento all’altro di vederle sfocate, o tremanti; sfioravo ogni cosa in punta di dita. Quant’era diverso toccare il velluto della poltrona, ora che era una cosa che non avrei potuto fare per sempre! E com’erano diversi il legno della libreria e quello della finestra!

Cominciavo a fare caso a tutto quello che ci sfugge, che mi era sfuggito, nonostante fossi così osservatore. Guardavo le pieghe della tenda e del tappeto, ascoltavo il rumore della casa. Il rubinetto del lavandino non era chiuso bene, una goccia cadeva ogni diciassette secondi. La lavatrice rombava, in un duetto con la lavastoviglie poco lontana. La risata di mio figlio saliva, forte e chiara, tra le risate dei suoi amici nella camera. Dani stava intonando un motivetto, mentre chiudeva uno sportello. Il tappo del barattolo di nutella, quando veniva svitato, faceva ‘pop’. Non ci avevo mai, mai mai fatto caso.

Anche gli odori erano diversi. C’era il profumo del disinfettante nel bagno, e c’era il deodorante spray che avevo tanto insistito per comprare - profumava di mughetti! - e che poi non avevo mai davvero considerato e apprezzato. C’era il profumo di dolci in cucina, e c’era l’odore di Dani in camera nostra. Il miglior profumo del mondo.

Ogni cosa era nuova. Importante- anzi, che dico!, indispensabile. Reimparai a camminare lentamente, cercando ogni particolare. A parlare piano per ascoltare il resto. Dani si stupì moltissimo della mia improvvisa fiaccagine. Mi guardava ciondolare per casa, indagatore. Sembrava volesse assolutamente capire cosa mi ‘stesse succedendo’.

‘Non sei più iperattivo! Che ti succede?’ buttava lì, con una risata. Io rispondevo con un sorriso, e scuotevo la testa. E continuavo a godermi ogni cosa, senza pensare che Dani potesse preoccuparsi per me.

Invece lo stava facendo. Me ne accorsi quando Cooper mi chiese la stessa cosa, un paio di giorni dopo. Allora non potevo più godermi tutto senza attirare l’attenzione. Dovevo tornare in me? Quel me faticoso e saltellante e infantile e seccante? Non mi preferivano calmo com’ero?
Evidentemente no. Perciò ammisi con un sospiro di essere stato piuttosto stanco, e che appena avessi ripreso un po’ di riposo sarei tornato come nuovo.

Cooper mi parve soddisfatto, e così anche Dani. Io, però, non sapevo come fare. Non ero iperattivo per scelta, se avevo un bisogno impellente di correre fuori alle tre cercando la pietra filosofale, lo facevo. Non mi inventavo le cose, come molti pensavano, solo per attirare l’attenzione.

Le cose le facevo sul serio.

Perciò, mi trovai a dover fingere di avere impellenti bisogni di correre in giro e fare rumore a casaccio. A loro andava bene così, in fondo nessuno capiva mai il collegamento che c’era tra una cosa e un’altra, quando parlavo. Potevo uscirmene con qualunque cosa, e nessuno ci avrebbe fatto troppo caso.

Era perfetto!

E dannatamente faticoso.

 

Una di quelle sere, Dennis ci comunicò che sarebbe stato fuori per la notte, quindi Dani ed io decidemmo di passare un po’ di tempo insieme, a passeggiare sotto le stelle. Era una cosa che non facevamo da un po’, con la musica e nostro figlio e impegni di altro genere.

Quella sera si stava bene. Tirava vento, ma non troppo, abbastanza da rendere fresca l’aria senza disturbarci scompigliandoci i capelli. Una leggera brezza, che sembrava messa apposta per scacciare l’afa di quella sera di inizio giugno.

Camminavamo vicini, Dani aggrappato saldamente al mio braccio con entrambe le mani, io che tenevo la mano sinistra nella tasca della giacchetta. Avanzavamo lentamente, senza fretta. Intorno a noi, le macchine correvano avanti e indietro, come le persone e le luci, ma le stelle se la prendevano comoda, e noi con loro. Nessuno avrebbe potuto mettere fretta al passaggio della luna, solo Dio. Ed ero certo che Dio non mi avrebbe fatto scherzi di quel genere- voglio dire, me ne aveva già fatti abbastanza, no? ..

Dani era l’addetto a guardare i miei piedi affinché non inciampassi in qualcosa. Io ero troppo intento a stare col naso all’insù per curarmi di evitare di rompermi l’osso del collo.

L’universo era così bello. In città non si vedeva bene, sì, ma si vedeva. Puntini che squarciavano il nero della notte, puntini di luce brillante, lontanissimi da noi, eppure così vividi. Così magici.

Mi piacevano le stelle e mi piacevano le storie che si potevano tirare fuori dalle costellazioni. Io non ne sapevo nulla, però, era Cooper l’esperto che a volte provava a insegnarmi qualcosa. Ma ogni notte le stelle si rimescolavano, non riuscivo più ad identificarle.

Ce n’era una che riconoscevo sempre, era vicina alla Luna e splendeva, splendeva come non si sa cosa. Cooper mi aveva detto che era Venere. Quindi, praticamente non era una stella. Ma nel suo non essere una stella era speciale. Alzai la mano, indicandola.

‘Dani, quella è la nostra stella.’ Affermai. Lui alzò gli occhi e seguì il mio dito con la fronte corrugata, fino a trovare cosa stavo indicando. Poi si volto con fare interrogativo.

‘Perché proprio quella?’

‘Perché non ricordo le altr- perché splende più delle altre. E perché è vicina alla luna, sì.’

Non nascose una risata, mentre si riaccoccolava sul mio braccio.

‘Va bene, va bene. La nostra stella. ..’

‘.. Se dovessimo essere separati per qualunque motivo, ci basterebbe guardare la stessa stella nello stesso momento. Viviamo tutti sotto lo stesso cielo, bene o male.’

Dani annuì, assorto. L’idea gli piaceva di sicuro. Continuammo a camminare lentamente.

‘Perché dovremmo essere separati, René?’

‘.. beh, non lo so, magari.. magari ti offriranno un lavoro e tu andrai lontano per seguirlo..’

‘Rinuncerei al lavoro, come lo faresti anche tu. Non c’è motivo di separarci, stiamo bene così.’

Rimasi in silenzio, ma affrettai il passo. E lui se ne accorse.

‘.. René, c’è qualcosa che non va?’

‘No, va tutto perfettamente. Tutto.. tutto perfettamente.’

E lui capiva che non era così. L’aveva capito eccome- non che ci volesse molto. Potevo provarci quanto volevo, ma dannazione, stavo sempre morendo di un tumore al cervello.

Mi strinse il braccio e non commentò ulteriormente. Lo amai, per quello spirito di fiducia, e mi odiai profondamente, perché come con Andy la stavo tradendo.

A un certo punto, i nostri occhi si incontrarono. Io li avevo abbassati sui miei piedi e lui alzati alle stelle, nello stesso momento e, puff!; si incontrarono. Tenni alto il contatto visivo per qualche secondo. Poi tirai fuori il miglior sorriso che potessi fare in quel frangente, e girai su me stesso.

‘Torniamo a casa? Ho improvvisamente voglia di fare l’amore con te.’

Inutile cercare di descrivere le migliaia di tonalità di rosso che prese la sua faccia. Sorrise, imbarazzato come non mai, e annuì piano.

‘Va bene. Non capirò mai come tu possa- ah, lasciamo perdere.’

C’era da dire che ero già stanco. Non avevamo camminato molto, eppure ero affaticato. Soltanto l’idea di fare dell’altro movimento mi stancava, ma l’avevo proposto io. E poi, alla fin fine, non mi sarei tirato indietro per niente al mondo.

Così, ci ritrovammo accoccolati, dopo. Lui si era raggomitolato sul mio petto, io prendevo possesso della parte di letto non occupata da lui. Ci respiravamo addosso lentamente, lui sul mio collo, io sui suoi capelli. Stavamo bene, comodi, al caldo ma non troppo. Quel che basta per stringersi e coccolarsi.

Dani si addormentò quasi subito. Percepii il suo respiro farsi leggermente più pesante, le sue braccia stringermi meno forte. Io rimasi a guardarlo, impassibile, anche se ero stanco.

Da addormentato, Dani era ancora più bello. Rilassato, con un sorriso stampato sul volto. Se ti addormenti con un sorriso, vuol dire che sei felice, e lui era felice grazie a me. Ero lusingato da quel complimento silenzioso che tutto Dani stava cercando di regalarmi.

La stanchezza, però, ebbe il sopravvento pochi minuti dopo. Crollai, il naso affondato tra i ricciolini e gli occhi che si chiusero sull’immagine del lenzuolo azzurro.

Ma non stavo sorridendo.

 

Il fiume è prosciugato. L’aria è secca. Gli alberi sono appassiti, l’erba è gialla. Non ci sono fiori, non c’è un punto di colore da nessuna parte. Solo i colori del morto.

Non si sente un suono, non un uccellino, non una voce, non un clacson, non una nota. Niente di niente. Lo statico di una fotografia d’epoca.

Poi un movimento. Dal letto del fiume, dei fili neri escono strisciando. Non sono fili, sono lombrichi. Grossi, grassi lombrichi che si nutrono della vita che è rimasta, di quel poco e niente di vita che c’è in quello scenario. E sono paralizzato. E non posso muovermi.

I lombrichi strisciano verso di me, veloci, famelici. Sono così vivo, per loro. Se sapessero quanto mi manca non si avvicinerebbero nemmeno.

No, aspetta..! Si sono fermati. Non è me che vogliono. Abbasso gli occhi per controllarmi, e sono un tronco. Un tronco appena appassito. Le foglie non si sono ancora staccate tutte. Sono un salice, un salice piangente.

Ma non c’è più acqua per permettermi di piangere.

E all’improvviso, brucia. La mia testa brucia. Il fuoco è ovunque, divampa, mi divora e mi danza intorno, e cattura le foglie, i rami, tutto di me. E mi brucia. Diventerò cenere! Non c’è nessuno che mi può aiutare? Nessuno? Aiuto! Aiuto! Ho bisogno.. di aiuto..

 

Mi svegliai di soprassalto, un sussulto terrorizzato. Dani con me, anche più spaventato di quanto non fossi io. Si agitò per qualche attimo, poi piantò gli occhi nei miei, interrogandomi con lo sguardo.

‘.. era solo un brutto sogno, Dani. Solo un brutto sogno..’

‘Un brutto sogno che ti ha fatto quasi urlare. René, non va tutto bene. Sono giorni che ti comporti in modo strano! Dimmi cosa succede!’

‘Non succede niente!’ Bugie. ‘Sto bene.’ Bugie! ‘E’ solo che sono un po’ stanco.’ Bugie!

Mentire a Dani, io! Mentirgli così spudoratamente.

Ero nel panico, però. Non potevo fare altro. Presi un respiro forte, e tirai un sorriso che, però, non doveva essere molto convincente, visto la smorfia con cui mi rispose Dani.

‘.. Ti faccio una camomilla?’

‘No, no! Non preoccuparti, ti prego. Vado a prendere una boccata d’aria, torno subito.’

Mi alzai dal letto e presi un pantalone di tuta qualunque, per poi uscire a passi strascicati, guardando di fuori. Le stelle, alle.. che ore erano? Le tre?, alle tre e ventiquattro di notte, si vedevano meglio. Le macchine passavano con meno frequenza, tre ragazzi si erano accampati nel giardinetto sotto casa, e probabilmente erano ubriachi o fatti, viste le risate che arrivavano fino a me.

Le stelle continuavano a brillare. Il vento, per dimostrarmi che non dovevo avere paura, che era stato solo un sogno, venne a scompigliarmi il ciuffo amorevolmente.

Io piangevo. Piangevo perché non volevo morire. Piangevo perché non voglio morire. Piangevo perché c’era un mondo, lì fuori, che stava vivendo la sua vita, e io andavo dritto verso la mia morte.

Un dottore non dovrebbe dirti che stai morendo. Un dottore dovrebbe guarirti in modo definitivo. Un dottore dovrebbe assisterti fino a dire ‘ecco, ora non morirai più per questo tumore!’, e sorridere. E farti sorridere. E far sorridere la tua famiglia.

Forse io non gliel’avevo permesso, al dottore. E, alla fine, non era sicuramente colpa sua se mi stava succedendo ciò che stava succedendo. Non c’era motivo di rimpiangere la mia scelta di tenere il silenzio. Stava andando tutto a gonfie vele.

La testa mi girava e sentivo il bisogno di rientrare, ma non ero ancora pronto. Non con gli occhi gonfi di pianto.

Dani non sarebbe uscito. Lo conoscevo bene, lo conosco bene, se gli dico che voglio uscire da solo, vuol dire che ho i miei motivi. E poi, poteva essere qualunque cosa. Di certo non gli sarà passato neanche per un secondo nel cervello che io stessi morendo.

Mentre riflettevo e piangevo, la mia voce, un po’ incrinata dal pianto, intonava incerta l’unica canzone che sapevo completamente a memoria.

Ce n’est qu’un au revoir, mes frères, ce n’est qu’un au revoir, ouì, nous, nous reverrons, mes frères, ce n’est qu’un au revoir..’

Forse fu questo ad attirare fuori Dani, dopo un po’. Forse la mia voce era cresciuta d’intensità e lui si stava chiedendo cosa fosse successo. Arrivò a passi felpati, e mi si avvicinò silenziosamente, tanto silenziosamente che non smisi di cantare e di piangere.

Non disse niente. Mi abbracciò da dietro, appoggiando il volto alla mia schiena. Sussultai, interrompendo qualunque cosa stessi facendo, e lui strinse più forte.

Dopo qualche altro attimo di silenzio, ripresi a cantare, più calmo. E lui respirava, e mi stringeva, e io potevo sentire quanto mi era vicino, quanto mi amava, quanto voleva dannatamente potermi aiutare e quanto si sentiva impotente nei miei confronti.

Terminai con l’ultima strofa, mi girai e me lo strinsi al petto. Lui ricambiò la stretta restando in silenzio, anche se i suoi occhi compensavano le domande che la sua bocca non stava facendo. Ci lasciammo cullare dal vento per un po’: era piacevole, ed era il tipo di serata che cercavo quando volevo stare solo con lui.

Lo sentii brontolare qualcosa contro il freddo, mentre mi trascinava in casa. Quale menzogna, fuori si stava benissimo. Mi fece sedere a letto e mi portò una tisana e della nutella. Non bevvi né mangiai nulla, semplicemente mi rimisi sdraiato, e lui si sdraiò con me.

‘Se l’incubo ritorna ci sveglieremo di nuovo insieme, va bene, René?’

‘.. Ti amo, Dani.’

In quel momento, non c’era nient’altro da dire.

 

Avevo smesso di fare gli incubi. Continuavo a fingere di stare bene, e forse ci stavo riuscendo. Anche Dani si era convinto che avessi mangiato pesante, o qualcosa di simile, quella sera. Non mi chiedeva più con così tanta frequenza se stessi bene, si limitava a fidarsi di me.

Una mattina, mi raggiunse in salotto tenendo il cordless, lo sguardo rilassato. ‘E’ per te’, una chiamata di qualcuno, che male poteva esserci?

‘René?’

Il male di un Andrew che aveva scelto di non fidarsi più, giusto. Mi paralizzai, giusto il tempo di prendere fiato e cercare di rilassarmi sulla poltrona.

‘Andy! Cos’è, hai del tempo e possiamo vederci?’ dissi, cercando di sembrare esaltato come al solito.

‘Più o meno.. volevo parlarti.’

Oh, di solito ero io che volevo parlare con lui, non il contrario. Io cominciavo a dire roba, e lui si faceva catturare e chiacchierava volentieri. Ma non era mai, mai successo che fosse lui a dovermi dire qualcosa.

‘.. va bene! Al telefono o..?’

‘Questo devi dirmelo tu. Al telefono o in faccia?’

Restai di nuovo in silenzio. L’Andy che conoscevo e che avrebbe insistito per farmi rispondere era scomparso, dall’altra parte della cornetta c’era soltanto silenzio. Aspettava.

‘.. Sei tu che devi parlarmi.’, azzardai, ‘scegli tu come ti è più comodo.’

Dani mi guardava fisso, con gli occhi mi suggeriva di invitarlo a casa per un caffè. Scossi la testa, lui scrollò le spalle e uscì dal salotto.

‘.. C’è qualcosa che non vuoi dire a nessuno. E ti fa stare male.’ Sibilò. Avrei dovuto pensarci, avrei dovuto pensarci! Potevo nascondere qualunque cosa a chiunque, ma non ad Andy! Mi maledissi.

‘Non- non è vero. Non c’è niente.’ Mormorai in tutta risposta, con la voce calma. Dani non doveva tornare in salotto e ascoltare.

‘Sì, ma questo ‘niente’ ti fa stare male! Io non..’ Una pausa. ‘Io non voglio che tu stia male. Ecco.’

I sentimenti che provai di fronte a quella dichiarazione non possono essere descritti, fu un misto tra il dolore della bugia e la felicità di saperlo così amico, così vicino, così attento a me anche con tutto quello che aveva da fare. Sospirai, passandomi due dita sulla fronte.

‘Perché vuoi saperlo a tutti i costi?’

‘Per lo stesso motivo per cui tu mi hai seguito per ore chiacchierando del più e del meno. Perché ci tengo a te e perché sei mio amico.’ Era infervorato. ‘Spero tu sia soddisfatto, ora.. ora dimmelo. Per favore.’

‘.. Tu però devi promettermi di non dirlo a nessuno.’ Mi ero alzato, e avvicinato alla finestra. Guardavo fuori, stringendo forte il cordless in mano, e riflettevo sulle conseguenze della mia confessione.

‘A chi dovrei dirlo, René? Sfogati. Tra me e te. Prometto.’

Lasciai passare altri secondi, in cui cercavo disperatamente qualcosa a cui attaccarmi. Un punto di inizio per spiegargli che stavo morendo. E mi resi conto che non c’era modo di ‘cominciare l’argomento’. Avrei potuto dire soltanto qualcosa di crudo, una stilettata al cuore. Ho un tumore al cervello e mi resta un mese e mezzo di vita. Qualcosa di simile, giusto?

‘.. Ho paura del tempo che sta passando. Non riesco a fermarlo. Scorre troppo velocemente e io mi ritrovo a- a rimpiangere cose che non ho potuto fare o cose che non riuscirò mai più a fare. Sì. Ecco.’

Non era del tutto una bugia. Forse. Beh, comunque, non la peggiore che fosse uscita dalla mia bocca in quei giorni. Sentii l’atmosfera rilassarsi leggermente. Andy sembrava non aver neanche lontanamente pensato alla mia prossima morte. Decisi di continuare su quel falso pensiero, che poi non era tanto falso, ma va bene.

‘Hai paura di perdere ciò che hai?’ chiese. Annuii, poi mi resi conto che non poteva vedermi e risi piano.

‘Sì. Una stupidaggine. Solo che mi dà da pensare.’

‘Ma René, non c’è niente da rimpiangere e niente di difficile. Ti basta togliere le pile dall’orologio.’

Non pensavo che Andy fosse il tipo da dire una cosa del genere. Probabilmente lui non avrebbe mai tolto la pila dal suo, di orologio, troppi impegni e troppe riunioni e troppo lavoro. Ma io che ero uno spirito libero, un fiume impetuoso, non avevo bisogno di tempo. Chi poteva fermarmi, una diga?, l’avrei buttata giù. E Andy questo lo sapeva. Probabilmente mi disse di staccare solo perché era consapevole che io, al contrario di lui, potevo benissimo permettermelo.

‘.. Hai perfettamente ragione. Penso che lo farò! E mi godrò il tempo che non passa.’

‘Bravo! .. Sono felice che non fosse niente di serio.’

‘Sono felice di avere un amico come te, disposto ad ascoltare anche queste cose stupide. Grazie.’

‘Non ringraziarmi. Dato che non è nulla di urgente, scappo, ho da fare. Alla prossima!’

‘Sì, ecco, sì- adieu.’

‘Quanto sei melodrammatico.’

Attaccò, e l’eco della sua risata finale risuonò per qualche secondo nella mia testa. Staccai il telefono dall’orecchio, osservando la schermata arancione spegnersi lentamente. Poi mi asciugai sbrigativamente le lacrime, rimisi a posto il telefono e andai ad abbracciare Dani.

 

Di Dani amavo tutto, e con ‘tutto’ intendo davvero tutto. Dani era perfetto nel suo camminare con i piedi storti, a papera. Non avanzava a falcate troppo larghe, camminava lento, niente e nessuno potevano mettergli fretta. Dani era perfetto col profumo che si metteva ogni mattina, usciva dal bagno e profumava di buono, di Dani. Impregnava le pareti, i soffitti, i mobili, me, ed era sempre bello prendere una maglietta e sentirla profumata di lui. Dani era perfetto nei suoi gesti e nelle sue espressioni. Quand’era felice, e sorpreso, spalancava la bocca, portava le mani a coprirla, e aveva le pupille dilatate e il sorriso che sostituiva l’espressione impreparata. Quando era imbarazzato, distoglieva lo sguardo con un rossore sulle guance che variava d’intensità a seconda del motivo dell’imbarazzo: un complimento equivaleva a un leggero rosa, quando gli chiedevo di fare l’amore prendeva tanti bellissimi colori, forti e vividi. Dani era perfetto quando parlava, il tono di voce basso, per mettere a proprio agio l’interlocutore. Parlava e mentre parlava accompagnava il discorso a volte con le mani, a volte con gli occhi. Gesticolava in modo eccentrico, oppure lo dimenticava e restava perfettamente immobile. Quando era al telefono non stava mai fermo, camminava per tutta casa, si appoggiava a un muro, poi riprendeva ad avanzare, parlando e ascoltando, e parlando ancora, e fermandosi ad ascoltare. Dani era perfetto anche quando cantava, e quando canticchiava e basta. Mi piaceva sentirlo intonare qualche nota incerta mentre faceva altro, ma quello che adoravo davvero era sentirlo cantare a piena voce. Lo sguardo portato in alto, la concentrazione per mantenersi dritto, le mani che guidavano le note, si alzavano verso l’alto se la canzone era impegnativa e alta, si abbassavano in caso contrario. Si dirigeva da solo, dirigeva l’aria e le corde vocali, e il diaframma, e la bocca spalancata in una ‘o’ anche quando cantava una ‘a’, come i cantanti lirici italiani. Ed era bravo, oh, se era bravo. Sarei stato le ore ad ascoltarlo, e a cantare con lui. A volte stonavamo; le nostre voci erano strumenti che non riuscivamo del tutto a controllare. In quei casi Dennis usciva dalla camera con uno sguardo disperato, e ci intimava di fare silenzio. Lui sì che aveva l’orecchio assoluto. E allora Dani rideva, vergognandosi della stonatura, e io ridevo con lui. Gli brillavano gli occhi.

Dani era perfetto quando suonava. Sapevo a memoria il rituale. Apriva la custodia del violino, lento, controllando i movimenti per non rovinarla, estraeva lo strumento tenendolo con ferma delicatezza, per impedire di farselo sfuggire dalle mani, poi lo intersecava nell’incavo tra spalla e collo. Tenendolo con una mano, le dita che già andavano a pizzicare le corde per verificare che fosse accordato, l’altra mano prendeva l’archetto. Terminato di preparare lo strumento, si preparava lui: divaricava leggermente le gambe, stiracchiava le spalle, chiudeva gli occhi e inclinava il collo facendo ondeggiare piano i ricciolini. Poi posava l’archetto sulle corde e suonava un’ottava verso l’alto e verso il basso. Valutato che tutto era al suo posto, cominciava la magia. A malapena seguivo le dita che si rincorrevano, sfrenate, sul legno. Incedeva con decisione, eppure con eleganza, e l’archetto si muoveva aggraziato secondo i suoi desideri.

Mentre la musica lo circondava e le note gli risuonavano nelle orecchie, sorrideva. Era un processo lento: prima accennava un sorriso, tirando su un angolo della bocca. Poi l’altro. Poi stendeva le labbra in un’espressione soddisfatta, poi tirava fuori la lingua, la mordeva piano, e il sorriso era improvvisamente più ampio. A volte, se la musica era perfetta, priva di stonature, e originale, rideva.

Rideva piano, sì, per non disturbare il suo strumento e le sue braccia che erano automi, però rideva. La musica poteva renderlo felice quanto lo rendevo felice io, e questo faceva felice me. Il violino non l’avrebbe mai abbandonato.

Dani era perfetto qualunque cosa si mettesse addosso: Dani era perfetto con un completo, era perfetto in pigiama, era perfetto in camicia e pantaloni, era perfetto con una mia felpa, era perfetto con un cappello ed era perfetto con degli occhiali, da sole o meno, era perfetto in costume da bagno ed era perfetto anche nudo. A volte mi interrogavo su come potessero stargli dei vestiti da donna, ma lui non era mai stato d’accordo con le mie insistenti richieste di farglieli provare.

Dani era perfetto con me e per me. Dani sapeva come farmi stare buono, come farmi stare bene, come farmi stare. Dani sapeva, punto, sapeva tutto di me e sapeva come farmi cambiare umore in pochi attimi. Dani mi ascoltava, Dani aveva la pazienza di seguire i miei discorsi anche se non ne seguiva il filo, Dani mi accompagnava in ogni missione impossibile che io mi mettevo in testa di compiere, Dani sopportava la mia insonnia, la mia iperattività, il mio continuo bisogno di affetto.

Dani, in sostanza, mi amava.

Ed era tutto ciò di cui avevo sempre avuto bisogno. Per lui avrei rinunciato a Cooper, ad Andy, a Federico. A mamma e papà. A Dennis, anche. A Moni, sì, anche a Moni. Alla musica. Alla nutella. Qualunque cosa, pur di averlo con me. E anche lui avrebbe rinunciato a qualunque cosa, e sarebbe stato con me in ogni frangente, anche il più spaventoso, povero, pericoloso o difficile. Me l’aveva promesso mentre ci scambiavamo le fedi nuziali, e anche molto prima, quando mi aveva preso le dita e aveva risposto al mio ti amo.

 

Era fine giugno, Dennis e gli altri ragazzi del gruppo avevano organizzato un concerto di mezza estate, e io ero impaziente di vedere mio figlio sul palco. Anche perché sarebbe stata la prima e l’ultima volta, sicuramente. Quella sera l’incubo che mi aveva soltanto sfiorato per tutto il tempo precedente cominciò a prendere spaventosamente forma, e in modo troppo veloce.

Ero seduto accanto a Dani, nella sala c’erano amici, conoscenti, ragazzi della scuola di Dennis, un mucchio di persone che avrebbero apprezzato la musica di quel gruppo qualunque cosa avessero suonato, e questo mi rassicurava sul buon esito della serata. Pensavo all’umore di Dennis che sarebbe volato alle stelle, e sorridevo tra me e me.

Faceva caldo, il vociare delle persone accompagnava dolcemente la calma che c’era in quel luogo. Strinsi piano la mano di Dani, sorridendogli e appoggiandomi alla sua spalla.

Per un momento, per un singolo, misero, momento, mi dimenticai di quello che stavo passando. Ma non archiviai soltanto, me ne dimenticai proprio. Era tutto troppo bello e troppo perfetto per pensare a qualunque cosa.

Dani aveva risposto alla stretta, forse intenerito. Si inteneriva sempre quando esprimevo effetto a caso. Era una cosa che io adoravo di lui, perché a mia volta anche io mi lasciavo stupire dalla sua dolcezza. Il nostro rapporto era un continuo stupirci vicendevolmente, e andava bene così.

Dennis salì sul palco per primo, con un sorriso smagliante e la chitarra al collo. Salutò la sala come se fosse una folla infinita, e cercò nelle nostre espressioni l’approvazione che gli avrebbe dato la carica giusta per cominciare. Lo seguì Charlene, la sua migliore-amica-da-sempre, con cui aveva cantato, ballato, suonato, fatto di tutto. Charlene era stata benedetta da una voce splendida, e quindi immediatamente reclutata nella band che andava formandosi. Appresso a lei, salirono i loro ‘nuovi amici’, la batterista Jude e il bassista Mathias. Praticamente, si erano conosciuti su un forum musicale, e si erano trovati per suonare tutti insieme. Si erano piaciuti, e così era andata. Dani non lo sapeva, ma io ero a conoscenza dell’attrazione che Dennis provava nei confronti della sua nuova batterista. A me lo aveva detto. Mi aveva chiesto di raccontargli come avessi fatto colpo su Dani, pensate un po’.

Ero certo che, con la ragazza che nascondeva un certo timore per il palcoscenico dietro il montare dei piatti aggiuntivi alla batteria, a Dennis sarebbe bastato essere se stesso per conquistarla in un battibaleno. Peccato che lui non ne fosse del tutto convinto.

Afferrò il microfono, si schiarì la voce e presentò la band, i componenti e le cover che avrebbero eseguito. Tutte canzoni a me anonime, a parte un paio che dimostravano che qualcosa da me l’aveva imparato. Cominciarono con una canzone che doveva scaldarli tutti quanti, e ci riuscì indubbiamente. Charlene agitava i capelli, le guance rosse per lo sforzo di cantare al meglio, mentre Dennis le faceva il controcoro dal microfono secondario. Li guardavo impegnarsi al massimo e vedevo in mio figlio il me bambino.

Giuro che mi commossi. E Dani se ne accorse, e ridacchiò, e mi schioccò un bacio sulla guancia.

Suonarono tutta la scaletta, alcuni del pubblico si erano alzati e cantavano con loro, Dani ed io rimanevamo al nostro posto, a battere le mani più forte possibile alla fine di ogni canzone.

Alla fine, Dennis fece un cenno agli altri, riprese possesso del microfono primario, e piazzò gli occhi su di noi.

‘Ora, dato che i miei fantastici genitori stanno per festeggiare il loro quindicesimo anno di matrimonio, avremmo una sorpresa per loro.’, e ammiccò. Sentii Dani paralizzarsi, incuriosito; io mi sporsi avanti, cercando di intuire cosa potesse essere la sorpresa.

La sorpresa era ‘you’re the one that I want’, la canzone di John Travolta e Olivia Newton. Una di quelle canzoni cult ‘da vecchietti’, che Dennis tendeva a schifare quando veniva messa a tutto volume in salotto, e che Dani ed io non ci risparmiavamo mai di ballare.

‘Sarebbe una specie di vendetta perché me la fanno ascoltare troppe volte alla settimana, e non solo, ballano pure.’ Risate. ‘Ora ballerete perché il vostro adorato figliolo vi ha fatto una sorpresa e ve lo chiede. Su, in piedi!’

Come se per me fosse un problema. Un momento, ed ero in piedi. Dani sembrava più restio, fui costretto a trascinarlo al centro della sala con la forza, e lui rideva, ed era tutto rosso, e non voleva assolutamente perché ‘stai scherzando vero oddio che cosa imbarazzante René lasciami’.

Ovviamente non lo lasciai.

Dennis sbuffò, incrociò le braccia, e chiese ad altri volontari dal pubblico di venire a ballare per tirare fuori il ballerino che era in Dani. E probabilmente era una cosa programmata che tutti sapevano a parte noi, perché subito Cooper sbucò dal nulla trascinandosi un Len più imbarazzato di Dani, e Federico aveva due scope, una per mano, perché sapeva perfettamente che Len sarebbe fuggito, checché Cooper ne dicesse.

Alcuni ragazzi si alzarono per venire a ballare, e alla fine lo spazio tra pubblico e palco non era poi così tanto vuoto. C’era da dire che chiunque fosse al faro centrale faceva di tutto per mettere in evidenza me e Dani, e a me andava benissimo, ma Dani continuava a balbettare che non se la sentiva. E non ne potevo più- insomma, conosco Dani, sapevo perfettamente come poteva scatenarsi anche davanti a una folla, col violino, perché non ballando? Solo perché nessuno dei due era veramente capace su un ballo di Grease?

Gli presi il volto tra le mani e lo baciai, accompagnato da un coro di ‘uuuh’ degli idioti nel pubblico. (Cooper e Federico.)

Dani si rilassò immediatamente tra le mie braccia. Io lo facevo stare così bene. Era tutto merito mio. Mi sentii ancora più motivato a ballare, quando mi staccai dalle sue labbra, lasciando il naso e la fronte sui suoi. Lui sorrise, sospirò, e annuì.

Per il primo minuto, in cui tutti ridevano, cantavano, ballavano, battevano le mani, fischiavano, combattevano con le scope, non pensavo a niente. L’adrenalina e la voglia di vivere che mi scorrevano dentro, facendomi battere forte il cuore, non mi preoccupavano: era tutto normale, per me. Ballavamo, Dani si era attaccato alle mie spalle perché gli avevo pestato i piedi e cercava vendetta, Dennis aveva una voce quasi migliore di quella di John Travolta e tutto era meraviglioso.

Finché non vidi tutto buio, e mi bloccai sul posto. Immobile. La musica c’era, la canzone anche, il vociare pure non era scomparso, ma non vedevo nulla. Mi feci prendere dal panico, girai su me stesso, caddi a terra con un tonfo. Qualcuno rise, Dani si chinò su di me, preoccupato.

Ero cieco. Ero cieco e non avevo neanche fatto in tempo ad imprimermi i lineamenti di Dani nella mente. Annaspai, agitando le braccia, cercando di formulare una frase di senso compiuto. Poi presi a sbattere velocemente le palpebre, e piano piano rimisi a fuoco la stanza. Il volto di Dani era lì. Una smorfia preoccupata, ma era lì.

Ero talmente sollevato che risi forte. Mi rialzai, gli ripresi le mani, e ricominciai a ballare. Vidi il sospetto sparire dalla sua faccia e il sorriso tornare a splendere. E lo contemplai, quel sorriso, e quel volto. L’ho già detto, Dani era tutto perfetto.

La canzone continuò per dieci minuti buoni, ripetendo gli ultimi accordi per chissà quanto. Tutti erano troppo presi a divertirsi per notare che sarebbe dovuta essere finita da un po’- e poi perché finirla, se tutti si divertivano?

Quando l’ultimo accordo di chitarra svanì nell’eco degli amplificatori e la voce di nostro figlio annunciò che il concerto era ufficialmente finito, ringraziando tutti gli astanti e offrendo una birra a tutti al bar di Cooper, mi girava la testa, quindi mi accasciai su Dani, e ci rimasi per tutta la sera, anche al bar, dove ‘una birra’ si trasformò nel continuò del concerto, solo offerto dalla radio mezza rotta di Coop e dagli eventuali aspiranti cantanti che provavano il karaoke.

Il ballare non mi aveva provato tanto quanto il panico del buio, ma preferii non rischiare ulteriormente e rimasi piuttosto calmo, a parlare, a ridere e, se necessario, anche a cantare. E la testa mi girava.

Non sono un idiota e non lo ero neanche allora. Se il mio corpo mi faceva quegli scherzi, voleva dire che non mancava molto. Un mese, anche di meno, secondo il calendario che avevo sfogliato mentalmente. Quando Cooper mi offrì una birra, la buttai giù in un sorso solo.

Avevo tanta, tanta paura.

 

Nei giorni seguenti la paura non scemò, anzi: ogni cosa che facevo, anzi, ogni cosa che provavo a fare, mi costavano tutte tanta fatica. ‘Tanta’, poi. Ero all’inizio, ancora non sapevo quanto sarebbe diventato difficile. Quanto impossibile mi sarebbe stato anche solo alzare la testa senza provare fitte lancinanti ovunque. Ma non lo sapevo, e la mia infermità parziale mi provocava tanti problemi quanti sospetti da parte di Dani, che aveva ripreso con le inquisitorie domande di ‘va tutto bene?’, a cui dovevo dolorosamente mentire.

Probabilmente Dani si confidò di nuovo con Cooper, che se ne uscì con l’idea peggiore che potesse farsi venire in mente. Un viaggio, noi due, Dani e Len, in roulotte in giro per l’Europa. Per staccare un po’ la spina. Mi vedeva sempre stressato e non era normale, e si sentiva in dovere di farmi rispuntare il sorriso.

Beh, ovvio che accettai. Primo, non avrei mai detto di no a un viaggio con Coop. Secondo, René non avrebbe mai detto di no a un viaggio con Coop. E io dovevo rimanere René. Continuare a sentirmi René. Anche senza i balzi, le corse, le urla e le missioni impossibili. René, René, René.

E’ assurdo doversi concentrare per non sbagliare una battuta che devi inventare sul momento. Davvero assurdo. Per rimanere te stesso devi fare uno sforzo enorme, e gli altri neanche lo noteranno. Lo fai per egoismo, perché non vuoi affrontare la loro sofferenza.

Io mi sentivo in colpa, per il tumore. Come se, poi, fosse colpa mia. Non avrei retto i loro sguardi, quindi preferivo soffrire da solo. E me ne vergognavo, e avevo tanto bisogno di aiuto. Ma nessuno poteva davvero aiutarmi, solo Dio, e Dio si era dimenticato di me, in quel momento.

Quindi sì. Annunciai a Dani della vacanza improvvisata, e lui ne fu entusiasta. Probabilmente lo sapeva già. Ma non m’importava, io non sapevo che loro sapevano di sapere- oh, vabbeh, quello.

Dennis non poteva essere più felice.

‘Ma state via quanto vi pare, ho 16 anni, so badare a me stesso.’ Sguardo troppo angelico e voce troppo innocente. Qualche festino e chissà quanta gente in casa nostra, in quelle due settimane. E io non l’avrei mai saputo. Scossi la testa, e tornai a pensare come un René felice per un viaggio.

Potevo farcela. Dovevo resistere poco, poco ancora. E il mal di testa non era ancora così incontrollabile.

Misi nella valigia tanta roba inutile che però volevo avere con me. Roba che non mi sentivo di abbandonare così, subito, senza un ultimo saluto. L’album di fotografie, ad esempio. L’arpa. Dani protestò, mi disse che non ci sarebbe stata occasione di suonarla e che magari non ci sarebbe stato spazio nella roulotte, ma non volli sentire ragioni. Lasciarla? E impedirle di starmi vicina fino alla fine? Oh, non me l’avrebbe perdonato mai. E Dani sapeva che quando mi mettevo in testa qualcosa, era quella. Scosse la testa, sorrise, e mi permise di portare tutte le stupidaggini che mi passavano sotto mano.

‘Finii’, chiudendo il borsone, e mi buttai ad angelo sul letto, aspettandomi che Dani mi seguisse. Lo fece, ma con più calma, e mi si appallottolò accanto.

‘Tra quanto arriva Coop?’

‘Tra un paio d’ore. Abbiamo tempo.’

Annuii, carezzandolo distrattamente. Mi guardavo intorno, salutavo ogni oggetto con lo sguardo. Ciao tende con cui ho giocato a nascondino. Ciao malvagia abat-jour terrorista. Ciao tappeto inciampatore. Ciao baule dei ricordi, ciao armadio delle camicie orrende, ciao lettone azzurro. Dani era troppo impegnato a godersi le coccole per realizzare che il mio sguardo era perso molto più lontano, nell’abbandono e nella paura che ne conseguiva.

Dopo un po’ mi alzai, con sommo disappunto di Dani, che mi guardò storto mentre barcollavo verso il salotto. Mi guardavo intorno, e salutavo. Ciao stereo magico. Ciao televisione mezza rotta. Ciao libreria. Ciao angolo della musica. Ciao finestra sulla strada. Ciao poltrona di Dani, ciao mia poltrona. Ciao divano di Dennis e amici. Camminai per tutta la casa, salutando con la mente tutto quanto. Dani mi seguiva, incerto sul da farsi. Forse mi aveva preso per un sonnambulo psicopatico, e tutti sanno che i sonnambuli - soprattutto quelli psicopatici - non vanno disturbati dal loro vagabondare.

Andai a bussare alla porta di Dennis, che aprì con sguardo incuriosito.

‘Già andate-‘, non gli feci finire di dire nulla che lo abbracciai. Forte. Lui, non capendo, cercò lo sguardo di Dani dietro alle mie spalle, per capire cosa stesse succedendo. Dani scrollò le spalle e si picchiettò un dito sulla tempia, e Dennis ridacchiò e mi strinse forte.

‘A che devo questo slancio d’affetto? E’ per l’altra sera? Non devi ringraziarmi, pà, ho cantato volentieri quella robaccia, per voi.’

‘Sì che devo ringraziarti!’, feci, infervorato. Lo lasciai e lo presi per le spalle. Era alto quanto me. ‘Sì che devo. Devo ringraziarti perché sei il figlio migliore del mondo, e sono fiero che tu sia cresciuto così bene. Così felice. Io sono- io sono felice di essere tuo padre, ecco. Grazie, Dennis.’

Dennis scoppiò di nuovo a ridere, copiò la mia posa e mi mise le mani sulle spalle.

‘E grazie a te, allora, papà, perché sei il papà più figo che si può chiedere. Grazie.’, e un sorriso.

Ora, mi darete del sentimentalone, ma scoppiai a piangere sulla spalla di mio figlio e lo strinsi più forte possibile. Cullandolo, anche. Non si oppose, anche se era una cosa che non facevo da anni. Quand’era piccolo gli piaceva essere cullato. Mi strinse a sua volta e rimase in silenzio, lanciando un’occhiata inquieta a Dani, che alzò gli occhi al cielo e tornò in camera.

‘Sei il mio bambino e ti amerò sempre più di qualunque cosa.’, mormorai. Non rispose. Rimanemmo fermi in quella posizione infantile per qualche minuto. Mi stupii che non si fosse scostato o qualcosa del genere, il Dennis che conoscevo l’avrebbe fatto. Quando ci dividemmo, stava sorridendo.

‘E tu sei sempre così melodrammatico. Tra due settimane torni, non morirà nessuno.’

Il mio cuore si fratturò leggermente. Una crepa. Un ‘crack’ solitario, in mezzo al mio petto. Singhiozzai, sorridendo, nascondendo la malinconia nelle lacrime commosse di prima, e feci un passo all’indietro.

‘No, infatti. Però.. volevo che lo sapessi.’

‘E ora lo so. Grazie, papà.’

‘Grazie a te. Di tutto.’

 

In quell’ora e mezza che mancava al rendez-vous con Cooper, feci un giro di telefonate di saluti. Chiamai a casa, rispose papà. Ancora una crepa nel mio cuore, mentre rideva e mi augurava un buon divertimento, e poi chiamava mamma per passarmela. L’ultima volta che sentivo la voce di mio padre.

Mamma si industriò a fare la mamma. Mi disse di portare cose calde, perché saremo andati sulle montagne, e soprattutto lo spazzolino da denti. E io risi. Perché non potevo piangere, non dovevo piangere, e dovevo sembrare sempre il solito René. Probabilmente ci riuscii, perché quando attaccammo era giuliva come sempre.

Una madre non dovrebbe sopravvivere a suo figlio. Chi sarebbe stato lì a tenere in piedi lei, se gli altri dovevano tenersi in piedi da soli? Morendo, avrei causato un mucchio di danni. Il senso di colpa continuava a serpeggiare nella mia mente.

Chiamai Moni, la lasciai parlare per venti minuti buoni, poi le chiesi di cantare con me la ninnananna che le suonavo di solito, anche se al telefono, e lei cantò. La seguivo a bassa voce, perché era la sua, di voce, che volevo ricordare. Cantava tanto dolcemente. Altre lacrime gratuite sulle mie guance.

‘Devo- Devo chiamare altre persone, ora.’

‘Oh! Giusto! Scusa se ti ho tenuto tanto al telefono. Mi mancherai tanto, fratellone.’

‘Anche tu, Nick.’

‘Allora a tra due settimane!’

‘Sì. A tra due settimane. Adieu..’

Quando salutavo con ‘Adieu’, tutti mi davano del melodrammatico. Perché non capivano, o cosa?, .. fatto sta che anche stavolta mi sentii rispondere con una risata. Poi il tuu tuu della linea occupata.

Guardai angosciato gli ultimi due numeri che dovevo assolutamente chiamare. Andrew e Federico. La scelta non era tanto difficile, perché tanto al primo sarebbe succeduto il secondo, ma l’idea di mentire ancora, e di salutarli definitivamente, mi distruggeva.

Non c’era ritorno. C’era soltanto quell’ultima chiamata.

Respirai forte e composi il numero di Andy. Suonava libero. Lasciai squillare cinque volte, finché non subentrò la segreteria telefonica. L’avevo già salutato, lui, teoricamente. La segreteria era un modo molto utile per non farlo insospettire ulteriormente.

‘Ehi, Andy!, .. senti, io parto con Cooper. Torno tra due settimane, e stavo salutando e- vabbeh. Volevo dirti che ti voglio bene. E che sei un grande, grande, grandissimo amico, e che tutto quello che hai fatto per me mi è sempre rimasto nel cuore e non avrei potuto desiderare niente di meglio da parte tua perché mi hai dato tutto, anche la tua fiducia, e- e non lo so. Ti voglio bene. Davvero, te ne voglio tanto tanto tanto. E non darmi del melodrammatico! Volevo solo che lo sapessi. .. ok, scusa se ti ho intasato la segreteria. .. A-Adieu.’

Mi tremò la voce per tutto il tempo, ed ero convinto di aver sbagliato tutto. Forse si sarebbe preoccupato anche di più. Forse avrebbe mobilitato tutti e mi avrebbe fatto tornare a casa e confessare a tutti quanti il mio ‘segreto’. Sperai davvero, con tutto il mio cuore, che non accadesse. Poi chiamai Federico.

Avevo tre quarti d’ora abbondanti da dedicargli, e avevo tutte le intenzioni di farli durare il più possibile. Federico sapeva stare al telefono le ore, perché in gelateria alla fine si annoiava, quando non poteva mangiare con qualcuno o servire bambini curiosi di assaggiare i suoi gusti strani. Quindi, quando sentì la mia voce, si trasformò, la voce rinvigorita, la lisca che lo faceva inceppare sulle s e sulle r perché parlava troppo veloce. Fu una chiamata allegra, ma non ricordo di cosa parlammo, ad essere sincero. E’ tutto parecchio confuso, quando non sai più cosa sta succedendo e l’unica cosa a cui pensi è che quella è l’ultima chiamata che puoi fare al tuo migliore amico. Gli dissi che gli volevo tantissimo bene, e lui rispose che anche lui me ne voleva, anche se ero uno svitato, un cretino, perché ero il suo René. E che aveva scoperto dei ballerini coreani che facevano dei balletti meravigliosi, e che appena fossimo tornati avremmo dovuto passare qualche pomeriggio ad impararli a memoria e a costringere Andy ad impararli con noi. Annuii, e sorrisi, e tentai di essere ottimista ed esaltato all’idea.

Alla fine mi intimò di portargli un sacco di souvenir e cartoline, come aveva già detto a Cooper, ma due di tutto è meglio. E io gli dissi che sì, gli avrei portato tutto quanto. Attaccai, non prima di averlo salutato con l’adieu di circostanza. Lui non mi diede del melodrammatico, anzi, si mise a cantare ‘ce n’est qu’un au revoir’, gorgogliando e uccidendo il francese. E riuscii a ridere seriamente, per una volta in quella giornata. Dani mi comunicò che avevamo ancora una decina di minuti, perciò presi l’arpa e, pizzicandola lentamente e a caso, suonai l’Ave Maria di Schubert, mentre lui canticchiava appoggiato a me.

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